Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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CHI COMANDA IL MONDO?

 

FEMMINE E LGBTI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

  

 

 

INDICE

 

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

LO STATO ETICO ED IL POLITICAMENTE CORRETTO.

GIOVANI: SESSO LIBERO?

I MORALISTI DEL TANGA. IL TANGA DEL POLVERONE E DELLA DISCORDIA.

IL FEMMINISMO TRA POLITICA, CULTURA E SCIENZA.

LE DONNE (DI IERI E DI OGGI) PIÙ IMPORTANTI E BELLE DELLA POLITICA ITALIANA.

L'ORIGINE DEL MONDO: E' FEMMINA.

QUANTE MATA HARI?

LA CASTA DELLE PAPI GIRLS E DINTORNI.

TOGLIMI LE MANI DI DOSSO...ANZI NO! DA TRUMP A WEINSTEIN A HEFNER. SI E' TUTTE CONIGLIETTE?

ACCUSE AMBIGUE E TARDIVE. ACCUSE PRETESTUOSE?

UN SALVACONDOTTO PER BERTOLUCCI.

MOLESTIE E MOLESTIE…

MOLESTIA O CALUNNIA? MOLESTIA O ESIBIZIONISMO?

MOLESTIE O PROSTITUZIONE?

MOLESTIE ED IPOCRISIA.

IL LINCIAGGIO DI WOODY E IL GIORNALISMO CORPORATIVO.

IL PRIVILEGIO DI ESSERE CARNEFICE…

DISSENSO COMUNE ED IL SISTEMA MOLESTATORE.

QUELLE MISS NESSUNO SENZA TUTELA.

IL BUSINESS DELL’INDIGNAZIONE.

LA SEMANTICA E LA DISTORSIONE DEL SENSO DELLE PAROLE.

LA GOGNA DEI TRIBUNALI IN TV E L’ONTA DELLE SENTENZE MEDIATICHE.

LA DAMNATIO MEMORIAE.

MISANTROPIA. MISANDRIA. MISOGINIA.

LOTTA ALL'UOMO ED IL TRAMONTO DEL MASCHIO.

IL GATTOMORTO.

PERCHE’ GLI UOMINI PREFERISCONO LE DONNE DELL’EST.

LA FESTA DEGLI UOMINI E LA FESTA AL PAPA'.

DONNE: COMPETENZA NON DESINENZA…

IL FEMMINILE NON E’ QUESTIONE DI GRAMMATICA MA DI POTERE.

8 MARZO: IL POTERE DELLE DONNE.

QUELLI CHE…LA PATATA BOLLENTE.

L'UTOPICA UGUAGLIANZA TRA I DIVERSI E LA FENOMENOLOGIA MEDIATICA TRA ABORTO, OMOSESSUALITA', FEMMINICIDIO ED INFANTICIDIO.

PARITA’ DI SESSI E FEMMINICIDIO. SLOGAN O SPECULAZIONE?

STUPRI, STOLKING E FEMMINICIDI. LA VIOLENZA SULLE DONNE.

LA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. ENNESIMA LITURGIA IPOCRITA.

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

IL SILENZIO SULLA VIOLENZA SUGLI UOMINI.

DEL MASCHICIDIO MEGLIO NON PARLARNE.

C'E' CHI LA TROPPO PICCOLO? O C'E' CHI L'HA TROPPO LARGA? 

FEMMINISTE, PURITANI, TALEBANI ED...OMBRELLINE.

LE NEOFEMMINISTE.

QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.

IL FEMMINISMO E LA PROSTITUZIONE.

LE FEMMINISTE PREFERISCONO L'ISLAM.

COOPERANTI E VOLONTARIE. SE LA SONO CERCATA: “LE STRONZETTE” E LE SMANIE DI ALTRUISMO.

FEMMINE IN CARRIERA. NON MADRI.

L'UTERO E' MIO E LO GESTISCO IO!

L’EROTISMO NON E’ FEMMINISTA.

PROVE DI DIALOGO: UOMINI E DONNE POSSONO ESSERE AMICI?

GLI UOMINI, LE DONNE ED I TRADIMENTI.

I FEMMINISTI.

FIGLI EFFEMINATI E FIGLIE BULLE.

PADRI SEPARATI. LA GUERRA DEI FIGLI.

PAS ED AFFIDO: IL MONOPOLIO DELLE MADRI FEMMINISTE.

PARLIAMO DI CONFLITTI GENITORIALI.

LE PAZZIE DISPERATE DEI PADRI CHE STERMINANO LA FAMIGLIA E LA COSCIENZA SPORCA DELLE ISTITUZIONI.

PEDOFILIA FEMMINILE.

ACCUSA DI PEDOFILIA COME TRAPPOLA INFERNALE.

QUELLI CHE …ABUSANO GLI UOMINI.

GENITORIALITA' MALATA.

FILIAZIONE MALATA.

PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.

CHIAMALI LGBTI.

RIFUGIATI LGBTI.

IL POTERE GAY E LESBICO.

MEDIA. PROPAGANDA E PROSELITISMO GAY.

QUELLI…PRO GAY.

LA DIVULGAZIONE PRO-GENDER.

LA MATERNITA’ SURROGATA.

LE UNIONI IN-CIVILI.

L’ADOZIONE GAY E LESBICA.

REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.

 

 

INTRODUZIONE.

Da Monica a Ruby: il sesso ne fa fuori più della politica. Bill Clinton, che ebbe una relazione con la stagista Monica Lewinsky, evitò l’impeachment di un soffio, ma il fattaccio lo costrinse a passare gli ultimi due anni del suo secondo mandato a occuparsi di gossip, scrive Paolo Delgado il 23 Agosto 2018 su "Il Dubbio".  Per i politici, e mica solo quelli italiani, il pericolo maggiore non arriva dai competitore e neppure dalla pur temibile corruzione. La rovina, spesso, è nascosta sotto il letto. Sta per saperne qualcosa Donald Trump. L’avvocato del presidente, Michael Cohen, si è confessato colpevole per otto capi d’accusa, tra cui l’aver versato dollari a una pornostar e a una coniglietta perché tacessero sulle loro avventure, appunto di letto, con l’allora soltanto plurimiliardario. Erano adulte e consenzienti, sia chiaro, ma l’America è quello che è e le corna possono costare la carriera. Su The Don si allunga così l’ombra lunga di Bill Clinton, che usò Casa Bianca per funzioni improprie e, apriti cielo, addirittura nello studio ovale insieme alla stagista Monica Lewinsky. Una storiella boccaccesca che costò al presidente parecchio. L’impeachment fu evitato di misura, ma il fattaccio lo costrinse a passare gli ultimi due anni del suo secondo mandato alle prese con le cronache dei suoi intimi rapporti con la ragazzona, seguiti con curiosità degna di assai miglior causa dall’opinione pubblica. In questi casi si suol dire che il problema non era la relazione per interposto sigaro ma la menzogna, avendo il primo cittadino inizialmente negato ogni addebito. E’ vero solo fino a un certo punto. La pruriginosità decuplica la valenza scandalosa del mendacio, eleva all’ennesima potenza l’interesse del pubblico guardone. Trasforma il fattarello in tsunami. Paragonato al campione italiano, Berlusconi Silvio, il bel Bill sem- bra uno studentello di scuola media. Il fattaccio italiano, a base di escort, registrazioni piratate nel talamo, eserciti di investigatori con l’occhio appizzato sul buco della serratura, procaci minorenni travestite da nipoti di Mubarak, è troppo noto e recente per doverlo ricapitola. Basti segnalare che se nel 2011 l’allora capo del governo italiano fu spazzato via a colpi di spread a indebolirne la posizione rendendogli la difesa impossibile erano state proprio le “cene eleganti” e i “lettoni di Putin”. Prima di Silvio il porcaccione il quadro della politica italiana sembrerebbe a prima vista somigliare a un convento. C’era stato il fattaccio Marrazzo, il governatore del Lazio la cui passione per i trans era degenerata in una storia nera alla James Ellroy sulla quale non è mai stata fatta piena luce e che comunque gli era costata la presidenza di Regione. A paragone, ad esempio, del Regno Unito, che quanto a scandali sessuo-politici è insuperabile, i politici italiani appaiono lo stesso come mirabili modelli di castità assoluta. Non che sia vero. E’ solo che da noi funziona alla grande il “si fa ma non si dice” e il peso politico delle relazioni adulterine si è sempre fatto pesare con la dovuta discrezione. Quando il temuto Mario Scelba, che dalla relazione extraconiugale con una signora romana aveva anche avuto una figlia segreta, si opponeva al centrosinistra vagheggiando addirittura una scissione della Dc, i servizi segreti dell’epoca fecero uscire su un periodico, senza didascalia, la foto del tostissimo Mario al bar con la signora. Scelba mangiò la foglia e si ritirò in buon ordine.

Lo scandalo Montesi negli anni ‘50 servì ad azzoppare una volta per tutte Attilio Piccioni, grazie al sospetto coinvolgimento del figlio, nella corsa all’eredità di De Gasperi. La relazione con la bella Sylva Koscina fu usata contro Tambroni. Le presunte e false licenziosità della signora Leone chiusero al consorte le porte del Quirinale nel 1964. La nota omosessualità sbarrò la via del Colle anche a Emilio Colombo, noto nella Dc, con Mariano Rumor e Fiorentino Sullo, come “le sorelle Bandiera”. Prima della voracità del Cavaliere, però, gli intrecci tra sesso e politica erano stati tenuti sempre nella penombra. Cose che sapevano tutti ma che non arrivavano mai alle prime pagine. Tutt’altra storia nel Regno Unito. Il primo scandalo di portata storica nel dopoguerra, fatta eccezione per il più complesso caso Montesi, scoppiò proprio lì, nel 1961. La relazione del ministro conservatore John Profumo con l’avvenente Christine Keeler non apparve solo come un caso d’adulterio. L’escort, come si direbbe oggi e non di diceva allora, era amante anche di un agente del Kgb e in tempi di guerra fredda il particolare aveva il suo peso. Profumo negò, poi ammise, alla fine lasciò la politica e travolse nel crollo anche il primo ministro McMillan. Andò malissimo, una trentina d’anni dopo, anche al ministro David Mellor, mentre l’amante, l’attricetta Antonia De Sancha, con la storiella piccante ci si fece ricca. In un’intervista dopo l’altra l’avvenente spagnola mise in piazza i gusti particolari del ministro. Il popolo venne così a sapere che per migliorare le prestazioni il promettente ministro usava indossare a letto la maglia del Chelsea e non passò inosservata la sua passione feticista per gli alluci. Mellor diventò da un giorno all’altro per il colto e per l’inclita “il succhiapollici” e la sua carriera affondò per sempre in quella melma. Qualcuno per la verità è riuscito a risalire la china: il futuro sindaco di Londra Boris Johnson. Nel 2004 la scoperta della sua tresca con una giornalista di Spector gli costò addirittura la cacciata con ignominia dal partito ma quattro anni dopo era di nuovo in pista. Non si è ripreso invece Dominique Strauss- Kahn, ex presidente dell’Fmi accusato e messo in manette nel 2011 a New York perché accusato di stupro da una cameriera dell’albergo in cui alloggiava. L’accusa si dimostrò infondata così come quella, alcuni anni dopo di aver partecipato a orge con un giro di prostituzione. Ma per Strauss- Kahn l’Eliseo era già svanito, anche perché i comportamenti estremi dell’uomo, riconosciuto responsabile di molestie già ai tempi della presidenza Fmi erano noti. La lista dei politici inciampati nel letto sarebbe lunghissima. Tanto da far ulteriormente risaltare l’eccezione: il presidente più amato d’America, JFK, la cui voracità non era seconda a quella di Strauss- Kahn o di Silvio Berlusconi e che comunque è riuscito a mantenere nel tempo l’immagine intatta in un Paese pronto a linciare o quasi un presidente come Clinton per un gioco erotico adolescenziale.

William Pezzullo e Lucia Annibali: vittime di uno stesso reato, ma per il Quirinale conta il genere, scrive Fabio Nestola su Adiantum il 01/04/2014. Nelle aule universitarie non ci hanno insegnato che la Giustizia può essere surreale. Poi abbiamo imparato che spesso lo è. L’aggressione subita da William Pezzullo, sfregiato con l’acido dalla ex fidanzata che non accettava la fine del rapporto, ne è testimone. Oggi possiamo dare un aggiornamento di questa storia tutta italiana. Già a novembre 2012 avevamo rilevato l’assordante silenzio sull’episodio: nessuna copertura nazionale da parte di stampa e tv, nessun approfondimento, oscuramento totale non solo nei TG ma anche in quei programmi pomeridiani e serali che fanno audience rimestando nel torbido dei casi di cronaca. William non interessa a nessuno, il suo dolore e il dolore della sua famiglia non trovano spazio sui media. Non solo, non trovano spazio nemmeno nella considerazione istituzionale. Il Presidente Napolitano, infatti, ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica a Lucia Annibali, anche lei sfregiata dopo aver lasciato il fidanzato. Il caso Annibali ha avuto enorme risalto mediatico, tanto all’epoca dei fatti quanto il 25 novembre e l’8 marzo in occasione dei ricevimenti al Quirinale. Attenzione istituzionale e mediatica sicuramente dovute ad ogni vittima di violenza; saltava comunque agli occhi la vistosa disparità di considerazione rispetto ad altre vittime aggredite con l’acido, in particolare il solito William dimenticato, trascurato, snobbato da tutti. ADIANTUM aderiva - insieme ad altre decine di associazioni - all’iniziativa dell’avv. Paola Tomarelli, che scriveva al Presidente la lettera che trovate allegata a margine dell'articolo. Comica, per alcuni versi, e scandalosa, per altri, la risposta della Dr.ssa Zincone, responsabile per il Quirinale dei problemi per la coesione sociale. 

"Dalla Parte di Giasone. Associazione-Onlus A Sua Eccellenza Il Presidente della Repubblica Dott. Giorgio Napolitano Palazzo del Quirinale Piazza del Quirinale 00187 Roma. Signor Presidente, abbiamo appreso dai media come Ella abbia conferito l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Lucia Annibali, l’avvocatessa di Pesaro sfregiata con l’acido da due sicari assoldati dal suo ex fidanzato. È lecito chiedersi per quale motivo Presidente - ma non solo Lei, anche stampa e televisioni - non dedichi uguale attenzione ad un episodio analogo nel quale la vittima è di genere maschile. Sfigurato con l'acido: marchiato a vita dalla vendetta della ex Travagliato (BS) – il 26enne William Pezzullo ha perso entrambe le orecchie, l’occhio sinistro ed il 90% del visus al destro. La madre, Fiorella Grossi: " è meglio che non possa vedere come quella disgraziata l’ha sfigurato, altrimenti si ammazzerebbe". Gli esiti del gesto criminale sono, per William, enormemente più gravi rispetto a quelle subite da Lucia. Entrambi sono vittime di aggressione con l’acido, per entrambi si tratta di una malsana vendetta dell’ex, entrambi hanno subito un gravissimo choc ed hanno riportato danni estetici evidenti; tuttavia la differenza sostanziale per gli esiti dell’aggressione è nella perdita delle funzioni primarie, prova ne sia che la neocavaliera è autonoma, non ha bisogno di accompagnamento può continuare a svolgere normali attività quali guidare l’auto ed esercitare la professione di avvocato; il ragazzo invece ha perso la vista e l’udito, ha perso autonomia e dignità, ha avviato le pratiche per l’invalidità permanente al 100% e vivrà con un sussidio di circa 400 euro al mese. Giova ricordare che il fattore numerico non rileva ai fini della gravità di ogni singolo episodio criminoso; sarebbe aberrante dimenticare le vittime maschili perché “le vittime femminili sono di più”, esattamente come sarebbe aberrante dimenticare le vittime omosessuali perché “le vittime etero sono di più”, dimenticare i diritti dei diversamente abili perché “i normodotati sono di più”, calpestare la dignità degli immigrati perché “gli italiani sono di più”. Le chiediamo ufficialmente, Signor Presidente: - se ritiene che ogni tipo di violenza, a prescindere da genere, etnia, religione, stato sociale ed orientamento sessuale di autori e vittime, debba suscitare una dura presa di posizione da parte dell’intera cittadinanza; - se è a conoscenza della violenza subita anche da soggetti di genere maschile; - se ritiene che alla doverosa attenzione per le vittime femminili debba corrispondere una altrettanto doverosa attenzione per le vittime maschili; - se ritiene che l’onorificenza conferita a Lucia Annibali - pur se in rappresentanza di tutte le donne vittime di violenza - se confrontata con l’indifferenza nei confronti di William Pezzullo, non sia un insulto alla dignità del ragazzo e dei suoi familiari, anche quale simbolo di tutti gli uomini vittime di violenza. In attesa di un cortese riscontro cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri distinti saluti. Roma, novembre 2013. Il Presidente Avv. Paola Tomarelli"

"Gentili avv. Tomarelli e Prof. Mastriani, Consentitemi di scrivere insieme ad entrambi, visto che le vostre missive sono molto simili. Come potete immaginare in Presidente non ha conferito onorificenze a tutte le persone vittime di partner violenti, ma a una persona che ha reagito con particolare dignità e coraggio alle conseguenze dell’aggressione dei sicari del suo ex compagno. Ovviamente in questo modo più che la singola persona ha voluto onorare un comportamento, quindi tutte le vittime che hanno tenuto un contegno civile e coraggioso. Sempre in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lo scorso 25 novembre, il Presidente ha assegnato una targa alla campagna di sensibilizzazione NoiNo.org i cui testimonial sono uomini. Quindi non dimentica il “sesso Forte”. Il fatto è che, seppure anche i maschi siano vittima di violenza e stalking, oggetto di comportamenti persecutori e di aggressioni sono assai più spesso donne e gli aggressori assai più spesso uomini. Vogliate ricevere dal Capo dello Stato i migliori saluti, ai quali associo i miei personali Firmato Prof.ssa Giovanna Zincone.  Protocollo SGPR 18/12/2013 0132343 P".

L'avv. Tomarelli ha puntualmente replicato - non senza ironizzare sulla risposta "cumulativa" della Zincone a due perfetti sconosciuti - ma è ancora in attesa di risposta. Non è dato di sapere se la prof. Zincone si sia dimenticata di rispondere, o più semplicemente eviti di controbattere poiché non è in grado di farlo con argomenti validi, o stia aspettando altre lettere sull'argomento per risparmiare sulla carta intestata del Quirinale.

In attesa della risposta che probabilmente non arriverà mai, è arrivata la sentenza di primo grado per l’aggressione all’avvocato Annibali: 20 a Luca Varani in qualità di mandante, 14 anni agli esecutori. Riconosciuti inoltre a Lucia Annibali 800.000 € di provvisionale.

E William? La stampa non è imparziale, la tv non è imparziale, il Quirinale non è imparziale, possiamo sperare che almeno la giustizia lo sia? Nemmeno per sogno, poveri illusi! L’agguato a William Pezzullo ha avuto esiti clamorosamente diversi rispetto al caso Annibali: 10 anni a Elena Perotti e Dario Bartelli. La metà esatta. Eppure la Perotti ha diverse aggravanti rispetto a Varani: lui ha commissionato l’aggressione ma non vi ha preso parte, lei oltre ad averla organizzata l’ha anche materialmente eseguita. Varani ha - involontariamente, dice lui - causato danni estetici e psicologici gravissimi, ma almeno non ha menomato le funzioni vitali di Lucia, fortunatamente non l’ha resa invalida. La tesi difensiva sostiene che Varani abbia commissionato solamente un’azione intimidatoria, degenerata in lesioni permanenti senza una reale volontà del mandante. Ovviamente non gli ha creduto nessuno. Il Tribunale ha riconosciuto che, pur se indirettamente, Varani ha causato alla vittima danni permanenti che avrebbero anche potuto avere esiti peggiori. La pena quindi deriva dal reato contestato: nulla esclude che Lucia avrebbe anche potuto restare uccisa, pertanto il capo d’imputazione è tentato omicidio. Elena Perotti ha causato nella propria vittima danni fisici e psicologici estremamente più gravi di quelli subiti dalla vittima di Luca Varani, eppure non era imputata di tentato omicidio. Abbiamo già visto come non si sia limitata a commissionare l’aggressione: il processo ha accertato che è stata lei, mentre il complice immobilizzava la vittima, a versare l’acido sul viso e sul corpo di William. La pena dimezzata deriva dal capo di imputazione più blando rispetto al tentato omicidio. Il Tribunale - evidentemente - è certo che William non avrebbe potuto subire nulla di diverso da ciò che ha subito, è certo che non avrebbe potuto restare ucciso, è certo che Elena non aveva la volontà di uccidere. Ecco perché la Perotti è riuscita a sgusciare via dall’imputazione di tentato omicidio ed è stata condannata per lesioni. Nulla di imprevedibile, quale sarebbe stato lo sviluppo del processo si è intuito da subito. Già da tempo la madre di William aveva anticipato l’intenzione del PM di edulcorare il capo d’imputazione; alla richiesta del legale di parte di configurare il tentato omicidio aveva risposto testualmente: “...ma cosa dice, non vorremmo mica costruire un mostro?”. Guanto di velluto anche per le modalità di espiazione della pena: la madre di William ci riferisce che Elena Perotti non è in carcere, sta effettuando un percorso di recupero presso una comunità gestita da suore, insieme ad altri ospiti da recuperare psicologicamente per motivi diversi, tossicodipendenza ed altro.

Oggi William come sta? Che danni ha riportato, quali sono le conseguenza dell’agguato? La fonte è ancora Fiorella Grossi, la madre di William; è l’unico modo per avere notizie vista la perdurante indifferenza mediatica. Nel corso dell’ultima telefonata, lunedì 31 marzo, la signora Fiorella dichiarava: “William non migliora affatto, anzi sta peggiorando, siamo disperati. Un occhio era perso del tutto ma almeno con l’altro riusciva a distinguere delle ombre, dei movimenti. Ora non vede più nulla, l’hanno operato più volte ma fino ad oggi non sono riusciti a recuperarlo. Anche la plastica ricostruttiva non riesce ad ottenere risultati; lo abbiamo portato in parecchi altri ospedali, anche a Torino dove hanno provato a ricostruire muscoli e tessuti del collo, ma sta peggio di prima. William ha penato tre mesi prima di uscire dal reparto di terapia intensiva, non erano sicuri di salvargli la vita. Ora sono 16 mesi che è chiuso in casa, usciamo solo per portarlo in qualche ospedale o da qualche specialista. Il morale è a pezzi, non è autosufficiente, non lo sarà mai più, è questo l’aspetto più drammatico”. Le chiediamo se sia stato riconosciuto qualche risarcimento per i danni subiti. “...I soldi? Quali soldi? È giusto che a Lucia abbiano dato 800.000, ma al mio William fino ad oggi nemmeno un centesimo. Parlavano di una casa dal valore di 53.000 euro, ma alla fine non gli danno nemmeno quelli perché mi pare di aver capito che c’è un pignoramento e il primo creditore è la banca. Comunque di queste cose capisco poco e mi interessano ancora meno, al primo posto ci sono la dignità e la salute e l’autonomia che hanno rubato a William”.

Insomma, sotto tutti gli aspetti due pesi e due misure, ormai uno standard nei nostri tribunali. Quante volte lo abbiamo scritto sulle pagine di Adiantum? Quante volte ancora lo scriveremo, prima di poter pensare di nuovo ad una Giustizia con la G maiuscola? E' inaccettabile che due delitti sulla persona, simili sia nel movente che nell'esecuzione (ma quello in cui è stato vittima William ha avuto conseguenze fisiche ancora più gravi), vengano "interpretati" a seconda del sesso dell'autore e alle vittime venga riconosciuta, simmetricamente, differente dignità a seconda del loro genere.  E' altrettanto inaccettabile che, sempre a seconda del proprio sesso, chi commette un tentato omicidio sa di poter farla franca all'ombra di un chiostro benedetto da Dio. ADIANTUM chiede - lo farà certamente nei prossimi giorni - l'invio di ispettori dal Ministero di Giustizia e un esame del caso dal Dipartimento Pari Opportunità. Al presidente Napolitano si chiederà di riconoscere al nostro William il suo alto patrocinio, così come ha fatto con la Annibali. Che piaccia o no alla Zincone.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.

La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.

La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.

Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.

Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".

Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).

Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.

Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però, è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.

Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico, allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto”, che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale, ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa, in un determinato frangente storico, sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa, induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.

Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.

Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

LO STATO ETICO ED IL POLITICAMENTE CORRETTO.

Se “frocio” lo dice la sinistra è civiltà. A tutti gli altri è vietato chiamare finocchi persino gli ortaggi, scrive Emanuele Ricucci il 17 ottobre 2018 su "Il Giornale". Non tutti i froci sono uguali. C’è il frocio della Cirinnà, quello della maglietta “Meglio frocio, che fascista”, ovvero quello di sinistra, e poi quello di tutti gli altri, “purtroppo” non al livello di Nostra Signora della libertà sessuale. Perché il frocio della Cirinnà, fatto passare per una provocazione bonaria e di lotta sulla sua pagina Facebook, fa subito convivialità, simpatia e diritti? Ancora una volta, i nostri amici compagni, vanno alla mensa Caritas con la borsa di Prada a dire ai poveri di tenere duro. Quel frocio significa molto. In nome di una battaglia si può dire di tutto, perché il fine della sinistra è sempre cervellotico, guarda caso sempre indotto dalla “bassezza” umana e culturale altrui, capace di moltiplicarsi così tanto, che si trasforma in supereroina e va a salvare gli italiani. Si può dare del fascista a qualsiasi cosa non ci aggradi, si può invertire il senso storico, si può fare di tutto. Ma tu, tu che non sei un barone della civiltà, se dici immigrato, anziché migrante, sei un malato di mente. Seppure ti esprimi correttamente in lingua italiana. Ecco perché la battaglia culturale, oggi, contro l’egemonia dei sensi e della realtà, contro il parapetto di ferro del politicamente corretto è urgente, e non periferica, come la battaglia politica. Non esiste sovranità politica, senza sovranità culturale. Non si può essere sovrani di alcun ché se prima non si ha coltivato se stessi e il proprio pensiero critico per riconoscersi liberi dall’ideologizzazione imposta di qualsiasi cosa si muova. Bei tempi in cui la sessualità era una dimensione privata e non uno strumento di guerra ideologica. E in quanto voce significativa della propria intimità, tutelata profondamente. Quando la pudicizia era “un’invincibile attrattiva”, evocando Anatole France, e favoriva l’eros, non lo uccideva, generando fascino e ignoto, continuazione e curiosità. Ma rispetto. Eros che è più ampia dimensione dell’amore e del sesso. Contribuzione dell’immagine individuale e sociale di sé. Bei tempi quando la sessualità non veniva scagliata contro il pubblico ludibrio, o il nemico numero uno, per intavolare una conversazione come premessa fondamentale, per vincere le elezioni, manifestare superiorità o rilasciare patenti di civiltà. E il dramma contemporaneo è duplice e si arrotola convulso nella vita di tutti i giorni. Un’edera infetta che appesta la lingua e l’anima. L’anima dei tortacci loro, e ne hanno tanti a sinistra, specie quello di dimenticare. Come hanno sciacquato Gramsci dalla loro coscienza di lotta, in piena decadenza alla ricerca di un modello da imitare, di un leader che li salvi, di un martire da immolare a esempio attrattivo da immolare sull’ara dei consensi (come colei che denunciò, leggiadra, il barista perché esponeva una foto di Mussolini), e ora non sapendo più che pesci pigliare te li ritrovi verdi (di rabbia), dopo essere stati rossi e tanto bianchi, specie negli ultimi tempi. Costoro forse dimenticano che l’omosessualità non è un giochino militante, una misura a chi ce l’ha più grosso, a chi deve avere più diritti, ma una vita che spesso ha popolato i loro quartieri perché aperti alla tolleranza e svincolati da ogni confine, specie geografico, da Pasolini a Sandro Penna, di cui proprio Pier Paolo Pasolini sostenne la virtù poetica, pensandolo come il più grande poeta lirico del Novecento. Quell’omosessualità che è legata comunque all’altra dimensione, quella dell’amore, è diventata carne elettorale e demagogica per troppi, incredibilmente ridotta a un presa per il culo, sminuita, brutalizzata a un’idea di partito: seguimi, votami se vuoi rivedere i tuoi diritti. Sempre a sinistra. Gli omossessuali oggi dovrebbero essere diversi, scegliendo di non avere un padre putativo nei seggi elettorali. E poi il dramma contemporaneo continua fino a scadere nell’altro grande disastro, quello della lingua. Molto semplicemente. Loro “frocio” lo possono dire, lo possono associare. Ci possono ridere sopra, addirittura. Tu, che non sei santo, barone della civiltà e privilegiato come loro, non puoi neanche chiamare “finocchi” gli ortaggi al mercato, pena la ripetizione delle Elementari e l’esilio. Ma soprattutto la negazione culturale: non ti è concesso coltivare te stesso, bruto fascista, e sviluppare un tuo proprio pensiero critico entro cui riconoscerti e riconoscere il mondo. La caccia alle streghe non vale per tutti. Ma non era stato creato un istituto, da Laura Boldrini, che controllasse la lingua e la conformasse agli standard etici “di genere”? Ma non era da incivili, razzisti e fascisti chiamare un omosessuale, “frocio”? Ora è da fascisti; poco fa era da primitivi, da indegni. Ci usano la lingua contro a scopo intimidatorio. Quando hai dubbi nell’esprimerti, rinunci a farlo. E stai zitto, sei più malleabile. Hai perso la tua breve porzione di luce e di presente, quell’attimo per infilarti, per esprimerti in questa bolgia di social network, quotidiani, talk show e opinioni. Opinioni. Opinioni, che illudono la moltitudine di partecipare al presente, ma nella virtualità delle cose, secondo cui è solo una questione di tempo: il tuo lamento libero sarà prima archiviato e poi cancellato da un computer. Si vale il tempo di un algoritmo. E dunque, stiamo perdendo miseramente la battaglia semantica, quella secondo cui il significato non è conoscenza e aderenza alla realtà, ma parcella di una visione ideologica. La via semantica all’esistenza attuale, dove il suono delle parole sono le parole stesse. Dove le parole non sono più importanti, alla Nanni Moretti, ma intercambiabili, costantemente interpretabili. La battaglia semantica, la quale, per sua natura, non è un esercizio di stile dei migliori a scuola, ma lo svilimento infame dei significati e, quindi, dei concetti, che porta ad una pericolosissima relatività da applicare a qualsiasi cosa si muova. Ridicola. Quanto ci si può sentire fuori luogo nel dire «avvocatA» o «presidentA»? O quanto dovrebbe sentircisi esibendo una maglietta con scritto “Meglio frocio che fascista”, ridendoci su, come ha fatto Monica Cirinnà? Ci spieghi culturalmente le sue battaglie per il mondo omosessuale, piuttosto. Ci racconti della carne, del sesso, della pulsione; ci parli dell’eros e della perversione, del suono della voce sussurrata nella nudità, dell’eccitazione, dell’adolescenza. Non solo di politica. Le giustifichi al mondo e non solo col sentore del SUO presente. Cerchi un’implicazione storica. E si ricordi di non avere, lei e l’altro, Zingaretti, quattordici anni. Perché frocio non è più amichevole se viene da destra o da sinistra, e che si fottano le classificazioni con cui si potrebbe, oggi, nomenclare l’archeologia degli uomini furbi. O è frocio per tutti, o per nessuno. O frocio, in ogni sua accezione, è il passato dei primitivi, o il presente degli ipocriti. Nel ricordo della strumentalizzazione suprema, evocata facilmente da Pasolini, che dovrebbe rendere chiaro questo ragionamento. «Oggi la libertà sessuale è un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Risultato: la libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità indotta e imposta…». Cerchiamo di salvare la battaglia dell’anima, almeno, ricordando i versi di Penna, icona gay: «Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune». In questa icona poetica che arriva a raccontare l’amore con la sofferenza di un travaglio, tra pulsioni sessuali e doveri morali, una gestazione continua, in cui si apre il mito e la natura, vie di fuga dagli uomini storpi dentro. Chi è comune qui? E chi è diverso? La sinistra è davvero così diversa da tutelarci tutti? Da poter fare ciò che ritiene? La sinistra è davvero così diversa dalla “brutalità salviniana”, dalla “mostruosità dei fascisti” per insegnare a tutti come coltivare se stessi e sviluppare il proprio pensiero critico? Guai a chi è diverso essendo egli comune. Così comune da dire una cosa e farne un’altra, come indossare quella stupida maglietta. Ma soprattutto, chi è senza peccato scagli la prima pietra. E, hic et nunc, in questo tempo italiano, chi è davvero senza peccato? Chi può scagliare la pietra addosso a un muro qualsiasi e lasciare un graffio nel tempo per dire ciò che si deve dire e cosa deve significare?

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

L'ipocrisia linguistica in generale. In regalo un libro di barzellette sui gay: bufera sul settimanale "Visto". "Giochi a nascondino? Se mi trovi mi puoi violentare". Il libro di barzellette sui gay scatena il web. "Ti va di giocare a nascondino?". "Ok, se mi trovi mi puoi violentare. Se non mi trovi... sono nell'armadio". È la copertina del libro di barzellette sui gay allegato al settimanale "Visto", scrive “Leggo” del 18 agosto 2014.  Immediata è scattata la protesta sul web che ha giudicato di cattivo gusto l'iniziativa del settimanale. Il volume è edito nel 2012 da "Edizioni & Comunicazione" nella collana "Come fare ridere". Su change.org è addirittura partita una petizione per il ritiro dalla distribuzione del libro accompagnato dalle scuse del direttore della rivista Roberto Alessi.

Commenti:

"Ma per cortesia. Si rilassino un po' gli amici gay e non, è una cosa simpatica non razzista allora i carabinieri cosa dovrebbero dire? Su su con il morale ridetene anche voi". Commento inviato il 2014-08-18 alle 15:15:38 da forza7.

"Non se ne può più...del finto "politically correct". Ha detto bene blek macigno qui sotto: allora cosa dovrebbero dire e fare i Carabinieri...?!?" Commento inviato il 2014-08-18 alle 15:13:41 da Paolino2.

"Io leggo di tutto e non mi indigno. Lo cercavo in edicola ed è esaurito. Nel periodo estivo si legge di tutto e i settimanali allegano la qualsiasi. Visto, si poteva comprare anche da solo. Io ho preso quello col cruciverba, sperando che qualcuno non si indigni! Non vedo cosa ci sia di strano. Ho quattro libri sulle barzellette dei Carabinieri e anche loro ci ridono sopra!" Commento inviato il 2014-08-18 alle 14:36:48 da blek macigno.

"Indignato !! Mi sento veramente indignato. Ho comprato un libro di barzellette sui gay e ci ho trovato Visto come allegato!" Commento inviato il 2014-08-18 alle 11:54:31 da f3rn4nd0.

"Allora io mi offendo e chiedo il ritiro di tutti i libri, libricini e riviste con le barzellette sugli etero. Ma per piacere..."Commento inviato il 2014-08-18 alle 10:29:49 da visionet.

"Il libro è una vergogna, mi dispiace per il direttore che ho sempre considerato persona simpatica, un colpo di sole?" Commento inviato il 2014-08-18 alle 09:20:47 da donna44.

"Triturazione di attributi senza fine. Insieme agli sbarchi dei clandestini si produce una moltiplicazione di razzisti e omofobi." Commento inviato il 2014-08-17 alle 21:20:02 da Royfree.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.

Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»

«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»

"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere.  Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.

Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude -  stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.

Testo - Chi comanda il mondo? – Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli 

Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere /  vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».

Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina».  A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista   avrebbe lanciato il pezzo shock per  vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.

Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.

AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non  si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante -  avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo,  stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone:  "Siamo divisi dai simboli, noi singoli"  ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.

Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e  “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto.  Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!!  SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.

Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.

Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?

“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.

Hai lavorato a lungo come cameriere?

“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.

Che cosa si impara?

“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?

“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.

Quando l’hai conosciuta, Teresa?

“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.

E ora chi sei?

“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.

Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?

“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.

Come è la tua vita adesso?

“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.

E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?

“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.

Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?

“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui  viveva l’amore in un modo assoluto”.

Quale canzone stai scrivendo?

“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.

Concerti? Farai quello del Primo Maggio?

“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.

«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».

POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni,  abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.

Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?

«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».

In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?

«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti»

Conosci Pierdavide Carone?

«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».

Il tuo rapporto con i talent, dunque?

«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè  su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».

Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.

«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata.  Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».

Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.

«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».

Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?

«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”.  Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».

Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.

«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi  a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».

Su le mani, perché?

«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».

Già deciso per chi votare?

«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».

Luca era gay è del 2009.  A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?

«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può.  Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».

Cosa ne pensi delle adozioni gay?

«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».

A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.

«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così  lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»

Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?

«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».

Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?

«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».

Vasco Rossi o Ligabue?

«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».

Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?

«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi  fargli da corista, allora sì».

Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?

«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».

Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?

«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose.  Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».

Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?

«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».

Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?

«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».

Quando uscirà il tuo disco?

«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».

Guarderai Sanremo?

«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che  sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».

Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…

«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».

Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

Il gossip pericoloso di Bettarini e Russo nella «Casa» dei vip. Il pugile Russo già nel ciclone delle critiche per aver dato del «ricchiuncello» a un concorrente del «GF Vip» si ripete: mandarlo fuori dalla Casa aiuterebbe lui e noi, scrive Chiara Maffioletti l'1 ottobre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Magari proveranno a far passare anche questa come una battuta. Dopo aver dato del «ricchiuncello» a un concorrente del «Grande Fratello Vip» Clemente Russo se l’e’ cavata dicendo che era uno scherzo, che lui ha tanti amici gay. C’è da scommettere che abbia anche tante amiche donne, così magari la produzione gli perdonerà anche il fatto che, a suo avviso, se trovi una donna a letto con un altro uomo la devi «lasciare lì, morta». Questo ha detto di fronte alle dichiarazioni di grande eleganza fatte da Stefano Bettarini: l’ex calciatore prima ha elencato una serie piuttosto notevole di suoi tradimenti all’epoca del suo matrimonio (facendo nomi e cognomi, la classe non è acqua), senza far perdere mai il sorriso complicione al suo interlocutore. Ma è bastato rivelare quello sarebbe stato il flirt della sua ex moglie, Simona Ventura (che si è già detta pronta a tutelarsi legalmente) perché partissero da parte del pugile epiteti poco signorili verso di lei («zoccola») e, appunto, quello che a detta sua sembrerebbe l’unico atteggiamento sensato da adottare se becchi tua moglie con un altro. Non che i due soggetti in questione siano mai stati scambiati per Gillo Dorfles quando aprono bocca, ma l’ignoranza può essere pericolosa, specie in diretta tv. Quello che si vuole liquidare come una battuta è in realtà un’idea fin troppo popolare. Accettare che possa arrivare a tutti quelli che guardano la trasmissione significa, di fatto, accettare che possa essere detta. Dettaglio: per fare queste chiacchiere da bar (senza offesa per i bar), Bettarini e Russo si sono tolti i microfoni. Forse mandarli direttamente fuori dalla Casa aiuterebbe loro e noi.

Gf Vip: Clemente Russo espulso, ma poi scatta l'apologia, scrive Claudia Casiraghi su "Vanity Fair". Quel che doveva essere è stato. Clemente Russo, protagonista triste di boutade più meste ancora, è stato espulso dalla casa del Grande Fratello Vip. «I concorrenti del programma sono consapevoli del fatto che lo show si svolge in un luogo colmo di telecamere e microfoni. Tutti i partecipanti sono pertanto responsabili delle proprie azioni ed esternazioni», ha dichiarato Ilary Blasi facendosi portavoce di Mediaset, e prendendo le distanze da quel che ha detto il pugile di Marcianise. Russo, tacciato di omofobia e misoginia, si è lasciato andare, lo scorso venerdì, a commenti poco lusinghieri. Quasi a voler confortare Stefano Bettarini, alle prese con un delirio sentimel-vendicativo, l’atleta gli ha suggerito di rallegrarsi. Ché, se avesse colto sul fatto l’ex moglie Simone Ventura, presunta adultera, sarebbe finita male. Molto male. «Io, al posto tuo, l’avrei lasciata lì, morta», ha sentenziato Russo, tirandosi addosso l’ira di tutta Italia. Super Simo è passata alle vie legali, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesta venga vagliato un provvedimento disciplinare. Mediaset lo ha squalificato, Alfonso Signorini redarguito. «Non puoi essere il ragazzotto che al bar fa il gagliardo davanti ad un bicchiere di vino. Il tempo delle guasconate è finito». Eppure, non ha portato con sé alcuna saggezza. Russo, poi chiamato in studio così da tenere alta l’asticella di uno share ipocrita, si è detto sbigottito. «Siamo in un reality, ma nella vita si parla anche così», ha proferito il pugile, sinceramente basito dalle rimostranze di un pubblico che «non lo ha capito, fraintendendolo». Le scuse, chieste dell'entourage, sono arrivate. E sono state applaudite quasi che il passaggio in studio, con bella mostra di lacrime e cordoglio, potesse cancellare le offese passate. «Non è violento. Esce da un periodo difficile. Le Olimpiadi sono andate molto male, non ha avuto tempo di riprendersi», ha cercato di dire la moglie di Russo, rabberciando quel che invece è destinato a rompersi. Russo, del Grande Fratello Vip, è stato il simbolo più deteriore. Colpevole, suo malgrado, di un lassismo pericoloso che la televisione, benché trash o leggera, non può né deve permettersi di veicolare. La televisione, quella stessa che ieri ha assolto Russo perché ingenuo, dovrebbe essere mossa da buon senso. Non solo dagli ascolti in nome dei quali si sacrifica tutto: anche, e soprattutto, il buon gusto. Stefano Bettarini, pentito, ha chiesto perdono con pianti e criticismo. «Dovrebbe nominare me. Ho sbagliato. Avrei dovuto tenermi tutto dentro, ma qui è più difficile, si è sovraesposti», ha detto, sottolineando l'ovvio e implorando la grazia di tutte le donne. Pamela Prati ha chiesto di uscire. Antonella Mosetti, insieme alla figlia Asia, hanno fatto altrettanto, litigando con Elenoire Casalegno, Andrea Damante e la fidanzata di questi. Entrata nella casa per annunciare che non è incinta come si poteva pensare. Alessia Macari ha accolto la zia con pianti e abbracci, Valeria Marini ha fatto mostra di tutto quel che poteva mostrare e il Gf Vip ha chiuso i battenti lasciando aleggiare nell'aria l'impressione di una decadenza ormai inarrestabile.

GF Vip, ecco il discorso integrale di Bettarini e Clemente Russo a microfono spento. Ieri dalla casa del GF VIP è stato espulso Clemente Russo per una frase detta durante un discorso a microfono spento con Bettarini. Ecco il discorso integrale tra Bettarini e Russo che ha destato tanto scalpore e clamore, scrive il 4 Ottobre 2016 “Funweek”. La terza puntata del Grande Fratello Vip si è aperta con una presa di distanze: Ilary Blasi ha scandito quello che aveva tutta l'aria di essere un comunicato nel quale il programma si dissociava dalle affermazioni di Stefano Bettarini e Clemente Russo. Questo è stato solo il preludio per un epilogo scontato, che si era già immaginato dopo l'annullamento del televoto: l'eliminazione del pugile casertano. Cosa ha detto Clemente Russo di così grave per farsi espellere dal gioco seduta stante? Durante una chiacchierata con Stefano Bettarini, commentando un presunto tradimento dell'ex moglie di lui (Simona Ventura), l'ha prima definita una poco di buono e poi ha affermato che se l'avesse beccata a letto con l'amante l'avrebbe dovuta ammazzare. In rete circolano già da qualche giorno le trascrizioni del discorso integrale di Bettarini e Clemente Russo a microfono spento: dal momento che i due concorrenti si erano tolti i microfoni l'audio non era ottimale, ma comunque -ahimè per loro- del tutto comprensibile. Bettarini ha raccontato che ai tempi di Buona Domenica (2006) andava a letto con quattro donne, tutte ignare le une delle altre: Antonella Mosetti, Sara Varone ed altre due di cui non si capiscono bene i nomi. Sara Varone viene definita "una bella chiavata con du bocce vere", la Mosetti solo una storia di sesso ("trombamici"), di cui poi si è stufato e che ha deciso di presentare ad Aldo Montano. Gli aneddoti si sprecano: una volta Bettarini avrebbe chiesto alla Mosetti di farsi trovare nuda in una suite di un albergo romano, a cavalcioni di una sedia. Lei lo avrebbe fatto e, secondo una definizione dell'ex calciatore, "pulsava come un anguilla". La Ventura, una volta venuta a conoscenza del tradimento, avrebbe cacciato Antonella da Quelli che il calcio. Nei racconti di Bettarini anche una donna di nome Pamela "che ora c'ha un'età" e Alessia Mancini, all'epoca compagna di Ezio Greggio e velina di Striscia la Notizia: Greggio, una volta scoperta la storia, obbligò la Mancini a confessare tutto alla Ventura, pena il licenziamento da Striscia. Bettarini ha ammesso dunque di aver tradito ripetutamente Simona Ventura ma di non essere mai stato beccato, mentre lui avrebbe quasi colto sul fatto la Ventura e Giorgio Gori, all'epoca proprietario di Magnolia e marito di Cristina Parodi (oggi sindaco a Bergamo). Russo, indignato dal presunto tradimento ai danni dell'amico, ha definito la Ventura con una parola non ripetibile ed ha anche commentato che se l'avesse trovata a letto con un altro l'avrebbe dovuta ammazzare. La regia ha staccato ad un tratto dalle confidenze dei due, evidentemente non riportabili, e anche la trascrizione appena resa è edulcorata dei passaggi più sconci. Clemente Russo è stato eliminato e Bettarini è ancora nella Casa, probabilmente impegnato ad immaginare le reazioni delle donne da lui nominate per nome e cognome durante le sue confidenze....

Marina La Rosa contro il Grande Fratello Vip: da Bettarini alla Blasi, attacco senza precedenti, scrive il 5 ottobre 2016 “Libero Quotidiano”. Chi si rivede, la Gattamorta. La mitica Marina La Rosa, star del primo e glorioso Grande Fratello, interviene sulla polemica del Gf Vip con una lettera a Dagospia (peraltro scritta divinamente). Sostanzialmente stronca la trasmissione e i suoi vip, che le fanno pena, e poi entra nello specifico. "In mancanza di scoop o altre notizie (all’infuori certo della volgarità della Mosetti senior), si è pensato bene di montare un caso inesistente: protagonisti i due energumeni muscolosi che tutto sembrano tranne che due geni", scrive Marina. "E infatti, se Bettarini da un lato ha fatto la lista delle donne che avrebbe penetrato, dall’altro Clemente Russo, in maniera poco carina, avrebbe apostrofato l’ex moglie traditrice del suddetto aggiungendo che se fosse stato lui ad essere tradito avrebbe senz’altro ucciso sua moglie.  Bettarini non sarà stato di certo un gentleman, ma non ha fatto niente di diverso da ciò che fanno la maggior parte degli uomini, piuttosto trovo alquanto bizzarro che due delle donne all’interno della casa facciano parte della stessa lista". Su Clemente Russo: "Trovo più che esagerata l’accusa di istigazione al femminicidio. Quando è stato formulato il maldestro atto d’accusa dallo studio televisivo nei suoi confronti, lui – dopo aver pensato fosse uno scherzo - ha abbozzato una frase del tipo “il reality è reality”. Nulla di più vero. Il campione è stato addirittura chiamato a scusarsi pubblicamente per ossequiare il finto buonismo, che deve pur sempre regnare nel tubo catodico". Per Marina, Russo "più che assassino è solo la vittima sacrificale della puntata, da esporre sull’altare della sacra audience. Io non ci sto. Io sto con Clemente, nu brav’ uaglione". La Gattamorta apprezza la bellezza di Ilary Blasi ma definisce la sua una "chiamiamola conduzione". Per Marina Ilary non "governa magistralmente la lingua italiana", ma "io la guarderei per ore ed ore ed ore. aò è bella da morì, ammappete!".

VIVA IL PUGILE E IL CALCIATORE CHE IN TV DELIRANO SUL SESSO. Giuseppe Cruciani per “Libero Quotidiano” del 4 ottobre 2016. Scusate, ma secondo voi Stefano Bettarini e Clemente Russo di cosa dovrebbero parlare alle tre del mattino dentro la Casa del Grande Fratello (e dopo aver passato giornate intere senza fare una mazza)? Di Kant? Del referendum costituzionale? Scusa Stefano, ma secondo te ha vinto Renzi o Zagrebelsky? Ma guarda Clemente che intanto cambiano l'Italicum...No, ragazzi miei. I due signori – uno, un ex calciatore che da tempo cerca fortuna in televisione, l' altro un pugile irresistibilmente attratto dallo showbiz - parlano di figa. E di scopate. Lo scriviamo così, perché sia chiaro a tutti i neobigotti. Per intenderci: non capita solo a loro, lo fanno quotidianamente pure ministri, professori universitari, sociologi e quei giornalisti improvvisamente diventati moralisti di fronte alle parole così esplicite dei due concorrenti del reality. Tutti. Le donne, poi, non ne parliamo neppure. Magari hanno da poco terminato un consiglio di amministrazione, oppure hanno appena finito di condurre un telegiornale ed eccole al tavolo con le amiche a chiacchierare (anche) di maschi, misure, tradimenti e affini. Che immensa ipocrisia quella che sta attraversando l'Italia in queste ore. Persino un ministro, quello della giustizia Orlando, ha perso il suo tempo per vergare un comunicato di indignazione contro i due delinquenti e evidentemente considerati un pericolo pubblico. Si dice: quelle parole non dovevano essere trasmesse, sono cose troppo private e insultano le donne. Ma di cosa parliamo? La trasmissione si chiama Grande Fratello, Gran-de Fra-tel-lo, con tanto di telecamere piazzate pure nei cessi a captare pezzi di frasi, non è la nuova stagione di Piero Angela che ci spiega l'origine del mondo. A modo loro Bettarini e Russo parlano di una delle cose che fanno girare il mondo: il sesso. Sì, lo fanno in modo crudo, è vero. Mi sono fatto quella, quell' altra è una maiala mai vista, e quella poi fa delle porcate incredibili e via discorrendo. Nomi, cognomi, particolari. Ancora: ma dov' è la sorpresa? Di cosa vi scandalizzate? Cosa vi aspettavate? Che il pugile recitasse Flaubert o che l'ex della Ventura si scaldasse ricordando il primo bacino sulle labbra alla fidanzatina quindicenne? Suvvia, non prendiamoci in giro, quelli discutono amabilmente di squirting non di deficit dello Stato. E poi chi non ha raccontato almeno una volta a un amico o a un conoscente cosa faceva a letto con la ragazza del momento, scendendo nei dettagli e facendosi quattro risate. Chi non lo ha fatto? E perché dare della zoccola o della troia a qualcuno dovrebbe essere misoginia? Prendetelo per quello che è: un meraviglioso complimento a una femmina sessualmente irresistibile e senza tabù. Ora, a me personalmente delle fortune televisive del Grande Fratello Vip frega nulla. Zero. Non conosco i due soggetti sotto accusa e non voglio difendere nessuno. Non li ho mai incontrati in vita mia. Di più: l’ex moglie del Bettarini, Simona Ventura, ha tutto il diritto di andare in tribunale se si è sentita offesa. Figuriamoci. Ma cacciarli dalla trasmissione per indegnità, omofobia e altre minchiate del genere come fossero criminali di guerra sarebbe per Mediaset pura follia. Se davvero non c'è niente di concordato, se davvero quello che è uscito dalle loro bocche è tutto genuino, allora questo è il vero Grande Fratello, bellezza, e tu non puoi farci niente. PS. Il Russo viene accusato di omofobia perché ha dato del «ricchiuncello», in napoletano «friariello», ad altro concorrente della pregiata Casa. A parte che al personaggio la finezza non è richiesta, se per aver usato quel termine si viene bollati come omofobi, beh, allora meglio cambiare Paese.

E poi ci sono i due pesi e le due misure.

“L’avrei uccisa”, Mosetti come Russo? Il limite sottile tra parole e intenzioni. Dopo le parole pronunciate al 'Grande Fratello Vip', Clemente Russo si è ritrovato a essere il mostro sbattuto in prima pagina. Nelle scorse ore, Antonella Mosetti è ricorsa alla stessa frase ma rivolta a Giulia De Lellis: "Se fossimo state fuori, l'avrei uccisa". Su Rai2, intanto, Adriana Volpe assicura che in caso di tradimento taglierebbe la gola al marito. È giusto demonizzare una frase, condannando a monte un'intenzione violenta che non ha mai avuto luogo? Scrive il 5 ottobre 2016 Daniela Seclì su "Fanpage". Non si è ancora placato il ciclone mediatico abbattutosi sulla casa del ‘Grande Fratello Vip‘, dopo la frase pronunciata da Clemente Russo. Il pugile di Marcianise, che nel suo percorso di vita si è più volte speso per togliere dalla strada i ragazzi dei quartieri più difficili di Napoli, ha visto andare in frantumi la sua immagine di esempio positivo, per una frase azzardata e gravissima, ma detta d'impulso. La squalifica di Clemente Russo è stata reputata necessaria dal ‘Grande Fratello Vip', per via di alcune parole pronunciate mentre chiacchierava con Stefano Bettarini. L'ex calciatore gli ha rivelato di aver "beccato a pieno con tutte le scarpe" Simona Ventura mentre, a suo dire, lo stava tradendo. Russo, allora, ha replicato "Ma non nel letto altrimenti gliela lasciavi lì morta". In un quadro come quello italiano, dove il femminicidio è ormai tristemente all'ordine del giorno, la frase di Clemente è sicuramente da condannare. Il fatto, poi, che sia stata pronunciata in un programma seguito da milioni di italiani, ne amplifica la gravità. Prima di etichettarlo come un pericoloso assassino, però, occorre sottolineare come il suo vissuto indichi, senza ombra di dubbio, che si trattava semplicemente di una frase di uso comune a cui non sarebbe mai seguito un reale gesto violento. È giusto demonizzare una frase del genere, ma l'impatto mediatico è stato tale che Russo si è trovato a essere processato in tv, come se alle parole fosse seguita la reale intenzione di fare del male a Simona Ventura. Mosetti: "Avrei ucciso Giulia De Lellis", è da squalificare? Dopo la diretta della terza puntata del ‘Grande Fratello Vip', due concorrenti hanno usato la stessa espressione pronunciata da Clemente Russo. Elenoire Casalegno si è detta pronta a uccidere chiunque attacchi sua figlia. Antonella Mosetti, invece, ha dichiarato che se la lite con Giulia De Lellis fosse avvenuta fuori dalla casa, l'avrebbe uccisa. Ecco come è andata la conversazione. L'inviata di ‘Mistero' ha detto: "Da madre capisco, se uno mi tocca mia figlia sono pronta a uccidere, perché mia figlia è sopra ogni cosa e sopra ogni persona. Però non dovevi fare così". E Antonella Mosetti ha replicato: "L'avrei uccisa se stavamo fuori". Questa frase non è stata considerata grave quanto quella di Clemente. O almeno, allo stato attuale delle cose, non c'è notizia di un annullamento del televoto basato sull'intenzione di squalificare le Mosetti. Come mai due pesi e due misure? Probabilmente perché, per quanto non si stia offrendo uno spettacolo edificante, è talmente evidente che si tratta di un modo di dire fine a se stesso, che punire la showgirl risulterebbe ridicolo. Nonostante le parole pesanti rivolte a Giulia, una volta uscita dalla casa, è impensabile che la Mosetti si metta sulle tracce della De Lellis. Volpe: "Taglierei la gola a mio marito", fuori da I fatti vostri? Anche fuori dalla casa del ‘Grande Fratello Vip' il clima non è migliore. Nella puntata di ‘Striscia la Notizia' andata in onda il 4 ottobre, è stata evidenziata una frase detta da Adriana Volpe durante una puntata della trasmissione I fatti vostri. "Se per caso dovessi trovare del rossetto rosso sulla camicia di mio marito, credo che oltre al rossetto rosso dovrei rimuovere anche delle gocce di sangue. Lo strozzo, gli taglio la gola". Adriana Volpe dovrebbe essere cacciata dalla trasmissione? Chiaro che no. Il pubblico in studio ha accolto la battuta sorridendo e applaudendo. Le sue parole non possono certo essere considerate un incitamento a uccidere i mariti infedeli. Dunque, per quanto siano parole di una certa gravità e di pessimo gusto, occorrerebbe non demonizzarle a prescindere e soprattutto non collegarle a un'intenzione violenta che evidentemente non ha mai avuto luogo.

E poi l'apoteosi dell'ipocrisia.

Sesso anale esplicito e continuato allo spettacolo patrocinato dal Pd. Polemica a Terni per lo spettacolo con scene di sesso anale sostenuto dalla Regione Umbria e dalla Comune di Terni. La denuncia del consigliere Laffranco (Fi): "Non si può fare con soldi pubblici", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 3/10/2016, su "Il Giornale". Uno spettacolo praticamente pornografico andato in scena a teatro al Terni Festival nei giorni scorsi. Sesso anale esplicito patrocinato dal Partito Democratico. Il sesso anale patrocinato dal Pd. Sembrerà strano, ma è successo davvero. Nel festival umbro, infatti, durante la realizzazione dello spettacolo Schonheitsabend, prodotto da enti di vari paesi, tra cui Austria, Olanda, Belgio e Germania, una delle danzatrici penetra il danzatore in un "prolungato e continuo rapporto anale". In particolare, come scrive Tommaso Chimenti, critico teatrale, nel suo blog, "nella prima delle tre parti, la danzatrice Florentina Holzingersi è apposta in vita una cintura con un fallo in lattice applicato e ha penetrato il danzatore Vincent Riebeek con un rapporto anale continuo e prolungato, con evoluzioni e svariate pose e posizioni per far ben vedere, da ogni angolazione, di che cosa stavamo parlando e dove si era infilata quell’appendice, prima esposta e sguainata come spada, poi incuneatasi e sparita, inghiottita nel corpo del performer". Insomma, un porno con sesso anale. Messo in scena grazie al patrocino del Pd, per mano dell'assessorato alla cultura della Regione Umbria e quello del Comune di Terni. Chissà se sapevano che mettere il logo delle istituzioni che rappresentano sotto la locandina di quello spettacolo sarebbe significato patrocinare una scena in cui i due ballerini, "lui cavalcando lei e successivamente lei montando lui, hanno danzato uniti per una decina di minuti in un amplesso anale esplicito e osceno". A far scattare le polemiche è stato il parlamentare di Forza Italia, Pietro Laffranco: "Ognuno acasa sua fa come gli pare - ha detto - ma con i soldi pubblici no. Annuncio un’interrogazione al ministro Franceschini sul caso". Considerato anche il fatto che non c'era nessuna indicazione su eventuali divieti ad un pubblico inferiore ai 18 anni.

Taormina condannato per aver detto “Non assumo gay”, libertà d’opinione a rischio, scrive  Riccardo Ghezzi su “Quelsi” L’avvocato Carlo Taormina è stato condannato a pagare 10.000 euro di danni per una frase pronunciata durante una trasmissione radiofonica. A comminarla è stato il giudice del lavoro di Bergamo, Monica Bertoncini. Una notizia anomala, che crea pure un precedente nebuloso. Intanto non è chiaro per quale motivo sia stato messo in mezzo un giudice del lavoro, visto che non sussiste un caso di mobbing o di licenziamento per ingiusta causa. Proprio per questo non si capisce chi sia davvero la parte lesa. Andiamo con ordine: durante la trasmissione “La Zanzara”, condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo, l’avvocato Taormina aveva definito i gay insopportabili, fastidiosi e contro natura, sottolineando che non ne avrebbe mai assunto uno per farlo lavorare nel proprio studio. Attenzione però: non ha licenziato un gay solo a causa della sua omosessualità. Ha semplicemente formulato un’ipotesi, esprimendo un’opinione. Taormina quindi è stato condannato per un reato d’opinione, tipico dei paesi autoritari. Ma neppure per diffamazione, ma da un giudice del lavoro. Dovrà pagare 10.000 euro. A chi? Al gay che ha licenziato? No, perché non esiste. La parte lesa è “Avvocatura per i diritti Lgbt – Rete Lenford”, una delle tante associazioni gay-friendly che strizzano l’occhio alla sinistra, ma che forse proprio per questo si dimenticano di quelle libertà individuali che dovrebbero far parte del loro patrimonio e dei loro ideali. Associazioni che chiedono e rivendicano spesso giusti diritti, ma pretendono di farlo cancellando la libertà di opinione e mettendo bavagli. Appurato che iniziative giudiziarie di questo tipo sono utili anche a fare arricchire tali associazioni, grazie a giudici compiacenti che gli danno ragione e condannano i malcapitati querelati, proviamo ad analizzare quali sarà il reale impatto della sentenza del giudice del lavoro:

1) Taormina continuerà a non voler assumere gay, essendo questo il suo orientamento. E probabilmente non ne assumerà mai qualcuno. Semplicemente, d’ora in poi eviterà di dirlo in pubblico. Non a caso si chiamano “reati di opinione”.

2) L’omofobia vera o presunta continuerà a esistere. I gay potrebbero continuare a essere discriminati all’interno del mondo del lavoro, ma se non sono appoggiati dall’associazionismo di sinistra non ne caveranno un ragno dal buco. Mentre i gay vengono discriminati, ardite associazioni lgbt chiedono risarcimenti danni a personaggi pubblici che parlano in radio ma non è dimostrato che facciano veramente ciò che dicono. A meno che la Rete Lenford e il giudice del lavoro di Bergamo non abbiano le prove che Taormina abbia discriminato omosessuali sul posto del lavoro. 3) Si può ipotizzare che un gay che dichiari di non voler assumere eterosessuali non verrebbe mai querelato né condannato, perché certe discriminazioni vere o presunte non smuovono il magico mondo dell’associazionismo
4) Un datore di lavoro che non assume gay o li discrimina sul posto di lavoro, ma evita di dirlo in radio, continuerà a passare inosservato e ad apparire come una persona di larghe vedute.

Ci sono poi risvolti “tecnici”. Ad ipotizzarli è il sito Horsemoon Post, secondo cui Taormina potrà chiedere il risarcimento per dolo o colpa grave. Il giudice del lavoro di Bergamo non solo non ha tenuto conto dell’articolo 21 della Costituzione italiana, ma ha del tutto frainteso il concetto di discriminazione. A questo punto poco importa se Taormina abbia agito con scienza e coscienza per tendere un trappolone alla magistratura usando i gay come “cavallo di Troia”, come ipotizzato dall’Horsemoon Post, oppure se abbia espresso una sua reale opinione, discutibile e antipatica finché si vuole, e solo ora s’è accorto di poter diventare il paladino della libertà di opinione. Quello che conta è che questa sentenza potrebbe fare storia, con implicazioni pesanti anche su quella che è la responsabilità civile dei magistrati.

«Non assumo gay», Taormina condannato per discriminazione. La difesa del noto avvocato: «Esiste la libertà d’espressione, sancita dalla Costituzione», scrive “Il Corriere della Sera”. Condanna per discriminazione anche in appello per l’avvocato Carlo Taormina. La Corte d’appello di Brescia ha infatti confermato la condanna che nell’agosto scorso il tribunale di Bergamo aveva inflitto all’ex parlamentare: risarcimento di 10mila euro ad un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali e pubblicazione sul Corriere della Sera della sentenza. Nell’ottobre del 2013, durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, alla domanda del conduttore Giuseppe Cruciani se avrebbe mai assunto un omosessuale nel suo studio, l’avvocato Taormina aveva risposto «sicuramente no», precisando anche che «nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo che questo non accada». Anche nel caso si fosse presentato nel suo studio un laureato a Yale, per Taormina non avrebbe potuto lavorare nel suo studio: «Perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede», ha detto durante la trasmissione. L’associazione «Avvocatura per i diritti Lgbti», rappresentata dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso, aveva denunciato per discriminazione Taormina e in primo grado aveva vinto. Ora la conferma della condanna in appello. Secondo i giudici bresciani l’avvocato Taormina «ha manifestato, pubblicamente, una politica di assunzione discriminatoria» e «si tratta quindi di espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Il fatto poi che Taormina sia famoso e’ un’aggravante: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni, e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Taormina nel ricorso in appello ha sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un’opinione e che la libertà di espressione è sancito dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, «è pure vero che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale. E’ quindi evidente che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati». «Particolarmente contenta del risultato raggiunto». Così Maria Grazia Sangalli, Presidente dell’associazione avvocatura per i diritti lgbti, associazione difesa dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso. L’avvocato Caput ricorda come i giudici abbiano affermato che l’articolo 21 «non può spingersi a violare altri principi costituzionali che ha individuato nell’articolo 2 (tutela del singolo cittadino nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, ovvero il luogo di lavoro), 3 (principio di uguaglianza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro). La Corte ha interpretato le norme anti-discriminatorie alla luce della stessa normativa europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, mentre in Italia, caso unico in Europa, si fatica ancora ad approvare una legge che sanzioni penalmente i reati d’odio verso le persone omosessuali e transessuali e a dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso».

Omofobia, l'avvocato Taormina condannato anche in appello: "Niente gay nel mio studio". La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza del giudice del lavoro di Bergamo. Il legale dell'Avvocatura per i diritti Lgbt: "Finora in Italia non avevamo registrato decisioni analoghe", scrive Ilaria Carra su “La Repubblica”. L'avvocato Carlo Taormina «Niente omosessuali nel mio studio», aveva detto l’avvocato Carlo Taormina. E anche in secondo grado i giudici lo condannano per discriminazione. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza con la quale, nell’agosto scorso, il giudice del lavoro di Bergamo aveva imposto all’ex parlamentare di Forza Italia un risarcimento di 10mila euro a un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali. «Se la tenga lei l’omosessualità... io non ne ho alcune né in simpatia né in antipatia, non me ne frega niente, l'importante è che non mi stiano intorno (...). Mi danno fastidio. (...) Parlano diversamente, si vestono diversamente, si muovono diversamente, è una cosa assolutamente... eh... assolutamente insopportabile, guardi. È contro natura»: sono alcuni stralci delle affermazioni che Taormina aveva rilasciato il 16 ottobre 2013 rispondendo alle domande di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, conduttori della trasmissione radiofonica La Zanzara in onda su Radio24. Frasi nelle quali, secondo i giudici bresciani, manifestano «pubblicamente una politica di assunzione discriminatoria», «espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Aggrava il fatto che Taormina sia noto al pubblico: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Esulta l’avvocato Alberto Guariso (Avvocatura per i diritti Lgbt): «È un bel risultato, una sentenza importante perché sancisce la tutela generalizzata delle persone che possono subire uno svantaggio anche da semplici dichiarazioni. Annunci pubblici che secondo il giudice hanno un effetto di limitare un’opportunità di lavoro, oltre che di una umiliazione personale. Sono due gradi di giudizio conformi: sentenze analoghe in Italia finora non ce n’erano». Come riporta il partale Redattore sociale, Taormina nel ricorso in appello ha

sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un'opinione e che la libertà di espressione è sancita dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, invece, "è pure vero che l'articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale".

La reazione dei lettori de Il Giornale alla condanna di Taormina, scrive “Gay Burg”. Un tribunale ha condannato Carlo Taorima per discriminazione nei confronti dei gay, ma i lettori de Il Giornale pare non l'abbiano presa molto bene.
Ed è così che ch'è chi accusa la giustizia di voler imporre che i gay debbano piacer per forza, chi invoca la responsabilità civile dei giudici per chiedere la condanna chi ha emesso la sentenza o chi sostiene che non si sia nulla di discriminatorio nel dire che «non si assumerebbero fr*ci». Qualcuno aggiunge: «Ancora non esiste la legge contro la cosiddetta omofobia e già c'è chi la applica?», lasciando evidentemente intendere che quegli insulti dovrebbero rientrare nella tanto sventolata «libertà d'opinione». Non manca poi chi sottolinea che lo studio dell'avvocato sia privato e rivendica come «in casa sua uno possa decidere chi fare entrare». «Questi magistrati non hanno altro da fare? -scrive un altro- Mi pare che ci siano cose ben più gravi da perseguire». Già... perché perdere tempo con una causa in difesa dei gay quando la si potrebbe lasciar andare in prescrizione per occuparsi delle più meritevoli cause lanciate dai Giuristi per la Vita contro chiunque osi parlare di omosessualità? A coronare il quadro non poteva mancare chi si dice pronto a sostenere che i gay si auto-discrimino per il solo fatto di esistere: «Fino a prova contraria -dice- chi ha fatto della "discriminazione" il suo verbo sono i gay. Sono loro che si discriminano esattamente come afferma Taormina col loro modo i esprimersi, col loro vestire, con le loro pagliacciate che vanno sotto il nome di gaypride e l'elenco potrebbe continuare. L'orientamento sessuale dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima, lo sbandierare la propria omosessualità facendone un vanto è un insulto al buon gusto prima ancora che all'intelligenza. Ma evidentemente è di moda e sopratutto "rende", infatti ogni gay deve essere considerato come un discendente diretto di Pico della Mirandola se non si vuole essere subito tacciati di omofobia. Ormai i gay hanno ragione a prescindere e se sul lavoro sono nulli vietato dirlo e rimarcarlo». Non è bello far notare le cose, ma quest'ultimo personaggio dovrebbe forse notare come con il suo messaggio stia sbandierando la sua eterosessualità che, stando al suo ragionamento, dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima...Ma più di tutto è sempre interessante notare come a scrivere queste frasi inaccettabili siano le stesse persone che si dico convinte che la legge contro l'omofobia sia superflua dato che in Italia non c'è né omofobia, né discriminazione.

Difesa liberale di Taormina dal gay-correct, scrive di Corrado Ocone su “L’Intraprendente”. C’è da restare allibiti. Non ho altre parole per commentare la sentenza di condanna dell’avvocato Carlo Taormina a 10.000 euro di multa per aver affermato, nell’irriverente trasmissione radiofonica La zanzara, che nel suo studio non avrebbe mai assunto gay perché la loro è una tendenza sessuale “contro natura”. Sia beninteso, sono anche allibito del fatto che qualcuno pensi seriamente queste cose oggi, nell’anno di grazia 2014. Ma a parte il fatto che la vita è bella perché è varia, dovrebbe essere chiaro che la libertà di opinione è un valore non negoziabile, è la libertà senz’altro. Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole e come vuole. E, se non si è d’accordo con le idee di qualcuno, le si può sempre criticare. O, al limite, evitare di andare a cena con lui. È l’abc del liberalismo e dell’Occidente, direi. Tutto il resto è chiacchiera che lascerei alle Boldrini di turno. Ma già sento l’obiezione dei moralisti e quella dei legulei appellantesi ad una legge realmente esistente e voluta da alcuni sciagurati rappresentante di un Parlamento già da tempo delegittimato. Costoro si appelleranno alla legge contro la “discriminazione” e affermeranno che una cosa è avere un’opinione e altra cosa metterla in atto favorendo nel mercato del lavoro un determinato tipo di persone. Quasi come se il mercato del lavoro, così come ogni altro mercato, non fosse un luogo di libera contrattazione ove tutti volta a volta produciamo, acquistiamo o vendiamo prodotti o servizi in base ai nostri gusti e preferenze. Che se sono contrarie alle idee dell’avvocato Taormina possono sempre censurarle nell’unico modo possibile in un regime di libertà: non acquistando da lui i suoi servizi legali, anche se (è da dimostrare) fossero efficaci. Il fatto è che qui, in questo caso da manuale, si saldano in una miscela esplosiva tutti i vizi italici: l’odio per il privato (ognuno dovrebbe essere libero di fare quel che vuole a casa sua, in questo caso nel suo studio di avvocato); una concezione sostanzialistica della giustizia, a cui non viene semplicemente affidato il compito di far rispettare poche leggi formali e universali ma addirittura quello di cambiare il mondo e di punire per educare; una legislazione demagogica e velleitaria, volta a soddisfare ipocritamente il moralismo di un’opinione pubblica spesso immatura; il protagonismo di certi magistrati. È con l’acquiescenza stupida di un’opinione pubblica che, quando non è immatura, è sicuramente dormiente, che, poco alla volta, ci costruiamo le catene che limiteranno sempre più in futuro la nostra libertà. Sarebbe necessario fermarsi, ora che siamo ancora in tempo..

Libertà di pensiero. Anche per Carlo Taormina. Fatali le frasi contro i gay pronunciate a Radio24, scrive Alessandro Mlòn su “Il Tempo”. E' partita la caccia al Taormina. Brutto, sporco e cattivo. E pure razzista, becero e discriminante. Sarà. Forse sì. O magari no. Sta di fatto che la condanna da 10.000 euro inflitta all'Avvocato Professore, già Principe di Filettino, è ridicola e grave al tempo stesso. Ridicola, perchè Taormina ha espresso un'opinione prettamente personale, senza passare ai fatti. Grave, perchè crea un pericoloso precedente in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi e di natura sessuale. O presunti tali. Le affermazioni del Proff - pronunciate a La Zanzara il 26 ottobre 2013 (Niente omosessuali nel mio studio) - seppure condite dall'oramai consueta ed inconfondibile coloratissima irriverenza del Taormina 2.0 - non possono e non debbono in alcun modo rappresentare prova inconfutabile di reato per chicchessia cittadino del Belpaese. Incluso il Principato di Filettino. Perchè basterebbe semplicemente addurre che l'avvocato non è in alcun modo passato ai fatti per contraddire e confutare l'assoluta ipocrisia di una condanna che ha tutte le sembianze di esser stata più punitiva che legislativa. Come aver voluto dare una bella e sana lezione morale ed educativa al malvagio e disumano professor Carlo. Mentre una norma si applica a rigor di legge, in punta di codice, e attraverso il tanto acclamato e propagandato Stato di diritto. Non certamente perchè un individuo, tanto discutibile e spietato per quanto l'opinione pubblica possa dipingerlo, risulti simpatico od antipatico, buono o cattivo, liberale o conservatore, pro o contro i gay. Questo è il punto, cara giudice del lavoro di Bergamo Monica Bertoncini, che ne ha ordinato l'irrisoria e simbolica ammenda (roba che se voleva dar l'esempio almeno 100.000 dovevano essere, gli euri) e pure lei, cara Associazione per i diritti Lgbt-Rete Lenford, cui vanno i diecimila danari, oggi così trionfalista e su di giri per questa illusoria quanto controproducente vittoria anti-omofobia. Il punto è che anche il cittadino privato Carlo Taormina ha l'assoluta facoltà di esprimere la sua. Potendo in tutta libertà pronunciarsi su qualsivoglia argomento, dal calcio alla politica, dall'economia alle case chiuse, dalle lesbiche ai transessuali. E' ha tutto il fottutissimo diritto di aborrare i matrimoni gay, di schifare con tutta l'anima il Gay Pride, di ritenere gli omosessuali malati e contro natura, e pure di dichiarare al mondo intero di non voler assumere lavoratori omosex. Con buona pace del più esimio ed autorevole Ordine professionale, e anche delle infinite sigle d'associazionismo gay. Perchè Carlo Taormina è un privato cittadino, e non deve dare ne' fornire alcun esempio morale od educativo, se non nel rispetto della propria deontologia professionale. Perchè Carlo Taormina ha lo stesso potere di parola ed espressione che ha ogni altro libero cittadino italiano. Incluso quello di dire e manifestare la propria ripugnanza ed abominio, o quello che ai più viene considerato una sparata, una boiata pazzesca, una mostruosità. E, ancora, perchè Carlo Taormina ha detto semplicemente ciò che pensava, e che pensa. Senza sbatter la porta in faccia ad alcun gay. Senza pestare due uomini che si baciavano. Senza bloccare o fermare alcun carneval pride. E questo, Signori della Corte, si chiama libera manifestazione del proprio pensiero. E non può essere considerato reato. Perchè non rappresenta reato. Questa  condanna, da ascrivere in toto alla più classica ed insopportabile ipocrisia made in Italy, rischia seriamente (eufemismo) di sortire l'effetto opposto ai sensi della lotta all'omofobia che le associazioni gay si prefiggono. Primo, perchè viene fatta pubblicità gratuita alle frasi di Taormina, che ora può avvalersi di tutto lo spazio possibile per rilanciare, passando da carnefice a vittima predestinata del sistema. Secondo, perchè comunque l'avvocato potrà sempre 'respingere' le candidature gay che si presentano nel proprio studio, adducendo le più svariate e plausibilissime giustificazioni, senza che nessuno, tanto meno Grillini & co., possa venirne a conoscenza, e senza che ciò costituisca in alcun modo discriminazione alcuna. Terzo, perchè alle parole si risponde con le parole, mai con le sentenze. Ultimo, ma non per importanza, perchè tutto questo ennesimo non richiesto polverone sulle presunte questioni omofobe, non fa altro che discriminarli, i gay. Perchè la legge li considera 'hors categorie'. Perchè così appiano come una lobby, o ancora peggio come una casta. E perchè gli si toglie la loro legittima e sudatissima conquistata normalità. Etichettandoli dentro un ghetto giuridico e morale che anche loro - siamo pronti a scommetterci - rifiutano e combattono quanto noi. 

L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.

Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.

Ecco come distruggere il politicamente corretto, scrive l'1/11/2016 “Il Giornale”. Ci voleva qualcuno che lo scrivesse e Luigi Iannone lo ha fatto: “provate a dire banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti”. L’idea del giornalista e scrittore, frequentatore abituale del pensiero di Jünger e amico personale del defunto Ernst Nolte, è balenata a molti, ma ci voleva il suo libro per esprimerla appieno. Il titolo è L’ubbidiente democratico. Come la civiltà occidentale è diventata preda del politicamente corretto (Idrovolante Edizioni, pp. 138, Euro 13) e spiega come “incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze”. E via con esempi eclatanti su cose che tutti sanno ma è meglio tacere, per non rischiare gli insulti di cui sopra. Quindi, vietato dire che la Kyenge è diventata ministro grazie al colore della sua pelle, che le quote rose sono una forma di sessismo alla rovescia, un contentino da dare alle donne, un po’ come piazzare un filo di perle su un severo gessato da ministro. Guai a dire che certi delinquono, perché Caino non si tocca e se Abele se la passa male sono fatti suoi: i criminali vanno capiti. Guai a toccare il capo dello Stato, che pare il Santo Patrono del politicamente corretto. Che di questo si tratta, e basta. Di una dittatura soft, che ha messo da una parte i buoni e gli intelligenti – ossia gli ubbidienti al credo unico imposto dalla vulgata radical chic – e dall’altra i cafoni, gli ignoranti, gli imbecilli, i puzzoni. Ossia, quelli che provano ancora a ragionare con la propria testa e non si lasciano influenzare. L’importante, però, è tacere. Per non fare la fine degli abitanti di Gorino i quali, non avendo voluto gli immigrati, sono i mostri del momento. Quelli di Capalbio, che pure non li hanno voluti, invece se la sono cavata. Chissà perché… ma questa, in fondo, è tutta un’altra storia.

Questo libro è un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Pensate di essere liberi di esprimervi come vi pare? Provate a esporre tesi anticonformiste durante una cena, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". La libertà d'espressione è meravigliosa e noi tutti siamo convinti di poterla esercitare. Fino a quando scopriamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti, per chi professa certe idee, non incendiarie ma comunque non allineate al pensiero unico, c'è la riprovazione del mondo culturale, che si esprime in due modi: il silenzio e l'insulto delegittimante. In libreria domina ormai il Saggio Unico, figlio del Pensiero Unico. È solare: su alcuni temi si può parlare in un solo modo, quello prescritto dal politicamente corretto. L'islam? È una religione di pace. Il libero mercato? Il vero responsabile di tutte le ingiustizie del mondo. L'accoglienza indiscriminata degli immigrati? Un dovere morale e una necessità per sostenere l'economia del Vecchio continente. A proposito, l'Europa? Una magnifica istituzione senza la quale saremmo ancora più poveri e perpetuamente in guerra come nel XX secolo. L'appartenenza al genere maschile o femminile? Uno stereotipo culturale da superare. Avere figli? Un diritto. L'adozione alla coppie omosessuali? Un diritto. L'eutanasia? Un diritto. Tutti abbiamo diritto a tutto. Abbiamo perfino diritto a dire che le cose elencate, o almeno alcune di esse, non ci trovano d'accordo. Ma se lo esercitiamo, ecco il nastro adesivo sulla bocca per impedirci di parlare e le accuse infamanti: ignorante, xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo. Non se ne potrebbe almeno parlare, confrontarsi, dibattere? In teoria, sì. In pratica, no. Se non ci credete, guardate lo spazio occupato dalle idee anticonformiste nelle librerie, nei programmi televisivi, nei festival, nei convegni. È prossimo allo zero. Per questo, il libro di Camillo Langone "Pensieri del lambrusco. Contro l'invasione" (Marsilio, pagg. 180, euro 16; in libreria dal 3 giugno) è un'autentica rarità. L'autore, firma de il Giornale, mette in fila tutte le ideologie che considera rovinose per se stesso e per l'Italia. Ne esce un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Langone, spesso partendo dalla notizia di cronaca, a volte di cronaca culturale, colpisce senza paura proprio nei punti più controversi, e ci mostra che quando un'idea, perfino buona, viene trasformata in ideologia, produce disastri. Nel mirino ci sono i nuovi -ismi: l'ambientalismo, l'americanismo, l'animalismo, l'estinzionismo, l'esibizionismo, l'europeismo, l'immigrazionismo, l'islamismo... Pagina dopo pagina, gli intellettuali che vanno per la maggiore sono ferocemente dissacrati (vedi il teologo-non teologo Vito Mancuso alla voce ateismo). Al loro posto, autori che insegnano a pensare: Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Michel Houellebecq e altri. Cosa c'entra il lambrusco del titolo? Di fronte alla liquidazione dell'Italia, meglio rifugiarsi «nell'unico vero vino autoctono italiano» invece di ricorrere a «dozzinali vitigni alloctoni». Già, perché alla fine, il libro di Langone si e ci interroga su cosa significhi essere italiani ai nostri giorni. Per i nichilisti, nulla. Ma Langone non è un nichilista.

Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri

Bret Easton Ellis choc: il politicamente corretto uccide la nostra cultura. Lo scrittore americano e il critico Alex Kazami contro movimenti antirazzisti e nazi-femministe, scrivono Andrea Mancia e Simone Bressan, Martedì 4/10/2016, "Il Giornale".  "Che diavolo è successo agli MTV Music Awards? Niente di inquietante o scioccante, nessuna Miley Cyrus strafatta che insulta Nicki Minaj sul palco, nessun tipo di provocazione e dunque nessun attimo di divertimento. Tutti invece, vanno d'amore e d'accordo nel celebrare quella falsa inclusività politicamente corretta che ormai è diventata terribilmente noiosa e che, probabilmente, è la causa del vertiginoso crollo nel numero di telespettatori che ha seguito lo show". A Bret Easton Ellis, lo scrittore americano autore (tra l'altro) di Less Than Zero e American Psycho, l'edizione 2016 dei Video Music Awards, organizzata lo scorso 29 agosto da MTV al Madison Square Garden di New York, proprio non è piaciuta. E durante l'ultima puntata del suo podcast ha letto integralmente un monologo del giovanissimo scrittore (e critico-provocatore) canadese Alex Kazami che spara a zero contro gli eccessi politically correct di una cerimonia ormai diventata un gigantesco spot per «Black Lives Matter», il movimento finanziato anche da George Soros che accusa le forze di polizia statunitensi di essere intrinsecamente razziste nei confronti della comunità afro-americana. Kazami, che non incarna esattamente lo stereotipo del vecchio trombone della destra conservatrice, visto che è un millennial di 22 anni dichiaratamente gay, è ancora più feroce di Ellis. "Il Black Lives Matter Sabbath che è stato rappresentato ai Video Music Awards 2016 rappresenta la fine della cultura per come la conosciamo. L'intero show è stato un'ode alla narrativa liberal secondo la quale, visto che i bianchi sono tutti cattivi, almeno una persona su due tra quelle inquadrate dalla telecamera deve essere una donna di colore, perché siamo costantemente angosciati dalla necessità di non terrorizzare una generazione di spettatori cresciuta con una dieta di spazi di sicurezza, auto-vittimizzazione e trigger warning (l'avvertimento che segnala la possibilità che un testo possa essere offensivo per qualcuno, ndr)". Una scelta, secondo Kazami, totalmente ipocrita e dettata soltanto da strategie commerciali: "MTV non vuole esporre il suo pubblico a un immaginario pop pericoloso, per paura di offendere qualcuno, a meno che questo immaginario non ricada sotto il mantello protettivo del politicamente corretto. Ma la musica pop deve essere offensiva, non politicamente corretta". "La maschera imposta allo show continua il giovane scrittore canadese è stata un melenso tentativo di dipingere ogni artista sul palco come un campione di bontà, indulgendo continuamente in riferimenti al movimento Black Lives Matter, alla brutalità della polizia, a Martin Luther King. Questo era il copione, il dogma a cui tutti hanno obbedito. Ed era palpabile il terrore che qualcuno potesse esprimere un'opinione contraria al dogma. È proprio questo che sta uccidendo la nostra cultura: la paura di essere puniti per non aver aderito integralmente a questa ideologia collettiva del politicamente corretto". Il principale obiettivo delle critiche di Ellis e Kazami, con ogni probabilità, è stata l'interminabile performance di Beyoncé (vincitrice addirittura di otto premi), che nella sua coreografia ha esplicitamente fatto riferimento agli afro-americani uccisi dalla polizia (con i ballerini che crollavano al suolo dopo essere stati colpiti da una luce rossa) e che sul red carpet ha sfilato insieme alle madri di Mike Brown, Trayvon Martin ed Eric Garner, i tre uomini di colore che con la loro morte sono diventati il simbolo di «Black Lives Matter» (e una scusa per la guerriglia urbana scatenata dal movimento in molte città americane). Ellis, in ogni caso, non è nuovo alle polemiche sugli eccessi del politicamente corretto e dei social justice warriors. Ad agosto, sempre sul suo podcast, se l'era presa con le "femministe isteriche" e "naziste del linguaggio" che avevano attaccato il critico musicale del Los Angeles Weekly, Art Tavana, per un presunto articolo "misogino" sulla cantante (e modella) Sky Ferreira. Per Ellis, queste femministe di nuova generazione sono diventate "nonnine aggrappate alle proprie collane di perle, terrorizzate dal fatto che qualcuno possa pensare qualcosa, su un qualsiasi argomento, che non sia l'esatta replica delle loro opinioni". "Queste piagnucolose narcisiste afferma Ellis utilizzano l'altissimo tono morale tipico dei social justice warriors, sempre fuori scala rispetto alle cose per cui si offendono. E si stanno trasformando in piccole naziste del linguaggio, con le loro regole di indignazione prefabbricata, invocando la censura ogni volta che qualcuno scrive, o dice, qualcosa che non aderisce completamente alla loro visione dell'universo". "Questa sinistra liberal che si auto-proclama femminista conclude l'autore di American Psycho è diventata così iper-sensibile da essere ormai entrata in una fase culturale di autoritarismo. È qualcosa di così regressivo e lugubre da assomigliare terribilmente a un film di fantascienza distopica, ambientato in un mondo in cui è permesso un solo modo per esprimersi, in un clima di castrazione collettiva che avvolge tutta la società".

Gli estremisti delle nostre vite. Pasolini aveva ragione, scrive Francesco Boezi il 2 novembre 2016 su “Il Giornale”. “Caro Gennariello – scrisse Pasolini ad un allievo immaginario – a causa della scuola diseducatrice sei qui davanti a me come un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace di capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale che, fra l’altro, ti angoscia”. Sono le poche righe da cui è scaturita l’idea di dar vita a questo blog. Parole portatrici di una struggente quanto tragica attualità “Gennariello” fu il destinatario ipotetico cui Pasolini inviò un “trattatello pedagogico” raccolto in Lettere Luterane. Un giovane di quindici anni, napoletano, borghese, amante del calcio. Il prototipo di studente potenzialmente imbevuto dal conformismo. Lo scrittore e regista romano cercò di metterlo in guardia dai professori, dai compromessi degli intellettuali, dall’immobilizzazione delle aspirazioni dentro un consesso culturale marcio ed incapace di sviluppare il libero pensiero, la libera immaginazione, la vocazione dell’intelligenza personale. Gli individui all’interno della scuola italiana, insomma, andrebbero sviluppandosi come contenitori vuoti, buoni solo ad essere riempiti con le nozioni utili al pensiero dominante, a quella cultura totalizzante cui Pier Paolo Pasolini addossava la responsabilità di voler accentrare tutto dentro la civiltà dei consumi. Chissà cosa avrebbe pensato Pasolini dell’accordo tra il Miur e Mcdonald’s per l’alternanza scuola-lavoro. Il ministero dell’istruzione, infatti, ha siglato un’intesa per cui gli studenti potranno svolgere le ore previste dalla legge 107 (Buona Scuola) all’interno dei locali del celebre fast food. Un favore niente male ad una multinazionale, mentre il Pd in piazza canta “Bella Ciao” in sostegno del Sì al referendum. Chissà cosa avrebbe scritto a Gennariello. Probabilmente le stesse medesime cose. La forza di Pasolini, d’altro canto, sta nell’essere stato un profeta. Era il 2 novembre 1975 quando l’autore di “Scritti corsari” fu assassinato all’Idroscalo di Ostia. Il poeta di Casarsa aveva già compreso che persino la scuola si sarebbe rivelata corresponsabile del proliferare dei modelli imposti, della distruzione delle differenze, dell’omologazione, di un edonismo neo-laico privato di qualunque valore umanistico, del dominio, insomma, dell’ideologia del consumo e dell’immagine. L’istituzione scolastica, alla fine della fiera, come stampella del totalitarismo della mercificazione. Gli studenti italiani lavoreranno a Mcdonald’s nelle ore di lavoro previste dalla 107. Deve essere stato questo il sogno ribelle dei sessantottini che oggi occupano le cattedre ed i banchi ministeriali d’Italia. Pasolini aveva ragione.

Viaggio tra i fondamentalisti della porta accanto: dai nazi-vegani ai dittatori del piatto, quelli che vogliono imporci le loro ideologie, scrive Domenico Ferrara, Mercoledì 02/11/2016, su "Il Giornale". Pubblichiamo un estratto del libro di Domenico Ferrara, "Gli estremisti delle nostre vite". Un viaggio attraverso i fondamentalisti della porta accanto: dai nazi-vegani ai dittatori del piatto passando per gli ecologisti estremi e altro ancora. Insomma, quelli che trasformano scelte di vita personali in ideologie da imporre a tutti. Vogliono metterci le catene. Non siamo più liberi. E non c’entra la libertà filosofica né la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Qui parliamo di arbitrio. E di estremismo. C’è una parte della società di oggi che cerca non tanto di inculcarci delle dottrine (ché sarebbe un fine legittimo che garantirebbe almeno la facoltà di non partecipare alle lezioni) quanto di imporci dei paradigmi, degli stili di vita, dei regimi alimentari. È una parte della società che mina nel profondo la nostra libertà di scelta. E, il più delle volte, lo fa con la violenza fisica o verbale, con l’allarmismo sociale o ancora con il terrorismo psicologico. Sono i talebani delle nostre vite. Gli estremisti della quotidianità. I portatori malati di un pernicioso nazismo delle idee. Quello che confina i disertori in un ghetto sociale, i cui componenti vorrebbe che diventassero una minoranza sempre meno influente. E soprattutto meno libera. Il verbo che loro diffondono è il solo possibile, quello giusto. Alla faccia del rispetto delle opinioni altrui. Si dice che la nostra libertà finisca dove inizia quella degli altri. Ma loro, gli altri, non conoscono confini. E, soprattutto, non credono nella libertà del prossimo, anzi, fanno di tutto pur di contrastarla e demolirla. In un’epoca in cui i terroristi dell’Isis condizionano le nostre esistenze, tagliando, oltre alle teste dei loro nemici, anche la nostra cartina geografica (prendete un mappamondo e fermatevi a riflettere un secondo su quali posti in questo periodo evitereste per paure di un attentato dell’Isis e vedrete che non sono pochi), c’è un altro tipo di fondamentalismo (ideologico) che si insinua nelle nostre vite. Il più delle volte non ce ne rendiamo conto, ne siamo inconsapevoli. Altre volte invece ci si presenta davanti con una virulenza inaudita. Prendete i nazivegani per esempio. Sì, proprio quelli. Ma badate bene, qui non si prendono in considerazione coloro che hanno scelto la via dell’ascetismo culinario e che il massimo del fastidio che possono procurare è la confusione dell’amico che se li trova a cena e che rimodella il menu a immagine e somiglianza degli invitati. No, quelli sono i vegani moderati, quelli che pacatamente ti spiegano le ragioni della loro scelta, che discettano di cibo industriale e che ti saprebbe- ro elencare i macchinari utilizzati per la cottura del pollo e gli elementi chimici usati per alimentare gli animali del pianeta. Scelta legittima e financo condivisibile. Perché scelta privata. Ognuno è libero, in teoria, di impiattarsi quello che più gli pare e piace. Nei limiti della legge, ovviamente. Non stiamo parlando di chi vuole farsi bistecche di panda e cucinare i gatti. Per carità. Qui si parla degli estremisti, quelli che fanno vere e proprie azioni di «guerriglia» contro i carnivori. Sono i paladini della violenza delle idee, disposti a tutto pur di convertire un infedele. Ma in realtà la conversione è un obiettivo che non si prefiggono. Loro puntano alla punizione. Lo ha spiegato perfettamente Valerio Vassallo, il leader di uno di questi movimenti vegani in un’intervista al programma Le Iene che ha fatto il giro del web. «Se vedo una persona che mangia un panino con la mortadella, se riesco ci sputo dentro. Se vedo una signora con una pelliccia, faccio di tutto per danneggiargliela. Se, per salvarsi la vita, mia madre fosse costretta a usare dei farmaci testati sugli animali, la disconoscerei». Sempre lui, insieme ai suoi compagni di ideologia, bloccò una gara di pesca alla trota sulle rive del fiume Sesia cercando di convertire un padre con queste dolci parole: «Tu stai insegnando a tuo figlio ad uccidere», innescando con lui un acceso alterco e impaurendo il bambino che scoppiò in un pianto dirotto. Colpirne uno per educarne cento. I nazivegani non guardano in faccia niente e nessuno. E riscrivono la storia, a modo loro. Nelle loro menti stanno rivivendo gli anni del nazismo: ciò che avviene negli allevamenti rappresenta - per loro - un nuovo Olocausto e gli animali sui quali si sono testate e si testano le medicine del passato, del presente e del futuro patiscono le stesse pene dell’inferno che patirono gli ebrei. Ma le fondamenta su cui si poggia questa sorta di religione ultra-ortodossa sono labili come un grissino (vegano) e non trovano alcun appiglio scientifico se non l’ancor più fragile precetto in base al quale è inutile testare i farmaci sugli animali se tanto poi sono gli uomini a doverli assumere. È l’antiscienza per eccellenza. O peggio, il disconoscimento della scienza stessa. A meno che, per salvare gli animali, non si voglia passare direttamente ai test sui bambini.

Giù le mani da Magdi Cristiano Allam, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2016 su “Il Giornale”. Chi sono davvero i razzisti? In questi giorni Magdi Cristiano Allam, intellettuale e giornalista tra i più liberi in Italia, nonché caro amico di chi scrive, è stato nominato cittadino onorario dal comune di Cascina, centro abitato di 45mila persone in provincia di Pisa. A volerlo insignire di tale carica sono stati l’assessore alla cultura, Luca Nannipieri, ed il sindaco, Susanna Ceccardi. Quello di cui stiamo parlando è il primo comune toscano ad essere governato dalla Lega Nord. “Fino a qui tutto bene; il problema non è la caduta, è l’atterraggio”, così recitava il monologo più famoso della pellicola L’odio (La Haine) film diretto e scritto, nel 1995, da Mathieu Kassovitz. L’atterraggio è rappresentato dai sedicenti appartenenti allo schieramento locale del Pd, la Cascina Democratica, che vuole ergersi ad unico detentore del potere di gestione del pensiero in città. Dai loro canali social alzano il pugno sinistro al cielo: “Restiamo convinti che l’assegnazione della cittadinanza ad Allam sia un gesto sbagliato e ci pare opportuno far conoscere la nostra opinione ai cittadini”, poi continuano “si prefigura il ritorno alla difesa del feudo, in maniera sempre più bellicosa”. Vogliono avere la prima e l’ultima parola, vogliono ergersi a liberatori delle coscienze quando sono i primi a promuovere leggi e discorsi liberticidi. La loro intenzione è quella di tappare la bocca a chi dice no, a chi si solleva contro una società corrotta e che frana insieme ai suoi valori. Anche il Psi, ma sono ancora vivi?, non ha perso tempo e ha cercato pubblicità attraverso la figura, stoica in questo caso, di Magdi. “Il Psi di Cascina non può né approvare né sottacere ad un’operazione di arruolamento forzato di Oriana Fallaci. E’ oggettivamente fuorviante associarla a culture e ad opinioni politiche, mai condivise e da cui è stata lontana tutta la vita, come si sta tentando di fare con l’iniziativa promossa presso il teatro Politeama”. Stiamo parlando di Cassandre, riferendoci a Magdi e alla Fallaci, capaci di vedere il futuro, analizzarlo, studiarlo e predirlo. Personalità che non hanno paura a caricare la loro anima, tra cultura e volontà di non cedere, per colpire il male di questi tempi. La disoccupazione ci sta mettendo in ginocchio, l’immigrazione ci sta rubando la nostra identità sacra e la politica sta spegnendo ogni sogno rivolto verso l’avvenire ed il problema è un’onorificenza? VERGOGNATEVI. I democratici, e chi altrimenti?, hanno definito il saggista “un personaggio che soffia sul fuoco del fondamentalismo”, ma non è finita qui perché viene descritto, dagli adepti renziani, come un uomo “che divide e nasconde dietro l’espressione scontro di civiltà l’idea di nuova guerra santa”. Ho dovuto rileggere certe dichiarazioni, almeno due volte, per sincerarmi che fossero vere. Come può un uomo che per 56 anni è stato musulmano, che ha raggiunto l’Italia partendo dall’Egitto, dove è nato, con un visto per lo studio in tasca essere un seminatore d’odio. Un intellettuale che ha abbracciato il Cristianesimo e che combatte ogni giorno il fondamentalismo islamico capace, solamente, di inorridire l’intero globo. Persona dotta, istruita e volenterosa la cui unica colpa è quella di dire la verità, nient’altro che la verità. “Dare del seminatore di intolleranza a me è estremamente grave. Sottintende il fatto che ho un pregiudizio nei confronti degli immigrati o dei musulmani che corrisponde ad un reato perché parliamo di razzismo. Ricordo loro che io sono stato un immigrato vero in Italia. Mi rappresentano come un terrorista ma io sono una vittima del terrorismo e di quelli che seminano intolleranza: da 14 anni vivo sotto scorta”, questo ha dichiarato, lo scrittore, sulle colonne de Il Giornale.  Eppure i veterocomunisti pisani, tanto ligi a parlare di morale, però incapaci nella loro dottrina politica di averne una, dovrebbero sapere che il comune di Cascina, nel 1998, ha consegnato la cittadinanza a Silvia Baraldini. Quest’ultima ha scontato 23 anni di galera, per associazione eversiva, tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia. Vicina al movimento Black Panther Party è finita in manette per concorso in evasione, associazione sovversiva (nel curriculum figurano anche due tentate rapine) ed ingiuria al tribunale. Resto disgustato da questo tipo di proteste e dichiarazioni puramente ideologiche, capaci di mostrare solo l’ignoranza di chi critica per partito preso senza analizzare i contenuti. In questo caso parliamo di una persona che conosce, a memoria, il Corano e che da quando si è convertito è stato dichiarato un uomo morto dall’Islam, proprio per via della sua conversione. Ma a quanto pare i difensori di questa religione, che promuove l’odio, bramano per diventare i primi complici del fondamentalismo religioso se le nostre città si trasformeranno nella Parigi della sera del 13 novembre. Del resto ognuno si sceglie i propri modelli di civiltà, il mio l’ho scelto ed è un esempio di disciplina e di lotta per ognuno di noi: MAGDI CRISTIANO ALLAM.

Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.

Mancini-Sarri, il direttore (napoletano) di Tuttosport: «Chiedo scusa per il titolo, Roberto è un ipocrita», scrive “Il Mattino” il 21 gennaio 2016. A Radio Crc nel corso di "Si Gonfia la Rete" di Raffaele Auriemma è intervenuto Paolo De Paola, direttore (napoletano) di Tuttosport che ha fatto marcia indietro rispetto al titolo del quotidiano sportivo torinese di ieri: «Chiedo scusa per il titolo su Tuttosport, ho creduto alla sua buona fede, ma invece Mancini è un ipocrita - ha detto De Paola -. Ho preso visione di una realtà che era diversa rispetto a quella che avevo prospettato e scritto su Tuttosport con quel titolo “Siamo tutti Mancini” e non ho difficoltà a dire che alla luce di quanto emerso, mi scuso perché Mancini è un ipocrita». «La denuncia del tecnico - ha spiegato il direttore - sembrava veritiera e coraggiosa, Mancini sembrava un paladino e invece era solo una cosa falsa perché lo stesso allenatore ha proferito la stessa accusa ad un giornalista quando era a Firenze e mi dispiace di aver fatto quel titolo perché Mancini è un ipocrita. L’ho seguito in buona fede, ma alla luce della verità, ripeto, Mancini è un’ipocrita. Mi piace confrontarmi con i fatti e al di là della mia buona fede, mi sembrava che quello di Mancini fosse un rincrescimento vero. Ritengo che nascondersi dietro quella frase “sono cose da campo” possa fungere da alibi per giustificare tutto, anche le combine, per cui resto convinto del fatto che ci sia comunque un muro da abbattere. Ma faccio un passo indietro perché non può esserci un moralismo facile, lo scheletro di Mancini lo abbiamo scoperto, il caso è identico e la parola giusta è ipocrisia. Mancini l’ha usata in cattiva fede portando avanti una bandiera che evidentemente non è la sua. Il problema è che poi il tecnico è ritornato sull’argomento e anche il padre lo ha fatto. Preferirei che anche la famiglia si chiudesse nel silenzio perché tutto questo gli può tornare indietro come un boomerang. La vicenda si è rivestita di un nesso sgradevole e andrebbe chiusa al più presto. Sarri ha sbagliato, ma più volte ha chiesto scusa. Quel modo di pensare non deve esistere né in campo, né fuori dal campo. Ma, ne esce bene da questa situazione perché si è scusato immediatamente ed ha mille giustificazioni a differenza di Mancini che ne esce sminuito. Su Tuttosport, sul giornale e sul sito certamente vedrete qualcosa di diverso rispetto a quanto emerso nella giornata di domenica. C’è da indignarsi e mi spiace che siamo di fronte ad un’altra pagina sgradevole».

La Gazzetta conferma: "Mancini chiamò 'frocio di merda' il nostro giornalista Da Ronch nel 2001", scrive "Tutto Napoli" il 21.01.2016 12:44. Figuraccia colossale quella rimediata da Roberto Mancini, dopo che ancora oggi ha ribadito la gravità dell'insulto di Maurizio Sarri. Da Firenze in giornata hanno ricordato che lo stesso tecnico dell'Inter chiamò 'frocio' un giornalista ai tempi della sua esperienza alla Fiorentina e la Gazzetta dello Sport ha confermato (perchè solo oggi, e non ieri?) l'accaduto specificando che si tratta del collega Alessio Da Ronch: "Fine dicembre 2001: la Gazzetta dello Sport svela un episodio relativo ad Amaral, centrocampista della Fiorentina tornato in Brasile prima delle vacanze. La versione ufficiale del club è che il giocatore è in permesso, in realtà ha avuto un alterco con Mancini che lo riteneva fuori dal progetto e ha preferito andare via. Letto l'articolo, l'allenatore viola prima di una conferenza fa chiamare il nostro giornalista dall'addetto stampa: vuole un colloquio privato per chiarire. Così Alessio lascia la sala stampa e va a parlare con Mancini che però comincia a insultare: Alessio fa per andarsene e a quel punto Mancini lo apostrofa così: "Sei un frocio di m..., vieni qui". A quel punto Alessio reagisce, soltanto verbalmente, torna indietro sui suoi passi e Mancini viene trattenuto prima che la lite degeneri. Il tutto davanti a un altro giornalista, all'addetto stampa viola e a parte della squadra che era uscita dallo spogliatoio dopo aver sentito le urla".

Il precedente del Mancio: nel 2001 apostrofò un giornalista: "Frocio di m...". Ma lui smentisce tutto, scrive Pasquale Tina il 21 gennaio 2016. La querelle tra Sarri e Mancini è infinita e si arricchisce di un nuovo capitolo, come svelato dal sito firenzeviola.it . "Mi ha dato del frocio e del finocchio", così Mancini ha accusato Sarri al termine di Napoli-Inter. Ma in serata il tecnico dell'Inter smentisce categoricamente tutto. Gli stessi epiteti di Sarri, secondo il sito, li aveva utilizzati pure il Mancio quindici anni fa contro Alessio Da Ronch, giornalista de La Gazzetta dello Sport, che ha confermato l'episodio. Era il dicembre 2001. Mancini, allora alla Fiorentina, non gradisce un articolo della rosea sulla vicenda Amaral e chiede all'autore un colloquio privato prima della conferenza stampa. I toni sono concitati, Da Ronch è sul punto di andarsene e a quel punto Mancini lo apostrofa così. "Sei un fr.... di m...., vieni qui". Solo l'intervento di altre persone - tra cui l'addetto stampa della società viola - ha evitato che la lite degenerasse. Roberto Mancini però non ci sta e mentre la notizia fa il giro del web, in serata decide di replicare. Dalle pagine del proprio sito, il tecnico dell'Inter torna ancora una volta su quanto accaduto nel finale della gara del San Paolo, ribadendo che "le esternazioni nel dopo gara di Napoli sono semplicemente in linea con la mia storia e la mia cultura calcistica. Non chiedo di condividere il mio modo di stare nel calcio, ma pretendo rispetto: in queste ore si sta montando una polemica e si stanno creando fazioni che spostano l'attenzione dal vero problema! Per questo vorrei che si mettesse un punto a questa storia che è stata oggetto di fin troppe strumentalizzazioni - chiarisce Mancini - Non ultima quella secondo cui, 15 anni fa, sarei stato perfino autore dello stesso insulto nei confronti di un giornalista, cosa non vera: non ho mai utilizzato quel termine perchè non ha mai fatto parte del mio linguaggio. Ribadisco la mia delusione, ma vorrei che la concentrazione tornasse ora sui nostri obiettivi sportivi e sulla prossima partita, fondamentale per il prosieguo della stagione dell'Inter".

Ipocrisia al potere nel caso. Sarri-Mancini: anche la sentenza è un’offesa per tutti, scrive Goffredo Buccini il 22 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Le parole, per dirla con Nanni Moretti, sono importanti: chi lo nega vi sta imbrogliando. Tra «negro» e «nero» passa la distanza tra l’America segregazionista di Rosa Parks e quella liberal di Obama. Ora, inerpicarsi sull’esegesi di Maurizio Sarri, fermo agli epiteti da angiporto contro Roberto Mancini alla fine di Napoli-Inter, potrà pure far sorridere. Ma la voglia di sorridere svanisce subito di fronte alla sentenza del giudice sportivo che condanna l’allenatore del Napoli a un buffetto sulla guancia: dare del «frocio» all’avversario costa appena due giornate di squalifica nella prossima Coppa Italia (in questa il Napoli non c’è più, le prime partite della prossima le giocherà contro squadre minori, il danno è zero). L’insulto, attenzione, è rilevato: ma, interpretando in modo a nostro avviso surreale il regolamento (articolo 11, discriminazione razziale), non sarebbe omofobo, perché Mancini non è gay, quindi non ha di che adontarsi troppo. Poco conta che quell’insulto, usato così, offenda tutti gli omosessuali e (ha ragione Mancini) tutti gli eterosessuali dotati di sensibilità e civiltà appena medie. Non dubitiamo che il giudice Tosel abbia le sue pezze d’appoggio disciplinari, le sue pandette di scorta. Ma ci permettiamo di eccepire che ha dato un ennesimo, pessimo esempio a un Paese dove da tempo il discorso pubblico è slittato nel turpiloquio, dove invoca l’omertà calcistica («cose di campo...») anche chi ha rappresentato lo Stato ai livelli più alti (Berlusconi), dove un presidente di Federazione (Tavecchio) è finito sulla graticola Uefa per i suoi vaniloqui razzisti sul «mangiabanane» Optì Poba. In questo Paese di maschi da caricatura, in cui la categoria del «politicamente corretto» viene ridotta a sinonimo di ipocrisia e la mitezza diventa «buonismo», noi, caro giudice Tosel, sommessamente, preferiamo stare dall’altra parte. O, come forse direbbe Sarri a man salva, dall’«altra sponda».

Se Mancini diventa il cattivo. È evidente che la vera colpa dell’allenatore dell’Inter è aver infranto la legge non scritta su cui si regge il calcio italiano: l’omertà. Chi mette in discussione il silenzio – sugli insulti, sullo strapotere delle curve, sulle scommesse, sulle combine – è fuori dal gioco, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” del 22 gennaio 2016. Sono bastate 48 ore perché la parte lesa diventasse il colpevole, e il colpevole diventasse la parte lesa. Giornali che cambiano idea e fanno ammenda, giudici sportivi molto clementi – come ha ben scritto sul Corriere Goffredo Buccini -, il consueto intervento a sproposito di Berlusconi; fatto sta che Sarri ora pare la vittima, e Mancini il cattivo. È fin troppo evidente che la vera colpa dell’allenatore dell’Inter è aver infranto la legge non scritta su cui si regge il calcio italiano: l’omertà. Il fatto che poche ore prima un altro tecnico, Gian Piero Gasperini del Genoa, avesse violato l’omertà per denunciare i capi ultrà che l’hanno costretto a girare sotto scorta, agli occhi dei conservatori non fa che aggravare le eccezioni destinate a confermare la regola. Chi mette in discussione il silenzio – sugli insulti, sullo strapotere delle curve, sulle scommesse, sulle partite comprate e vendute – è fuori dal gioco. Basti pensare a quel che è successo a un altro allenatore: Cesare Prandelli. Mai, dai tempi della Corea (1966), si è visto il linciaggio mediatico di un ct come quello seguito all’eliminazione della nazionale in Brasile. E l’ostracismo nei confronti di Prandelli continua pure oggi. Poco conta che quasi tutte le sue contestatissime scelte si siano confermate inevitabili: Pepito Rossi non poteva giocare i Mondiali; il Mattia Destro visto nella Roma non meritava di farlo; Cassano resta - purtroppo da fermo - il calciatore italiano di maggior talento; Verratti quando sta bene è una certezza (resta il buco nero Balotelli). Ma la questione non è tecnica. Prandelli è stato irriso per aver tentato di avvicinare la nazionale alla nazione, per aver portato calciatori viziati e ignoranti ad Auschwitz, per averli fatti giocare nell’Emilia colpita dal terremoto e sui campi sequestrati alla camorra. Però la sua vera grande colpa, che l’ambiente non gli ha mai perdonato, è stata convocare il terzino del Gubbio, Simone Farina, che aveva denunciato una combine, una partita truccata. Ma come? Il reietto che ha infranto l’omertà viene addirittura premiato? Non lo sa Prandelli che certe cose non si fanno? Gasparini è proprio sicuro di voler denunciare i violenti? Mancini non poteva tacere le «cose da campo»? Non è meglio stare zitti? Siamo seri. La sola cosa che può fare l’opinione pubblica è, per una volta in Italia, schierarsi con chi ha subito un torto ingiusto, e non con chi l’ha causato.

Luca Telese e il "frocio" su “Libero Quotidiano" del 21 gennaio 2016: Mancini volpone, cosa c'è davvero dietro l'accusa a Sarri. È Napoli-Inter, bellezza, mica la gag di Checco Zalone sugli «uomini sessuali/ che sono gente tali e quali/ come noi normali». Fosse stata gridata in bar, forse, sarebbe potuta restare solo una gag scurrile, una battutaccia da commedia all’Italiana: «Finocchio!». Ma siccome l’insulto è volato tra due top mister in diretta tv, lo scandalo è diventato molto di più: una sfida tra cosmopolitismo e provincialismo, una decisione che sposterà equilibri di potere e classifica, un duello che segnerà il nostro costume. Sarà una squalifica che in Italia farà giurisprudenza, e che - per il senso comune - varrà di certo molto più della tormentata legge sull’omofobia. Forse loro ancora non lo sanno, ma i giudici sportivi chiamati a pronunciarsi sulla dibattutissima contesa calcistica#sarrimancini, in realtà decideranno su due grandi temi: sia sul campionato che sul costume italiano. Diciamolo subito: Roberto Mancini è un genio. Uno che ha respirato l’aria dell’Europa, che in campo ha fiutato subito la potenzialità drammatizzante dell’ingiuria politicamente scorretta, e che l’ha (legittimamente) trasformata in un’arma sportiva, e splendida, in prima persona, e rompendo il tradizionale adagio para-omertoso del nostro mondo pallonaro: «Quel che succede in campo resta in campo». Nel tempo dei labiali e delle moviole tv questa non può che essere una pia illusione. E diciamolo con altrettanta franchezza: Maurizio Sarri ha fatto un madornale errore di leggerezza e sottovalutazione: non solo quando a caldo ha dato a Mancini del «frocio» (il che già equivale ad aver perso la testa) ma anche quando dopo - a mente fredda - si è messo a minimizzare, a fare battute, e suscitare ironie in conferenza stampa: «Gli ho detto il primo insulto che mi è venuto in mente.... avrei potuto dirgli democristiano!». Troppe iperboli - Sarri, e forse con lui De Laurentiis, hanno giocato la carta dell’iperbole e della minimizzazione insieme: si può dire tutto perché nulla di tutto questo, in fondo, è grave. Errore. Gli uomini del Napoli hanno consapevolmente continuato a scommettere sull’insostenibile ombra di un gossip (magari falso, ma non per questo meno contundente nello sport più maschile per eccellenza). Oggi chi difende Sarti continua a farlo anche in sede sportiva quando per evitare una squalifica letale in campionato (almeno quattro mesi) cerca di sostenere che dare del «finocchio» a qualcuno non sarebbe un insulto, se il destinatario dell’epiteto fosse eterosessuale. Seguendo questa logica in campo si potrebbe dire tranquillamente «sporco negro» a un bianco (non sarebbe razzismo) e «figlio di puttana» a chiunque, (magari poi chiedendo l’esame del Dna dei genitori per essere scagionati in sede federale). Quello che frega Sarri - però - è la risatina con cui ha accompagnato le sue frasi, e i sorrisi che ha volutamente suscitato mentre teoricamente stava chiedendo scusa. Quello che dà forza all’affondo di Mancini - invece - è la durezza lucida che ha messo in campo. Tutti sanno che una squalifica di Sarri lo favorirebbe, ma la forza del suo primo piano quando dice «quello non dovrebbe più allenare» mette in secondo piano ogni cosa. In Italia è la prima volta che accade, ma all’estero no. Forse l’unico precedente simile nel nostro Paese sono le volgarissime corna rivolte in fotografia via Twitter da Maurito Icardi all’ex amico Maxi Lopez (ancor più dolorose, perché facevano riferimento a una moglie scippata, Wanda Nara). Ma accadeva fuori dal campo. Forse solo Mancini martedì sera aveva in mente un precedente britannico, l’incredibile scandalo esploso nell’ottobre 2012, quando durante una sfida fra Chelsea e Qpr, il capitanoJohn Terry, secondo una ricostruzione labiale, aveva gridato «Fucking Black cunt!» (letteralmente «Fottuta fica nera») contro Anton Ferdinand(un rivale mulatto del Qpr). Il cosmopolita Mancini sa che nella severissima Europa, lo sventurato Terry - che pure negava - fu costretto alle scuse, alla rinuncia al ruolo di capitano, a una squalifica e a una esosissima multa. Lo scandalo aveva travolto anche il ct della nazionale inglese dell’epoca, Fabio Capello (che cercó di difendere Terry dalla degradazione), e il suo amico Ashley Cole (appena svincolato dalla Roma) che si beccó 90mila sterline di multa e il divieto di capitanare la nazionale (solo per aver solidarizzato con l’amico Terry via Twitter!). «Sei un negro» - Sempre al Chelsea un tifoso, Stephen Fitzwater, pochi mesi prima era stato bandito a vita dallo stadio per aver insultato Didier Drogba. E solo un anno prima, nel 2011, la Federcalcio inglese non aveva avuto nessuna pietà nemmeno per Luis Suarez (all’epoca al Liverpool) accusato da Patrice Evra di insulti razzisti nei suoi confronti, durante una partita pareggiata 1-1 ad Anfield. Vicenda incredibile: una commissione indipendente comprovó che le accuse erano fondate, ed inflisse ben 8 giornate di squalifica a Suarez (costretto a pagare una multa di 40mila sterline) prima che chiunque sapesse di quale insulto si trattasse. Evra infatti - proprio come Mancini - aveva denunciato il bomber uruguagio in televisione, affermando che Suarez lo aveva apostrofato con un termine razzista per ben 10 volte. Aveva però aggiunto: «Mi rifiuto però di ripeterlo in pubblico». Il fattaccio era avvenuto il 15 ottobre 2011, durante la partita Liverpool-Manchester United. Solo dopo l’archiviazione del report della Federazione la dinamica era stata rivelata: Evra aveva chiesto spiegazioni a Suarez per un fallo duro e lui gli aveva risposto simpaticamente: «Perché tu sei un negro!». A quel punto, Evra aveva sfidato l’avversario a ripetere quel che aveva detto, e Suarez lo aveva liquidato con altrettanta sobrietà: «Io non parlo con i negri». Suarez avrebbe ripetuto sette volte in due minuti la parola «nigger», e nessuno si era messo a sottilizzare sullle sfumature di colore della pelle di Evra prima di censurarlo. Dopo le condanne esemplari, né il Liverpool né lo United avevano fatto ricorso. Non solo: i reds erano stati subissati di polemiche per non essere stati abbastanza severi. Il cosmopolita Mancini conosce benissimo queste storie, sa che la modernità arriverà anche in Italia e non si limiterà alle telecamere per accertare i goal sulla linea di porta. Ma anche l’allenatore dell’Inter ha il suo scheletro nell’armadio: nel 2000 - ha ricordato ieri Dagospia - il Mancio era il vice allenatore di Eriksson alla Lazio e la sfida di Champions tra biancocelesti e Arsenal fu caratterizzata anche dalle accuse di Vieira a Mihajlovic: il centrocampista rivelò che il serbo lo aveva chiamato «bastardo negro» e «scimmia negra di merda». E il Mancini de 2000 commentava: «L’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Nel 2007, dopo lo striscione «Napoli fogna d’Italia», esposto a San Siro, il mister aveva detto: «Era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi. Non è stato bello, ma non si è trattato di una cosa così grave…». Il paradosso vuole che Mancini, che non era ancora andato ad allenare in Inghilterra, dunque, minimizzasse come il Sarri di oggi. Ma l’allenatore del Napoli, evidentemente, ha continuato a ignorare il rischio che sta correndo, soprattutto perché non è più un problema fra loro due: nel tempo dei social la notizia ha fatto il giro del mondo, e la Figc adesso ha su di sé gli occhi del pianeta. In questo caso, l’ingresso della battaglia civile nel campionato italiano più incerto e combattuto degli ultimi anni, il politicamente corretto applicato al calcio, diventa una vera arma non convenzionale. Il Mancini allenatore, con la sua denuncia, potrebbe ottenere di mettere fuori dal campionato il suo diretto concorrente Sarri per almeno quattro giornate. Anche perché il Napoli ha già vissuto (malissimo) la decapitazione del tecnico subita contro il Torino, quando - per la doppia espulsione dei mister - Sarri era stato costretto a dare indicazioni solo grazie ad un surreale balletto di massaggiatori che facevano la staffetta fra panchina e la tribuna. L’idea un po’ medievale che Mancini dovrebbe dimostrare di essere eterosessuale per non essere offeso, oppure dichiararsi gay per poter ottenere la squalifica la dice lunga su quanto il Napoli stia rischiando. Chissà come gongola Berlusconi secondo cui Sarri non aveva stile per il Milan. Chissà quanta sofferenza per tutti coloro che avevano esaltato in Sarri il figlio di operai diventato impiegato di banca, e poi - per testardaggine - mister. Con il giudizio di oggi - comunque vada - due belle favole si concluderanno senza lieto fine. Di Luca Telese.

Se anche il calcio dà lezioni di correttezza è la fine…, scrive Emanuele Riciscci il 21 gennaio 2016 su “Il Giornale”.

Va bene, forse Sarri ha un po’ esagerato con la sua visceralità, non fosse altro per la figura formale e “pubblica” che incarna. Ma da qui a prendere tutti il cazziatone dal mondo del calcio, no, non ci sto! Già è un nugolo di anime candide e di ramanzine finto-moraliste ovunque, per carità. Se anche dal calcio bisogna imparare, se anche il calcio è occasione per offrire lezioni buonine, di bon ton soft e cotillons, di savoir faire, di antirazzismo e corretta correttezza è la fine. Chiudete tutto, addio. Ne riparliamo con calma. Figurarsi se Mancini fosse gay per davvero; avrebbero squartato Sarri in mezzo al campo mentre suonava la banda dell’Aeronautica Militare. Mamma mia quante gonne lunghe, quanto candore. Quanti rientri a casa presto e quanti sessi sicuri. Sarri è uno di cuore, scravattato, diretto e genuino. Gli è scappato il frocio. Alè. Scommettiamo che se a Mancini fosse scappato un “fascista”, diretto verso Sarri, o un ricco bestemmione da bettola a microfono aperto, non sarebbe successo nulla o quasi? Niente gogna totale o, al massimo, una gognetta di nicchia. Nessun clamore mediatico generale. La giustizia sportiva, intanto, potrebbe optare per la multa o la squalifica breve, figlioccia di quella magistrale che si dà solo ai “fanculo”, sempre con la f iniziano, come finocchio e fascista, dei giocatori all’arbitro. In ogni caso il problema non sta in chi ha torto o ragione. Ormai ci si sveglia la mattina e ci si chiede quale contrapposizione sia stata montata ad arte per ammazzare la noia sociale e moltiplicare l’amarezza dell’inevitabile annichilimento. La vera tristezza è assistere all’ennesimo conato di paradossi che piovono dal cielo. Ogni volta che accade qualcosa di pubblicamente rilevante, speri, in cuor tuo, che le considerazioni successive mantengano un contegno, una certa aura di serietà, di dignità e delicatezza. E invece no! Un paradosso: nel paese dei balocchi, i balocchi funzionano, coerente effettivamente, il resto no. La giustizia sportiva funziona, quella ordinaria, no. Per un Ermes Mattielli crepato di cuore dopo essersi legittimamente difeso da due infami bastardi entratigli in casa, assisti alle squalifiche ab eternum di Platini e Blatter, per quanto non di italica paternità, scattano procure federali, giudici sportivi, avvocati, società, tutti sull’attenti; intercettazioni, volanti che irrompono in campo in piena partita, condanne, certezze della pena, Guardie di Finanze, Polizie di Stato, paladini, eroi, scudi crociati (…), Sarri è strunz, deve pagà e pagherà, come le squadre retrocesse in B, C, D e pure E, come i dirigenti indagati e radiati da ogni dove. E che paghi pure, allora. Ma insieme a lui, come diceva quel gran genio di Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo, paghino tutti, sì, proprio nel migliore dei mondi possibili, ipertollerante, multiculturale, multi vibrante, ipercorretto, ipergentile, ipereducato, con la gonna lunga, tanto candido, che rientra a casa presto e fa sesso sicuro. “Sono pronto a passare tutto il resto dei miei giorni dentro a Castel San Angelo a meditare. Santità avevo fatto un torto a un piccolo falegname giudio, ma sono riuscito corrompendo giudici, testimoni, uditori, avvocati, guardie, abati, funzionari, periti, amministratori a far condannare quel poveraccio solo perché lui è povero e giudio e io ricco e cristiano. Comunque io, Santità, mi inchino alla vostra volontà e sono disposto ad andare di buon grado in galera purché in compagnia dei monsignori Ralli, Fanta e Bellarmino, dei cardinali Fioravanti e Bucci, degli uditori di prima istanza, Ardenghi principe di Colleterzo, Soffici duca di Sezze, del conte Unte von Kaiper comandante della Guardia svizzera e dell’abbate di Santa Maria della Minerva…”. Sotto, tutti in Castel Sant’Angelo, anime candide, buonisti, fricchettoncelli, razzisti al contrario, italofobici compresi. L’altro paradosso: prendere il cazziatone dallo sport più scorretto e tribale, grezzo e rozzo che ci sia, è veramente troppo. Quello dei “non esempi” di allenatori e calciatori, quasi sempre incapaci di articolare una frase di senso compiuto a fine partita, del fairplay di plastica, dello squallore, delle simulazioni, delle risse sul prato, degli sputi e dei menischi rotti “quasi a posta”, delle bestemmie in campo, tronfio e ritronfio di episodi omofobi, razzisti, squadristi, stalinisti, nazisti, colecisti e chi più ne ha più ne metta. Impossibile farne una cernita da chiamare a testimonianza. Troppi. Da sempre. Ma il calcio e il suo mondo sono anche questo. E chiunque sia piombato in uno stadio, abbia giocato al pallone, non potrà aver fatto a meno di cadere in questa bolgia che solitamente, cominciava con gli insulti dei genitori all’arbitro, o tra loro, nei campi della “promozione”. Il teatro che ne deriva è tragicomico.

Il calcio, anche dopo questo siparietto, rimane un gioco maschio, l’Italia, invece, un gioco neutro…

Frocio! Finocchio! Uomo! Offese a bordo campo…, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale”. Mercoledì 20 gennaio 2016 – San Sebastiano martire – Redazione SUD, Area industriale Porto di Gioia Tauro. Oggi si celebra la Grandezza di San Sebastiano, Patrono delle confraternite della Misericordia e degli Agenti, Comandanti, Ufficiali e Sottufficiali di Polizia Locale. Degli omosessuali (anche se santamadrechiesa fa finta di non sentire le preghiere dei “froci”, di cui, peraltro, è infarcita a tutti i livelli. Dai seminaristi ai papi). E proprio in questa santa giornata “ricchiona”, prendiamo atto dell’ennesimo attacco razzista su base “finocchia”. Due Mister, due Allenatori, Sarri e Mancini, due Educatori,due Maestri di Vita litigano per uno stupidissimo pallone e uno di loro, Sarri, per offendere l’altro, Mancini, gli spara alle spalle due proiettili vigliacchi “Frocio! Finocchio!” Così, d’emblée! Con il preciso intento di deriderlo. E se anche lo fosse, dico io? Dove sarebbe lo scandalo, il peccato, il reato, l’orrore? Non è lontano il giorno in cui anche io sono stato offeso pubblicamente proprio per la mia omosessualità.  Come ebbi a dire, a scrivere, in quell’occasione, l’attacco non mi ha minimamente scosso. Anzi, ci ho anche sorriso sulla scempiaggine di chi lo aveva macchinato. Ma, essendo io persona conosciuta, ho ritenuto necessario denunciare, altrettanto pubblicamente, l’accaduto, proprio per dare un segno a chi, più debole, di queste offese, spesso, ne muore. Suicida. Mi chiesi, allora, e mi chiedo, oggi, se avessi avuto il diritto di subire l’offesa in silenzio. E cosa avrebbe significato per il timido omosessuale fermo lì, in fondo alla piazza, vedere crocifiggere il temerario Nino Spirlì senza che lo stesso contrattaccasse con la sfrontatezza e il coraggio che tanto scoriandola ad ogni occasione. Dunque, lo feci. E ferii a mia volta. Giustamente. Ieri come oggi. Dalla pubblica piazza, allo stadio. Ad ogni piè sospinto, c’è un cretino che scambia l’omosessualità per menomazione. Per handicap.  Sapendo che così non è, e, probabilmente, avendone paura. Forse, terrore della possibile propria. Ieri, una sconosciuta portavoce, oggi un illustre allenatore come Sarri,mister del (o della?) Napoli, che da del frocio a Mancini, allenatore dell’Inter. E sì che di tradizione omosessuale nella Capitale del Sud ce n’è parecchia…E non solo omosessuale, fra l’altro, ma multisessuale e multiaffettiva. Che vogliamo dire, per esempio, dei femminielli? Sono celebrati per le vie di Napoli come Cristo all’altare. E, loro sì, che vanno ben oltre l’omosessualità! “Orgoglioso di essere frocio, se lui è un uomo…” è, più o meno la risposta di Mancini al suo offensore. Sarri ribatte “Cose che succedono in campo e che lì dovrebbero restare…” Alla luce dei fatti, mi chiedo cosa significhi veramente essere Uomo. Per alcuni, probabilmente, significa “ficcarsi” dentro una donna e “governarla” a suon di schiaffi o gioielli riparatori. Per altri, invece, significa rendere gloria a Dio e ringraziarlo del dono della vita. Altri ancora, senza affetti per il trascendente, vivono rispettosi della Legge e delle regole naturali. E, poi, non ultimi, ci sono coloro che vivono alla “je m’en fous”…. Un ventaglio di varie umanità e disumanità…Fra me e me, sempre più convinto che essere Uomo sia la cosa più difficile

Virus Rai 2, 21 gennaio 2016: Vittorio Sgarbi esplosivo su “Finocchio” Sarri-Mancini. Come di consueto il giovedì sera su Rai 2 va in onda il docu-talk, condotto da Nicola Porro, Virus Il contagio delle idee che vede la partecipazione straordinaria di Vittorio Sgarbi che cura una rubrica in anteprima al programma Gli Sgarbi di Virus. Vittorio Sgarbi a Virus non si è reso protagonista del suo spazio prima dell’inizio del programma ma anche nel corpo a corpo di Virus Il contagio delle idee quando l’argomento trattato è stato quello relativo alla lite fra Sarri e Mancini ed alle parole “Frocio, Finocchio” pronunciate dal tecnico del Napoli.

Il Corpo a Corpo di Virus del 21 gennaio 2016 Rai 2: argomento è stato l’insulto omofobo di Maurizio Sarri a Roberto Mancini, avvenuto durante la partita Napoli – Inter. I protagonisti del corpo a corpo, Vittorio Sgarbi e Michele Ainis. Le parole di Vittorio Sgarbi a Virus: “Dopo la partita, il più violento sembrava Mancini e il più mite era Sarri. Mancini e Sarri sembravano due froci. Dire frocio è uno sfogo come la bestemmia. La bestemmia è un modo per dire di essere incazzato. Anche la parola “finocchio” non significa più niente. Oggi è solo un ortaggio. Mancini di cosa sei offeso?”. Poi Vittorio Sgarbi prosegue: “Finocchio non è un insulto. E’ un sfogo di una persona che ha una debolezza. Non è omofobia. Al massimo è maleducazione”. Rivediamo lo sfogo in campo dell’allenatore Carlo Mazzone. Finocchio è una parola vintage, una parola che non c’è più. Se a Mancini fosse stato detto gay, non si sarebbe offeso”. Infine nuovamente Sgarbi: “Uno incazzato con se stesso si scarica con un altro. Sono sfoghi. Mancini e Sarri sono due vecchi rincoglioniti”. Vittorio Sgarbi show ieri sera a Virus: il critico d’arte, ospite fisso del talk show di Nicola Porro, ha commentato la vicenda che sta tenendo banco da una settimana, Maurizio Sarri che ha dato del “finocchio” a Roberto Mancini sul finire di Napoli – Inter, martedì sera. Com’era prevedibile Sgarbi non si è risparmiato: agli spettatori è stato chiaro che avrebbero assistito a un vero e proprio flusso di coscienza fin dalla copertina di Virus ad opera di Sgarbi stesso: Per gentile concessione mia, intorno alle undici ci troverete a dialogare in maniera molto urbana su questa materia di “finocchi, froci, gay”. Adesso parliamo d’arte. Perché tanto adesso gli insulti sono stati depenalizzati: se io vado da questo qua e gli dico stronzo e poi gli do cinquecento euro, lui mi dice: “Me lo dica ancora!”. Quanto a capra, non è un’offesa ma un riconoscimento di valore. Tanto che voglio essere pagato, visto che incontro molti giovani che mi dicono “Mi dia della capra!”, però non gratis. La puntata di Virus prosegue come di consueto: si è parlato di banche, di furbetti del cartellino e dell’attuale situazione politica e, ormai in seconda serata, arriva il “tanto atteso” momento di Sgarbi. Dopo una lunga clip in cui si fa la storia del turpiloquio nelle aule parlamentari italiane ed europee, tra un “somaro” e un “rompicoglioni”, si torna in studio per il dibattito tra Sgarbi e il costituzionalista Michele Ainis, con Alba Parietti in collegamento. Ed è proprio dall’eterno scontro con la Parietti che Sgarbi dà fuoco alle polveri: Chi attacca la Parietti è un finocchio, perché la Parietti ha solo una cosa da dare: il suo amore. È un bene divino. Chi la attacca non capisce un cazzo. E poi, entrando più nel merito della questione, tra depenalizzazione dell’ingiuria e valutazioni su cosa sia davvero un’ingiuria Sgarbi dà la stura a un ampio repertorio di espressioni colorite: Finocchio non è un insulto. È un sfogo di una persona che ha una debolezza. Non è omofobia. Al massimo è maleducazione. Finocchio è una parola vintage, una parola che non c’è più. Se a Mancini fosse stato detto gay, non si sarebbe offeso. Mancini e Sarri sono due vecchi rincoglioniti. L’atmosfera in studio si scalda, con Sgarbi che se la prende con i calzini di Nicola Porro: Guarda che calzini da finocchio che hai. Rossi con i pallini blu. Ma ti sembra il caso? Vuoi vergognarti di fare il finocchio a Rai2! È una cosa scandalosa! E conclude, evidentemente annoiato dalla discussione: Che rottura di coglioni questa puntata!

Sgarbi sta con Sarri: "Quale insulto, solo incazzatura. Un finto caso". Sembra che la polemica Sarri-Mancini sia destinata a tenere banco ancora per un po' di tempo. Argomento del momento, anche Vittorio Sgarbi, intercettato da TuttoMercatoWeb, ha voluto dire la sua a riguardo, prendendo le difese del tecnico partenopeo: "Mi sembrano discussioni senza senso, puro vaniloquio. Non se ne può più. E' ormai un modo di dire, non vedo l'elemento omofobo. Mi sembra un finto caso: anche se ci fosse del malanimo, non è un insulto, anche perchè stiamo parlando di una categoria rispettabilissima. Del resto cosa ha detto Sarri?". E sull'appellativo di "frocio" o "finocchio", il noto critico d'arte non ha alcun dubbio: "Finocchio è una parola tramontata, desueta. Se oggi dico ad un bambino finocchio non sa a cosa mi riferisco. Dire frocio ad una persona può essere una forma di 'incazzatura', ma non vedo l'insulto. Anni fa dissi ad un gruppo di ragazzi che erano dei... culattoni raccomandati ma perchè a loro avevo chiesto se avessero fatto il servizio militare e mi risposero di no. Era un modo di dire, non un insulto. E anche adesso tendo ad escludere che sia un insulto quello di Sarri a Mancini".

L'ipocrisia linguistica nello sport. Duro faccia a faccia nel finale di partita tra Napoli e Inter di Coppa Italia del 19 gennaio 2016 delle 20.45 su Rai 1. I due allenatori Roberto Mancini e Maurizio Sarri hanno avuto un duro scontro verbale, che si è concluso con l’espulsione del tecnico nerazzurro. Mancini accusa duramente il tecnico dei partenopei: “E’ un razzista. Uomini come lui non possono stare nel mondo del calcio. Ha usato parole razziste, mi sono alzato per chiedere dei cinque minuti di recupero. Ha gridato ‘fr…o’ e ‘finocchio’. Sarei orgoglioso di esserlo, se lui fosse un uomo”. “Persone così non dovrebbero stare nel calcio – lo sfogo di Mancini nel dopopartita – Ha sessanta anni, il quarto uomo ha sentito e non ha detto nulla. Siamo stati allontanati entrambi. Questo episodio cancella tutto il resto della gara, ma è una vergogna. Negli spogliatoi l’ho cercato e mi ha chiesto scusa. Ma deve vergognarsi, non parlo della partita. In Inghilterra non l’avrebbero messo nemmeno su un campo di allenamento”. La replica del tecnico partenopeo non si fa attendere: “Mi ero innervosito per l’espulsione di Mertens, non ce l’avevo assolutamente con Mancini. Ho visto che si lamentava per i minuti di recupero e mi è scappata una parola, ma sono cose da campo e dovrebbero terminare lì – ha dichiarato Sarri –. Sarebbe stato meglio se non fosse accaduto nulla, ma per me si è trattato di una litigata da campo. Mi è sfuggito un insulto, gli ho chiesto scusa e lui era contrariato, mi aspetto che ora si scusi anche lui”. “Non mi parlate di omofobia o cose del genere, è un’esagerazione – prosegue Sarri -. Ero inferocito per l’episodio, non ce l’avevo con Mancini e la mia parola non aveva nessun secondo fine. Non ricordo cosa gli ho detto. Queste cose dovrebbero rimanere in campo, perché lì c’è una tensione diversa dal solito, non come nella vita normale. Era qualcosa che doveva finire in pochissimi secondi. Io non l’avrei fatta uscire dal campo, però accetto anche che un’altra persona la pensi diversamente. E’ stata un’offesa inopportuna, ma non è normale fare uscire questi episodi dal campo. Più di chiedergli scusa non so cosa altro fare, domani glielo ripeterò se mi procuro il numero. In campo ho sentito e visto di peggio, sotto stress può succedere. Non c’è nessun tipo di discriminazione, mi è sfuggito questo termine”.

TRA IL ‘’FIGHETTO’’ MANCINI E IL ‘’CAFONE’’ SARRI, scrive Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia. I due se le sono dette di santa ragione. Ha cominciato Maurizio Sarri. “Frocio” o “finocchio”, non s’è capito bene. Il concetto non cambia, anche se, come vedremo, si tratta di un “frocio” o “finocchio” senza concetto. Traviato dalle sue letture, Sarri. Quello sporcaccione di Charles Bukowski, da incazzato, avrebbe apostrofato il Mancio allo stesso modo, dovendo semplificare la sua avversione da uomo di tuta, viscere e pelo selvatico per un damerino col nodo sempre alla moda e il foulard che non diventa mai un nodo scorsoio. “Vecchio cazzone!”, ha replicato da par suo, il Mancio, a sua volta reo confesso del subliminale che percepisce nel tipo alla Sarri (solo cinque anni più di Mancini) un patetico parvenu, praticamente uno straccione abusivo che non ha mai pagato un lustrascarpe e puzza di rutto da osteria. Poche storie. Da che parte stai? Da quella di Sarri, ovvio, dovendo stare. Detto che “frocio” o “vecchio cazzone” (l’insulto come voluttà a offendere poggia sulla prima), dal momento in cui sono ufficialmente entrati nel dizionario degli insulti, non sono più concetto,  sfilati dall’ideologia eventualmente razzista che li sottende (ma i froci e i vecchi cazzoni sarebbero una razza?), ma solo astrazioni della bile, maniglie del subitaneo scoppio di odio, non sarebbe stato più elegante che i due se la fossero vista negli anfratti del San Paolo, magari con un manesco regolamento di conti, in cui probabile il Mancio avrebbe avuto la peggio, penalizzato oltre che dal fisico anche dal dover prestare attenzione alla piega del cappotto e alla sfregiabilità del lineamento che lo fa così putto a cinquant’anni? E, invece, Mancini, a partire dal promettente e sembrava minaccioso gesto del “ci vediamo dopo”, s’è lasciato andare al deplorevole: “Maestra, ha sentito cosa mi ha detto quel cafone di Sarri, dell’ultimo banco, la bestia in tuta?”. Aggiungendo, per aggiustare la mira da fighetto, l’odiosamente corretta accusa del “razzista”. Per dirla tutta, ho trovato assolutamente perfetto e inesorabilmente etico a suo tempo lo Zinedine Zidane che si cancella dalla partita più importante della sua vita, trasformandosi da alato fuoriclasse in Minotauro, nel momento in cui quel mediocre di Materazzi gli tocca le donne della famiglia. Un’esemplare capocciata in pieno torace, e poi zitto per la vita, altro che maestrina. E niente scuse. Scuse di che? Dettaglio non piccolo: nel corso dei cento minuti che passano dal primo all’ultimo tunnel i ragazzi del pallone, allenatori e dirigenti inclusi, se ne scambiano a tonnellate d’insulti sanguinosi, tra quelli più gettonati nel buon mercato dell’offesa all’ingrosso. E dunque? Che si fa? Imponiamo la dittatura del galateo nella gabbia del macho?

«Mi ero innervosito per la decisione su Mertens, ho visto che lui si lamentava del recupero, sono cose da campo che dovrebbero finire in campo. I vecchi mi hanno sempre detto che quello che succede in campo finisce lì, poi ci si stringe la mano e finisce tutto. Ho chiesto scusa a Mancini negli spogliatoi, lui non le ha accettate perché era contrariato, domani penso le accetterà. E mi aspetto anche io delle scuse perché, da uomini di sport, se una persona ti chiede scusa sarebbe giusto accettare». È la risposta di Maurizio Sarri alle accuse di Roberto Mancini dopo la lite nel finale di Napoli-Inter. «Cosa che gli ho detto? Non lo ricordo - continua Sarri a Rai Sport - ero inferocito e può darsi che lo abbia offeso. Insulti omofobi? Mi sembra esagerato, erano insulti di rabbia e senza secondi fini. Gli posso aver detto democristiano, gli posso avere detto qualsiasi cosa, ma non mi ricordo. Non ce l'ho con Mancini, mi è scappata una parola e ho perso lucidità dopo l'espulsione di Mertens perché per me non era simulazione. Certe litigate però non dovrebbero uscire dal campo e non è normale questo. Scuse agli omosessuali? Mi è sfuggito questo termine, ma da parte mia non c'è discriminazione di nessun tipo». ''Negli spogliatoi ho cercato Mancini e mi sono scusato. Ma lui non le ha accettate e mi ha detto: ''Sei un vecchio cazzone''. Mi sembra abbastanza razzista questa cosa''. E ora Sarri rischia 4 mesi di squalifica per le regole FGCI...

Maurizio Sarri non è nuovo a dichiarazioni sugli omosessuali. Ai tempi dell'Empoli, in Serie B, l'attuale tecnico del Napoli sbottò in conferenza stampa dopo un ko con il Varese. «Il calcio è diventato uno sport per froci - disse -. Abbiamo subìto il doppio dei falli, ma abbiamo avuto più gialli noi. E' uno sport di contatto e in Italia si fischia molto di più che in Inghilterra con interpretazione da omosessuali».

Sarri ha sbagliato, sue parole gravi e inopportune. Ma è incredibile il processo mediatico che ha subito in Rai, scrive Valerio Andalò. Dopo Milk e Andrews ecco Mancini, Nagatomo, Felipe Melo novelli paladini per i diritti della comunità LGBT. Da stasera, grazie alla denuncia di Roberto Mancini, eroe dei nostri tempi e degno erede di Martin Luther King, il mondo sarà finalmente un posto migliore. Mancano pochi minuti al fischio finale di Napoli Inter, con i nerazzurri in vantaggio. Mancini protesta, Sarri pure, la tensione è alle stelle. I due allenatori litigano, se ne dicono di cotte e di crude e alla fine vengono espulsi. A match concluso, durante le interviste di rito, ecco il j'accuse dell'allenatore nerazzurro: "Sarri è un razzista, mi ha dato del frocio. Non può stare nel mondo del calcio". Dopo questa affermazione, uno "scosso ed emozionato" Mancini si congeda dai giornalisti preferendo lasciare il San Paolo. Nel mentre la Società di Appiano Gentile imponeva il silenzio stampa ai suoi tesserati. Su mamma RAI (Zona 11 pm, trasmissione condotta da Marco Mazzocchi) inizia il processo mediatico, come se già non bastassero le agenzie di stampa, anche internazionali, e la rete. Sarri è messo sulla graticola fin dall'inizio, si chiedono punizioni esemplari e si sostiene che l'omofobia del tecnico toscano sia "reiterata". In particolare Giampiero Timossi, che si distinguerà per tutta la serata sottolineando il gesto eroico di Mancini e criticando aspramente l'allenatore toscano, attribuisce a Sarri ulteriori "esternazioni omofobe". Pronunciate in epoche passate e in campionati minori e per questo passate inosservate. Nel frattempo "il becero razzista" interviene in diretta. Visibilmente contrito e mortificato ripete più volte di aver sbagliato, sostiene di essersi scusato con Mancini, ricorda il suo passato e ritiene che certe cose potrebbero pure chiudersi al fischio finale. Apriti cielo, già messo alla berlina da tutto lo studio (Di Marzio escluso), la dose viene rincarata. Si richiedono nuovamente pene esemplari, si sottolinea per l'ennesima volta l'eroico comportamento di Mancini, neppure fosse Libero Grassi e si spera che questo spiacevole episodio possa servire a qualcosa, essere utile "affinchè qualcosa cambi nel mondo del calcio". Peppino Impastato Timossi, supportato egregiamente da Marino Bartoletti Mujica, chiedeva la scomunica di Sarri, riteneva che questa volta non si poteva stare zitti e voltarsi dall'altra parte, si vergognava per come i magazine esteri avessero trattato lo scottante caso. Il tutto condito da Marco Ponzio Mazzocchi che, tra un balbettio e una banalità, se ne lavava le mani mentre scorrevano in sovraimpressione i numerosi tweet degli ascoltatori, campioni del politically correct. Ebbene, una vera e propria fiera dell'ipocrisia. Nessuno ha ricordato le numerose interviste di Sarri, da sempre uomo colto, sensibile e progressista. Nessuno ha ricordato le frasi di Lippi e di Moggi (che crede di essere un novello Matteotti) sugli omosessuali. Nessuno ha ricordato i comportamenti dell'ex DS bianconero. Nessuno ha ricordato il coro di Mandorlini o le esternazioni di Tavecchio sui gay, le donne e gli extracomunitari (il quale tra l'altro dovrebbe esprimersi con parole non lusinghiere nei confronti di Sarri in quanto Presidente della Figc. E qui si ride di gusto). Nessuno ha ricordato le parole di Borriello a proposito di Saviano, nessuno ha ricordato le frasi Lotito o di Conte sulla magistratura. Nessuno ha ricordato i casi Sculli e Bari. Nessuno ha ricordato i canti dei tifosi dell'Hellas all'indomani della morte di Morosini e della strage nel Canale di Sicilia. Nessuno ha ricordato lo striscione pro mafia esposto a Palermo. Nessuno ha ricordato il comportamento di una parte della tifoseria della Roma dopo la morte di Ciro Esposito. Ma si potrebbe continuare all'infinito, tra tesserati e ultrà, non propriamente eredi di monsignor Della Casa. Soprattutto sono passate in secondo piano le offese che tutte le domeniche (e non solo) i napoletani devono subire in quasi tutti gli stadi (e non solo) della penisola. Ma in questo caso si tratta solo di goliardia, mica si spera davvero che il Vesuvio "si risvegli". Per il resto nessuna difesa d'ufficio spetta al tecnico toscano. Sarri ha sbagliato, ha usato parole gravi e inopportune e in certi contesti le parole hanno un peso specifico non indifferente. Ma si deve anche riconoscere che l'allenatore azzurro si è assunto le proprie responsabilità, ha affrontato i giornalisti ammettendo le sue colpe, si è dato in pasto ai media senza cercare giustificazioni puerili. Non si è dato alla macchia trincerandosi in un colpevole silenzio come avrebbero fatto alcuni suoi colleghi. Non ha negato a prescindere. Viceversa "lo sfogo pubblico" di Mancini e il successivo fuoco incrociato di alcuni giornalisti sono parsi sospetti. Man mano che passavano i minuti e la polemica montava è forse balenata nelle menti di alcuni la parola destabilizzazione? Come diceva Andreotti a pensar male a volte ci si prende.

Sarri vs Mancini, le polemiche, l’ipocrisia, le reazioni. Un tema caldo e spinoso, una polemica di tipo internazionale. Ho riassunto il mio pensiero in punti. Ora andiamo avanti, scrive il 20 gennaio 2016 Leonardo Ciccarelli su “Fan Page”. Ennesima polemica, ennesimo teatrino, ennesima sceneggiata tutta italiana. La questione è spinosa, difficile, non chiara come la stanno facendo i media italiani o i tifosi partenopei. Andiamo per gradi.

Gli insulti. Gli insulti nel calcio ci sono, nello sport stesso ci sono. E' intrinseco forse della natura umana sparare fuori cose poco piacevoli mentre si fa uno sforzo fisico o mentale per battere un diretto avversario. Possiamo definirlo naturale quasi. Vige una regola fondamentale però perché parafrasando ciò che si dice di Las Vegas: ciò che si fa in campo, resta sul campo. La manfrina indegna di Mancini davanti alle telecamere è ipocrita e fuori luogo, premeditata. Va detto altrettanto che l'insulto di Sarri apre un nervo scoperto e va condannato senza se e senza ma. Poteva/doveva rispondere in altro modo il tecnico toscano.

Razzismo-Omofobia. C'è una differenza tra queste due parole. I due tecnici hanno davvero usato a sproposito il termine "Razzismo" per indicare ciò che è successo ieri. Mancini ha aperto le danze definendo razzista l'insulto di Sarri, che è chiaramente omofobo. Sarri ha risposto in conferenza stampa dicendo che l'esclamazione "Vecchio di merda" è razzista. No signori, non ci siamo. E' un tema delicato che stiamo facendo scadere in una puntata di "Vrenzole" dei The Jackal. Il razzismo è quello che subiamo settimanalmente quando su tutti i campi ci danno il "Benvenuto in Italia", l'omofobia è ritenere insulto l'avere un orientamento sessuale diverso dal proprio.

L'ipocrisia, quella di Sarri. Il tecnico non può dire che è il primo vocabolo che gli è venuto in mente, non è la prima volta che succede perché anche ai tempi dell'Empoli in B successe un episodio simile che fu duramente condannato. Ovviamente una cosa è farlo contro il Varese, l'altra contro l'Inter.

L'ipocrisia, quella di Mancini. Il tecnico dell'Inter si è riempito la bocca con la parola "Razzismo". Un gesto ipocrita e fuori luogo da chi con l'amico Mihajlovic apostrofava con "Negro" e lo insultava tutti i calciatori con un colore di pelle diverso dal proprio. Un gesto ipocrita e fuori luogo da chi difende i tifosi dell'Inter quando si fanno vedere con le buste della spazzatura e le mascherine ogni volta che affrontano il Napoli, dicendo che sono solo sfottò.

L'ipocrisia, quella italiana. Ieri mentre il popolo dell'etere calcistico si indignava condannando Sarri, su altre reti nazionali andava di scena una prosopopea sul matrimonio gay, con più contrari che favorevoli. Un'ipocrisia tutta italiana che si indigna se Sarri dice "Frocio" ma vota per anni Berlusconi che dice "Meglio appassionato di belle ragazze che gay". Un'ipocrisia all'inverso, quella napoletana, che difende a spada tratta Sarri, che ha sbagliato. Difendere Sarri in questa situazione quando pochi mesi fa si aveva la bandiera arcobaleno per festeggiare la legge americana sui matrimoni tra coppie dello stesso sesso è ipocrisia allo stato puro. Altrettanto ipocrita è difenderlo per un insulto del genere. Pensate a parti inverse, con Mancini che dà del terrone a Sarri. Cosa sarebbe successo?

Le scuse. Offendere in un momento di rabbia e tensione è successo a tutti nella vita ed è umano, chiedere scusa, invece, succede a pochi. In questo Sarri è stato un signore, Sarri che sicuramente non è un omofobo e che ha chiesto scusa a Mancini, alla Rai, in conferenza, ovunque ci fosse stato bisogno. Mancini pare che le scuse non le abbia accettate. Indigniamoci anche per questo, rifacendoci al punto sugli insulti.

Lo shock. Siete sicuri di vivere nel terzo millennio? No perché se lo siete andate a leggere i commenti sulle pagine dei tifosi del Napoli. Rabbrividirete.

L'arcigay. "Ci tengo a precisare che non voglio puntare in nessun modo il dito contro Sarri, non servirebbe a niente. Quello che voglio far capire che questi tipi di offese avvengono sui campi di serie minori tutti i giorni senza che nessuno se ne prenda cura". Il punto focale della questione è questo e lo centra in pieno il delegato nazionale dell'Arcygay, Antonello Sannino in diretta a Club Napoli All News su Teleclubitalia. L'insulto di Sarri è grave perché è in cima alla piramide, non perché lo abbia fatto lui contro Mancini. Poteva farlo chiunque, sarebbe stato uguale.

L'estero. All'estero la polemica è stata ripresa pari pari, questo dovrebbe far pensare tifosi e colleghi. I giornalisti dell'estero non vogliono destabilizzare la squadra ma ritengono ugualmente gravi gli insulti di Sarri. Questione che a Napoli non si è colta. Ora il tecnico rischia una squalifica, perché nello sport professionistico non valgono le regole dei campetti di quartiere. Perché Suarez ha chiamato "Negro" Evrà ed è stato squalificato per 8 giornate, nonostante lo abbia fatto in campo. Il professionismo è questo. Se in tv un telespettatore chiama e dice cose contro qualcun altro, il giornalista è tenuto per legge a distaccarsi altrimenti è punibile quanto chi lo ha detto. Questo è il professionismo, questa è la differenza tra Serie A e Eccellenza.

L'inaccettabile moralismo, scrive Dario De Martino su “Tutto Napoli” - “Ho avuto amici omosessuali che sono rimasti amici per tutta la vita”. Non abbiamo dubbi sul fatto che Maurizio Sarri non sia omofobo. Così come non c’è dubbio che Maurizio Sarri abbia sbagliato, e lo diciamo a chiare lettere. L’uscita del tecnico azzurro è stata sicuramente pessima e da condannare. Il tecnico bagnolese, ascoltato a fine partita dalla procura federale, subirà le adeguate conseguenze per queste parole assolutamente fuori luogo. Ma è pure vero che la tensione del campo porta a dire tante parole che in altre circostanze mai Maurizio Sarri avrebbe detto. Se ne sentono tantissime di bestemmie e frasi irripetibili nel rettangolo di gioco. E' una giustificazione!? No, assolutamente! Ma Mancini conosce bene certe dinamiche e avrebbe dovuto chiarire faccia a faccia con Sarri la questione, senza scatenare un putiferio mediatico. Invece l'allenatore jesino ha preferito dirle in pubblico. Il sospetto è che l'abbia fatto per seminare bufera nel meraviglioso clima che si respira a Napoli. E sembra ci stia riuscendo. A leggere i primi titoli di certa stampa e le prime parole degli opinionisti del nulla, si è già capito l'andazzo delle prossime settimane: un processo infinito a Maurizio Sarri e tanta, tantissima ipocrisia. Infine, e chiudiamo qui la brutta parentesi, ricordiamo che Mancini giudicò come semplici sfottò i soliti cori contro Napoli, che pure ieri si sono sentiti dal settore ospiti. Per questo non sono accettabili da lui lezioni di moralismo. “Il moralista dice di no agli altri, l'uomo morale solo a se stesso” (Pier Paolo Pasolini).

Sarri sbaglia e chiede scusa. Le accuse incoerenti dell'"impeccabile" Mancini celano una strategia, scrive Gennaro Di Finizio il 20.01.2016 su Tutto Napoli.net..“Sarri è razzista. Uomini come lui non possono stare nel mondo del calcio. Ha usato parole razziste, mi sono alzato per chiedere dei cinque minuti di recupero. Ha gridato frocio, finocchio. Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo, persone così non dovrebbero stare nel calcio”. Ha esordito così Roberto Mancini nel post partita del match vinto contro il Napoli. Accuse gravi, rivolte all'indirizzo di Maurizio Sarri per quel parapiglia venutosi a creare nel finale di partita. Il tutto da una lamentela dello stesso Mancini all'indirizzo dell'arbitro. Una lamentela, già di per se un atteggiamento che l'allenatore da buon moralizzatore dovrebbe redarguirsi. Ma Sarri non si nasconde. L'allenatore del Napoli non costruisce scuse davanti alla telecamere, se non quelle rivolte all'allenatore nerazzurro e non accettate. "Mi ero innervosito per l'espulsione di Mertens, non ce l'avevo assolutamente con Mancini. Ho visto che si lamentava per i minuti di recupero e mi è scappata una parola, ma sono cose da campo e dovrebbero terminare lì gli ho chiesto scusa e lui era contrariato”. Un battibecco che farà discutere, una polemica sollevata ad hoc da Roberto Mancini. In campo l'Inter non ha meritato in maniera netta la vittoria, bisogna dirlo, e le differenze sotto il punto di vista del gioco evidenziate nel corso del campionato, sono state chiare anche nella serata di coppa Italia, seppur il Napoli non abbia giocato la sua miglior partita. Chiaro che l'allenatore nerazzurro abbia sollevato una questione “da campo” come la definisce Sarri, probabilmente anche per andare a destabilizzare un ambiente come quello partenopeo che sta vivendo un momento di puro entusiasmo. Un attacco che viene da fuori del rettangolo verde, costruito su un episodio dal moralismo facile. Una situazione controversa, che adesso Sarri dovrà gestire nel migliore dei modi. Certo, il moralizzatore Mancini ci ha messo poco a lanciare accuse di razzismo a Sarri. Ma, forse, il moralizzatore non ricorda bene il modo in cui egli stesso ha gestito la questione dei cori razzisti, rivolti proprio dai suoi tifosi verso i napoletani (episodio verificatosi, tra l'altro, anche ieri sera). "Era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi", giustificò Mancini quando gli si rivolse una domanda proprio riguardante la questione dei cori razzisti ai partenopei: “Non è stato bello leggere certe scritte, ma non si è trattato di una cosa così grave". Niente di grave, quindi. Mentre le parole di Sarri, dettate da un momento concitato dovuto all'emotività della partita, sono state definite “accuse gravi”, da persone che “non dovrebbero stare nel calcio”. Cose da campo, come quelle che successero tra lui e Balotelli ai tempi del Manchester City, quando il moralizzatore ed il suo giocatore vennero addirittura alla mani. Un comportamento riprorevole, quello. L'allenatore del Napoli ha sbagliato e chiesto scusa, e questo dovrebbe bastare, ma Mancini in TV ha raccontato quello che è successo tra lui e Sarri, accusandolo di razzismo.Adesso mi chiedo: perchè il signor Mancini non ha raccontato la sua minaccia a Sarri? ( ti aspetto fuori...)e le sue offese....(sei un vecchio coglione di...) Perchè non ha fatto la stessa cosa quando i tifosi del Napoli, giocatori e allenatore vengono bersagliati da insulti e cori razzisti ad ogni partita ? perchè non ha fatto la stessa cosa sulle esternazioni omofobe e antisemite di Tavecchio?...Questa ipocrisia last minute non va bene affatto, perchè Mancini sa da uomo navigato che sul campo e sulle panchine capita di tutto durante una partita.Quanti giocatori bestemmiano in campo? che facciamo: li accusiamo di blasfemia e li mettiamo al rogo? Mancini forse dimentica le sue dichiarazioni quando la curva dell'inter fu squalificata per cori razzisti contro il Napoli? ...(“era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi”.....) Caro Mancini se è solo uno sfottò allora siamo tutti Mancini e non aggiungo altro.

Quando Mancini non vedeva…, scrive Pierangelo Consoli il 20 gennaio 2016. Lite nel dopo gara: Mancini attacca Sarri per Omofobia, divampano le polemiche. Parole molto forti del Mancio e i giornalisti rincarano la dose. Il vero problema è che quest’anno del Napoli non si riusciva a dire nulla di male e la cosa puzzava a molti. Niente droga, discoteche, prostitute e malavita. Solo lavoro, sacrificio e meritocrazia. Questi termini che non si confanno all’idea nazional popolare che si ha del capoluogo campano, non era possibile, qualcosa di storto, di becero, ci doveva essere e adesso, come sempre accade, tutti ci sguazzeranno felicemente, come maiali nel fango. Quando Sinisa Mihajlovich tesseva le lodi di Željko Ražnatović, per tutti meglio noto come Arkan la tigre. Un criminale di guerra Serbo che per tutti i ruggenti anni novanta si è macchiato di crimini di Guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e pulizia etnica. Quando Dejan Stankovich esibiva verso gli ultras Serbi con il numero 3, che sta ad indicare Dio, Patria e Zar, praticamente l’equivalente nazionalista serbo del saluto Nazista. Quando Paolo Di Canio correva verso la curva della Lazio come un esaltato, facendo proprio il saluto Nazista. Quando la curva dell’Inter venne squalificata per cori razzisti all’indirizzo dei Napoletani, a quel tempo, e in tutte le situazioni indicate precedentemente, Mancini manteneva il suo aplomb, sapeva minimizzare, volgeva ciuffo e foularino dall’altra parte. Certo è probabile che Il Mancio, conosca assai meglio la parola “Frocio” che la storia del ventesimo secolo, ma di sicuro, quando si tratta degli amici, è più facile farsi una risata, dire: “che ci vuoi fare…” o, persino, “sono cose di campo…”. Si perché questo è successo ieri, una cosa di campo. Certo Sarri ha sbagliato, usare certi termini è becero e offende la sua intelligenza, ammesso che le abbia davvero usate certe parole, perché Sarri ha avuto persino l’onestà di non smentire, ma nemmeno confermare, avrebbe potuto dire Mancini ha capito male e tutto finiva lì. Si sono usate parole assai dure, nel dopo gara, si è parlato di Omertà, di inadeguatezza a certi livelli, si è detto che è indifendibile, che le sue scuse non si possono accettare, e non si sono proferite a caldo, in preda alla trans agonistica, ma comodamente seduti in uno studio televisivo. Addirittura si sono andati a cercare i precedenti, dando vita ad un processo farsa stile Soviet. La verità è che negli sport di contatto certe cose accadono, sono sempre accadute, nel calcio, come nel rugby, come nel pugilato, solo che tutti hanno sempre avuto la decenza di soprassedere, una volta che il match era finito. Perché sono cose di campo, appunto, non si tratta di omertà, ma di osservare un codice, delle regole non scritte, ma che tutti hanno sempre osservato, che forse da fuori sembrano senza senso come osservare un dialogo tra sordo muti, ma chiare, chiarissime, a tutti quelli che appartengono ad un certo mondo. Mancini non è un eroe, è un permaloso, avrebbe potuto risolvere la cosa a quattrocchi, con il diretto interessato, invece ha fatto la figura dell’educanda, del catechista oltraggiato. E poi finiamola di dire sempre che all’estero certe cose non succedono, siamo stufi di essere offesi di provincialismo, all’estero accade tutto quello che accade anche da noi.

Sarri e l’ipocrisia del calcio, scrive Antonio Ruzzo il 20 gennaio 2016 su “Il Giornale”. Non per difendere Sarri, perchè si defende benissimo da sè e gli insulti a Mancini sono un brutto episodio. Però tutto questo casino ce lo potevamo risparmiare. Ce lo potevano risparmiare prima Sarri e poi Mancini. Gay, diritti civili, matrimoni omosessuali, adozioni sono argomenti che meritano scenari per discussioni più serie, non gazzarre da campo o da bar. E’ chiaro che all’allenatore del Napoli quella frase gli è scappata. E’ chiaro che ha detto una stupidaggine. Però poteva e forse doveva finire lì anche perchè il tecnico azzurro ha ammesso chiaramente di aver fatto una “cazzata” e ha chiesto scusa prima a Mancini e poi a tutti quelli che si sono sentiti offesi. E oggi chi chiede più scusa? Chi ha più il coraggio di andare davanti a una telecamere ad ammettere un errore? Ma il punto è un altro. Che l’antirazismo sia un valore è fuori discussione. Che la “lezioncina” venga dal calcio lascia un po’ più perplessi. Certo sono state fatte campagne pubblicitarie, le squadre se lo sono scritte sulle magliette che al razzismo si deve dire stop, le entrate in campo sono fatte tenendo pe mano bimbi di tutte le nazionalità e di tutti i colori. Bello, tutto molto bello come direbbe Bruno Pizzul. E allora che valga sempre. Che non sia una recitina ad uso e consumo proprio o di un momento o la rabbia che esplode contro un tecnico che tutti considerano un po’ un parvenu e che sta scombinando forse degli schemi acquisiti e non solo perchè va in panchina con la tuta. Perchè sinceramente così pare. Così pare in un movimento sono “morali” le scommesse anche clandestine, dove ai bambini molti allenatori insegnano a simulare, dove la mano di Maradona che inganna l’arbitro diventa la “mano de Dios”. In un mondo che dove l’omertà su scandali e molti altro è all’ordine del giorno, dove di doping e morti di Sla non se ne parla come se nulla fosse mai accaduto. Sembra la recitina di un mondo dove sugli spalti il razzismo è nei cori di tutti i giorni, negli striscioni, nelle aggressioni. Sembra una lezioncina che però arriva da un “prof” che fuma in classe. Allora viene da chiedere a Mancini, che questo polverone ha sollevato, dov’era quando il presidente Carlo Tavecchio insultava donne ed immigrati e soprattutto dov’è quando i tifosi dell’Inter (ma non solo loro) intonano i cori con “Napoli colera” o quando invitano il Vesuvio a seppellire la città?  Quando succederà ancora, perchè succederà, mister Mancini anzichè darsi una pettinata al ciuffo e girarsi dall’altra parte facendo finta di nulla, provi ad andare in mezzo al campo a gridare la sua rabbia…

Povero Sarri, scrive Paolo Di Caro, il 20 gennaio 2016 su “Quelsi”. Nel calcio fai presto ad affibbiare etichette senza senso a gente che guadagna milioni di euro l’anno, per poi andare in tilt al primo “frocio” urlato da un allenatore a un suo collega col ciuffo ribelle. Maurizio Sarri, scartato dal Berlusca per la panchina del Milan perché “comunista”, si avventurò in una intervista a tutto campo, nella quale anziché parlare di schemi, punizioni e calciatori, fu indotto da Andrea Scanzi (manco a dirlo) a raccontarci delle sue simpatie per Landini, del papà operaio, del nonno partigiano, delle sue letture impegnate a colpi di Bukowski, Fante, Vargas Llosa (i primi due li ho letti anch’io, a dimostrazione che di luoghi comuni si muore). Da ieri sera Maurizio Sarri è precipitato nell’inferno del razzismo, del sessismo, del “reazionarismo”, del pubblico ludibrio, della gogna mediatica, perché nel finale concitato di Napoli-Inter di coppa Italia, irritato da chissà cosa, avrebbe dato del “frocio e finocchio” a Roberto Mancini, subito corso in sala stampa a raccontarlo per dire che Sarri “non dovrebbe allenare più”. Scanzi e Mancini, due col ciuffo da intellettuali modaioli (parlo per invidia) che hanno dondolato a turno l’altalena di un uomo “normale”, coi suoi pregi e i suoi difetti, con “l’ignoranza” molto diffusa in un mondo che ti fa passare dall’anonimato alla ricchezza senza sottoporti a lezioni o esami di bon ton, galateo o politicamente corretto. Scanzi si affannò a farne una icona del “calcio operaio”, ossimoro postmoderno per definire uno dei pochi che non trovi nel tempo libero a sperperare i soldi “sudati” sul campo; Mancini, di contro, lo scaraventa nella melma, portandolo senza troppa fatica dalla parte sbagliata dei dibattiti contemporanei su razzismo e omofobia, quasi fosse un “maitre a penser” e non un bravo allenatore di provincia. Lui è Maurizio Sarri: mai stato Proudhon, tanto meno Jack lo Squartatore o un cacciatore di omosessuali; uno di provincia, si, con un linguaggio spesso borderline, a volte molto oltre la linea. Deve imparare a controllarsi e a non “bestemmiare” a favore di telecamera, come un Borriello qualsiasi, perché l’ipertecnologia non ti perdona nulla, anche quando la Coppa Italia la trasmette l’inguardabile e antidiluviana mamma Rai. In fondo, però, in un mondo ipocrita come quello del calcio la colpa è un po’ sua che c’è cascato: non poteva dire a Scanzi di leggere solo la Gazzetta dello Sport, riservandosi Bukowsky per una privatissima serata davanti al camino con sigaro e whisky irlandese? Adesso lapidatelo, suvvia.

Serie A Napoli, Giordano: «Sotto la tuta di Sarri c’era il fratello gemello». Il tecnico degli azzurri ha perso il controllo di se stesso, s’è lasciato andare in un linguaggio che (non solo pubblicamente) non gli appartiene, ha sfondato il muro del suono con un insulto che non può essere etichettato o classificato e s’è ritrovato al centro del villaggio globale, sopraffatto dalla comprensibile controreazione ad una frase choc che però non racchiude un uomo, che sa essere ironico e garbato, paradossale e istrionico e che comunque s’è lanciato nel vuoto, scrive Antonio Giordano il 20 gennaio 2016. L’estasi, poi la notte del tormento: il confine tra il palcoscenico e la gogna è sottilissimo, invisibile, però percettibile. È una voce (stonata) che s’alza nel san Paolo e diviene un’eco che fa il giro del Mondo, perché ormai il passaparola è un attimo, un clic, un mouse, è un universo che s’accende, si scatena, si infiamma, prende posizioni o sceglie di starsene distante, fiancheggia e sopprime per stile, per cultura, magari anche per simpatia o per fede (calcistica). È la moda del Terzo Millennio, o forse - più giustamente - è l’evoluzione del tempo, mica soltanto della tecnologia, che manipola, deforma, comunque diffonde in diretta ciò che avviene al campo o in osteria. S’è scatenata la sociologia di massa e, a scanso di qualsiasi equivoco, conviene subito sottolineare che Sarri ha perso il controllo di se stesso, s’è lasciato andare in un linguaggio che (non solo pubblicamente) non gli appartiene, ha sfondato il muro del suono con un insulto che non può essere etichettato o classificato (perché non ce ne sono di più gravi o di meno gravi: l’offesa, l’ingiuria, sono sgradevoli e basta) e s’è ritrovato al centro del villaggio globale, sopraffatto dalla comprensibile controreazione ad una frase choc che però non racchiude un uomo, che sa essere ironico e garbato, paradossale e istrionico e che comunque s’è lanciato nel vuoto. È successo tutto in una frazione di secondo, ciò che basta per staccare la lingua dal cervello, per disperdersi nell’enorme contenitore mediatico, però è stato un lampo, ahilui abbagliante e fulminante che non può incenerire una vita. E’ stata una spiacevole e dolorosa deviazione da sé che però ha prodotto un’immediata conversione, le scuse in pubblico ed il pentimento sincero per aver riprodotto una versione distorta della propria identità: sotto la tuta c’è un altro Sarri, che esce dal san Paolo sconvolto, stordito, turbato dal fratello «gemello» (direbbe Carletto Mazzone), quello che gli ha preso posto per un secondo e che è già stato scacciato via.

Sarri, l’omofobia e la gogna mediatica: la virtù (stavolta) non sta da nessuna parte, scrive Francesco Maria Romano il 20 gennaio 2016. Polemica Sarri-Mancini. Il tecnico toscano canonizzato dai media: ha sbagliato e pagherà, soprattutto per aver toccato un tasto dolente; pronti 4 mesi di stop. Il quarto di finale di Coppa Italia giocato ieri allo Stadio San Paolo, che ha visto l’Inter battere per 2-0 il Napoli, passerà agli annali non tanto per le prodezze di Jovetic e Ljajic valse ai nerazzurri il raggiungimento delle semifinali, ma piuttosto per la polemica generatasi tra i due allenatori. Nel post-gara, Roberto Mancini si è presentato visibilmente scosso ai microfoni della RAI, denunciando gravi offese ricevute dal collega (“E’ un razzista, mi ha dato del frocio; gente così nel calcio non dovrebbe starci“) e lasciando l’intervista senza parlare della partita (lo farà poi, parzialmente, ai microfoni di Inter Channel); la parola è passata poi a Sarri che interpellato sulla vicenda ha fornito la propria versione: “Ero furioso per l’espulsione di Mertens; l’insulto è figlio della rabbia, mi scuso ma sono cose che dovrebbero restare in campo“. Successivamente, il tecnico del Napoli è stato interrogato dalla Procura Federale fino a serata inoltrata (00.30), prima di lasciare lo stadio; secondo quanto riferisce oggi la Gazzetta dello Sport, rischia fino a quattro mesi di squalifica. Prevedibilmente, le parole di Mancini hanno innescato il classico tam-tam mediatico a mezzo social, spaccando l’opinione di stampa e tifo tra “colpevolisti” e “giustificazionisti” (oltre ad uno scadentissimo filone “complottista”). A tal proposito, vale la pena approfondire come e perché la gaffe di Sarri abbia dato adito ad un così vasto movimento disquisitorio, malgrado il calcio italiano sia tutt’altro che esente da episodi esecrabili. Mancini (e i giornalisti presenti in RAI) ha testualmente parlato di “razzismo” ed “omofobia”, due termini che, nella loro accezione più stretta, presuppongono discriminazione e pertanto rappresentano un’accusa ci un certo spessore nei confronti di Sarri. Di contro, la polemica ruoto attorno all’epiteto “frocio”, inteso comunemente come sinonimo di omosessuale. Tale termine, usato in senso spregiativo e diffamatorio, afferisce ad un radicato quanto bigotto segmento della cultura italiana, tendente ad additare gli omosessuali in maniera canzonatoria più che discriminatoria, conservando un fondo di volgarità ed ignoranza; insomma, in parole povere, un modo desueto e finanche puerile di “offendere”, tale solo nella percezione di chi considera l’omosessualità come patente di inferiorità. Detto questo, e al netto delle stress e della tensione che si possono accumulare durante la partita (la principale “attenuante” che si è concesso Sarri), quella del tecnico del Napoli è stata sicuramente un’uscita infelice, che non è passata inosservata presso gli organi di competenza e che avrà quasi certamente delle ripercussioni disciplinari, com’è giusto che sia. Sulla “delazione” di Mancini, che, a seconda dei punti di vista, ha “denunciato” o “fatto la spia” (la scelta dell’espressione più congrua la lasciamo ai lettori) si registrano due fronti d’opinione piuttosto compatti: “giusto denunciare” -come ha affermato Timossi in RAI- opposto ad un “sono cose che dovrebbero restare in campo” – come dichiarato da Pepe Reina nel post gara. Oggettivamente, la scelta di Mancini appare assolutamente legittima: non c’era (e non c’è) motivo per cui un episodio del genere non venga apertamente sdoganato a mezzo stampa; di contro, questo ha sovraesposto Sarri ad un’autentica inquisizione mediatica al quale il toscano ha fatto fatica a reagire lucidamente. La sosta ai microfoni della RAI è stato un autentico calvario: Gianni Di Marzio (pur appoggiando la tesi del “certe cose rimangono in campo”) ha comunque definito Sarri “indifendibile”; Timossi, senza giri di parole, ha chiesto al tecnico se avesse “dato dall’omosessuale a Mancini“. Le repliche del tecnico si sono rivelate francamente sconnesse e colpevoli di una certa fragilità, da “ho provato a scusarmi” a “ho molti amici omosessuali” fino a “queste cose dovrebbero rimanere in campo”. Stessa linea, più o meno, anche in conferenza stampa. Di fronte alle telecamere, è apparso un Sarri provato dallo stress e diplomaticamente impreparato ad arginare la vasta eco generata dalla “denuncia” del collega. A completamento della nostra analisi, val bene una riflessione sulle reazioni di tifo e stampa, in particolare quelle non strettamente relate ed influenzato dagli schieramenti di tifo. In generale, c’è stata una risposta virale e virulenta a quanto accaduto al San Paolo, che ha rapidamente trasceso i confini di Napoli-Inter. Un episodio di campo si è rapidamente esteso in un dibattito etico-sociologico, evidenziando come l’opinione pubblica del nostro paese sia piuttosto sensibile al tema dell’omosessualità, pur declinato in maniera così goffa nell’affaire Sarri-Mancini. La radicata cultura cattolica della maggior parte degli opinionisti e non, ha partorito roccaforti di opinione severe, quasi marziali, orientate al giustizialismo nei confronti di una persona in chiara difficoltà dialettica e diplomatica. L’Italia si è mostrata pertanto straordinariamente reattiva all’allarme omofobia/razzismo e di questo non possiamo che compiacerci: di contro, però, ricordiamo come esiste la diffusa tendenza a minimizzare quegli episodi che vedono la città di Napoli e la sua gente oggetto di cori e striscioni dal contenuto, a nostro avviso, non meno grave. Se da un lato, non si tratta di casi equiparabili o equivalenti, dall’altro pongono lo stesso problema di fondo, ovvero la presenza di una certa “cattiva cultura” che è più facile condannare che comprendere. A chiudere, almeno dal punto di vista disciplinare, la vicenda (tutt’altro che edificante, di per sé e nella sua evoluzione) dovrebbe arrivare la decisione del Giudice Sportivo; dopodiché spetterà a Sarri e Mancini esporsi per archiviare in maniera definitiva un capitolo di questa stagione di cui avremmo fatto volentieri a meno.

Sarri offende Mancini ed il mondo del calcio scopre il razzismo! Scrive Dario Giuffrida, mercoledì 20 gennaio 2016. Il Napoli esce dalla Coppa Italia, l’Inter espugna il S.Paolo dopo lungo digiuno datato 1997 qualificandosi per la semifinale ma la vera notizia, quella che tiene banco e fa velocemente il giro del mondo, è la lite tra Sarri e Mancini, anzi, le offese di stampo razzista pronunciate dal tecnico del Napoli nei confronti del collega nerazzurro. Ripercorriamo velocemente i fatti: siamo al termine della gara di gioco  e, come da prassi, il quarto uomo indica i minuti di recupero ma , come sempre accade, se per chi sta vincendo i minuti risultano eccessivi contemporaneamente  sono troppo pochi per chi ha bisogno di recuperare il risultato; anche ieri sera , all’accensione della lavagnetta luminosa,  si è verificato il solito siparietto con Mancini accanto all’arbitro a protestare per l’eccessivo recupero e Sarri a chiedere  esattamente il contrario  solo che, diversamente (forse?) dalle altre volte, il buon tecnico del Napoli , da “toscanaccio” qual’è, ha condito le proteste con termini  poco eleganti provocando la reazione prima indignata e poi violenta del “dandy” nerazzurro che viene bloccato  fisicamente dall’ufficiale di gara e quindi espulso dal campo. Ci penserà Mancini, a fine gara, svelando nei dettagli al giornalista intervistatore e quindi ai milioni di telespettatori, i motivi per cui aveva avuto una reazione così violenta; in pratica il tecnico del Napoli aveva usato nei suoi confronti termini di forte contenuto razzista e di stampo “omofobo “!  Ma il bello doveva ancora venire perchè l’allenatore di Jesi, concludendo l’intervista, con un attacco frontale elegante nei toni ma di forte impatto mediatico, metteva in pratica nei confronti di Sarri, una vera e propria gogna mediatica: “Mi ha dato del……..  è un razzista, si dovrebbe vergognare”. Il tecnico nerazzurro, sfogandosi come un fanciullo davanti ai microfoni di mamma Rai, proseguiva così: “A 60 anni non ci si può comportare così, mi ha chiesto scusa ma dovrebbe vergognarsi, gente come lui non può stare nel calcio”. Ok Mister Mancini , Lei  ha ragione da vendere, la volgarità, la violenza di ogni tipo, anche verbale, non trova e non troverà mai una giustificazione ma, Vede, c’è qualcosa, nel Suo moralismo, che odora di eccessivo e, quindi, di falso :  probabilmente sarebbe stato più credibile se  avesse denunciato queste cose in passato  con la stessa veemenza e provato la medesima indignazione per le frasi volgari e le offese pronunciate dai suoi calciatori agli avversari di turno  oppure avesse deprecato le offese di stampo razzista (Vesuvio lavali col fuoco!) indirizzate nei confronti del popolo napoletano  puntualmente cantate anche ieri sera dai  supporters nerazzurri ma , si sa, quando si tratta  di offendere Napoli ed il suo popolo sembra tutto lecito, giustificabile, non fa testo !   La stessa considerazione valga per tutti i giornalisti che hanno cavalcato immediatamente la notizia facendo a gara nel crocifiggere un mortificato Sarri colpevole, senza appello, di aver profanato il dorato e puro mondo del calcio nonostante avesse, prontamente, chiesto scusa. E’ per questo che questa denuncia di Mancini sa di strumentale ed il suo ruolo di moralizzatore intempestivo, sarà forse perchè la sconfitta di campionato ed il titolo di campione d’inverno, scippato al fotofinish, è stata per il buon “Mancio” una pillola difficile da ingoiare e probabilmente, dulcis in fundo, in Napoli comincia a far paura?

Napoli, dopo la lite con Mancini i gay vogliono la testa di Sarri. Sono già al giudice sportivo gli atti sulle offese di Sarri a Mancini, ieri dopo Napoli-Inter, scrive Mario Valenza, Mercoledì 20/01/2016. Sono già al giudice sportivo gli atti sulle offese di Sarri a Mancini, ieri dopo Napoli-Inter. Sarà con ogni probabilità proprio Tosel, che ha già in mano il rapporto degli ispettori della Procura federale con le audizioni immediate dei 2 tecnici, a valutare l’entità delle eventuali sanzioni a Sarri. Si va da una multa o una squalifica breve, in caso le frasi vengano definite "dichiarazioni lesive" fino a una squalifica di "non meno di 4 mesi" se Tosel le riterrà "frasi discriminatorie". Resta aperta la possibilità che il giudice chieda un supplemento di indagini alla procura. Intanto le parole di Sarri hanno scatenato diverse polemichye nel mondo delle associazioni per i diritti degli omosessuali. "Sarri ci ricasca. Dopo due anni torna agli insulti omofobi, questa volta contro il tecnico dell'Inter Mancini, apostrofato come 'frocio, finocchio' al termine della partita di Coppa Italia. Come napoletano e tifoso del Napoli mi vergogno per le parole di Sarri, per cui chiediamo una sanzione esemplare. Chiediamo ad Aurelio De Laurentis e a Tavecchio di incontrarci, ci piacerebbe che il calcio lanciasse una grande campagna contro l'omofobia, uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Così in una nota il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo.

Il coro dei cronisti napoletani: “Il vero obiettivo è il Napoli”, scrive il 20 gennaio 2016 Alberto Francesco Sanci. La polemica scoppiata nel dopopartita del match di ieri sera tra Napoli e Inter, valido per i quarti di finale di Coppa Italia, è di quelle forti e complicate. Il tema è delicato e non ci sono moltissimi precedenti che possano far prevedere gli scenari futuri. La sensazione, però, che un battibecco comunque deprecabile possa essere strumentalizzato per destabilizzare l’ambiente napoletano, mai come quest’anno sotto le luci della ribalta, è forte e diffusa. Molti dei giornalisti che seguono da vicino e con maggiore passione il Napoli hanno commentato nelle scorse ore l’accaduto, sottolineando che, da un lato gli atteggiamenti di Roberto Mancini, e dall’altro quello dei giornali e dei media che hanno cavalcato l’onda lunga della questione, tutto sembra essere mirare a rovinare il momento positivo attraversato dalla società e dall’ambiente partenopei. Carlo Alvino, telecronista Sky e giornalista di Tv Luna, ha così commentato: “Ingenui o in malafede coloro che credono che Mancini si sia sentito offeso da Sarri. Ma quale omofobia. È il Napoli il vero obiettivo!”. Raffaele Auriemma, telecronista Mediaset, ha invece usato le seguenti parole su Twitter, lasciando un hashtag di solidarietà all’allenatore azzurro: “Vergognoso attacco mediatico dopo Napoli-Inter con intenti destabilizzatori: altro che omofobia, il problema è lo scudetto. #iostoconsarri”. Ancora più dettagliato il commento di Luigi Roano, giornalista de Il Mattino, particolarmente critico con Sarri nell’estete scorsa, che amplia la questione esprimendo qualche perplessità sulla denuncia pubblica di Mancini davanti alle telecamere Rai: “Solo un vigliacco va in televisione a fare il falso moralista denunciando banalissime gergalitá. Certo poco eleganti. Ho tanti amici gay sono sicuro che loro sono i primi che se la ridono. Chi bestemmia in campo allora è anticattolico e va messo al rogo? E poi perché quando il Napoli gioca a Milano e lì si che ci sono i razzisti non dice che san siro va chiuso? La realtá é che fuori dal mondo si é messo lui. Il Napoli é forte e sarà ancora più rabbioso. Inutile che faccia giochetti. Una cosa è certa, comunque vada, tutti con SARRI! Un grande uomo e un maestro di calcio. Io chiedo scusa al mister per il becerume che c’é in tivvù e perché gli ho mosso critiche irriguardose in estate. Forza Maurizio non mollare mai”. Il fatto che gli insulti siano sempre da condannare è fuori discussione. Ma che l’episodio, purtroppo non così raro sui campi da calcio di tutte le categorie, sia stato colto come l’occasione per minare credibilità e valore del tecnico del Napoli, appare ormai evidentissimo. La sensazione si rafforza a ogni lettura, ascolto, visione delle cronache dei media mainstream.

L'incoerenza di Mancini, quando disse: "Striscioni razzisti? Siete dei falsi moralisti, non fateli vedere!". In molti contestano la decisione di Roberto Mancini di presentarsi davanti ai microfoni del post gara Napoli-Inter e rivelare lo scambio di insulti avvenuto con il tecnico del Napoli Maurizio Sarri. Lascia qualche perplessità la logica che ha spinto il tecnico dell'Inter a fare questo passo, essendo stato in passato su posizioni opposte in merito a questioni altrettanto spinose. Un esempio, andando indietro nel tempo, furono le sue dichiarazioni, datate 2007, dopo alcuni striscioni a sfondo razzista esposti a San Siro durante un Inter-Napoli. "Napoli fogna d'Italia", "partenopei tubercolosi" e "Ciao colerosi". Le sue dichiarazioni furono diametralmente opposte anche se il terreno di discussione era a sfondo razzista: "Iniziate a non farli vedere, quegli striscioni. Voi fate cronaca? E io dico la mia... Siete dei falsi moralisti".  Il giudice sportivo non seguì il suo consiglio e squalificò la curva nerazzurra proprio per razzismo territoriale. Pensieri che si incrociano a distanza di tempo e che mettono in evidenza una mancanza di incoerenza da parte del tecnico nerazzurro.

Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" ​rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film:“ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.

Mancini-Sarri, io sto con il tecnico dell’Inter: di omofobia si muore. O nel migliore dei casi si vive di merda. L'allenatore dell'Inter, denunciando in diretta tv le offese omofobe ricevute, ha infranto uno dei tabù più duri a morire, quello di un calcio machista e greve, da rutto libero e cori contro una minoranza qualsiasi. Sarri non ha giustificazioni, non ha scuse, non ha alibi. Fossimo al suo posto, prenderemmo atto di un errore clamoroso e ne trarremmo le dovute conseguenze. Fossimo Roberto Mancini, invece, oggi saremmo molto orgogliosi di noi stessi, scrive Domenico Naso il 20 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club”. Peccato, però, che non siamo in un romanzo di Chuck Palahniuk né in un film con Brad Pitt, ma su un campo di calcio, in Italia, nel 2016. E Maurizio Sarri non allena il Borgorosso Football Club ma il Napoli, leader della classifica di serie A, squadra con milioni di tifosi e dalla storia gloriosa. Ecco perché il “frocio” urlato a Roberto Mancini non può e non deve venire liquidato con un sorrisetto e una alzata di spalle. E ancora più grave è l’argomentazione di chi, per difendere l’allenatore del Napoli, comincia con la solita storiella del gioco maschio, del campo che esaspera gli animi, dell’adrenalina che ti porta a dire cose che non diresti in una situazione “normale”. No, non è così. Perché il campo di calcio, a maggior ragione se si incontrano due top club e qualche milione di persone sta guardando la partita in diretta tv, non è un non-luogo dove tutto è sospeso, dalla semplice buona educazione al rispetto per gli altri. Se così fosse, dovremmo smettere da subito di criticare duramente (e giustamente) le orde di ultras che settimana dopo settimana si producono in vergognose esibizioni di razzismo, antisemitismo e a volte addirittura di violenza fisica. Dobbiamo riflettere, una volta per tutte, su cosa rappresenta il calcio in Italia. Perché all’estero il problema è bello che risolto: fosse successo in Premier League quello che è successo ieri sera, Maurizio Sarri avrebbe già raccolto le sue cose e sarebbe stato mandato a casa a pedate. Non per buonismo o politicamente corretto, nossignore. Semplicemente perché le parole sono importanti, soprattutto se a pronunciarle è l’allenatore della squadra prima in classifica. Sono solo parole, diranno i più superficiali. Nemmeno per idea, risponderà chi ha un minimo di contezza di ciò che accade nel mondo e purtroppo anche nel nostro paese. Andate a dire che sono solo paroleal teenager gay che viene quotidianamente tormentato dai compagni di classe o non è accettato e compreso dal padre, e che al culmine di una frustrazione umiliante non trova altra soluzione se non un salto nel vuoto da quinto piano! Di omofobia si muore, caro Sarri. O, nel migliore dei casi, di omofobia si vive di merda. Anche in Italia, sissignore. Nella stessa Italia che tra pochi giorni ospiterà a Roma l’ennesima manifestazione contro il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Nella stessa Italia che è fanalino di coda in Europa sullo stesso tema e la cui classe politica in queste ore sta litigando e discutendo per partorire l’ennesimo pastrocchio, l’ennesimo compromesso al ribasso sulla pelle di milioni di cittadini di serie B. Sarri non ha giustificazioni, non ha scuse, non ha alibi. Fossimo al suo posto, prenderemmo atto di un errore clamoroso e ne trarremmo le dovute conseguenze. Fossimo Roberto Mancini, invece, oggi saremmo molto orgogliosi di noi stessi. L’allenatore dell’Inter, denunciando in diretta tv le offese omofobe ricevute, ha infranto uno dei tabù più duri a morire, quello di un calcio machista e greve, da rutto libero e cori contro una minoranza qualsiasi. Mancini ha allenato in Inghilterra e sa meglio di chiunque altro che su queste cose non può esserci margine di tolleranza. Non per buonismo, ripetiamo, ma per il rispetto dovuto a chi giorno dopo giorno deve scalare montagne impervie di pregiudizi e odio, di violenza verbale e fisica, di umiliazioni e frustrazioni. Mancini ha infranto la prima regola: ha parlato del Fight Club. E probabilmente nell’ambiente calcistico in queste ore starà raccogliendo soprattutto critiche e sguardi colmi di biasimo. La parte sana del paese, se c’è davvero e se ha una consistenza anche solo lievemente maggioritaria, dovrebbe ringraziarlo dal profondo del cuore. Perché proprio nei giorni in cui si discute in Parlamento delle briciole di dignità da concedere a milioni di paria, lui ha deciso di non far passare sotto traccia l’ennesimo sfregio del calcio al vivere civile.

Mancini-Sarri, io sto con il tecnico del Napoli: ha sbagliato. Ma l’omofobia è un’altra cosa e i perbenisti non aspettavano altro. La famosa legge per cui “quello che succede in campo finisce in campo” esiste e ha un senso. E non per una concezione machista del pallone. In fondo quindici anni fa, quando al termine di un Lazio-Arsenal di Champions League Mihajlovic fu accusato da Patrick Vieira di insulti razzisti, fu proprio l’amico Mancini a dire: “Qualche insulto in campo ci può stare, l’importante è che tutto finisca lì”, scrive Lorenzo Vendemiale il 20 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Sarri razzista, Sarri omofobo, cattivo Sarri. Ma povero Sarri. Il tecnico napoletano è il nuovo “mostro” del calcio italiano, additato pubblicamente da tutti i maestri del “politically correct” che abbondano nel nostro Paese. È colpevole di aver dato del “frocio, finocchio” a Roberto Mancini. Nessuno lo giustifica: ha fatto una pessima figura, si è dimostrato rozzo e volgare, ha macchiato la reputazione che si era costruito negli ultimi anni. Ma nelle parole di chi adesso lo condanna senza appello c’è tanto stucchevole perbenismo, o ipocrisia, a seconda dei casi. Maurizio Sarri, nato a Napoli, figlio di operai toscani, uomo sanguigno che anche in conferenza stampa (dove è apprezzato per la sua schiettezza ed ironia) non lesina concetti forti e parolacce, ha semplicemente usato il primo insulto che gli è venuto in mente per offendere il suo collega che lo aveva fatto innervosire. Quello sbagliato, certo. Ma Sarri non è omofobo. Come Carlo Tavecchio non è razzista. Cambia il contesto, ma la vicenda non è molto diversa dallo scandalo suscitato nell’estate 2014 dalle parole del presidente della Figc, che usò epiteti discriminatori per riferirsi ai giocatori di colore. Chi scrive, oggi come allora, crede che il razzismo e l’omofobia siano un’altra cosa. E che confondere un linguaggio scorretto – radicato in una cultura d’altri tempi (come può essere quella di un uomo di 70 anni, o di un meridionale verace di estrazione popolare) –,  con un’ideologia discriminatoria sia un errore, dannoso anche per la vera battaglia per il rispetto della diversità. A Sarri è sfuggita una parola di troppo in un momento di tensione fuori dal comune, in cui può capitare purtroppo di abbandonarsi ai propri istinti primordiali: ti scappa una frase in dialetto, una bestemmia. O appunto un insulto grave, che però in certi contesti culturali e geografici (specie al Sud) è una semplice offesa slegata da ogni tipo di connotazione omofoba. Questo dimostra quanto ci sia ancora da lavorare nella testa dell’italiano medio per superare i pregiudizi e capire l’importanza delle parole. Ma è un cambiamento lento, che non può essere imputato interamente a Sarri. Forse il tecnico del Napoli ha persino ragione quando ha detto che “Mancini non doveva dire quelle cose: è stata una litigata di dieci secondi e doveva finire lì”. La famosa legge per cui “quello che succede in campo finisce in campo” esiste e ha un senso. E non per una concezione machista del pallone, ma semplicemente perché chi è uomo di sport sa bene che in trance agonistica si fanno e si dicono cose che nella vita quotidiana non passerebbero neanche nell’anticamera del cervello. Ci saremmo risparmiati questo sgradevole polverone e l’ennesima figuraccia a livello internazionale. In fondo quindici anni fa, quando al termine di un Lazio-Arsenal di Champions League Mihajlovic fu accusato da Patrick Vieira di insulti razzisti, fu proprio l’amico Mancini a dire: “Qualche insulto in campo ci può stare, l’importante è che tutto finisca lì”. Evidentemente oggi ha cambiato idea. Oppure vissuto sulla propria pelle fa un effetto diverso. Mancini ieri sembrava realmente toccato dalle offese ricevute, sarebbe ingiusto mettere in dubbio la genuinità della sua denuncia (al contrario di certi commenti, titoli di giornali e prese di posizione, che appaiono molto più strumentali).  Se si è sentito offeso ha fatto bene a parlare, l’omertà non è un valore predicabile. Sarri, però, non merita di essere lapidato pubblicamente. Ha sbagliato, ha chiesto scusa e lo farà ancora. Per il suo errore pagherà tanto, in termini di sanzione e di reputazione. L’omofobia, però, per fortuna è un’altra cosa.

Sarri, il mister "rosso" ma solo di vergogna. Suona strano che il "comunista" Sarri sia scivolato sul terreno accidentato dei gay, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 21/01/2016, su "Il Giornale". In questa Italia ipocrita e perbenista che affetta atteggiamenti politicamente corretti, ogni tanto i progressisti fanno la pipì fuori dal vaso e rivelano la loro autentica natura volgare, identica a quella dei populisti, come vengono etichettati coloro che stanno col centrodestra, magari con la Lega, plebea per antonomasia e perfino omofoba. Si dà il caso che martedì sera si sia disputata una partita di calcio quasi importante: Napoli-Inter, vinta dai milanesi, che hanno acquisito così il diritto ad accedere alla semifinale di Coppa Italia. I partenopei schierano una formazione raccogliticcia, lasciando i campioni in panchina per non usurarli in vista del girone di ritorno del campionato, quello vero. L'allenatore, Sarri, ex funzionario di banca (Monte dei Paschi), sotto di due gol e quindi già sconfitto, litiga con il collega che guida gli avversari. Non entriamo nel merito della discussione, non ne vale la pena. Segnaliamo soltanto che volano parole pesanti. Il trainer del Napoli attinge a piene mani dal linguaggio da trivio e, al culmine dell'ira, dice a Mancini: sei un finocchio, un frocio. Nello sfogo si è risparmiato il termine più in uso sotto il Vesuvio per definire gli omosessuali: orecchione. Forse si è trattato di una dimenticanza dovuta allo stato d'animo eccitato del valente e troppo focoso mister. Una bega di questo tipo avrebbe meritato di essere dimenticata. Invece, è stata alimentata dallo stesso Mancini che ha rifiutato le scuse di Sarri (resosi conto di aver ecceduto nelle intemperanze verbali) e incrementato la polemica, affermando che il vivace interlocutore non ha l'educazione idonea a calcare i campi di calcio. Insomma, per rimanere nel tema pecoreccio, è scoppiato un gran casino. Il bisticcio è diventato un affare di Stato, di cui ieri si è dibattuto da mane a sera su ogni media. Nel nostro Paese di caciaroni ciò che andrebbe silenziato, al contrario viene amplificato. Cosicché lo scazzo fra i due uomini di sport rischia ora di precipitare in politica. In effetti, suona strano che il «comunista» Sarri sia scivolato sul terreno accidentato dei gay, proprio lui che, essendo di sinistra dovrebbe sapere che è lecito tutto dalle nostre parti tranne che trasformare in insulto l'attitudine sessuale di moda. Sfottere i froci è considerato un reato. E forse è giusto così. Rimane da chiedersi perché, viceversa, è normale dare del puttaniere a uno che ha la fissa delle donne. Ma questo è un altro discorso. In conclusione, Sarri ha commesso un grave errore, ha rimediato una figuraccia. Sarebbe velleitario cercare di difenderlo. Un personaggio pubblico non dovrebbe scadere a frequentatore di bettole. L'allenatore in questione però ha avuto il coraggio di porgere le proprie scuse all'offeso, e questi avrebbe fatto bene ad accettarle anziché dare fiato alle trombe dell'indignazione. Sarebbe stato opportuno chiudere il contenzioso e archiviarlo, onde evitare strascichi grotteschi. Merita infine ricordare che la sinistra, attualmente tanto delicata nei confronti dei «froci», un tempo era talmente bacchettona da avere espulso Pier Paolo Pasolini dal partito per «indegnità morale», liquidando il poeta con questa frase poco elegante: «Un pederasta borghesuccio degenerato», solo perché amava i maschi e non aveva concubine. L'organo ufficiale del Pci, L'Unità, in proposito scrisse questo leggiadro corsivo: «Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico di Pasolini per denunciare le influenze di correnti filosofiche e ideologiche dei vari Gide, Sartre e altrettanto decantati letterati, che si vogliono spacciare quali progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Caro Sarri, come vede, anche se lei ha torto marcio è in buona compagnia. Togliatti sui gay aveva la sua stessa opinione. Faccia valere questa circostanza: sarà perdonato. Speriamo anche da Mancini. Vittorio Feltri.

Quattro mesi a Sarri? Scrive Gianfranco Turano su “L’Espresso" del 20 gennaio 2016. Dopo la botta di finocchio a Roberto Mancini, l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri si gode gli aspetti meno piacevoli della notorietà mediatica. Ieri era l'allenatore intellettuale, l'uomo in tuta blu che legge John Fante e Charles Bukowski, oggi è l'orrido omofobo che va sanzionato con pugno di ferro. La condanna possibile arriva a quattro mesi. Perché non quattro anni? Perché non i lavori forzati? In un sistema di giustizia sportiva che si distingue per la sua clemenza con taroccatori di partite e scommettitori internazionali, tutti trattati con la massima umanità, Sarri potrebbe scontare il suo momento di isteria con un'inibizione che all'incirca gli costerebbe il resto della stagione. La bufera mediatica è ridicola. Per categorie spiccano le seguenti assurdità:

1/quelli che il calcio non è per signorine e a me ne dicono di ogni tutte le volte che scendo in campo, eppure faccio i tornei di pizza e fichi e pago per giocare;

2/quelli che Mancini è una carogna che ha rotto la legge dell'omertà dello spogliatoio anche se non si era affatto nello spogliatoio ma in mezzo al campo;

3/quelli che l'omofobia nel calcio va fermata con leggi draconiane perché chi è strapagato per allenare in serie A dovrebbe quanto meno avere un minimo di self-control, come se il self-control fosse proporzionale al 730;

4/quelli che l'omofobia è soprattutto nelle serie minori;

5/quelli che l'omofobia è dovunque, in cielo in terra e in ogni luogo, e bisogna dare l'esempio in modo che i finocchi e queste quattro lesbiche (copyright di un alto dirigente Figc) possano trovarsi a loro agio negli spogliatoi.

Date tre giornate a Sarri e facciamola finita. Come pena aggiuntiva in senso riabilitativo, affidiamo il mister del Ciuccio a un colloquio privato con Gareth Thomas, ex nazionale gallese di rugby (1,90mt x 115 kg). Vediamo se riesce a dare del finocchio anche a lui.

Sarri e i diritti umani da salotto, scrive Patrizio Gonnella su “L’Espresso” del 20 gennaio 2016. I diritti umani sono spesso fraintesi e ridimensionati ad argomento da salotto. E nei salotti frequentati dalle persone per bene tutti versano una lacrima per il bambino di colore che muore di fame o per Ebola in Africa. In Africa per l’appunto. Poi quando quel bambino arriva con un barcone in Italia, sempre nei salotti, capita di sentire che non abbiamo lavoro per tutti e dunque non possiamo farci carico di lui ma soprattutto dei suoi genitori (neri).  Nei salotti si storce il muso nei confronti delle esecuzioni capitali in Cina, della repressione politica in qualche paese lontano. Ma se qualcuno racconta che nelle carceri italiane i detenuti sono privati del diritto ad avere rapporti sessuali con i loro cari o anche con chi gli pare, allora nei salotti si dice che la pena deve essere anche un po’ punizione altrimenti che pena è. Nei salotti ci si indigna per parole di Maurizio Sarri definito razzista, omofobo etc.etc., ma si glissa sui diritti degli omosessuali italiani a cui è negato il diritto a fare ed essere famiglia. Sarri ha detto cose volgari che hanno un brutto retrogusto. Peggio di Sarri però ci sono i suoi censori salottieri, quelli che impediscono all’Italia di essere un Paese dove le libertà civili siano garantite a tutti, dove tutti si possano sposare, dove la tortura sia reato anche se commessa nei confronti di un terrorista o di uno straniero, dove coltivare cannabis per curarsi non sia un crimine. Dunque Sarri, che a prima vista non mi pare uomo da salotto, qualora sospeso per qualche giornata, ha una buona occasione per riflettere, sporcarsi le mani, dire parole e fare opere per le libertà civili e i diritti umani, non in un paese lontano, ma qui in Italia e ora.

Razzismo, sessismo e insulti: quando i volti del calcio diventano ultrà della parola. L’attacco di Sarri a Mancini è soltanto l’ultimo di una serie di episodi incresciosi legati al mondo del calcio: da Tavecchio all’«antisemita» Balotelli e al «razzista» Messi. E poi le Curve..., scrive Maria Strada su “Il Corriere della Sera” il 20 gennaio 2016.

1. Sarri e i «froci». La lite con Roberto Mancini ha portato il tecnico del Napoli Maurizio Sarri a dare del «frocio e finocchio» all’avversario, salvo poi scusarsi, a freddo. Ma l’allenatore toscano ha, però, a suo carico anche un altro precedente in cui il linguaggio è stato di analogo cattivo gusto: dopo un Varese-Empoli mal diretto, a suo avviso, dall’arbitro, sbottò: « Il calcio è diventato uno sport per froci».

2. Tavecchio e gli insulti per tutti. Il presidente della Federcalcio italiana, Carlo Tavecchio, ha avuto parole per tutti. Offensive, spesso. Dai «mangiabanane» agli «omosessuali», dagli «handicappati» agli «ebreacci». Una specie di record, assolutamente da non imitare. E, per chi avesse avuto ancora dubbi, va ricordata anche la gaffe contro l’attaccante della nazionale italiana Mario Balotelli dopo un infortunio. Di lui la guida della Figc disse: «È tornato al suo paese». Si giocava a Milano, la partita era Italia-Croazia.

3. «Le calciatrici? Quattro lesbiche». Felice Belloli, successore di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti, attacca il calcio femminile. Un movimento che è sotto la sua diretta responsabilità: «Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche». Le 12.000 atlete del calcio italiano senza tutela assicurativa e previdenziale, senza tfr e senza contratto collettivo ringraziano.

4. Ferrero e «il filippino». Visto che l’Oriente ancora mancava, come non ricordare una gaffe del presidente della Sampdoria Massimo Ferrero? «Er Viperetta» voleva difendere l’ex presidente onorario dell’Inter, Massimo Moratti. E del numero uno nerazzurro attuale, l’indonesiano Erick Thohir, esclamò: «Avevo detto a Moratti: “caccia quel filippino”».

5. Cassano: «Froci in nazionale? Problemi loro». Euro 2012, Fantantonio scatena il caos da Cracovia: l’opinionista Cecchi Paone ha appena commentato che, sicuramente, almeno «due gay, un bisessuale e tre metrosexual» vestono la maglia azzurra. Il ct Cesare Prandelli, previdente, ha provato a mettere in guardia l’attaccante. Ma questi, in conferenza stampa, non usa mezzi termini: «Io spero che di froci non ce ne siano e comunque sono problemi loro».

6. «In campo non voglio checche». Ezio Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), nel novembre 2014 concesse un’intervista a Radio Giove. La squadra aveva appena perso ad Alessandria, subendo un gol allo scadere e mentre era in superiorità numerica: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche», chiosa il vulcanico Capuano.

7. Arrigo Sacchi e i giovani «di colore». Anche l’ex ct Arrigo Sacchi nel febbraio dello scorso anno è finito nel mirino per una frase dai toni razzisti. Lamentando il disastroso stato dei vivai, disse: «Troppi giocatori di colore nelle squadre giovanili». Poi, si difese con un’intervista al Corriere«Non posso essere razzista, io sono intelligente».

8. Mihajlovic e Vieira nel 2000. Ottobre 2000: Sinisa Mihajlovic, allora alla Lazio, con il microfono in mano chiede scusa per uno scambio di insulti avvenuto nella partita precedente, Lazio-Arsenal. Il serbo è stato accusato d’aver detto «bastardo negro» e «scimmia negra di m...» a Patrick Vieira. Ammise le sue colpe ma non si pentì, difendendosi sostenendo che il francese, ex milanista, lo aveva chiamato «zingaro».

9. Balotelli «razzista e antisemita». L’uso dei social network da parte di Mario Balotelli gli vale accuse di razzismo e antisemitismo da parte dell’opinione pubblica inglese. Un post scherzoso su Instagram, una foto dell’eroe dei videogiochi Super Mario Bros e la scritta «Non essere razzista! Sii come Mario.È un idraulico italiano, creato dal popolo giapponese, che parla inglese e sembra un messicano... Salta come un nero e afferra soldi come un ebreo», gli vale pesanti critiche e lo costringe a pubbliche scuse.

10. Messi e il «negro» Drenthe. Anche il super-Pallone d’Oro Leo Messi è stato accusato di razzismo. Nel 2010 l’olandese Royston Drenthe, del Real Madrid, si rifiutò di stringere la mano al giocatore del Barcellona. E due anni dopo spiegò: «Non faceva che ripetere “Hola negro” (Ciao, negro, ndr). Capisco che è normale in Sud America, ma non posso sopportarlo».

11. Eranio e i calciatori di colore «che non pensano». «I calciatori di colore sono forti fisicamente, ma quando c’è da pensare purtroppo spesso fanno questi errori». Per questa frase pronunciata lo scorso ottobre l’ex calciatore del Milan Stefano Eranio è stato licenziato dalla tv svizzera Rsi.

12. I tifosi e il fantoccio nero impiccato in curva. Grandi protagoniste, soprattutto quando riguarda il razzismo, sono soprattutto le Curve. Uno dei casi più clamorosi riguardò l’olandese Maickel Ferrier, olandese del Verona. I tifosi gialloblù, mascherati da membri del Ku Klux Klan, espressero il loro dissenso esibendo un manichino impiccato accompagnato da alcuni striscioni emblematici: «Il negro ve l’hanno regalato, fategli pulire lo stadio» e «Mazzi (allora presidente, ndr), Ferrier portalo al cantier». Le indagini risalirono ad alcuni esponenti del Msi.

13. I trevigiani e il caso Omolade. Il 18enne Akeem Omolade, nigeriano, nel 2000-01 giocava nel Treviso. Al momento dell’esordio fu sommerso dai fischi dei suoi tifosi, che poi abbandonarono gli spalti. La squadra di casa reagì con un celebre gesto di solidarietà e, alla partita successiva, i titolari, i giocatori della panchina e l’allenatore scesero in campo con il volto tinto di nero. Un gesto di solidarietà che non piacque al sindaco della Marca, il leghista Giancarlo Gentilini, che esplicitamente parlò di «Colore della vergogna».

14. Zoro contro i tifosi dell’Inter. Nel novembre 2005, durante Messina-Inter, l’ivoriano Marco André Zoro Kpolo dopo 65’ prende il pallone in mano e minaccia di andarsene dopo l’ennesimo «buuu» razzista ricevuto dagli spalti. Avversari (su tutti Adriano e Obafemi Martins) e compagni lo convincono a rimanere in campo.

15. Cagliari, i cori contro Balotelli ed Eto’o. Nel 2009, dopo che Mario Balotelli e Samuel Eto’o erano stati sommersi dai fischi dei tifosi del Cagliari, il presidente nerazzurro Massimo Moratti aveva parlato di necessità di sospendere la partita. L’anno dopo rischia di essere accontentato: il camerunense riceve fischi fin dall’allenamento e, dopo appena 3’, l'arbitro Tagliavento ferma il gioco, convoca i capitani in mezzo al campo e invita lo speaker dello stadio a riportare l’ordine. Proprio Eto’o segnerà il gol della vittoria dell’Inter.

16. I tifosi del Chelsea in trasferta a Parigi. L’idiozia del tifoso non è solo italiana, anzi. A febbraio 2015, in occasione di una trasferta a Parigi, i tifosi del Chelsea impedirono a un uomo, di colore, di salire sulla metropolitana. Per fugare ogni dubbio, cantano: «Siamo razzisti, siamo razzisti e così ci piace».

17. Roberto Carlos e le banane. Nel marzo 2011 il brasiliano Roberto Carlos, che giocava nell’Anzhi di Makhachkala, in Russia, si vede offrire una banana da un tifoso dello Zenit di San Pietroburgo. Il campione del mondo dichiara di non essere rimasto offeso, ma dovrà abbozzare anche qualche mese dopo quando la banana gli verrà lanciata sul campo da un ultrà del Samara. Il presidente della Federcalcio russa, oggi alla guida del comitato per Russia 2018, commenta: «Non era una forma di razzismo. In Russia “ricevere una banana” significa aver fallito qualcosa...».

18. Boateng e i tifosi della Pro Patria. Il 3 gennaio 2013 il Milan è impegnato in un’amichevole a Busto Arsizio. Kevin Prince Boateng, beccato costantemente - come gli altri giocatori di colore - dai tifosi della Pro Patria, scaglia il pallone in tribuna. Il Milan abbandona l’amichevole. I tifosi colpevoli vengono identificati: saranno condannati a 40 giorni e un risarcimento alle parti civili.

19. Insulti razzisti, Constant abbandona il campo. Nell’estate dello stesso anno Constant lascia il campo durante il Trofeo amichevole Tim.

La brava Maria Strada, però, ha dimenticato le offese ai meridionali.

Mandorlini ed il coro sui "Terroni", scrive Arianna Ravelli. Una «parodia», «una goliardata», arriva ad ammettere possa dirsi «una ripicca, però ironica, nei confronti di quello che abbiamo subìto a Salerno», ma una frase razzista, proprio no. Andrea Mandorlini risponde come uno che si aspettava la telefonata e anche le domande, senza un briciolo di pentimento. «Sì, quel coro, "Ti amo terrone"... Ho visto i filmati su youtube, ripresi dai siti dei giornali». Esatto, proprio quelli. «Se li ha visti anche lei avrà notato che quando i tifosi cominciano con "Salernitana vaff..." io li fermo e attacco l'altro coro, che poi è una canzone degli Skiantos, una cosa divertente». Martedì sera, stadio di Verona, presentazione dell'Hellas che ha appena conquistato la serie B, dopo quattro anni di campi di periferia in Lega Pro, tremila tifosi sugli spalti (non con una bella fama, visti i tanti precedenti, quelli senza dubbi, di razzismo conclamato), il sindaco leghista Andrea Tosi in prima fila che ride divertito (e che adesso dice: «Il tecnico non aveva minimamente intenzioni razziste e se al Sud cantassero "Ti amo polentone" noi non ci offenderemmo»). Mandorlini, l'osannato artefice della promozione, prende il microfono e inizia: «Bisogna rendere omaggio ai nostri avversari, leali, sportivi e anche simpatici». Palesemente ironico. «È vero, ero ironico, ma forse non sapete cos' è successo durante le finali playoff». Che è successo? «Lasciamo perdere, non voglio enfatizzare, sappiamo che su qualche campo in Italia queste cose succedono. Però io ho ricevuto minacce di morte, siamo stati praticamente aggrediti in sala stampa, dove è entrato chiunque. E poi la rissa il giorno della finale: ho rimediato una macchina fotografica in testa, siamo rimasti nello stadio, sotto assedio, fino a notte». Le cronache parlano di lancio di bottiglie e sassi, due carabinieri feriti, 10 fermati. Ma le polemiche sul fronte Verona-Salerno nascono prima. La Salernitana, infatti, o raggiunge la B o fallisce (cosa poi successa), Mandorlini insinua («Leggo che il destino della Salernitana è legato alla promozione, una nuova pretattica. Si tratta di un club al collasso da tempo: è una richiesta di aiuto che va invece dato alle società sane»), i dirigenti della Salernitana si imbufaliscono e «danno mandato agli avvocati di tutelare il club», il Verona vince la prima partita con due rigori a favore e la tensione esplode al ritorno a Salerno. Il Verona viene promosso, la Salernitana fallisce. E si arriva all' infelice coro di martedì. «Una goliardata, avevo vicino Maietta, che è calabrese, e ho coinvolto pure lui. E poi non devo neanche spiegare che il razzismo è una cosa lontana da me, che sono pieno di amici meridionali, che ho allenato in Romania, ma non ha senso dirle queste cose, dovrebbero essere scontate». Ma, scusi, allora, non era meglio evitare, vista anche la fama degli ultrà del Verona? «Secondo me è meglio evitare le minacce di morte e le aggressioni. Però, per me è tutto finito, io non ce l'ho con la Salernitana». Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca (del Pd, ma in buoni rapporti con Tosi) un po' con lui invece sì: «Caro Mandorlini, ma è proprio così difficile comportarsi in maniera civile e responsabile?». Che risponde? «Il mio era uno scherzo, però là ho rischiato la vita». Ravelli Arianna. Pagina 040/041 (21 luglio 2011) - Corriere della Sera.

Quando al nord sono ipocriti.

«Casting per razzisti e omofobi» Regione Piemonte contro «Ciao Darwin». L'affondo dell'assessore alle Pari Opportunità e all'Immigrazione Monica Cerutti contro la trasmissione di Mediaset condotta da Paolo Bonolis, scrive “Il Corriere della Sera” il 20 gennaio 2016. La regione Piemonte contro la trasmissione di Mediaset condotta da Paolo Bonolis «Ciao Darwin». La denuncia arriva da Monica Cerutti, assessore regionale alle Pari Opportunità, Diritti civili e Immigrazione. «AAA cercasi uomini o donne contrarie all'integrazione degli stranieri in Italia e contro i diritti delle unioni gay», così comincia il lungo post pubblicato in Rete. «Ciao Darwin - scrive sulla sua pagina Internet - a Torino ha cercato razzisti e omofobi per sottoporli a un casting per partecipare alla nuova edizione del programma. Il casting si è tenuto il 12 gennaio» scrive. Quindi l'affondo: «Si tratta di un vero e proprio schiaffo al rispetto delle persone e dei diritti di tutti e tutte. È inaccettabile che in un momento come questo, durante il quale l’odio nei confronti del diverso è sempre maggiore, ci siano programmi televisivi che vogliono alimentari xenofobia e omofobia. I media devono assumersi la responsabilità che hanno sulle spalle. Ci sono milioni di persone che purtroppo affidano la propria informazione e formazione esclusivamente alla televisione ed è impensabile che questa parli loro attraverso stereotipi, populismi e strumentalizzazioni» E ancora, scrive l'assessore: «Ho deciso di chiedere che il caso del casting omofobo e razzista a Torino, tenuto dalla trasmissione tv Ciao Darwin, venga segnalato all’UNAR, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Le istituzioni non possono continuare a predicare nel deserto».

"A Torino casting di Ciao Darwin per razzisti e omofobi": la denuncia dell'assessore. Monica Cerutti, responsabile regionale delle Pari opportunità, contro lo show di Bonolis: la selezione di uomini e donne "contrari a immigrati e gay" si è effettivamente svolta il 12 gennaio. "Porterò il caso in Consiglio", scrive il 20 gennaio 2016 “La Repubblica”. Cercansi uomini o donne "contrarie all'integrazione degli stranieri in Italia" e "contro i diritti delle unioni gay". Monica Cerutti, assessore all'Immigrazione e alle Pari opportunità della Regione Piemonte, attacca "Ciao Darwin", la trasmissione televisiva di Mediaset condotta da Paolo Bonolis, che, accusa Cerutti, "a Torino ha cercato razzisti e omofobi per sottoporli a un casting". Obiettivo, la partecipazione alla nuova edizione del programma che si basa su "contrapposizioni" tra due gruppi opposti, il tutto condito da belle ragazze vestite il meno possibile. Il casting, aggiunge l'assessore in un comunicato ufficiale della Regione Piemonte, si è tenuto il 12 gennaio. No comment, per ora, da Mediaset e dallo stesso Bonolis. «Si tratta di un vero e proprio schiaffo al rispetto delle persone e dei diritti di tutti e tutte - dice Cerutti - È inaccettabile che in un momento come questo, durante il quale l'odio nei confronti del diverso è sempre maggiore, ci siano programmi televisivi che vogliono alimentare xenofobia e omofobia. I media devono assumersi la responsabilità che hanno sulle spalle. Ci sono milioni di persone che purtroppo affidano la propria informazione e formazione esclusivamente alla televisione ed è impensabile che questa parli loro attraverso stereotipi, populismi e strumentalizzazioni». La Regione Piemonte, dice l'assessore, "si sta impegnando per approvare una legge contro ogni forma di discriminazione: lunedì prossimo durante la seduta della I Commissione del Consiglio regionale cominceremo a discutere gli emendamenti che sono stati presentati. Ho deciso di chiedere che il caso del casting omofobo e razzista a Torino, tenuto dalla trasmissione Ciao Darwin, venga segnalato all'Unar, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Le istituzioni - ha concuso Cerutti - non possono continuare a predicare nel deserto». Il segretario del Pd piemontese, e capogruppo nel Consiglio regionale, Davide Gariglio getta però acqua sul fuoco della polemica: "Personalmente trovo un casting per razzisti e omofobi di cattivo gusto e inopportuno, però non credo debba essere la politica a ricoprire il ruolo del censore sui contenuti di una trasmissione televisiva. Condivido il merito sollevato dall'assessora - aggiunge Gariglio - e mi preoccupa una simile deriva della proposta televisiva, ma lascerei il tema al livello culturale e non lo inserirei tra quelli della politica, che tra l'altro di problemi ne ha già parecchi".

Il Comune adesso sostiene il sabato gay. E arriva un premio per i programmi più favorevoli al mondo lgbt, scrive Daniela Uva, Giovedì 21/01/2016, su "Il Giornale". Dopo l'apertura del registro per le coppie di fatto, il riconoscimento dei matrimoni contratti all'estero da persone dello stesso sesso e i corsi di sadomaso arriva l'ennesima apertura della giunta Pisapia al mondo gay. Con il patrocinio al Diversity media awards, il premio riservato ai migliori contenuti di media, cinema, tv e pubblicità sui temi legati al mondo lgbt. Non finisce qui, perché il Comune ha ospitato nella sala stampa di Palazzo Marino la presentazione delle nomination di quelli che sono stati definiti gli Oscar contro la discriminazione. I riconoscimenti saranno consegnati a maggio dall'ideatrice Francesca Vecchioni, ma già si conosce la lista dei possibili premiati. Dalla fiction «Un posto al sole» a «È arrivata la felicità», passando per «Grey's anatomy», «Beautiful», la trasmissione condotta da Fabio Fazio «Che tempo che fa» e il reality «Pechino Express». Ci sono personaggi molto noti al grande pubblico, come Laura Pausini, Tiziano Ferro, Fedez e Mika. Non poteva mancare, fra i relatori, l'assessore comunale ai Servizi sociali nonché candidato per le primarie del Pd, Pierfrancesco Majorino. «Obiettivo dell'amministrazione comunale è estendere e promuovere i diritti - precisa -, per questo due anni fa abbiamo creato il registro delle unioni civili. E le istituzioni devono andare avanti e si devono mobilitare insieme ai cittadini». Il prossimo passo è già stato deciso: offrire il sostegno dell'amministrazione al gay day in programma sabato in piazza Scala, proprio davanti alla sede del Comune. «Iniziative come questa dimostrano che Pisapia, Majorino e tutta la maggioranza non hanno più argomentazioni - commenta il vicepresidente del Consiglio comunale, Riccardo De Corato -. Già in passato idee come quella di organizzare corsi sadomaso all'interno della Casa dei diritti, e quindi in un luogo del Comune, si sono dimostrate veri e propri autogol. Appoggiare anche questo premio è l'ennesima dimostrazione che la giunta non ha altri argomenti validi». Fra le tante iniziative a favore del mondo gay, quella che più di tutte ha fatto discutere è stata la trascrizione delle unioni fra persone dello stesso sesso contratte all'estero, e riconosciute nel capoluogo lombardo. Un provvedimento poi annullato dal Tar del Lazio. «Pisapia e il suo assessore Majorino hanno agito al di fuori delle norme della Costituzione - conclude De Corato -, in Italia non esiste una norma giuridica che permetta di dare valore legale a un matrimonio fra persone dello stesso sesso. Nonostante questo, il Comune continua a fare da sponsor a iniziative di ogni genere, che provengono da associazioni amiche. Pisapia accusa la Regione e il centrodestra di partecipare con il gonfalone al Family Day, e poi appoggia manifestazioni che nulla hanno a che fare con la nostra Costituzione e le nostre norme».

Calcio, l'allenatore Sarri su Mancini: "Avrei potuto definirlo democristiano". La Dc lo querela. Il tecnico del Napoli insulta il collega dell'Inter e poi si giustifica con la battuta sullo Scudocrociato. Ma il partito non ci sta e porta il caso in tribunale: "Lesi i valori democristiani". Denuncia del figlio del primo presidente della Regione Sicilia Giuseppe Alessi, scrive il 22 gennaio 2016 “La Repubblica”. Approda in un'aula di giustizia la polemica tra l'allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, e quello dell'Inter, Roberto Mancini, scoppiata sul campo di calcio, dopo la partita di Coppa Italia Napoli-Inter. Ma non per gli insulti lanciati da Sarri all'indirizzo di Mancio a fine match. Ad offendersi è stata la Democrazia cristiana, che ha presentato oggi al procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, una denuncia-querela nei confronti di Maurizio Sarri, attraverso i legali Anthony De Lisi e Angela Ajello del foro di Palermo. A fare scattare la denuncia sono state le frasi pronunciate da Sarri in conferenza stampa, quando, per giustificarsi per gli insulti a Mancino, ha spiegato: "Ho detto la prima offesa che mi è venuta in mente, gli avrei potuto dire sei un democristiano". Parole che hanno fatto saltare sulla sedie i democristiani. Secondo la Balena bianca, "non vi è dubbio che il comportamento di Sarri abbia di fatto leso l'appartenenza a colori i quali si riconoscono nella Democrazia Cristiana, oltre che a tutti i cittadini che comunque ne riconoscono la valenza sociale, politica e culturale". L'esposto è a firma di Alberto Alessi, segretario nazionale della Democrazia Cristiana Nuova, ex deputato Dc, nonché figlio di Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione Siciliana e tra i fondatori della Democrazia Cristiana e del suo simbolo. "La storia personale e politica dell'onorevole Giuseppe Alessi non lascia residuare dubbio alcuno sulla di lui paternità della idea sociale e politica che diede vita proprio alla Democrazia Cristiana - si legge nell'esposto - Infatti, quest'ultimo, unitamente a Sturzo e ad altri padri fondatori della Costituzione Repubblicana Italiana del dopo guerra, viene universalmente ricordato e riconosciuto quale emblema e simbolo, non solo del partito in questione, ma di un movimento Cristiano popolare che ebbe a segnare la storia del nostro Paese per oltre cinquanta anni". "Pur non volendo ulteriormente ribadire come la Democrazia Cristiana ha significato per oltre cinquanta anni l'appartenenza ad un partito di maggioranza di Italia e ad una classe dirigente che ha dato al Paese illustri Presidenti della Repubblica, Presidenti del consiglio, ministri e personalità di ogni genere di cui ancora il nostro paese ne vanta le qualità, non può farsi a meno di rassegnare che a tutt'oggi la Democrazia Cristiana, la sua storia e le sue promanazioni sono talmente radicate nel nostro paese e in numerosissimi cittadini italiani che ne avvertono ancora l'orgoglio di appartenenza", si legge nella denuncia. Ed ecco il "fattaccio": "In data 19 gennaio, in occasione della partita Napoli-Inter si è verificato uno spiacevole episodio, non solo per lo sport in genere ma anche per il disvalore sociale che ha rappresentato, tra gli allenatori delle squadre dell'Inter e del Napoli - si legge nell'esposto -L'episodio, che è stato riportato da tutti i media anche internazionali, ha avuto uno triste e offensivo seguito in danno dell'odierno denunciante sia personalmente che in rappresentanza di quei valori sin qui esplicitati. Infatti, il signor Sarri nel volersi giustificare per le parole offensive proferite in pregiudizio del collega Mancini ha rilasciato alla stampa, in occasione di una conferenza, trasmessa altresì dal telegiornale del TG1 di giorno 20.01.2016, delle dichiarazioni altamente lesive e diffamatorie". E spiega: "Infatti, il Sarri per giustificare le gravi ingiurie formulate in danno del collega Mancini ha testualmente proferito le seguenti parole: "ho detto la prima offesa che mi è venuta in mente, gli avrei potuto dire sei un democristiano". Tale gravissima diffamazione non può non essere valutata autonomamente e in relazione al contesto in cui è stata proferita. Infatti, è bene, innanzitutto, porre l'attenzione sul soggetto che ha proferito la gravissima offesa quale uomo "pubblico" e italiano per cui non può nemmeno ritenersi che lo stesso abbia proferito le precedenti parole in quanto non a conoscenza della storia del nostro Paese e quindi della valenza ed importanza che la "Democrazia Cristiana" ha avuto e continua ad avere nella cultura e nella formazione dell'essere di tanti cittadini". "In secondo luogo, non può non contestualizzarsi il comportamento posto in essere dall'odierno denunciato. Il Sarri, infatti, come ben può apprendersi dalle testate giornalistiche e non solo, ha paragonato le offese di "frocio e finocchio", che di per sè assumono un disvalore sociale, culturale e umano, con l'appartenenza alla "Democrazia Cristiana", dice il segretario della Dc Alberto Alessi attraverso i suoi legali, Anthony De Lisi e Angela Ajello. Per Alessi, "tale comportamento assume una forza lesiva pragmatica se si considera proprio il paragone reso esplicito dal Sarri. Invero, lo stesso ha posto a paragone, con evidente atteggiamento denigratorio e razzista, oltre che omofobo, l'essere omosessuale all'appartenenza alla Democrazia Cristiana. Orbene, il comportamento posto in essere dal Sarri non lascia residuare dubbio sulla portata denigratoria e offensiva di quanto proferito". "Infatti, non può non essere trascurato l'impatto che tali affermazioni hanno avuto anche sui social network i quali offrono tangibile dimensione dell'impatto diffamatorio che il comportamento del Sarri ha generato. Pertanto, non vi è dubbio alcuno che la fattispecie de qua integri appieno il delitto di diffamazione a mezzo stampa". Il querelante si è, infine, riservato di "costituirsi parte civile nel prosieguo dell'eventuale instaurando giudizio". "La decisione di querelare l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri per le sue parole sulla Democrazia cristiana non è un fatto personale. Ma intendo difendere i valori della Democrazia cristiana e di uomini come Sturzo, De Gasperi e non ultimo mio padre - commenta Alessi - credo che i valori della Dc non siano morti - dice - Mi piace ricordare che anche il nostro attuale Presidente e il di lui fratello sono nati e formati alla luce di quei valori".

Mario Giordano su “Libero Quotidiano” il 22 gennaio 2016: "Mancini e Sarri? Ha vinto la lobby gay. Se dici finocchio..." Due giornate di squalifica vi sembrano poche? A me sembrano perfino troppe. D'altra parte l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri la punizione l'ha già avuta: è stato lapidato pubblicamente, sottoposto a gogna, messo al bando dalla società civile per la grave colpa di aver litigato ai bordi di una campo di calcio, come avviene all’incirca ogni domenica in ogni angolo della Penisola. Come si è permesso? Le voci dell’indignazione politicamente corretta si sono subito levate a difendere la moralità offesa dei gay: «Non si fa», «Non è ammissibile», «Non è tollerabile», È indegno». È ovvio: ci si schiera sempre con il più forte. In Italia siamo campioni mondiali nel salto sulla barca che ha il vento in poppa (e poppa lo dico senza allusioni, sia chiaro, sennò vengo processato anch’io). Non c’è dubbio che i gay in questo momento sono forti, sono il pensiero dominante, stanno cambiando le leggi, possono decidere le sorti di un’azienda (chiedere informazioni a Barilla), possono stabilire perfino come e dove si possono fabbricare i bambini. Chi ha il coraggio di opporsi alla schiacciante armata arcobaleno? Nessuno, è ovvio. Infatti nessuno lo fa. Hanno tutti paura. Ho sentito amici che fino all’altro giorno si ergevano a campioni del politicamente scorretto che all’improvviso sono diventati paladini del sessualmente corretto, difensori strenui del frocismo offeso. Gente che usa il turpiloquio più del dentifricio che all’improvviso si scandalizza come una mammoletta perché un allenatore in tuta ha detto «frocio». Mamma mia, ha detto frocio. Dove andremo a finire, signora mia? L’omofobia è dilagante, il razzismo pure. Probabilmente siamo già a un passo dalle camere a gas, e non ce ne siamo accorti. Se Sarri, per dire, oltre a frocio e finocchio avesse detto anche culatone, voleva dire che il nazi-sterminio dei gay era già cominciato. «Non capisci, non capisci», mi ha urlato uno di questi amici, ex politicamente scorretto, riconvertitosi alla linea del gaysmo militante. Dice che non capisco che bisogna rispettare i tabù. In pratica: si possono insultare tutti, gli uomini, le donne, persino i bambini, figurarsi gli anziani. Ma i gay no. Non si può dire «frocio», né «finocchio», però per esempio si può dire «troia» a una donna e «tua mamma è una puttana» a un uomo. Tanto, si sa, la categoria delle puttane non conta nulla, non organizza nemmeno un Prostitute Pride. Gli omosessuali invece sì: loro organizzano le marce, organizzano i boicottaggi, decidono chi ha successo e chi non ce l’ha, che cosa è trendy e che cosa non lo è. Dunque, non si può offenderli. È un tabù. Il tabù di non offendere i più forti. Chiunque sia stato su un campo di calcio, anche solo di periferia, anche nelle categorie amatoriali, sa che mentre si gioca ci si dice di tutto. I difensori cominciano dal primo minuto a insultare gli attaccanti, i centrocampisti mettono in dubbio la verginità delle sorelle altrui, i terzini bestemmiano come turchi con i calli infiammati. Ma quello che si dice in campo finisce in campo, è sempre stata la regola. Una regola che anche Mancini conosce bene, visto che quando il suo amichetto Mihajlovic si macchiò di insulti razzisti durante una partita, correva l’anno 2000, lui lo difese dicendo: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e grandi nervosismo: l’importante è che tutto finisca lì». Perché ciò che valeva allora per Mihajlovic non vale ora per Sarri? Forse perché «negro di m.» si può dire e «frocio» invece no? O perché a Mancini fa comodo così? Qualcuno ha scritto che pure l’allenatore dell’Inter chiamò «frocio» un giornalista quando era a Firenze: l’interessato ha smentito. Sinceramente, non m’interessa. Così come non m’interessa se è vero o no quel che si mormora, e che cioè la polemica sarebbe stata studiata a tavolino per destabilizzare il Napoli primo in classifica. Può essere o forse no, poco importa: questo è un fatto che riguarda solo il mondo pallonaro. Quello che ci riguarda tutti, invece, è l’insurrezione armata, l’allineamento coatto, lo schieramento dei plotoni d’esecuzione che hanno sparato fuoco ad alzo zero contro il povero Sarri, facendolo secco in un batter d’occhio. Fateci caso: nemmeno le sue scuse sono state accettate. Ovvio, no? Se uno dice «frocio» è per sempre. Se uno dice «frocio» è evidentemente inguaribile, irredimibile, marchiato a vita per la tremenda colpa di aver usato una parola sbagliata, quella parola sbagliata. Se Sarri avesse offeso Dio, la Madonna e tutti i santi del Paradiso, ecco, sarebbe andato bene a tutti, magari gli avrebbero dato pure una medaglia. Invece ha detto «frocio» e dunque deve espiare. Due giornate di squalifica? Non bastano. Ma neppure dieci. Neppure venti. Neppure tre anni. Neppure l’ergastolo. Ho l’impressione che non basterebbe un’intera vita ai lavori forzati per scontare la pena di aver detto frocio. Almeno, se prima non ci s’iscrive ai corsi di recupero dell’Arcigay, dove t’insegnano come si diventa allenatori politicamente corretti: via la tuta, metti la scarpetta rosa, via le sigarette Nazionali, avanti col lucidalabbra. Ogni mattina inginocchiati davanti alla statua di Malgioglio e recita una preghiera alla trinità Luxuria, Vendola e Platinette. E così sia, nei secoli dei secoli gay. Di Mario Giordano.

A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" data a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!

Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è stata una famosa scrittrice e giornalista italiana. Nel 2004 Oriana Fallaci pubblica Oriana Fallaci intervista sé stessa - L'Apocalisse, il terzo libro della Trilogia di Oriana. È proprio nel phamphlet che la scrittrice esprime compiutamente il suo pensiero sull'omosessualità.

La giornalista, ad esempio, critica il primo ministro socialista spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero reo di aver consentito e sostenuto l'approvazione del matrimonio gay: «la bravata del senor Zapatero che imitando il sindaco di San Francisco, (antiamericani sì, ma non quando gli americani ti suggeriscono cattive idee), buttava alle ortiche il concetto biologico di famiglia e autorizzava il matrimonio gay. Quel che è peggio, mille volte peggio, l'adozione gay. E questo senza che nessuno gli rispondesse per le rime. Senza che nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo va a fuoco, l'Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo islamico non fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le adozioni-gay? Questo senza che la Chiesa Cattolica si ribellasse, senza che il Papa (di nuovo) si difendesse. Magari tirando in ballo la Madonna di Czestochowa a cui è tanto devoto e che certo non avrebbe gradito l'iniziativa di Zapatero. Tutti zitti. Tutti intimiditi, impauriti, incapaci di commentare la cosa in modo raziocinante lo spontaneo. Tutti ricattati dalla tirannia dei Politically Correct. Perché se dici la tua sui matrimoni-gay e l'adozione-gay, finisci al rogo come quando dici la tua sull'Islam. Ti danno di razzista, di fascista, di bigotto, di incivile, di reazionario. Come minimo ti accusano di pensarla come Hitler che gli omosessuali li gettava nei forni crematori insieme agli ebrei. Insomma ti mettono alla gogna. Be': dopo la sfuriata iniziale, anche stavolta caddi in una stanchezza profonda. Assai più profonda di quella in cui ero caduta a causa delle due Simonette. Perché sull'accettazione dell'omosessualità il senor Zapatero non ha da insegnarmi nulla.»

In un altro passo il matrimonio gay è definito come un tentativo di "sovvertire il concetto biologico di famiglia": «In qualsiasi società, in qualsiasi angolo della Terra, in qualsiasi paese esclusa la Spagna di Zapatero, il matrimonio è l'unione di un uomo e di una donna. Tale rimane anche se da quell'unione non nascono figli. Così capisco i risultati del referendum che in dodici Stati americani si è concluso con la vittoria schiacciante del No, insomma con un assordante rifiuto del suddetto matrimonio. Non capisco, invece, perché in una società dove tutti possono convivere liberamente cioè senza dar scandalo, senza essere condannati o considerati reprobi, gli omosessuali sentano l'improvviso e acuto bisogno di sposarsi davanti a un sindaco o a un prete. Magari con l'abito bianco, il mazzolino di fiori in mano, e lo spettro del divorzio che costa un mucchio di tempo e un mucchio di soldi. Spero che sia un'isteria temporanea, un capriccio alla moda, una forma di esibizionismo o di conformismo. Perché, se non lo è, si tratta d'una provocazione legata alla pretesa di adottare i bambini e sovvertire il concetto biologico di famiglia. Insomma d'una intimidazione. Non mi piacciono le provocazioni, non mi piacciono le intimidazioni. Gira e rigira, sono sempre di natura politica. E in tal caso a quei fidanzati, quelle fidanzate, dico: accontentatevi del sacrosanto diritto che il mondo civile riconosce a chiunque. Il diritto di amare chi si vuole, come si vuole.»

Ancora, Oriana Fallaci esprime "fastidio" per la cosiddetta lobby gay: «Voglio dire: l'omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio invece quando, come il femminismo, si trasforma in ideologia. Quindi in categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale, e grazie a ciò diventa uno strumento politico. Un'arma di ricatto, un abuso Politically and Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni.»

È negativo, ancora, sui gay pride: «Mi dà fastidio anche quando, attraverso le loro lobby, a discriminare il prossimo sono proprio gli omosessuali. E ancor più quando, attraverso l'arroganza della categoria, il prossimo lo offendono con le becere Gay Parades alle quali si presentano seminudi o travestiti e truccati da baldracche».

È negativo, ancora, il suo giudizio sulla genitorialità gay: «Un omosessuale maschio l'ovulo non ce l'ha. Il ventre di donna, l'utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c'è biogenetica al mondo che può risolvergli un tale problema. Clonazione inclusa. L'omosessuale femmina, sì, l'ovulo ce l'ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un'altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell'omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d'adottare un bambino? Con quale diritto pretende d'allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo e della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d'un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un'automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!?»

In un altro brano la Fallaci aggiunge: «Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo e senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. È un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita sul nostro pianeta. Cosa più che possibile con una madre senza marito, del tutto impossibile con due "genitori" del medesimo sesso. Punto e basta».

Alla dichiarazione, fanno da contraltare due episodi personali rammentati dalla scrittrice. Nel primo la vediamo assumere posizioni di contrarietà all'omofobia: «[...] guai a chi fa del male a un omosessuale in quanto omosessuale. Chiunque egli sia, e che l'omosessuale in questione lo conosca o no. Anni fa, nel mio villaggio in Toscana, il postino mi raccontò che due omosessuali della zona erano rimasti senza casa perché il padrone di casa s'era accorto che vivevano «come-marito-e-moglie». E li aveva cacciati. Io non li conoscevo, non li avevo mai visti. Ma udire una cosa simile mi mandò il sangue al cervello. Non per pietà, bada bene. Per principio. E dissi al postino: «Voglio incontrarli. Me li porti qui». Il postino me li portò e mi trovai davanti due giovanotti molto civili, molto educati, che con gran dignità si lamentavano: «L'albergo costa troppo e non sappiamo dove andare». Così gli mostrai una graziosa casetta attigua alla mia, la casetta che tengo per gli ospiti, e: «Se vi piace, state qui». Ci stettero qualche anno. Cioè fino a quando si separarono ed entrambi lasciarono l'Italia. Cosa che mi dispiacque in quanto il nostro era diventato un rapporto quasi familiare. M'ero abituata a loro, di loro non mi dispiaceva nulla escluso il fatto che a volte tenessero il volume della radio troppo alto e che uno adorasse esser chiamato gay. Inappropriato anzi stupido termine che detesto anche perché in inglese «gay» vuoi dire «allegro», e quando scrivo in inglese non so a che santo votarmi per dire allegro. Da quel punto di vista la parola «gay» è un vero furto al vocabolario e vorrei proprio sapere chi è l'irresponsabile che la mise in giro, che la adottò».

Nel secondo l'autrice ricorderà la sua amicizia e frequentazione con Pier Paolo Pasolini: «Eravamo in un ristorante lungo la via Appia, ricordo, e seduti al tavolo aspettavamo Alekos che era molto in ritardo a causa d'uno sciopero aereo. D'un tratto Pier Paolo mi accarezzò una mano e riferendosi al mio libro Lettera a un bambino mai nato (libro che odiava) mormorò: «Quanto a infelicità, anche tu non scherzi». Credendo che si riferisse al mio libro gli chiesi da dove venisse quell' anche, il discorso scivolò immediatamente sulla sua incontrollabile omosessualità».

Oriana Fallaci: ecco il perchè della contrarietà alle adozioni gay. La compianta Oriana Fallaci ha spiegato con buon piglio ed un’ottima dose di buon senso la sua posizione lontana dall’essere omofoba, ma di totale contrarietà nei confronti dell’omosessualità che diviene ideologia e soprattutto contraria all’ipotesi di far adottare i bambini a coppie di gay.

"L’omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio, invece, quando (come il femminismo) si trasforma in ideologia. In categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale. E grazie a ciò diventa uno strumento politico, un’arma di ricatto, un abuso Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni. Pensi al massiccio voto con cui in America ricattarono Clinton e con cui in Spagna hanno ricattato Zapatero. Sicché il primo provvedimento che Clinton prese appena eletto fu quello di inserire gli omosessuali nell’esercito e uno dei primi presi da Zapatero è stato quello di rovesciare il concetto biologico di famiglia nonché autorizzare il matrimonio e l’adozione gay. Un essere umano nasce da due individui di sesso diverso. Un pesce, un uccello, un elefante, un insetto, lo stesso. Per essere concepiti, ci vuole un ovulo e uno spermatozoo. Che ci piaccia o no, su questo pianeta la vita funziona così. Bè, alcuni esperti di biogenetica sostengono che in futuro si potrà fare a meno dello spermatozoo. Ma dell’ovulo no. Sia che si tratti di mammiferi sia che si tratti di ovipari, l’ovulo ci vorrà sempre. L’ovulo, l’uovo, che nel caso degli esseri umani sta dentro un ventre di donna e che fecondato si trasforma in una stilla di Vita poi in un germoglio di Vita, e attraverso il meraviglioso viaggio della gravidanza diventa un’altra Vita. Un altro essere umano. Infatti sono assolutamente convinta che a guidare l’innamoramento o il trasporto dei sensi sia l’istinto di sopravvivenza cioè la necessità di continuare la specie. Vivere anche quando siamo morti, continuare attraverso chi viene e verrà dopo di noi. E sono ossessionata dal concetto di maternità. Oh, non mi fraintenda: capisco anche il concetto di paternità. Lo vedrà nel mio romanzo, se farò in tempo a finirlo. Lo capisco così bene che parteggio con tutta l’anima pei padri divorziati che reclamano la custodia del figlio. Condanno i giudici che quel figlio lo affidano all’ex-moglie e basta, e ritengo che nella nostra società oggi si trovino più buoni padri che buone madri. (Segua la cronaca. Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche sé stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto e va dal parrucchiere). Ma essendo donna, e in più una donna ferita dalla sfortuna di non esser riuscita ad avere figli, capisco meglio il concetto di maternità………Ma qualcun altro me lo chiederà. Quindi ecco. Un omosessuale maschio l’ovulo non ce l’ha. Il ventre di donna, l’utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c’è biogenetica al mondo che possa risolvergli tale problema. Clonazione inclusa. L’omosessuale femmina, si, l’ovulo ce l’ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un’altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell’omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d’adottare un bambino? Con quale diritto pretende d’allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo o della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d’un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un’automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!? Io quando parlano di adozione-gay mi sento derubata nel mio ventre di donna. Anche se non ho bambini mi sento usata, sfruttata, come una mucca che partorisce vitelli destinati al mattatoio. E nell’immagine di due uomini o di due donne che col neonato in mezzo recitano la commedia di Maria Vergine e San Giuseppe vedo qualcosa di mostruosamente sbagliato. Qualcosa che mi offende anzi mi umilia come donna, come mamma mancata, mamma sfortunata. E come cittadina. Sicché offesa e umiliata dico: mi indigna il silenzio, l’ipocrisia, la vigliaccheria, che circonda questa faccenda. Mi infuria la gente che tace, che ha paura di parlarne, di dire la verità. E la verità è che le leggi dello Stato non possono ignorare le leggi della Natura. Non possono falsare con l’ambiguità delle parole «genitori» e «coniugi» le Leggi della Vita. Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo o senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. E’ un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con le smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita nella nostra specie. Cosa più che possibile con una madre senza marito. Del tutto impossibile con due «genitori» del medesimo sesso". Oriana Fallaci

Dà della lesbica all'ex compagna. Condannato: un anno e 2 mesi. Invano il difensore dell'uomo, Marco De Giorgio, cerca di spiegare al giudice che «lesbica» non può essere un insulto omofobo, perché la omosessualità femminile non dispone di eufemismi e di oltraggi, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 03/02/2016, su "Il Giornale". In aula al Senato la legge sulle unioni gay muove i primi, tormentati passi; negli stessi minuti, ieri mattina, cinquecento chilometri più nord, anche in un'altra aula, si parla di unioni gay. Ma questa è un'aula di tribunale, al piano terreno del palazzo di giustizia milanese: e il processo che vi si svolge racconta la distanza profonda che c'è tra il dibattito politico e un sentire comune e diffuso, soprattutto nelle fasce meno acculturate e politicamente corrette. Un mondo dove un padre trova difficile accettare che la propria compagna abbia una relazione omosessuale; e addirittura intollerabile che la propria figlia venga ospitata e coccolata dalla nuova coppia, dalle due donne divenute amanti.L'uomo reagisce male: e ieri, nell'aula dei processi per direttissima, si trova a rispondere di maltrattamenti in famiglia, articolo 572 del codice penale. Non è accusato di avere messo le mani addosso a nessuno, ma la sua ex compagna, la madre di sua figlia, lo ha denunciato per le reazioni verbali che ebbe quando seppe della relazione, e soprattutto quando le due donne iniziarono a prendere con sè la bambina, che allora aveva otto anni. «Sei una tr.. lesbica», le disse al colmo della rabbia per quegli incontri a tre che non riusciva a capire. E il giudice Mauro Gallina lo condanna: un anno e due mesi. Invano il difensore dell'uomo, Marco De Giorgio, cerca di spiegare al giudice che «lesbica» non può essere un insulto omofobo, perché la omosessualità femminile non dispone di eufemismi e di oltraggi; e che il resto si colloca nell'inevitabile scoramento prodotto dal frantumarsi di valori che l'uomo portava con sè. Certo, il mondo sta cambiando. Ma a lui non lo avevano spiegato.

“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? . Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.

Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».

Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".   

Vacca: Family day non reazionario, la sinistra rischia la deriva nichilista. Il filosofo marxista ritiene giusto il sì alle unioni civili, ma sulla stepchild adoption sposa la posizione del Circo Massimo: «Come si fa a dire che avere un figlio è un diritto?» Scrive Massimo Rebotti il 2 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Giuseppe Vacca è un filosofo marxista, una vita nel Pci e nelle sue successive declinazioni, fino al Pd di cui è uno degli intellettuali più autorevoli. Nel 2012, insieme ad altre figure di riferimento della sinistra, come Mario Tronti e Pietro Barcellona, firma un documento sulla «emergenza antropologica»: si sostiene che esistono «valori non negoziabili» e si apprezza l’impegno della Chiesa, allora di Benedetto XVI, per difenderli. Ai firmatari viene affibbiata l’etichetta di «marxisti ratzingeriani». Qualche anno dopo quei temi sono al centro del dibattito sulle unioni civili; il professor Vacca ha seguito con attenzione sia il Family day che le iniziative a favore del ddl Cirinnà.

Che cosa pensa di chi dice che le piazze contro le unioni civili sono reazionarie?

«Definire il Family day reazionario è assolutamente improprio. Su come regolare le questioni della vita non si può applicare la coppia progresso-reazione. Quella folla esprime un modo di vedere la famiglia che appartiene a una vasta parte della società italiana».

Si sente equidistante?

«No. Io penso che sia un bene che la legge sulle unioni civili passi. Ma si deve risolvere il nodo della stepchild adoption: trovo fondate le osservazioni di chi dice che può essere un modo surrettizio per introdurre la maternità surrogata, l’utero in affitto».

Hanno quindi ragione i manifestanti del Family day?

«Sul punto sì, il problema c’è. Così come penso che non sia necessario declinare al plurale la famiglia, che è una. Detto questo, è necessario riconoscere le unioni civili».

C’è un clima da fronti contrapposti?

«Direi di no. Al netto delle sigle politiche che si sono aggiunte, penso che entrambe le piazze fossero dialoganti. Chiunque giochi alla contrapposizione, sbaglia».

Un passo avanti rispetto ad altri «scontri» tra laici e cattolici?

«Sì, il confronto è più maturo rispetto ai tempi dell’aborto o del divorzio. Basta guardare l’intervista, molto bella, che il cardinale Ruini ha rilasciato al Corriere quando ha detto che non c’è una sola modernità».

A proposito di modernità: lei ha parlato di una «emergenza antropologica».

«È un’epoca in cui ci sentiamo sottoposti a varie minacce, il discrimine tra il naturale e l’artificiale si mescola, non ci sono solo “magnifiche sorti e progressive”. È una deriva per cui, come diceva Margaret Thatcher, la società non esiste ma esistono solo gli individui».

C’entra con le unioni civili?

«Come si fa a dire, per esempio, che avere un figlio è un diritto? Come si può pensare di declinare tutto nella chiave della libertà individuale, come se ciò che accade prescindesse dal modo in cui si compongono le volontà e le coscienze dei gruppi umani?».

Sbaglia la sinistra a fare dei diritti individuali il fulcro della sua azione politica?

«Assolutamente sì. La sinistra subisce una deriva nichilista, in termini marxisti la definiremmo spontaneista».

Cioè?

«Non è più capace di grandi visioni sul mondo, dalle guerre ai conflitti economici. Assolve mediamente i suoi compiti nazionali, ma sui grandi scenari mostra un impoverimento culturale che genera analisi povere. Negli anni Settanta laici e cattolici hanno fatto la più bella riforma del diritto di famiglia. E dopo? Di fronte a quello che cambia su questi temi, la sinistra non ha più niente da dire? Penso al referendum sulla fecondazione assistita quando tutto è stato ridotto a uno scontro tra fede e scienza. Insomma, il professor Veronesi è un grande medico, ma non uno statista...».

La piazza cattolica le è sembrata più consapevole dei «grandi scenari»?

«Lì si è manifestato un denominatore comune, la nostra civiltà cristiana. È una grande eredità».

Del resto del calo demografico non gliene fotte niente a nessuno.

GIOVANI: SESSO LIBERO?

Ci sono testimonianze di peni eretti bene auguranti nelle grotte paleolitiche di Lascaux, nei postriboli pompeiani fino a giungere ai graffiti che deturpano le città moderne. Un tempo si facevano persino delle processioni al dio Priapo chiamate falloforie (portatori di fallo). Gli artisti di Lascaux hanno creato un mondo sotterraneo e sconvolto Picasso, lasciandoci con i misteri della loro vita e del perché hanno questa “Cappella Sistina” della preistoria, scrive Raffaele Bonadies. Nel 1940, all’uscita da una grotta in Francia, Pablo Picasso, non noto per la modestia, si lasciò quasi cogliere dallo sconforto: «Non abbiamo inventato niente» disse. Aveva appena visto l’opera dei nostri antenati, Homo sapiens di 17.300 anni fa, che crearono a Lascaux quella che è stata definita la “Cappella Sistina della preistoria”, un capolavoro di pittura rupestre. Scoperto proprio nel 1940 da quattro ragazzi (col loro cane Robot) in Dordogna, in Francia, la grotta è un labirinto di circa 235 metri di lunghezza, in lieve pendenza. Suddivisa convenzionalmente in 7 sale, dalla Sala dei Tori alla Navata al Pozzo, contiene circa 2.000 figure che possono essere classificate in tre gruppi: animali, figure umane e segni astratti. Nei primi, la parte del leone la fanno i cavalli (364) e i cervi maschi (90), anche se i veri capolavori sono le figure degli uri, i buoi selvatici che popolavano le foreste europee. Come per altre grotte in Francia e Spagna, come Chauvet o Altamura, non sono chiare le ragioni che hanno spinto gli uomini a ritrarre gli animali sulle pareti della grotta. Secondo alcuni studiosi alla base di tutto c’è la religione, e le visioni degli sciamani, grazie alle quali erano in grado di ritrarre animali visti tempo prima. Erano allucinazioni indotte da danze che portavano in uno stato di trance o da sostanze psicotrope. Poiché le specie dipinte erano le più potenti e pericolose della fauna della zona (uri, cavalli e bisonti), forse i dipinti servivano a esorcizzare il pericolo che si correva cacciando questi animali, o addirittura a insegnare ai giovani le migliori tecniche di caccia a queste prede. Ci sono in compenso molti segni astratti, punti o figure geometriche, che alcuni studiosi ritengono rappresentino costellazioni visibili dalla zona, come il Toro, le Pleiadi, e il Triangolo estivo – tre stelle molto brillanti che da giugno a ottobre si vedono dopo il tramonto. Lo scrittore francese Georges Bataille considerava Lascaux il momento della nascita dell’arte, e di conseguenza dell’essere umano vero e proprio.

Non sappiamo con certezza le cause che hanno favorito, soprattutto nell’Europa Occidentale, in Francia ed in Spagna, la realizzazione di opere che ci lasciano stupiti e che ci inducono a riflettere sulle capacità organizzative dei nostri avi, scrive Maria Antonia Ferrante. Le opere grandiose sono sempre il risultato di un’organizzazione collettiva dove ogni componente del gruppo svolge un ruolo. Capacità mentali progredite, affinamento del pensiero, maggiore ricchezza del linguaggio e della comunicazione, nuove fonti di approvvigionamento delle materie necessarie all’esecuzione dei dipinti e delle incisioni e presenza degli spazi favorevoli alla messa in opera, contribuiscono a dare spazio alla fantasia. Sono gli abitanti delle zone franco–cantabriche che in questo periodo hanno lasciato il segno indelebile del loro avanzamento nel processo evolutivo espresso nelle stupefacienti pitture parietali in grotta. La grotta di Lascaux, affrescata 18.000 anni fa, si trova in Dordogna, Francia. Si accede con facilità alla prima sala dell’antro, detta La Rotonda. Qui, si impongono alla vista dipinti di animali giganteschi; gli uri misurano 5 metri di lunghezza. Dopo la sequenza degli animali mastodontici: uri, cavalli e cervi, appare il cosiddetto unicorno con il corpo segnato da cerchi; animale fantastico non definibile. Nelle successive parti della grotta continua la sfilata delle immagini degli stessi animali: di cervi e stambecchi e di una grandissima quantità di incisioni che sembrerebbero messe a caso perché si mescolano con i profili delle figure degli animali precedenti, in un groviglio di difficile lettura. Su di una parete dello spazio detto il pozzo, appare il dipinto di una figura umana; un uomo disteso con il fallo in erezione; sembra ferito. Vicino gli sta l’immagine di un bisonte, anch’esso probabilmente ferito. Sembra una scena di caccia conclusasi male par l’uomo e per l’animale. Per la realizzazione di questo grande affresco della grotta, chiamata giustamente Cappella Sistina del Paleolitico, sicuramente è stata necessaria la collaborazione di parecchi individui. Immagino che Eva abbia dato una mano alla messa in opera dei dipinti di Lascaux. Eva, forse, ha preparato i colori: l’ocra, il carbone, il manganese, i grassi e le materie collanti. E’ stata anche lei nella grotta reggendo le torce, portando le assi di legno per preparare le impalcature e soprattutto per provvedere all’alimentazione degli artisti impegnati per ore ed ore in uno spazio ristretto, oscuro e poco ospitale. Il progetto dell’affresco, probabilmente, è il risultato di un lavoro collaborativo. Di questa opera il gruppo che l’ha eseguita ne ha parlato prima di metterla in opera, disegnandola mentalmente e riconoscendone le finalità. Quale? Archeologi, critici dell’arte, antropologi, etnologi e psicologi si sono cimentati per penetrare nell’intima struttura delle opere parietali paleolitiche. Leroi-Gourhan ha dedicato un interesse particolare ai dipinti di Lascaux. Di essi dice Le figure di Lascaux non si dispongono in pannelli di insieme, ma lungo un itinerario, legata l’una all’altra da un tema di cui ci sfugge il senso, ma il cui coinvolgimento si ripete un piano dopo l’altro fino alle figure di rinoceronti situate nel punto più profondo. Le figure possono prolungarsi per due e più chilometri con un’unica versione del tema; figura per figura, a intervalli di parecchie centinaia di metri. Si tratta di una vera e propria cosmografia? Il mito, qui, qualunque sia il substrato, si dispone in maniera lineare e ripetitiva” (Leroi-Gourhan, A., 1977).

La gogna del moralismo di Stato. Parliamo di Vilfredo Pareto e il suo "Il mito virtuista e la letteratura immorale". Mentre attendeva nell'"eremo" di Céligny alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale, Pareto metteva mano al "trattatello" Le mythe vertuïste et la littérature immorale (Paris 1911), che fu tradotto con notevoli integrazioni e pubblicato in Italia nel 1914. Questa succosa e incalzante analisi condensa in modo esemplare l'anima profondamente liberale e libertaria di Pareto, e mette a nudo le tante ipocrisie che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa - in nome di una presunta igiene fisica e morale collettiva -, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. «Si può leggerlo in due modi, Il mito virtuista. Si può prenderlo come l'opera letteraria di un uomo singolare: logico e passionale, preciso e fantasioso, ironico e caustico, coltissimo di storia e attento alla cronaca. Senza curarsi troppo di dimostrazioni e tassonomie, gustarsi esempi e citazioni, senza voler cogliere l'architettura complessiva, seguirlo su per le scale ripide della sua indignazione e nei saloni sontuosi della sua cultura. È il suo procedimento [...] Oppure si può leggere il libro come l'applicazione ad un fatto particolare dei costrutti logici, "residui" e "derivazioni", su si basa il suo opus magnum, una sorta di intermezzo in quel ventennale impegno.»

Torna il libreria il trattatello liberale e libertario di Pareto, scrive “Il Piffero”. Un libro che nel mettere a nudo le ipocrisie dell’epoca, denuncia i rischi che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. È una iattura il trionfo del conformismo moralista. Anzi, quando i moralisti assurgono a maître à penser di un’epoca la dittatura è dietro l’angolo, per quanto soft e mistificata da buonismo possa essere. E mentre si diffonde questa potente arma di distrazione di massa le classi dirigenti dimenticano i veri problemi del Paese. Ci hanno provato in tanti, soprattutto nella stagione del berlusconismo declinate, a dare una lettura assolutoria delle macerie contemporanee al libretto che Vilfredo Pareto scrisse nell’eremo di Célignymentre si accingeva a dare l’ultima versione alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale. Ora di questo trattatello, pubblicato in Francia nel 1911 (Le mythe vertuïste et la littérature immorale) e tradotto con notevoli integrazioni in Italia nel 1914, è uscita una riedizione per iniziativa di Franco Debenedetti e dell’editore Liberilibri. Con il termine «virtuismo» Pareto intende sviluppare una critica verso i censori moderni, che si ergono a paladini della morale pubblica a detrimento delle più elementari espressioni della libertà individuale. Per alcuni può essere definito «libertario», un intellettuale consapevole della trasformazione dei valori morali, e della loro opinabilità alla stregua della religione e della politica. Un antiproibizionista ante litteram, in particolare contro le limitazioni legislative alla letteratura cosiddetta immorale di cui fu portavoce il presidente del Consiglio dell’epoca Luigi Luzzatti. Sulla scia di questo principio Pareto dà alle stampe il volume, che fu dettato dalla curiosità per i fatti contemporanei e dall’interesse che egli mostrava per la cronaca nera e giudiziaria. Anzi si può affermare che il libro nacque dall’attenzione che Pareto rivolse al romanzo Quelle signore (1904) e al processo che il suo autore Umberto Notari (1878-1950) subì per oltraggio al pudore nel 1906 e nel 1911. Le due sentenze si ritrovano nell’edizione del 1914 e sono riportate in quella del 1966, insieme alla Circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche: «Qui riproduciamo la sentenza di uno di questi processi in cui si vedrà incriminata la riproduzione di ”due brani tolti una dalla Bibbia e uno dal Dialogo delle prostitute di Luciano”».

Il mito virtuista e la letteratura immorale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Scritto polemico del sociologo Vilfredo Pareto sul fenomeno del virtuismo. Durante gli anni della stesura del Trattata di sociologia (1916) imperversavano in Europa rigidi atteggiamenti in difesa della virtù, della pulizia morale e del pudore e si moltiplicavano manifestazioni di intolleranza verso l'oscenità, o presunta tale. Questa ondata di moralismo venne promossa da alcuni associazioni che condannavano indistintamente il mondo pagano, le dottrine antisociali ed i concetti naturalistici, frammisti ad oscenità, della Grecia e di Roma antica. Pareto decise di intervenire sull'argomento ed invitando il governo Italiano a non perdere tempo "a pensare alle foglie di fico", quanto a preoccuparsi di denunciare i gravi problemi dell'Italia del tempo: miseria, corruzione, analfabetismo, il dominio della mafia e della camorra, le non sopite mire espansionistiche dell'Austria. Il termine "virtuista", un neologismo coniato da Pareto, sta ad indicare una persona ipocrita e bigotta, che ha dichiarato guerra alla letteratura immorale, criminale sessuale. Raccolti in associazioni, i virtuisti chiedono allo stato misure censorie sempre più restrittive, giustificandole con il pretesto dell'utilità sociale, della preservazione della pace sociale, della tutela dell'interesse dei fanciulli e con la motivazione dell'utilità della castità. Pareto rileva che il vero fine inseguito dai virtuisti è quello di imporre la loro dottrina e fa notare come l'aumento delle misure restrittive vada di pari passo con l'aumento di sentimenti anarchici e che "le leggi senza costumi non valgono niente". Inoltre, secondo Pareto, "non è un dovere dello stato quello di allontanare ogni tentazione dall'individuo". Di seguito, Pareto critica sia la famiglia "modern Style", incapace di dare una vera educazione ai propri figli ("l'educazione dei figli si fa coll'azione cumulativa di mille cose da nulla, e non con alcune proibizioni annunciate con gran fracasso") e di seguito delle Istituzioni scolastiche ("l'anarchia nell'educazione dei giovani è una causa dell'aumento della criminalità giovanile"). In conclusione, Pareto aggiunge che la forza che permette ad un popolo di elevarsi al di sopra degli altri non è dato dall'ascetismo, dalle rinunce e dalla mediocrità, ma nei sentimenti profondi e attivi che si manifestano con un ideale, una religione, un mito, una fede. "Nella vita dei popoli, niente è tanto più reale e pratico quanto l'ideale. [...] Il contenuto logico dell'ideale poco importa. Ciò che importa molto di più è lo stato psichico che rivela, di cui è sintomo".

La pubblica moralità? È questione di buon gusto, scrive Cesare Cavalleri su “Avvenire. Vilfredo Pareto (1848-1923), oltre che economista e sociologo, è anche un ottimo scrittore, il che non guasta. Appartiene alla schiera degli economisti "marginalisti" il cui capostipite è Léon Walras, al quale Pareto succedette nella cattedra di economia dell'Università di Losanna, nel 1894. Sia Pareto, sia Walras provenivano da studi d'ingegneria. Pareto fu nominato senatore da Mussolini, ma, morendo nel 1923, non fece in tempo a vedere la piega che il fascismo avrebbe preso. Nel 1910 Pareto pubblicò Il mito virtuista e la letteratura immorale, che Liberilibri (Macerata 2011, pp. 216, euro 18) oggi sottrae all'oblio, riproponendo con poche correzioni l'antica traduzione del "giovane" Nicola Trevisonno (a p. 49 è rimasto un "dai scultori"). Con neologismo paretiano, i "virtuisti" sono i bigotti intolleranti e spesso ipocriti che pretendono di imporre per legge la morale, soprattutto e quasi esclusivamente in materia di "oscenità". Non che Pareto sia favorevole all'oscenità e al libertinaggio, ma ha buon gioco nel dimostrare l'inafferrabilità di una definizione giuridica dell'ipotetico reato, e si diverte fin troppo ad antologizzare le "oscenità" di taluni passi della classicità greca e latina, che neppure l'Index post-tridentino aveva proscritto. L'invito di Pareto, oltre a proclamare la libertà di opinione a meno che non vengano violate le regole dell'ordine pubblico, è a non scambiare gli effetti con le cause. Se la famiglia e la scuola vengono meno ai loro compiti educativi, non è proibendo il commercio di cartoline licenziose che la moralità sarà salva: «È il buon gusto, la buona educazione che possono decidere in questa materia complicata, delicata e variabile, e non i Tribunali»; «La vera sicurezza voi l'avrete, anzitutto, se saprete ispirare a vostra figlia il disgusto dell'oscenità, poi se vi darete la pena di sorvegliarla». Insomma, contrariamente a quanto affermava la circolare del 16 gennaio 1910 emanata dal ministro dell'Interno Luzzatti, ripetutamente ridicolizzata nel libro, non è lo Stato «il più alto tutore della pubblica moralità». E sia lode agli antichi romani, che sapevano distinguere «tre cose molto differenti: il virtuismo, la temperanza, la dignità. I romani ignoravano la prima, tenevano in grande considerazione la seconda, ed in maggiore la terza». Le considerazioni paretiane non hanno solo un interesse storico o di curiosità: come ben scrive Franco Debenedetti nell'introduzione, oggigiorno il "virtuismo" si è metamorfizzato nel "politicamente corretto": «"Lotta continua" non guida più cortei, invece di università e fabbriche occupa le scrivanie dei direttori di giornali e Tv. Per quelli che non sprofondarono nel mondo coatto della lotta armata, è l'istituzionalizzazione delle "conquiste": le libertà diventano diritti, codificati in leggi, dettagliati in regolamenti, garantiti da magistrati, sorvegliati da autorità. E, se non basta, affermativamente imposti in "quote". Al potere, di cui si denunciava l'oppressione, ora si chiede di esercitare la protezione». E ancora: il "virtuismo" dell'epoca di Pareto «chiedeva al potere di dare la caccia all'immorale, per mantenerlo "fuori dalla scena" e impedire che si mostrasse in pubblico: il nuovo virtuismo va alla caccia dell'immorale all'interno del potere stesso, per renderlo visibile al pubblico. Così si compie l'evoluzione dall'esibizionismo al voyeurismo: quello sbraitava e gesticolava dal balcone del palazzo; questo sbircia e origlia nel corridoio del palazzo, nella stanza dell'albergo, nel salone della villa». L'allusione a fatti e persone dei giorni nostri è volutamente trasparente.

Troismo e nuovismo. Diagnosi sociale dedicata a Gustave Thibon, scrive Pietro Ferrari su “I Due Punti”. Preferisco una società più sobria nella dimensione pubblica (meno tette e culi sui media), ma meno sessuofobica in quella privata (meno guardoni nelle camere da letto altrui), più libera dal sesso che tormentata dal testosterone. Preferisco una società in cui i giornalisti, prima di bandire purghe contro la mercificazione del sesso, controllassero se nei loro giornali non vi siano all’ultima pagina le “inserzioni pubblicitarie” di prosperose donne dell’est “pronte a tutto” per “inviti piccanti”. Ogni riferimento ad eventuali rilievi di favoreggiamento della prostituzione è puramente voluto. Questa è la società della Legge Merlin, intreccio folle tra libertinaggio sfrenato e puritanesimo ipocrita, in cui prostituirsi è lecito o addirittura legittimo, ma andare a prostitute è riprovevole, in cui la donna è libera di guadagnare col suo corpo ma è immorale chi la fa guadagnare. Prostituirsi sarebbe un lavoro come un altro ma essere fruitori di quel “lavoro” sarebbe ripugnante. Laicità bigotta. Moralisti amorali da una parte contro ipocriti immorali dall’altra, uniti nella condanna per lo Stato Etico e l’Autorità Morale della Chiesa, ma bisognosi di usare la morale contro l’avversario. La morale esiste davvero? Ed è valida per tutti e sempre? Vi è una Istituzione legittimata ad interpretare e a proporre questa morale? Come si concilia tutto ciò col pluralismo culturale e la libertà occidentale negli Stati “laici”? Oppure non esiste La morale ed ognuno si fa la propria? La Morale o è una cosa seria o semplicemente non è; o è una legge o è una balla; o discrimina i comportamenti o si riduce a farsa. Basta coi difensori della famiglia (soprattutto nella dimensione “allargata”: due mogli e quattordici concubine), permissivi per sé ed intolleranti con l’altro. Basta coi farisei arrabbiati col prete che non dà la comunione ai concubini, ma pronti a scagliarsi contro il concubinaggio se il concubino ti fotte alle elezioni. Bunga-bunga no, Gay-Pride sì; Nicòle Minetti no, Vladimir Luxuria sì; donne oggetto no, libertà sessuale sì; Mara Carfagna da “gnocca senza testa” a (dopo la polemica nel PdL) “libera, forte e di grande stile”; la morale non si fa agli altri, la si vive in proprio conformandosi ad essa. Il "filosofo contadino" Gustave Thibon preferiva le peggiori realtà ai falsi ideali, intuendo come il reale sia contrario non tanto allo ideale, quanto alla menzogna. I popoli resistono alle tirannìe senza perdere equilibrio, ma davanti alle demagogìe si corrompono profondamente e per questo le élites dovrebbero essere delle nuove e vere  aristocrazie (I "migliori" in quanto tali distinti, ma non separati dal popolo), che sappiano imporre a se stesse e indurre nel popolo un clima rigoroso, non la “vita facile” o le illusioni. Oggi non abbiamo niente di simile.  Le società si ammalano a partire dalla testa e quindi guariscono a cominciare dalla testa, se è vero quello che sosteneva San Tommaso D'Aquino (il Santo tra i Dottori e il Dottore tra i Santi) che il Sovrano deve diffondere la Virtù. L’austerità però non ha nulla a che vedere con l’ipocrita seriosità, ma è diretta a risollevare ogni lembo della società dalla dissoluzione; Essa è “amore severo”, non “asettica solidarietà”, Essa è prova di auctoritas, non più complice interessata. Essa non è mai “argomento” contro l’avversario se prima non è autenticamente vissuta e proposta come stile di vita e visione del mondo. Vita individuale e vita sociale seguono medesime regole di sviluppo. La vita non è mai novità, ma rinnovamento: quanta bolsa retorica dei politicanti sul “nuovo”, sul “futuro”, sui “giovani”, quando in realtà sono sempre gli stessi, loro, affatto nuovi o giovani, più capaci di conservare i cognomi sugli scranni che i nomi dei partiti, involucri artificiali. Questo proliferare di Fondazioni che si ispirano al Futuro ("FareFuturo", "ItaliaFutura") esprimono in realtà l'esigenza di non volersi cimentare con la penosità del presente da governare. Allora viva i rivoluzionari? Sì, ma i veri rivoluzionari sono coloro che fecondano come fa la tempesta dopo la folgore, coloro che irrigano con l’entusiasmo la vera tradizione spezzando rami secchi e idoli imbalsamati, non coloro che distruggono: “Le primavere sono tenere, fragili e disarmate. Tutto ciò che nasce è prodigiosamente vulnerabile: i germogli d’aprile, gli uccelli del cielo nel loro nido. Così è delle primavere della storia umana: più le cose che nascono tra le nazioni sono grandi e pure, più sono indifese …. è normale che tutta una categoria di spiriti confonda promessa e miraggio …. Costoro si dicono ‘realisti’ ma sono soffocatori della primavera. L’utopìa si insinua nelle anime imitando i dolci colori dell’aurora e i teneri gesti d’aprile, ma non si tratta qui di una vera primavera: le utopìe sono febbri derivate dalla decadenza e che affrettano la decadenza. Che Dio ci conceda la grazia di saper discernere, nella ressa delle idee, ciò che è primavera da ciò che è menzogna e di combattere le utopìe senza soffocare le rinascite”. Per attestare la giovinezza, non sempre è attendibile il certificato anagrafico.

Il femminicidio è un dramma troppo serio perché si apra una discussione moralistica sull'uso del corpo delle donne nelle pubblicità, scrive Aurelio Mancuso su "L'huffingtonpost.it". Il rischio, dietro l'angolo, è che ancora una volta si dividano le donne per bene e per male, un errore politico e culturale così praticato in questi anni da tante associazioni femminili e femministe che non ha stoppato alcun omicidio di odio nei confronti delle donne. Si dice che solo nel nostro Paese vi sia un uso così sfrontato e inqualificabile del corpo delle donne nelle pubblicità, e questo può esser vero, ma da qui bisogna partire? Il possesso machista che si risolve contro l'autodeterminazione delle donne, dilaga nel nostro Paese, per oggettive tare culturali che non possono esser affrontate solo da un lato, ovvero dalla censura, dalla moralizzazione dei costumi, dalla sottrazione dei corpi svestiti o lascivi per fini commerciali. Perché l'altro lato è proprio il moralismo ipocrita, la madonizzazione delle donne che persiste a causa di visioni ecclesiali cattoliche ed ecclesiali laiche, prima fra tutte quella della sinistra istituzionale. Quando non si avrà più paura del sesso, della sua veicolazione come elemento essenziale della vita, dell'identità delle persone, dei generi, degli orientamenti sessuali, allora un pezzo importante della sessuofobia che porta alla castrazione sociale, nei rapporti intimi, nella rappresentazione e gestione dei poteri, sarà spazzato via. E di pubblicità non dovremo più discutere, perché il "mercato" riterrà non remunerativo ostentare corpi femminili. Parliamo di educazione sessuale obbligatoria nei programmi scolastici (meglio l'educazione alla salute e alla consapevolezza di se), di narrazione pubblica che permetta la demitizzazione della sessualità, imprigionata ancora dall'immagine classica dell'impurità del corpo, di elemento esterno alla volontà razionale, di promozione scientifica delle differenze dei generi e degli orientamenti. Insomma, fare un discorso unilaterale, comodo e anche rassicurante, che tende a eliminare i conflitti, ci riporta indietro, non aiuta l'individuazione concreta anche di strumenti di prevenzione e di tutela. E in ultimo si continua a girare intorno alla questione centrale: la violenza contro le donne è un problema degli uomini, in quanto tali, così come sono oggi pervenuti dopo i millenari vaneggiamenti antropologici sulla superiorità intellettuale e fisica. Lo scatenamento della strage delle donne, ha dentro un elemento di vittoria evidente: i maschi sono finalmente entrati in crisi, l'autonomia delle donne li fa agire come i loro antenati, perché sono i ruoli che stanno crollando. È necessario punire i reati, attrezzare di strumenti veri i centri donna, la polizia, ma anche oltre, aprire una discussione sulla necessità di come rieducare gli uomini, perché il femminicidio è la manifestazione violenta di una patologia sociale e culturale diffusa: il machismo.

L'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Sorelle, partiamo da quando da piccole ci viene insegnato che il sesso è un peccato, scrive Chiara di Notte - Città Invisibile. E’ un fatto culturale. Anche nelle situazioni di maggiore “apertura” mentale, ai bambini e alle bambine viene fatto capire, inizialmente dalla famiglia, poi dalla scuola e soprattutto per mezzo della religione, un concetto fondamentale: la separazione netta fra i due generi, ognuno dei quali ben distinto e con la propria sessualità, determinata secondo dei parametri ben definiti. Il maschio, che dovrà fare cose da “maschio”, viene perciò educato ad avere gusti e comportamenti secondo “canoni” maschili, mentre la femmina, essendo colei che poi dovrà adeguarsi a lui, viene educata ad avere comportamenti e gusti confacenti a quelli maschili. Il tutto secondo una logica per la quale ogni discrepanza fra il “modello” prestabilito e quella che sarà poi la personalità del bambino e della bambina in età adulta, verrà etichettata come “anomalia”, se non addirittura come perversione oppure patologia. Fin da bambini i maschi sono dunque abituati a giocare con giocattoli “da maschi”: soldatini, trenini, automobiline, armi giocattolo. Mentre alle femmine vengono riservate bambole con i loro vestitini, pentoline, stoviglie, casette da arredare e tutto l’armamentario necessario per essere in futuro ben inquadrate nel loro ruolo di brave madri e donnine di casa oltrechè di amanti devote e con una decisa tendenza eterosessuale. In questo tipo di educazione viene del tutto esclusa la possibilità che la persona, da adulta, possa poi avere gusti ed aspirazioni completamente opposti. Se oggi ricordo alcuni episodi di quando ero bambina, comprendo l’enorme “violenza” psicologica che talvolta i genitori possono operare ai danni dei loro figli, pur amandoli. Di questi episodi ne ricordo in particolare uno. Mia madre, che non voleva che giocassi con i soldatini che rappresentavano il mio divertimento preferito, ma che secondo lei non erano adatti ad una bambina, mi regalò un bambolotto. Era un bambolotto di plastica di quelli che, inclinandoli, parlavano. Per me, quel bambolotto è sempre stato un’angoscia. Forse per la fissità dello sguardo oppure per l’immobilità della bocca che, quando lo inclinavo, emetteva quella voce meccanica che mi terrorizzava, io quel bambolotto proprio non lo volevo. Preferivo i miei soldatini. Ma siccome Mamma me lo imponeva ogni momento, un giorno che ne abbi l’occasione lo infilai in una tinozza piena d’acqua e lo “affogai” fino a quando quel suo mugolio fastidioso e innaturale non divenne prima un gracchiare e poi si spense. Tutte voi sapete, presumo, quel che accadde dopo. Mamma ve lo avrà sicuramente raccontato. E’ uno dei suoi argomenti preferiti. Ricordo infatti come si arrabbiò per quel mio gesto e tuttora, nonostante i bambini io li ami più di me stessa, ancora non smette di ricordarmi quell’episodio facendomi quasi vergognare. Ma cosa significava tutto ciò in termini di personalità che poi avrei sviluppato da adulta? Preludeva forse a istinti infanticidi? Scarso senso materno? Latente omosessualità? O più semplicemente era il modo che avevo di ribellarmi ad un ruolo nel quale, fin da piccola, non mi sentivo felice in quanto costretta? Quel ruolo, appunto, di chi accetta passivamente la propria condizione di femmina imposta dall’alto e non invece come conseguenza di una libera scelta? Anche se allora non lo potevo ancora capire, oggi mi è evidente come dentro di me, già a quell’età, tutto lottasse per uscire fuori dal guscio nel quale mi si voleva rinchiusa. Comunque, questo è solo un esempio di cosa significhi indottrinamento ai ruoli e di conseguenza, insegnare ai bambini a considerare “buone” certe cose e “cattive” altre secondo il loro genere di appartenenza. Poi ci sono cose considerate cattive per entrambi i generi. Una di queste è il sesso. Il sesso è cattivo. Il sesso è male. Il sesso è vietato. Il sesso è immorale. E qualcuno, a causa dell’indottrinamento ricevuto, potrebbe anche aggiungere che il sesso è schifoso. Questo è il modo in cui la stragrande maggioranza dei bambini, ancora nel nostro cosiddetto ventunesimo secolo vengono educati. E so che, quando dico maggioranza, non sto rischiando di generalizzare. Ma non solo il sesso è un peccato, se poi si mette di mezzo anche la religione, diventa addirittura il “peccato originale”, quindi il più grande, il più cattivo di tutti, almeno per chi crede a ciò che è stato scritto nei libri sacri delle tre religioni monoteiste. Non ha importanza se il sesso è l’atto attraverso quale il genere umano ha potuto esistere. Non ha importanza se è col sesso che si accresce l’amore fra due persone. Non ha importanza se è quell’impulso primario che guida ogni essere umano verso il piacere e la felicità. La morale impone di considerarlo il fondamento di ogni vizio. Forse c’è chi ha ancora bisogno di credere che Dio avrebbe inventato un altro modo meno scandaloso per l'uomo e la donna di procreare e se non si fosse messa di mezzo quella maliziosa di Eva, con la sua curiosità, la sua inguaribile voglia di sapere, la sua incosciente aspirazione a vivere la vita provando ogni esperienza, forse quest’altro modo meno vergognoso esisterebbe. Ma le cose, come sappiamo, sono andate come sono andate. E chi è la principale responsabile di quel terribile errore divino? Chi è che rappresenta la fonte di ogni tentazione che conduce l’uomo alla perdizione? Chi? La donna, naturalmente! E l’uomo in tutto questo è solo una povera vittima. Vittima della vergogna legata al sesso. Vittima per il solo fatto di sentirne il desiderio. E se il sesso è cattivo, è male, è proibito, è immorale, è schifoso, lo è molto di più se a desiderarlo è la donna. Questo ci porta direttamente al tema: l'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Inutile dire che in un breve discorso non si possono affrontare tutte le cause e i sintomi dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale. Ma tenterò di definire almeno tre dei fenomeni principali che tutto ciò produce.

1 - Il primo fenomeno è il persistere della misoginia, nel considerare le donne come immature, irresponsabili, non in grado di fare scelte sessuali e di vita indipendenti. Viola ha commesso il “grande reato” di essere rimasta incinta quando è stata violentata da suo fratello, ed è stata scacciata di casa perchè ha rifiutato di abortire. E’ stata abbandonata e per sopravvivere ha dovuto prostituirsi anche durante il periodo di gestazione. Ora è madre di una bellissima bambina sana e intelligente, ma cosa ne è stato di suo fratello? Ha subito forse qualche castigo per ciò che ha fatto? No. L’unico castigo lo ha subito lei e se non avesse trovato aiuto, chissà dove sarebbero adesso lei e la sua bambina. E’ questo che accade: se una donna osa opporsi ad un sistema ipocrita e maschilista semplicemente rifiutando di interrompere una gravidanza, come ha fatto Viola, deve subirne le conseguenze. Ma se un uomo violenta la sorella ed è protetto dalla famiglia, non subisce alcun castigo. Il problema è forse limitato alle zone rurali della Moldavia dalle quali Viola proviene? Dovremmo augurarcelo, ma tutte noi sappiamo che non è così. Se si parla della storia recente dell’Est Europa e dei Balcani, la violenza sessuale contro le donne è un fatto ineludibile che si è manifestato a diversi livelli e in varie forme. Sono state le donne a vivere drammatici episodi di violenza durante i conflitti che hanno sconvolto i Balcani negli anni novanta. Oltre allo stupro, usato come vero e proprio strumento di offensiva interetnica, vi sono state innumerevoli situazioni di sopruso e di sopraffazione. I casi di stupro e di violenza sono stati decine di migliaia e raramente i colpevoli, tutti uomini, sono stati condannati. Come dimostra che a sedici anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, i responsabili degli stupri continuano a sottrarsi alle indagini e alla giustizia. Alcuni occupano addirittura posizioni di potere e molti vivono nelle stesse comunità delle loro vittime. Sono pochi in definitiva i colpevoli che sono stati assicurati alla giustizia attraverso i tribunali internazionali e nazionali. Amnesty International stima che anche oggi, nella sola area dei Balcani, ben 15.000 donne o ragazze o bambine subiscano ogni anno abusi sessuali di vario genere, molti dei quali da membri maschi della propria famiglia. Abusi che poi restano impuniti. Ma dicendoli così, sono solo dati statistici, freddi numeri che non riescono a dare la misura di questo orribile fenomeno, e noi tutte sappiamo quanto non sia accurata questa cifra, come la stragrande maggioranza dei casi non vengano denunciati per vergogna, passando quindi sotto silenzio. Di quelle che subiscono violenza sessuale, infatti, non si parla e spesso le vittime sono circondate da un’aura di qualcosa che sa di sporco, intoccabile, che è meglio non provocare, non sentire, non udire.

2 – Il secondo fenomeno è la celebrazione della verginità femminile. Soprattutto laddove l’influsso religioso sta tornando ad essere molto forte, ci si attende che le donne si mantengano vergini fino a quando si sposano. Per me, che sono cresciuta sotto il comunismo e che ho vissuto gli anni della mia emancipazione in una grande città, in piena indipendenza e libertà, tutto ciò pare una barzelletta di cattivo gusto. Però, purtroppo, non lo è. Questa nuova ondata di “moralismo” e di “sottovalutazione della donna” sta prendendo di nuovo vigore da quando il sistema comunista è caduto e la religione si è di nuovo incuneata nella vita delle persone sostituendosi all’antica “dottrina” di partito, soprattutto in quei luoghi lontani dalle grandi città, nelle zone rurali e più povere. Allora, dove porterà tutto questo? Alla ricostruzione dell'imene? All'utilizzo dell’imene artificiale? Le donne accetteranno questa umiliazione prestandosi a questa immonda pratica talvolta costrette proprio dalle loro stesse madri al fine di rifabbricare la menzogna? Oppure come fece una bambina tanti anni fa con un bambolotto, affogheranno l’ipocrisia nella tinozza della propria dignità?

3 - Il terzo fenomeno, ma non il meno importante, è la discriminazione di quelle donne che sono capaci di gestire liberamente la loro sessualità e che vengono immancabilmente ostracizzate per il loro stile di vita definito, nella migliore delle ipotesi, come scandaloso o audace. La donna, perciò, tranne rare eccezioni, deve accontentarsi di essere la destinataria dei desideri del maschio. Soggetto dunque passivo e non attivo della sessualità perchè a lei non dato esprimere ma, piuttosto, di essere espressa. E’ per questo motivo che quelle che sono così coraggiose da ribellarsi andando contro alle regole, che trasgrediscono nello stesso identico modo che è concesso al maschio che per gli stessi comportamenti viene considerato normale, devono sapere che nella società dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale saranno immancabilmente etichettate nel peggiore dei modi e che avranno sempre l’indice puntato contro.

Io credo che sia giunto il momento di non essere soddisfatte solo di lamentarci, ma che tutte quante per andare avanti dobbiamo fare qualcosa al riguardo: innanzitutto essere consapevoli di noi stesse e della grande forza che ci ha dato la Natura, e poi assumerci la nostra responsabilità. E qual è la responsabilità di noi donne in tutto questo? Qual è la nostra responsabilità nei confronti di questa ipocrisia sessuale che, fin da bambine, c’impedisce di fare delle libere scelte? Si tratta, almeno a mio avviso, di rifiutare il lavaggio del cervello che da secoli ci stanno facendo coloro che vogliono tenerci a bada, e che utilizzano il sesso come un elemento di controllo su di noi. E’ renderci conto che c’è qualcosa di sbagliato negli insegnamenti che ci sono stati inculcati. E’ credere che una vita sessuale sana, libera e non condizionata dai giudizi altrui è un nostro diritto. Una vita sessuale senza gli ostacoli posti dall’ignoranza, dall'educazione patriarcale, dal sessismo, dai tabù e dagli stupidi divieti. Si tratta dunque di educare le nostre figlie e i nostri figli in un modo diverso che porti le generazioni future ad un maggiore rispetto e comprensione del proprio corpo e della sessualità.

Per riassumere:

- il sesso non è  male. Il male è solo nella doppia morale misogina che penalizza le donne;

- il sesso non fa schifo. Quel che fa schifo sono gli inutili valori basati sul sessismo;

- il sesso non è immorale. Immorale è la spaventosa ipocrisia che dilaga ogni giorno di più.

Nudo artistico o pornografia? Si chiede . Anche se la fotografia non è antica come altre forme di espressione artistica, nondimeno molte sue forme vengono legittimamente considerate arte. Ciò non significa che tutte le “buone immagini” siano automaticamente artistiche (ma questo, a nostro avviso, vale anche per molti quadri e sculture…). Pertanto non tutte le fotografie si eleveranno alla dignità di seri nudi artistici soltanto perché mostrano donne o uomini privi di abiti. Basta consultare un qualsiasi vocabolario per rendersi conto che il termine “nudo” può essere infatti sia un aggettivo (che indica la condizione di chi non è coperto da vesti, cioè la nudità), sia un sostantivo (la rappresentazione artistica di un soggetto nudo). Il primo ha sicuramente una connotazione oggettiva, quasi “clinica”, mentre il secondo suggerisce un’interpretazione che attiene al campo dell’arte. Per un fotografo questa è una distinzione fondamentale, infatti possiamo affermare che l’immagine di un corpo nudo diventa un nudo, nel senso artistico, solo quando tale corpo viene messo in posa, illuminato, modellato e descritto non a fini documentativi, clinici o informativi che dir si voglia, bensì per scopi estetici ed interpretativi. Ma non basta. Esiste un sottile confine tra “bello e brutto”, tra “morale e immorale”. Soprattutto quando si parla di fotografia di nudo. Il fotografo e il pubblico delle sue immagini devono poter stabilire se una data fotografia sia definibile un’opera d’arte o una rappresentazione oscena. Il confine tra i due i campi è quasi impossibile da fissare, sia esteticamente, sia legalmente (Potter Steward, giudice della Suprema Corte di Giustizia USA, ha affermato: “Io non so esattamente cosa sia la pornografia, né so esattamente come descriverla; però quando la vedo, la riconosco!”). In linea di principio, ritengo che un’immagine sia da definirsi pornografica quando offenda il buon gusto di chi la osserva, non solo per la presenza dell’erotismo, ma soprattutto per quella sensazione di degrado della femminilità in generale e della donna ritratta in particolare che risulta inevitabile da una sua lettura. Quando un’immagine “sfrutti”, piuttosto che esaltare, le qualità erotiche e umane di un soggetto ci troviamo di fronte ad un lampante esempio di fotografia pornografica. Sebbene la pornografia sia spesso associata alla rappresentazione visiva della figura umana, una fotografia di nudo realizzata con onestà, sensibilità ed integrità è non soltanto una delle forme di espressione artistica più impegnative e difficili da creare, ma arriva a situarsi quasi agli antipodi del concetto di osceno. Un nudo magistrale può rappresentare uno dei massimi doni offerti al soggetto ritratto, un qualcosa che con la pornografia non ha assolutamente nulla a che fare…

Arte o pornografia? Nel dubbio Facebook censura. Nuovo caso di nudo artistico bloccato dai software del social netowrk: «L'étud de nu» di Guillot online con i seni coperti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”. Cos’è pornografia, cos’è arte? La domanda pare retorica, ai più. Non per Facebook. Ancora una volta il colosso di Zuckerberg non riesce a distinguere tra i due concetti. Un nudo femminile della celebre fotografa francese Laure Albin Guillot (1879-1962), pubblicato sul profilo del museo parigino Jeu de Paume per illustrare la mostra dedicata all'artista, è stato censurato e il profilo è stato temporaneamente bloccato. Certo va detto: per il museo parigino che ospita la mostra della pioniera dell'uso moderno della fotografia, Laure Albin Guillot, si tratta di un’enorme pubblicità. Ma a che prezzo? La pagina Facebook del Jeu de Paume è stata bloccata venerdì per 24 ore a causa del nudo femminile degli anni ‘40 postato sul profilo. I responsabili del museo, specializzato in fotografia contemporanea e video artistici, si sono affrettati a denunciare la vicenda parlando di «censura» da parte del colosso di Menlo Park: «Non distinguere tra un’opera d’arte e un’immagine pornografica è discutibile e soprattutto pericoloso». Laure Albin Guillot, che nel corso della sua vita si è dedicata a vari generi come il ritratto, il nudo, il paesaggio, la natura morta e il reportage, è stata anche una delle prime fotografe a lavorare in forma professionale per la stampa, l'edizione di libri, le illustrazioni e la pubblicità. Ciò nonostante, «L'étude du nu», questa l’opera finita nel mirino, infrange gli standard della comunità del social network. La foto in bianco e nero mostra una donna distesa e solo in parte nuda; le parti intime sono infatti coperte da un panno bianco. Nelle ultime ore il museo ha pubblicato la controversa foto su Facebook con una barra nera a coprire il seno e l’avviso che l'immagine è stata bloccata a causa di una violazione delle linee guida del social network (immagini di nudo non sono infatti ammesse su Facebook). Dopo i «numerosi messaggi di sostegno», la direttrice del museo, Marta Gili, ha annunciato che rifiuterà «ogni forma di censura». «La società non ha il diritto di fare una cosa simile con un’opera d’arte». Un portavoce di Facebook in Francia ha ammesso in una dichiarazione scritta che «a volte risulta difficile» riuscire a «distinguere tra arte e pornografia». Eppure non è la prima volta (e non sarà nemmeno l’ultima), che Facebook o meglio, i software automatici impiegati dal colosso californiano, censura alcuni dei profili a causa di fotografie ritenute lesive delle linee guida. L’estate scorsa, il social network rimosse l'immagine in cibachrome di Ema (nudo su una scala) del pittore tedesco Gerhard Richter dalla pagina del centro Pompidou di Parigi. Anche in quel caso, il motivo fu la nudità del soggetto. A seguito delle proteste, gli amministratori del sito si scusarono: avevano confuso il dipinto per una foto. Altro caso recente: a fine novembre scambiò un gomito - non proprio innocente, perché l'immagine venne creata apposta - per un seno femminile scoperto. Insomma, il social di Zuckerberg & Co. non va sul sottile, ma è fiero delle sue rigide politiche sulla pornografia. Con pene che vanno dalla semplice cancellazione, alla sospensione a tempo fino alla cancellazione del profilo per i recidivi.

Pinterest apre alle foto di nudo, gli artisti esultano, scrive “Il Messaggero”. Pinterest apre al nudo: la piattaforma digitale dedicata alla condivisione di fotografie, video ed immagini sta per dare ufficialmente luce verde alla pubblicazione di immagini senza veli proprio mentre Facebook e altri social network premono sul freno della diffusione di messaggi potenzialmente offensivi, violenti o sessisti. Una inversione a 'U' o quanto meno a 90 gradi decisa in seguito alle pressioni di artisti e fotografi. Finora l'etichetta di Pinterest per consentire l'affissione di foto sulla bacheca digitale era chiara: «Niente nudo, nudo parziale o pornografia». Ma «Pinterest è nata per consentire di esprimere le proprie passioni e la gente è appassionata dell'arte e l'arte include anche nudi», ha fatto sapere la società fondata nel 2010 da Ben Silbermann, Paul Sciarra e Evan Sharp al Financial Times rivelando l'intenzione di «far posto a queste richieste». Via libera dunque alla Venere di Milo e al Davide di Michelangelo mentre ieri Facebook si è impegnato a rivedere e migliorare la sua policy di moderazione online dopo che numerose aziende avevano ritirato la pubblicità per protestare contro il fatto che le loro inserzioni erano affisse accanto a messaggi violenti o misogini come quelli di gruppi che in apparenza avallavano femminicidi e stupri. Gli approcci divergenti - nota Il Financial Times - mostrano come i social network debbano fare un complicato gioco di equilibrio tra gli interessi dei loro utenti, la necessità di controllare e moderare quanto viene postato online e la pressione degli inserzionisti: Facebook guadagnerà 6,6 miliardi di dollari nel 2013, di cui 5,6 dalla pubblicità, secondo stime di eMarketer e la stessa Sheryl Sandberg, chief operating officer del colosso californiano, ha ammesso che «esiste tensione reale» tra quanto vogliono gli inserzionisti e la libera espressione. L'impegno di Facebook a far pulizia rendendo più severe le sue regole ha indotto alcune aziende, come la casa automobilistica giapponese Nissan, a tornare sul social network. Non così Nationwide, la maggiore società immobiliare del Regno Unito che ha annunciato di aver sospeso a tempo indeterminato gli spot fino a che non verranno definite «regole severe e chiare per impedire che il suo brand venga accostato a contenuti indecenti».

L'Onu e la guerra fredda del sesso. Si sorvola su regimi sanguinari e genocidi e ci si occupa del mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma non vi pare di stare un po' esagerando con la questione omosessuale elevata a priorità planetaria? L'Onu, che meglio sarebbe ribattezzare Omu visto che non si occupa di nazioni ma di omosex, censura Stati e religioni sul mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, sorvolando su banali incidenti come regimi dispotici e sanguinari, genocidi su base etnica o religiosa e pena di morte a gogo in grandi Paesi come la Cina. L'Omu arriva a censurare un'istituzione bimillenaria come la Chiesa sulla questione omo e sull'aborto, con la pretesa ideologica e invasiva di dettare pure alla fede i suoi canoni paranoically correct. La retorica organizzazione umanitaria, inefficace quando si tratta di risolvere le questioni legate ai diritti elementari della vita umana e della persona violata o di tutelare i cristiani massacrati nel mondo, getta benzina sul fuoco della Guerra fredda che si è riaperta tra Usa e Russia per le Olimpiadi invernali. Stavolta gli States hanno schierato non missili e testate nucleari ma lesbiche e omosessuali nel nome dell'omolatria violata. Lascio da parte il merito della questione, che peraltro riguarda, non dimentichiamolo, una piccola minoranza all'interno della minoranza omosessuale. Ma trovo assurdo che le questioni internazionali, i rapporti tra Stati, le sanzioni, le rotture diplomatiche e le censure, vengano regolati sempre e solo da questa ideologia trans e biofoba, onnipervasiva. Per far questo non c'è bisogno dell'Onu, Ban Ki-moon e Obama, bastano le Pussy Riot.

I Sex toys valgono 15 miliardi. All’Italia resta solo il porno, scrive Wall & Street, ossia Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco, su “Il Giornale”. Di Lady Gaga vi abbiamo già parlato in merito alla sua popolarità su Facebook, inferiore a quella della Coca Cola (a proposito su Twitter è stata di recente stracciata da Katy Perry che ha sfondato il tetto dei 50 milioni di follower). Oggi ve la proponiamo in una «luce» diversa pubblicando la foto di un gadget a lei ispirato. Si tratta di una torcia che in inglese si dice flashlight. Ma poiché l’oggetto si chiama fleshlight e il riferimento è a flesh (carne), l’utilizzo che se ne può fare è diverso. Per non perderci nei giri di parole vi diremo che si tratta di un gadget per praticare l’autoerotismo, un sex toy. Come rivelato da un’indagine promossa da My Secret Case, una piattaforma Internet specializzata nel commercio di questo tipo di articoli, nei Paesi industrializzati il 95% degli uomini e l’89% delle donne ammette di praticare l’autoerotismo. È una percentuale molto elevata che induce anche a porsi un altro tipo di domande. Ma noi non ci occupiamo di sociologia. Sono le donne, però, a essere più intraprendenti. Negli Usa il 60% di esse fa uso di giocattoli erotici, il 49% in Inghilterra e il 45% in Germania. In Italia solo il 28% delle donne ha fatto un acquisto «speciale». È anche una questione di mentalità, evidentemente. Le stime che circolano in Rete indicano che i sex toys producono un giro d’affari pari a 15 miliardi di dollari, un business che cresce del 30% all’anno. si tratta, però, di un vantaggio, soprattutto, per la Cina che produce oltre l’80% dei dispositivi. Nel Paese asiatico – dove la pornografia è illegale – negli ultimi vent’anni sono spuntati come funghi oltre 200mila sexy shop. Secondo i dati del Guangzhou Sexpo del 2012, l’industria del sesso fattura oltre due miliardi di dollari all’anno. Alibaba, l’eBay cinese, sulla sua piattaforma dà spazio a oltre 2.500 aziende che vendono sex toys. Il Rapporto Coop «Consumi & distribuzione» ha rivelato che quest’anno il nostro Paese dovrebbe registrare uno sconfortante -6,1 per cento negli acquisti del comparto non food. Per il settore del sexual entertainment (che va dal Viagra ai sex toys), la crescita sarà straordinaria: +6,4 per cento. La classifica Loveville pubblicata da Durex su dati Nielsen vede Bologna come città con maggiore propensione all’acquisto: 546mila euro in due mesi di monitoraggio. Seguono Firenze e Verona.   Circostanza confermata anche dai dati di My Secret Case: il 45% degli acquirenti risiede infatti nel Nord Est. A seguire il Centro, mentre Nord Ovest e Sud spendono meno. L’importo medio degli ordini è di tutto rispetto: 90 euro. Per il sesso non si bada a spese. P.S.: Wall & Street sono cattolici. Dopo la pubblicazione di questo post correranno subito in Chiesa a confessarsi…

Sesso insegnato ai bimbi dell'asilo: polemica e referendum in Svizzera. In diverse scuole del Cantone di Basilea i bambini ricevono un'educazione sessuale che a molti appare troppo precoce. Tra poco sul tema si terrà un referendum, scrive Luisa De Montis su “Il Giornale”. Insegnare il piacere sessuale ai bambini di quattro anni non sarà un po' troppo presto? Eppure avviene dal 2011, in decine di scuole elementari del Cantone di Basilea, in Svizzera. Nelle "sex-box" distribuite ai bimbi dai 4 ai 6 anni c'è tutto il necessario per spiegare l'anatomia del corpo umano e, soprattutto, come nascono i bambini. Con tanto di video esplicativi, pupazzi, peni e vagine finte.  Crescendo, ma di poco (tra i 6 e i 10 anni) ai bimbi vengono spiegati temi come la masturbazione, l'orientamento sessuale, i preservativi, le mestruazioni e l'eiaculazione. Salendo fino ai 13 e i 15 anni si affrontano, invece, altre tematiche sessuali. Si tratta di un percorso sperimentale di educazione sessuale, che dovrebbe diventare obbligatorio dal prossimo anno scolastico estendersi alla Svizzera tedesca, a quella francofona e al Canton Ticino. Con questo scopo: "Fornire ai giovani le conoscenze essenziali, le capacità, le competenze e i valori di cui hanno bisogno per conoscere la loro sessualità, provando piacere fisico, psichico ed emozionale". L'iniziativa ha fatto arrabbiare alcuni genitori, che si sono mobilitati promuovendo un referendum (che si terrà nei prossimi mesi) contro l'insegnamento troppo precoce del sesso, a partire dagli asili. Il referendum (che in tre anni ha raccolto 100mila firme) chiede di abolire l’educazione sessuale nelle scuole a bambini fino ai 9 anni di età, di renderla opzionale fino a 12 anni e obbligatoria per i più grandi, ma a una condizione: che sia tenuta da  insegnanti di biologia che si concentrino sulla riproduzione senza andare a toccare gli "aspetti sociali della sessualità".

Sesso coi minori? Perché no, è "accettabile", scrive “Libero Quotidiano”. Almeno così la penserebbe oltre un italiano su tre, il 38% per la precisione. E' quanto emerge da un'indagine Ipsos per Save the Children. Il 28% degli adulti ha tra i propri contatti degli adolescenti che non conosce personalmente, mentre l'81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti ed adolescenti siano diffuse e trovino terreno fertile su internet. Inoltre un italiano su dieci attribuisce la "colpa" dell'iniziativa di contatto proprio agli adolescenti. Le cifre - Secondo il 48% degli intervistati i ragazzi di oggi sono più disinvolti degli adulti nel loro approccio, nonché (per il 61%) sessualmente più precoci. Per il 36%, però, sono impreparati a gestire una relazione matura. C'è anche un 1% che sostiene che un rapporto sessuale con un adulto può essere formativo per il minore. Comunque per il 51% del campione gli adulti che fanno sesso con gli adolescenti sono o "irresponsabili" o "emotivamente immaturi". Il campione - L'indagine è stata effettuata a gennaio su un campione di 1.001 adulti tra i 25 e i 65 anni in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione Europea alla sensibilizzazione dei più giovani a un corretto e consapevole uso della rete. Tra i dati interessanti, anche quello che rivela che tra gli over45, il 37% del campione usa la rete (soprattutto i social network)per colmare il vuoto affettivo e conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto amoroso.

L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è ritenuto "accettabile" da quasi un pugliese su due (47%), sempre (21%) o ad alcune condizioni, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E’ quanto emerge da una ricerca nazionale Ipsos per Save the Children su "Le interazioni sessuali adulti-minori a partire da Internet", in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione europea alla sensibilizzazione dei più giovani ad un uso corretto e consapevole della rete. Dalla ricerca emerge che più della metà dei pugliesi si affaccia alla rete per colmare un importante vuoto relazionale e affettivo della vita reale: il 58% dei pugliesi afferma di utilizzare il web – soprattutto i social network – per conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto di affetto o amore. Il 29% degli adulti pugliesi ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente. La stragrande maggioranza (90%) pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino in Internet il principale strumento per iniziare e sviluppare la relazione, che può sfociare nell’incontro fisico, mentre uno su 10 attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto esclusivamente agli adolescenti. Il dato pugliese supera le percentuali nazionali - L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è infatti ritenuto "accettabile" da oltre un italiano su tre (38%). Il 28% degli adulti italiani ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente e l’81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino il loro 'input' su Internet. Un italiano su dieci attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto agli adolescenti. Dalla ricerca emerge inoltre che il 58% degli intervistati, dato più alto a livello nazionale, attribuisce agli adulti la responsabilità dell’iniziativa di contatto nell’interazione con un adolescente, ma secondo il 38% anche gli adolescenti hanno una parte attiva nell’iniziativa del contatto (per il 28% condividono questa responsabilità con gli adulti, mentre per un pugliese su 10 sono i ragazzi i principali responsabili). Il 32% degli adulti pugliesi considera infatti i ragazzi più disinvolti nell’approccio con loro, e sessualmente più precoci (50%), ma comunque impreparati nel gestire una relazione sessuale con una persona matura (40%). Di contro, per due intervistati su 100 la relazione sessuale con un adulto potrebbe addirittura essere formativa per il minore. La consapevolezza e la parziale accettazione delle relazioni di natura sessuale tra adulti e minori, tuttavia, non esclude il giudizio sugli adulti che intraprendono relazioni di natura sessuale con adolescenti, ritenuti irresponsabili dal 60% degli intervistati o emotivamente immaturi (27%).

Il portale web delle fantasie pedofile, dove anonimi autori si scambiano racconti di stupri e violenze su bambini, scrive “Libero Quotidiano”. Tutte opere di fantasia, assicurano i responsabili del sito, ma l'associazione per la lotta alla pedofilia Meter, che ha segnalato il web site alla Polizia Postale della Sicilia Orientale, non ce la vede giusta: troppo cruenti e verosimili i contenuti, come troppo duri sono i commenti. "Non chiediamo alla magistratura solo la chiusura del portale - si legge in una nota diramata dall'associazione -, ma anche di aprire un'indagine per istigazione alla pedofilia e alla sua pratica". Gli autori, anche italiani, "sono specializzati nelle storie in cui si insegna come stuprare i bambini  - si legge nel testo -. Del resto, per loro, raccontare è meglio che stuprarli realmente". Sul sito non vi sono immagini o video dal contenuto pedopornografico, ma solo testi della cui natura prettamente narrativa don Fortunato Di Noto, presidente di Meter, nutre dei dubbi: "Ma come si fa a dire che sono solo idee, immaginazione? - chiede -. Così fanno i negazionisti del razzismo, del nazismo, dei lager e dei campi di concentramento quando dicono che la soluzione finale era solo una idea. Pedofili scrittori che narrano stupri di bambini e le presentano come 'fantasie' che non fanno del male a nessuno - conclude -: ma i commenti sono tutto fuorché fantasie. Sono parole che mascherano una realtà drammatica e spesso taciuta, la realtà dell'abuso".

Che siano solo opinioni interessate da parte di un prete presidente di una associazione. Anche perchè è troppo facile parlare di pedofilia se poi....

Lui 60 anni e lei 11: per la Cassazione è amore. Annullata condanna a dipendente Comune Catanzaro. La decisione della Suprema Corte farà sicuramente discutere. I due erano stati sorpresi in flagranza in una villetta del catanzarese e l'uomo era stato condannato in processo a cinque anni per violenza sessuale su una minore. Ora la decisione di rivedere tutto riconoscendo l'attenuante della relazione sentimentale, scrive Stefania Papaleo  su “Il Quotidiano della Calabria. Lui 60 anni e lei 11 anni. Lui impiegato presso i Servizi sociali del Comune di Catanzaro, lei bimba di famiglia disagiata. La mamma l'aveva affidata alle sue cure. E lui l'aveva presa tra le sue braccia. Ma quando i poliziotti avevano fatto irruzione in quella villetta in riva al mare, le sue braccia la tenevano stretta sotto le lenzuola del lettone. Entrambi nudi. Ma anche innamorati, scrivono oggi i giudici della Corte di Cassazione, che, tra le righe di una sentenza che non mancherà di far discutere, individuano un'attenuante nell'accondiscendenza della vittima a consumare rapporti sessuali con l'imputato.  Così, annullata con rinvio la sentenza di condanna a 5 anni di reclusione per ben due volte inflitti a Pietro Lamberti, rispediscono gli atti alla Corte di appello di Catanzaro e ordinano un nuovo processo. Che ripartirà proprio da lì. Da quella villetta trasformata nell'alcova di un amore proibito. Fatto di telefonate quotidiane e incontri a tutte le ore. «Ma tu mi ami», le chiedeva romanticamente la minorenne. E lui, tentava invano di fermarla, per poi lasciarsi andare a commenti a sfondo erotico. Fino a quando il timore di una gravidanza lo avrebbe fatto desistere. E la paura si era sostituita al corteggiamento. Così come emerge da alcune delle centinaia di intercettazioni raccolte dai poliziotti. Lei gli faceva uno squillo quando si trovava da sola in casa e lui la richiamava dal cellulare, fatta eccezione per il week end. «Non chiamarmi sabato e domenica perché sono con la famiglia», la avvertiva. E lei ubbidiva. Così come avrebbe fatto quella mattina di sole del 22 giugno di tre anni fa, nel momento di indossare la gonna per poterlo “incontrare” in macchina, perché ritornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato troppo rischioso, le avrebbe fatto notare il “suo uomo”, che da qualche tempo si sentiva addosso gli occhi della madre della undicenne, tanto da raccomandare continuamente a quest'ultima di non aprire bocca con nessuno e di non raccontare della casa di Roccelletta, «perché questo è un segreto che ci dobbiamo portare fino alla tomba». Ma il segreto alla fine fu scoperto. E Lamberto era caduto dritto nella rete dei poliziotti che, dopo avere intercettato l'incontro, lo avevano seguito e colto in flagranza.

Detto questo possono apparire bigotte puritane e moraliste certe prese di posizione.

Cassazione, assolto un 60enne: fece sesso con una bimba di 11 anni, scrive Simona Bertuzzi su “Libero Quotidiano”.La Cassazione salva l'uomo: "Era una vera storia d'amore". Lei era in affidamento. Ma se per un giudice della Cassazione un uomo di sessant’anni che si porta a letto una bambina di 11 è amore, solo amore, e una condanna a 5 anni per violenza va annullata e rimandata in Appello perché l’attenuante della relazione sentimentale non è stata presa in considerazione, a noi che resta? La notizia l’ha raccontata con dovizia di particolari  Il Quotidiano di Calabria. A Catanzaro una mamma in difficoltà affida la sua bimba di 11 anni ai servizi sociali del comune. Le dicono: siete una famiglia disagiata signora, lasci fare a noi. E lei, la mamma disagiata, decide di fidarsi. Prende la sua bimbetta adolescente, coi suoi 11 anni di giochi, codini e Winxs e  la porta negli uffici dei servizi sociali. «In fondo alla scala a destra, signora...» dove c’è quell’impiegato così gentile, con quell’aria da medicone di paese. Da quel giorno tra l’impiegato  per bene e la ragazzina in difficoltà comincia una storia allucinante, fatta di corteggiamenti, letterine, messaggi. Poi le gite al mare nella villa di famiglia che resta vuota durante l’inverno, e infine il sesso. Come una coppia di amanti qualunque, come il più banale e il più visto dei rapporti clandestini.  Il giorno dell’arresto il sessantenne viene trovato a letto nudo con la bimba, nella sua casa estiva. La piccola è svestita anche lei e lo abbraccia. La polizia che ha fatto irruzione nella casa non ha dubbi. Finisce come deve finire: l’arresto e poi la condanna a 5 anni di carcere per violenza sessuale. Fino a quando un solerte avvocato non fa notare che la ragazzina era consenziente quando faceva sesso con l’impiegato comunale e dunque non è stata considerata l’attenuante della relazione sentimentale. Di lì il ribaltamento della sentenza. Amore dicono i giudici. Non pedofilia come siamo abituati a considerare e giudicare qualunque rapporto con un  minore. E a sostegno della tesi si portano le centinaia di intercettazioni fatte dalla polizia. Dalle quali emerge che l’undicenne lo assillava quotidianamente con la domanda che fanno tutte le amanti: «Mi ami?. E lui all’inizio tentava di fermarla perché temeva un gravidanza indesiderata, ma poi sai com’è,  uno alla fine cede e si lascia andare. Sempre le intercettazioni dicono che lei lo chiamasse in continuazione quando era sola in casa, e lui le rispondesse dal cellulare, imbarazzato e durissimo: «Non cercarmi  il sabato e la domenica, lo sai che sono in famiglia». Anche quella mattina del 22 giugno di tre anni fa andò più o meno così. Lei indossava la gonnellina bella per «incontrarlo» in macchina, perché tornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato rischioso. E lui fu più duro del solito: «Mi sento addosso gli occhi di tua madre, non devi aprire bocca con nessuno e non devi raccontare della casa di Roccelletta perché questo è un segreto che dobbiamo portarci nella tomba». Amore dicono i giudici. Anzi no scusate: una relazione sentimentale. No. Non è vero. Avvocati, giudici, fino all’ultimo praticante di tribunale avranno fatto ogni cosa a norma di legge in questa orribile vicenda. Ogni cavillo sarà stato considerato, ogni telefonata sarà stata risentita fino all’inverosimile, fino alla nausea. Ma noi no. Noi che siamo solo gli spettatori inermi dell’orrore, le mamme e i papà che tremano ogni volta che nostra figlia adolescente chatta su facebook o ha lo sguardo assente e un po’ smarrito a tavola, noi non possiamo leggere, girare il capo, e fare finta che sia tutto ok. Che non sia violenza. Che davvero sia possibile un rapporto d’amore tra un 60enne e una bimba di 11 anni.  Anche se lei scriveva sms. Anche sei lei diceva «mi ami»,  metteva il vestito «degli incontri in macchina» e aspettava che mamma uscisse  a comprare il pane per rifugiarsi nella sua cameretta e fare una telefonata al suo amore. Anche se lui, forse, pensava davvero di amare quella bimba. Qualcuno dirà che al giorno d’oggi le undicenni sembrano giovani donne fatte e finite, che vestono come le grandi e ammiccano come loro. Era dovere di quell’uomo  vedere l’orrore di quello che stava facendo. Sentire la puzza di violenza e perversione e fuggire lontano, preservando se stesso e la bambina dal più aberrante dei finali. E invece no: lui, che faceva l’impiegato per i servizi sociali e avrebbe dovuto strappare la ragazzina al disagio, sussurrava al telefono dalla sua poltroncina calda di marito e impiegato irreprensibile: «Non chiamarmi a casa...». E già te lo vedi il sabato fare la spesa, vedere gli amici e raccontare alla moglie indaffarata in cucina le ultime dal Comune come se nulla fosse. Diceva talvolta alla bimba: mi sento addosso gli occhi di tua mamma. Ma ve lo immaginate cosa deve aver provato quella mamma a sentirsi dire che l’uomo che doveva aiutare la sua bambina aveva abusato di lei? Che lei stessa aveva consegnato la figlia all’orco? Anzi, l’aveva  raccomandata?  Pensavano fosse amore i giudici. Invece era violenza e schifo e orrore.

Billy Crystal, tutta la verità sull'orgasmo di Meg Ryan. Da Orson Wells alla celebre scena del finto amplesso in "Harry ti presento Sally": in un libro tutti e 65 gli anni dell'attore, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.. E’ il 1975. Un giovane comico di nome Billy Crystal è stato ingaggiato per apparire al Tonight Show di Johnny Carson. E’ la sua prima volta nel tempio della comicità americana. In un angolo, seduto su una sedia, c’è Orson Welles – ospite fisso del programma - che sta ripassando le sue battute. “All’Università di New York”, ricorda Crystal, “Scorsese ci aveva parlato molto di Welles e del suo straordinario lavoro di attore e regista (…) e ora che me lo ritrovavo davanti avevo una certa soggezione”. Billy, preso dall’entusiasmo, gli si avvicina. “Mi scusi, signor Welles. Sono Billy Crystal, lavoro anche io nello show e volevo dirle che ho studiato i suoi…”. Welles lo interrompe bruscamente: “…film, e lei è un innovatore e un grande regista e bla bla bla. Sto lavorando, va’ a farti fottere”. Questo episodio, assieme ad altri altrettanto divertenti, è contenuto nell’autobiografia che Crystal ha scritto appena compiuti i sessantacinque anni, appena pubblicata in Italia da Sperling (Dove sono stato, dove sto andando e dove diavolo ho lasciato le chiavi?, pp. 308, euro 18). Si tratta di un memoir esilarante, che al racconto della carriera del grande comico americano unisce le sue riflessioni sull’invecchiamento, sul sesso, sull’amore (è sposato con Janice dal 1970, caso più unico che raro a Hollywood) e su mille aspetti della vita. Un altro episodio divertente è il dietro le quinte di Harry ti presento Sally, il celebre film di Rob Reiner del 1989.  E’ la mattina in cui Meg Ryan si appresta a entrare nella storia del cinema registrando la scena dell’orgasmo al ristorante. “A un tavolo vicino era seduta Estelle, la magnifica madre di Rob. Era lei la signora che dice: ‘Quello che ha preso la signorina’. Cominciammo a provare, e Meg sembrava un po’ insicura. Il primo orgasmo fu così così; in quello successivo sembrava fossimo sposati da dieci anni. Forse era un po’ nervosa perché doveva condividere il suo orgasmo con tanta gente. Rob, un po’ spazientito, la invitò a fargli posto al tavolo perché potesse mostrarle cosa voleva da lei. Così mi ritrovai seduto di fronte quest’omone barbuto e sudaticcio pronto a eccitarsi. (…) Dopodiché Rob si esibì in un orgasmo da fare invidia a King Kong. ‘Sì, Sì, Sì’ urlava, sferrando certi pugni sul tavolo che i sottaceti volavano e l’insalata di cavolo fluttuava a mezz’aria. Una volta terminato, gli artisti di contorno applaudirono e Rob mi prese da parte. ‘Ho commesso un errore’, mi confidò. ‘Non avrei dovuto farlo’. ‘Meg non se la prenderà. Non credo tu l’abbia messa in imbarazzo’, lo rassicurai. ‘Ma no, cos’hai capito?’, replicò. ‘Ho appena avuto un orgasmo davanti a mia madre’”. Il meglio di sé, come prevedibile, Crystal lo offre nei monologhi da stand up comedian. Prendiamo i brani sul sesso. “Poi c’è quella pubblicità del Cialis dove dicono che se lo prendi vai avanti per trentasei ore. Puoi fare sesso in qualsiasi momento, nell’arco di quelle trentasei ore. Ma così è troppo stressante per me. Viviamo in una società frenetica: vogliamo tutto subito, abbiamo internet e messaggi istantanei, quindi vogliamo sesso istantaneo di certo non un Cialis che fa effetto per trentasei ore. Trentasei ore è più della durata totale della mia vita sessuale! E poi il Cialis non va bene per noi ebrei. ‘Irving, prendi questa pasticca, funziona per trentasei ore’. E Irving: ‘Trentasei ore in un anno, giusto? Posso riscattare quelle che non uso? Posso scambiarle con quel servizio di piatti?’”. O ancora: “Ho sempre pensato che il segreto per avere una vita sessuale soddisfacente fosse la varietà. E’ per questo che Dio mi ha dato due mani”. A un certo punto, Crystal immagina di origliare la conversazione di una coppia. Lui e Lei avevano venticinque anni nel 1973 e nel 2013 ne hanno compiuti sessantacinque. “1973. Lui: Guardati, sei bellissima. Lei: Oh, ma dai! 2013. Lui: Mai viste due tette così! Lei: Smettila di guadarti allo specchio e vieni a letto.” “1973. Lui: Perché tieni gli occhi aperti? Lei: Perché mi piace guardarti mentre facciamo l’amore. 2013. Lui: Cosa stai guardando? Lei: Le tende, non si intonano con la parete”. “1973. Lei: Cavolo, sarà almeno venti centimetri! Lui: Aspetta di vedermi eccitato! 2013. Lei: Accidenti, è così duro. Lui: Il dottore ha detto che è benigno”.  Infine, una piccola dichiarazione d’amore per la sua città. “A Los Angeles gli inseguimenti fanno più ascolti di CSI. Sono i reality originali. C’è quest’auto che va contromano in autostrada, poi a centoquaranta in un centro abitato, dove si schianta contro una recinzione. Al che il tizio al volante scende dalla macchina e si mette a correre attraverso i cortili delle case saltando le staccionate, mentre la troupe sull’elicottero lo inquadra dall’alto con un riflettore puntato su di lui. Personalmente, credo che sia una delle migliori performance di Lindsay Lohan”.

Chi ha paura del porno in rete? Si chiede Emmanuele Jannini su “Panorama”. Il mantra ripetuto e rilanciato dai media è sempre lo stesso, acritico e pedissequo: attenzione alla pornografia e al cybersex! Internet pullula di pericoli per la salute sessuale e sociale di giovani e adulti. Ed ecco che arriva “l’esperto” dichiarante coram populo che il sesso on line genera mostri, perversioni (per gli addetti: parafilie) e subito dopo se ne alza un altro che cerca i riflettori ribattendo: no; produce invece astenia sessuale, desiderio sessuale ipoattivo, inibizione. Ma su una cosa sono entrambi d’accordo: l’inventarsi a tavolino due numeri spacciati per “ricerche” (che naturalmente non verranno mai pubblicate su un vero giornale scientifico) sulla pornoaddiction, giusto per guadagnarsi quei 15 minuti di celebrità mediatica che a nessuno si negano. Qualche mese fa il Journal of Sexual Medicine mi ha chiesto di valutare la letteratura scientifica su questo argomento. Mi è parso che ben pochi siano riusciti a sfuggire alla tentazione di un atteggiamento giudicante, più teso a cogliere i rischi che non i possibili benefici dell’espressione della sessualità on line. Così è stato per Robert Weiss, che si guadagna da vivere “curando” i sexual addicted nel suo Sexual Recovery Institute, denunciando che il 12% dei siti internet sono porno (avrei detto di più), il 25% delle parole googlate è correlato al sesso (68 milioni al giorno), il 35% dei download è porno, 40 milioni di americani sono pornofili, il 70% dei giovani visita un sito porno almeno una volta al mese (1/3 sarebbero donne) e il giorno preferito per il cybersex sarebbe la domenica e le feste comandate. Racconta questi numeri come rappresentazione dell’abisso di perdizione su cui ci sporgiamo ad ogni click, ma a Robert Weiss non viene in mente che il pianeta non è, si direbbe, popolato da zombi iper- o ipo-sessuali  contagiati dal morbo internettiano. Nonostante la diffusione di internet, la gente non si accoppia selvaggiamente sulla metropolitana e la pressione demografica anziché calare è in continuo, drammatico aumento (ho appena finito di leggere l’ultimo Dan Brown: ne è valsa la pena anche per riflettere su quest’ultimo – infernale – aspetto). La stessa orrenda piaga dei delitti sessuali si colloca molto più facilmente nell’aerea dell’ignoranza e della repressione sessuale che in quella della licenza, come il paradigma vittoriano di Jack-the-Ripper ha insegnato e la cronaca conferma di continuo. In effetti, quando si cerca una verifica empirica, galileiana, scientifica dei pericoli della pornografia e della rete, le paure artatamente evocate da chi è interessato a suscitarle sembrano venir meno. Il collega Gert Martin Hald dell’Università di Copenaghen ha scoperto che la pornografia è solo uno dei fattori, e non il più determinante, che si può correlare a comportamenti devianti o a rischio. Come sempre, non è il mezzo a creare il pericolo, come non è il chianti a creare l’alcolismo. Né i sempre esistiti terrorizzati dai tempora e dai mores riusciranno a conculcare la scopofilia (che non sta per, come sembrerebbe ai non grecisti, la passione per la copula, ma quella di chi ama guardare chi copula). Che il voyeurismo sia evidentemente innato nella nostra specie lo dimostra la lettura del godibilissimo The Prehistory of Sex: Four million years of human sexual culture di Timothy Taylor (Fourth Estate, Londra, 1996): appena l’uomo primitivo ha imparato a graffitare le sue caverne le ha riempite di immagini sessuali. D’altra parte il nostro cugino macaco è disposto a “pagare” con la sua riserva di frutta la visione (noi diremmo: pay per view) di fotografie dei genitali delle femmine top rank (noi diremmo: dive). L’ha elegantemente dimostrato Robert Deaner del Dipartimento di Neurobiologia della Duke University, North Carolina. Purtroppo sembra che nella nostra specie sia anche innato l’istinto censorio che si direbbe talvolta si alimenti di invidia. Censurando e lacerandosi le vesti, pochi si accorgono del vero pericolo della pornografia: il modello di accoppiamento è rudimentale, violento, maschilista, performante, ginnico, irreale, sostanzialmente costruito sulle grossolane proiezioni maschili. Tuttavia la stragrandissima maggioranza degli utilizzatori, anche abituali, ne trae piacere senza cercare di imitarne le imprese sintetiche e artefatte, esattamente come succede a uno spettatore delle olimpiadi che si diverte e partecipa, ma poi non si sente frustrato per non nuotare come le medaglia d’oro dei 100 metri rana né prende a cazzotti o passa a fil di spada il suo prossimo appena spento il monitor. Tutto rimane nell’ambito (sano) della fantasia. Ignoranti e ingenui possono invece pensare che non sia adeguato/a chi non abbia le dimensioni di Rocco Siffredi, chi non duri come la leggenda metropolitana disse di Sting e chi non sia una disponibilissima sacerdotessa del sesso come l’indimenticata Moana Pozzi. E poi ci sono i perversi, quelli veri: la pornografia spasmodicamente cercata non è la causa della loro malattia, che ha radici ben più remote; semmai ne è la conseguenza. Un sintomo, quindi. E un amplificatore del tratto psicopatologico che trova cure sia psicoterapeutiche sia farmacologiche. C’è un solo antidoto per questi, che sono i veri seppur rarissimi rischi del porno internettiano: la conoscenza (nam et ipsa scientia potestas est, diceva Bacone e ho suggerito queste parole quando si è trattato di trovare un motto per il mio Dipartimento universitario all’Università dell’Aquila) e l’aperta discussione. Come faccio con voi in questo blog che apre lo spazio – ovviamente internet – di  Sex Cathedra. Professore Emmanuele A. Jannini – Coordinatore del Corso di Laurea Indirizzo Psicologia della Devianza e Sessuologia – Università degli Studi dell’Aquila e di Sex Cathedra.

È fashion o porno? Scopriamo il trucco...scrive  Melissa Panarello su “L’Unità”.  “Fashion or Porn?” è il nome di un quiz che in questi giorni sta girando su Facebook. La ragazza nella foto è seminuda e bella, ci sono le parole porn e game che già di per sé costituiscono ottimi motivi per aprire la pagina e giocare a quello che si rivela essere il quiz d’intelligenza più difficile del decennio. Vengono proposti particolari di quaranta foto ed è da quei particolari che bisogna indovinare se si tratta di un’immagine pubblicitaria o di una scattata su un set porno. I creatori del test non hanno minimamente pensato di aiutare i fannulloni che decidono di giocare, così capire se si tratta di una foto porno o fashion risulta praticamente impossibile (a meno che, come me, non vi arrendete e giocate tutto il giorno così da conoscere ormai ogni foto). La discriminante, ovviamente, sono i genitali. Dove ci sono genitali ben esposti e “in azione”, si tratta di porno. Il resto è arte. Un’altra differenza la traccia lo sguardo: dove ci sono occhi languidi oppure divertiti, si tratta di porno. Se sono vuoti, senza espressione, sono occhi prestati alla moda. Anche le piante finte possono aiutare: nei set porno, per qualche misteriosa ragione, usano sempre ficus benjaminus di plastica. Quello che stupisce è quello che in realtà già sappiamo tutti, ovvero che il confine fra pornografia ed erotismo è sempre più sfocato, che l’erotismo è morto negli anni 80, quando lo spietato Patrick Bateman spiava gli hard bodies dal suo divanetto nel privé oppure quando in Italia Umberto Smaila sorrideva beato fra le ballerine di “Colpo Grosso”. Il mercato ha semplicemente capito che la pornografia frutta molti più utili dell’erotismo, dopotutto l’etimologia del nome è molto chiara: il verbo pernemi (da cui porne, meretrice) significa appunto vendere. Se vuoi vendere, dunque, devi usare lo stesso linguaggio della pornografia, ma con un’eccezione: salvare i genitali. Seguita quest’unica, semplice regola, puoi fare quel che vuoi: chiedere alla modella o all’attrice di mimare un orgasmo per vendere un pacchetto di fazzoletti, alludere a un ménage-à-trois per sponsorizzare una concessionaria di auto usate, far calpestare un uomo da un tacco 12 per mostrare l’ultima, strepitosa collezione primavera/estate. La pubblicità e il mercato devono tutto alla pornografia. La pornografia, al contrario, non ha debiti con nessuno. Lei è quel che è: sfrontata, volgare e sincera. Mentre tutti gli altri linguaggi strizzano l’occhio, la pornografia ha la capacità di guardarti con tutti gli occhi aperti, anche un po’ infantili. E’ questo che la rende irresistibile, tanto invidiata e imitata. Roman Polański dice che mentre l’erotismo usa solo una piuma, la pornografia usa il pollo intero. Le pubblicità proposte nel gioco, che sono le stesse che vediamo tutti i giorni, ovunque, usano un’ala o un petto di pollo. Questo significa che presto arriveremo tutti a mangiare il pollo intero? Che si abbandoneranno le allusioni e diventerà tutto pornografia? Non credo. Il mercato, oltre che di sesso, ha bisogno di nutrirsi di mistero. Se non alimenti il mistero anche i messaggi sessuali perdono potenza, non hanno più valore. La coscia di pollo, dunque, è il limbo cui siamo approdati e su cui rimarremo per molto, molto tempo. Sono fermamente convinta che associare il corpo al sesso non sia di per sé umiliante né tanto meno scandaloso. È anzi separandoli che si creano sempre più fratture, crisi identitarie, sessuofobia. Il corpo è anche sesso e il sesso, immagino/spero/credo, non è umiliante per nessuno. L’uso che il mercato fa del corpo e del sesso non toglie senso e bellezza ai corpi e ai desideri sessuali: se una società ha una coscienza sessuale definita, se non ha paura delle sessualità in tutte le sue forme, se non ha paura del corpo e delle infinite possibilità in esso racchiuse, come può un cartellone sull’A1 minacciare l’identità sessuale o denigrarla? Ogni cosa è spettacolo e lo spettacolo, per sua natura, si ciba di e vomita menzogna. Scoperto il trucco, siamo tutti liberi.

Nymphomaniac di Lars Von Trier: "Un film ripugnante da amare". Il chiacchierato lungometraggio che promette sesso esplicito ha debuttato in Danimarca. E spuntano le prime recensioni. Controverse, scrive Simona Santoni  su “Panorama”. Il giorno di Natale Nymphomaniac, il nuovo lavoro di Lars Von Trier che promette sesso esplicito a profusione, ha debuttato in Danimarca. E intanto cominciano a comparire le prime recensioni. Il film racconta la storia erotica di una donna che si è autodiagnosticata ninfomane, interpretata da Charlotte Gainsbourg. Dopo un certo vuoto distributivo, il lungometraggio finalmente ha trovato distribuzione in Italia grazie all'audace Good Films di Ginevra Elkann. La pellicola è diventata oggetto di attenzione ancor prima dell'inizio delle riprese perché il controverso e innovativo cineasta ha annunciato che si tratta di un porno con scene di sesso vero interpretate da attori hollywoodiani come Gainsbourg, Uma Thurman, Shia LaBeouf, Willem Defoe e Christian Slater. Secondo alcune fonti in realtà Lars Von Trier non ha detto tutta la verità: per le scene più hot, infatti, professionisti dell'hard avrebbero "prestato" i loro organi genitali ai divi.  Panorama.it ha già pubblicato i teaser trailer scandalo  (uno è stato rimosso da YouTube per i suoi contenuti ritenuti inappropriati), il trailer ufficiale  e i character poster  che rappresentano l'orgasmo. In attesa di poter vedere l'ultima provocazione del controverso regista danese anche da noi, ci affidiamo alle parole dei colleghi stranieri.  "Nymphomaniac di Lars von Trier randella il corpo e intenerisce l'anima. È sconcertante, assurdo e assolutamente affascinante", scrive Xan Brooks sul Guardian.  "Un film sul sesso che è volutamente poco sexy e una lunga storia loquace (due volumi, quattro ore) che in gran parte parla a se stessa. Quelle figure nude in movimento sono solo una distrazione". E ancora: "Personalmente l'ho trovato un'esperienza livida e faticosa ma il film è rimasto con me. È così carico di calci piazzati, così screziato di idee ossessive e voli arditi della fantasia che raggiunge una sorta di trascendenza. Nymphomaniac mi infastidisce, mi ripugna e penso che potrei amarlo. Si tratta di un rapporto violento; ho bisogno di vederlo ancora". Secondo Peter Debruge di Variety l'enfant terrible del cinema internazionale - ormai non più enfant ma sempre terrible - "consegna un denso lavoro progettato per scioccare, provocare e infine illuminare un pubblico che considera fin troppo pudico". Tra tanti riferimenti all'arte, alla musica, alla religione e alla letteratura, "in questa versione di Nymphomaniac l'unica eccitazione nell'intenzione di Von Trier è di tipo intellettuale, rendendo questa immagine filosoficamente rigorosa più adatta ai cinefili che alla folla impermeabile".  Il film infatti è pensato per essere proiettato in due versioni; quella "corta" e soft è di quattro ore ed è quella attualmente uscita nelle sale danesi, divisa in due parti. La versione più lunga e hard è della durata di 5 ore e mezza e anche questa è divisa in due parti. Di questa versione, il volume 1 avrà la sua prima mondiale al Festival di Berlino. Todd McCarthy su Hollywood Reporter ci rivela che in fin dei conti Nynphomaniac è molto meno hard "di quanto molti potrebbero aver immaginato o sperato. Eppure non è mai noioso". Nymphomaniac è uno dei rari film di Von Trier a non aver debuttato al Festival di Cannes, da cui il regista venne cacciato nel 2011 per alcune dichiarazioni sconcertanti sul nazismo. In Italia arriverà a marzo nelle due versioni (sarà distribuito così anche negli Usa da Magnolia Picture). 

Von Trier sbarca a Berlino con «Nymphomaniac» e sdogana il sesso esplicito. Nelle sale aumento le pellicole osé. E tornano alla memoria Kubrick e Bertolucci, scrive Dina Disa su “Il Tempo”. Con l’avvento di Internet il mercato dei film porno è praticamente finito, distrutto dai video relity online e dall’amatoriale. Ora il sesso esplicito è territorio del cinema d’autore. Sono passati i tempi in cui Bertolucci faceva scandalo con «Ultimo tango a Parigi» o quando Malle raccontava i suoi adolescenti perversi e la Bellucci si prestava ad una scena di sodomizzazione per ben 9 minuti diretta da un talentuoso Gaspar Noè in «Irreversible». La tendenza sta diventando quasi un obbligo anche per le star più affermate che si esibiscono in scene lesbo o full frontal d’autore. Da «Shame» di Steve McQueen, con un glorioso Michael Fassbender, che ha suscitato entusiasmo presso critica e pubblico, anche per le immagini in cui appariva nudo in fullscreen al lesbo movie «La vie d’Adele». La fantasia di Kubrick in «Eyes Wide Shut» non si può certo paragonare al trasgressivo «Shortbus», esplicito sì, ma poco raffinato e ossessionato dal contorsionismo. Nonostante due precedenti eccellenti come la fellatio metafisica di «Batalla en el cielo» del messicano Reygadas e la fellatio americana di «The Brown Bunny», di Vincent Gallo (2003), la ribalta porno d’autore parte soprattutto Oltralpe. Ne sanno qualcosa gli amatori di «Baise-moi» di Coralie Trinh Thi, interpretato da veri attori hard core che con disinvoltura offrono le proprie performance alla cinepresa. Mentre il nostro pornoattore Rocco Siffredi è apparso in «Romance» di Catherine Breillat. A parte «Caligola» di Brass, l’erotismo di Bertolucci e l’altro grande cult, «Impero dei sensi» di Oshima, il film d’autore con scene hard in Francia ha tradizione più solida. Ora tocca al danese Lars Von Trier scandalizzare, e per giunta la platea raffinata di un festival intellettuale come la Berlinale (6-16 febbraio), con il suo «Nymphomaniac». Ad interpretarlo ancora lei, la sua musa di sempre, Charlotte Gainsbourg, nei panni di una ninfomane raccolta insaguinata per strada da un professsore (Stellan Skasgard) al quale racconterà le sue estreme esperienze sessuali. Nel cast anche Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Jamie Bell, Uma Thurman, Willem Dafoe, Jens Albinus e Connie Nielsen. Tra genitali finti, sesso vero con attori porno usati come controfigure, membri maschili di ogni genere e colore che riempiono il grande schermo, la versione integrale (di oltre 5 ore) sarà proposta alla Berlinale mentre l’altra sarà distribuita a marzo in Italia da Good Films. Il film è di grande livello artistico: certo, può non piacere o irritare, ma è impossibile che non colpista lo spettatore, preso per mano verso i lidi più estremi della sessualità. Certe scene di masochismo, per la Gainsbourg, «sono state umilianti», soprattutto quando si è lasciata frustare a sangue legata su un divano. Mentre il cerebrale professore trovava paralleli avventati tra le avventure erotiche della sua eroina e le realtà culturali, come la successione numerica di Fibonacci (paragonata alle infinite posizioni assunte dalla Gainsbourg) o la differenza tra sessualità libera e quella sadomaso, rapportate alla Chiesa d’Oriente e a quella più punitiva d’Occidente. L’escalation della protagonista ripercorre i déjà vu di Anais Nin, Henry Miller e del Marchese de Sade. Diverse le presenze italiane alla Berlinale (compresa Valeria Golino in giuria), ma nessun film in concorso: nella sezione Generation «Matilde», cortometraggio di Vito Palmieri e «Il sud è niente» di Fabio Mollo; nella sezione Forum «Materia oscura» documentario di Parenti e D’Anolfi (girato nel poligono del Salto di Quirra in Sardegna dove gli eserciti hanno testato per anni le nuove armi con danno all’ambiente); nella Kulinarischen Kino saranno presenti «Couscous Island», documentario di Amato e Scarafia, oltre a «Green Porno Season Two» di Isabella Rossellini e Jody Shapiro, «Slow Food Story» di Stefano Sardo e «Cavalieri della laguna 1» di Bencini. Nella sezione panorama sono infine attesi «Felice chi è diverso» di Amelio, «In grazia di Dio» di Winspeare e «La migliore offerta» di Tornatore. Tra le anteprime internazionali, oltre a «Nymphomaniac», anche «Monuments Men» di George Clooney, «Grand Budapes Hotel» di Anderson e poi, Resnais, Linklater e Bouchared.

Tira più un video hot di un carro di libri!! Questa è l’opinione di Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Per fare il verso ad un antico detto: tira più un pelo di figa che un carro di buoi. Tira più un video hot di un carro di libri? Il celebre adagio si può tradurre in un’agile regoletta sull’informazione on line. Ma solo a un’occhiata frettolosa e quanto mai accigliata. Il dibattito sulla “leggerezza” dell’informazione on line è un tema di discussione caro non solo agli addetti ai lavori. E c’è sempre chi, bacchetta moralizzatrice alla mano, intona dolorosi lamenti per la depravazione dei lettori (ma sono gli stessi che amano aggiungere una E all’inizio della parola) italiani che si riversano sopra contenuti soft porn. Prefiche di una verginità mai avuta. Seni esibiti in un autoscatto, perizomi che fanno capolino da pantaloni adamitici, capezzoli che sbucano sornioni da vestiti troppo scollati. Il basso si mescola inevitabilmente con l’alto nel cocktail dell’informazione. Alle volte se ne ricava un beverone indigeribile, altre un cicerone dalle piacevoli allucinazioni. È internet, bellezza. Al bando gli snobismi, suvvia. Non c’è niente di male. Chi dice che dietro una natica non possa nascondersi un contenuto culturale? In quale sacro testo sta scritto che lo sguardo che scivola giù per una profonda scollatura non finisca poi a leggere una poesia, per dire? Facciamo un esempio casalingo. Su queste pagine è stata pubblicata una pirotecnica intervista a Tinto Brass. Maestro dell’eros e dell’approccio carnale alla vita. Uno che, per intenderci, è stato escluso dal Festival di Venezia fino all’anno scorso, perché mostrava troppi centimetri di ignuda epidermide. Al microfono di Sylos Labini ha raccontato che “il culo è lo specchio dell’anima” e ha ricordato – ai pochi che non conoscono la sua opera – che con i suoi film procura “emozioni e non soltanto erezioni e lubrificazioni”. Ci sono voluti trent’anni perché il Lido ospitasse una retrospettiva sul regista (e non poteva che essere una retrospettiva una rassegna antologica del regista veneziano). Dopo aver sventolato la censura e sfoderato il cipiglio del bacchettonismo arriva, trent’anni dopo, la celebrazione. Per non parlare della ormai mitologica – e citatissima – intervista a Rocco Siffredi. Estrema, esagerata e più siffrediana che mai. Un colloquio senza filtri che è rimbalzato sulle pagine di decine di quotidiani. Non nascondiamoci dietro a un seno: i contenuti leggeri fanno clic e spesso sono interessanti, si fanno leggere e portano lettori. Lettori che poi si guardano attorno, perché a pochi pixel dallo scontornato di una coscia può apparire la recensione di un libro o la critica acuminata di uno spettacolo teatrale. Ed è subito contaminazione. Niente di nuovo sotto il cielo grigio della cultura italiana, un cielo pesante come il piombo, claustrofobico. Spesso le idee più scomode e urticanti trovano spazio tra le cosce della provocazione. Non per caso su Playmen, negli anni sessanta, sbarcarono intellettuali del calibro di Gian Carlo Fusco e Luciano Bianciardi e trovò spazio, persino, il pensiero osè di Julius Evola. Ieri come oggi la cultura libera non ha paura di percorrere le autostrade della comunicazione per entrare nelle zone traffico limitato del pensiero. E alla fine il bacchettone non si rende conto che è più volgare chi mangia una banana nascondendosi dietro a una mano – nel nome di chissà quale pudore – di una fellatio.

Pornografia. Universo del Corpo (2000), scrive di Piero Benassi su “Treccani”. Pornografia.
Il termine pornografia (che deriva, mediante il francese pornographie, dal greco πόρνη, "prostituta", e γραθία, "scritto") sta a indicare la trattazione oppure la rappresentazione, attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli ecc., di soggetti o immagini osceni, effettuata allo scopo precipuo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.  sommario: 1. Relatività del concetto . 2. Diffusione attuale. 3. Pornolalia. 4. Interpretazioni. 

1. Relatività del concetto. La pornografia può essere considerata un'esibizione di organi o di atti sessuali finalizzata a provocare eccitazione. Come ogni altra espressione umana, essa risente fortemente della cultura del luogo e dei tempi in cui viene realizzata. Nel Palazzo del Tè di Mantova, edificato per le relazioni proibite dei Gonzaga, o in alcuni degli affreschi di Pompei sono raffigurate scene erotiche che nessuno interpreta come pornografiche, così come nessuno è eccitato dalla coppia a letto rappresentata nel Palazzo del Podestà di San Gimignano o di fronte ai nudi di Tiziano. Infatti, occorre distinguere fra il nudo proprio dell'arte erotica e il corpo nudo della pornografia. Inoltre, dai tempi dei Gonzaga o di Tiziano, è mutata la cultura e con essa la sensibilità. Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina Michelangelo ha dipinto molti corpi nudi, in quanto nel Rinascimento il nudo non era considerato pornografico, come invece lo fu all'epoca della Controriforma quando, infatti, si ritenne opportuno coprire le figure michelangiolesche. I libri cinesi d'ammaestramento pedagogico per istruire alla sessualità una buona moglie sono invece considerati pornografici per l'Occidente. In Africa i missionari hanno costretto a vestirsi gli indigeni, che, invece, consideravano il nudo del tutto privo di significati erotici. L'effetto che un seno scoperto aveva fino a qualche anno fa attualmente ha perso gran parte del suo significato, se non è accompagnato da messaggi o stimolazioni più incisive, in quanto sono cambiati gli stimoli all'erotismo e di conseguenza i significati ritenuti pornografici, anche perché le nuove tecnologie mediatiche hanno determinato un rivolgimento nei gusti e nelle aspettative dei fruitori di tali messaggi. Sono tutti esempi di come il fenomeno pornografico risulti condizionato da una serie di fattori ben individuabili e siano diverse le valutazioni interpretative circa quello che viene considerato pornografico o meno. Il binomio pornografia-tabu, sostenuto da correlazioni teoriche, concetti psicodinamici e dimostrazioni storiche, inquadra i limiti del lecito rispetto a quello che i tabu rifiutano. Tra le variazioni culturali della pornografia, si possono distinguere quella erotica, che stimola l'uso 'normale' della sessualità, da una pornografia che invece si riferisce a pratiche sadomasochistiche, omosessuali, incestuose che giungono fino al feticismo, al travestitismo e al transessualismo (Andreoli 1989).

2. Diffusione attuale. Negli ultimi anni del 20° secolo i dati sul consumo dei prodotti pornografici hanno segnalato un costante aumento. Rispetto ai tradizionali prodotti stampati, hanno avuto crescente successo le videocassette che permettono l'uso privato dei film e quindi una maggiore utilizzazione rispetto ai cinema 'a luci rosse'. Meno diffusi in Italia, ma molto altrove, sono i pornoshops, i quali offrono oggetti utilizzabili per un rapporto pornografico attivo che oltrepassa la semplice percezione visiva. Un'altra innovazione è rappresentata dall'erotismo telefonico che offre il godimento di una relazione variabile a seconda delle caratteristiche richieste, impiegando mezzi vocali e verbali fortemente evocativi. Nell'attuale società si è diffusa, inoltre, l'offerta multimediale di varia sessualità via Internet, che in questo campo si pone in alternativa all'esperienza dei rapporti umani diretti e pare rispondere al carattere 'intellettuale' della sessualità contemporanea, caratterizzata da una sofisticata elaborazione immaginativa. Per la sua perfezione tecnica, l'erotismo multimediale sembra consentire stimolazioni istintive finora racchiuse nell'immaginario privato, ma che oggi possono tradursi in corpose immagini ricche di sensorialità, sostitutive o anticipatorie degli eventi reali. Questo erotismo, che può facilmente sfociare nel pornografico, diventa sempre più un voyeurismo trasgressivo, a uso del singolo, ma anche di coppia e di gruppo; in alcuni casi utilizzato in luogo della pratica sessuale, è un fenomeno di parasessualità ascrivibile a difettoso sviluppo della personalità, oppure può rappresentare un sostituto di sessualità turbata dalla paura di contagio di malattie veneree, soprattutto dell'AIDS. In una dimensione tribale o comunitaria la raffigurazione di soggetti erotici o di atti sessuali assume prevalentemente un significato rituale e finalità estetiche; nella società di massa, contraddistinta da tendenze e aspettative anche molto differenziate, il realismo o il simbolismo erotico vengono contaminati dalla trivialità e dall'insistenza compiacente su perversioni sessuali, pratiche sadomasochistiche, voyeurismi ecc. Nelle librerie è in notevole aumento la manualistica erotica; superate le pubblicazioni dei rituali sessuali induisti-buddhisti, di moda fino a pochi anni fa, i testi attuali esplorano le frontiere di un erotismo più carnale, suggeriscono aspetti sempre più ludici, consigliano l'utilizzo di nuovi afrodisiaci e di farmaci contro l'impotenza o per potenziare le capacità sessuali e sollecitano un uso di nuove tecnologie al servizio del piacere sessuale. Nel cinema, il genere pornografico, presente sin dai primordi, è in pieno sviluppo; non mancano le pellicole dove la pornografia è usata come elemento drammatico, ma in genere gli spunti narrativi si perdono in mediocrità ripetitive, non ci sono veri drammi, ma nemmeno sogni o realistiche redenzioni: in questo mondo persiste un insistente squallore nel quale ogni mistero perde i propri connotati, in quanto ogni aspetto di affettività, emotività e potere oscilla in un ventaglio di espressioni sessuali dai confini sempre più incerti. Sono numerosi gli esempi di inserimenti pornografici nell'ambito della quotidianità, dal moderno design di oggetti di uso comune a tutte le riproduzioni, le illustrazioni e i richiami, anche di stile pubblicitario. In campo letterario, si devono distinguere le opere alle quali lo spunto o la partecipazione di un erotismo ragionevolmente introdotto ed equilibrato assicurano un interesse e uno stimolo alla lettura, dal pornografico letterario vero e proprio, in cui gli autori ricorrono alla ripetizione e all'esagerazione, a situazioni esasperate, con avventure erotiche in luoghi favolistici nel corso di viaggi immaginari ecc., e che ha un tono sempre teso e drammatico, descrive esperienze eccezionali, è privo di senso dell'humour, della contemplazione, del distacco e della logica, si sviluppa in situazioni di allarme o di angoscia nelle quali le valenze sadomasochistiche, distruttive e autopunitive sono reiterate per stimolare immaginazioni e pulsioni istintive inabituali. La letteratura, il cinema e i mass media abbinano spesso l'erotismo incontrollato con la violenza, l'aggressività, gli impulsi, cioè aggiungono ingredienti idonei ad amalgamare aspetti dell'istintività che cercano soddisfazione sia tramite l'eros sia attraverso manifestazioni distruttive. Si realizza, dunque, una specie di connubio fra i due estremi, erotismo e senso di morte, in cui affetti, sentimenti, emozioni, passioni possono esplodere in forme drammatiche. Questo amalgama di pulsionalità istintiva può essere catalizzato dalla droga e dal connubio fra sesso e violenza. L'effetto droga rispecchia la ricerca, presente nella letteratura a carattere erotico-osceno ma anche in alcuni aspetti della realtà quotidiana, di piaceri assoluti e immediati, di evasioni e di fantasie liberatorie, e mette in gioco l'erotismo, più fantasticato che reale, ma anche il rischio della vita, in un sempre possibile abbinamento con la pornografia, alla ricerca di potenziamenti reciproci. Tuttavia sia la pornografia sia la droga stimolano la realizzazione di soddisfazioni istintuali che smorzano le funzioni del razionale, della conoscenza della realtà e della morale, per cui la contemplazione, la fantasia, il piacere, gli istinti tendono a sostituire l'azione, l'attività lavorativa e creativa, il dinamismo operativo. L'associarsi di queste due esperienze può suscitare fenomeni di depersonalizzazione, sia del proprio corpo sia della realtà esterna, può sottrarre alla latenza tendenze oppure impulsi sessuali prima controllati o ignorati, può infine provocare sentimenti di diffidenza, di ostilità, di odio, con possibili reazioni auto ed eteroaggressive.

3. Pornolalia. La pornolalia è ormai utilizzata a tutte le età e da tutti i ceti sociali. Tale forma di linguaggio ha infatti enormemente dilatato i propri confini, contestualmente al graduale ridursi degli eufemismi, dei tabu terminologici, delle metafore. L'uso e l'abuso delle parole a contenuto erotico, sessuale e genitale, si possono prospettare come una vera e propria mentalizzazione dell'istinto che si realizza a livello verbale per dare un rinforzo e un potenziamento di significato nel rapporto comunicativo. Pornolalia si può definire come l'espressione di un'aggressività verbale, che in passato era essenzialmente maschile, ma che ora si è sviluppata molto anche nel linguaggio femminile, quasi come mezzo di autoaffermazione e rivendicazione della parità dei due sessi. Anche il bambino prova un gran piacere nel dire le parolacce: pur se ne ignora il significato, ne coglie al volo l'effetto dirompente e dissacratorio e le reazioni che provocano attorno a lui; l'impulso più immediato è, quindi, a ripeterle (Vegetti Finzi-Battistin 1994). Inoltre, il linguaggio osceno è molto vicino al corpo e alle sue funzioni, evoca impressioni tattili, olfattive, uditive, adatte a esprimere le pulsioni infantili, specie anali e genitali, ed è composto di parole che infrangono argomenti tabu, diversi tra loro, ma ugualmente intoccabili: il sacro, il sesso e gli escrementi. Nell'adolescenza, che riattualizza le trasgressioni e le dissacrazioni, specialmente se realizzate insieme al gruppo sociale, la pornolalia fa parte del linguaggio di gruppo, rappresenta forza, coesione e convalida l'identità verbale e comportamentale. Vanno poi considerati i fattori ambientali e sociali che ritardano lo sviluppo verso la maturità della personalità e che quindi mantengono a lungo comportamenti ed espressioni anche pornolaliche che si continuano mediante un condizionamento automatizzato.

4. Interpretazioni. La letteratura psicoanalitica sui principi costitutivi del perverso sessuale ha evidenziato, in particolare, che l'erotizzazione è una delle cure primitive della paura: quando una forma di angoscia infantile riprende vigore nella vita adulta, uno dei molti modi per fronteggiare questa crisi è il rafforzamento dei sistemi di erotizzazione primitiva, cioè di una sorgente originaria delle più svariate perversioni. Le angosce più profonde possono rappresentare il nucleo propulsore delle più varie patologie sessuali che, in fase di esasperazione, si abbinano spesso a fatti violenti, quali espressione concreta d'impulsi che esplodono e si scaricano tramite forme di aggressività; la criminalità a sfondo sessuale ha spesso questa patogenesi. Inoltre, nella nostra società si vanno palesando nuove tecniche erotiche in cui oscenità e violenza, insieme, sono più accentuate che nel passato. In questo scenario, la pornografia rappresenta un aspetto di dissoluzione della sessualità che si inserisce in una costellazione di crisi profonda dei valori, di negazione violenta e anche spietata del pudore, inteso come struttura portante della storia interiore dell'individuo. Il pudore del singolo non va confuso con il cosiddetto comune senso del pudore, che spesso è chiamato in causa proprio per circoscrivere il fenomeno pornografico. In ogni caso, il pudore può essere ricondotto alla delimitazione dei confini tra il lecito e il proibito, mentre alla pornografia vanno riconosciuti una componente ossessiva, in quanto comportamento ritualizzato fondato su un desiderio irrealizzato, e un suo affondare nei fantasmi più o meno perversi, universalmente presenti nell'inconscio individuale. Analizzando gli aspetti psicologici e antropofenomenologici del pudore, questo può essere inteso come barriera di protezione nei confronti dei valori affettivi che connotano la vita individuale nei suoi vari modi di manifestarsi (De Vincentiis-Callieri 1974); l'eros pubblicizzato dimostrerebbe che gli impulsi sessuali si sono scissi da quelli affettivi. Rispetto al pudore, l'analisi antropofenomenologica valuta una serie di condizioni necessarie al suo costituirsi: il corpo, l'altro o gli altri, il guardare e l'essere guardati. La genesi del pudore è relazionale, di spazialità, di distanza, di stimoli sensitivo-sensoriali, ed è espressione esistenziale ambigua perché può essere autentica o inautentica a seconda della sua fungibilità nel mondo dei rapporti interpersonali. L'incontro, il rapporto, la mondanità possono, dunque, oscillare in un'estensione ubiquitaria, dall'ossessionante pudicizia alla più sfrenata pornografia: in questo modo oggettuale (pudico od osceno) l'orizzonte esistenziale risulta povero o comunque costellato di oggetti anodini, senza rapporti dinamici, senza storia e quindi senza valori da offrire o da rappresentare. Oltre a ciò, sono noti gli aspetti psicopatologici nell'ambito sia del pudore sia dell'eros pornografico, con una serie di fenomeni che tendono in molti casi a unificarsi nella loro patologia (v. oltre). E. Borgna (1989), richiamando i fondamenti etici dell'esistenza umana, osserva che i valori hanno una costituzione eidetica autonoma e assoluta, che non può essere infranta senza rompere quell'ideale gerarchia in cui la dignità della persona ha un'importanza assoluta; il fenomeno della condotta pornografica s'inserisce nella costellazione della profonda crisi dei valori. La persona, con il suo corpo, viene reificata e parcellizzata dalle pulsioni della libido narcisistica che mantiene la cecità, il mutismo e l'anonimato di un oggetto strumentalizzato dalla cultura di massa. Anche dal punto di vista giuridico la pornografia si pone nel quadro dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, e in particolare contro il pudore (art. 529 c.p. riguardante la definizione legale dell'osceno, in riferimento agli atti e agli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore). Questa norma è formalmente esplicativa, in quanto individua il significato del termine osceno in riferimento all'effetto o al risultato sociale dei comportamenti e degli oggetti così qualificati, ammettendo anche la possibilità di un osceno non offensivo per il comune sentimento del pudore, di cui peraltro manca una specifica definizione, rinviata a un'interpretazione giurisprudenziale forzatamente aperta o elastica. In riferimento alla qualità dell'attuale vivere sociale, alla salute mentale e alle possibili manifestazioni di violenza collegabili a fenomeni pornografici, si può affermare che la pornografia riguarda una violenza suggestiva che permea tutta la società consumistica e cerca d'imporre al consumatore, soprattutto a quello poco in grado di difendersi dalla pressione dei mass media, beni di nessuna utilità materiale, ivi compresa una sessualità degradata. La pornografia può, quindi, nascere anche dalla frustrazione di non riuscire a ottenere i beni consumistici, come fenomeno sostitutivo e come risposta dell'individuo a un ambiente denso di stimoli egoistici. Gli pseudovalori della società consumistica costituiscono la premessa logica a un uso della pornografia come riferimento a modelli comportamentali molto attuali e sempre più valorizzati e pubblicizzati. Secondo alcuni, il comportamento sessuale illustrato dalla pornografia facilita reazioni che portano alla violenza, che può giungere fino alla criminalità sessuale (Ferracuti-Solivetti 1976). Sono tuttora numerosi i dati da verificare: in particolare se la criminalità sessuale possa essere collegata a un maggiore o a un più precoce consumo di pornografia, oppure se abbiano più importanza i fattori endogeni, riducendo quindi il ruolo della pornografia a fattore sociale capace di scatenare determinate reazioni solamente in individui diversi dagli altri per certi tratti di personalità. Questi dati non risultano ancora del tutto conosciuti, ma resta acquisito che i contenuti violenti dei materiali pornografici potenziano, nella loro combinazione, le valenze istintive pulsionali, e sono tali da contribuire al diffondersi di specifici comportamenti criminali. Altre indagini, come pure differenti orientamenti ideologici, sostengono che la pornografia, quale mezzo idoneo a liberare, a catalizzare oppure a metabolizzare tensioni o impulsi sessuali altrimenti irrisolvibili, possa produrre effetti catartici tali da contribuire alla risoluzione di problemi sessuali e da lenire problemi e angosce esistenziali con conseguente riduzione di forme di aggressività. Nel DSM-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders), dell'American psychiatric association (1994), oltre alle più svariate disfunzioni sessuali, anche i disturbi d'identità in genere e in particolare tutte le perversioni sessuali (v. perversione) ‒ feticismo, 'frotteurismo', zoofilia, pedofilia, esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, trasvestitismo ‒ sono elencati e descritti come casi clinici di disturbi psichici. È possibile che alcune di queste patologie trovino in qualche fenomeno di oscenità sessuale un compenso o un sollievo terapeuticamente valido. D'altra parte, è certo che le sollecitazioni provocate da perversioni pornografiche, eventualmente associate a violenza, a carico di soggetti già vulnerabili nei loro comportamenti sessuali, possono rappresentare fattori patogeni per la salute mentale, a maggior ragione se si tratta di soggetti con immaturità caratteriale, con difetti di sviluppo intellettivo o con disturbi o tratti abnormi della personalità.

La pornografia, o la logica culturale del nostro tempo, e scritto da Emiliano Morreale su “Le Parole e le cose”. Le immagini di sesso esplicito, per lungo tempo vendute e consumate in maniera più o meno sotterranea e illegale, nel corso del decennio hanno invaso gli schermi domestici. Dal 1988 al 2005 i titoli a luci rosse negli Usa sono passati da circa 1200 a più di 13.500 l’anno (la Hollywood “ufficiale” ne produce circa 400). Secondo i dati più attendibili, nel 2006 erano attivi almeno 4 milioni di siti porno: il 12% di tutta la distribuzione online (oggi saranno molti di più, visto che ne nascono circa 270 al giorno). Una parola su quattro inserita nei motori di ricerca, e un download su tre, sono di carattere pornografico. La vera mutazione però è qualitativa, e non riguarda i singoli prodotti, ma la struttura del sistema. Il cinema, la televisione, la moda hanno un “doppio” osceno sotterraneo e rimosso, che sempre più viene a galla al tempo di Internet. Questo mondo è interrogato dagli studiosi di rado, e con comprensibile imbarazzo. In America i cosiddetti porn studies sono nati all’inizio degli anni Novanta, da una costola della teoria femminista e dei cultural studies. Da qualche tempo, questo filone di studi è giunto anche in Italia, ad opera di una generazione di studiose e studiosi non a caso trenta-quarantenni, che in un mondo così sono cresciuti. Da un paio d’anni a Gorizia si tengono convegni internazionali sul tema (con titoli tipo “Economies, Politics, Discoursivities of Contemporary Pornographic Audiovisual”) ed è appena uscito un ponderoso volume intitolato Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media (a cura di Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca, Mimesis). Il libro offre i dati che abbiamo citato e ricapitola anche la vita clandestina della pornografia nel secolo scorso: dalla fase dei filmini mostrati nei bordelli o spediti per posta, all’ esplosione con titoli come Mona, the Virgin Nymph (1970) e Gola profonda (1972). Così il porno diventa un genere tra i generi, mutuando dal mainstream hollywoodiano un modo di fruizione (la sala), una forma narrativa (il lungometraggio di finzione) e uno standard tecnologico (il 35mm). Negli anni Ottanta, quando le sale (anche a luci rosse) cominceranno a chiudere, l’avvento del video moltiplicherà la produzione. Del resto, i contenuti per adulti guidano da sempre lo sviluppo dei media. Trent’ anni fa, il Vhs si affermò anche perché Sony, che sosteneva il formato Betamax, sosteneva una netta politica anti-porno. I dvd sono stati spinti dai “pornomani” perché rendevano più comodo trovare in modo rapido momenti specifici del film. E fondamentale è stato questo segmento di pubblico per avviare la tv via cavo, i servizi telefonici a pagamento o la banda larga. Oggi siamo davanti a un passo ulteriore, che non riguarda i singoli prodotti o mezzi di comunicazione. È quella che nel libro citato viene chiamata “pornificazione del mainstream“, una “invasione hardcore della cultura popolare”. La stessa che ha incuriosito scrittori come Martin Amis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk, che le hanno dedicato reportage e libri. Il porno espanso analizza il ruolo dell’ immaginario fetish nella creazione del divismo musicale, da Madonna a Lady GaGa; il porno “emerso” diventa glamour, alludendo fino a un certo punto a un universo osceno. L’ arrivo in Italia dei canali satellitari produce combinazioni di generi, nei quali anche l’ hard ha la sua parte: reality show, pseudo-inchieste, serie (ultima la francese Xanadu, una specie di Dallas sui magnati del porno), o inopinati talkshow (esiste una specie di versione inglese di Forum, con un giudice che dirime questioni sessuali tra partner). Potremmo dire che i due poli ideali dell’ “immaginazione pornografica” attuale sono la declinazione glamour e il suo opposto, la verosimiglianza bruta: il filmato domestico e amatoriale (il cosiddetto gonzo), autentico o più spesso finto, che presuppone, notano gli autori del libro, “una sorta di sovrapposizione semantica che assimila il concetto di reale a quello di privato”. Insomma il massimo del realismo, e la cosa più eccitante, è ciò che viola (o finge di violare) la privacy. Il consumo di pornografia domestico, immediato, prêt-à-voyeur potremmo dire, cambia. Si tratta forse della forma perfetta di consumismo: “Perseguire il piacere è uno dei principali modi di edificare la nostra soggettività in forme autorizzate”, sostiene il teorico inglese Mark Fisher. Il web 2.0 stimola nuove forme di voyeurismo, e anche di esibizionismo, e non solo in quelle forme che sono state definite IPorn (l’ esibizione erotica sul web). Ad esempio, di recente è sembrata rassicurante le notizia che il numero di utenti dei social network abbia superato quello dei consumatori di webpornografia: “Facebook batte il porno”. Ma tra i due consumi, nota uno degli autori di Il porno espanso, c’è una certa congruenza, dovuta alla natura vertiginosamente promiscua di queste piattaforme, che costituiscono “una innovativa forma di autoerotismo del sé”. La pornografia, insomma, non è oggi questione di contenuti: è quasi la logica culturale dei media; è il modo in cui funzionano le immagini, in cui noi spettatori/consumatori guardiamo e ci facciamo guardare.

Osceno e comune senso del pudore: Antropologia della pornografia di D. Stanzani e V. Stendardo su “Diritto”. La società attuale può essere considerata il luogo simbolico in cui avviene la continua esposizione delle merci; l'individuo si presenta ambiguo, ambivalente, contaminato, gioca con se stesso attraverso continue metamorfosi, sospeso tra marginalità e centralità, appartenenza e atomizzazione, produttività e parassitismo, consenso e conflitto, principi inappellabili del mondo tecnologico e labilissime e dolorose contingenze della vita quotidiana. Da qui, da questa identità fragile e polimorfa, le trasgressioni, le insubordinazioni, le perversioni, diventano mine per i codici simbolici esistenti e per la cultura dominante. Un aspetto inquietante di questa dimensione immaginaria dell'individuo che convive con le regole e le norme della società tutta è rappresentato da quanto di più  illusorio e mercificante possa esserci: la pornografia. Tentare di definire la pornografia non è semplice in quanto essa chiama in causa tutta una serie di elementi che sono riconducibili a coordinate psicologiche, sociologiche e culturali. Etimologicamente parlando, il termine deriva dal greco "pornè" (prostituta) e "graphos" (scrittura), starebbe quindi ad indicare tutto ciò che viene scritto intorno all'attività della prostituta. Tuttavia, questa definizione non è esaustiva del fenomeno che riguarda ben più ampi settori che sono andati modificandosi nel tempo, sia per la produzione che per i mezzi di comunicazioni. Secondo il vocabolario della lingua italiana Zingarelli, pornografia starebbe ad indicare la "descrizione e rappresentazione di cose oscene", ed il termine osceno si intende in relazione al concetto del comune senso del pudore. Nell'ambito del diritto, la pornografia è trattata in modi diversi e da diversi punti di vista, quello che noi abbiamo però voluto privilegiare riguarda due articoli del Codice Penale: l'art. 528 che individua chi crea la pornografia in colui che: "fabbrica, introduce sul territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente"; e l'art. 529 in cui si afferma che: "Agli effetti della legge penale si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore (c.p. 725, 726). Non si considera oscena l'opera d'arte o l'opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerto in vendita o comunque procurato a persona minore di anni diciotto'. Dunque osceno e comune senso del pudore sono elementi contrapposti, che esistono proprio in virtù della loro contrapposizione. Il pudore, sentimento di vergogna, di disagio, di repulsione è tipico dell'individuo quando questi, contro la sua volontà, si trovi di fronte a manifestazioni sessuali  di altri o quando sia egli stesso oggetto di sguardi durante gli approcci sessuali. Il pudore diventa senso comune nel momento in cui  la società umana di appartenenza condivide la stessa sensibilità nei confronti della sessualità. L'osceno sarebbe quindi l'offesa al pudore. Ma di osceno si parla già nell'articolo 527 del c.p. allorché si afferma: "Chiunque in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni (c.p. 529) è punito con la reclusione da tre mesi  a tre anni (c.p. 726). Se il fatto avviene per colpa (c.p. 43) la pena è della multa da £ 60.000 a £ 600.000".  La grande difficoltà nel definire il comune senso del pudore risiede nel tracciare un limen tra offesa alla morale pubblica e libertà individuale. Gli articoli 528 e 529 del Codice Penale convivono e confliggono con l'articolo 21 della Costituzione Italiana che afferma: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Questo era già implicito nell'articolo 2 della Costituzione Italiana che sancisce i diritti inalienabili di ogni singolo individuo: "La Repubblica sancisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Ma la difficile gestione giuridica dell'osceno e del comune senso del pudore in realtà è la risultante di una difficile gestione culturale di questi. Inoltre non possiamo non tenere conto dell'ampio capitolo riguardante la prostituzione minorile. E' importante sottolineare come sia il concetto di osceno che quello di comune  senso del pudore non solo si modificano nel corso del tempo all'interno di una data società, ma cambiano anche da società a società. La comprensione di questi concetti rimanda alla considerazione del corpo e della sessualità. "Il corpo è un universo simbolico immediatamente disponibile e sperimentabile da parte dell'individuo. La capacità del corpo di produrre significazione è legata al suo essere centro di ogni produzione immaginifica dell'uomo, centro del desiderio e delle pulsioni, più o meno controllate dall'educazione e dalla cultura" (M.Combi, 1998). Il corpo è quindi segnato, disegnato, gestito e mostrato dalla cultura di appartenenza. In molte società non occidentali il corpo non rappresenta la finitezza anatomica, altra rispetto al mondo contingente, ma "è il centro di quell'irradiazione simbolica per cui il mondo naturale e sociale si modella sulle possibilità del corpo, e il corpo si orienta nel mondo tramite quella rete di simboli con cui distribuisce lo spazio, il tempo e l'ordine del senso. Mai quindi il corpo nella sua isolata singolarità, ma sempre un corpo comunitario per non dire cosmico, dove avviene la circolazione dei simboli e dove ogni singolo corpo trova, non tanto la sua identità, quanto il suo luogo" (U. Galimberti, 1980). Il corpo naturale inserito in un fitto intreccio di simboli diventa corpo culturale, con delle norme di riferimento e le deviazioni da tali norme con le conseguenti  punizioni. La cultura di riferimento gestisce la vita dei corpi ed ogni loro aspetto e funzionalità, anche il discorso strettamente legato alla sessualità. Questa è stata definita da B. Malinowski un bisogno primario (bisogno di base): "Termine che indica il comportamento delle condizioni nell'organismo umano e nel sistema culturale in rapporto all'ambiente, necessarie alla sopravvivenza degli individui e del gruppo sociale" (U. Fabietti, 2001). I bisogni primari vengono soddisfatti attraverso risposte culturali per cui la sessualità è regolamentata, ad esempio, dall'insieme di norme che definiscono i sistemi di parentela e il matrimonio. Chiaramente questi cambiano a seconda delle culture. La sessualità è diversamente interpretata ed utilizzata. Presso i Basuto (popolazione africana che occupa l'area vicino il fiume Zambesi) è usanza che la nuova moglie abbia rapporti sessuali con il fratello più giovane del marito. Se poi il coniuge muore, il fratello del defunto si trasferisce nella capanna della cognata. I Basuto poi praticano l'ospitalità sessuale e permettono l'unione dei loro amici fraterni con la propria moglie. Per i Dagari dell'Alto Volta, invece, le donne sposate possono avere rapporti extraconiugali con molti amanti a patto però che questi si sottopongano ad una specie di lavoro forzato per il marito della donna infedele. Presso gli Agni in Costa d'Avorio durante la festa in onore degli spiriti, le donne dopo essersi purificate nelle acque del fiume si uniscono con gli uomini e dedicando il momento più bello dell'amplesso agli spiriti che proteggono la loro fecondità. Tutto il villaggio partecipa a questo rito in cui l'uomo diventa oggetto passivo, subisce il rapporto voluto in quell'occasione, soltanto dalle donne che lo dedicano appunto agli spiriti. Ancora in alcune culture la sessualità è utilizzata per definire le identità sociali e gli status all'interno della comunità, e per rafforzare legami, definire alleanze e rapporti sociali non è inusuale "prestare" le proprie mogli ad altri. Nella cultura occidentale il corpo e la sessualità sono vissuti in maniera completamente diversa. Il corpo, involucro finito dell'individuo è rappresentazione, specchio simbolico della perfezione divina. Per proteggerlo è necessario un rigido controllo sociale e culturale anche nelle sue funzioni più naturali come la sessualità. Questo perché il corpo materia definita dell'individuo non vada a contrapporsi all'aspetto spirituale di questo. E' necessario convivere e non contrapporsi, perché questo determinerebbe confusione e commistione tra il bene e il male. Le norme che regolamentano la gestione del corpo sono rigide, il corpo occidentale infatti è un corpo chiuso all'esterno, un corpo coperto totalmente, che non può essere mostrato. La nudità è associata al peccato, Adamo si rende conto di essere nudo solo dopo aver peccato e allora si copre. Dalla perfezione, dopo la caduta nel caos, si passa con dolore alla veste. Quindi l'indumento diventa simbolicamente norma culturale che gestisce i rapporti tra il bene e il male, che segna il confine tra natura e cultura. E' chiaro che da una tal rigida considerazione non può non derivare un'idea dell'osceno estremamente ampia. Ovviamente la sessualità ha risentito moltissimo di questa concezione per cui si  è sviluppata nel corso del tempo in special modo in Italia una duplice esperienza sessuale: quella legata alla vita familiare strettamente correlata alla procreazione e la vita nei luoghi di piacere. Il primo concetto rispecchiava la cultura religiosa, per cui il sesso al di fuori del matrimonio era condannato, associato al male e alla caducità dell'anima (è superfluo poi sottolineare come questa cultura condannasse i rapporti sessuali fra individui dello stesso sesso); l'altra esperienza era invece legata alle necessità della vita degli individui.  Se quindi parlare della sessualità è difficile, lo è ancora di più per quanto riguarda la pornografia considerata come l'industria della dominazione sessuale (R. Poulin).  La pornografia è un fenomeno moderno strettamente legato agli sviluppi della tecnologia, nello specifico della fotografia, del cinema e della videoregistrazione ed è solo in tempi recenti che si definisce il confine tra ciò che può essere considerato erotico e ciò che si può considerare pornografico. "L'erotismo, questo sì intrinseco ad ogni fatto amoroso, trova alimento all'interno della fantasia, dell'immaginazione, non è direttamente funzionale al fatto sessuale come tale, ma in qualche modo lo richiama per percorsi metaforici. E i segni dell'erotismo non sono tali perché veicolati da immagini sessuali, ma, anzi, proprio perché in apparenza lontani dal mondo del sesso e ad esso raccordabili solo, appunto, grazie alla fantasia ed all'immaginazione del singolo individuo" (A. Sobrero, 1992). Quindi l'erotismo è un fatto meramente individuale e nel momento in cui diviene collettivo per non tradire la sua nobile origine (infatti il termine erotismo deriva dal greco Eros, amore), deve essere riscattato da una interpretazione non mercificante. E' infatti il divenire merce che fa del sesso o dell'erotico pornografia. Le  pubblicazioni di innumerevoli riviste, le infinite offerte di homevideo, i tantissimi pornoshop, internet come ultima frontiera, per non parlare degli spettacoli itineranti e le fiere,  non hanno nulla a che vedere con la tradizione del romanzo, se vogliamo pornografico, della fine del Settecento o con le pubblicazioni più o meno clandestine del XIX secolo. La pornografia non coglie le sottili e conturbanti sfumature dell'erotismo e quindi per molti aspetti è la negazione di questo: mortifica l'aspetto immaginifico, proibisce il senso della scoperta, esaurisce la passione che c'è nell'unicità di ogni atto sessuale. "L'universo pornografico è utopico, privo di spazialità, di temporalità, di relazioni e di emozioni, pieno però all'infinito di gesti sessuali che non possono cessare perché, altrimenti, ristabilirebbero una scansione temporale. "Non vi è quindi reale azione, ma solo una rappresentazione asimbolica di desideri, di agiti, nei quali, di conseguenza, ogni personaggio resta lo stesso, prima e dopo l'evento , e, naturalmente, con essi, il fruitore cui fanno da specchio illusorio" (R. Dalle Luche). Oggi la pornografia crea sicuramente meno scandalo, i costumi del nostro paese sono cambiati, tanto che ad esempio, in televisione, anche in fasce orarie accessibili anche ai bambini, spesso sono ospiti di talk show, note pornodive. Si parla continuamente di sesso e lo si rappresenta in continuazione, in video le danze sono sempre più conturbanti ed esplicite (ovviamente opportunamente corredate di costumi inesistenti), si fanno programmi ad hoc per soddisfare quel senso di voyeurismo e pruderie propri dell'animo umano, le pubblicità sfruttano o tentano di farlo le nuove tendenze sessuali; note drag queen conducono programmi di costume; si cerca di creare ovunque ambiguità, doppi sensi, per non parlare di internet: ogni portale ha la sua piccola icona sessuale. Quindi a questo punto c'è da domandarsi: dove è l'osceno' E dov'è il comune senso del pudore' La pornografia paradossalmente è un fenomeno di massa (è l'enorme profitto economico lo sta a testimoniare. L'industria pornografica si è adeguata più velocemente al cambiamento di costume (esasperandolo per molti versi) di quanto non abbiamo fatto altre forme di comunicazione, determinato anche da una conquista e una riscoperta della sessualità da parte delle donne, che sono diventate esse stesse fruitrici di materiale pornografico. La pornografia veicola dei messaggi che sono distorti, ma non nel senso che parla (e agisce) di sesso ( e il sesso come tale è associato al peccato, al diabolico), ma per le forme che usa e gli strumenti che utilizza: nello specifico i corpi, corpi umani. Se ci si ferma per un istante ad osservare i corpi pornografici, vediamo che, come afferma R. Poulin : "Questi si trasformano per enfatizzare i propri attributi sessuali, i seni femminili ad esempio diventano enormi e duri, sono riempiti di silicone per occupare lo spazio. I corpi sono modificati al fine di soddisfare un'idea di ciò che i corpi dovrebbero essere, sono corpi definitivamente votati alla sessualità". La sessualità vissuta dalla pornografia è irreale, la sublimazione degli organi genitali, la promiscuità dello sguardo, l'ossessione per il dettaglio fisico vogliono rendere l'idea di una realtà che non esiste. L'immagine infatti non è una rappresentazione della sessualità ma una proiezione della fantasia che paradossalmente però è povera di contenuti. I film pornografici ad esempio hanno sempre la stessa struttura, ovviamente la trama è inesistente perché non serve, non c'è un'azione in crescendo che si sviluppa lungo l'arco di due ore, ma azioni immediate, piatte, meramente meccaniche che si ripetono all'infinito, per soddisfare all'infinito le fantasie (e le voglie) dello spettatore. "La pornografia è un lavoro di rappresentazione genitalizzata della sessualità" (R. Poulin, 1999). Più che un continuum di azioni, si tratta di una serie di scene che si chiudono con la consumazione dell'amplesso. Nei film classici ad esempio, ciò che conta è l'eccitazione e il soddisfacimento del maschio che si realizza, creando l'illusione che questa sia la verità riscontrabile nella vita reale, nella continua offerta consapevole da parte delle donne del loro corpo: un corpo quindi sempre pronto (anche quando è fintamente riluttante), sempre in pose suggestive ed estremamente provocanti. Banale sottolineare come il corpo femminile venga strumentalizzato e mercificato, ma paradossalmente la virilità maschile non può essere esercitata e provata se non attraverso questi corpi. La presunta superiorità maschile passa inevitabilmente per la presunta inferiorità femminile e quindi per la sottomissione della donna. La pornografia è una galassia in continua espansione, soddisfa tutti i generi "tutte le categorie,  come tutte le merci fabbricate per un mercato segmentato" (R. Poulin, 1999), per questo è difficile anche costruire un identikit del pornoconsumatore tipo. Nell'immaginario benpensante collettivo, il pornoconsumatore è un individuo ambiguo, lascivo, che vive ai margini della società e della realtà, un individuo di cui già l'aspetto esteriore tradisce la deviata moralità. Ma non è così. Moltissimi sono i fruitori, di tutte l'età, estrazione sociale, grado di cultura e status, e come abbiamo già sottolineato, molte sono anche le donne. Inoltre grazie al repentino sviluppo delle tecnologie, si sono aperti nuovi canali, il già citato internet, che è un mondo parallelo un cui è possibile eludere le sorveglianze e creare dei contatti con i fruitori della stessa merce. Se fino a qualche anno fa le pellicole hard venivano proiettate nei cinema di paese, progressivamente con l'avvento e la diffusione dei videoregistratori si è passati alla visione casalinga dei film. In molte videoteche erano e sono tuttora presenti spazi, magari un po' nascosti, appunto per non offendere il comune senso del pudore degli avventori, interamente dedicate alla pornografia. In tempi recentissimi abbiamo internet e la possibilità di cliccare e quindi ingrandire quel particolare anatomico che più sollecita. Oltre che la compravendita di qualsiasi tipo di merce. Anche qui la Legge cerca di intervenire, il delitto rientra infatti nell'art. 528 del c.p. e c'è anche la Decisione del Consiglio dell'Unione Europea del 29 maggio 2000, relativa alla lotta contro la pornografia infantile su Internet. A volte in ambienti medici si è anche parlato della possibilità della dipendenza dalla pornografia, ma il DSM IV, Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorder, ossia il manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali, più accreditato nel settore psichiatrico, non annovera la pornografia tra le parafilie cioè tra i disturbi dell'eccitazione sessuale, come invece la pedofilia. Ma ben sappiamo quanta pedofilia ci sia nella pornografia. Di pedofilia infatti, si parla già quando in pornografia vengono utilizzate adolescenti o giovani poco più che bambine. In questo caso si ha oltre  lo sfruttamento anche la riduzione in schiavitù, e poi c'è tutta la produzione che riguarda i bambini. In Italia è stata varata la legge n.269 del 3 agosto 1998 che reca Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. L'articolo n.3 di tale legge, 600 ter, afferma: " Chiunque sfrutta minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico è punito con la reclusione dai sei ai dodici anni e con la multa da lire cinquanta milioni a cinquecento milioni". Come possiamo vedere quindi la pornografia è un fenomeno molto complesso e tentacolare. Ogni suo aspetto, anche quello più nascosto è quasi sempre la facciata di una realtà molto dolorosa e spesso crudele. Viaggiando in questa dimensione ci si rende conto come tutto sia un gioco di scatole cinesi, ogni cosa è strettamente correlata alle altre eppure ognuna di esse vive di vita propria. E' come un immenso organismo formato da tante particelle che assume forme sempre diverse e sempre uguali, perché una, fedele a se stessa è la sua natura: la dominazione. La pornografia è la dominazione del corpo sul corpo, dell'individuo sull'individuo, del potente sul debole. Vince la produzione industriale, la mercificazione delle illusioni dei consumatori che trovano piacere nell'osservare corpi smembrati e ricomposti per solleticare e appagare i loro desideri più reconditi, ma che si basano per la maggior parte delle volte sulle vite spezzate di tanti essere umani inermi.

Pornografia online, le censure Paese per Paese. Dalla Cina all'Iran, i blocchi dei governi contro l'hard 2.0. In Islanda è allo studio una nuova legge, scrive di Guido Mariani su “Lettera 43.”La pornografia online è nel mirino del governo islandese. Paese che vai porno che trovi. Il governo dell’Islanda sta lavorando a un disegno di legge che limiti l’accesso alla pornografia su internet. Non si tratta di una vera e propria censura, ma di un sistema, tutto da studiare, in grado di tutelare i minorenni dalla visione di immagini o video hard. L’iniziativa è partita dal ministro dell’interno Ogmundur Jonasson e, secondo le dichiarazioni ufficiali, non vuole essere una crociata anti-sesso, bensì contro la violenza. La legge, se approvata, renderebbe l’Islanda il primo Paese occidentale a varare una legislazione di questo tipo. Mentre in altri Stati come Cina e Corea del Sud, le misure repressive sono all'ordine del giorno. Il governo cinese dà una ricompensa ai cittadini che segnalano siti pornografici. In Cina, per esempio, il governo ha installato un sistema in grado di rilevare tutti i contenuti ritenuti non adeguati. E la pornografia viene trattata alla stregua del dissenso politico. Inoltre Pechino può contare su una serie di ostacoli tecnici che vanno dal blocco degli indirizzi Ip sino ai filtri legati a parole e immagini, che formano quella che è stata definita «la grande muraglia informatica cinese». Periodicamente, poi, le autorità diffondono notizie di arresti di persone che riescono ad aggirare i blocchi e a diffondere materiale proibito o di «cittadini esemplari» che fanno da delatori. Lo scorso marzo, 2 mila internauti hanno ricevuto un premio in denaro per aver segnalato alle autorità attività online legate alla pornografia. La repressione è altrettanto rigida nella democratica Corea del Sud dove, dal 2009, tutti i siti ritenuti osceni vengono bloccati. Nel settembre 2012, in seguito a una serie di reati a sfondo sessuale, è stata varata un’ulteriore stretta. La polizia ha denunciato più di 400 persone per possesso e distribuzione di materiale hard-core. A Seul si sta inoltre valutando l’obbligo di imporre ai gestori di servizi online l’installazione di software anti-porno. In molti però si interrogano sull’efficacia di questi provvedimenti: un’indagine ministeriale ha appurato che il 55% dei maschi che frequentano gli istituti medi e superiori visiona comunque materiale proibito sul computer o sul cellulare, e le percentuali sono in crescita. Sempre in Oriente, i Paesi a maggioranza islamica come Malaysia e Indonesia proibiscono per legge la pornografia, ma nonostante proclami e iniziative mediatiche, la Rete gode di sostanziale libertà. Il ministero della Cultura, dell’informazione e della comunicazione di Kuala Lumpur ha rinunciato nel 2009 a un piano che prevedeva l'inserimento di un filtro ai siti, ribadendo però il divieto alla diffusione di materiale osceno. La situazione è simile in Indonesia, dove la legge mette al bando il porno, e dove nel 2012 è stata istituita dal presidente Susilo Bambang Yudhoyono una task-force contro la pornografia online. Ma dopo una retata che ha portato alla chiusura di decine di siti, l’iniziativa è stata accusata solo di essere solo «fumo negli occhi», visto che non ha, di fatto, ridotto il fenomeno. Molto più seria invece la situazione in Iran dove la censura è onnipresente e la moralità pubblica è vigilata dalle milizie volontarie dei bassidjis, i gendarmi dell’Ayatollah che fungono anche da guardiani del buoncostume. Il principale obiettivo della politica repressiva è il dissenso politico e religioso. Seguono i contenuti web a sfondo sessuale. Si sta valutando di creare una Rete internet halal (lecita) e il ministero dell’Informazione ha predisposto l’installazione di telecamere negli internet cafè. Restrizioni esistono tuttavia anche in Paesi democratici. In India, la patria del Kamasutra, l’Information Technology Act ha dichiarato illegale la pornografia online. Ma il fenomeno nei fatti è raramente represso. Nel 2009 il pubblico indiano ha sperimentato la prima vera infatuazione di massa per una pornodiva. Il suo nome era Savita Bhabhi e il suo sito era diventato un fenomeno, prima di attirare l’attenzione ed essere censurato dal governo. Savita Bhabhi, una sorta di casalinga disperata in salsa hindi, era però solo un fumetto. Un’eroina cartoon che sul web si lanciava in avventure così scabrose da scandalizzare i moralisti, ma in grado di ammaliare un pubblico ormai sempre più permissivo nei confronti delle rappresentazioni esplicite del sesso. Ora è la volta dell'Islanda che potrebbe aprire a un più stretto controllo sul materiale pornografico nel resto d'Europa. Proposte di legge simili, infatti, sono già state valutate in Gran Bretagna. Per gli islandesi si tratta di difendere le fasce più deboli della popolazione. «Dobbiamo avere il coraggio di discutere sulla pornografia più violenta», ha dichiarato il ministro degli interni Jonasson. «Siamo tutti d’accordo che abbia un effetto dannoso sulle persone giovani e può avere un chiaro effetto sull’incidenza dei crimini».

Ultima follia a scuola. Entra nel programma l'ora di autoerotismo. La battaglia di una famiglia per dispensare il figlio. Nei testi elogi alle coppie gay e scherno alle mamme "casa e lavoro", scrive Giovanni Masini, Venerdì 20/03/2015, su "Il Giornale". Non è sempre facile essere genitore, per chi nutre convinzioni in contrasto con lo spirito del tempo. Soprattutto se la scuola pubblica veicola un messaggio incompatibile con le convinzioni etiche personali. È il caso dei genitori di un tredicenne piacentino, che hanno chiesto l'esonero del figlio dal percorso di «educazione alla sessualità e all'affettività» Viva l'amore promosso dalla regione Emilia-Romagna. E si sono visti negare l'esonero dalla scuola. Incontriamo Paolo e Amalia (i nomi sono di fantasia, per tutelare la privacy del ragazzo ancora minorenne) in un bar alla periferia di Piacenza, all'ora dell'uscita dagli uffici. «A ottobre ci è stato presentato un progetto di educazione sessuale - spiegano davanti a un caffè - Con l'esplicita premessa che sarebbe stato facoltativo». Il libretto distribuito alle famiglie contiene istruzioni molto esplicite, con tanto di illustrazioni, sull'uso dei contraccettivi maschili e femminili, sezioni dedicate alla masturbazione e questionari sulle trasformazioni «gradevoli o sgradevoli» della pubertà. E Viva l'amore non si limita a spiegare come evitare malattie veneree o gravidanze indesiderate: affronta anche i temi dell'identità e delle discriminazioni di genere. Ai ragazzi di terza media si chiede senza mezzi termini se condividano o meno il «modello di uomo e di donna» proposto in famiglia. L'obiettivo esplicito è quello di combattere gli «stereotipi di genere». I pensierini proposti ai giovani lettori suonano così: «Pensavo che per crescere bene servissero un padre e una madre. Invece ho amici con genitori separati, single o addirittura omosessuali! Quel che conta è volersi bene…». Oppure: «Mia madre è tutta casa e lavoro, non esce mai con le amiche. Da grande non vorrei essere così!». Amalia e Paolo non ci stanno, chiedono che il figlio sia esentato. Per la preside, però, «l'esonero non è previsto». Citando la Cassazione, scrive che «la scuola può legittimamente impartire un'istruzione non pienamente corrispondente alle convinzioni dei genitori». La famiglia, costretta ad accettare che il ragazzo partecipi, non chiede di cancellare il corso per tutti. Per chi non frequenta l'ora di religione c'è un insegnamento alternativo: perché questa disparità? Lo chiediamo alla preside della media «Italo Calvino». Dopo molte resistenze, ci riceve: il progetto, dice, è stato approvato secondo tutte le regole e si svolge «in un clima di serenità». Aggiunge però che «la scuola non può assecondare tutte le richieste dei genitori»: «Se un padre non crede all'evoluzionismo, non posso cambiare il programma di scienze». Eppure Amalia spiega che l'anno scorso era stata la stessa preside a raccontarle dell'esonero di alcune ragazze dall'ora di musica, incompatibile con la loro etica familiare. Il figlio di una famiglia agnostica può non frequentare il corso di religione, mentre l'esonero dal corso di «educazione alla sessualità» impossibile? Interpellata, la preside abbozza: «La questione è complicata», dice. Poi ammette che «esiste un vuoto» legislativo in merito agli esoneri dalle attività extracurriculari. Alla fine Andrea, con alcuni compagni, viene esentato dal corso: nelle ore dedicate a Viva l'amore si trasferisce in altre classi. Il dirigente scolastico provinciale, Luciano Rondanini, spiega che ci vuole flessibilità, «bisogna tener conto delle contrarietà delle famiglie». Per i genitori non è una vittoria in piena regola, ma è già qualcosa. Quelle lezioni Andrea non le seguirà. Resta però un interrogativo: se l'esonero era possibile, perché tentare di imporre «l'amore» del corso citando addirittura la Cassazione?

"Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)" il libro di Thérèse Hargot. Che ne abbiamo fatto della liberazione sessuale conquistata negli anni Sessanta? È la domanda che si pone Thérèse Hargot, scrittrice e terapeuta, forte di un’esperienza decennale nelle scuole a contatto con gli adolescenti. Invece di renderci più liberi – questa è la sua risposta – tale liberazione ci ha portato da un’obbedienza a un’altra: dal “non bisogna avere relazioni sessuali prima del matrimonio” al “bisogna avere relazioni sessuali il prima possibile”. I giovani credono di essersi affrancati dai divieti, ma spesso si trovano più imprigionati di prima. Se un tempo l’imperativo di restare vergini fino alle nozze li deprimeva, ora a deprimerli (e confonderli) è l’imperativo opposto, ovvero quello di misurarsi fin da subito con la propria sessualità. Il facile accesso al porno, l’ansia della performance, l’ossessione dell’orientamento sessuale... Che libertà è questa, che impone di scegliere l’identità, gli amori, le pratiche come un mero prodotto di consumo? Grazie a numerose testimonianze, l’autrice – con coraggio, sfidando le polemiche che si sono puntualmente scatenate dopo la pubblicazione del libro in Francia – affronta, in modo rigorosamente laico, i problemi dei ragazzi, invitandoli a ripensare la loro vita affettiva e sessuale, per renderla davvero gioiosa.

Introduzione. «Eh, prof! Bisogna pur provare la merce in vendita!» mi butta là Théo dal fondo della classe. Le ragazze sorridono con un’aria imbarazzata. I ragazzi, da parte loro, ridacchiano occhieggiandosi come per dare riconoscimento alla bravata del compagno. «È vero, però: quando si è giovani bisogna avere delle esperienze sessuali, così il giorno in cui si trova quella buona uno ci sa fare» giustifica il suo vicino. «In fondo, uno ha soprattutto voglia di provare, è normale, no? Arriva per forza un momento in cui uno vuole sapere com’è veramente. Quello che voglio dire... quando guardi certe cose, ti chiedi come dev’essere farle.» Superfluo indagare sui suoi riferimenti cinematografici, sappiamo bene di che tipo di film parla Alexandre: «Ma li guardano tutti!» «E poi ti dici: “E io, sarò capace?”» Ecco la vera domanda. «Capace di che?» gli chiedo. «Capace di provare piacere!» esclama, prima di aggiungere a ruota, come per riprendersi: «E di darne anche, ovviamente.» Sono dei bravi ragazzi, anche gentili, veramente.

Gioventù sessualmente libera (o quasi). Il libro che fa discutere. Arriva nelle librerie "Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)", scrive Affari Italiani Mercoledì 1 febbraio 2017. Arriva in Italia, da giovedì in tutte le librerie, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), un libro coraggioso della sessuologa belga Thérèse Hargot (Sonzogno). Poco più che trentenne Hargot, laureata in filosofia e un master in scienze sociali alla Sorbona, vive a Parigi. Un argomento caldo e controverso, il libro ha suscitato un ampio dibattito in Francia, vendendo 10.000 copie nel primo mese di uscita. Dopo un’esperienza decennale nelle scuole e grazie a numerose testimonianze, l’autrice – sfidando le polemiche che si sono puntualmente scatenate dopo la pubblicazione del libro in Francia – affronta, in modo rigorosamente laico, i problemi dei ragazzi, invitandoli a ripensare la loro vita affettiva e sessuale, per renderla davvero gioiosa. Che ne abbiamo fatto della liberazione sessuale conquistata negli anni Sessanta? È la domanda che si pone Thérèse Hargot, scrittrice e terapeuta, forte di un’esperienza decennale nelle scuole a contatto con gli adolescenti. Invece di renderci più liberi – questa è la sua risposta – tale liberazione ci ha portato da un’obbedienza a un’altra: dal “non bisogna avere relazioni sessuali prima del matrimonio” al “bisogna avere relazioni sessuali il prima possibile”. I giovani credono di essersi affrancati dai divieti, ma spesso si trovano più imprigionati di prima. Se un tempo l’imperativo di restare vergini fino alle nozze li deprimeva, ora a deprimerli (e confonderli) è l’imperativo opposto, ovvero quello di misurarsi fin da subito con la propria sessualità. Il facile accesso al porno, l’ansia della performance, l’ossessione dell’orientamento sessuale... Che libertà è questa, che impone di scegliere l’identità, gli amori, le pratiche come un mero prodotto di consumo?

Sesso: tutto quello che non sapete su verginità, porno, gay. La studiosa belga Thérèse Hargot affronta i luoghi comuni sulla "liberazione" del corpo, scrive Paolo Bianchi l’8 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Paolo Bianchi è nato a Biella nel 1964. Ha pubblicato "Avere trent'anni e vivere con la mamma" (Bietti, 1997), "Uomini addosso" (ES, 1999), "Il mio principe azzurro" (ES, 2001, con Igor Sibaldi), "La repubblica delle marchette" (Stampa alternativa 2004, con Sabrina Giannini), "La cura dei sogni" (Salani, 2006), "Per sempre vostro" (Salani, 2009), "Inchiostro antipatico. Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa (Bietti, 2012). Ha scritto per riviste e quotidiani, fra questi ultimi "Il Foglio". "Il Giornale" e, dal marzo 2010, "Libero". Lavora anche come traduttore letterario.

Sesso. Tutti ne parlano e qualcuno crede di saperla lunga, ma appena scavi un po’ trovi solo luoghi comuni. La maggior parte dei quali hanno radice nel terreno della cosiddetta Liberazione sessuale, che in realtà di libertà ce ne ha lasciata ben poca. Anzi. Uscito con grande scandalo l’anno scorso in Francia, e appena pubblicato in Italia, un pamphlet della giovane sessuologia belga Thérèse Hargot Una gioventù sessualmente liberata (o quasi) (Sonzogno, pp. 176, euro 16,50, trad. di Giovanni Marcotullio) ha sollevato dispute anche violente, perché si è permesso di metterli in dubbio, quei luoghi comuni, o di evidenziarne l’intrinseca natura insensata. L’autrice ha trentatrè anni, tre figli, insegna agli adolescenti nelle scuole e fa la psicoterapeuta in proprio anche con pazienti adulti. Le sue riflessioni ruotano molto attorno alle storie che ascolta e alle domande che le vengono poste di continuo.

È tutto un dibattersi in contraddizioni. Esempio, la pubblicità si basa in misura enorme sulla provocazione delle nostre pulsioni sessuali. È un fiorire di donne oggetto (e un po’ anche di uomini oggetto). Ma il femminismo non aveva avuto ragione di questo abominio?

Altro paradosso clamoroso: quella sessuale non può essere una liberazione, se uomini e donne sono schiavi dell’ansia da prestazione e della competitività, e poi degli obblighi feroci imposti dalla pianificazione delle nascite.

La donna: scopre presto il sesso, ma le viene inculcato il terrore di restare incinta, quindi giù con gli anticoncezionali, la pillola, il preservativo, e eventualmente l’aborto. Dopodichè, sottoposta a una pressione sociale per cui deve studiare, realizzarsi nel lavoro, magari fare carriera… arriva a volere un figlio, a tutti i costi, verso i quarant’anni. Prima il terrore della maternità, poi quello della sterilità. Alla faccia degli equilibri ormonali.

L’uomo: fa sesso solo per godere, essendo anche lui dissociato dalla funzione procreativa, e poi resta tutta la vita un adolescente, ben poco propenso a figliare.

Altra incoerenza: la verginità è disprezzata, ma guai se i giovanissimi fanno figli (per quello c’è l’aborto).

Altro controsenso: la pornografia. È venduta come occasione di grande libertà dai tabù. Facilissimamente accessibile via Internet da chiunque, bambini compresi, si vuol far credere che sdrammatizzi la sessualità, la liberi da chissà quale morboso mistero. E invece impone del sesso un ritratto codificato, stereotipato, meccanico; una questione di performance. Il tutto omologato nella finzione e sempre con uno scopo preciso: vendere qualcosa. 

E poi le incoerenze relative all’omosessualità, divenuta da motivo di vergogna a ragione di enorme fierezza, mentre la sua difesa è ormai imposta a tutti, etero compresi ovviamente.

Se la questione principale è la libertà, allora la vera libertà forse sta proprio qui, nell’accettare che le tesi controcorrente della Hargot e di quelli come lei inducano i cervelli a porre qualche domanda scomoda.

Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), scrive Costanza Miriano. Biondissima bellissima occhi celestissimi e fisico mozzafiato, poco più che trentenne, tre figli, Thérèse Hargot sembra fatta apposta per spernacchiare tutti i luoghi comuni sul sesso. Questa giovane belga trapiantata a Parigi ma con lunghi trascorsi newyorkesi, infatti, da sessuologa laureata in filosofia, master alla Sorbona, si interroga sui danni della liberazione sessuale e dell’aborto, sostiene l’intelligenza e la ragionevolezza dei metodi naturali, avversa fieramente la pillola e l’eccessiva libertà sessuale dei ragazzi, e ritiene che parlare loro di sesso a scuola come si fa oggi sia estremamente dannoso. Ma fa tutto questo da super laica, non credente immagino: nel suo libro, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), il tema di Dio non appare neppure vagamente all’orizzonte. Eppure arriva alle stesse conclusioni dei cattolici (ma non diteglielo, credo sia insofferente a riguardo). Se dici “metodi naturali” in Italia, temo che la maggior parte della gente pensi a una tecnica vegana, che so, per produrre lo yogurt in casa coi fermenti. Nei cosiddetti libri di scienze che i nostri figli devono comprare per frequentare le scuole statali (gli stessi che spacciano teorie per scienza, tipo darwinismo e riscaldamento globale, che appunto essendo teorie dovrebbero poter essere abbracciate o meno, non insegnate come verità, ma lasciamo stare ora), in quei libri, dicevamo, nelle copiose pagine dedicate alla contraccezione, i metodi naturali sono poco più che una nota a pie’ di pagina, trattati alla stregua di una curiosità o di una nota di folclore. Qui da noi è solo la Chiesa che li propone, li spiega li insegna e li difende. E una esigua minoranza che li vive, o almeno ci prova. Nell’immaginario collettivo la donna che segue i metodi naturali è una povera sfigata, tendenzialmente racchia e sempre incinta, non una bionda con le physique du role da attrice che parla di sesso tutto il giorno – ai ragazzi nelle scuole, ai grandi nel suo studio privato – e ci autorizza a pensare che abbia una vita sessuale pienamente soddisfacente, e insieme stabile (è sposata con un solo uomo) e feconda (hanno tre bambini). Il suo no alla pillola, dunque, è un preziosissimo alleato del nostro no, intendo di quello di noi cattolici, che diciamo no a tutto quello che impedisce a Dio di prendere l’iniziativa sulla nostra vita. Il no della Hargot è un no che prende le mosse solo dalla ragione, dall’osservazione della realtà – ciò che facciamo anche noi credenti, vedi una per tutte Fides et ratio – senza neppure avere bisogno del passo ulteriore, quello della fede. Perché la pillola è nemica della donna, fa il gioco dell’uomo, rende il corpo femminile perennemente a disposizione dell’uomo senza che rischi di prendersi delle responsabilità. E poiché il desiderio della donna a causa della azione ormonale della pillola viene inchiodato al suo livello più basso – come quando, naturalmente, la donna è infeconda – è lei la prima a trarne svantaggi. Quella della Hargot è dunque una rivendicazione di una sessualità vissuta in pienezza e in modo soddisfacente per entrambi, non solo a favore dell’uomo. Insomma, la questione fa tutto il giro e finisce capovolta: la pillola non è una conquista femminista, ma una fregatura: “eredi di un femminismo che si ritorce oggi contro le donne stesse, perché invece di modificare la società patriarcale le si è totalmente sottomesso, incoraggiando le donne a modificare il proprio corpo al fine di adattarvisi”. Esattamente quello che succede con l’aborto e con l’essere costrette a lavorare come uomini, come se non avessimo tempi ed esigenze diverse (qualche signore ha presente cosa possa significare tornare al lavoro con un bambino di massimo quattro mesi come prevede la legge italiana, allattato esclusivamente al seno come prevede la natura, tirando il latte di giorno per coprire le assenze, alzandosi di notte per poi, la mattina dopo alle otto, fingere di essere sveglie alla scrivania o al bancone o in corsia o dovunque si lavori?). Per non parlare dei casi di morte – una ventina all’anno solo in Francia – o paralisi – riguardano 2500 francesi ogni anno – che fanno passare in secondo piano cancro al seno, tumori al fegato, infezioni vaginali, alterazioni della libido, vomito, acne ed eruzioni cutanee, variazioni di peso, dolori mammari, cefalee, asma, secrezioni dai seni, depressione, emicranie, nausee, perdita dell’udito. Per quale motivo ci condanniamo a tutto questo? E per cosa? Solo per non aprire alla possibilità di un figlio (neanche così minacciosa, io conosco più persone che fanno fatica a concepire che il contrario, purtroppo) rischiamo la pelle, o almeno la salute, e ci neghiamo il piacere di un sesso vissuto in pienezza (il calo della libido nel bugiardino della pillola è elencato come solo uno degli effetti collaterali, come se fosse una bazzecola). Il discorso sui metodi naturali, efficacissimo nella pars destruens di tutti i metodi contraccettivi artificiali, a dire il vero nel libro secondo me manca della pars construens, cioè di tutta la riflessione sulla bellezza di una sessualità consegnata, la teologia del corpo di Giovanni Paolo II, ma proprio per questo è ancora più efficace, perché parla al mondo con gli argomenti del mondo. Allo stesso modo la critica all’approccio alla questione omosessuale (non esiste l’omosessuale, esiste solo una persona con delle inclinazioni), la critica alla libertà sessuale degli adolescenti e quella alla pornografia – “in sei anni, l’umanità ha guardato l’equivalente di 1,2 milioni di anni in video pornografici e ha visitato 93 miliardi di pagine porno su piattaforme gratuite. Ciò che era sulfureo è diventato all’improvviso banale” – si limita a fotografare in modo scientifico le conseguenze negative che certe condotte hanno sul desiderio, sul godimento sessuale, senza alcun giudizio morale, ciò che rende questo libro praticamente inattaccabile, e sempre sia lodato Giovanni Marcotullio che lo ha scovato e tradotto per l’Italia. Di fronte all’infelicità diffusa nella sessualità – la Hargot ha ascoltato migliaia di storie a riguardo – è ora che il mondo si faccia qualche domanda. Questa presunta liberazione ci ha lasciati senza niente in mano. Bisogna ripartire dalle basi. Prima di reclamare la libertà a fare qualsiasi cosa ci salti in mente, bisogna ricordare che “per stare insieme a qualcuno, bisogna innanzitutto essere qualcuno”. Perché la sessualità non è quella specie di ginnastica a cui l’ha ridotta il mondo oggi, ma ha a che vedere con la sfera più profonda, intima e unitaria dell’individuo, cioè la persona, e può essere molto, molto più bella di quanto ci hanno fatto credere. Fonte: La Verità.

«L’epoca dell’aborto sta passando». Intervista esclusiva di Giovanni Marcotullio con Thérèse Hargot su "La Croce Quotidiano" del 31 gennaio 2017. Mi prende una bizzarra euforia, ora che mancano due giorni all’uscita del libro di Thérèse Hargot, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), che Sonzogno ha avuto il merito di voler pubblicare in italiano. È bizzarra, dico, perché la vita non mi ha negato la gioia e il piacere di veder dare alle stampe un libro mio (è del resto un piacere, questo, che oggigiorno nessuno più si nega); tuttavia non ricordo di aver mai atteso la comparsa di una mia pubblicazione con l’aspettativa di piacere e di bene che vivo negli ultimi giorni. Agli amici più benevoli, i quali mi domandavano se un simile stato d’animo non sia poi simile a quello di una donna che dà alla luce un bambino, ho dovuto rispondere che – non essendo io donna, né ponendo in alcun modo diventarlo – mi mancano le basi per dare risposte sensate. Ai meno benevoli tra i conoscenti, e a tutti gli altri, sento di dover premettere una dichiarazione d’innocenza: lo si sappia o no, i traduttori vengono pagati a cartelle e una tantum, quindi una volta che hanno ceduto a un editore i diritti sul testo tradotto il loro profitto pecuniario resta assolutamente insensibile a qualsivoglia esito del commercio librario. Mi tocca dire una cosa tanto volgare perché chiunque, – vedendomi «che mai per mio veder non arsi / più ch’i’ fo per lo suo» – si sentirà autorizzato a indagare anzitutto quale sia la sorgente della mia eccitazione. I maliziosi correranno al risvolto posteriore di copertina e poi penseranno a me, che senz’altro devo essermi innamorato degli occhioni blu della bionda autrice belga, naturalizzata francese. Sì, non nego che il suo personale abbia del petrarchesco, ma chi mi conosce bene sa che il mio cuore indugia su Petrarca solo nell’istante mediano della corsa altalenante tra Dante e Boccaccio: le bionde non mi fanno impazzire nemmeno in birreria, chiedo venia, sono altri i motivi per cui Thérèse e il suo libro mi hanno rapito. Cominciamo allora col dire che la mia trepidazione è quella del talent scout, e che già questo – intanto – conferisce all’attesa dell’esito una temperatura e un sapore diversi da quelli che si hanno da autore: un allenatore, un insegnante, un maestro, un pastore di anime, questi mi capiranno – quando uno presenta al mondo (e ogni mondo, a suo modo, è il mondo) un talento che ha scoperto, costui è tentato dal più disinteressato dei narcisismi e dal più egoistico dei doni. In aggiunta a ciò, il piacere di aver potuto partecipare alla pubblicazione con una propria traduzione è un coronamento di sensualità spirituale che avvicina il traduttore alla responsabilità morale dell’autore: non ho voluto aggiungere o togliere una parola al testo, ma in questo titanico (e sempre fallimentare) sforzo di fedeltà assoluta mi assumo il peso lieve di ogni pagina, e procedo quindi alle mie doverose dediche.

Dedico anzitutto il libro a tutti i giovani che conosco, e in particolare a quelli che negli anni hanno guardato a me chiedendomi un orientamento, un suggerimento, un’indicazione. Lo dedico specialmente a quelli che a vario titolo ho potuto considerare miei alunni, ossia cuccioli d’uomo affamati di cibo: a loro va, con tutto il cuore, da parte di questo pellegrino che vedevano decorato nella mantella da più toppe, da più macchie, da più strappi.

Lo dedico quindi a tutte le coppie, soprattutto a quelle fidanzate o sposate: ho scelto di trovare un editore per Thérèse Hargot, e di tradurne il libro, perché da nessuno come da lei ho sentito illustrare le ragioni di una vita che comprenda e integri le belle, difficili e talvolta dolorose dimensioni della sessualità. Altri sono forse altrettanto profondi, ma non ugualmente comunicativi.

Lo dedico a tutti i sacerdoti cristiani perché io, che ho dovuto studiare la Humanæ vitæ un paio di volte, prima di innamorarmi per sempre, non ho mai sentito spiegare la dottrina sessuale della Chiesa come da questa figlia di Eva, che neppure si professa credente. E aggiungerò anche che alcune delle sue critiche ai “nostri” approcci pastorali (e parlo dei migliori!) non sono prive di una loro feconda fondatezza.

Lo dedico alla mia famiglia di origine, di cui – come il fiume che verso valle si placa e lascia brillare nella sabbia le pagliuzze d’oro strappate alle rocce montane – ogni giorno riconosco la quotidiana fatica, spesa fedelmente nei decennî scorsi, per collaborare a fare di me l’uomo che sono. Ancora di più lo dedico alla famiglia che ho formato e sempre ri-formo con mia moglie: a lei, che mi accoglie con tutti i miei difetti, e a nostra figlia, che nei prossimi mesi vedrà la luce, affido in queste pagine la testimonianza di un anelito a una vita più bella e più libera.

Solo arrivando alle dediche ho già bruciato una cartella, e non posso dilungarmi ancora molto, prima di lasciarvi alla trascrizione di una conversazione avuta con l’autrice domenica scorsa, nella quale ci siamo soffermati su alcune tematiche che il libro non ha potuto o non ha voluto trattare. Ma prima quali sono quelle che ha voluto trattare? Ecco, vi dico che cosa mi ha innamorato di questo libro di Thérèse Hargot: è un libro che pone domande su una materia nella quale una gilda di ciarlatani si affanna a dare risposte. “Ciò che noi non siamo”, invece, e anche “ciò che non vogliamo”, sì: questo afflato montaliano che in Thérèse (la quale ha tra i suoi limiti il non conoscere Montale e la lingua dei nostri poeti) significa l’esame critico, filosofico, antropologico e clinico dell’eredità del Sessantotto, questo afflato è quello su cui si sbalza il progetto di una riforma sessuale personalista. Non una controrivoluzione, si badi bene, e neanche una controriforma (sono parole che hanno ciascuna un proprio peso e un proprio dazio da pagare): c’è una riforma sessuale che intende respingere con estrema e radicale fermezza le aberrazione della “liberazione sessuale” sessantottina (come il dilagare della pornografia, la rivendicazione scriteriata e ideologica del “diritto all’aborto”, soprattutto la pillola, vero avatar maschilista e fallocratico delle pie intenzioni femministe); e che d’altro canto vuole recuperare l’antico e atavico contatto con il corpo, il proprio e quello altrui, la conoscenza dei ritmi e delle stagioni della vita, dei soli delle età e delle lune dell’amore. Questa riforma intende archiviare i danni del furore sessantottino senza vergognarsi di ringraziare per i suoi lasciti, o anche solo per i suoi richiami: la stessa Chiesa cattolica incorporò nella propria Riforma alcuni spunti della Riforma luterana, e giustamente gli storici insistono col dire che non le si rende la debita giustizia col rancoroso nomignolo di “Controriforma”. Analogamente, i disastri provocati dalle femministe sessantottine – danni enormi che non sappiamo quando finiremo di pagare – non dovrebbero tuttavia farci indulgere in passatismi nostalgici, che sarebbero colpevolmente naïf e ignoranti. A quelle femministe, anzi, andrebbe dedicato e donato questo libro: anche a loro. Sì.

E dunque di cosa parla questo libro, che da come lo descrivo potrà forse sembrare magico? Di cose antiche e cose nuove, direi richiamando alcune umanissime e misteriose parole di Gesù. Parla di umanità e di società, del XX secolo e del XXI ormai avviato; parla di salute e di economia, di medicina e di erotismo; parla di coppia, di figli, del dovere di trasmettere una civiltà e del diritto a ricevere una educazione. Rivendica la libertà dei bambini di crescere senza forzature ideologiche di alcun tipo, specie sul versante dell’affettività e della sessualità, e ribadisce la necessità che gli adulti riscoprano il modo più naturale e sano di vivere la sessualità. Perché con Thérèse anch’io «torno […] al mio primo amore, la filosofia. Nella nostra società ultrasessualizzata, in cui il sesso è utilizzato tanto per far vendere uno yogurt quanto come risposta alle questioni esistenziali, questa è un’eccellente porta d’ingresso per toccare il cuore di ogni persona». Ed ecco a seguire alcuni passaggi della nostra conversazione di domenica pomeriggio.

Allora, Thérèse, ho letto sulla stampa francese che quella di una decina di giorni fa potrebbe essere l’ultima Marcia per la Vita che abbia avuto luogo in Francia. Nel tuo libro hai definito l’aborto “Servizio clienti della contraccezione”. Non pensi che Una gioventù sessualmente liberata (o quasi) possa presto finire all’Indice?

«No, non ho avuto proteste particolari, per il mio capitolo sull’aborto. I media hanno parlato molto poco di questo capitolo, è passato liscio come l’olio perché non ho mai scritto “sono contro l’aborto”. Ho scelto di non pronunciarmi “pro o contro” perché ho 32 anni e sono nata con il diritto all’aborto. Nessuno mi ha chiesto se sono a favore o contro. D’altro canto bisogna dire che il diritto all’aborto ha avuto ripercussioni sul modo in cui si vede il bambino e sul modo in cui i giovani di oggi percepiscono l’aborto stesso, e per questo lo chiamo “l’assistenza clienti della contraccezione”. Se hai una gravidanza per disattenzioni nell’uso dei mezzi contraccettivi non è un problema, ti dicono: «Puoi sempre abortire». Non si può riflettere sulla questione dell’aborto senza riflettere su quella della contraccezione, vorrei far capire che sono cose intimamente connesse. Ecco perché, penso, almeno fino a questo momento i giovani hanno capito cosa voglio dire: non sono finita all’Indice perché porto molte testimonianze. C’è questo miscuglio di idee e fatti, nel libro, e contro i fatti si può obiettare poca cosa: è per questo che non vengo attaccata e il libro riscuote interesse sia sul piano mediatico sia su quello politico. Quando mi si chiede se sono contro o a favore, da parte mia dico questo: domenica scorsa non ho partecipato alla Marcia per la vita perché il mio fronte di battaglia non è sulla questione della legalizzazione dell’aborto ma si trova piuttosto a monte, dove io mi batto con tutte le mie forze per impedire che si dia la situazione in cui la questione [dell’aborto singolo, ndr] si pone. Poi certo, è anche una questione di strategia, perché il dibattito in Francia – ma penso pure in Italia – è minato, anzi completamente ostracizzato. Io invece voglio – ed è il mio obiettivo nel libro – uscire da questa impasse e prendere un altro punto di vista per nutrire la riflessione e permetterla. E lo stratagemma funziona».

Scusami, Thérèse, ma nessuno ti ha obiettato che questo sembra più che altro un modo furbo per sottrarsi alla domanda?

«Sì, mi rendo conto che possa sembrare così. Allora provo a essere più esplicita: non voglio rispondere a questa domanda. Trovo che per me, come donna (e ho tre bambini), sia molto difficile dire “sono contro l’aborto”. Nel mio essere donna ho spesso un sentimento ambivalente, riguardo alla maternità: ci sono emozioni e desiderî contraddittorî, e quest’ambivalenza è importante e credo abbia diritto di cittadinanza. Quello che, come donna, mi pare importante è l’avere un uomo, il quale non ha ambivalenza in questo desiderio, o non ce l’ha allo stesso modo della donna. Quello che voglio dire è molto tradizionale, ma io credo che l’uomo sia “il garante della legge”. Mi piace poter dire a mio marito: «Forse non la voglio, questa gravidanza», «Magari porrò fine a questa situazione»; e lui che mi dice “ti ascolto”, e poi conclude: «Però no, non si abortisce». Vedi, io voglio poter dire tutto quello che abita il mio cuore e poterlo sottomettere a mio marito, o all’uomo che condivide la mia vita, e lui – non io – è il garante della legge. Quando vado in giro per conferenze io voglio poter dire tutto quello che c’è nel cuore delle donne, voglio parlare dell’ambivalenza, la legge è affare da uomini. In fondo penso che tutto ciò sia molto tradizionale».

Ma quale legge? Quella scritta di Creonte o quella non scritta di Antigone?

«Vorrei rispondere: «Entrambe», ma penso che la legge sia di non abortire, non si può interrompere un processo vitale, in tal senso mi riferisco più precisamente alla legge morale. Oggi il problema è che la legge giuridica non è sempre morale, come poi è sempre stato nella storia, almeno in parte. Ma per me il grande problema è che oggi si è tolta voce all’ambivalenza del desiderio materno, perché appena una donna dice “non voglio questo bambino”, le rispondono: «Ok, ti portiamo ad abortire». Ma io – direbbe quella donna – non ti ho detto che voglio abortire, bensì che per me è difficile. Dico a livello emozionale, non sul piano normativo, e questa duplicità semantica fa parte dello spirito femminile».

Ma visto che in Francia è in discussione il “délit d’entrave à l’IGV” [il crimine di porre ostacoli alla decisione di abortire, ndr], il tuo libro non potrebbe comunque ricadere sotto questa mannaia?

«Ah, questo è interessantissimo, sei la prima persona che mi pone questa domanda – anche perché la legge è tuttora in discussione. Io penso che il mio libro non dovrebbe rischiare di essere proibito perché propongo una riflessione e non influenzo le donne dicendo “non fatelo”: parlo di società, di come stanno le persone. Ma tu hai ragione e può darsi che io mi sbagli: chi potrà decidere se il mio libro sarà passibile di condanna? Qualcuno potrebbe osservare che “il lavoro della Hargot va contro l’aborto”, e allora certo, con una simile legge, la questione sarebbe in mano ai giudici. E tutto sommato non mi dispiacerebbe che qualcuno si spingesse a tanto: sarebbe appassionante! Magari! Vedi, per esempio, qualche giorno fa “Alliance Vita”, che in Francia si occupa molto di questioni prolife, ha diffuso un video del ministro che ha proposto la legge, video che ho pure condiviso su Facebook e su Twitter, in cui si dice che «non si interrompe una vita quando si abortisce». Ebbene, ho condiviso quel link (che ovviamente era molto critico) e nessuno mi ha contestato, e sì che ne ho di femministe tra i follower e i contatti».

Capisco. Ascolta: senza entrare in considerazione squisitamente politiche, qual è il tuo giudizio filosofico riguardo a una certa tendenza liberticida in voga oggi nei governi? E nel caso particolare, quali possono essere secondo te le conseguenze – nel corto e nel lungo periodo – di una così violenta repressione del dibattito su aborto e contraccezione?

«Allora, tu dici che i governi e le legislazioni si irrigidiscono, e quello che vorrei anzitutto sottolineare è questo: l’irrigidimento si deve a una crescente opposizione delle nuove generazioni. Esiste un sentire diffuso, e questo sentire è per me un buon segno: pensieri contrarî alladoxa, all’opinione dominante, hanno diritto di cittadinanza, possono circolare e si diffondono, hanno l’attenzione dei media e questo li manda nel panico [i gestori della doxa, ndr]. Da un lato. Dall’altro osserviamo quello che mi pare l’ultimo colpo di coda di una generazione che ha difeso una certa ideologia e che ne vede il crollo, che assiste alla fine della propria epoca. Ci sono tutti i segni della fine di questo periodo: il “délit d’entrave” è fantastico perché mostra fino a che punto possono arrivare i sostenitori dell’aborto come “diritto umano”, dal momento che non esistono argomenti a sostegno di una simile posizione. Se credessero veramente in ciò che dicono, se si fidassero della forza dei loro sofismi (che non sono argomenti), non avrebbero bisogno di inventare certe leggi, di mettere a tacere gli altri».

Quindi pensi che l’epoca dell’aborto stia passando?

«L’epoca dell’aborto sta passando, sì, almeno per come è stato vissuto fino a questo momento: ne vediamo tutti i segni. Purtroppo l’aborto è anche il sintomo di tanti comportamenti, e per questo non si può proporre di impedire sic et simpliciter l’accesso all’aborto, oggi, perché bisognerebbe offrire in cambio altri metodi di regolazione della fertilità, alternativi a pillole e preservativi. Bisogna quindi che avvengano questi cambiamenti. Però di certo le cose stanno cambiando: lo vediamo negli Stati Uniti, ma pure nella stessa Francia».

Visto che stiamo parlando di cose proibite, perché non mi dici qualcosa sull’utero in affitto? C’è una ragione particolare per cui non ne tratti nel libro? Da una parte abbiamo molte sentenze nazionali e internazionali – l’ultima a Strasbourg la settimana scorsa –, e dall’altra un fiorente business planetario. Che pensi a riguardo?

«Sì, la prima ragione è che ho fatto una cernita tra gli argomenti che riguardano più da vicino i giovani, anche se in effetti l’argomento lo sfioro, un istante, sul finale del capitolo sull’aborto: termino quel capitolo spiegando che la questione della GPA è semplicemente una conseguenza della connessione tra il diritto all’aborto e quello alla contraccezione (e di nuovo vediamo questo legame). Niente di nuovo: questo femminismo ha dato le proprie armi, ha procurato i proprî strumenti ideologici, per rendere possibile la GPA. Per esempio, il classico slogan “Un bambino, se voglio, quando voglio”, veniva usato nel contesto delle manifestazioni per l’aborto e per la contraccezione, ma l’aborto e la contraccezione non riescono a produrre “un bambino se voglio e quando voglio”, riescono al limite a permettere di non averlo, il bambino, se non si vuole averlo: è la GPA che permette di realizzare questo slogan per la contraccezione e l’aborto. Ecco perché diverse femministe francesi sono contrarie alla GPA, almeno in Francia: pensa, che so, a Sylviane Agacinski. Quello che mi manda in bestia è che questi sono dei femminismi incoerenti, perché secondo me non si può essere coerentemente contro la GPA e a favore della contraccezione e dell’aborto. Perché? Perché il retropensiero è lo stesso: sul corpo e sul bambino. Dunque c’è una profonda incoerenza e, per tornare alla domanda, non ne ho parlato specificamente perché secondo me si tratta quasi di un non-argomento, in sé: l’argomento in sé è la contraccezione. Per me è l’origine dell’intero sistema ideologico».

Capisco cosa dici. E a proposito di sistemi e di ideologia, volevo fare una domanda alla filosofa che c’è in te: diversi anni fa scrivevi sul tuo blog che «la teologia del corpo provoca gli stessi effetti della pornografia, sulla sessualità». Che volevi dire?

«Era una provocazione, naturalmente. In realtà non è certo la Teologia del corpo ad essere problematica: è l’insegnamento della Teologia del corpo, semmai, ed è tale perché per la maggior parte i cattolici ricevono anzitutto una base di morale sessuale; poi si aggiunge una teologia della sessualità; il tutto senza sapere che cosa sia la sessualità. Voglio dire che non c’è una conoscenza adeguata del fenomeno sessuale: come si manifestano le dimensioni emozionale, affettiva e psicologica. Si passa direttamente alla dimensione morale e a quella teologica. Sono cose estremamente interessanti, la morale e la teologia, ma l’insegnamento va in cortocircuito sulla conoscenza fisica ed emozionale. Intendo dire che c’è una generazione di giovani – quella di cui parlo nel mio libro – che coinvolge naturalmente anche numerosi cattolici: venuti su al latte della pornografia come gli altri, crescono e ricevono un insegnamento che è molto molto bello e non hanno modo di viverlo. Entrano rapidamente in un’idea di ciò che la sessualità dovrebbe essere: la comunione degli sposi, la Trinità, la liturgia dei corpi… tutte idee che trovo molto affascinanti e belle… solo che poi ad esse non corrisponde la loro esperienza. E diventano frustrati: «Cavolo, la mia vita sessuale decisamente non è così… il sesso con mio marito non assomiglia proprio a questa roba…». E giù a deprimersi in un circolo vizioso, che si nutre del fatto che si ha scarsa o nulla conoscenza delle dinamiche personali della sessualità: perché abbiamo dei fantasmi, come funzionano le pulsioni sessuali; e quindi la masturbazione, il piacere…»

Penso ci sia del vero in ciò che dici, ma Giovanni Paolo II non poteva avere esperienza di tutte le dimensioni della vita sessuale che tu enumeri. Che cosa manca, secondo te, alla Teologia del corpo? E a chi toccherebbe il compito di integrare quella visione sublime con ciò che ancora non ha?

«Ecco, quello di cui c’è bisogno è di avere dei bravi sessuologi in Vaticano [ride]. Lo dicevo a un incontro con dei preti, anzi due anni fa ho avuto modo di incontrare tutti i Vescovi di Francia e anche a loro ho detto: «Non cambiate il vostro insegnamento; però accompagnatevi a uomini e donne, laici, che si accompagnino a voi e che facciano dell’educazione. Di questo ha bisogno la nuova generazione». Devo dire che in Francia la Chiesa cattolica è stata molto recettiva al mio messaggio e in generale sono stata accolta benissimo: una donna giovane, che parla di sessualità senza complessi… io sono sbalordita a vedere che questa cosa è considerata straordinaria ma prendo atto della cosa. Mi dicono che questa cosa mancava e che ce n’era bisogno perché quel messaggio venga integrato. E ce n’è bisogno davvero, penso, perché davvero constato che gli esiti di certa non-educazione sono simili a quelli della pornografia: intendo disfunzioni sessuali, come problemi di erezione, difficoltà con l’orgasmo, calo del desiderio, vaginismo… sono effetti di un insegnamento teorico che non viene incarnato. E tocca ai laici completare questo passaggio: è compito loro».

I MORALISTI DEL TANGA. IL TANGA DEL POLVERONE E DELLA DISCORDIA.

«Avreste dovuto vedere com’era vestita», scrive Silvia Scalisi il 19 novembre 2018 su Eco internazionale. Di – I cieli novembrini d’Irlanda sono stati scossi in questi giorni da una pioggia di proteste. Una pioggia che ha i colori del blu, del rosso, del giallo, del rosa, colori fatti di cotone, di pizzi e di merletti. Sono i colori della lingerie (sì, esatto, avete letto bene), della biancheria intima, più nello specifico proprio delle mutandine, di ogni forma e colore, che centinaia di donne hanno mostrato in segno di protesta. Ma protesta per cosa? Facciamo un passo indietro. È di qualche settimana fa la notizia dell’assoluzione di un 27enne accusato di aver violentato una ragazzina di 17 anni in un vicolo della cittadina di Cork, affermando che il rapporto fosse stato consenziente. Fin qui, nulla di strano: sono centinaia i casi di violenze che vengono giudicati quotidianamente dai tribunali di tutto il mondo; casi molto delicati, dove il confine tra verità e menzogna a volte può apparire incerto e fumoso; casi che necessitano un’attenzione particolare e scrupolosa. Cos’è che ha scatenato, quindi, l’ondata di proteste e indignazione che dall’Irlanda sta attraversando tutta l’Europa, con la complicità dei social network che l’hanno resa virale? Cosa ha spinto le donne a sfilare in corteo verso il tribunale di Cork (ma anche a Dublino, Limerick, Waterford), brandendo la propria biancheria su cartelloni con la scritta “Questo non è un consenso”? Il nodo della questione è semplice: Elizabeth O’Connell, avvocato dell’imputato, ha utilizzato nella propria arringa difensiva un riferimento all’abbigliamento intimo della vittima (un tanga nero di pizzo), alludendo (in maniera ben poco velata) al fatto che indossare un capo intimo del genere sarebbe un chiaro messaggio di volontà di avere un rapporto, o quantomeno lascerebbe intuire l’intenzione della vittima di avere un incontro con un uomo. «Dovete guardare come era vestita: indossava un perizoma di pizzo nero. Questo non indica forse che la ragazza era attratta dall’uomo o che si aspettava di avere un incontro?», queste alcune frasi pronunciate dalla O’Connell. A quanto pare, tanto è bastato per insinuare tra i membri della giuria (formata da 8 uomini e 4 donne) il germe del dubbio che li ha spinti a optare per l’assoluzione. La questione è balzata subito all’attenzione mediatica. Il gruppo Facebook Women of Irelande l’account Twitter I believe her – Ireland hanno alimentato la protesta con l’hashtag #ThisIsNotConsent, che è arrivata alle aule del Parlamento irlandese. Infatti, qualche giorno dopo la sentenza, la deputata Ruth Coppinger durante una seduta ha tirato fuori dalla manica della giacca un tanga di pizzo blu mostrandolo a tutta l’aula: «Potrebbe sembrare imbarazzante mostrare un tanga qui; come pensate che si senta una vittima di stupro, quando in modo inappropriato viene mostrata la sua biancheria intima in tribunale?» Ecco, inappropriato è proprio l’aggettivo giusto. Sebbene la protesta abbia avuto un’eco non indifferente, Noeline Blackwell, avvocato specializzato in diritti umani e capo esecutivo del Centro di Dublino contro la violenza sulle donne, fa notare come l’utilizzo di allusioni e stereotipi in tali casi sia all’ordine del giorno. «Questi argomenti possono insinuare il dubbio nella mente di una giuria, e se si insinua un dubbio nella mente di una giuria, l’imputato verrà assolto […] Io non sto dicendo che l’assoluzione non sia stata perfettamente consona, ma che il fatto che queste storie siano introdotte nelle corti non è per nulla una sorpresa», ha dichiarato la Blackwell, auspicando una riforma del sistema giuridico sulla materia in questione. Non un caso isolato, dunque, non uno scandalo, bensì una pratica ben conosciuta, perché utilizzata troppo spesso nei tribunali. È sconcertante vedere come ancora oggi non si riesca ad abbandonare lo stereotipo, il pregiudizio, che troppe volte sposta l’attenzione sulla vittima della violenza, colpevolizzandola: per gli atteggiamenti, il modo di vestire, il modo di parlare, finanche per quello che ha bevuto. Ancora oggi c’è quella vocina che risuona nella mente, costante e insistente: “se l’è cercata”. È squallido che sia necessario utilizzare come strategia difensiva l’abbigliamento di una donna per giustificare uno stupro: davvero non ci sono altri argomenti, più consoni e validi, su cui costruire una difesa in modo meno superficiale, piuttosto che sottolineare un aspetto che dovrebbe essere assolutamente irrilevante, cioè gli indumenti della vittima? Se è vero che in certe situazioni il corpo può lanciare messaggi non verbali spesso anche espliciti – e questo vale sia per gli uomini, che per le donne, beninteso –, è innegabile che non si può strumentalizzare un capo di abbigliamento, definirlo troppo sexy, e utilizzarlo come un lasciapassare per un consenso che non c’è. Vogliamo sperare che siano stati anche altri gli elementi che hanno indotto la giuria ad assolvere l’imputato, sebbene la speranza più grande resti quella di spegnere, una volta per tutte, quell’assordante e scomodo “se l’è cercata”. Ma per questo la strada è, probabilmente, ancora lunga.

Se indossi il tanga non è stupro? La vera storia di #thisisnotconsent, scrive Giovanni Drogo il 15 novembre 2018 su nextquotidiano.it. #ThisIsNotConsent è l’hashtag con cui le donne e le femministe irlandesi stanno protestando non contro l’assoluzione di un uomo, un ventisettenne di Cork, accusato di stupro nei confronti di una ragazza di 17 anni ma contro la decisione dell’avvocato dell’imputato – Elizabeth O’Connell – che utilizzato come prova a discarico del suo cliente il fatto che la vittima quella sera indossasse un tanga.

Cosa è successo a Cork e perché ora parlano tutti di tanga. La vicenda è stata riferita dall’Irish Examiner in un articolo del sei novembre scorso dove vengono riferite le esatte parole pronunciate dalla difesa che, per mettere in dubbio la testimonianza della vittima che sosteneva di non aver mai dato il consenso al rapporto sessuale, ha fatto notare non era possibile escludere del tutto la possibilità che la querelante fosse attratta dall’imputato e che quella sera fosse «aperta alla possibilità di incontrare qualcuno» perché «indossava un tanga con un fiocchetto sul davanti». Insomma la ragazzina non se solo se la sarebbe cercata ma anzi sarebbe andata più o meno “attivamente” in cerca di qualcuno quella sera. Non solo: l’avvocato ha stabilito un’equivalenza tra una semplice (e presunta) attrazione e il consenso ad un rapporto. Le due cose però sono ben distinte. Una persona può essere attratta da un’altra ma non significa che in quel luogo e in quel momento voglia andarci a letto, e non giustifica il fatto che la controparte si senta autorizzata a fare qualsiasi cosa in virtù di questa attrazione. Non c’è però alcun indizio che la giuria (8 uomini e 4 donne) che ha stabilito all’unanimità l’innocenza dell’imputato lo abbia fatto in base a quell’unica argomentazione pronunciata durante l’arringa conclusiva. L’interno processo – come spesso accade nei casi di stupro – verteva sul fatto o meno che il rapporto fosse stato consensuale. L’imputato sosteneva di sì, l’accusa invece ha fatto notare alcuni particolari – ad esempio il fatto che ad un certo punto le abbia messo le mani alla gola – che potrebbero far pensare di no come del resto sostiene la vittima. La giuria, che ha seguito il processo per intero, ha ritenuto non ci fossero sufficienti elementi per pronunciare una sentenza di colpevolezza. Allo stesso tempo nessuno cita la sentenza e quindi è scorretto dire che l’imputato è stato assolto perché la vittima indossava un tanga come fanno invece certi titoli di giornale che – in Italia – hanno presentato la manifestazione parlando di “sentenza shock” o di assoluzione grazie al tanga.

Contro cosa stanno protestando le donne irlandesi. La protesta è stata sicuramente scatenata dall’assoluzione ma il problema è lo slut shaming e il victim blaming messo in atto dalla difesa. Come sottolinea un editoriale dell’Irish Examiner è l’avvocato difensore non è un’esperta in materia di violenza sessuale ma semplicemente assurdo che in un’aula di giustizia si sia deciso di ricorrere ad uno dei più deteriori falsi miti sugli stupri: quello dell’abbigliamento che non solo segnalerebbe una presunta “disposizione” al rapporto sessuale ma che addirittura si sostituirebbe al consenso. D’altra parte non ci si può nascondere il fatto che in un processo la difesa debba tentare di far scagionare l’imputato. Certo: è incredibile che ad usare un’argomentazione del genere sia stata una donna, ma è ancora più incredibile che qualcuno creda ancora a queste storie. Ma allora perché centinaia di persone sono scese in piazza e addirittura il caso è stato portato all’attenzione del Parlamento dalla deputata Ruth Coppinger che ha sventolato un tanga durante una della Dáil, la camera bassa del Parlamento irlandese? Un motivo è che in Irlanda è chi sporge denuncia a dover dimostrare di non aver dato il consenso, in altri paesi invece è l’imputato a dover dimostrare di averlo ottenuto. In questo modo però gli avvocati hanno buon gioco a utilizzare tutti i rape myths le balle sugli stupri come quella dell’atteggiamento provocatorio, dell’abbigliamento e del fatto che la ragazza se l’è cercata. Ma sono miti appunto, non prove tangibili.

Un titolo di giornale che descrive la realtà dei fatti. Se queste prove (non sappiamo però quali altre ne siano emerse durante il processo) sono state ritenute accettabili dalla Corte e dalla giuria allora il problema è che questi miti sono così radicati nella cultura e nel pensiero comune che vengono ritenuti ipso facto veri. A prescindere dal fatto che i giurati abbiano creduto o meno alla storiella del tanga il problema che le manifestanti vogliono portare alla luce è che l’Irlanda inoltre non ha alcuna legislazione in merito al fatto che questo genere di prove possa essere utilizzato durante un processo. In un tweet di ieri il National Women Council irlandese annunciava le proteste non contro la sentenza ma contro il linguaggio usato nelle aule di giustizia durante i dibattimenti su stupri e casi di violenza sessuale. Un linguaggio permeato appunto da stereotipi di genere, gli stessi ben documentati in Italia nel 1979 dal famoso documentario Un processo per stupro dove gli avvocati della difesa si dilettarono nello screditare la credibilità della vittima nei modi più bizzarri. Anche un altro tweet, datato 10 novembre e pubblicato dal gruppo di supporto per le vittime di violenza sessuale I Believe Her (Io le credo), invitava a manifestare contro il “wholly unacceptable comment” il commento assolutamente inaccettabile fatto da parte del difensore del presunto stupratore. Chi protesta in Irlanda ha ben chiaro il motivo per cui sta scendendo in piazza. In Italia a volte i titoli di giornale distorcono la realtà dei fatti.

Il tanga di pizzo e lo Stato di Diritto, scrive il 17 novembre 2018 stalkersaraitu.com. Quello che sta accadendo in Irlanda è davvero paradigmatico. Tutto parte da un’accusa di stupro mossa da una diciassettenne di Cork contro un uomo di ventisette anni. Questi dichiara che il rapporto era consenziente e il suo avvocato (donna) fa notare in dibattimento che la ragazzina, la sera della presunta violenza, indossava un look particolarmente seducente, incluso un tanga di pizzo. La corte, formata da otto uomini e quattro donne, manda assolto il ragazzo all’unanimità, ancora non è chiaro se per il tanga di pizzo o se per altri motivi. Non si sa di preciso perché i giornali irlandesi parlano d’altro, evitando di dare dettagli sul dibattimento e sulle prove portate dalla ragazza. La loro attenzione è sulla citazione del tanga in dibattimento, poi sventolato per protesta in Parlamento da una deputata femminista. E non solo da lei: i movimenti in difesa delle donne hanno inscenato una protesta molto ampia, buttando i loro tanga sulle scale del tribunale e diffondendo un nuovo hashtag sui social: #ThisIsNotConsent (questo non è consenso). Va detto che, come sempre, sul piano comunicativo sono audaci, geniali ed efficaci. Riescono con queste carnevalate e con gli hashtag a tirarsi dietro un esercito di media compiacenti e a influenzare l’opinione pubblica. Il tutto spesso al di là del buon senso e dei principi dello Stato di Diritto. Pare evidente infatti che il Tribunale irlandese, se ha deciso di assolvere l’uomo, è stato perché le prove portate a suo carico non erano sufficienti. Difficilmente si è basata su un tanga, seppure quello possa aver legittimamente avuto il suo peso. Vero è che c’è chi indossa roba del genere anche per fare le pulizie di casa, ma in un incontro a due un indumento del genere può avere anche chiare finalità seduttive che in qualche modo preludano al consenso. Non bastano da sole a certificare l’innocenza dell’uomo, questo è certo, così come giustamente non basta la parola dell’accusatrice per mandare in carcere qualcuno. La legge è legge e ha i suoi principi per essere applicata. Se poi i giudici sono particolarmente prudenti non credo sia colpa loro o di una mentalità maschilista. In Irlanda come nel resto del mondo credo abbiano ben presente la diffusione del fenomeno delle accuse false o inventate, spesso legate a ripensamenti post-coito inizialmente consentito. Essendo il dubbio uno strumento logico di base per chi giudica, l’abuso eccessivo della furbizia mette in difficoltà le vere vittime. Dunque, nel dubbio, i giudici assolvono. Invece che spargere mutande in giro e diffondere hashtag le femministe farebbero bene a mobilitarsi affinché le loro seguaci smettano di fare la finta e inventarsi accuse strumentali. Solo così possono tutelare le vittime di violenza e anche degli stereotipi. Ed è per questo che non lo faranno mai: senza materia di cui lamentarsi e per cui protestare, come potrebbero mai continuare ad esistere?

Lo scandalo, la punizione e l’ipocrisia, scrive Il Corriere del Veneto il 5 giugno 2010 (modifica il 11 febbraio 2015). Dal Vangelo secondo Marco: «Guai a chi dà scandalo ai bambini perché è meglio per lui che si metta una pietra al collo e si getti nel mare». E’ uno dei tanti insegnamenti attribuiti a Gesù di Nazareth. Dunque, tecnicamente, la procura di Perugia ha agito con correttezza ordinando l’arresto della «lap danceuse» Brigitta Kocsis finita in manette a Montebelluna per il reato di corruzione di minori commesso due mesi prima in una discoteca dell’Umbria. Una risoluzione ineccepibile sotto il profilo del codice penale che, però, lascia spazio a qualche ragionevole dubbio dal punto di vista del buon senso. Le notti sono piene di disinvolte artiste dell’hard le quali hanno deciso di campare spogliandosi in pubblico di fronte a maschi (ma non solo) arrapati. De gustibus disputandum non est. C’è chi si diverte a guardare, ma di questo non ha colpa la bionda soubrette di Gianni Schicchi che, in virtù di un’arte antica come il mondo, può addirittura permettersi di viaggiare in Lamborghini. Quando, però, allo spettacolo assistono e addirittura partecipano ragazzi da quattordici ai sedici anni l’evento assume connotazioni morali ben differenti anche in una società come la nostra dove il concetto di etica si è fatto sempre più flessibile. Va da sé che Brigitta meritasse una punizione, magari soltanto per eccessiva superficialità mostrata in quel suo non preoccuparsi di capire chi fosse il pubblico in sala. L’ha avuta e recepita al punto da dichiararsi traumatizzata e disponibile ad appendere il tanga al chiodo, sulla falsariga di Claudia Koll diventata suora laica dopo le esperienze cinematografiche con Tinto Brass. Piccoli miracoli laici. Sarebbe comunque auspicabile attendersi identica attenzione da parte degli investigatori su casi meno «colorati» ma ben più scandalosi. Quello della madre di due figli, napoletana e senza lavoro, che si lascia morire in ospedale dopo aver offerto anche l’ultima goccia del suo sangue in cambio di una manciata di euro con i quali poter dare da mangiare ai suoi bambini. Dietro la bara, al suo funerale, tanta gente disperata e incazzata, ma nessuna autorità o un solo magistrato dubbioso. Ancora. Nelle discoteche italiane diminuisce il consumo delle pasticche da sballo e cresce in maniera esponenziale quello delle compresse di Viagra. Lo rivela il rapporto di una società impegnata ad indagare sul sociale e in quelle pagine si sottolinea che gli utenti più assidui del farmaco «celodurista» sono minorenni. Un fenomeno che dovrebbe preoccupare le procure almeno quanto quello delle nuove Ciccioline del Terzo Millennio. Anche perché leggendo di Brigitte e delle sue performance è impossibile non tornare indietro con la memoria. Per esempio, alle superbe scene felliniane nelle quali il ragazzino Titta di Amarcod sognava di potersi perdere tra i seni dirompenti della Tabaccaia o tra le cosce della Volpina. Oppure, oltre la finzione cinematografica, ripassare i racconti dei nostri padri i quali confessavano di aver puntualmente «esordito» nei casini accompagnati dal babbo, senza che mamma ne sapesse nulla. Eppoi, deve pur esserci un motivo se a furor di popolo e di autorità locali (calviniste, parbleu!) madame Griselidis Real meglio nota come la più famosa prostituta del mondo, ha trovato sepoltura, a Ginevra, nel Cimitero del Re tra la tomba dello scrittore Borges e quella del pedagogo Piaget. Fabrizio De Andrè e la sua «bocca di rosa» insegnano che di Brigitta è pieno il nostro mondo dove, però, resistono impunite nefandezze ben peggiori.

Belen Rodriguez, il perizoma e il suocero: lo scandalo che non c’è, scrive Velvetgossip l'1 luglio 2017. Popolo bizzarro, quello italiano. Che continua a votare politici con le più svariate condanne sul groppone, che alimenta i social network a colpi di selfie sempre più hot, che accoglie con battute ironiche certe questioni che di divertente non hanno un bel niente, che assolve e idealizza personaggi appartenenti alla malavita e poi… E poi crocifigge Belen Rodriguez per un perizoma. Eh già. In vacanza a Positano con Stefano De Martino, il loro piccolo Santiago e la famiglia del giovane marito, in occasione di una gita in barca Belen ha fatto ciò che fa sempre: s’è messa un bikini ridotto ai minimi termini. Con perizoma. E s’è lasciata immortalare di spalle per poi pubblicare lo scatto su Facebook. Apriti cielo. Improvvisamente, l’opinione pubblica tricolore s’è riscoperta pudica, moralista e benpensante. Eh già, perché ha osato fare una cosa simile davanti al suocero… Come si è permessa? “Hai fatto bene a fare tutte le cose che hai fatto ma io avrei evitato, sapendo che sarebbe venuto anche mio suocero, a mettermi in perizoma. Anche per non farlo sentire in imbarazzo. Un conto è vederti sul giornale e un altro è vederti sculettare tutta la giornata”, “Ma con il sedere di fuori davanti al suocero? Che tipo”, “Stavolta ha davvero esagerato!”: i commenti di condanna si sprecano. Alimentano uno scandalo… Che non c’è. Eddai, su. Belen ha costruito il proprio successo sul proprio corpo, sulle provocazioni, sulle tempeste ormonali. Nel Bel Paese è diventata ricca e famosa per questo. Lei, dunque, è stata coerente. E scusate, ma davvero non crediamo che il suocero sia stato vittima dell’imbarazzo dinanzi a una simile scenetta. O forse si aspettava di vedere la caliente argentina con un castigato costume intero, con un pareo ben stretto in vita, con un caftano e la paglietta in testa?

Belen è Belen, nel bene e nel male. E tutto questo polverone alzato nelle ultime ore ci sembra decisamente ridicolo, scusate eh. Ma forse è vero che la reazione di certe persone deriva soltanto dall’invidia. Perché ‘sta donna è bella. Troppo bella. Talmente bella da sembrare poco umana, e non conta a questo punto quanto merito vada al chirurgo plastico e quanto a Madre Natura. Troppa bellezza dà così tanto fastidio?

Il perizoma fake di Maria Elena Boschi diventa un caso politico, scrive Alberto Sofia il 28/03/2014 su Giornalettismo. Ha fatto discutere più dell’approvazione al Senato della “sua” riforma delle province, tra polemiche incrociate e accuse di sessismo. Il fotomontaggio della ministra Maria Elena Boschi in perizoma, pubblicato da diversi quotidiani all’estero e diventato virale in rete nonostante fosse una bufala, ha scatenato la replica di dodici parlamentari democratiche: «Chi pensasse di indebolire Boschi e ciascuna di noi, impegnate a contribuire alla stagione di cambiamento avviata dal governo di Matteo Renzi con foto taroccate circolate sul web e finite persino sul quotidiano tedesco Bild, ha già perso la partita. L’ha già persa, perché lungi dall’indignarci, preferiamo farci una bella risata». Una reazione bacchettata dal Giornale, che ha definito le parlamentari dem come «finte moraliste», accusandole di essere «ossessionate dal sessismo»: «È sempre in agguato, ma non si batte con le prediche», ha replicato il Giornale, con un articolo firmato da Melissa P.

IL PERIZOMA FAKE DELLA BOSCHI E LE ACCUSE DEL GIORNALE AL PD – Il fotomontaggio che ritrae la ministra le Riforme e per i Rapporti con il Parlamento mentre, china a firmare l’incarico, lascia mostrare il perizoma, è rimbalzata anche all’estero, con diversi quotidiani che non si sono accorti di come si trattasse soltanto di una bufala. Come ha spiegato la versione francese dell’Huffington Post, la tedesca Bild, pur chiarendo ai propri lettori che si trattava di un falso, ha riportato nell’articolo frasi dal contenuto sessista. «Ci sono belle donne in Italia quest’anno c’è anche una ministra sexy, Maria Elena Boschi. È chiaro che gli gli uomini vogliano vedere un po’ di più», si legge sul quotidiano. Tanto da aver scatenato una replica da parte di diverse elette del Partito democratico. Con una nota sono state le senatrici Pd Laura Cantini, Isabella De Monte, Maria Teresa Bertuzzi, Nicoletta Favero, Valeria Fedeli, Nadia Ginetti, Manuela Granaiola, Stefania Pezzopane, Leana Pignedoli, Francesca Puglisi, Angelica Saggese a replicare: «Crediamo di essere sufficientemente ironiche da riuscire a divertirci con le parodie televisive, consapevoli di avere punti deboli, e anche, perchè no?, orgogliose di certi nostri lati positivi». Per poi aggiungere: «Chi pensasse di indebolire Boschi e noi con foto taroccate ha già perso la partita. Lungi dall’indignarci, preferiamo farci una bella risata», hanno spiegato. Una reazione condannata del Giornale, secondo cui le elette del Pd sono «cadute nei soliti luoghi comuni».

Il perizoma Pd e le finte moraliste. Le deputate dem condannano il fotomontaggio sul ministro Boschi. Cadendo nei soliti luoghi comuni, scrive Venerdì 28/03/2014, Il Giornale. Chi ha ritoccato la foto del ministro Boschi non sa che il perizoma è ormai fuori moda. Le colleghe di partito hanno ieri lanciato un comunicato sostenendo che certe battute, certe trivialità, riescono a strappar loro qualche risata, non certo a indignarle. E allora perché fare un comunicato? Vogliono forse coinvolgerci nelle loro pazze risate? Oppure fermare la pioggia di accuse di moralismo che da qualche tempo le investe? Se non sono indignate, dovrebbero spiegare perché un perizoma riesce a sollevare tanto polverone. Certo, il sessismo. Lo conosco bene. Ogni donna lo conosce, qualunque sia la sua posizione sociale, la sua età, il suo impegno. Il mostro si avventa su tutte, soprattutto quando all'intelligenza si unisce la bellezza. Sono due cose che, insieme, non possono essere sostenute da una società maschiocratica convinta che più è alto il livello di carriera di una donna, più incredibili sono state le performances erotiche. Se vivessimo in un Paese sessualmente libero, non sarebbe certo un problema essere considerata una donna vivace. D'altra parte un uomo molto attivo sessualmente non genera la stessa psicosi collettiva, anzi viene lodato, pubblicamente venerato. È un vecchio assioma, mi pare. Nulla di nuovo. Indossare un perizoma è così sconveniente? Ovviamente no. E allora perché gli uomini usano l'immagine come un'offesa e le donne la recepiscono come tale? Perché le regole sono antiche, usurate. Ognuno percepisce se stesso come contenitore di nobili virtù e non vuole essere contaminato dal sudiciume altrui. Ma questo ci fa tornare alla domanda di prima: indossare un perizoma è così sconveniente? Una donna che lo indossa è da considerarsi una poco di buono? Come dicevo, è un indumento ormai fuori moda ma estremamente democratico: dai ministri alle fornaie, tutte possono indossarlo. Forse sono troppo seria, me ne dispiaccio, ma mi chiedo cosa ci sia veramente da ridere. Alle scuole medie i maschi ridevano quando intravedevano le spalline del reggiseno delle femmine, oppure quando queste si abbassavano mostrando un lembo di mutanda oltre la cintura dei pantaloni. Quelli ridevano, volgari come una commedia di Natale. Ma eravamo ragazzi delle medie, eravamo tutti molto imbarazzati dai fatti del sesso e ci proteggevamo deridendo ciò che ci faceva paura. Quando i deputati del M5S hanno accusato le deputate Pd di essere al parlamento perché particolarmente capaci nel sesso orale, sono stata sorpresa tanto dalle accuse degli uni quanto dalle reazioni delle altre. Se i grillini avessero detto «Siete al Parlamento perché cucinate un ottimo fegato alla veneziana», nessuno si sarebbe offeso. Probabilmente le deputate di sarebbero risentite, perché trattasi di una bugia - per esempio nessuna di loro sa cucinare il fegato alla veneziana, ma sono tutte bravissime a fare i supplì. Perché quindi il sesso orale dovrebbe generare indignazione? Potevano semplicemente dire che quanto sostenuto fosse falso e che il sesso orale non rappresenta un problema per nessuno. Il nemico, si sa, si combatte così: facendogli notare che la pistola che ti ha puntato contro è una pistola ad acqua.

Le soldatesse in tanga imbarazzano Israele: le foto di Facebook, scrive il 4 giugno 2013 OGGI. Le pose sexy pose delle soldatesse israeliane imbarazzano l'esercito di Tel Aviv. Uno scherzo da caserma, è proprio il caso di dirlo. Solo che la reazione dei vertici dell’esercito di Tel Aviv non è stata molto ricca di sorrisi…Le soldatesse israeliane posano in tanga, ma armate. E postano le foto su Facebook. Provocando un mezzo terremoto nei vertici dell’esercito di Tel Aviv. Che risponde con imbarazzo e irritazione. Mentre il Paese si divide tra chi apprezza la “bravata” da caserma (è proprio il caso di dirlo) e chi si scandalizza per l’immagine del temibile esercito israeliano che viene data al mondo.

LE FOTO INCRIMINATE – Tutto nasce da una bravata da caserma. Una delle tante. Come, per esempio, quella fatta dai soldati di sua maestà la regina d’Inghilterra in solidarietà per il principino Harry e il suo festino hard di Las Vegas. Solo che questa volta sono soldatesse a provocare scalpore: alcune ragazze arruolate nel temibile tsahal, l’esercito israeliano, posano in caserma, vestite solo di tanga e delle loro armi. Le foto vengono poi postate su Facebook (GUARDA) e fanno il giro del mondo. Sollevando un polverone.

POSE SEXY – Gli scatti sono molti. Ce ne sono anche alcuni in cui le soldatesse indossano la divisa d’ordinanza. Ma con pantaloni abbassati e giacche slacciate. Immediata la reazione dei vertici dell’esercito, che annunciano punizioni esemplari. Dopo alcuni giorni di silenzio imbarazzato…

NEL SUD DEL PAESE – Secondo alcuni giornali israeliani, lo show piccante sarebbe andato in scena in una base nel Sud del Paese. Non è dato sapere di più. E c’è già qualcuno che parla di “Gaza strip”. Tra il divertito e lo scandalizzato. Già, perché l’opinione pubblica israeliana pare si sia divisa subito a metà. Tra chi sorride divertito alla bravata delle commilitone e chi si scandalizza per l’immagine poco professionale data dell’esercito di Tel Aviv in giro per il mondo. E non pensiate che nella prima categoria ci siano solo uomini e nella seconda solo donne…

Il dibattito è in mutande (o la libertà delle donne contro il femminismo moralista), scrive il 5 marzo 2012 Alessandra Di Pietro. Tornano di moda le culotte e dopo anni di dittatura del tanga (in declino vendite) il capo intimo, seppur sgambato rispetto all’originale degli anni cinquanta, pare così coprente che gli stilisti esortano: coraggio, usciteci. Sì, proprio nel senso di andarci in giro magari con un modello in tessuto rafforzato e non trasparente. Mi fido delle donne e sono sicura che la maggior parte saprà gestire l’invito dei creatori di moda con la dovuta cautela. Poi succederà – ne sono altrettanto sicura – che una quota di ragazze della più varia età anagrafica – prenderà alla lettera l’invito a far due passi in mutande senza porsi un problema di coscia, muscolo, scarpa, altezza né (figurarsi!) sobrietà. E io che sono della Bilancia soffrirò anche fisicamente per ogni violazione del mio sensibilissimo senso estetico. Eppure trovo sacrosante, utile e financo divertente che ci siano in giro donne così diverse da me e che mai vorrei ricondurre alla ragione (neanche estetica). Scrive la filosofa Valeria Ottonelli nel saggio “La libertà delle donne contro il moralismo femminista” (Il Melangolo, dal primo marzo in libreria: “Membri di tribù diverse tendono a dare sui nervi…Ma non ne farei una questione di libertà, di autonomia, di emancipazione o di politica…Si tratta di naturale antipatia tra tipi umani diversi…non è il botox che ci rovina (né le mutande a vista, mi permetto di aggiungere ndr) e che mai, ma veramente mai, il miglioramento della nostra posizione sociale, come individui, come donne può passare per la denigrazione, lo svilimento e la disumanizzazione di altri individui e altre donne”. Sto esagerando con questa citazione? Possono delle mutandine (non) indossate con poca grazia e/o nessuna ironia indurre a riflessioni filosofiche o a sdegnate posizioni politiche? Sì. Alla fine è stata proprio questa la risposta all’esibizione farfallina di Belen a Sanremo. Per un giorno intero, in rete, sui giornali e in tv, tra eccitazione, accuse, invettive, la discussione era: aveva o no le mutande, ma soprattutto ha offeso oppure no la dignità delle donne? Ormai lo sappiamo: indossava un G string, tanga minimale con l’anima in ferro che si tiene da solo senza strisce laterali. La showgirl conosce il suo pubblico e sapeva la reazione smodata che avrebbe provocato (per quanto il vero scandalo sarebbe stato la visione del pelo pubico ormai rimosso da ogni scena mediatica e in via di estinzione anche nel privato). Eppure non è certo la prima volta. La tv di stato e quella commerciale sono solite offrire siparietti con ragazze nude (e di preferenza mute) a qualunque ora e in qualunque contesto (anche tg). E però la visione pubica frontale di Belen, per quanto depilata al punto da sembrare finta, ha smosso le viscere collettive. E’ una reazione tipicamente italiana? No. Perché ogni volta che Paris Hilton, Britney Spears o anche Lady Gaga lasciano intravedere di non portare un minuscolo triangolino, le foto fanno il giro della Rete.

Riflette l’antropologa Cristina Balma-Tivola (videoculture.blogspot.com): “Nel racconto mitologico, quando la vecchia Baubo incontra Demetra disperata per la morte della figlia Persefone, si alza la gonna mostrandole i genitali, la dea inizia a ridere facendo tremare la terra che svelerà dove è Persefone e la riporterà in vita. La mostra dei genitali è (dovrebbe essere) un rivoluzionario segno di vita e non una esibizione mortifera povera di sessualità”. Belen e di Ivanka (pure lei adamitica ma Belen è sfacciata, dunque attrae più antipatia) hanno portato sul palco dell’Ariston quel glamour modelling (posare mezze nude per riviste di uomini senza sconfinare nel porno) che ispira lo stile dominante in molti media ma anche nelle discoteche, sul lungomare e persino in scuole e posti di lavoro.

In Bambole viventi (Ghena) la femminista e giornalista inglese Natasha Walter dedicate molte pagine alla tendenza glamour modeling e scrive: “Quando si parlava di empowerment non veniva in mente una ragazza in perizoma che si dimena intorno a un palo ma il tentativo delle donne di ottenere reale parità politica e economica”. Vero. Invece è successo che mostrarsi nude su riviste, canali televisivi o palchetti privati sia diventata una strada breve per arrivare al successo (per poche e effimero, o no?). Natasha Walter sostiene convinta che non vede nulla di potenzialmente nell’esibizione di nudità ma “nel contesto attuale in cui il valore del donne è così strettamente legato alla loro capacità di essere sessualmente attraenti certe scelte vengono celebrate e altre considerate marginali e questo ha un effetto determinante sul comportamento di donne e uomini”.

A Sanremo è stata celebrata (e condannata) Belen. E sono state celebrate (e ammirate) Geppi Cucciari, Emma, Noemi, Arisa, donne vincenti e carismatiche. “Chi è la più bella del reame?”. Non una, ma centomila. Per fortuna. Sui role model televisivi, Ottonelli dice: “E’ vero c’è una rappresentazione sistematica delle donne in ruoli subordinati, ma questo problema non va confuso con altre due facce delle nostra televisione: l’erotizzazione e il giovanilismo”. Tendenze scomode, devastanti, penose che riguardano uomini e donne, su cui tutti siamo chiamati ad interrogarci senza la necessità di un dito ammonitore. Aggiunge Ottonelli: “Forse pensare che il passaggio verso una società più giusta e eguale avvenga … in primis nel modo in cui la società vede le donne significa rinsaldare l’idea che la libertà femminile dipenda dagli occhi e dalla benevolenza degli altri … Le donne hanno bisogno di più libertà e di più potere, non di stima o apprezzamento da parte degli uomini stima da parte degli uomini”. E poi vale sempre la vecchia pratica yogica che se non reagisci fai perdere importanza a chi ti provoca. L’anno prossimo ci aspettiamo grandi discussioni su Sanremo condotto da Geppi Cucciari, o chi per lei, perché sia meno lungo e più ironico, meno predicatorio e meno antico, dove lo spacco sarà irrilevante, anzi inutile. E ognuna sarà libera di mettersi la culotte quando le pare.

IL FEMMINISMO TRA POLITICA, CULTURA E SCIENZA.

Pragna Patel: «Vi spiego perché il fascismo è una questione femminista». Razzismo e sessismo? «Sono interconnessi e vanno combattuti insieme». L’avanzata dell’estrema destra? «I movimenti delle donne devono contrastare ogni forma di potere reazionario». Parla la fondatrice di Southall Black Sisters, l’organizzazione inglese di femministe nere e asiatiche, scrive Natascia Ronchetti l'1 ottobre 2018. «I movimenti femminili che non riescono a riconoscere il razzismo e il fascismo come una questione femminista non possono essere definiti progressisti. Estrema destra, intolleranza, discriminazioni di genere si basano su una idea di disuguaglianza ed esclusione che toglie voce e diritti a uomini e donne. Nel nostro mondo globalizzato e interconnesso la comunità femminista deve trascendere ogni confine. Ora più che mai dobbiamo riconoscere che un femminismo inclusivo, intersettoriale e globale è cruciale per sconfiggere ogni forma di fascismo». Pragna Patel è la femminista inglese di origini indiane ai vertici di Southall Black Sisters, l’organizzazione di donne nere e asiatiche costituita nel 1979 a Londra. Movimento socialista, antirazzista, laico. Al quale si deve anche la storica sentenza con la quale la Corte d’Appello di Londra, l’anno scorso, ha condannato per discriminazione una scuola islamica di Birmingham che praticava una rigida separazione tra bambini e bambine (l’organizzazione si era costituita parte civile al processo). Considerata una delle attiviste e intellettuali più influenti del Regno Unito – già nel 2001 The Guardian l’aveva inserita nell’elenco delle 100 donne più importanti del Paese -, Patel il 26 ottobre sarà ospite a Forlì di 900Festival, la rassegna culturale promossa dalla Fondazione Alfred Lewin che quest’anno indaga sulla natura del razzismo e della xenofobia.

Signora Patel, lei considera il razzismo e le discriminazioni di genere le due facce della stessa medaglia. Perché?

Parliamo di forme di discriminazione che cercano entrambe di schiacciare verso uno status inferiore uomini e donne, per un fattore di razza o di genere. E’ un grave errore presumere che l’una sia più importante dell’altra: commetterlo significa lasciare incompiute tante battaglie per l’uguaglianza. Dobbiamo inquadrare politiche antirazziste che tengano conto delle disuguaglianze di genere e politiche femministe che tengano conto del razzismo. Questo è il vero significato del termine intersezionalità (coniato per la prima volta dalla femminista e studiosa americana Kimberlè Crenshow, ndr). Non deve esistere una gerarchia. Intolleranza razziale e sessismo sono interconnessi e sovrapposti e dobbiamo contrastarli simultaneamente. Soprattutto oggi, in una Europa dove razzismo e fascismo sono in marcia, con il cedimento alla retorica e alla violenza populista contro l'immigrazione. 

La sinistra ha quasi sempre affrontato separatamente queste due questioni…

Purtroppo si. La cosa triste è che anche molti cosiddetti movimenti progressisti antirazzisti e femministi stanno facendo lo stesso errore. Se non riconosciamo o rendiamo espliciti i collegamenti tra i diversi sistemi di potere e oppressione non saremo in grado di far avanzare la lotta per l'uguaglianza e la giustizia sociale poiché gran parte delle azioni di discriminazione rimarrà invisibile o peggiorerà. L’oppressione si palesa attraverso una pluralità di fattori.

Quindi il femminismo deve essere coinvolto nella lotta contro l’avanzata dei partiti populisti e razzisti? 

Femminismo e politiche antirazziste falliranno se non affronteranno questi temi contemporaneamente. Poiché tutto ciò che riusciranno a fare sarà rinforzare piuttosto che trasformare relazioni sbilanciate di potere derivanti dallo sfruttamento e dall'oppressione. L'ascesa di partiti populisti, ultra nazionalisti e razzisti, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, è preoccupante. Ma la domanda che si devono porre adesso le femministe è questa: possiamo raggiungere la nostra libertà se gli altri non sono liberi? La mia risposta è che il femminismo deve inglobare tutto, deve estendere la solidarietà a tutti gli uomini e le donne che resistono a varie forme di vessazione e prevaricazione in una varietà di contesti diversi.

Lei ritiene che il fascismo abbia più facce…

Sì. Stiamo entrando in una nuova era, non solo in Europa: assistiamo a una normalizzazione di pulsioni reazionarie frammentate. Il femminismo deve cimentarsi con questo fenomeno. Ma naturalmente sarebbe un errore grossolano pensare che basti semplicemente una maggiore presenza femminile nei posti di potere.

Perché?

Storicamente c'è sempre stata una partecipazione attiva delle donne ai movimenti e ai partiti della destra. Ed esponenti di spicco come Marine Le Pen possono diventare miti pericolosi. La realtà è che anche il femminismo può avere un volto fascista. Le donne che sostengono l’estrema destra sono attratte dai valori della tradizione, della lealtà e del patriottismo. Ma attenzione, perché la partecipazione delle donne a tali movimenti conferisce al fascismo un volto femminista accettabile che maschera una politica estremamente patriarcale, razzista e antidemocratica.

Lei è convinta che anche il fondamentalismo religioso sia una forma di fascismo…

Il fondamentalismo e il fascismo sono ideologie e movimenti autoritari che traggono profitto dalla disaffezione e dallo scontento per ottenere o consolidare potere su persone e risorse. I sostenitori dei movimenti di estrema destra denunciano il multiculturalismo, gli immigrati e i musulmani, mentre i fanatici fondamentalisti denunciano i cosiddetti valori occidentali, il femminismo, le minoranze religiose e coloro che non aderiscono alla loro visione del mondo. Entrambi respingono la modernità. Ma entrambi utilizzano tecnologie molto moderne. Ed entrambi cercano un ritorno a un passato, religioso o nazionalista, basato sulla percezione di una crisi di moralità. Negano la nostra comune umanità e i valori della diversità, del pluralismo, della solidarietà, della compassione e della libertà individuale.

Cosa dovrebbe fare l’Europa per fermare l’ondata di estrema destra?

Le forze progressiste femministe, antirazziste e socialiste devono incontrarsi. Dobbiamo impegnarci per una Europa saldamente democratica e laica. La secolarizzazione è una condizione essenziale per affermare la democrazia, anche se da sola non basta a sostenerla. E la sua difesa deve andare di pari passo con la promozione dei valori dei diritti umani e con una forte sfida al razzismo, specialmente contro i migranti, a cui gran parte dell'Europa ha vergognosamente voltato le spalle. Questo compito è ora più urgente che mai. Lo dobbiamo alle generazioni prima di noi che hanno sacrificato le loro vite per l’uguaglianza e la libertà.

Il femminismo, concretamente, che contributo può dare? 

Deve costruire una politica di solidarietà per contrastare le forze reazionarie. E deve formare alleanze abbattendo ogni divisione di genere, di classe, di religione o di razza. Ciò significa adottare un'analisi intersezionale e una pratica politica che includa tutti. I tempi sono difficili, ma non vedo alternative.

La vecchia sinistra si arrende alla nuova cultura di destra, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". I l dibattito sulla cultura di destra e la cultura di sinistra è un «classico» che verrebbe voglia di liquidare con le parole della dissacrante canzone di Giorgio Gaber, Destra-Sinistra. Ma la discussione qui non è teorica. È la cronaca che spinge a occuparsi del tema. Partiamo dalla Francia. A Parigi sono avanti di un decennio o forse di un ventennio sulle risposte culturali alle sfide dell'immigrazione di massa e alle censure del politicamente corretto. Ormai da tempo la stampa scrive dei neo-reazionari, etichetta inizialmente dispregiativa e oggi puramente descrittiva della realtà. Sui giornali delle scorso weekend si potevano leggere i seguenti articoli. Le Monde, quotidiano della sinistra: tre pagine sul pericolo di una egemonia della destra culturale e sulle malefatte (si fa per dire) di Éric Zemmour, fresco autore di Destin français e in passato bestsellerista «sovranista» a sorpresa. Zemmour si merita due pagine di stroncatura, due pagine di catenaccio culturale: Zemmour sbaglia nel credere che esista una identità francese, Zemmour sbaglia nell'interpretare la storia, Zemmour parla di un Paese immaginario. Zemmour, Zemmour, Zemmour: si capisce che tutto gira intorno alle tesi di Zemmour e che le critiche si limitano a buttare il pallone in tribuna perché non offrono letture alternative. Le Figaro, quotidiano della destra: intervista all'esperto di geografia umana Christophe Guilluy che spara a palle incatenate, da sinistra, sulla cecità dei partiti tradizionali (ma anche di Macron) davanti al cosiddetto populismo. Nel suo libro in uscita No Society. La fin de la classe moyenne occidentale nota come la classe media sia un pollo da spennare per i partiti «borghesi», che si concentrano sulle aree metropolitane e cosmopolite. In provincia la disoccupazione morde, i burocrati di basso rango sono economicamente nei guai. Sul Magazine del giornale francese campeggia in copertina François-Xavier Bellamy, 32 anni, indicato come «il filosofo che sta rinnovando il pensiero della destra». Candidato (perdente) dei Repubblicani, Bellamy è famoso soprattutto per il saggio I diseredati ovvero l'urgenza di trasmettere (Itaca edizioni, 2016). L'educazione è il problema dei problemi, soprattutto perché una generazione ha rinunciato a trasmettere la sua esperienza, creando una legione di figli diseredati e facile preda del pensiero unico o del nichilismo. In Italia si aprono vistose crepe nel muro del conformismo. Micromega, rivista della sinistra giacobina, licenzia un numero intitolato Contro il politicamente corretto. Una serie di bordate che abbattono i luoghi comuni sinistrorsi su linguaggio, immigrazione e multiculturalismo. I luoghi comuni ai quali il Partito democratico sembra di non poter rinunciare e sui quali ha costruito un devastante flop elettorale. Il direttore Paolo Flores D'Arcais rivendica di aver criticato questo pensiero asfissiante da trent'anni. È vero e il volume ne fornisce le prove. Ma un fuoco così serrato (236 pagine) non si era mai visto. Una redattrice di Micromega, Cinzia Sciuto, ha pubblicato di recente Non c'è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo per un editore, Feltrinelli, che in passato ha pubblicato i classici di Jürgen Habermas e Charles Taylor proprio in favore del multiculturalismo. Einaudi, altra casa editrice attenta a non superare mai i limiti imposti dal politicamente corretto, porta in libreria Fuga in Europa di Stephen Smith, un saggio che non nasconde le difficoltà epocali poste dall'immigrazione e si spinge fino a dire ciò che la destra dice da sempre: la politica delle porte spalancate porterà non solo a problemi d'identità per gli europei ma anche all'esplosione del Welfare. Fra trent'anni il Vecchio continente avrà dai 150 ai 200 milioni di europei-africani. Oggi sono 9... Diego Fusaro è un filosofo gramsciano ma piace assai alla destra (anzi, piace soltanto alla destra) perché sostiene tesi conservatrici ma da sinistra. I suoi bersagli sono il capitalismo, la finanza, la globalizzazione, la sinistra che ha tradito i lavoratori per difendere diritti inesistenti o discutibili. Fusaro ha appena pubblicato Il nuovo ordine erotico. Elogio dell'amore e della famiglia (Rizzoli). Tesi: il laissez faire liberista in economia equivale al laissez faire in campo sessuale, dove trionfano l'indistinto e l'unisex. La sensazione complessiva? La sinistra è moribonda, in tutti i sensi, culturale e politico. Nel frattempo, sabato 13 ottobre al Centro congressi Cavour di Roma, si terranno gli Stati generali della cultura di destra, evento organizzato dall'associazione Nazione Futura. Sono attesi tutti i think tank dell'enorme area culturale della destra, con tutte le sue differenze e sfumature. Una nuova generazione avanza e non ha complessi di inferiorità ma proposte per uscire dal pantano.

Il pensatore più "attuale" tra filosofi antimoderni, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". Scrittura equilibratissima, contenuti destabilizzanti. Leggete i suoi aforismi, perfidi in re e sublimi in modo, e poi ne riparliamo. Ogni tanto capita di riparlare - e per fortuna, è una festa - di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), scrittore colombiano e moralista universale, il più fresco degli antimoderni, il più avanti degli antiprogressisti. Filosofo cresciuto con l'idea che «la cultura è tutto ciò che non può insegnare l'università», si formò da autodidatta e raccolse nella biblioteca della sua casa a Bogotà più di 30mila volumi. E scrivendo, di fatto, soltanto «note a margine» (escolios, notas e anche textos) costruì una delle armi più micidiali del '900 contro la stupidità del mondo moderno. Definirlo reazionario è riduttivo, ma serve ad avvicinarsi al concetto. «Il reazionario non è il sognatore nostalgico di passati conclusi, ma il cacciatore di ombre sacre sulle colline eterne», disse. Del resto solo un catalogo come Adelphi, così tradizionalista (conservatore? gnostico? una «centrale reazionaria del pensiero», come lo definivano le Brigate Rosse?), poteva tenere editorialmente a battesimo in Italia un antimoderno come Nicolás Gómez Dávila. La casa editrice di Roberto Calasso nel 2001 e poi nel 2007 pubblicò, a cura di Franco Volpi, due brevi antologie (il corpus degli Escolios è ampio cinque volumi) delle provocatorie sentenze del pensatore nascosto nelle profondità dell'America latina. Poco altro uscì dalle edizioni di Ar (siamo in zona ultra destra), e nel 2016 due volumi di Notas sono apparsi dalle edizioni del Circolo Proudhon. Poi è arrivata la casa editrice Gog di Lorenzo Vitelli che ha pensato l'impensabile: pubblicare il corpus completo degli Escolios, un volume ogni sei mesi, per cinque volumi totali, ed ecco a voi l'edizione integrale del monumento filosofico di Nicolás Gómez Dávila. A dicembre scorso uscì il primo volume di Escolios a un texto implícito, ora arriva il secondo (Gog, pagg. 250, euro 15; in libreria da domani). Intanto, qui a margine, anticipiamo un pugno delle centinaia di aforismi inediti dell'apocalittico colombiano. Un pensatore che aveva una visione così estremamente elitaria dell'uomo (fra disciplina e gerarchia) da essere legittimamente annoverato tra i grandi dissacratori della filosofia contemporanea, accanto a Nietzsche e Cioran. Non a caso, due capisaldi editoriali di Adelphi.

"L'impegno civile? Roba da prostitute". Esce il secondo volume degli "Escolios" del grande reazionario Nicolás Gómez Dávila, scrive martedì 02/10/2018 "Il Giornale". 

«La più ominosa delle perversioni moderne è la vergogna di sembrare ingenui se non si civetta col male».

«Oggi l'anziano è tanto inutile come un animale vecchio. Dove non c'è un'anima che gli anni forse nobilitano, rimane solo un corpo fatalmente degradato».

«La castità, passata la gioventù, più che dell'etica fa parte del buon gusto».

«Non ho nostalgia di una natura vergine, una natura priva dell'impronta contadina che la nobilita e del palazzo che corona la collina. Però ho nostalgia di una natura salva da industrialismi plebei e manomissioni irriverenti».

«I problemi del Paese sottosviluppato sono il pretesto favorito dell'escapismo di sinistra. Carente di nuova mercanzia da offrire presso il mercato europeo, l'intellettuale di sinistra svende nel Terzo mondo i propri capi scoloriti».

«La scienza non può fare altro che l'inventario della nostra prigione».

«L'importanza di un avvenimento è inversamente proporzionale allo spazio che gli dedicano i giornali».

«Oggi non è possibile rispettare i cristiani. Per rispetto verso il cristianesimo».

«Il rispetto verso tutte le religioni è irreligioso. Chi è credente non riverisce gli idoli».

«La frustrazione è il carattere psicologico distintivo della società democratica. Dove tutti possono aspirare lecitamente alla cuspide, la piramide intera è un'accumulazione di frustrati».

«Così tanti pubblici diversi esistono oggi che qualsiasi libro, per quanto mediocre, trova illetterati da sedurre».

«Quando il grande pubblico si appassiona alle arti, l'espressione estetica si semplifica in puro impatto».

«Essere utile alla società è un'ambizione, o una scusa, da prostituta».

«Ragione, Progresso e Giustizia sono le tre virtù teologali dell'imbecille».

«Quando ci danno ragione dobbiamo tremare. Vuol dire che coincidiamo coi pregiudizi dell'uditorio».

«Essere moderni significa vedere freddamente la morte altrui e non pensare mai alla propria».

«L'etica autentica è l'arte di violare le norme con tatto».

«Più grave della morte delle arti è che una volta morte non vogliano tacere. Borborigmi di carogne».

«La percentuale di elettori che si astengono dal voto misura il grado di libertà concreta in una democrazia. Dove la libertà è fittizia o dove è minacciata, la percentuale tende a zero».

«Nelle società dove la carica sociale costituisce meramente un incarico transitorio invece di aderire alla persona, l'invidia si scatena. La carrière ouverte aux talents è l'ippodromo dell'invidia».

«La natura umana è una categoria assiologica. L'uomo è un obbligo che l'uomo suole trasgredire».

«Chi si confessa in pubblico non cerca assoluzione, ma approvazione».

«Per ammettere la grandezza di un personaggio è necessario bruciare prima la sua fotografia. L'eroe può essere rappresentato solo dall'immaginazione, nel marmo o nel mito».

«La pletora di leggi è indizio del fatto che nessuno sa più comandare con intelligenza. O del fatto che nessuno sa più obbedire con libertà».

«Caos, Gaia, Eros. Le cosmogonie scientifiche si sono dovute accontentare semplicemente di dare nomi meno pittoreschi alla trinità di Esiodo».

«Se gli uomini nascessero uguali, inventerebbero la disuguaglianza per ammazzare la noia».

«I due problemi cardinali del mondo attuale, espansione demografica e deterioramento genetico, sono oggi insolubili. I principi liberali vietano la soluzione del primo e i principi egualitari la soluzione del secondo».

«Non c'è alba più desolata di quella di un'utopia».

«Educare un giovane non consiste in familiarizzarlo con la sua epoca, ma fare in modo che la ignori il maggior tempo possibile».

«Lo specialista non sa che cosa sa».

«Il pubblico ha il misterioso potere di convertire in errore la verità che applaude».

«Il prurito d'originalità è un'affezione dovuta alla mancanza di talento».

«Dei diritti dell'uomo il liberalismo moderno ormai non difende che il diritto al consumo».

«La letteratura è diventata una gesticolazione da naufrago quando dovrebbe essere una descrizione del naufragio».

«Sociale è l'aggettivo che serve da pretesto per qualunque truffa».

«Esiste un analfabetismo dell'anima che nessun diploma può curare».

«Ormai non ci sono scrittori. Sopravvivono soltanto scribi. Amanuensi di muse defunte».

«Tutto è voluminoso in questo secolo. Niente è monumentale».

«Dobbiamo deplorare meno l'oscenità del romanziere attuale che la sua sventura. Quando l'uomo diventa insignificante, copulare e defecare diventano attività significative». 

"Uomini più bravi ma discriminati". Bufera sulla frase del fisico italiano, il Cern si scusa. Il professor Alessandro Strumia durante una presentazione nel 2013. Alessandro Strumia, professore dell'Università di Pisa, ha tenuto un intervento a un convegno su scienza e discriminazione di genere a Ginevra. Secondo il suo studio, gli uomini sono più bravi e penalizzati nello studio, nella ricerca e nelle assunzioni, scrive l'1 ottobre 2018 "La Repubblica". "LA FISICA è stata inventata dagli uomini, e non è su invito", è una delle frasi con le quali il professor Alessandro Strumia, ha "arricchito" il suo intervento durante un convegno su "Fisica e parità di genere" organizzato dal Cern e tenutosi a Ginevra dal 26 al 28 settembre. Per arrivare, mostrando statistiche di pubblicazioni, citazioni e comparandoli con le assunzioni, a dire che nell'ambito della ricerca in Fisica non esiste discriminazione legata al genere. Una "lezione", quella tenuta da Strumia, che ha sorpreso e infastidito lo stesso Cern. Tanto che il centro di studio che ospita l'acceleratore di particelle ha diffuso un comunicato in cui prende le distanze dalle affermazioni del fisico italiano. "Il Cern considera la presentazione di un invitato (senza farne il nome ndr) durante un workshop su Teoria delle alte energie e gender, come altamente offensiva - si legge sulla pagina web - E ha quindi deciso di rimuovere le slide dal proprio sito, coerentemente con un Codice di condotta che non tollera attacchi personali e insulti". Il Cern ha visto la trattazione del tema dunque come un insulto, durante un evento, inoltre, che riguardava il ruolo delle donne in ambito scientifico e vedeva proprio molte giovani ricercatrici in platea. Una di loro, Jess Wade, si è lasciata andare a un lungo sfogo su Twitter dopo aver assistito all'intervento di Strumia che ha definito, sprezzatamente, un "Damore-esque manifesto", cioè una tesi dal sapore discriminatorio. James Damore è infatti l'ingegnere di Google cacciato per aver preso posizione contro la politica di Big G che favorisce le assunzioni di donne. Vissuta, quindi, come una discriminazione al contrario.

Il complotto. E questa è anche la "teoria" sostenuta da Strumia, che non era tra i relatori ma è stato invitato a presentare i suoi risultati. Lo ha fatto, proiettando slide condite di numeri e formule per dimostrare che nella Fisica non c'è discriminazione che colpisca le donne e che, anzi, sono gli uomini a essere penalizzati. L'Università di Oxford che "allunga i tempi degli esami per le donne", in Italia porta ad esempio il decreto per favorire l'iscrizione delle donne alle facoltà STEM (acronimo inglese per scienze, tecnologia, ingegneria, matematica), per arrivare in Australia con le "quote rosa" nella scienza. Strumia, fisico dell'Università di Pisa che collabora col Cern, cita diversi studi, uno riguarda la presunta predisposizione delle donne a lavorare con le persone diversamente dagli uomini che preferiscono lavorare con le cose, differenze che si fisserebbero anche prima della nascita a causa dei livelli di testosterone. Il quadro che emerge dalle curve dei suoi grafici (le slide sono ancora consultabili a questo link) è che sono proprio gli uomini a essere discriminati, anche quando sono più bravi. La conclusione strizza l'occhio al facile complottismo: "La Fisica non è sessista nei confronti delle donne. Tuttavia la verità non conta, perché è parte di una battaglia politica che viene da fuori. Non è chiaro chi vincerà. Alle sue affermazioni il Cern ha risposto con grande durezza: "Gli organizzatori del Cern e le diverse università che hanno collaborato non erano a conoscenza del contenuto dell'intervento prima del workshop. Il Cern appoggia i molti membri della comunità che hanno espresso la loro indignazione per le inaccettabili affermazioni contenute nella presentazione". In serata Strumia ha spiegato, parlando all'Agi: "Non ho mai fatto discorsi sessisti o discriminato le donne, ho semplicemente presentato una serie di dati, elaborati da ricerche degli ultimi anni, che dimostrano che nella fisica non c'è discriminazione delle donne, nonostante in tante al seminario al Cern abbiano voluto sostenere il contrario". Anzi, secondo il professore "i numeri oggettivi dimostrano che a livello di assunzioni si richiede agli uomini parametri più elevati rispetto alle donne". Ciò che critica Strumia è "quella cultura politica, spesso non sostenuta dalle donne, che vuole sostituire la competenza e il merito con una ideologia della parità". Il fisico pisano, che oggi ha ricevuto tante telefonate "anche da colleghe che lo sostengono" è convinto che "le persone con il confronto capiranno, anche se molte sono chiuse in un errato istinto di autoconservazione". Non commenta, per contratto, la decisione del Cern di sospenderlo ma riconosce "la massima stima" per la direttrice, anche lei italiana, Fabiola Gianotti, la prima donna a guidare il Centro in cui, tra l'altro, vengono condotte le ricerche sul Bosone di Higgs. Lei si era detta "scioccata" dalle parole di Strumia. Intanto l''Istituto Nazionale di Fisica nucleare (Infn) sta valutando se adottare provvedimenti contro Strumia. "Non condivido nulla di quello che ha detto - commenta Fernando Ferroni, presidente dell'Infn - e tra l'altro offende anche una commissione di concorso del nostro istituto". Strumia infatti, per dimostrare come nel mondo della fisica vadano avanti le donne, anche se con meno meriti degli uomini, aveva portato ad esempio il fatto di non essere stato selezionato dall'Infn per una posizione per cui erano state scelte due ricercatrici con meno citazioni di lui. La vicenda, prosegue Ferroni, è stata sottoposta "al nostro collegio di disciplina e ai nostri controllori del codice etico. Una volta che ci daranno la loro valutazione - conclude - prenderemo dei provvedimenti nei riguardi di Strumia, che non è un nostro dipendente ma collabora con noi, e trasmetteremo le nostre considerazioni all'università di Pisa".

Fisica e sessismo, la posizione di Strumia non è nuova. Alle donne le scienze dure sono negate, scrive il 2 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Iside Gjergji, Sociologa e giurista. L’ultimo comunicato del Cern (l’organizzazione europea per la ricerca nucleare), non è uno di quelli che annuncia una scoperta scientifica; è una domanda di scuse agli utenti della rete per aver pubblicato (e in seguito cancellato) le slide presentate dal professor Alessandro Strumia, dell’Università di Pisa, al workshop dal titolo “Fisica delle alte energie e genere”. Le suddette slide, afferma il Cern, attualmente diretto da Fabiola Gianotti, sono “altamente offensive” nei confronti delle donne. Che cosa dicevano le slide del professor Strumia? Contenevano essenzialmente dati e grafici che dimostrerebbero, in breve, come la fisica sia un affare per uomini (“la fisica è stata inventata e costruita da uomini, non si entra su invito”) e che, dunque, la minore presenza di donne nel settore della fisica dipenda dalle attitudini peculiari dei generi: “gli uomini preferiscono lavorare con le cose e le donne con le persone”. Intervistato dalla BBC, il professore ha rincarato la dose affermando: “Si dice che la fisica sia sessista e razzista. Ho fatto alcuni semplici controlli e ho scoperto che non lo è, che sta diventando sessista contro gli uomini e l’ho detto”. La posizione del professor Strumia non è nuova, non sorprende, – nonostante egli abbia cercato di far apparire il suo intervento come anti-mainstream –, anzi, si può dire che sia allineata a quella di tanti altri uomini, scienziati compresi, i quali ritengono le donne inadatte alle scienze dure. Il premio Nobel per la medicina, Tim Hunt, per esempio, non più di 3 anni fa, affermò, in un convegno nella Corea del Sud, che “il problema con le donne in laboratorio è che si mettono a piangere appena le si critica”. Abbiamo da poco scoperto che l’Università di Tokyo falsificava i test di medicina per non far entrare le donne all’università, fatto questo accaduto anche in altre università negli Stati Uniti e nel resto del mondo. L’elenco di nomi e istituzioni sarebbe lunghissimo e, sinceramente, anche noioso, perciò preferisco riportare di seguito i dati di alcune importanti ricerche sociali effettuate nel corso degli ultimi decenni, al fine di rendere più facile la comprensione delle ragioni che hanno allontanato le donne dalla fisica. Partiamo da alcuni dati semplici. La prima ricerca da prendere in considerazione è senz’altro quella di Anne Megaw (1992), essendo stata la prima a raccogliere dati sulla percentuale di studentesse e accademiche in oltre 400 dipartimenti di fisica in tutto il mondo. Le sue statistiche hanno dimostrato che il numero di professoresse (universitarie) di fisica in tutto il mondo era compreso tra il 5 e il 30%. Alcuni dei paesi industriali – come il Giappone, il Canada, la Germania e la Norvegia – avevano il record del minore numero di fisiche. Esistono enormi differenze anche in Europa. Le statistiche dell’Unione Europea, risalenti ad alcuni anni fa, mostrano che la percentuale di donne laureate in fisica nei diversi paesi europei varia dal 25% in Austria, Germania e Svizzera al 45% in Italia, Portogallo e Spagna (Commissione Europea, 2006). Inoltre, le statistiche a livello nazionale rivelano che la percentuale di fisiche impiegate nell’industria, nell’università o in istituti di ricerca varia da regione a regione. I dati, quindi, confermano che le donne che studiano e lavorano nel campo della fisica sono pochissime. Le ragioni, come dimostrano innumerevoli studi, sono di carattere economico, sociale e culturale. Gli studi biografici e storici, per esempio, ci dicono come molte brillanti fisiche, siano state impiegate per lunghi anni in ruoli minori e subalterni ai loro colleghi maschi: la premio Nobel del 1963, Maria Goeppert Meyer, per fare un nome qualsiasi, tra la sua tesi di dottorato in Germania, nel 1930, e la sua nomina a professore ordinario all’Università della California, nel 1960, ha lavorato (per 30 anni) come “volontaria” mal retribuita in fisica nucleare e, paradossalmente, è durante questo periodo che ha sviluppato il suo “modello di conchiglia atomico”. Gli studi biografici, però, nonostante abbiano il merito di riportare in luce molti dettagli del contesto sociale e lavorativo delle donne scienziate, hanno il difetto di focalizzarsi su pochissimi esempi. Non ci parlano dei grandi numeri. Altri studiosi sociali hanno dato un importante contributo nella comprensione di alcuni importanti meccanismi. L’antropologa tedesca Agnes Senganata Münst (2009), ad esempio, ha analizzato l’impatto del genere nelle interazioni insegnante-studente presso una università tecnica in Germania. Utilizzando il metodo dell’osservazione partecipante, Münst ha esaminato diverse situazioni nei corsi per fisici e ingegneri, mostrando in dettaglio come piccole iniquità, seppur realizzate in un contesto di uguaglianza formale, aprano la strada a immense diseguaglianze e differenze tra studentesse e studenti di fisica. Gli studi sui media che hanno analizzato l’immagine delle fisiche nella società dimostrano come molte riviste, anche le più progressiste, non riescano ad offrire una decente descrizione del loro lavoro perché non riescono a immaginare le scienziate come ricercatrici di successo e, contemporaneamente, come donne piacenti. Hans Pettersson, del resto, l’importante fisico svedese, ha descritto la fisica come un’attività religiosa svolta all’interno di un club di sacerdoti in tutto il mondo e ha dimostrato che la cultura sacerdotale è predominante nella fisica contemporanea, ritenendo questa atmosfera una potente barriera di genere per le donne. Tonnellate di altre ricerche dimostrano il ruolo subalterno delle donne nel mercato del lavoro e nella produzione (a causa della diseguale divisione del lavoro), a conferma del carattere androcentrico del capitalismo e delle sue università. Pensare le donne soltanto come capaci di lavorare con le persone (sottinteso: prendersi cura dei maschi, fisici compresi) è roba vecchia, puzza di muffa, preistorica. Strumia non fa che ricordarci che la lotta contro il sessismo e le discriminazioni di genere, di classe e di razza è soltanto agli inizi.

"La fisica non è per donne". Prof sospeso per un'opinione. L'italiano Strumia accusato di «sessismo» dal Cern con cui collabora. «Dichiarazioni inaccettabili», scrive Valeria Braghieri, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". Essì che i fisici dovrebbero avere dimestichezza con la «reazione». E anche col fatto che non tutto ne merita una. Come, a nostro avviso, l'intervento di Alessandro Strumia (fisico dell'Università di Pisa e collaboratore del Cern di Ginevra), alla conferenza sulla discriminazione ai danni delle donne nella sua materia e, più in generale, nell'area Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Secondo il professore, «se le donne sono sottorappresentate, è semplicemente perché sono meno brave. E se sono meno brave, questo dipende dal fatto che uomini e donne sono diversi alla nascita, prima ancora che la società possa esercitare la sua influenza». Strumia ha anche usato formule matematiche per dimostrare che gli uomini si interessano di più alle cose e le donne alle persone, per questo, secondo il professore, i primi sono più rappresentati nelle professioni scientifiche e le seconde in quelle umanistiche «dove il confine vero-falso, giusto-sbagliato è più sfumato». Più o meno la stessa tesi sostenuta nel 2005 dall'allora presidente di Harvard, Lawrence Summers, che si dimise dopo aver affermato che «le donne hanno minore successo nelle carriere scientifiche per differenze innate legate al sesso, non per discriminazioni ai loro danni». L'intervento di Strumia ha suscitato talmente tanta indignazione da parte della comunità scientifica e non solo, che il Cern, che peraltro dal 2016 ha come presidente generale una donna, Fabiola Gianotti, ha tolto l'elaborato, sospeso il professore e pubblicato un intervento di scuse per gli «attacchi personali» e gli «insulti». Ma davvero, sottolineare le differenze tra uomo e donna è un insulto per le donne? E davvero è un insulto talmente offensivo da non poter essere espresso, pena la sospensione dalle proprie mansioni? A noi sembra che ormai si parta per guerre lampo, rispondendo con l'atomica a conflitti regionali. Non perché il tema della discriminazione di genere sia marginale, ma perché appunto, il problema sta nella «reazione». Il professore sospeso perché ha espresso una sua opinione, per quanto discutibile o antipatica o addirittura infrequentabile, secondo alcuni, rappresenta comunque un eccesso di «reazione». E se a tutto si reagisce a volume alto, allora alla fine non saremo più in grado di sentire nulla, figuriamoci di ascoltare. È così che si rende tutto banale, che si toglie valore a tutto: smettendo di dare il giusto peso a ogni cosa.

LE DONNE (DI IERI E DI OGGI) PIÙ IMPORTANTI E BELLE DELLA POLITICA ITALIANA.

Le otto donne (di ieri e di oggi) più importanti della politica italiana. Scrive Marco Todarello su focusjunior.it il 20 luglio 2016. Fonti: Enciclopedia Treccani e Corriere della Sera. Lo sapevi che solo 70 anni fa, nel 1946, le donne non potevano votare? Fu proprio quell'anno, che votarono per la prima volta. Purtroppo, in tema di diritti delle donne, rispetto ad altri paesi l’Italia era molto indietro, e questo è un esempio significativo. Anche per questo in politica le donne italiane hanno sempre fatto un po’ fatica a farsi strada. Ne abbiamo però selezionate otto che hanno lasciato il segno. Quali sono le donne più importanti della politica italiana? Abbiamo selezionato le più famose, quelle che hanno lasciato il segno.

Le otto donne (di ieri e di oggi) più importanti della politica italiana: 

1. Nilde Iotti (1920-1999). È stata forse la più importante donna della politica italiana. Dopo la laurea in lettere divenne insegnante, ma ben presto lasciò la professione per dedicarsi alla politica. Prese parte alla Resistenza contro il fascismo e fu molto attiva in varie battaglie per il riconoscimento dei diritti delle donne, fino a diventare presidente dell’Unione Donne Italiane. Nel 1946 entrò nella Commissione dei 75 della Camera dei deputati, il gruppo incaricato della scrittura dei testi della Costituzione. Dal 1948 al 1999 fu deputato alla Camera, e nel 1979 divenne la prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera e vi rimase per ben tre legislature, dal 1979 al 1992.È stata il simbolo di una generazione di donne in lotta per l’emancipazione e per la rappresentanza femminile in politica, allora dominata esclusivamente da uomini. 

2. Tina Anselmi (1927-2016). Anche lei lasciò il suo posto da insegnante di scuola elementare per dedicarsi interamente alla politica, nelle fila della Democrazia Cristiana. La sua vita, però, era cambiata per sempre già molti anni prima: a 17 anni, mentre era a scuola, i nazifascisti costrinsero lei e i suoi compagni a vedere l’impiccagione di 30 prigionieri e così decise di prendere parte alla Resistenza per combattere il fascismo. È stata deputata DC dal 1968 al 1992 e nel 1976 è diventata la prima donna ministro (del Lavoro) della storia della Repubblica. È stata anche due volte ministro della Sanità. Come politica si è occupata soprattutto dei problemi delle donne: è sua la legge sulle pari opportunità, che è servita per avvicinare le donne alla parità di diritti nel mondo del lavoro. 

3. Lina Merlin (1887-1979). È stata partigiana, attivista antifascista, sostenitrice dei diritti delle donne e anche prima senatrice italiana. Si laureò in letteratura francese ed è poi diventata maestra. Fondò i Gruppi per la difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà, che coinvolsero circa 60mila donne e che divennero l’Unione Donne Italiane. Ha partecipato ai lavori per la scrittura della Costituzione: fu lei a chiedere di introdurre all’articolo 3 la frase «senza distinzione di sesso». L’impegno politico di Lina Merlin ha portato all’abolizione della prostituzione, l’eliminazione delle disparità tra figli adottivi e figli propri e l’abolizione della “clausola di nubilato”, che nei contratti di lavoro imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano. 

4. Emma Bonino (1948). È una delle donne italiane più famose al mondo grazie al suo impegno per la pace, per i diritti umani, delle donne e per l’autodeterminazione dei popoli. Ha avuto un ruolo fondamentale in varie associazioni per il disarmo, contro la pena di morte (su questo tema è stata delegata per l'Italia all’Onu) e contro la fame nel mondo. È stata eletta deputato a soli 28 anni con il Partito Radicale ed è rimasta a lungo alla Camera nel corso degli anni ’70 e ’80. È stata commissario europeo dal 1995 al 1999, nel 2006 ministro del Commercio internazionale e delle politiche europee, e dal 2008 al 2013 vicepresidente del Senato. Nel 2013 il presidente del Consiglio Enrico Letta l’ha chiamata come ministro degli Esteri, incarico che ha ricoperto fino a febbraio 2014. Nel 2011 la rivista statunitense Newsweek l’ha inserita nell'elenco delle "150 donne che muovono il mondo”.

5. Rosy Bindi (1951). È stata a lungo ricercatrice universitaria in diritto amministrativo e attivista dell’Azione cattolica prima di entrare in politica, iscrivendosi alla Democrazia Cristiana, nel 1989. Nello stesso anno è stata eletta al parlamento europeo. Dal 1996 al 2000 è stata ministro della Sanità e dal 2006 al 2008 ministro per le Politiche della famiglia. Nel 2008 viene nominata vicepresidente della Camera dei deputati. Da sempre favorevole alla formazione di un nuovo partito unitario del centro sinistra, è tra le più convinte promotrici della nascita del Partito Democratico, del quale diviene presidente nel 2009. Il suo nome è legato al disegno di legge sui DICO, scritto con l’obiettivo di garantire diritti e doveri dai conviventi non sposati. Per questo progetto ha ricevuto molte critiche dal mondo cattolico. 

6. Maria Elena Boschi (1981). A soli 33 anni è diventata ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento del governo Renzi. Di formazione cattolica, si è laureata in Giurisprudenza e ha intrapreso la professione di avvocato. Alle politiche del 2013 è stata eletta alla Camera dei deputati nella lista del PD. È sempre stata una fedelissima del presidente del Consiglio Matteo Renzi fin dall’inizio della sua carriera politica, che le ha assegnato il delicato ruolo di responsabile delle Riforme. Dal 9 dicembre 2013 è membro della segreteria del Partito democratico. Il disegno di legge che porta il suo nome propone la modifica costituzionale che abolisce il Senato e sancisce la fine del bicameralismo perfetto.

7. Laura Boldrini (1961). Quando non aveva ancora vent’anni ha cominciato a viaggiare per il mondo alternando il volontariato nei Paesi poveri allo studio in Giurisprudenza, materia in cui si è laureata prima di intraprendere la carriera di giornalista. Ha vinto un concorso all’Onu ed è stata addetta stampa alla Fao e dal 1993 al 1998 portavoce dell’Italia del Programma alimentare mondiale in vari paesi, dall’Afghanistan all’ex Jugoslavia. Dal 1998 al 2012 è stata rappresentante per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Onu (UNHCR) compiendo missioni in vari Paesi. Ha ricevuto vari premi per il suo impegno a favore dei diritti umani, in particolare a favore di migranti e rifugiati. Il 16 marzo 2013 è stata eletta presidente della Camera dei deputati. 

8. Virginia Raggi (1978). Con 770.500 voti raccolti, è il sindaco più votato della storia di Roma. Non solo: è anche il primo sindaco donna della capitale nonché membro del Movimento Cinque Stelle, il partito fondato da Beppe Grillo che non aveva ancora mai vinto le elezioni in una grande città. Nella precedente legislatura è stata consigliere comunale. Prima di laurearsi in Giurisprudenza, Raggi è stata anche baby sitter, cameriera e assistente volontaria nei canili. Ha promesso di riportare la legalità a Roma, investendo nella trasparenza dell’amministrazione, nell’efficienza del trasporto pubblico, nelle pari opportunità e nella difesa dell’ambiente.

Le donne più belle della politica italiana. Centrodestra e centrosinistra alla pari, ma la reginetta è lei: Maria Elena Boschi. Selezione (criticabile) del fascino politico nostrano, scrive su Panorama Claudia Daconto il 25 settembre 2015. Non sempre in politica essere delle “ladylike” porta fortuna alla donne. Ne sa qualcosa Alessandra Moretti, convinta che la colpa della batosta rimediata alle scorse regionali in Veneto sia stata della divisa da ferrotranviere che i guru della comunicazione elettorale l'avevano costretta a indossare. Ma è indubbio: alla dittatura della messa in piega si sono dovute arrendere alla ne anche deputate e senatrici grilline, entrate prima in Parlamento che dall'estetista. Nella top ten delle belle della politica italiana nessuna di loro ha però ancora conquistato uno straccio di posizione. Sono infatti tutte occupate dalle colleghe Pd, Fi e Ncd. Se no a qualche anno fa le parlamentari azzurre erano infatti considerate le più avvenenti dell'emiciclo, ormai anche a sinistra hanno recuperato terreno. Ecco, nelle slide che seguono, la nostra selezione:

1 - Sua maestà la principessa Maria Elena Boschi. Se le altre sono, almeno per noi, a pari merito, l'unica che svetta su tutte sui suoi tacchi 12, è solo lei, come viene malignamente soprannominata tra i corridoi del Nazareno, "sua maestà la principessa Maria Elena Boschi”. Entrata alla Camera Ormai oltre due anni fa, Maria Elena è ancora oggi la più fotografata, paparazzata, analizzata ai raggi x tra le politiche italiane. Le sue calzature leopardate hanno fatto storia. Le mollettine sono diventate un must della scorsa primavera. Sappiamo tutto del suo guardaroba, compreso ciò che vorremmo dimenticare come il chiodo indossato su leggins e minigonna. Bellezza virginale ma accattivante che sa rinunciare alle unghie pittate di rosso, la Boschi è riuscita a strappare il titolo di ministra più bella d’Italia a una concorrente di tutto rispetto.

2 - Barbara Carfagna, la più copiata Bellissima e soprattutto elegante, l'ex ministro delle Pari Opportunità del governo Berlusconi Mara Carfagna conserva però il primato di caschetto più copiato di Montecitorio. Sesta a Miss Italia nel 1997, nella sua vita precedente la Carfagna faceva la soubrette in televisione. Nel tempo è riuscita a costruirsi un look sofisticatissimo ed apprezzato ovunque. Tanto che un sito americano l’ha eletta addirittura la più avvenente al mondo tra i politici.

3 - Gabriella Giammanco. Con i suoi occhi da cerbiatta e il sico asciutto, tra le più corteggiate del Parlamento c'è anche la forzista Gabriella Giammanco. Con un passato da giornalista del Tg4, nel 2011 viene eletta direttamente da Silvio Berlusconi come la più bella della Camera. Tra i suoi colleghi maschi in tanti farebbero carte false per lei. Ma finora solo uno di loro è riuscito a conquistare il suo cuore. Sapete chi è?

4 - Rinascimentale Madia. Una bellezza quasi rinascimentale quella della ministra delle Pubblica Amministrazione Marianna Madia. Qualcuno la reputa un po' scialba. Noi diremmo “coraggiosa”: uscire di casa senza un po di trucco oggi giorno è una scelta da impavidi rivoluzionari che merita rispetto. Soprattutto quando il look generale lascia un po' a desiderare.

5 - Elvira Savino. Il nome dice poco, ma un’altra che fa parlare di sé per le sue fattezze è la deputata di Forza Italia Elvira Savino. Eletta la prima volta nel 2008, subito abbagliò il Parlamento con la sua lunga chioma castana sapientemente illuminata da qualche colpo di sole. Pure uno come il dem Roberto Giachetti, non riuscì allora a trattenere l'entusiasmo: “La più bella? Elvira Savino! Raggiunge quasi la perfezione”. Diciamo che l'intervento di rinoplastica l'ha aiutata, pensavamo noi. E invece no. Ci ha contattato l'onorevole Savino: il naso non se l'è rifatto! "Tra tutte le colleghe di Forza Italia che appaiono in questa classica, in cui io non merito di trovarmi, l'unica a non essere mai ricorsa a un intervento del genere sono io". Riconosciamo l'errore e le chiediamo scusa. Siamo state ingannate da troppa bellezza Motivo per cui la Savino merita, eccome, di apparire di diritto in questo post.

6 - Micaela Campana. Poco citata dalle altre classifiche che circolano in rete, merita invece una menzione anche la pugliese di nascita ma romana di adozione Micaela Campana, deputata dem e membro della segreteria nazionale del suo partito. Occhi da cerbiatta quelli della Giammanco, occhi di gatta quelli della Campana. Come fai a non notarla?

7 - La verace De Girolamo. Si difende, eccome, la verace Nunzia De Girolamo. Recentemente tornata in Forza Italia, dopo un paio di anni trascorsi nel Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, l'ex ministro delle politiche agricole è maestra nel saper rinnovare il suo stile sfoggiando sempre outfit raffinati. I tubini neri le stanno benissimo. E che dire di scarpe ed accessori. Top.

8 - Laura Ravetto. Viso squadrato, capelli biondi, l'altra azzurra Laura Ravetto esordì in politica sostenendo che la bellezza non era la sua caratteristica principale. Comunque l'ha aiutata a farsi notare. Oggi infatti, a qualche anno di distanza e con una carriera consolidata alle spalle, può naturalmente lasciarsi andare e dichiarare che “per essere belle fare l'amore è la miglior cura”.

9 - Lo stile Finocchiaro. Se si parla di classe e stile, impossibile non menzionar bellezza non più freschissima ma assolutamente degni in questa speciale classica. Parliamo della signora di Madama Anna Finocchiaro, politica di lunghissimo c Matteo Renzi si è ben guardato dal rottamare. Sempre elegantissima anche in giacca e pantaloni, non rinuncia mai al vezzo di un paio d'orecchini di corallo o vagamente etnici. Impossibile non restare ammaliati dalla sua voce resa leggermente roca dalle Muratti che aspira incessantemente Fascinosissima.

10 - La più giovane. Infine una scommessa. Bellissima non è ma con un buon parrucchiere e un trucco ad hoc potrà migliorare. Con soli 28 anni è la deputata più giovane, ma nel firmamento renziano brilla già come una piccola stella. Si chiama Anna Ascani e pare che le colleghe più famose siano tutte un po' invidiose dello spazio che l'ex lettiana è riuscita a conquistarsi. Un consiglio: se ripara all'errore di mettere su Fb una foto profilo in cui è talmente bella che non assomiglia per niente a com'è nelle altre, allora per lei è fatta.

L'ORIGINE DEL MONDO: E' FEMMINA.

L’origine del Mondo secondo i Greci (teogonia esiodo). Il testo più antico che narra in versi le credenze dei Greci sull’origine del Mondo e sulle genealogie divine è la teogonia di Esiodo. Per i greci in principio c’era il caos miscuglio indeterminato di tutto quello che esisteva. Dal caos come prima cosa nacque la terra che personificatasi divenne Gea la madre di ogni cosa. Tra gli altri figli del Caos c’erano anche Tartaro ed Erebo. Il Tartaro secondo Esiodo è il luogo più profondo della terra sbarrato da degli enormi cancelli di ferro, sempre secondo Esiodo è tanto lontano dall’Ade quanto la terra è lontana dal cielo. Nel Tartaro erano esiliati peccatori leggendari o divinità cacciate. Gea o Gaia, da sola, creò il cielo con le sue stelle e le sue nubi, che personificatosi divenne Urano. Sposatasi con Urano Gea partorì sei titani (Ceo, Crio, Crono, Giapeto, Iperone, Oceano), sei Titanide (Febe, Mnemosine, Rea, Tia, Temi, Teti), tre Ecatonchiri mostri dalle 100 braccia e dalle 50 teste (Cotto, Briareo, Gige) e tre ciclopi mostri con un enorme occhio sulla fronte (Bronte, Sterpe, Arge).

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'origine du monde. L'origine del mondo (L'origine du monde) è un dipinto a olio su tela (46x55 cm) di Gustave Courbet, realizzato nel 1866 e conservato nel Museo d'Orsay di Parigi. L'origine du monde raffigura, con immediatezza quasi fotografica, un primo piano di una vulva femminile coronata da riccioli lunghi e neri. Il corpo della donna, adagiata lascivamente su un letto e parzialmente ricoperta da un lenzuolo bianco, è visibile solo dalle cosce (che, divaricandosi delicatamente, consentono la visione delle labbra vaginali) al seno; l'inquadratura adottata da Courbet, infatti, omette il viso della modella, tagliato dai margini superiori del dipinto. I nudi femminili sono stati rivisitati numerose volte nella produzione grafica di Courbet, che già li ritrasse in opere dal sapore spiccatamente libertino; questa costante iconografica ritorna ne L'origine du monde con un'audacia e un realismo tali da caricare la tela di una forte carica seduttiva. L'erotismo del dipinto, tuttavia, non sfocia nella pornografia, grazie alla grande abilità tecnica di Courbet e all'adozione di una sofisticata gamma di tonalità ambrate. Courbet, mostrandosi assai sensibile alla languida bellezza delle donne di Correggio, Tiziano e Paolo Veronese, rivisita in questo modo la rappresentazione pubica con uno sconvolgente realismo; la vulva femminile, infatti, viene presentata nella sua cruda realtà oggettuale, in maniera sincera e diretta, con una notevole presa di distanze dai convenzionalismi accademici. Nel suo realismo e nella sua semplicità iconica, inoltre, L'origine du monde irradia un messaggio allegorico assai pregnante, avallato dal titolo stesso dell'opera. Il dipinto, infatti, intende essere un inno alla potenza vivificatrice dell'eros e alla relazione che intercorre tra la fecondità, la vita, la sessualità, e la gioia di vivere.

La modella ad aver posato per L'origine du monde è con tutta probabilità Joanna Hiffernan, anche detta Jo l'Irlandese: si tratta della moglie - allora ventiquattrenne - del pittore americano James McNeill Whistler, che non ne indagò la conturbante sensualità, valorizzata invece da Courbet, bensì la folta chioma rossa e la bellezza eterea. Se, da un lato, quest'ipotesi collima con le vicende coniugali di James e la moglie - dopo il 1866, data di esecuzione de L'origine du monde, i due si separarono - dall'altro persistono alcuni dubbi dovuti alla diacronia tra il colore bruno dei peli pubici dell'effigiata e l'arancione vivo della capigliatura di Jo; ciò malgrado, questa continua ad essere la congettura più accreditata. Degno di menzione, in tal senso, il rinvenimento sul mercato antiquario, a opera di un appassionato d'arte nel 2010, di un quadro di piccole dimensioni che raffigura il volto di una donna (assai simile a Jo), leggermente reclinato all'indietro: si tratterebbe, secondo le perizie, del frammento superiore de L'origine du monde. Malgrado la trama, le tinte e le dimensioni dei due dipinti corrispondano, gli esperti del Museo d'Orsay sono stati categorici nello smentire quest'ipotesi, ritenendola non veritiera.

Il primo proprietario de L'origine du monde, realizzato nel 1866, è probabilmente lo stesso committente: si tratta di Khalil-Bey, diplomatico ottomano e grand viveur che, prima della catastrofe finanziaria dovuta all'insopprimibile passione per il gioco d'azzardo, raccolse una cospicua quantità di dipinti erotici, che comprendeva - fra gli altri - Il bagno turco di Ingres. Rovinato nel 1868 dai debiti di gioco, Khalil-Bey fu costretto a cedere l'opera all'Hotel Drouot; fu successivamente acquistata dal barone Ferenc Hatvany alla galleria Bernheim-Jeune di Parigi. Sotto la custodia di Hatvany, L'origine du monde sopravvisse sia alla rivoluzione ungherese del 1918, ma non alle razzie perpetrate durante la seconda guerra mondiale; per fortuna, il Barone riuscì a riappropriarsi del dipinto e a portarlo con sé a Parigi, dove fu venduto per 1.5 milioni di franchi allo psicoanalista Jacques Lacan. L'origine du monde entrò a far parte delle collezioni del Museo d'Orsay, dove è tutt'ora esposta, solo nel 1995: sino ad allora, «rappresenta[va] il paradosso di un'opera famosa ma poco vista».

L’origine del mondo (quadro di Courbet). L’origine del mondo è un quadro realizzato da Gustave Courbet nel 1866. Il primo proprietario fu il diplomatico Khalil-Bey, un ricco collezionista egiziano che aveva la passione per quadri che rappresentavano il corpo femminile. La collezione in seguito fu venduta e smembrata a causa dei debiti di gioco di Khalil-Bey e L’Origine del mondo, prima di essere acquistata dal museo d’Orsay nel 1995, fece parte della collezione di Jacques Lacan. Il quadro è stato dipinto nel 1866, si tratta di un olio su tela di 46 x 55 cm e attualmente è conservato presso il Museo d’Orsay. Jean Désiré Gustave Courbet è nato il 10 giugno del 1819 a Ornans in Francia ed è morto il 31 dicembre del 1877 a La Tour de Peilz in Svizzera. E’ stato uno dei più grandi pittori francesi dell’Ottocento e il capo scuola del realismo francese, benché lui disdegnasse qualsiasi etichetta e rifiutasse di essere considerato appartenente a scuole, istituzioni e chiese. Si sentiva un uomo libero e voleva dimostrare che il suo lavoro non aveva influenze culturali di alcun tipo. Ha realizzato soprattutto quadri figurativi e il suo lavoro ha avuto lo scopo, secondo lo stesso Courbet, di ricercare la verità insita nella realtà. Non fu né un romantico né un neoclassico, benché la sua tecnica ricordi i pittori di entrambe queste scuole.

L'origine del mondo. Che io sappia la Lombardia è l'unica regione d'Italia, e una delle poche nel mondo, dove il nome dell'organo femminile ha unicamente un significato positivo nel linguaggio corrente. Mona, Patacca, Fregna sono termini dispregiativi. Figa invece è, per i lombardi, un'esclamazione positiva. Si vede che i costumi migliorano; infatti negli ultimi anni in tutto il paese i termini "figa" e "figo" sono diventati positivi. E per sottolineare che qualche cosa è veramente mostruosamente gradevole si dice che è una "figata pazzesca". Ciò vuol dire che si sta piano piano facendo strada la coscienza della grandiosità della natura femminile. Per secoli disprezzata tanto che nell'antichità classica gli déi si rifiutavano di nascere da lì, preferendo essere partoriti direttamente dal cranio di Giove o, al massimo, dal fianco della madre, come Budda. Nel 1866 Gustave Coubert fece un gesto rivoluzionario dipingendo il quadro che qui riproduciamo, intitolato: "L'origine del mondo". Fu un grande scandalo, nell'Europa dove le donne non avevano diritto di voto, affermare la sacralità naturale del luogo dove tutti siamo stati concepiti. Perché dobbiamo sentirci imbarazzati nel mostrare su queste pagine le immagini dipinte di un sesso femminile? Eppure ci siamo trovati a discutere se pubblicare un sesso dischiuso disegnato in modo realistico non potesse offendere la sensibilità di qualcuno inducendolo a non continuare la lettura (visto che il nostro scopo è raggiungere il maggior numero di persone con un'informazione finalmente completa). Abbiamo deciso però che un'informazione corretta non si poteva fare senza mostrare illustrazioni dove le parti intime fossero riconoscibili. E poi ci è sembrato giusto cogliere la sfida di riuscire a raccontare ed esaltare la purezza del nostro corpo e la magnificenza della natura senza cadere nella volgarità e nella vuota pornografia.

Facebook censura foto di Sgarbi con Courbet. E lui minaccia querela. Il critico d'arte si è fatto fotografare accanto al celeberrimo quadro "L'origine du monde" di Gustave Courbet. Ha poi postato la foto su Facebook. Ma non è finita lì..., scrive Antonio Lodetti, Sabato 6/06/2015, su "Il Giornale".  Nonostante le nostre arie disinibite siamo pur sempre dei bacchettoni. Almeno qualcuno, anche in rete, anche se si chiama Facebook. Sul web circola incontrollabilmente di tutto e di più, ma è vietato postare le opere d'arte. Almeno per Vittorio Sgarbi. L'esplosivo critico è andato a Parigi, a visitare il Musée d'Orsay, e si è fatto fotografare accanto al celeberrimo quadro "L'origine du monde" di Gustave Courbet, la tela che riprende in primo piano gli organi genitali di una donna senza testa sdraiata su un letto. Il critico ha poi postato la foto sul suo profilo Facebook, raggiungendo quasi un milione di visualizzazioni. Caspita, quanti amanti dell'arte, roba da record, ma qualcuno deve averli presi per guardoni perché la foto è stata quasi subito censurata e il profilo Facebook del critico d'arte è rimasto bloccato per 24 ore, provocando un danno e impedendo l'aggiornamento dei contenuti. Ora, si è discusso a lungo sul sottile confine tra il nudo artistico e la pornografia, e il Tribunale di Chieti ha stabilito che hanno natura pornografica le immagini di persone, integralmente o parzialmente nude, «espressione di concupiscenza sessuale». Una definizione fumosa, d'accordo, ma che proprio nulla ha a che fare con l'opera di Courbet. Chi provasse stimoli sessuali davanti alla fotografia in oggetto, perdipiù con Sgarbi in primo piano, dovrebbe andare urgentemente a farsi visitare da un bravo psichiatra. Eppure qualcuno ha avuto da dire, ha denunciato il profilo di Sgarbi per «contenuti inappropriati» ed è scattato immediatamente il blocco. Il professore si è subito scatenato da par suo. «È arte, non pornografia - ha tuonato - e Facebook dovrà pagare». Così ha querelato la società, che per contratto considera il tribunale di Santa Clara, California, il luogo esclusivo di giurisdizione per tutte le richieste. Sgarbi comunque continua ad attaccare dicendo: «Come sempre la censura di Facebook introduce elementi di astratto moralismo (tra cristiano e islamico), sottoponendo la libertà dell'arte a una insopportabile censura. È l'equivoco tra contenuto e forma. I Bronzi di Riace sono nudi come Rocco Siffredi, ma appartengono all'arte, non alla pornografia! L'origine du monde di Gustave Courbet è uno dei capolavori dell'arte di tutti i tempi. Censurare una fotografia non in una camera da letto in atti intimi, ma davanti al capolavoro di Courbet al Museo d'Orsay, è un crimine contro la civiltà». Anche l'artista di Copenhagen Frode Steinicke aveva subito lo stesso trattamento quando, nel 2011, pubblicò in rete la stessa opera, e il suo profilo fu riattivato dopo aver rimosso la foto incriminata. La stessa cosa è accaduta per altri artisti, come la copertina di un disco degli Scissor Sisters, cancellata per una foto osè del fotografo Robert Mapplethorpe.

Il ritorno dell’ “origine del mondo”: l’abbiamo provata per voi. Da tanto tempo, infatti, sembra che proprio colei che un tempo veniva pudicamente indicata come "la natura", l'origine del mondo, per dirla con Gustave Courbet, sia passata di moda, scrive Michele Monina il 7 marzo 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Difficile capire cosa influenzi le mode. Del resto, così non fosse, saremmo tutti in grado di anticiparle, le mode, o magari di dettarle. Sta di fatto che spesso ci sono meccanismi, equilibri, congiunture astrali, o più semplicemente influencer che stabiliscono che oggi sia di tendenza il giallo e domani il rosso. E tutti a seguire. Le mode, è noto, non sono solo quelle legate al mondo dell’abbigliamento, del look. Si può applicare il concetto di mode e di trend a tutto, dalla musica, pensiamo ai generi che sembrano imprescindibili in un determinato periodo e quasi ci fanno vergognare anche solo qualche mese dopo, al linguaggio, il cibo, tutto. Veniamo a noi. Veniamo a oggi. Il mondo contemporaneo, quello dei social network, altra moda che sembra però non passare, ha velocizzato tutto. Il metabolismo è come impazzito, nel giro di poche ore un argomento diventa fondamentale e poi stanca, viene superato, addirittura diventa ridicolo, da denigrare. Anche troppo comodo fare l’esempio recente di petaloso, che nel giro di mezza giornata è passato dal far intenerire chiunque a rendere lo stesso chiunque una versione 2.0 di Erode, pronto a dare alle fiamme il piccolo Matteo. Un argomento che però da tempo sembra non voler abbandonare il campo mediatico sono le stepchild adoption. Come la faccenda degli uteri surrogati. Per non dire della teoria Gender, capace di allarmare i maggiormente sensibili come neanche l’Ebola. Tutti ne parlano, spesso a sproposito. Si parla di natura, di contronatura, di cosa sarebbe giusto o sbagliato, a partire da cosa è bene o cosa è male, a partire da principi etici e morali spesso frutto di discussioni da bar, più che da approfondimenti seri. Stiamo parlando del bar 2.0, quel non luogo dove chiunque ha diritto di parola, per dirla alla Eco, e dove a chiunque è possibile difendere il diritto delle coppie etero e gay di adottare i figli biologici dei propri compagni e il giorno seguente gridare alla mercificazione del corpo femminile messa in atto con l’utero in affitto. Chiacchiere da bar, appunto. E proprio il bar è stato a lungo luogo principe delle chiacchierate sulla grande assente di quest’ultimo periodo: la figa. Da tanto tempo, infatti, sembra che proprio colei che un tempo veniva pudicamente indicata come “la natura”, l’origine del mondo, per dirla con Gustave Courbet, sia passata di moda. Non se ne parla più, non sembra più essere così ambita come un tempo, e ora, direbbe qualche polemista pret a porter, è stata sostituita da un qualche scienziato in laboratorio. Anche nell’immaginario comune sembra non essere più così centrale come un tempo, se ci pensate un attimo. Se un tempo Benigni faceva sbellicare milioni e milioni di telespettatori inanellando una serie infinita e spassosa di sinonimi, oggi preferisce parlare di Costituzione o del Paradiso. Anche il porno sembra preferire dedicarsi a altro perché, come ha detto con estremo dono della sintesi la pornostar Asa Akira, “il culo è la figa del duemila”. Tutto sembrerebbe remare contro la figa, forse per sovraesposizione negli anni passati, forse per quella sorta di paura insita nell’uomo generata da una certa emancipazione femminile, con l’ascesa dell’icona della donna rampante. Ma proprio tutto questo cianciare da bar relativo a ciò che è secondo natura e contronatura, in relazione alle stepchild adoption e agli uteri surrogati, della teoria gender, potrebbe generare un revival della figa, di nuovo protagonista delle chiacchiere al pari del calcio e delle auto. Noi ve lo diciamo in anticipo sui tempi, tanto perché, per una volta, ci piace l’idea di essere fra quanti lanciano una moda, piuttosto che seguirla. Come si dice in questi casi, preparatevi al ritorno della figa, noi l’abbiamo provata per voi.

QUANTE MATA HARI?

Mata Hari. Da Wikipedia. Mata Hari, pseudonimo di Margaretha Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto 1876 – Vincennes, 15 ottobre 1917), è stata una danzatrice e agente segreto olandese, condannata alla pena capitale per la sua attività di spionaggio durante la prima guerra mondiale. Era figlia di Adam Zelle (1840-1910) e di Antje van der Meulen (1842-1891), ed ebbe tre fratelli, il maggiore, Johannes (1878), e due fratelli gemelli, Arie Anne e Cornelius (1881-1956). Il padre aveva un negozio di cappelli, era proprietario di un mulino e di una fattoria. La sua famiglia poteva permettersi di vivere molto agiatamente in un antico e bel palazzo sulla Grote Kerkstraat, nel centro della città. Margaretha, che in gioventù frequentò una scuola prestigiosa, aveva una carnagione scura e i capelli e gli occhi neri, caratteristiche fisiche che la differenziavano notevolmente dai suoi connazionali olandesi. Nel 1889 gli affari del padre incominciarono ad andar male tanto da costringerlo a cedere la sua attività commerciale. Il dissesto economico provocò dissapori nella famiglia che portarono, il 4 settembre 1890, alla separazione dei coniugi e al trasferimento del padre ad Amsterdam. La madre morì l'anno dopo e Margaretha venne allevata nella cittadina di Sneek dal padrino, il quale scelse di farla studiare da maestra d'asilo in una scuola di Leida. Sembra che le eccessive attenzioni, se non proprio molestie, del direttore della scuola, avessero spinto il suo padrino a toglierla dalla scuola, mandandola da uno zio che viveva a L'Aia. Nel 1895 Margaretha rispose all'inserzione matrimoniale di un ufficiale, il capitano Rudolph Mac Leod (1856-1928), che viveva ad Amsterdam, in licenza di convalescenza dalle colonie d'Indonesia poiché soffriva di diabete e di reumatismi. L'11 luglio 1896, ottenuto anche il consenso paterno, Margaretha sposò il capitano Mac Leod: il padre, divenuto nel frattempo viaggiatore di commercio, partecipò alla cerimonia nuziale in municipio, ma non fu invitato al pranzo di nozze. Dopo il viaggio di nozze a Wiesbaden, la coppia si stabilì ad Amsterdam, nella casa di Louise, la sorella di Rudolph.

Il 30 gennaio 1897 nacque a Margaretha un figlio, cui fu dato il nome del nonno paterno, Norman John. In maggio la famiglia s'imbarcò per Giava, dove il capitano riprese servizio nel villaggio di Ambarawa, nel centro della grande isola. L'anno dopo si trasferirono a Teompoeng, vicino a Malang, dove il 2 maggio 1898 nacque Jeanne Louise († 1919), chiamata col vezzeggiativo Non, dal malese nonah (piccola). La vita familiare non fu serena: vi furono litigi tra i coniugi, sia per la durezza della vita in villaggi che non conoscevano gli agi delle moderne città europee dell'epoca, sia per la gelosia del marito e la sua tendenza ad abusare dell'alcol. L'anno seguente il marito fu promosso maggiore e comandante della piazza di Medan, sulla costa orientale di Sumatra. Come moglie del comandante, Margaretha ebbe il compito di fare gli onori di casa agli altri ufficiali che, con le loro famiglie, frequentavano il loro alloggio, e conobbe i notabili del luogo. Uno di questi la fece assistere per la prima volta a una danza locale, all'interno di un tempio, che l'affascinò per la novità esotica delle musiche e delle movenze, che ella provò anche a imitare. La famiglia venne sconvolta dalla tragedia della morte del piccolo Norman, che il 27 giugno 1899 morì avvelenato. La causa della morte fu una medicina somministrata dalla domestica indigena ai figli della coppia, ma non si hanno prove che costei avesse voluto uccidere i bambini; si sospetta però che ella, moglie di un subalterno del maggiore Mac Leod, fosse stata spinta dal marito a vendicarsi del superiore, che gli aveva inflitto una punizione. Rudolph, Margaretha e la piccola Non, per sottrarsi a un luogo di tristi ricordi, ottennero di trasferirsi a Banjoe Biroe, nell'isola di Giava, dove Margaretha si ammalò di tifo. Il maggiore Mac Leod, raggiunta la maturazione della pensione, il 2 ottobre 1900 diede le dimissioni dall'esercito: dopo poco più di un anno passato ancora a Giava, nel villaggio di Sindanglaja, cedendo forse alle richieste della moglie, riportò, agli inizi del 1902, la famiglia in Olanda.

Sbarcati il 2 marzo 1902, i due coniugi tornarono per breve tempo a vivere nella casa di Louise Mac Leod, poi per loro conto in un appartamento di van Breestraat 188: lasciata dal marito, che portò con sé la figlia, Margaretha chiese la separazione, che le venne accordata il 30 agosto, insieme con l'affidamento della piccola Non e il diritto agli alimenti. Dopo una successiva, breve riconciliazione, Margaretha e il marito si separarono definitivamente; questa volta fu il padre a ottenere la custodia della bambina, mentre Margaretha si stabilì dallo zio a L'Aja. Decisa a tentare l'avventura della grande città, nel marzo del 1903 Margaretha andò a Parigi, dove pure non conosceva nessuno: cercò di mantenersi facendo la modella presso un pittore e cercando scritture nei teatri ma con risultati alquanto deludenti. Forse giunse anche a prostituirsi per sopravvivere, nella vana attesa del successo. Il fallimento dei suoi tentativi la convinse a riparare in Olanda ma l'anno seguente, il 24 marzo 1904, tornò nuovamente a Parigi e prese alloggio al Grand Hotel, divenendo l'amante del barone Henri de Marguérie. Presentatasi dal signor Molier, proprietario di un'importante scuola di equitazione e di un circo, Margaretha, che in effetti aveva imparato a cavalcare a Giava, si offrì di lavorare e poiché un'amazzone può essere un'attrazione, fu accettata. Ebbe successo e una sera si esibì durante una festa in casa del Molier in una danza giavanese, o qualcosa che sembrava somigliarle: Molier rimase entusiasta di lei. La sua danza era, a suo dire, quella delle sacerdotesse del dio orientale Shiva, che mimavano un approccio amoroso verso la divinità, fino spogliarsi, un velo dopo l'altro, del tutto, o quasi. Trasferitasi in un più modesto alloggio, una pensione presso gli Champs-Élysées, sempre a spese del Marguérite, il suo vero esordio avvenne nel febbraio 1905, in casa della cantante Kiréevsky, che usava invitare i suoi ricchi amici e conoscenti a spettacoli di beneficenza. Il successo fu tale che i giornali arrivano a parlarne: lady Mac Leod, come ora si faceva chiamare, replicò il successo in altre esibizioni, ancora tenute in case private, dove più facilmente poteva togliersi i veli del suo costume, e la sua fama di «danzatrice venuta dall'Oriente» incominciò a estendersi per tutta Parigi. Notata da monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d'arte orientale, ricevette da questi la proposta di esibirsi in place de Jéna, nel museo, dove egli custodiva i suoi preziosi reperti, come un animato gioiello orientale. Fu però necessario cambiare il suo nome, troppo borghese ed europeo: così Guimet scelse il nome, d'origine malese, di Mata Hari, letteralmente «Occhio dell'Alba» e quindi "Sole". L'esibizione di Mata Hari nel museo Guimet ebbe luogo il 13 marzo. Mata Hari alternò le esibizioni, tenute nelle case esclusive di aristocratici e finanzieri, agli spettacoli nei locali prestigiosi di Parigi: il Moulin Rouge, il Trocadéro, il Café des Nations. Il successo provocò naturalmente una curiosità cui ella non poté sottrarsi e dovette far collimare l'immagine privata con quella pubblica: «Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - raccontò ai giornalisti, mescolando poche verità e molte menzogne - «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India [ ... ] ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Visnù e della dea Kalì [ ... ] persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio [ ... ] la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti [ ... ] è terribile [ ... ] conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene».

Consacrata, il 18 agosto 1905, dopo l'esibizione al teatro dell'Olympia, come la «donna che è lei stessa danza», «artista sublime», e come colei che «riesce a dare il senso più profondo e struggente dell'anima indiana», Mata Hari si trovò a essere desiderata tanto dai maggiori teatri europei quanto, come moglie, da ricchi e nobili pretendenti. La sua tournée in Spagna, nel gennaio 1906, fu un trionfo: venendo incontro alla fantasia, ingenua e torbida, costruita su realtà di paesi del tutto sconosciuti, Mata Hari offriva agli spettatori quanto essi si attendevano dalla sua danza: il fascino proibito dell'erotismo e la purezza dell'ascesi, in un assurdo sincretismo in cui la mite saggezza di un Buddha veniva parificata ai riti sanguinari - per quanto inesistenti - di terribili dee indù.

D'altra parte, pare che ella avesse un certo talento se è vero che la sua esibizione nel balletto musicato da Jules Massenet, Le roi de Lahore, all'Opéra di Monaco ottenne, il 17 febbraio, un grande successo e lei venne salutata come «danzatrice unica e sublime» mentre il musicista francese, e anche Giacomo Puccini, si dichiararono suoi ammiratori. Il 26 aprile 1906 fu sancito ufficialmente il divorzio di Margaretha Zelle dal McLeod. Da Monaco si recò a Berlino, dove si legò a un ricco ufficiale, Hans Kiepert, che l'accompagnò a Vienna e poi a Londra e in Egitto. Furono intanto pubblicate due sue biografie, una scritta dal padre, che esalta la figlia più che altro per esaltare sé stesso, inventandosi parentele con re e principi, e quella, di opposte intenzioni, di George Priem, avvocato del suo ex-marito. Mata-Hari, naturalmente, confermò la versione del padre: l'ex-cappellaio era un nobile ufficiale, mentre sua nonna era una principessa giavanese; quanto a lei, aveva viaggiato in tutti i continenti e aveva vissuto a lungo a Nuova Delhi, dove aveva frequentato maharaja e abbattuto tigri, come dimostra la pelliccia che indossava - in realtà acquistata in un negozio di Alessandria d'Egitto. Il successo provocò anche imitazioni ma nessuna delle sue epigoni raggiunse mai la sua fama. Il suo nome fu accostato a quello delle maggiori vedettes del passato, come Lola Montez, e del tempo, come la Bella Otero, Cléo de Mérode e Isadora Duncan. Il 7 gennaio 1910 riscosse a Montecarlo nuove acclamazioni con la sua Danse du feu che non replicò all'Olympia di Parigi solo perché le sue pretese economiche furono eccessive. Il successo fece crescere enormemente le spese necessarie a sostenere una incessante vita mondana che conobbe solo una breve tregua quando, nell'estate, si trasferì in un castello a Esvres, non lontano da Tours, che il suo nuovo amante, il banchiere Félix Rousseau, affittò e le mise a disposizione e dove rimase circa un anno, quando, a causa dei problemi finanziari della banca Rousseau, il suo Félix affittò per lei un appartamento carino, ma meno costoso, a Neuilly, uno dei sobborghi di Parigi. Alla fine del 1911 raggiunse il vertice del riconoscimento artistico partecipando, al Teatro alla Scala di Milano, prima alla rappresentazione dell'Armida di Gluck, tratta dalla Gerusalemme liberata del Tasso, recitando la parte del Piacere e poi, dal 4 gennaio 1912, dando cinque rappresentazioni del Bacco e Gambrinus, un balletto di Giovanni Pratesi musicato da Romualdo Marenco, dove interpretò il ruolo di Venere. Il direttore dell'orchestra, Tullio Serafin, dichiarò che Mata Hari « [...] è una donna eccezionale, dall'eleganza perfetta e con un senso poetico innato; inoltre, sa ciò che vuole e sa come ottenerlo. Ella così fa della propria danza una sicura opera d'arte». In realtà, il Teatro milanese stava attraversando un periodo di decadenza e i tentativi, fatti in quell'occasione da Mata Hari, di ottenere collaborazione da musicisti come Umberto Giordano e Pietro Mascagni, andarono a vuoto, come inutile fu anche il tentativo di esibirsi con i ballerini russi della compagnia di Djagilev. Mata Hari si consolò allora con le Folies Bergères dove, mettendo per un momento da parte la danza orientale, si trasformò in gitana e, nell'estate del 1913, andò in tournée in Italia, esibendosi a Roma, a Napoli e a Palermo. C'è un motivo, raccontava, per cui ella conosceva così bene i balli spagnoli: giovanissima, aveva sposato un nobile scozzese, con il quale aveva vissuto in un antico castello; dopo il fallimento del suo matrimonio, aveva viaggiato molto e a lungo in Spagna, dove un torero, innamorato di lei, si era fatto uccidere nell'arena, disperato per non essere stato corrisposto. Nel 1914 si spostò a Berlino, per preparare un nuovo spettacolo nel quale intendeva interpretare una danza egiziana: nella sua stanza dell'albergo Cumberland, scrisse lei stessa il libretto del balletto, che intitolò La chimera; nel frattempo prevedeva di esordire in settembre al Teatro Metropole in un altro spettacolo. Ma quello spettacolo non ebbe mai luogo: con l'assassinio del principe ereditario austriaco finì la Belle Epoque ed ebbe inizio la prima guerra mondiale.

Mentre l'esercito tedesco invadeva il Belgio per svolgere quell'operazione a tenaglia che, con l'accerchiamento delle forze armate francesi, avrebbe dovuto concludere rapidamente la guerra, Mata Hari era già partita per la Svizzera, da dove contava di rientrare in Francia; tuttavia, mentre i suoi bagagli proseguirono il viaggio verso la terra francese, lei venne trattenuta alla frontiera e rimandata a Berlino. Nell'albergo ove fece ritorno, senza bagaglio e denaro, un industriale olandese, tale Jon Kellermann, le offrì il denaro per il viaggio, consigliandole di andare a Francoforte e di qui, tramite il consolato, passare la frontiera olandese. Così, il 14 agosto 1914, il funzionario del consolato olandese rilasciò a Margaretha Geertuida Zelle, «alta un metro e settantacinque», di capelli, in quell'occasione, biondi, il visto per raggiungere Amsterdam. Qui divenne l'amante del banchiere van der Schalk e poi, dopo il trasferimento a L'Aja, del barone Eduard Willem van der Capellen, colonnello degli ussari, che la soccorse generosamente nelle sue non poche necessità finanziarie. Il 24 dicembre 1915 Mata Hari tornò a Parigi, per recuperare il suo bagaglio e tentare, nuovamente invano, di ottenere una scrittura da Djagilev. Ebbe appena il tempo di divenire amante del maggiore belga Fernand Beaufort che, alla scadenza del permesso di soggiorno, il 4 gennaio 1916, dovette fare ritorno in Olanda. Furono frequenti le visite nella sua casa de L'Aja del console tedesco Alfred von Kremer, che proprio in questo periodo l'avrebbe assoldata come spia al servizio della Germania, incaricandola di fornire informazioni sull'aeroporto di Contrexéville, presso Vittel, in Francia, dove ella poteva recarsi col pretesto di far visita al suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov, ricoverato nell'ospedale di quella città. Mata Hari, divenuta agente H21, fu istruita in Germania dalla famosa spia Fräulein Doktor, che la immatricolò con il nuovo codice AF44. La ballerina era già sorvegliata dal controspionaggio inglese e francese quando, il 24 maggio 1916, partì per la Spagna e di qui, il 14 giugno, per Parigi dove, tramite un ex-amante, il tenente di cavalleria Jean Hallaure, che era anche, senza che lei lo sapesse, un agente francese, il 10 agosto si mise in contatto con il capitano Georges Ladoux, capo di una sezione del Deuxième Bureau, il controspionaggio francese, per ottenere il permesso di recarsi a Vittel. Ladoux le concesse il visto e le propose di entrare al servizio della Francia, proposta che Mata Hari accettò, chiedendo l'enorme cifra di un milione di franchi, giustificata dalle conoscenze importanti che ella vantava e che sarebbero potute tornare utili alla causa francese.

A Vittel incontrò il capitano russo, fece vita mondana con i tanti ufficiali francesi che frequentavano la stazione termale e dopo due settimane tornò a Parigi. Qui, oltre a inviare informazioni sulla sua missione agli agenti tedeschi in Olanda e in Germania, ricevette anche istruzioni dal capitano Ladoux di tornare in Olanda via Spagna. Dopo essersi trattenuta alcuni giorni a Madrid, sempre sorvegliata dai francesi e dagli inglesi, a novembre s'imbarcò da Vigo per L'Aia. Durante la sosta della nave a Falmouth, nel Regno Unito, fu arrestata perché scambiata con una ballerina di flamenco, Clara Benedix, sospetta spia tedesca. Interrogata a Londra e chiarito l'equivoco, dopo accordi presi con Ladoux, Scotland Yard la respinse in Spagna, dove sbarcò l'11 dicembre 1916. A Madrid continuò il doppio gioco, mantenendosi in contatto sia con l'addetto militare all'ambasciata tedesca, Arnold von Kalle, sia con quello dell'ambasciata francese, il colonnello Joseph Denvignes, al quale riferì di manovre dei sottomarini tedeschi al largo delle coste del Marocco. Il von Kalle comprese che Mata Hari stava facendo il doppio gioco e telegrafò a Berlino che «l'agente H21» chiedeva denaro ed era in attesa di istruzioni: la risposta fu che l'agente H21 doveva rientrare in Francia per continuare le sue missioni e ricevervi 15.000 franchi. L'ipotesi che i tedeschi avessero deciso di disfarsi di Mata Hari - rivelandola al controspionaggio francese come spia tedesca - poggia sull'utilizzo, da loro fatto in quell'occasione, di un vecchio codice di trasmissione, già abbandonato perché decifrato dai francesi, nel quale Mata Hari veniva ancora identificata con la sigla H21. In tal modo, i messaggi tedeschi furono facilmente decifrati dalla centrale parigina di ascolto radio della Tour Eiffel. Il 2 gennaio 1917 Mata Hari rientrò a Parigi e la mattina del 13 febbraio venne arrestata nella sua camera dell'albergo Elysée Palace e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare.

Di fronte al titolare dell'inchiesta, il capitano Pierre Bouchardon, Mata Hari adottò inizialmente la tattica di negare ogni cosa, dichiarandosi totalmente estranea a ogni vicenda di spionaggio. Fu assistita, nel primo interrogatorio, dall'avvocato Édouard Clunet, suo vecchio amante, che aveva mantenuto con lei un affettuoso rapporto e che poté essere presente, secondo regolamento, ancora solo nell'ultima deposizione. Poi, con il passare dei giorni, Mata Hari non poté evitare di giustificare le somme - considerate dall'accusa il prezzo del suo spionaggio -che il van der Capelen, suo amante, le inviava dall'Olanda, di ammettere le somme ricevute a Madrid dal von Kalle, giustificandole come semplici regali, e di rivelare anche un particolare inedito: l'offerta ricevuta in Spagna di ingaggiarsi come agente dello spionaggio russo in Austria. Riferì anche della proposta fattale dal capitano Ladoux di lavorare per la Francia, una proposta che cercò di sfruttare a suo vantaggio, come dimostrazione della propria lealtà nei confronti della Francia. L'accusa non aveva, fino a questo momento, alcuna prova concreta contro Mata Hari, la quale poteva anzi vantare di essersi messa a disposizione dello spionaggio francese. Il fatto è che il controspionaggio non aveva ancora messo a disposizione del capitano Bouchardon le trascrizioni dei messaggi tedeschi intercettati che la indicavano come l'agente tedesco H21. Quando lo fece, due mesi dopo, Mata Hari dovette ammettere di essere stata ingaggiata dai tedeschi, di aver ricevuto inchiostro simpatico per comunicare le sue informazioni, ma di non averlo mai usato - avrebbe gettato tutto in mare - e di non avere trasmesso nulla ai tedeschi, malgrado 20.000 franchi ricevuti dal console von Kramer, che ella, sostenne, considerò solo un risarcimento per i disagi patiti durante la sua permanenza in Germania nei primi giorni di guerra. Quanto al messaggio di von Kalle a Berlino, che la rivelava come spia, Mata Hari lo considerò la vendetta di un uomo respinto. I tanti ufficiali francesi dei quali fu amante, interrogati, la difesero, dichiarando di non averla mai considerata una spia. Al contrario, il capitano Georges Ladoux negò di averle mai proposto di lavorare per il servizi francesi, avendola sempre considerata una spia tedesca, mentre l'addetto militare a Madrid, l'anziano Denvignes, sostenne di essere stato corteggiato da lei allo scopo di carpirgli segreti militari; quanto alle informazioni sulle attività tedesche in Marocco, egli negò che fosse stata Mata Hari a fornirle. Entrambi gli ufficiali non seppero citare alcuna circostanza sostanziale contro Mata Hari, ma le loro testimonianze, nel processo, ebbero un peso determinante. L'inchiesta si chiuse con un colpo a effetto: l'ufficiale russo Masslov, del quale Mata Hari sarebbe stata innamorata, scrisse di aver sempre considerato la relazione con la donna soltanto un'avventura. La rivelazione non aveva nulla a che fare con la posizione giudiziaria di Mata Hari, ma certo acuì in lei la sensazione di trovarsi in un drammatico isolamento. L'inchiesta venne chiusa il 21 giugno con il rinvio a giudizio di Mata Hari. Il processo, tenuto a porte chiuse, ebbe inizio il 24 luglio: a presiedere la Corte di sei giudici militari fu il tenente colonnello Albert Ernest Somprou; a sostenere l'accusa il tenente Mornet. Nulla di nuovo emerse nei due giorni di dibattimento: dopo l'appassionata perorazione del difensore Clunet, vecchio combattente e decorato, nel 1870, nella Guerra Franco-Prussiana, i giudici si ritirarono per rispondere a 8 domande:

se nel dicembre 1915 Margaretha Zelle avesse cercato di ottenere informazioni riservate nella zona militare di Parigi a favore di una potenza nemica;

se si fosse procurata informazioni riservate al console tedesco in Olanda von Kramer;

se nel maggio 1916 avesse avuto rapporti in Olanda con il console von Kramer;

se nel giugno 1916 avesse cercato di ottenere informazioni nella zona militare di Parigi;

se avesse cercato di favorire le operazioni militari della Germania;

se nel dicembre 1916 avesse avuto contatti a Madrid con l'addetto militare tedesco von Kalle allo scopo di fornirgli informazioni riservate;

se avesse rivelato al von Kalle il nome di un agente segreto inglese e la scoperta, da parte francese, di un tipo di inchiostro simpatico tedesco;

se nel gennaio 1917 avesse avuto rapporti con il nemico nella zona militare di Parigi.

Dopo meno di un'ora venne emessa la sentenza secondo la quale l'imputata era colpevole di tutte le otto accuse mossele: «In nome del popolo francese, il Consiglio condanna all'unanimità la suddetta Zelle Marguerite Gertrude alla pena di morte [...] e la condanna inoltre al pagamento delle spese processuali» Quanto all'unanimità dei giudici, questa valeva per la sentenza ma non per ogni capo d'imputazione, per alcuni dei quali il verdetto di colpevolezza non trovò l'unanimità.

L'istanza di riesame del processo venne respinta dal Consiglio di revisione il 17 agosto e il 27 settembre anche la Corte d'Appello confermò la sentenza di condanna. L'ultima speranza era rappresentata dalla domanda di grazia che l'avvocato Clunet presentò personalmente al Presidente della Repubblica Poincaré. Il 15 ottobre, un lunedì, Mata Hari, che dopo il processo occupava una cella in comune con due altre detenute, venne svegliata all'alba dal capitano Thibaud, il quale la informò che la domanda di grazia era stata respinta e la invitò a prepararsi per l'esecuzione. Si vestì con la consueta eleganza, assistita da due suore. Poi, su sua richiesta, il pastore Arboux la battezzò; indossato un cappello di paglia di Firenze e infilati i guanti, fu accompagnata da suor Léonide e suor Marie, dal pastore, dall'avvocato Clunet, dai dottori Bizard, Socquet, Bralet, dal capitano Pierre Bouchardon e dai gendarmi nell'ufficio del direttore, dove scrisse tre lettere - che tuttavia la direzione del carcere non spedì mai - indirizzate alla figlia Jeanne Louise, al capitano Masslov e all'ambasciatore d'Olanda Cambon. Poi tre furgoni portarono il corteo al castello di Vincennes dove, scortati da dragoni a cavallo, giunsero verso le sei e trenta di una fredda e nebbiosa mattina. Al braccio di suor Marie, si avviò con molta fermezza al luogo fissato per l'esecuzione, dove venne salutata, come è previsto, da un plotone che le presentò le armi. Ricambiato più volte il saluto con cortesi cenni del capo, fu blandamente legata al palo; rifiutata la benda, poté fissare di fronte a sé i dodici fanti, reduci dal fronte, ai quali era stato assegnato il compito di giustiziarla: uno di essi, secondo regola, aveva il fucile caricato a salve. Degli undici colpi, otto andarono a vuoto - ultima galanteria dei militari di Francia - uno la colpì al ginocchio, uno al fianco e il terzo la fulminò al cuore: il maresciallo Pétey diede alla nuca un inutile colpo di grazia. Nessuno reclamò il corpo: trasportato all'Istituto di medicina legale di Parigi, sezionato, fu presto sepolto in una fossa comune. Venne conservata la testa che fu trafugata negli anni cinquanta, in circostanze mai chiarite, per servire forse come estrema e macabra reliquia.

I protagonisti della vita di Mata Hari, padre, figlia, amanti, diplomatici e agenti segreti, proseguirono così la loro vita:

Rudolph (John) Mac Leod, l'ex marito di Mata Hari, si risposò nel 1907 con Elizabeth van der Maast, dalla quale ebbe una figlia, Norma, nel 1909. La coppia si separò, la figlia venne portata via dalla madre e Mac Leod, con il quale era rimasta la figlia avuta da Margaretha, ottenuto il divorzio da Elizabeth, nel 1917 si sposò per la terza volta con la governante di Non, la venticinquenne Gietje Meijer. Ebbe dalla terza moglie una figlia nel 1921 e morì settantatreenne nel 1928.

Non Mc Leod, figlia di Margaretha e di Rudolph (John) Mac Leod, alta e slanciata e di carnagione scura, molto somigliante alla madre anche nel carattere, rimasta a vivere con il padre, morì improvvisamente alla vigilia della partenza per l'Indonesia (10 agosto 1919): aveva ventuno anni.

Il capitano francese Georges Ladoux, del Deuxième Bureau, venne arrestato quattro giorni dopo l'esecuzione di Mata Hari con la medesima accusa: spionaggio a favore della Germania. Prosciolto in un primo momento, venne nuovamente incarcerato e ci vollero quasi due anni prima che fosse prosciolto definitivamente e reintegrato nel grado, andando poi in pensione con quello di maggiore.

Il capitano francese Pierre Bouchardon, che condusse l'inchiesta per il processo, entrò nella magistratura civile e fece carriera come pubblico accusatore, morendo poi nel 1950. Fu lui a essere di nuovo in carica nel 1944 per tutti i grandi processi della "Libération" su richiesta speciale del generale Charles de Gaulle.

Il maggiore tedesco Arnold Kalle, addetto militare all'ambasciata tedesca di Madrid, rientrato in patria, rimase nell'esercito e si ritirò in pensione nel 1932.

Il barone francese Henri de Marguérie continuò la sua attività diplomatica presso il Quai d'Orsay; entrato in politica venne eletto senatore nel 1920 e morì ultranovantenne nel 1963.

Il barone olandese Eduard Willem van der Capellen lasciò l'esercito dei Paesi Bassi nel 1923 dopo essere diventato generale di divisione.

Il capitano russo Vadim Masslov sposò Olga Tardieu, figlia di un francese e di una russa; rientrato in Russia allo scoppio della rivoluzione, se ne persero le tracce.

Il tenente di cavalleria francese Jean Halaure ricevette dal facoltoso padre una cospicua somma, si trasferì a New York, ove sposò un'americana con la quale rientrò in Francia, precisamente in Bretagna, vivendoci il resto della vita con la moglie e morendovi nel 1960.

Jules Martin Cambon, ambasciatore francese in Olanda, fu delegato francese alle trattative di pace di Versailles nel 1919; morì novantenne a Vevey nel 1935.

Il console tedesco all'Aja, Alfred von Kramer, rientrato in Germania alla fine della guerra, morì nel 1938.

Cent’anni dalla fucilazione di Mata Hari. Una mostra al Fries Museum ne ricostruisce la storia, tra documenti e fotografie, scrive Fiorella Minervino il 21/10/2017 su "La Stampa". Bella, forse fin troppo per i canoni del tempo, seducente e avvolta nei veli, danzava e ammaliava le folle del mondo, collezionando amanti facoltosi, di preferenza militari e banchieri. E anche fatale, con una vita di successi e dolori; era una giovane di provincia, avida di uscire dall’anonimato e conquistare fama e ricchezza. Si era inventata tutto, esotismo, origine, professione, nome. Cent’anni fa, il 15 ottobre, veniva giustiziata per tradimento a Parigi, nel Castello di Vincennes, Margaretha Gertruids Zelle, in arte Mata Hari (in malese significa Occhio dell’Aurora cioè sole), 41 anni, accusata di essere un’agente segreta dei tedeschi. Lei, dignitosa, incoraggiò i 12 fanti che, reduci dalla guerra, erano riluttanti a spararle.  La sua città, Leeuwarden, capitale della Frisia (il prossimo anno sarà capitale europea della cultura), ora la ricorda con una mostra di foto, documenti rari, 100 oggetti e scritti che compaiono per la prima volta. Accanto, documenti militari francesi recentemente desecretati e resi pubblici, documenti legali, rapporti sulla sua attività, trascrizioni delle udienze e prove chiave, come i telegrammi intercettati di un diplomatico tedesco a Madrid, che forniscono una panoramica completa del processo.  “Mata Hari: Il mito e la donna” è il titolo della maggiore personale mai dedicata a Margaretha, appena inaugurata al Fries Museum (fino al 2 aprile 2018) di Leeuewarden, a cura di Hans Groeneweg e di Yves Rocourt. Chi era in realtà “la spia del secolo” che ha poi animato straordinarie interpretazioni al cinema di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Jeanne Moreau e Sylvia Kristel o ispirato grandi ballerine come Carla Fracci? È entrata in pagine di libri come La spia di Paulo Coelho che la vede fra le prime femministe, e di Giuseppe Scarafia che ne indaga i giorni ultimi. Morta e risorta tante volte, come ora al Fries Museum. Era una bimba felice nella graziosa casa al centro di Leeuewarden, la si vede nelle foto esposte. Ci sono le sue poesie, il libro di preghiere e le pagelle. Il padre possedeva un negozio di cappelli, ma fallì, la famiglia si sfasciò, la madre morì quando lei aveva 15 anni; era alta 1,75 cm, ben fatta, scura di capelli, aria vagamente esotica. Senza soldi, a 18 anni risponde a un’inserzione sul giornale locale di cuori solitari di un militare di 40 anni, il capitano Rudolph John Mac Leod. Si sposano dopo 6 giorni: eccoli, sorridenti, in una foto delle nozze.  Vanno a vivere a Giava, nelle Indie Orientali Olandesi: è subito vita di colonia, balli, intrattenimenti, ma pure esistenza assai meno comoda che in Europa; lui è ubriaco, geloso, violento, malato di sifilide. Hanno due figli, ma solo la bimba Non (piccola in malese) sopravvive. Lei vuol separarsi e lui è contrario, scrive lettere ai parenti e al rientro in Olanda divorzia dal marito che le rifiuta gli alimenti e le impedisce di vedere la bimba.  Le lettere presentate nella mostra la raccontano mamma e donna, nell’incertezza e dolore di lasciare la figlia e la voglia di fuggire dalla provincia. Sceglie Parigi, fa di tutto per mantenersi, anche la modella a Montmartre per gli artisti con poca fortuna, poi rientra in Olanda. Qui comincia a ballare dapprima in teatri modesti e si inventa la danza sacra che aveva ammirato a Giava, come la scelta del nome; anche se non si sa esattamente come ballasse, dice di essere una principessa di Giava. Così cominciano gli amanti danarosi. Un impresario la stimola a continuare e il 13 marzo 1905 Mata Hari fa il suo grande debutto come danzatrice nella biblioteca del Musée Guimet: è il successo. Partendo da Parigi, Folies Bergère, Trocadero, conquista i teatri di tutta Europa, è ormai la diva: da Roma a Berlino, da Vienna a Madrid, alla Scala a Milano, presto famosa per le sue storie con amanti famosi.  Il Musée Guimet presta una statua di Shiva e 14 marionette wayang, i gioielli e il reggiseno di scena (che ha sempre indossato), tutto parte di scenografie nelle prime rappresentazioni di Mata Hari nella biblioteca del ricco industriale Emile Guimet. Foto rare, poster, recensioni, articoli (uscì in copertina di Vogue) compaiono in mostra al Fries Museum, e pure il grande ritratto a figura intera che le fece il pittore Isaac Israëls nel 1916. Troppo famosa, troppo chiacchierata, troppi innamorati di nazioni diverse, in lotta fra loro nella Belle Époque smaniosa di esotismo ed evasioni. La Grande Guerra spegne ogni cosa, anche la vorticosa carriera ormai al declino a 40 anni.  Conduce una vita costosa da star, sempre in cerca di denaro. L’amico console tedesco all’Aia, Alfred von Kremer, le offre l’equivalente di 15.000 per fare la spia e procurare notizie dei francesi. Lei accetta e sarà l’agente H21, ma altrettanto fa la Francia e ora pure l’Inghilterra pare, e perfino la Russia; in realtà non offre mai rivelazioni determinanti o utili ma il triplo o quadruplo gioco in momenti tanto drammatici la rendono una mina vagante. In realtà è una pluri-agente che tutti controllano, è pedinata per mesi, ora per ora, anche quando va dal parrucchiere, si legge nel rapporto del sedicente amico capitano Georges Ladoux del controspionaggio francese. Si è innamorata follemente del giovane ufficiale russo Vadim Masslov, 20 anni meno di lei, stessa età del figlio Norman. Sogna di sposarlo e cerca più soldi. Il 13 febbraio 1917 i servizi segreti francesi la arrestano, 8 mesi di prigione fra topi e lacrime di una diva. Scrive anche 5 lettere al giorno, è certa di cavarsela, il processo la vede incerta: dapprima nega, poi ammette qualcosa, mai di aver tradito, con testimonianze contraddittorie, forse troppo abituata a mentire o a mezze verità. Il tribunale per crimini di guerra, non unanime (c’è chi la ritiene innocente), la dichiara colpevole con condanna a morte. Viene chiesta la grazia al Presidente Poincaré, che la nega. Su un foglio giallognolo in francese si legge in grande, al centro: Mort.  All’esecuzione vuole che le tolgano la benda agli occhi. Nessuno reclamerà la salma che, dopo l’autopsia, viene gettata nella fossa comune. Non la vuole la figlia Non, e neppure Vadim che ha assicurato che per lui era stata solo un’avventura e sposa una coetanea. Lei lascia le lettere che nessuno vuole, neppure il suo giovane ufficiale russo. Ora i nuovi documenti presentati (ci sarà un’app apposita per sfogliarli) portano qualche luce sulla donna e la vicenda e inducono a credere che non fosse una vera spia, bensì una celebrità o un’avventuriera in cerca di denaro, ma anche dell’amore che forse non ricevette mai. Forse un’incallita bugiarda, forse troppo famosa, troppo amata, odiata, invidiata. Tuttavia una donna coraggiosa, fuori dagli schemi nella società allo scatto del secolo XIX. Esce dalla vita, entra nella leggenda. 

Mata Hari, cent’anni fa veniva fucilata la «spia che danzava», scrive "Il Corriere della Sera". Chi era Mata Hari? Una spia, una cortigiana, una donna che si è trovata in un gioco più alto delle suo saper giocare? Accusata di spionaggio e fucilata a 41 anni in Francia, questa è la biografia di un personaggio entrato nel mito. Margaretha Geertruida Zelle - questo il nome all’anagrafe della donna nota con il nome d’arte di Mata Hari - nasce a Leeuwarden, in Olanda, il 7 agosto 1876. Di famiglia borghese, conduce una vita agiata sino alla crisi delle attività commerciali della famiglia che provocano la separazione dei genitori. Qualche anno dopo, nel 1896, Margaretha sposa il capitano Rudolph Mac Leod, ufficiale di stanza in Indonesia provvisoriamente di ritorno in Europa per una convalescenza. Nel 1897 si trasferisce a Giava dove il marito è stato promosso al grado di maggiore. Qui Margaretha si avvicina per la prima volta alle danze rituali locali e e ne rimane affascinata. Lasciata dal marito, si trasferisce a Parigi, dove, tra molte difficoltà, inizia ad affermarsi nel mondo dello spettacolo. Dopo gli inizi come amazzone in un circo, ottiene in seguito un grande successo grazie a una danza ispirata proprio alla ritualità giavanese, durante la quale Margaretha, qui in un’immagine del 1905, si libera dei veli che la avvolgono uno dopo l’altro. Nel 1905, anno della consacrazione all'Olympia di Parigi, assume il nome d'arte di Mata Hari, riscuotendo da quel momento in poi una crescente ammirazione in tutta Europa, cosa che la porta a esibirsi nei principali teatri europei, ricercata dai maggiori musicisti dell'epoca. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale e la fine della Belle Epoque Mata Hari continua a spostarsi attraverso l’Europa intrattenendo rapporti e liaisons sentimentali con diplomatici e ufficiali francesi e tedeschi. Mata Hari viene arrestata a Parigi il 13 gennaio 1917 con l’accusa di «spionaggio, connivenza e complicità con il nemico». Durante l’interrogatorio ammette di essere l’agente H21 ingaggiata nella primavera precedente dal console tedesco di Amsterdam con 20 mila franchi ma giura di non aver mai tradito. Il 25 luglio 1916 viene condannata dalla corte militare alla pena capitale e fucilata all’alba del 15 ottobre nel Poligono di Vincennes. La figura e la vita di Mata Hari sono state oggetto di numerose trasposizioni cinematografiche: la più famosa quella diretta da George Fitzmaurice del 19 con Greta Garbo nel ruolo di Mata Hari.

È passato un secolo, ancora nessuno sa chi era Mata Hari, scrive Lanfranco Caminiti il 13 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il 15 ottobre 1917 fu fucilata per tradimento. Castello di Vincennes – 15 ottobre 1917 – dove un tempo sorgeva un forte quasi distrutto dai prussiani durante l’assedio di Parigi del 1870. Alle sei e trenta di una fredda e nebbiosa mattina, un plotone di dodici soldati zuavi reduci dal fronte di guerra aspetta il comando dell’ufficiale per scaricare la sua fucileria. Di quei dodici fucili, uno è caricato a salve, come vuole il regolamento, perché ogni soldato possa pensare di non essere stato lui a tirare il colpo mortale. L’ufficiale si avvicina alla persona condannata a morte per coprire i suoi occhi con una benda. Lei, con un elegante gesto della mano, rifiuta. Guarda negli occhi i soldati, guarda negli occhi i suoi carnefici. Non ha paura. È stata svegliata poco dopo le cinque al secondo piano di Saint- Lazare, il penitenziario femminile di Parigi, cella numero 12. Le monache le hanno già comunicato, qualche giorno prima, che la domanda di grazia presentata al presidente francese è stata respinta. Si aspetta perciò questa sveglia improvvisa all’alba. È il suo nome, d’altronde, occhio dell’alba, in lingua giavanese: Mata Hari. Almeno, era il suo nome d’arte, quando calcava le scene dei palcoscenici di tutta Europa, perché all’anagrafe è registrata come Margaretha Geertruida Zelle, nata a Leeuwarden, Olanda, il 7 agosto 1876. L’altro “nome d’arte”, quello che le è stato dato dai tedeschi per i quali ha lavorato come spia è: agente segreto H21. È l’agente segreto H21, la donna che i soldati zuavi stanno per fucilare. Anche se tutti sanno che lei è la famosa Mata Hari. Mata Hari si è vestita con calma nel carcere femminile di Saint-Lazare, indossando un lungo cappotto dai risvolti di pelliccia sul suo kimono, mettendo i guanti di pelle nera, e rassettando i capelli che ha tenuto insieme con un fermaglio, e sui quali ha poi poggiato un cappello di paglia di Firenze, legandolo al mento con un nastro perché non voli. Ha quarantun anni. Della intrigante bellezza che ha fatto impazzire ufficiali e nobili, trafficanti e coreografi, artisti e faccendieri della Belle Époque dev’essere rimasta ancora qualche traccia – e poi, arrestata a gennaio, ha vissuto con dolore e disperazione i lunghi mesi del processo iniziato a giugno, pieno di voltafaccia e colpi di scena: sa da tempo d’essere giunta al capolinea della sua lunga corsa. Ma il fascino è rimasto intatto: è una donna alta, dai capelli scuri, gli occhi di giada e la carnagione olivastra – e benché abbia avuto due gravidanze, il corpo è ancora sensuale, flessuoso e agile. Dopo il breve tragitto dal carcere fino a Vincennes, i furgoni scortati dai dragoni a cavallo, Mata Hari è stata legata blandamente al palo dell’esecuzione – di certo lei non fuggirà, di certo lei non tremerà. La leggenda dice che proprio per mostrare quanto non abbia paura, Mata Hari d’improvviso faccia scivolare il suo lungo cappotto fino ai piedi e offra ai fucili il suo petto nudo. Vero o no, l’ufficiale, il maresciallo Petey, alza la sciabola, l’abbassa: fuoco. Degli undici colpi, otto vanno fuori bersaglio – forse un’estrema galanteria dei soldati francesi. Dei tre al corpo, uno colpisce una rotula, uno un fianco, il terzo va dritto al cuore. Il maresciallo Petey si avvicina per dare il colpo di grazia, anche se del tutto inutile. Poi annuncia: Mata Hari è morta. Un soldato zuavo, uno dei fucilatori, sviene. Colpevole o meno di tradimento, il processo a Mata Hari, in piena guerra e con uno stato maggiore che non sta proprio dando gran prova di sé sul piano militare contro un nemico tedesco straordinariamente capace, serve per rinsaldare il fronte interno. E salda i conti aperti nello spionaggio francese fin dal tempo del caso Dreyfus. Come ha scritto Julie Wheelwright, autrice di The Fatal Lover: Mata Hari and the Myth of Women in Espionage, dal momento della sua esecuzione l’esotica danzatrice Margaretha “Gretha” Zelle sposata MacLeod – universalmente nota come Mata Hari – è diventata sinonimo del tradimento sessuale femminile. Giudicata da un tribunale militare francese per passare segreti al nemico durante la Prima guerra mondiale, fu condannata come la “più grande spia del secolo”, responsabile di aver mandato alla morte più di ventimila soldati alleati. Ma il suo status di straniera – era, appunto, olandese – e di donna divorziata, assolutamente non pentita di avere dormito con ufficiali di tutte le nazionalità, ne fecero un perfetto capro espiatorio nel 1917. Era nata in una famiglia più che benestante, nella capitale della Frisonia, Olanda. Il padre era proprietario di un mulino, ma le sue speculazioni in affari di petrolio lo portarono sul lastrico e, senza un soldo, partì per l’Aia. La madre morì quando Greta aveva solo quindici anni, e fu data in custodia presso degli zii. A diciott’anni rispose a un annuncio di cuori solitari su un giornale quattro mesi dopo, era sposata a Rudolph “John” MacLeod, un uomo che aveva il doppio dei suoi anni, era un forte bevitore e era militare di stanza nell’esercito in India. Da un padre volgare finì nelle mani di un marito volgare. Il matrimonio fu rovinoso fin dall’inizio. Dopo la nascita del primo figlio, Norman, nel 1897, Greta e il marito navigarono verso le Indie orientali, dove la loro vita si spese per quattro anni in guarnigioni militari. La tragedia arrivò dopo la nascita della figlia, Non, quando entrambi i bimbi furono avvelenati: la piccola sopravvisse, il piccolo morì. Quando John poté andare in pensione, la coppia tornò in Olanda e si separò. È il 1902. Eppure questa “mangiauomini”, che ballò a La Scala di Milano e all’Opera di Parigi e nei salotti privati di mezzo mondo, era disgustata dal sesso. Nuovi documenti – finora i biografi avevano avuto accesso solo alla trascrizione del processo francese e alle sue lettere in prigione – gettano un’altra luce sulla sua vita: «Mio marito mi ha dato un tale disgusto per le cose sessuali che non posso dimenticarlo mai». Dal marito aveva contratto la sifilide, nelle Indie occidentali, e per precauzione la figlia Non era stata sottoposta alle cure di mercurio. Dopo la separazione lei ebbe la custodia della figlia, ma si rifiutò di pagare una intermediazione finanziaria, e la mancanza di sostegni familiari e l’assenza di una qualche attività professionale finirono per dare la bimba al marito. Decide così di andare a Parigi. Più tardi scrisse: «Pensavo che tutte le donne che si separavano dal marito andavano a Parigi». A Parigi, cercò in ogni modo di guadagnarsi rispettabilmente da vivere, sempre con l’obiettivo di riprendersi la bambina, dando lezioni di piano, insegnando il tedesco, facendo la dama di compagnia, e come commessa in un negozio di abbigliamento. Meno rispettabile, ma più remunerativo era lavorare come modella per pittori di Montmartre. Ritorna brevemente in Olanda, come comparsa in una compagnia di teatro, ma confessa in una lettera di “dormire con uomini” per denaro. Fa la ballerina al Perroquet bleu, esibendosi in una «danza delle bayadere». E qui s’incontra la sua genialità con quella di un impresario che vede in lei l’incarnazione di un desiderio d’Oriente: Gretha s’inventa ascendenze indiane, di avere partecipato a segreti riti e d’avere imparato le movenze di danze sacre – ci sono i gesti, c’è la caduta dei veli e la nudità finale. L’occidente non vede l’ora di perdere la testa per l’oriente. Gumet mette intorno ai gesti lascivi di Gretha vasi, décor, musiche, tende, gioielli, crea una mistica. È così che nasce il mito di Mata Hari. Qualcosa che era nell’aria e che d’improvviso prende corpo in una donna, in un corpo, in una danza. Tra il 1904 e il 1906, Mata Hari calca i palcoscenici più importanti, viene contesa dagli impresari più grandi, desiderata da tutti gli uomini. E lei passa dalle braccia di un barone tedesco a quelle di un imprenditore francese, da un nobile spagnolo a un ufficiale inglese o russo. È all’apice del successo. Poi, vive di rendita. Quando i colpi di pistola di Sarajevo pongono fine alla Belle Époque e danno inizio alla Grande guerra, viene reclutata dai tedeschi. Vogliono sapere di impianti industriali, lei che è dentro quel mondo, di segreti militari – gli uomini a letto parlano, si vantano, sono tronfi. I sospetti cominciano a aleggiare su di lei: i francesi provano a tenderle una trappola, lei si offre per un doppio gioco. Spera di tornare in Olanda, e così salvarsi. L’attirano in un tranello, e forse sono gli stessi tedeschi a disfarsene perché è ormai “bruciata”, oppure commettono una grave imprudenza utilizzando un codice di trasmissione che era stato già decifrato. Insomma l’arrestano. È la fine. Eppure, inventandosi quel passato orientale, quella conoscenza di riti e di culti, fu proprio Gretha la vera creatrice di se stessa e di un proprio doppio, Mata Hari. È questa forza d’animo, questa capacità di reinventarsi ogni volta, di risollevarsi dalla disperazione, non importa quel che costi, che fa di Gretha Zelle un personaggio così straordinario, così moderno. Mata Hari era una donna forte, e questo è un giudizio che va oltre le sue azioni, reali o presunte.

LA CASTA DELLE PAPI GIRLS E DINTORNI.

Berlusconi, onda rosa su Forza Italia: non solo Carfagna, chi sono le donne che si prenderanno il partito, scrive l'11 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". In vista della prossima tornata elettorale, ancora una volta, Silvio Berlusconi punta sulle donne. E in queste ore sta mettendo a punto la nuova e ricca squadra di donna da far scendere in campo per le prossime elezioni. Imprenditrici, libere professioniste, blogger, giornaliste e amministratrici locali. "In questa direzione" si legge in un articolo de Il Mattino, "vanno le cene ad Arcore con tavolate di personalità espressione della società civile. Ma sempre di più si afferma il principio di rovesciare il concetto delle quote previsto per legge. Non si tratta del consenso femminile di cui il Cavaliere ha sempre goduto, ma del plusvalore dovuto alla iniezione di una forte componente di genere. Donne belle, in carriera. Altro che quote rosa del 40%, appunto: semmai le quote servono a preservare la presenza maschile nelle liste". C'è il nutrito gruppo delle ex ministre: da Mara Carfagna a Anna Maria Bernini, da Mariastella Gelmini a Stefania Prestigiacomo e Nunzia De Girolamo e Michela Vittoria Brambilla, leader del partito animalista. Ci sono poi le europarlamentari che vorrebbero tornare in Italia: Elisabetta Gardini e Lara Comi. Tra le imprenditrici spicca Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria, Lisa Ferrarini titolare dell'omonima impresa, vicepresidente di Confindustria per l'Europa, e la ex europarlamentare azzurra Luisa Todini. "Volti nuovi in arrivo da Comuni e Regioni" continua l'articolo, "il vero bacino nel quale il Cavaliere pescherà risorse fresche e rodate per dare corpo alle liste". E poi le new entry, le nuove leve su cui punta il Cavaliere: Anna Pettene, moglie del presidente di Erg Edoardo Garrone, la poco più che trentenne Paola Tommasi, economista che ha lavorato con Renato Brunetta e che ha anche fatto parte dello staff di Donald Trump. 

Fare sesso per fare carriera? Scrivono su "Il Fatto Quotidiano" del Lunedì 1 aprile 2015 Elisabetta Ambrosi e Lia Celi.

Più che alla morale occhio alle complicazioni di Elisabetta Ambrosi. Una bufera di critiche, di accuse di scorrettezza politica e di bieco maschilismo si è rovesciata sulla chirurga vascolare Gabrielle McMullin, rea di aver affermato che, per far carriera, le donne devono essere anche disposte anche a qualche richiesta sessuale. Ma quello che i detrattori della dottoressa australiana non hanno capito è che la sua affermazione non era un auspicio, insomma un ‘dover essere’ (‘opportuno e giusto fare sesso con i capi’) ma una constatazione di fatto: se fai sesso con i capi, fai anche più carriera. Talmente vero da apparire banale, anche se non andrebbero sottovalutati fastidiosi effetti collaterali – proprio sul lavoro – quando la relazione si interrompe. Più interessante allora sarebbe stato però esplorare un altro aspetto del dilemma: posto che una decida di scopare col superiore, scelta libera in un Paese libero, com’è meglio farlo? Con astuto cinismo, come una specie di fastidioso straordinario, o con coinvolgimento sentimentale (accade, siamo umani, oltre al fascino del potere)? Non sempre è una scelta e normalmente la versione A – distacco completo e obiettivo solo strumentale – è molto rara, perché, nonostante i moralisti la propongano come l’immagine classica della donna avida di carriera che sfrutta qualsiasi mezzo, la realtà è impastata di ambiguità: e dunque di avances affettuose, gratificazioni narcisistiche reciproche, mezzi innamoramenti, a volte persino amore: insomma più spesso il sesso in ufficio appare così. Invece di gridare allo scandalo, allora, sarebbe meglio restare lucide sulle inevitabili ricadute anche professionali, della fine della storia. Se dunque esiste una vera obiezione all’evitare il letto del capo, non è morale, ma pratica. Non fate sesso col superiore perché a volte – altro che benefici- le complicazioni successive (anche sulla carriera) sono molte di più.

A letto con il capo? L’uomo non esiterebbe di Lia Celi. Ma l’avete visto quanto è bella Gabrielle McMullin, la chirurga australiana secondo cui ogni donna è seduta sulla sua meritocrazia e non lo sa? Una splendida 60 enne tipo Julie Andrews che irradia empowerment e autorevolezza. Il discorso “se il capo ve la chiede dàtegliela, na lavada, na sugada, la par nanca duperada” (non è il motto sull’ultima felpa di Salvini ma un cinico proverbio milanese, “una lavata, un’asciugata e non pare neanche usata”) ce lo saremmo aspettate da un’Olgettina o da una Biancofiore, per chi sa cogliere la sottile differenza. La dottoressa si riferiva in particolare alle stagiste e citava il caso di una giovane specializzanda che per aver denunciato le avance del suo supervisore ha perso il posto cui aspirava. Stop alla carriera, conclamata quanto rovinosa fama di cagacazzo: vale la pena, o è meglio chiudere gli occhi e pensare al proprio futuro? La Realpolitik della passera vale ancora, e a parti ribaltate gli uomini non si farebbero scrupolo a barattare una scopata con una promozione, perché badano al sodo e non dubitano che il loro coso resti come nuovo. Ma quando mio figlio è sul tavolo operatorio non voglio dover pensare che la anestesista che gli sta iniettando qualcosa di potenzialmente letale ha ottenuto quel lavoro non perché era la più competente in anestesiologia, ma perché è andata a letto col primario. Questo non esclude che sia anche competente, ma il dubbio mi induce a diffidare automaticamente di lei e di tutte le donne in ruoli di responsabilità, specie se giovani e belle, e di volere al loro posto dei maschi, che possono far carriera senza puntare sulla libido altrui. Almeno in Australia e nell’Occidente civilizzato. In Italia gli uomini devono puntare su parentele e raccomandazioni. E se fai carriera col sesso almeno devi scopare di tuo, se la fai con gli appoggi strumentalizzi papà ministro e amici di famiglia, che è anche più sporco. Da il Fatto del Lunedì, 23 Marzo 2015

Berlusconi e il video con le olgettine: «Papi, facci lavorare in tv» e lui: «Impossibile, non conto nulla». Di Valentina Baldisserri - di Valentina Baldisserri /CorriereTV del 20 luglio 2018. «Io non sono presidente di niente a Mediaset, sono fuori da Mediaset da 18 anni». È così che Silvio Berlusconi, ripreso di nascosto col telefonino da una delle ragazze delle serate ad Arcore e seduto su un divano di villa San Martino, risponde alla pressanti richieste, definite «impossibili» dallo stesso ex premier, di alcune giovani in casa con lui che gli chiedono un lavoro in tv. Il video, di cui l’Ansa è venuta in possesso, è stato realizzato a metà del 2011, quando l’inchiesta sul caso Ruby era già scoppiata, depositato agli atti del processo Ruby ter e finora mai diffuso. «L’isola non l’ho fatta (...) il film che dovevo fare con Massimo Boldi l’hai dato a lei», dice una delle ragazze. E Berlusconi: «Non l’ho dato io». E un’altra giovane, presumibilmente Marysthell Polanco che riprende, dice: «Io un contratto e basta, papi, è quello che mi serve (...) tu sei il presidente del Consiglio d’Italia, proprietario comunque di Mediaset». E lui: «Sì hai visto cosa mi fanno? Presidente del Consiglio d’Italia...». L’allora premier, parlando con le giovani davanti a lui, come si vede nel video della durata di 27 minuti circa, di fronte al pressing incessante delle ragazze prova a tranquillizzarle, mentre loro gli fanno notare di continuo che nei vari programmi tv lavorano altre e non loro. «Per quanto riguarda Marysthell - spiega il leader di FI - va dentro `Colorado´». E Polanco: «Ma io vado a `Colorado´ e che cosa devo fare perché so che c’è la Belen che presenta (...) mettimi a Sipario (...) ma un contratto almeno di un anno valido non di due mesi». E ancora: «Non è che ti chiedo tanto papi». E lui, accasciato sul divano e all’apparenza stanco della `questua´ continua, le risponde: «Tu chiedi cose impossibili, che non posso fare, tieni presente che la televisione non è la mia». Polanco, a un certo punto, alza la voce. «Io non lavoro solo perché è successo questo casino qua», dice riferendosi all’inchiesta appena scoppiata sulle serate del “bunga-bunga” e alla loro «immagine» rovinata, perché vengono definite le «ragazze di Berlusconi». «Fai una cosa, dì a tuo figlio a Mediaset, digli `fai una carità´ anche se lui ci odia (...) se lui dice domani `io voglio quella che faccia questo programma´...». dice poi Marysthell Polanco. L’allora premier, come emerge dal filmato, cerca di spiegare alle ragazze che certamente loro sono state danneggiate, ma «io sono stato colpito più di tutti perché dopo una vita di lavoro sono distrutto come immagine nel mondo, perché sono quello del “bunga-bunga”, tutto quello che ho fatto come statista, come politico, ho evitato la guerra tra la Russia e la Georgia...». Il video è stato depositato da tempo agli atti del procedimento con al centro l’accusa di corruzione in atti giudiziari perché, secondo il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, Berlusconi avrebbe comprato con milioni di euro il silenzio o la reticenza delle ragazze, Karima El Mahroug compresa, che hanno testimoniato nei casi Ruby e Ruby bis parlando di «cene eleganti». Il processo, rimasto al palo per tanti mesi, non è ancora di fatto iniziato e la prima vera udienza è fissata per il 24 settembre. Tre le giovani parti civili e testimoni chiave dell’accusa: Imane Fadil, Ambra Battilana e Chiara Danese. Nel filmato Berlusconi prova a spiegare alle “olgettine” che stanno reagendo in malo modo allo scandalo esploso sui media di tutto il mondo: «Non dovete affrontarla con questo spirito (...) è come si ci fosse venuta addosso un’automobile, è chiaro, non è una cosa che abbiamo voluto, nessuna di voi l’ha voluto e tanto meno l’ho voluto io». E ancora: «Dobbiamo vedere in che modo uscirne con tranquillità, io vi avevo detto `andate via in vacanza per un po´ di mesi’ (...) vi divertivate in una casa che vi ho messo a disposizione ad Antigua».

La Casta delle Papi girls. Ben pagate, poco attive e spesso assenti: ecco cosa hanno fatto e quanto hanno guadagnato le fanciulle lanciate in politica da Silvio. Dalla Giammanco alla Pascale, dalla Carfagna alla Minetti, scrive su "L'Espresso" Emiliano Fittipaldi, ha collaborato Claudio Pappaianni, il 21 settembre 2011. A Montecitorio Gabriella Giammanco è arrivata nel 2008. Giornalista al Tg4, viene imposta da Silvio Berlusconi nelle liste elettorali siciliane. Nipote del boss mafioso Michelangelo Alfano, negli ultimi tre anni (stipendio più indennità 14 mila euro al mese) ha firmato solo 11 interrogazioni parlamentari. Quasi tutte riguardano animali: il 5 marzo 2011 ha chiesto conto e ragione della morte "della cavalla Tiffany al Palio di Ronciglione", il 15 febbraio ha spiegato all'aula che "il circo Embell Riva" non riusciva "a rientrare dalla Siria". Problemi anche per il circo Bellucci rimasto bloccato in Tunisia in mezzo ai tumulti. "Le tournée all'estero dei circhi italiani si stanno confermando come dei veri e propri incubi per gli animali!", ha chiosato indignata la deputata fidanzata con Augusto Minzolini, che pure riempie di bestiole la scaletta del suo Tg1. Epperò, la giornalista lo batte: mozioni o proposte di legge che siano, la Giammanco parla sistematicamente di "fringuello, peppola, frosone, pispola e pispolone (uccelli, ndr.)" o discetta dell'affidamento degli animali in caso di separazione di una coppia. A tre anni dalle elezioni politiche e a due da quelle europee oggi è possibile tirare le somme, e fare un primo bilancio della classe dirigente femminile su cui ha puntato il Cavaliere per governare l'Italia. Tra le varie tipologie di Papi girls, sono quelle che Veronica Lario detestava di più. Le raccomandate, e le ragazze dello show-biz lanciate in politica per il "divertimento dell'Imperatore". Il premier s'è sempre difeso, sottolineando che le sue candidate erano purosangue di razza, laureate con 110 e lode, "insomma preparatissime". Eppure, dati alla mano, in Parlamento, a Strasburgo, nei consigli regionali o provinciali, negli assessorati, quasi nessuna delle favorite pagate con soldi pubblici sembra aver lasciato il segno. Partiamo dal basso. Nel senso geografico: dalla Campania. Mara Carfagna è quella che ha fatto più carriera di tutte. Oggi è ministro. Per le altre, è un mito. Anche perché ha indicato la strada giusta. Per fare politica non bisogna esagerare. Mai pretendere deleghe al Bilancio, puntare sulla Sanità o su incarichi in uffici economici, dove il lavoro è troppo complesso e noioso: le girls di Silvio preferiscono occuparsi di parità tra i sessi, di problemi delle donne, di animaletti. Come Giovanna Del Giudice, 27 anni, ex meteorina al Tg4 e billionerina di Flavio Briatore, nominata dal presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro assessore, appunto, alle Pari opportunità. Dal giorno del suo insediamento, il 7 luglio 2010, periodo in cui ha guadagnato 2.500 euro al mese circa, ha firmato solo otto delibere. Una ogni due mesi e mezzo. In un anno s'è vista a un workshop per le "relazioni con la Palestina" (l'ex velina ha addirittura le deleghe alla Cooperazione internazionale), s'è occupata del progetto "Tifare Humanum Est" e ha promosso il concorso "Mai più violenza sulle donne" di cui non s'è saputo più nulla. Il suo staff? Due dipendenti della provincia e tre collaboratrici. Emanuela Romano, 30 anni e laurea di psicologia, è famosa per essere la co-fondatrice del comitato Silvio ci manchi e perché il padre Cesare minacciò di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli. Nel 2010 è stata lanciata come assessore alle Politiche sociali di Castellammare di Stabia. Stipendio da 1.800 euro al mese, in sei mesi nessun atto o intervento di rilievo. Si fa notare a inizio 2011, quando abbandona la carica preferendo una poltrona al Corecom, un ente regionale che ha il compito di monitorare il sistema delle comunicazioni. Servirebbe un esperto, la Romano può sventolare il suo master in Publitalia. Lo stipendio sale, oltre 2 mila euro al mese. La ragazza è felice, ma non sa che si sta cacciando in un guaio. I pm di Napoli infatti la indagano per falso in atto pubblico. Giovanna s'è dimenticata di segnalare, presentando la candidatura al Corecom, che era ancora assessore: le cariche sono incompatibili. Anche l'amica Virna Bello, detta la "Braciulona", fotografata sull'aereo presidenziale in rullaggio verso Villa Certosa, ha una storia simile. Pochi, dimenticabili mesi come assessore all'Istruzione a Torre del Greco, poi un'assunzione nella società Campania Navigando. Contratto ottenuto senza alcun concorso: così dopo appena due mesi, quando la società viene assorbita da Italia Navigando, la "Braciulona" viene licenziata in tronco. Chi non rischia di rimanere disoccupata è invece Francesca Pascale, la preferita tra le preferite delle Papi girls campane. Da molti è indicata come la vera fidanzata di Berlusconi: l'ultima foto abbracciata con il Cavaliere risale al 12 giugno, quando i duefurono pizzicati a Villa Certosa dall'obiettivo di Antonello Zappadu. Ex valletta del programma trash "Telecafone", eletta come consigliere Pdl alla provincia di Napoli con 7.600 voti, la Pascale nel 2010 è stata assente in aula il 49 per cento delle volte (14 su 30), mentre nel 2011 le presenze si contano su una sola mano. A lei, probabilmente, dei gettoni da quattro soldi che prendono i consiglieri non frega nulla, tanto che s'è trasferita a Roma, in un elegante condominio con piscina in zona Trionfale di proprietà dell'immobiliare Dueville: società, manco a dirlo, di Silvio Berlusconi.

Saliamo un po' più su, nella capitale. Vicino alla Giammanco è seduta Mariarosaria Rossi, organizzatrice di feste al Castello di Tor Crescenza affittato dal premier, intercettata mentre parlava del bunga bunga con Emilio Fede (era di casa anche ad Arcore). In tre anni il suo carniere da deputata è quasi vuoto: una sola proposta di legge come primo firmatario (le uniche che contano: a sottoscrivere la proposta di un altro son bravi tutti), nessuna mozione, interrogazione o risoluzione. Zero di zero. Presente però quasi sempre - giusto sottolinearlo - quando bisogna votare e spingere il pulsante. Invece Elvira Savino, l'amica di Sabina Began e Gianpi Tarantini, nell'emiciclo s'è vista pochino: una volta su tre non c'era. Per problemi di salute del figlio piccolo. In oltre tre anni ha firmato appena quattro interrogazioni e quattro proposte di legge (cioè una ogni 140 giorni), ma in compenso s'è fatta notare nelle pagine di cronaca giudiziaria: prima è stata accusata di aver agevolato operazioni finanziarie sospette compiute dal un riciclatore del clan mafioso dei Parisi, poi il suo nome è finito nell'inchiesta su Tarantini: in alcune intercettazioni la deputata è stata sorpresa a parlare con Gianpi di un possibile rendez-vous tra Berlusconi e la soubrette Carolina Marconi. A Milano la Papi girl che Silvio ha voluto nel listino bloccato per le Regionali è Nicole Minetti. Su di lei s'è scritto di tutto: specializzata in igiene orale, in lap dance e travestimenti (pare che si vestisse da suora per sollazzare il Capo), al Pirellone (dove guadagna oltre 10 mila euro al mese) ha co-firmato un progetto di legge per la "valorizzazione del patrimonio storico risorgimentale in Lombardia" e 14 mozioni, tra cui quella sulle nuove norme per gli acconciatori. Una sola interrogazione scritta di suo pugno: la Minetti vuole sapere da Formigoni quali sono i risultati di un progetto pilota sul Papilloma virus iniziato un anno prima. Infine, c'è la classe dirigente mandata al Parlamento europeo. Barbara Matera, ex "letteronza" di "Mai dire gol" e annunciatrice Rai, laureata in scienze dell'educazione, secondo alcune classifiche ad hoc è una delle deputate italiane più attive a Strasburgo. Anche Laura Comi si difende bene: nessuno, anche tra i colleghi dell'opposizione, osa parlarne male. La terza Papi girl lanciata in Europa è Licia Ronzulli, una habitué delle feste di Villa Certosa. Barbara Montereale la indicò come responsabile "della logistica dei viaggi delle ragazze: è lei che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze". A Strasburgo non ha mai scritto una relazione (il documento più impegnativo), ma ha presentato tante interrogazioni. Nel 2011 ha chiesto informazioni "sull'utilizzo del cloro nelle piscine", sulla "tratta di cuccioli nell'Europa dell'Est", sulla "lotta all'abbronzatura artificiale selvaggia", sul "contrasto al culto eccessivo della magrezza", senza dimenticare "il monitoraggio del buco dell'ozono", "il contrasto ai disturbi del sonno", "la salvaguardia delle ostriche", e "il silenzioso sterminio dei rinoceronti in Africa australe". Stipendio netto: circa 15 mila euro al mese.

Dire «Papi-girl» non è diffamatorio. Giornalisti assolti ad Avellino, scrive il 25 settembre 2013 "Il Corriere del Mezzogiorno". Rigettata la querela presentata dall’ex politica del Pdl Emanuela Romano. L'espressione «Papi Girl» è ormai parte del lessico politico e giornalistico. E definire «Papi girl» una giovane e bella ragazza che ha fatto carriera in politica nel Pdl dopo aver frequentato feste e ville di Silvio Berlusconi non è diffamazione «ma giudizio di espressione di una critica politica». Come riporta «Il Fatto Quotidiano», in un articolo firmato da Vincenzo Iurillo, il gup di Sant’Angelo dei Lombardi, Fabrizio Ciccone, ha rigettato la querela presentata dall’ex assessore azzurra alle Politiche Sociali di Castellammare di Stabia, Emanuela Romano, co-fondatrice insieme alla partenopea Francesca Pascale - oggi fidanzata ufficiale di Berlusconi - del frizzante comitato tutto al femminile «Silvio ci manchi».

PROSCIOLTO IL DIRETTORE DI METROPOLIS - «Prosciolti perché il fatto non sussiste» il direttore del quotidiano stabiese «Metropolis», Giuseppe Del Gaudio, e il giornalista Giovanni Santaniello, autore dell’articolo «La Papi girl finisce alla sbarra», entrambi difesi dagli avvocati Vincenzo Propenso e Luca Sansone. Erano stati querelati per aver pubblicato una notizia anticipata su ilfattoquotidiano.it: il rinvio a giudizio della Romano accusata di aver attestato falsamente di non avere incarichi in giunta al momento di presentare la domanda per concorrere al Corecom, nomina poi ottenuta. La Romano si era arrabbiata soprattutto per quell’appellativo, «Papi-girl», che proprio non digeriva: i suoi avvocati avevano già inviato una diffida per un precedente articolo: “Bobbio, ecco la giunta. C’è anche una Papi girl’.

LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA - In otto pagine di motivazioni il giudice ricostruisce genesi e significato dell’espressione «Papi girl», inserita peraltro nel «Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica» pubblicato da Lorenzo Pregliasco per Editori Riuniti. «Il Tribunale osserva che con l’espressione giornalistica Papi-girl, di cui si duole la parte offesa, si vuole indicare quel gruppo di giovani e belle ragazze che negli ultimi anni sono balzate agli onori della cronaca per avere intessuto rapporti di amicizia e di frequentazione con l’ex presidente del Consiglio Berlusconi, e che in alcuni casi hanno rivestito importanti cariche nelle istituzioni, locali e nazionali, spesso contraddistinguendosi per una forte identificazione personale e politica nella figura del Presidente Berlusconi».

LA QUERELA - Nella querela la Romano si era lamentata del titolo e di alcune considerazioni riportate nell’articolo. «Metropolis» scrisse che la sua fortuna politica dipese «dalla presenza a Villa Certosa in compagnia dell’allora premier Berlusconi» dal quale avrebbe ricevuto «la promessa di essere inserita nella lista Pdl per le europee». E dopo il tentativo di suicidio del padre, che minacciò di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli per la mancata candidatura della figlia, «nel 2010 (la Romano, ndr) fu ricompensata con una poltrona nella giunta Pdl a Castellammare» anche perché «la pupilla di (nell’ordine di importanza) Berlusconi, Cosentino, Cesaro e Bobbio (all’epoca sindaco di Castellammare, ndr)». Passaggi che secondo il giudice non hanno portata diffamatoria.

IL DECLINO DELLE "PAPI-GIRL" - DECADUTE, SENZA SOLDI E LAVORO: LE RAGAZZE DELLE “CENE ELEGANTI” SE LA PASSANO MALE - L’APE REGINA BEGAN VIVE A ROMA MA NON SI SA A FARE COSA - LA POLANCO VIVE ALL’ESTERO, LE GEMELLE DE VIVO SONO TORNATE A NAPOLI, BARBARA GUERRA E’ STATA CONDANNATA PER DIFFAMAZIONE A BARBARA D’URSO - SOLO NICOLE MINETTI E RUBY SE LA PASSANO BENE…

Estratto dell’articolo di Davide Milosa per il “Fatto Quotidiano” del 25 aprile 2018

Decadute, partite, in alcuni casi senza più soldi, con una carriera da showgirl mai iniziata, a barcamenarsi tra reality sgonfi di audience, comparsate, o addirittura a fare i conti con la giustizia. Con le "cene eleganti" finite sul banco morale degli imputati, anche le olgettine o papi-girl, seguono inesorabilmente il declino del loro pagatore e anfitrione. […]

Chi ricorda Noemi Letizia, giovanissima partenopea al fianco di Silvio nel 2009? […] E invece tutto lo sciame che per anni ha abitato nel palazzo a Milano 2 in via Olgettina? Quello che una di loro, Ioana Visan, chiamò "il clan delle belle gnocche"?

La grintosa Marysthell Polanco […] si è innamorata di un campione della pallacanestro ed è volata all'estero. E poi c' è lei, Ruby. […] Andata in Messico, dopo l'addio al marito Luca Risso, una figlia e, molti sussurrano, tanti soldi, pagati chissà dove e chissà come, per tenere il silenzio. […]

E poi c'è Nicole Minetti, igienista dentale, volata in Regione nel 2010 e protagonista delle notti di Silvio. Oggi, Nicole, dopo la burrasca giudiziaria del Ruby bis, vive, senza alcun problema economico, tra l'Italia e l'estero, soprattutto a Ibiza, corteggiata dagli stilisti. […]

Sabina Began , […]soprannominata l'Ape regina, […]è una della prima ora. […] Le ultime tracce, oltre che in tribunale, la raccontano molto dimessa e a passeggio per Roma. […]

Qui troviamo le gemelle De Vivo […] senza quattrini, più volte lo hanno dichiarato e ora rientrate a Napoli. […] Barbara Faggioli ha incrociato il destino di Danilo Gallinari, campionissimo del basket nostrano ora acclamato in Nba.

[…] Roberta Bonasia la quale, per voce dei fedelissimi del Cav. era finita nelle sue grazie più di tutte. […] oggi […] tira a campare anche coi soldi dei genitori. Insomma niente più denaro, né ville né contratti.

Francesca Cipriani ci ha provato recentemente con l'Isola dei famosi. Come lei, ma al Grande fratello, Giovanna Rigato, la quale, dopo aver visto sfumare un contratto Mediaset, medita di andare all' estero.

[…] Cinzia Molena ha recitato in Centovetrine. Dopodiché non l'hanno più chiamata. Finisce in tribunale Barbara Guerra. Dalla villa di Bernareggio, altro regalino di papi, alla condanna per diffamazione nei confronti di Barbara D'Urso. La Guerra intanto sogna la moda e una linea di intimo femminile.

Le redente di Villa Certosa: le Papi-girl mettono la testa a posto, scrive su Donne di Fatto Quotidiano l'8 settembre 2013 Flavia Perina, Giornalista. Ve le ricordate? Erano le icone dell’Italia femmina scatenata e rampante, i volti dello yuppismo in short e autoreggenti, la gioventù bruciata del berlusconismo, tra il 2008 e il 2012, quando il Cav poteva governare da solo e non per interposta persona. Noemi, Sabina, Sara, Nicole e le altre, le pupe del capo, che riempivano le trasmissioni televisive con le loro spericolate interviste sulla vita, gli uomini, la politica, e ovviamente sull’indiscutibile grandezza ed eleganza di Silvio. Finita la festa, sono state adeguatamente pensionate ed è curioso leggere le interviste in cui si reinventano come educande delle Orsoline, tutte casa, marito e famiglia. Noemi, ci racconta Oggi, «sta per laurearsi e aspetta un bimbo dal suo Vittorio». È «molto diversa dal passato. Capelli naturali schiariti dagli shatush, neanche un filo di trucco, dimagrita nonostante la gravidanza». La minorenne di Casoria che coniò l’immortale nomignolo di Papi, è un po’ scocciata perché i suoceri sono diffidenti, ma passerà: non sembra poi un dramma, se confrontato con le invettive di Veronica. Incinta pure Sara Tommasi. Lo racconta il suo fidanzato, Fabrizio Chinaglia. Chiosa il settimanale che ha dato la notizia: «Alle viste un nuovo inizio per l’ex showgirl redenta». Sabina Began si reinventa come manager dei diritti sportivi, con venature femministe: «Mi impegno in quello che faccio, non vendo il mio corpo, anche se sono attratta dagli uomini nascondo questo mio lato, voglio essere apprezzata per il mio cervello». La Minetti si rimette col penultimo fidanzato, cancella il suo sito, il profilo facebook e ogni traccia di sé dal web e sparisce a Ibiza. Dice che vuole trasferirsi in America. Un nuovo inizio pure per lei. Insomma, hanno tutte messo la testa a posto, o forse si sono solo rassegnate. Chissà a cosa aspiravano, chissà cosa si immaginavano per il futuro solo un paio di anni fa: conduttrici di prima serata, parlamentari, ambasciatrici, fidanzate ufficiali dell’uomo più ricco d’Italia. E tutta quella fatica, quelle notti bianche, la chirurgia estetica, le litigate furiose con le concorrenti, l’incubo di un chilo di troppo o di una ragazza nuova, per cosa? Per finire ai giardinetti con il pupo? Dovranno farsene una ragione. Il Bunga Bunga non si porta più. È l’epoca delle larghe intese e, quindi, della civile mediazione tra il modello Marysthell Polanco e il modello Rosy Bindi. Le vecchie bandiere della guerra contro “la sinistra bacchettona e moralista” – sì, le signorine furono anche questo, magari a loro insaputa – sono stati ammainate, e pure con una certa vergogna. A nessuno fa piacere ricordare che ci fu un tempo in cui 314 parlamentari votarono su Ruby nipote di Mubarak. Noemi e le altre dovranno rassegnarsi a una second life a bassa intensità e a farsi piacere l’impensabile, le scarpe basse e magari pure il grembiule, non per lo spettacolino di burlesque ma per lavare i piatti.

La fedeltà a orologeria delle Papi girl, scrive il 27 febbraio 2011 Marco Lillo, Giornalista e scrittore, su "Il Fatto Quotidiano". C’è una domanda alla quale nessuno sa rispondere. Perché le ragazze di Silvio Berlusconi non parlano? Secondo le ultime intercettazioni sarebbero ottanta quelle che avrebbero avuto rapporti a rischio con Papi. Ognuna di loro potrebbe descrivere quello che accade davvero nei sotterranei di Arcore e invece tutte continuano a recitare il mantra delle feste eleganti anche se nelle intercettazioni svelano di avere fatto il test anti-Aids, malattia che finora nessuno sapeva si trasmettesse bevendo Coca light. Nessuna di loro ha visto Ruby nelle tante notti trascorse dalla minorenne marocchina nella villa San Martino e nessuna ha mai sentito parlare di bonifici, buste piene di banconote, appartamentini e Mini Cooper fiammanti in cambio di sesso. Tutte restano mute e quando aprono bocca è solo per spandere generosità, eleganza e bontà sul santino di Silvio. Le uniche eccezioni alla regola sono le classiche voci dal sen fuggite come quella di Sara Tommasi. Una possibile spiegazione è: le ragazze non parlano perché continuano a essere pagate. Come dimostrano i bonifici ad Alessandra Sorcinelli versati dal conto del Cavaliere proprio nei giorni in cui la ex meteorina deponeva in Questura sul Bunga Bunga. La motivazione economica però non basta a spiegare il muro del silenzio che protegge il premier. Sommando le ragazze del giro romano, quelle napoletane, le baresi di Tarantini e le milanesi, si arriva a un centinaio. Non tutte sono a libro paga di Silvio, tutte però sanno di poter chiedere all’uomo più potente d’Italia una particina in una fiction, una comparsata in uno show, un ruolo in un reality, una raccomandazione per entrare in qualche grande società o in uno studio legale associato e intanto sorridono compiacenti al Cavaliere che le potrà aiutare. Male che vada, se proprio non si trova altro, c’è la candidatura in politica. Eppure anche questa attesa di una possibile ricompensa non basta a spiegare del tutto la cupola di omertà che avvolge i festini del Cavaliere. La verità è che molte ragazze non parlano perché sentono che sarebbe, oltre che controproducente, anche ingiusto, secondo il loro codice di valori che purtroppo è condiviso da una larga fetta della società. Per capire lo scandalo Ruby non bisogna guardare solo al “Drago”, per dirla con Veronica Lario, ma anche alle “vergini”. Non c’è solo la malinconica figura di un settantenne imbolsito che mente a sé stesso dicendo: “io non ho mai pagato una donna”, c’è anche una pletora di ragazze che non si fa scrupoli a vendere corpo e dignità per soldi, benefit e soprattutto ruoli pubblici e di spettacolo. Se analizziamo tutti i personaggi del fumettone di Arcore bisogna ammettere che le protagoniste femminili non fanno una bella figura. Prendendo in prestito la catalogazione stringata ma efficace di Nicole Minetti, non si trova “una zoccola, una sudamericana che non parla italiano e viene dalle favelas. Né una po’ più seria, né una tipa via di mezzo”, che abbia la dignità di dire “ho fatto parte di questo giro del presidente del consiglio e vi dico che fa schifo”. L’unica che ha detto qualcosa di simile è stata Sara Tommasi ma lo ha fatto solo dopo essere entrata in una profonda crisi psicologica. La stessa M.T., l’amica d’infanzia di Nicole Minetti che racconta al telefono e poi a verbale ai pm di essere rimasta turbata dal Bunga Bunga, non disdegna di intascare la busta con le banconote di Papi uscendo da Arcore. Anche Patrizia D’Addario non può certo essere definita un personaggio positivo. La escort di Bari svela il giro di prostituzione intorno alle residenze del premier solo per puro istinto di vendetta e non di giustizia. Si decide a parlare con giornalisti e magistrati solo quando capisce che Silvio Berlusconi ha fatto sesso con lei e non l’ha retribuita né con una candidatura, né con lo sblocco del suo cantiere a Bari. Non c’è una sola donna che parli di Papi per seguire impulsi antichi come la dignità, la pulizia, l’onore e la verità. Nessuna, soprattutto, che abbia in minima considerazione il versante pubblico di questa triste storia: il danno che il premier fa alle istituzioni e alla vita pubblica offrendo candidature e ruoli televisivi a escort, prostitute e mantenute. L’unica eccezione in questo scenario squallido è Veronica Lario. La scelta della signora di Macherio è un’eccezione anche rispetto alle altre donne che hanno puntato il dito contro i loro uomini negli scandali della recente storia italiana. Da Laura Sala (la moglie di Mario Chiesa), passando per Stefania Ariosto, per arrivare fino alla ex del sindaco di Bologna Flavio Delbono, Cinzia Cracchi, tutte hanno parlato solo dopo essere state lasciate dal proprio uomo o fatte fuori dal suo giro. Con l’unica eccezione forse di Stefania Ariosto, le grandi accusatrici non denunciano mai il malaffare dei loro uomini per un senso di onestà, ma usano la giustizia per vendicarsi delle ferite al proprio orgoglio femminile. La molla che le fa scattare non è mai pubblica ma sempre privata. Non reagiscono come cittadine, ma solo e soltanto come donne. Se Mario Chiesa avesse accettato di spartire il bottino con la moglie concedendole il mantenimento richiesto, non sarebbe scoppiata Mani Pulite. Se il sindaco di Bologna Flavio Delbono non si fosse innamorato di un’altra, Cinzia Cracchi (che oggi sfila alla manifestazione delle donne contro Silvio Berlusconi) avrebbe continuato allegramente a viaggiare a sbafo con lui e Delbono probabilmente sarebbe ancora sindaco. Stefania Ariosto è stata forse l’unica testimone con una motivazione etica, ma anche lei probabilmente non avrebbe mai raccontato le buste di Cesare Previti ai magistrati se non fosse stata tenuta ai margini dal giro di Berlusconi. Per sapere la verità sui festini del Cavaliere probabilmente bisognerà aspettare che una donna si senta tradita dal premier nel privato. Forse Nicole Minetti è l’unica che si avvicina all’identikit. Quando la sua rabbia monterà abbastanza e magari la legislatura in Regione Lombardia volgerà al termine, potrebbe essere proprio l’ex igienista dentale a svelarci qualche particolare in più sulle feste che hanno costellato la sua strana storia d’amore con il premier.

Caso Ruby, quella minorenne in Questura. Così nacque lo scoop del Fatto, scrive il 25 giugno 2013 su "Il Fatto Quotidiano" Gianni Barbacetto, Giornalista. Quante storie girano attorno alla vita personale, imprenditoriale e politica dell’uomo più ricco d’Italia. Vicende mirabolanti e incredibili, raccontate da testimoni a volte barocchi o imprendibili. Soldi, successo, sesso, calcio, mafia: quanti ingredienti, non manca quasi nulla nelle storie sussurrate sull’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi, passate o presenti. Nell’estate 2010 alcune buone fonti avevano da raccontare storie su clamorosi festini organizzati nella villa del presidente del Consiglio ad Arcore. Cene e incontri notturni, giostra di belle ragazze, e una minorenne accolta nel giro. Era già esploso lo scandalo di Noemi Letizia, la ragazza di Casoria che aveva festeggiato il suo diciottesimo compleanno con la presenza di un ospite speciale, “Papi” Silvio, che l’aveva avuta ospite nelle sue residenze ancora minorenne. Era balzata sulle pagine di cronaca anche la storia di Patrizia D’Addario, la escort barese che aveva passato una notte con lui a Palazzo Grazioli, a Roma.    Erano emerse le foto e le feste dell’estate 2009 a Villa Certosa, in Sardegna, con la parlamentare europea Licia Ronzulli che, “per dare una mano al presidente”, smistava nelle camere del villone le ragazze che arrivavano a frotte. Un villaggio vacanze molto particolare, con feste sfrenate, balli notturni ed eruzione finale del vulcano artificiale di Silvio Berlusconi, quasi una metafora della vita reale. Un anno dopo, sulla scena si presenta, sfuocata, una minorenne. Chiacchierona, forse inattendibile, che racconta storie, forse millanta incontri ed evoca personaggi da rotocalco vip. Ormai erano in tanti a conoscere i suoi racconti e i brandelli della sua ancora sconclusionata storia. I poliziotti che l’avevano fermata il 27 maggio 2010 e portata in questura. Quelli che erano accorsi il 5 giugno a sedare la rissa scoppiata nella notte con Michelle Coincencao, la prostituta che la ospitava. Le ragazze che l’avevano conosciuta ad Arcore o in giro nei locali di Milano. Gli amici e i conoscenti che l’avevano avvicinata nei mesi del suo soggiorno milanese. Lele Mora e il suo giro di bei ragazzi e disponibilissime ragazze. Gli operatori del servizio minori del Comune di Milano e quelli della casa d’accoglienza dove era stata mandata, a Genova. E, infine, i magistrati di Milano che avevano cominciato a interrogarla, la Ruby, tra luglio e agosto, e la polizia giudiziaria che stava cercando riscontri alle sue dichiarazioni esaminando tabulati telefonici e ascoltando boccaccesche intercettazioni. Il lavoro di squadra della redazione milanese de il Fatto Quotidiano mette insieme, giorno dopo giorno, piccole tessere di un mosaico ancora informe. Emerge pian piano dai fumi delle notti milanesi una ragazza, non italiana, che racconta di aver partecipato alle feste di Arcore. È minorenne. È marocchina. Racconta storie piene di sesso e di soldi. Lunedì 25 ottobre 2010, la verifica definitiva: la ragazza esiste, la storia è vera, un’inchiesta giudiziaria è in corso. Martedì 26, il primo articolo sul caso Ruby appare su il Fatto Quotidiano, annunciato da un piccolo richiamo in prima pagina. Un secondo articolo, più ampio, mercoledì 27. Il giorno dopo, giovedì 28 ottobre, i giornali e le tv di tutto il mondo riprendono e approfondiscono la storia della ragazza del bunga-bunga. È scoppiato lo scandalo Ruby.

"Notti da incubo ad Arcore. Ecco la verità sul bunga bunga". Altre due ragazze raccontano ai pm i dettagli sulle serate nella villa di Berlusconi. Ci andarono il 22 agosto 2010, il giorno dopo essere state "provinate" da Emilio Fede. Le barzellette sconce del premier, i giochini a sfondo erotico, i balli delle giovani seminude, la lap dance della Minetti. Tutto alla presenza della presunta "fidanzata" del premier, scrivono Piero Colaprico, Giuseppe D'Avanzo, Emilio Randacio il 13 aprile 2011 su "La Repubblica". Altre due ragazze raccontano l'autentica "eleganza" delle notti di Arcore. A questo punto ci sono cinque giovanissime donne - testimoni dirette - che smentiscono la narrazione minimalista e fantasiosa di Silvio Berlusconi, il premier a giudizio per concussione e prostituzione minorile. Sono tutte e cinque estranee al giro della Dimora Olgettina, al mondo dello spettacolo e alla "scuderia" di Lele Mora. Le ultime due, in ordine di tempo, sono giovanissime. Si chiamano Ambra Battilana e Chiara Danese. Sono invitate a Villa San Martino il 22 agosto del 2010. Quel giorno, Ambra, che è nata il 15 maggio 1992, ha diciotto anni, tre mesi e sette giorni. Chiara, nata il 30 giugno 1992, ha diciott'anni, un mese e ventidue giorni. Quando le incontra, Silvio Berlusconi le chiamerà "le mie bambine". Il 4 aprile scorso Ambra e Chiara, con i loro avvocati, hanno presentato alla procura della Repubblica di Milano una "memoria" su quanto è avvenuto quella notte. Hanno confermato i loro ricordi in un interrogatorio, lunedì. Bisogna subito raccontare perché - solo ora e dopo otto mesi - Ambra e Chiara decidano di uscire allo scoperto, consapevoli "di essere finite - sono le loro parole - in fatti più grandi di noi". Ascoltiamole. Chiara: "Io non avevo alcuna intenzione di parlare. Mi sono sentita costretta dal clamore che ha assunto il caso e soprattutto dal fatto che nel mio paese, che è Gravellona, in provincia di Verbania, sono ingiustamente considerata una escort. È una denigrazione sulla bocca di tutti, sono continuamente infastidita da telefonate anonime". "È una situazione che mi fa soffrire molto e ho deciso di ribellarmi a un'immagine di me che non mi corrisponde". A scandalo scoppiato, racconta ai pubblici ministeri, Chiara prova a chiedere un consiglio a Emilio Fede: è stato lui a invitare le due giovanissime amiche a Villa San Martino. 

Chiara: "All'inizio Fede mostra di non ricordare chi fossi, quando glielo ricordo mi dice in modo sarcastico, anzi in malo modo, se volevo dei "soldini". Mi chiede se volessi insinuare che lui mi aveva toccato, io rispondo che voglio soltanto parlargli di persona, non entro nel merito. Gli dico: "Voglio dei consigli, come devo fronteggiare questa situazione?". Fede è seccato, promette di richiamarmi ma non lo farà... Un altro motivo che mi ha spinto a prendere questa decisione è la posizione che ha assunto pubblicamente il presidente del Consiglio Berlusconi. In più occasioni ha definito "cene eleganti" le sue. Beh, per quanto mi risulta avevano tutt'altra natura. Per di più ha difeso proprio quelle ragazze che, quella notte, avevano avuto gli atteggiamenti più sconvenienti, mentre non ha ritenuto di spendere una parola a favore mio e di Ambra".

Ambra: "Oggi se digito il mio nome e cognome su Google, sono associata al bunga bunga e al processo in corso, anche se, con Chiara, sono stata una sola volta ad Arcore e pensando di partecipare a una normale cena e per di più a casa del presidente del Consiglio. Ora invece vengo associata a "trentadue prostitute" pur essendomi comportata in modo del tutto corretto. Il mio agente mi ha consigliato l'avvocato Patrizia Bugnano, ho saputo solo successivamente che è anche un deputato dell'Italia dei Valori. È uno stimato professionista e per di più è donna".

Chiara: "Apprendo solo in questo interrogatorio che l'avvocato di Ambra è deputato. A dir la verità, non so esattamente che cosa significa essere deputati e non so che cosa sia l'Idv. Non c'è stata alcuna interferenza, la memoria è frutto di ciò che abbiamo visto e vissuto io e Ambra", precisano le due ragazze, rispondendo ai pubblici ministeri Pietro Forno e Antonio Sangermano. 

Ora i fatti. Sono le 23 del 22 agosto 2010. Ambra e Chiara hanno appena finito le selezioni di Miss Piemonte (Ambra è prima, Chiara è terza). Emilio Fede, che il giorno prima le ha "provinate" come meteorine, le invita nella residenza del Cavaliere. Si possono trascurare i dettagli dell'ingresso a Villa San Martino e dell'attesa del ritorno dallo stadio di San Siro del premier e del direttore del Tg 4. Il racconto può cominciare da quando Berlusconi entra in scena.

Ambra: "... Entriamo in casa e ci troviamo di fronte il presidente Silvio Berlusconi. Tiene in mano due vassoietti. Sopra ci sono degli anelli. Lui dice che sono di Tiffany, ma io mi accorgo che è semplice bigiotteria. Berlusconi li offre in dono. In quel momento arrivano tantissime ragazze. Noto Roberta Bonasia. Tutte cominciano a prendere i doni dai vassoietti, le ragazze hanno un atteggiamento molto confidenziale con il presidente. Sono elettrizzate. Il presidente si presenta a me e a Chiara e si mostra contento di vederci. Ci dice che siamo belle. Ci ricopre di complimenti. Chiede qualcosa della nostra vita personale. È evidente l'attrazione che Berlusconi ha per me e Chiara. È così evidente che Emilio Fede gli dice, infastidito: "Tu mangia nel piatto tuo che io mangio nel piatto mio". Ci è chiaro che per Fede io ero destinata a Berlusconi, Chiara a lui". 

Chiara: "La serata prosegue con la cena. Ci sediamo tutti a tavola, siamo più o meno quindici. Con Fede e Berlusconi, me e Ambra, ricordo Roberta Bonasia; Maristhell Polanco che avevo visto in televisione a "Colorado cafè"; le due gemelline napoletane (Eleonora e Imma De Vivo), che avevo visto all'Isola dei Famosi; una ragazza che si presenta con il nome di Lisa, di origine cubana, subito mostra un'attenzione omosessuale nei miei confronti; una signora bionda alta e riccia, che durante la serata canta; una signora prosperosa; una ragazza mora abbastanza alta, quella che ho poi riconosciuto essere Nicole Minetti; due ragazze nere, piuttosto volgari e abbigliate in modo indecente, quando le ho viste ho subito pensato che fossero due prostitute; un signore piuttosto alto che non ci fu presentato; un altro ragazzo che suonava una pianola e un'altra signora non giovanissima, di circa 50 anni. Ambra poi mi disse che Lisa le confidò subito di essere lesbica".

Ambra: "Marysthell mi dice che se Berlusconi mi avesse notato, mi avrebbe fatto fare una bella carriera... Emilio Fede mi spiega che le due gemelline napoletane per partecipare alla cena avrebbero ricevuto una ricompensa di tremila euro ciascuna".

Chiara: "Durante la cena Emilio Fede è seduto tra me e Ambra, di fronte a Fede c'è Berlusconi, seduto tra Roberta Bonasia e Lisa. Emilio Fede per tutto il tempo tocca le gambe a me e ad Ambra. Ero a disagio, in imbarazzo, scambiavo sguardi d'intesa con Ambra".

Ambra: "Berlusconi guarda insistentemente me e Chiara. Ci dedica canzoni che interpreta lui stesso, in francese e in italiano. Ci chiama "bimbe" e suscita il visibile risentimento di Roberta Bonasia, che gli si butta continuamente addosso baciandolo. Quella sera il presidente non mangia niente e racconta molte barzellette particolarmente sconce, così sconce che io mangio di malavoglia, tanto era irritante il contenuto. Ma tutti ridevano a crepapelle e, a un certo punto, parte la canzoncina "E meno male che Silvio c'è" e tutte le ragazze cominciano a ballare e cantare intorno al tavolo. Io e Chiara ci guardiamo imbarazzate, come per dirci: "Ma dove siamo finite?". E dire che il peggio deve ancora arrivare perché dopo quindici minuti che siamo seduti a tavola, alcune delle ragazze scoprono i seni, li offrono al bacio di Berlusconi. Toccano il presidente nelle parti intime. Si fanno toccare. Anche Roberta Bonasia tocca ripetutamente nelle parti intime Berlusconi. Mentre accade questo, le ragazze cantano ancora "meno male che Silvio c'è", chiamano il presidente "papi" e Berlusconi chiama tutte noi "le mie bambine, le mie bimbe"".

Chiara: "Dopo l'ennesima barzelletta oscena, Berlusconi fa portare una statuetta. É uno specie di guscio. Dal guscio esce un omino con un pene grosso. La statuetta ha dimensioni di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro. Il pene è visibilmente sproporzionato. Berlusconi fa girare la statuetta tra le ragazze. E chiede loro di baciarne il pene. Le ragazze cominciano a far girare la statuetta. Ne baciano il pene e simulano un rapporto orale. O se lo avvicinano ai seni scoperti. Tutti ridono. Io e Ambra non ci prestiamo al gioco indecente. Ci sorprende che anche la Bonasia, che il presidente ha presentato a tutti come la sua fidanzata, si presti. È in quel momento che la serata prende una direzione molto diversa da come l'ho immaginata. Le ragazze, visibilmente allegre, cominciano ad avvicinarsi al presidente, si fanno baciare i seni, lo toccano. È una specie di girotondo, le ragazze si dimenano, lo toccano di nuovo, lo stesso fanno con Emilio Fede. A un certo punto il presidente, visibilmente contento, chiede: "Siete pronte per il bunga bunga?". Le ragazze in coro urlano: "Siii". Io e Ambra non sappiamo che cosa sia questo bunga bunga, anche se dopo la statuina lo intuiamo. Sono agitata, mi sento male...".

Ambra: "Chiara chiede a Emilio Fede se può avere una camomilla perché si sente male. Siamo scioccate, Fede cerca di rassicurarci. Ci invita a rimanere tranquille, mentre Berlusconi ci invita a fare un giretto nella villa. Ci mostra una sala con delle statuette di mucche colorate, mi pare in ceramica, e nella stessa sala ci sono palloncini e cartelloni inneggianti a Berlusconi, del tipo "Viva Silvio". Poi ci porta a vedere una saletta del tipo discoteca, con al centro un palo da lap-dance. Mentre camminiamo, Berlusconi, che sta dietro di noi, ci tocca i glutei, ci palpeggia il sedere. Né io né Chiara lo abbiamo invitato a desistere, anche se ci siamo irrigidite, facendogli capire che non eravamo d'accordo con quanto stava facendo. Al piano superiore Berlusconi ci mostra una spa con piscina e palestra e ci dice che, la prossima volta, avrebbe organizzato una festa in piscina, per stare più in intimità con noi e conoscerci meglio". 

Chiara: "Nella piccola discoteca con il palo al centro e i divanetti tutto intorno, e nell'angolo un dj, le ragazze iniziano a ballare in modo piuttosto volgare. Si tirano su la gonna. Mostrano il sedere. Alcune sono vestite da infermiere, come le gemelline di Napoli e la Bonasia, che tiene in mano anche un frustino. I vestitini da infermiera sono molto corti, da crocerossina, con i bordi rossi, il cappellino, i seni molto scoperti e con la biancheria intima in mostra. Anche le ragazze non travestite da infermiera tirano su i vestiti, mettono in mostra fondoschiena e seni. Ballando si avvicinano a Berlusconi, lo toccano e si fanno toccare, è il gioco che il presidente definisce bunga bunga".

Ambra: "Ricordo che anche Marysthell mostra i glutei, Emilio Fede mi dice che ha vinto una qualche gara di bellezza per il suo fondoschiena. Anche le due gemelle napoletane mostrano il seno nudo. A un certo punto Nicole Minetti si esibisce in uno spettacolo di lap-dance. Indossa uno di quei vestiti che si tolgono a strappo. Rimane completamente nuda ballando al palo, senza reggiseno e mutandine. Dopo essersi denudata, si avvicina a Berlusconi e ballando in maniera provocante avvicina il sedere al viso del presidente. Girandosi gli avvicina i seni alla bocca, il presidente le bacia i seni. Le ragazze tentano di coinvolgerci in questa danza, istigate da Fede e Berlusconi. Sento dietro di me frasi del tipo: "Ma che sono venute a fare quelle due?". Tutte le ragazze ci stanno intorno, ci toccano, ci prendono, tentano di toglierci i vestiti, ci toccano un po' dappertutto". 

Chiara: "Fede e Berlusconi incitano le ragazze a coinvolgerci nel gioco, dicono: "Dai, spogliatele... dai, spogliatele... spogliatevi... ballate...". A quel punto siamo letteralmente terrorizzate. Vogliamo soltanto andarcene, ma non sappiamo come fare. È evidente a tutti il nostro disagio. Ci facciamo coraggio, andiamo da Fede e gli diciamo: "Vogliamo assolutamente andare via". Accanto al direttore c'è il presidente Berlusconi. Sente chiaramente la richiesta di Ambra. Emilio Fede risponde: "Se volete andare via, va bene. Ma non pensate di poter fare le meteorine o miss Italia"".

Ambra: "Berlusconi, seduto accanto a Fede, annuisce senza però dire una parola. Tanto che ne ricavo l'impressione che sia perfettamente d'accordo con Fede. A quel punto usciamo dalla villa insieme con Fede, che ci accompagna con la macchina guidata dal suo autista a piazzale Loreto. Fede, che si era mostrato molto seccato nei nostri confronti, quasi anticipando la nostra protesta, ci dice in macchina, alla presenza dell'autista, che avevamo fatto benissimo a comportarci così. Che avevamo superato una prova. Che non eravamo come le altre ragazze, tutte puttane. Che eravamo le "favorite" del presidente e avremmo fatto una bella carriera. Io e Chiara rimaniamo sbigottite".

Mamme e in carriera: così sono rinate le ragazze di "Gianpi" Tarantini. Dalle "cenette" con Berlusconi alle start-up all'estero. La rabbia di Patrizia D'Addario: ho pagato soltanto io, scrivono Carlo Bonini e Giuliano Foschini il 18 ottobre 2017 su "La Repubblica". Quando passò dallo studio legale di Totò Castellaneta alle fughe di stanze e alle cene eleganti di Palazzo Grazioli, Graziana Capone da Gravina di Puglia era una ragazzina appena laureata in giurisprudenza. E ora, seduta ai tavoli di un bistrot del quartiere Prati, incinta di sei mesi, guardandosi indietro, ha l'onestà di consegnare quel tempo a una verità che, a spanne, non riguarda solo lei, ma l'intero circo che si raccoglieva intorno all'allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. "Ho fatto quel che ho fatto per ambizione. Pura e semplice. Ho varcato consapevolmente la soglia di un mondo dove non sarei mai arrivata, considerato da dove partivo. Ma almeno non ne ho mai fatto mistero. Anche perché non avevo nulla di cui vergognarmi. Non dico che fossi una santa, ma non mi sono mai prostituita. Rifarei tutto. Assolutamente. Magari mi sceglierei meglio i miei avvocati. Continuo a sentire Silvio al telefono e mi definirei ancora una berlusconiana. E poi, a distanza di anni, qualcuno mi deve ancora spiegare cosa ci fosse di male in quelle serate con le ragazze. Ci sono uomini che per rilassarsi fanno zen o yoga. E ce ne sono altri che fanno le cenette". Quelle "cenette" sono finite con condanne in primo grado a Gianpaolo Tarantini a 7 anni e 10 mesi di reclusione per sfruttamento della prostituzione (la Capone si è costituita parte lesa). Lei, la Capone, di quella compagnia di giro dice di aver perso di vista tutti. Ma in quel "mondo" è rimasta e ha trovato a modo suo una strada. "Quando scoppiò il casino lavoravo con Paolo Bonaiuti a Palazzo Chigi. E decisi di chiudere con l'Italia. Partii per Londra, per un corso di business development managing alla London School of Economics. Dopodiché, per tre anni, mi sono messa a fare la start-up di imprese italiane a Londra". Per lo più ristoratori. E tra questi, Johnny Micalusi, il Re del Pesce, il pantagruelico oste di "Assunta Madre" che di quel tempo è stato icona, prima di finire, nel luglio scorso, agli arresti domiciliari per riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Start up ma anche intermediazione im- mobiliare per l'acquisto di ville alle Bahamas. O l'amicizia con l'attore americano James Heisenberg di "Superman" ("Lo conobbi a Taormina e mi disse: "Vieni a Los Angeles con me". Ma mi ci vedete a Los Angeles? Io sempre di Gravina di Puglia sono"). Fino al ritorno a Roma. L'incontro con un professore universitario che insegna alla Luiss, padre del figlio che avrà, e il suo nuovo lavoro al dipartimento relazioni internazionali della fondazione "Luigi Einaudi". "Sono entrata nell'affascinante mondo dell'Accademia. Con la possibilità di interagire con professori e intellettuali di Oxford, Harvard. Epperò, ecco, penso che non sarei arrivata qui senza quelle sere a Palazzo Grazioli. Per questo rifarei tutto e non mi vergogno di niente".

Neanche Barbara Montereale si vergogna di ciò che è stato. Ma il codice del mondo e del contesto di cui era e resta figlia l'hanno convinta a non ricordare e farsi ricordare troppo. In una notte dell'estate 2009, mentre in una striminzita canottiera bianca mostrava a Repubblica, le farfalle di bigiotteria di cui il Cavaliere omaggiava le ragazze passate per le sue stanze e le sue residenze, il suo fidanzato di allora, un ragazzo del clan Parisi, trovò il modo di dimostrarle rumorosamente che tutta quella pubblicità non era gradita. Barbara è rimasta a Bari e ha un nuovo fidanzato. Accompagna tutte le mattine a scuola sua figlia. Ha ricominciato in tv, ma non dai reality. Dagli spot pubblicitari e dalla cartellonistica stradale. "Sono l'unica che non ha sfruttato la visibilità che quella vicenda ha dato alle ragazze che erano state coinvolte. Io sono ripartita davvero daccapo, anche se quel marchio resta ed è quasi impossibile da cancellare".

Anche Patrizia D'Addario è convinta di aver pagato un prezzo. "Sono la sola ad aver avuto il coraggio di raccontare cosa accadeva in quelle cene eleganti e, per questo, ne pagherò le conseguenze per il resto della mia vita ". Che ora pendola tra Bari e Roma in un lavoro che, direbbero a Bari, "è parente" a quello che lei è stata, o perlomeno per cui è stata conosciuta. Ha un sito web, patriziadaddario.net, che la vede fotografata di tre quarti, ora leopardata, ora in guepiere, mentre scorrono le immagini di lei che canta "You like torero" di Carosone. È stata madrina di un festival del sesso in Portogallo, dell'elezione di mister Puglia in provincia di Brindisi, ha fatto campagne contro la pedofilia, gira la provincia italiana per ospitate malinconicamente annunciate da titoli di scatola dalle cronache locali.

Forse hanno ragione le ragazze. Davvero sono volati solo gli stracci. E, dopo aver divorziato per necessità, gli uomini del mondo di sopra e le donne di quello di sotto sono stati restituiti senza scossoni al loro destino. Prendiamo il sistema di relazioni pugliese di Gianpaolo Tarantini. Venne messo a nudo nella sua corruzione dallo stesso Gianpi nei suoi primi interrogatori con la procura di Bari. Medici e professori delle Asl, corrotti, compravano protesi ossee che sapevano essere "fetenti". Non hanno fatto un giorno di carcere. Hanno fatto carriera. Un esempio? Il professor Vito Galante, medico ortopedico tarantino, e Michele Mazzarano, ex Ds, ora assessore regionale Pd allo Sviluppo Economico.

"Fu Galante - mette a verbale Gianpaolo Tarantini il 17 novembre del 2009 - a chiedermi di incontrare Mazzarano. Li feci incontrare nella sede del Pd di via Piccinni un paio di volte (...) Dissi a Mazzarano di intervenire presso Colasanto, direttore generale della Asl, promettendogli una tangente di un importo pari a 50mila euro, cosa che lui fece. La gara era di 600 mila. La vinsi ma poi fu sospesa per un ricorso di un'altra ditta concorrente e non ho più pagato la tangente". Aggiunge Claudio Tarantini, fratello di Gianpi: "Mazzarano assicurò un suo intervento per una soluzione dei problemi. So che ciò avvenne in quanto dopo l'intervento, Galante ottenne un incremento delle sedute operatorie e del personale paramedico". Ebbene, Galante è stato di recente nominato primario, mentre il suo processo si avvia alla prescrizione. Mazzarano - che dopo le accuse aveva annunciato il ritiro dalla candidatura alle elezioni regionali - è diventato assessore della giunta Emiliano dopo aver incassato due prescrizioni, prima ancora che il processo cominciasse: una per l'imputazione di millantato credito e l'altra per il finanziamento illecito ai partiti.

C'è un'altra chiave, forse, oltre a quella antropologica del Paese senza memoria e della giustizia scassata, per spiegare il Grande Nulla di questi otto anni. Ed è nella profezia che l'avvocato Michele Laforgia, uno dei migliori penalisti italiani, rassegnò al collegio che giudicava Sandro Frisullo, allora vice presidente della Regione, condannato per turbativa d'asta con Tarantini. E colpevole di aver goduto, anche lui, di una delle ragazze della scuderia di Gianpi. Durante la sua arringa, aprì scenograficamente le pagine di un quotidiano che dedicava esattamente lo stesso spazio alla debolezza della carne di Silvio Berlusconi e a quella di Sandro Frisullo. Era la prova che il sistema - pezzi della magistratura e degli organi inquirenti, informazione - erano pronti a far scendere su Bari una notte in cui tutti i gatti sarebbero risultati neri. Quindi, uguali. In fondo non troppo colpevoli. O comunque destinati a non essere sommersi. Come I. T., fisiatra e imprenditrice della sanità che, ieri sera, il tribunale di Bari, in uno dei processi per gli appalti nelle Asl pugliesi, ha condannato a 2 anni per associazione a delinquere. E questo, dopo che, appena due giorni fa, la sua azienda aveva vinto un appalto per la gestione di un servizio del Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Bari. Anche Gianpaolo Tarantini è stato condannato ieri sera (4 anni per associazione a delinquere e peculato). Ma i fatti sono del 2009. Siamo ancora in primo grado e 14 dei 21 capi di imputazione originari sono già caduti. Finché c'è prescrizione c'è speranza.

MERITOCRAZIA. Papi girls, tutte in carriera. Chi sta in Parlamento, chi fa l'assessore, chi il consigliere regionale, chi ha trovato lavoro a Palazzo Chigi, a Mediaset o in Rai. Un anno dopo, ecco che fine hanno fatto le preferite del sultano, scrivono Claudio Pappaianni ed Emiliano Fittipaldi il 25 luglio 2010 su "L'Espresso". Alcune sono diventate assessori e ministre della Repubblica. Altre hanno girato film e spot per la televisione. Poche fortunate sono finite sulle copertine dei settimanali della Mondadori, una ha dato la maturità da privatista e deve scegliere a quale università iscriversi, molte continuano a fare le escort. Tutte, al di là di cosa fanno e cosa diventeranno, resteranno nell'immaginario collettivo come le "Papi Girls", l'esercito di belle donne che per due stagioni ha ballato alle feste di Villa Certosa e frequentato le stanze di Palazzo Grazioli, la residenza romana del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. A un anno dagli scandali firmati Noemi Letizia e Patty D'Addario, il premier dice di aver cambiato vita. Con il divorzio da Veronica Lario è tornato single, anche se le battute sul gentil sesso continuano ad essere uno dei suoi cavalli di battaglia. Di liaison ufficiali nemmeno l'ombra. L'estate 2010 è appena iniziata, ed è probabile che ai vecchi bagordi sardi Silvio preferirà la quiete del castello di Tor Crescenza, la dimora dei Borghese immersa nel verde a cui fa sempre più spesso visita, location per matrimoni (organizzati dalla Relais le Jardin, società del genero di Gianni Letta) ben lontana da occhi indiscreti.

Ma che fine hanno fatto le ragazze che collezionavano ciondoli a forma di farfallina e si facevano tatuare sulla caviglia frasi tipo: "L'incontro che ha cambiato la mia vita: S.B."? L'elenco delle fanciulle che sono entrate in confidenza con Silvio e con le prime pagine di quotidiani importanti e periodici rosa è lungo.  Partiamo da Noemi Letizia , che minorenne partecipò al capodanno 2007 a Villa Certosa e che chiama ancora oggi "Papi" il Cavaliere che presenziò al suo diciottesimo compleanno. Dopo essere passata dal chirurgo plastico, punta ancora sul cinema e sogna di sfondare nel mondo dello spettacolo. Poche occasioni, finora. Quest'anno ha seguito corsi di dizione e canto, e ha studiato italiano e matematica da privatista. Da qualche giorno è ragioniere: "L'esame di maturità? La ragazza ha sfiorato il massimo dei voti", dice il padre Elio. Noemi andrà all'università, ma intanto sta lavorando per lanciare una linea di abbigliamento e profumi, "Noemi L.". L'estate la passerà in Sardegna.

Patrizia D'Addario, invece, non fa più la escort. La donna che ha registrato la voce del premier in camera da letto e che ha dato il nome a un emendamento della legge sulle intercettazioni, ha scritto due libri sulle sue avventure ("Gradisca Presidente" è uscito a novembre ma non è mai entrato in classifica, la prossima fatica - legge bavaglio permettendo - dovrebbe uscire a dicembre). Da poco Patrizia ha ottenuto la licenza edilizia per costruire il famoso residence sui terreni di famiglia. Una pratica bloccata da 40 anni, tanto che chiese aiuto (inutilmente) al Cavaliere durante l'incontro del 4 novembre 2008. 

Giampaolo Tarantini, oltre alla D'Addario, ha portato a via del Plebiscito altre ragazze e modelle che hanno guadagnato gettoni di presenza per passare una sera insieme al leader: Graziana Capone, detta l'Angiolina Jolie di Bari, da gennaio collabora con Roberto Gasparotti, l'esperto che cura l'immagine televisiva di Berlusconi. La prostituta Terry De Nicolò, famosa per essersi concessa anche all'ex assessore del Pd Sandro Frisullo, fa la ragazza immagine e di tanto in tanto appare nei salotti tv di Michele Santoro, Monica Setta e Gad Lerner. Durante l'anno si è anche dovuta difendere dalle (presunte) persecuzioni del finanziere che coordinava le inchieste sul premier, il colonnello Nicola Paglino, arrestato qualche settimana fa anche per stalking. Vanessa Di Meglio, a Palazzo Grazioli il 5 settembre 2008, è invece stata avvistata a Parigi: sembra che faccia ancora l'accompagnatrice.

Chi sta provando a trasformarsi da "Ape Regina", questo il nomignolo affibbiatole da Dagospia, in protagonista di fiction Mediaset è invece Sabina Began, la ragazza col tatuaggio che ha presentato Tarantini al Cavaliere: ancora molto vicina a Silvio, ha strappato una particina ne "Il falco e la colomba" (in conferenza stampa è scoppiata a piangere lamentandosi dei tagli in montaggio sul suo personaggio, praticamente muto) e un'altra in un horror Usa in fase di pre-produzione: si intitolerà "The reapers", regia di tal Sargon Yoseph. Niente di eccezionale, ma sempre meglio di Barbara Montereale, la girl amica di Emilio Fede che scattò le foto nei bagni di Palazzo Grazioli: nel suo carniere ha solo uno spot per una catena di negozi di gioielli, la "Giallo Oro" di Bari in compagnia di Corrado Tedeschi e Gigi di Gigi e Andrea.

Berlusconi, si sa, ama la città del Vesuvio e adora le sue abitanti. A parte Noemi da Casoria, le Papi Girls che parlano con accento del Golfo non si contano. Il Cavaliere è generoso, e nonostante i chiacchiericci e le malelingue, un anno dopo sembra averle piazzate tutte, o quasi. La stragrande maggioranza si è buttata in politica. Francesca Pascale, fondatrice del comitato "Silvio ci manchi" ed ex velina di Telecafone, nel novembre 2006 saliva sull'aereo privato di Silvio, destinazione Villa Certosa. Insieme a lei le avvenenti Emanuela Romano e Virna Bello, oltre alle gemelline De Vivo. Da allora la Pascale ha lavorato nell'ufficio stampa di Forza Italia, poi con il sottosegretario Francesco Giro. Alle ultime elezioni è stata eletta consigliere provinciale con 7500 voti (tre anni prima alle comunali ne aveva presi 83). L'agognata poltrona da assessore, però, l'ha guadagnata l'ex meteorina Giovanna Del Giudice, già ragazza immagine del Billionaire e frequentatrice del famoso corso di formazione targato Pdl nel quale si allevavano le ragazze da mandare a Bruxelles. Il presidente Luigi Cesaro, nonostante Giovanna sia arrivata penultima alle regionali, gli ha consegnato le deleghe alle Pari opportunità e alle politiche giovanili. Di recente Giovanna ha litigato in radio con Luca Telese e Giuseppe Cruciani che le chiedevano quali fossero le sue esperienze: "Non fate battute maliziose solo perché una donna ha avuto un incarico politico", ha detto salutando i conduttori. 

Emanuela Romano, dopo infinite peripezie culminate nel gesto del padre che si è dato fuoco davanti a Palazzo Grazioli è assessore al Lavoro a Castellammare. Virna Bello, l'ultima del terzetto del comitato, ex pr di Torre del Greco chiamata dagli amici "la Braciulona", è diventata assessore all'Istruzione nella sua città natale (ma la nomina le è stata revocata qualche mese fa). Le altre vip care al presidente, le sorelle Valanzano, stanno seguendo carriere diverse: Benedetta recita in "Un posto al sole" e ha ballato sotto le stelle con Milly Carlucci; l'avvocato Maria Elena, nonostante la promessa di varie candidature, è ancora a spasso. Ora potrebbe entrare a far parte dello staff del neogovernatore Stefano Caldoro. 

Nunzia De Girolamo, detta "la Carfagna del Sannio", brilla ovviamente su tutte: deputata dal 2008, era presente all'incontro ristretto di Palazzo Chigi che ha portato alle dimissioni di Nicola Cosentino. Si vocifera che possa essere proprio lei a sostituire Nick o'Americano alla testa del Pdl Campano. In ultimo, Elena Russo, una delle cinque "raccomandate" nelle telefonate Berlusconi-Saccà: in un anno ha inanellato uno spot per Napoli finanziato dal governo e due fiction Mediaset. Dopo molto tempo passato in Sicilia per accompagnare il fratello che lavora come elettricista su un set. Nel futuro un viaggio in Lituania per dieci pose per un film tv, che dovrebbe andare su Canale 5 il prossimo inverno.

A parte l'inarrivabile Mara Carfagna che brilla ormai di luce propria, sono tante le ragazze di Silvio finite sugli scranni di Montecitorio e negli uffici di Strasburgo. Licia Ronzulli, insieme a un gruppetto di avvenenti pulzelle, fu fotografata a Ferragosto 2008 sul motoscafo di Berlusconi, immagini che "L'espresso" pubblicò in esclusiva lo scorso luglio. Lei smentì di essere un habitué di Villa Certosa, ma fece un passo indietro quando la Montereale la indicò come la responsabile "della logistica dei viaggi delle ragazze: è lei che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze". Ex caposala dell'ospedale Galeazzi di Milano, con quasi 40mila preferenze è stata eletta europarlamentare. Di recente ha difeso la Nutella dagli attacchi dei tecnocrati ("Nessuno potrà impedirci di fare colazione con pane e Nutella"), e all'ultimo meeting di Confindustria a Parma si è seduta a tavola tra il premier ed Emma Marcegaglia. 

Anche Barbara Matera e Laura Comi, che hanno seguito il famoso corso di formazione, ce l'hanno fatta: la prima, ex letteronza della Gialappa's e annunciatrice Rai, è stata la più votata - dopo il suo mentore - nella circoscrizione Sud e sta battendo a Strasburgo tutti i record di attivismo. La seconda ha presentato un'interrogazione sui giocattoli (prima di andare a Strasburgo lavorava come brand manager per la Giochi Preziosi) e promosso, insieme all'amica Gelmini e ai ministri Frattini e Bondi, la fondazione "Liberamente". 

A colpi di tacco Elvira Savino, invece, è deputata. Celebre per essersi presentata il primo giorno a Montecitorio con un tacco 14 marchiato Gucci, è lei a far conoscere Tarantini alla Began (sua compagna di appartamento a Roma). Si è sposata un anno e mezzo fa con il napoletano Ivan Campili - testimone di nozze Berlusconi in persona - ed è finita in una brutta inchiesta della magistratura pugliese su mafia e appalti: accusata di aver aiutato una banda di malviventi a riciclare denaro sporco (nell'ordinanza ci sono anche nomi di spicco del clan Parisi), è di fatto scomparsa dalle cronache mondane e politiche dall'inizio del 2010. Ufficialmente, ha scritto in una nota, per problemi di salute del figlio piccolo. 

Chi è sempre sulla breccia è invece Gabriella Giammanco, giornalista del Tg4 che Berlusconi volle inserire a sorpresa nelle liste siciliane per le politiche del 2008: nipote del boss di Cosa Nostra Michelangelo Alfano, condannato in via definitiva per mafia e morto suicida nel 2005, la reporter nata a Bagheria oggi si batte soprattutto contro la caccia e per la difesa degli animali ("grazie a me sono state introdotte agevolazioni fiscali a favore dei circhi senza animali") e fa coppia fissa nella Dolce Vita romana con il "direttorissimo" del Tg1 Augusto Minzolini. 

Altre Papi girls si sono invece dovute accontentare. Al corso per volare a Strasburgo c'erano anche Angela Sozio, Camilla Ferranti e Eleonora Gaggioli. La rossa del Grande Fratello, fotografata da "Oggi" mano nella mano con il premier mentre passeggiavano nei vialetti della Certosa, non è mai stata candidata, nonostante le voci insistenti che venivano da via dell'Umiltà, sede del Pdl dove Frattini e Brunetta tenevano le lezioni. Da qualche tempo ha lasciato il posto come contabile della società di Antonio Flora (imprenditore del ramo sanità) e lavora, anche lei, per Mediaset. L'ultima fatica: giurato del reality "La pupa e il secchione", insieme ai giudici-colleghi Platinette, Claudio Sabelli Fioretti, Vittorio Sgarbi ed Alba Parietti. 

La compagna di banco Camilla Ferranti, ballerina e figlia di un medico del premier, vanta nel suo lungo curriculum una parte da tronista di "Uomini e donne" e una raccomandazione di Silvio Berlusconi ad Agostino Saccà intercettata dalla procura di Napoli. È tra quelle che, nell'ultimo periodo, ha lavorato di più. In questi giorni è nei cinema protagonista di "Alice", prodotto dalla Videodrome e distribuito dalla Medusa, mentre nel 2011 tornerà su Mediaset: sarà attrice in "Angeli e Diamanti", una sorta di Charlie's Angels all'italiana. 

Nemmeno la Gaggioli, anche lei finita nell'inchiesta - poi archiviata - su Saccà, può lamentarsi: dopo le lezioni non è stata candidata ("allieva sveglia e informata" raccontava "Il Foglio"), ma intanto ha recitato su Canale 5 nel tv-movie "Fratelli Benvenuti". Si prepara a sbancare il botteghino con il cinepanettone di Natale, senza dimenticare che nel 2008 ha avuto l'onore di presentare il concerto della polizia di Stato. 

Pure le altre due "raccomandate" non sono restate con le mani in mano: Antonella Troise, che il Cavaliere definiva affettuosamente una "pazza pericolosa", ha girato "Negli occhi dell'assassino" (Canale 5 in prima serata) e un cammeo in un'altra serie di quattro puntate, mentre Evelina Manna, dopo aver comprato una casa a via Giulia da 950mila euro, ha girato come protagonista il mistery "La donna velata", in arrivo sui piccoli schermi. Ovviamente Mediaset. 

Le Papi Girls sono tante, e sono ovunque. Non tutte hanno avuto lo stesso destino. Se le gemelle De Vivo sembrano in sonno e l'aristocratica Virginia Sanjust da tempo si è ritirata a vita privata, Susanna Petrone (con la Renzulli fotografata sul Magnum 70 di Berlusconi nell'estate del 2008) non ha ottenuto la candidatura alle europee ma è la conduttrice sexy di Guida al Campionato (Mediaset) e regina del gossip milanese. Siria De Fazio, conosciuta come la "lesbica" del GF9, fa ancora show come mangiafuoco, ma non ha ancora sfondato nel jet-set dello spettacolo. Nessuna notizia recente della vincitrice di "Un-Due-Tre Stalla", Imma Di Ninni, due volte ospite a Villa Certosa, né delle gemelline e meteorine Ferrera, mentre la collega del Meteo 4 Francesca Lodooggi è nota soprattutto alle riviste rosa e al pm Frank Di Maio, che la interrogò per l'inchiesta su vip e cocaina. Carolina Marconi (finita secondo i racconti di Tarantini due volte a Palazzo Grazioli) si è sposata pochi mesi fa con l'imprenditore Salvatore De Lorenzis, il re delle slot-machine del Salento, mentre l'altra attrice venezuelana Aida Yespica (che Berlusconi presentò addirittura al presidente Chavez) resta una delle show girl più note d'Italia. Anche Barbara Guerra, ex Fattoria, è ancora un personaggio in cerca d'autore: l'ultima apparizione è nella giuria di Sanremo per l'elezione del più bello d'Italia 2010, con lei Lele Mora, Alfonso Signorini e Siria De Fazio. 

Più fortunata Nicole Minetti, l'igienista dentale del Cavaliere: buttati spazzolini e filo interdentale, è stata eletta consigliere per la Regione Lombardia alle ultime elezioni. Ora passa le giornate seduta vicino a Renzo "la trota" Bossi. Insomma, quasi tutte le Papi Girls se la passano bene. Brave e capaci? "Per fare questo mestiere" ha detto al mensile di Mondadori "First" la Manna "non serve lo sculettare delle vallette tivù. Il giro dei soldi è tale che se non vali nessuno ti prende, non serve essere raccomandati". Se lo dice lei...

Tutte quelle che «Io ho amato Silvio». Tante, forse troppe, le donne attribuite a Silvio Berlusconi. Ma chi sono quelle che hanno confessato di avere avuto una storia con il Cav? Da Sabina Began a Nicole Minetti, scrive Vanity Faire il 25 luglio 2010. Olgettine, showgirl, imprenditrici e donne in carriera. In questi anni sono state tante le dame attribuite a Silvio Berlusconi. Tra quelle comparse in atti di inchieste giudiziarie, in fotografie scattate nelle sue residenze e secondo testimonianze dirette, il totale (fino a oggi) sarebbe di 130. Tra queste, solo alcune hanno raccontato di avere occupato un posto importante nel cuoredell’ex premier. Ma quali sono le donne che hanno ammesso, confessato e svelato di avere avuto una liaison con il Cavaliere?

NICOLE MINETTI - Nicole, classe 1985, ex igienista dentale ed ex consigliere regionale della Lombardia, ha dichiarato il suo “amore” nell'aula del tribunale di Milano in cui si tiene il processo Ruby bis, nel quale è imputata. «Amavo Berlusconi – ha detto - il mio era un sentimento vero». Secondo Nicole, l’incontro con l’ex premier avvenne all’interno dell’ospedale San Raffaele. «Quando Silvio Berlusconi arrivò in clinica iniziò da parte sua un discreto corteggiamento, e non nego di essere rimasta affascinata da lui. Nacque così un rapporto di amicizia e poi una relazione sentimentale che si concluse alla fine di quell'anno». Per la Minetti «era un rapporto stabile, ci confrontavamo sul mio futuro, come due normali fidanzati».

FRANCESCA PASCALE - E' lei la fidanzata ufficiale. “Franceschina”, 27enne napoletana, segue il Cavaliere da molto prima di far breccia nel suo cuore. Da quando ha iniziato la sua carriera televisiva come showgirl per Telecafone. Dopo la tv, la politica: da fondatrice del comitato “Silvio ci Manchi”, a consigliera Provinciale del Pdl a Napoli. Il suo obiettivo è sempre stato uno: diventare la nuova first lady, e pazienza se per raggiungerlo la giovane ha dovuto affrontare ore di anticamera, corsi di dizione, e una dura competizione con una folta schiera di olgettine. Attualmente risiede a Arcore nei fine settimana e non solo. È con Berlusconi anche in Sardegna. E, si dice, che lo segua ovunque anche negli impegni di lavoro. Silenziosamente, sempre un passo indietro.

SABINA BEGAN - L’ape regina. La donna che ha detto «Sono io il bunga bunga». La vita della Began è cambiata radicalmente nel 2005. Era il 29 agosto e l'attrice fu invitata in Sardegna. Sabina incontrò, così, il Cavaliere nel giardino di Villa Certosa. «Chiesi al Presidente: “Se un giorno dovessi avere un fidanzato, lei mi concederebbe una gita romantica qui, con lui?”, ma Berlusconi mi guardò fisso negli occhi, e disse: “No, a meno che non ti fidanzi con me. Ma, per farlo, mi devi prendere la mano”. Da quel momento non mi ha più lasciata», raccontava la Began a Vanity Fair nel 2011. «Mi sussurrava all’orecchio, era come se mi ipnotizzasse, Dopo un paio d’ore ero cotta. Ero innamorata. È l’unico uomo che mi abbia fatto sentire donna».  A ricordare l’importante legame che avrebbe avuto con il Cavaliere, ci sarebbe la scritta che Sabina si è fatta tatuare sul piede destro: «L'incontro che mi ha cambiato la vita. S.B.».

EVELINA MANNA - L'attrice e modella ha dichiato il suo amore per il Cavaliere nel 2012 «Ci siamo conosciuti a settembre del 2005. Lui aveva letto una mia intervista, gli era piaciuta e mi ha chiamato».  Evelina, però, non ha mai voluto essere segnalata tra le amiche del premier «Io a essere associata a questa fauna volgare non ci sto, la nostra era una relazione d’amore durata anni e puntellata da episodi di intima vicinanza, e da momenti di tensione». Come qualche scenata di gelosia: «A volte mi svegliavo e lo trovavo in bagno alle 5 del mattino a parlottare al telefono a bassa voce con qualche amica. E lui negava, come un adolescente».

DARINA PAVLOVA - L’imprenditrice bulgara.  I due, secondo il racconto della Pavlova, si conobbero a Washington nel 2004. Di lì a poco sarebbe scoccata la scintilla. «Ma quale scintilla? – ha precisato lei – Fu fuoco”.  L’imprenditrice ha sempre preso le distanze dagli altri presunti flirt del cavaliere: «Io non sono come tante donne che parlano di love story con Silvio. Il mio profilo è ben diverso, ma l’amore per me è la cosa più importante e voglio proteggerlo». Oggi l’ereditiera bulgara dice di avere con B. un rapporto «basato sulla stima, l’affetto e la fiducia».

KATARINA KNEZEVIC - L'ex Miss Montenegro. La prima volta che abbiamo sentito parlare di Katarina è stato durante il processo per il Bunga bunga, quando Imane Fadil dichiarò che era Katarina la vera fidanzata di Silvio. Era il settembre 2011 e, qualche mese, dopo la modella decise di uscire allo scoperto e raccontare la sua storia con il capo del governo.  «Ci siamo conosciuti nel 2009. Era l'inizio di maggio, io avevo 18 anni e Silvio si era appena separato dalla moglie». Dopo quell’incontro nacque l'amore. «Dove c'è lui ci sono io - raccontava anni fa la Knezevic - lo seguo ovunque. La nostra relazione non è un mistero». Katarina è tornata a parlare del Cav dopo l’ufficializzazione del rapporto tra lui e la Pascale. «Francesca Pascale ha vinto solo una battaglia, ma alla fine Silvio Berlusconi sposerà me. Sono ancora innamorata di Berlusconi come e più del primo giorno. Per un uomo così io ammazzerei e sono anche pronta a morire per lui». 

Se questo non è amore...Grazie a Berlusconi ho fatto carriera in Italia: ma non mi ha mai toccata con un dito, scrive Maria Cristina Giongo su Libero Quotidiano il 4 febbraio 2011. Ho intervistato in Olanda una fotomodella e presentatrice che ha conosciuto molto bene Silvio Berlusconi, Monique Sluyter. Il mio servizio è stato pubblicato dal quotidiano Libero. Non troverete alcun mio commento perchè lo scopo di questa intervista non è quello di difendere Berlusconi o di condannarlo. Secondo me un giornalista che sia un vero professionista non deve esprimere le SUE idee personali (sicuramente non importanti al fine dell’articolo…); deve solo raccontare i FATTI. La persona che ho intervistato è stata sincera nella sua versione e nel racconto di quanto è accaduto in passato a casa del premier. Pertanto trovo giusto di pubblicare quanto mi ha detto. La scelta del quotidiano dipende dal fatto che Libero è stato il primo che ha accettato di renderla pubblica. L’avrei data anche ad un giornale di sinistra, se avessero voluto pubblicarla. Probabilmente tempo fa, quando “Il cavaliere” non aveva ancora conosciuto il potere dei soldi e della fama (ed era sposato), si comportava in un altro modo…. Qui sotto potete leggere la versione integrale della mia intervista; con due fotografie che ci sono state gentilmente concesse da Monique.

Prima pagina del quotidiano Libero del 4 febbraio 2011. “Berlusconi mi ha sempre rispettata; mi ha aiutata a far carriera ma si è sempre comportato come un vero signore nei miei confronti”. Chi parla è la fotomodella, presentatrice olandese Monique Sluyter, 43 anni, una bellissima donna, in un’intervista per Libero.

Monique, quando ha conosciuto Silvio Berlusconi?

“Quando avevo 18 anni, negli anni 80. Lui era un talent scouts; mi fece un provino. Poi mi disse che assomigliavo molto a Marilyn Monroe, promettendomi che nel giro di tre mesi mi avrebbe trovato un lavoro. E così fu. Venni assunta per il programma sexy Colpo grosso; a cui seguì Tutti i frutti, dove ero l’assistente del conduttore Umberto Smaila. Vivevo in un bell’appartamento a Milano con altre ragazze olandesi. Tuttavia posso assicurarle che non mi fece mai nessuna proposta sconcia: nè a me nè alle mie compagne.”

Eppure in un’intervista uscita oggi sul settimanale olandese Privè, a firma di Barbara Plugge, ha dichiarato che era diventata amica di Berlusconi e che andava spesso nella sua villa di Arcore.

“Infatti. Ma io sono sempre stata una donna seria e ad Arcore ci andavo proprio e solo come amica; lui cucinava gli spaghetti. Mangiavamo e basta. Ribadisco che con me è sempre stato un gentleman. Mai una parola fuori posto, uno sguardo che potesse farmi supporre che avesse altre intenzioni. Non capisco perchè tutta questa pubblicità negativa nei suoi confronti. Qui in Olanda lo descrivono come un uomo malato di sesso. Non posso crederci, dopo averlo conosciuto! Ovviamente parlo solo per quanto riguarda la mia esperienza!”

Però… le altre ragazze, compresa la famosa Ruby, hanno raccontato ben altro! Secondo lei perchè?

“Perchè sono ragazze poco per bene. Sicuramente si sono avvicinate a lui per il fatto che è famoso e ha tanti soldi; per cui hanno cercato di sfruttarlo per guadagnare più denaro possibile.”

Pensa a dei ricatti?

“Probabilmente sì. Sono ragazze senza scrupoli. Mi sembra un po’ la storia di Michael Jackson: anche lui è stato accusato di tutte le peggiori infamie, persino di pedofilia. Ma alla fine non si sono trovate alcune prove concrete. Erano i suoi nemici a volerlo distruggere. Berlusconi è un tipico uomo italiano; un uomo sano. Se gli piacciono le donne non è una colpa, ma, ripeto, io con lui ho solo parlato e riso tanto; perchè è molto simpatico e ha un grande senso dell’umorismo. Arcore è un posto bellissimo; ricordo la piscina e una grande tenuta che si doveva percorrere in auto, tanto era vasta! Aveva anche parecchi animali e dei lama.”

Nella residenza di Arcore ha incontrato anche sua moglie Veronica Lario? 

“No. Lei non si faceva mai vedere! Ho conosciuto solo un figlio e due figlie. Tutti molto gentili. Lui mi ha creata; e di questo gli sono molto riconoscente. Il programma Tutti i frutti è stato trasmesso anche in Germania, da RTL e in seguito in ben 35 Paesi, Giappone compreso; per cui sono diventata una vera star! Ho posato 4 volte per Playboy e ho girato un film con Tarantino. In Italia ho lavorato anche per la Rai e soprattutto per Mediaset; l’ultimo programma a cui ho partecipato è stato Showgirl, dove c’era, come ospite, Anita Ekberg.

In Olanda ha condotto un programma (per l’emittente Veronica) decisamente “hot”, che all’epoca ebbe molto successo, intitolato “Erotica”…

“Sì, ma non pensi che sono una donna poco seria, glielo ripeto. Ho anche partecipato al Grande Fratello (olandese) ed i soldi che ho guadagnato sono andati alla Croce Rossa. Vivo da 14 anni con il mio compagno. Non sono una persona che si vende per far carriera o avvicina uomini potenti per sfruttarli a questo scopo. A proposito, ieri sono stata contattata dal regista Celeste Laudisio, che fu anche regista di Colpo grosso per un’eventuale mia partecipazione all’Isola dei famosi…

Secondo me il cast dell’Isola dei famosi è completo…

“Sì, ma potrei fare la riserva. Infatti una ragazza che doveva partecipare è stata buttata fuori perchè è proprio una di quelle che hanno sparlato di Berlusconi coprendolo di fango.”

I maligni si staranno chiedendo perchè Silvio Berlusconi si è dato tanto da fare per aiutarla nella sua carriera…

“Appunto; i maligni! Le ho già detto che sono stata da lui, anche a cena. Non lo nego: ma non mi ha mai chiesto di fare sesso. Nè a me nè alle mie amiche. Lui non è un tipo così…Ne sono sicura. D’altra parte non vivo a casa sua quindi non so che cosa succede adesso o che cosa è successo qualche anno fa. Mi ha aiutata per generosità. Punto e basta.”

Allora chiudiamo con un messaggio; che cosa vorrebbe dirgli in questo momento?

“Caro Silvio, io credo che tu sia un uomo positivo: allora rifiuta la negatività che ti sta distruggendo in questo momento. E ricordati che spesso si ripercuote proprio contro chi l’ha creata. Rimani forte, per condurre bene il tuo Paese; nella vita privata resta una persona buona, come lo eri quando ti ho conosciuto.”

Intervista di Maria Cristina Giongo Libero: 4 febbraio 2011 Proibita la riproduzione, anche parziale, dell’articolo e delle foto senza citare l’autore e la fonte di provenienza.

Le donne del Cavaliere? Sono ben 130. I nomi, le età, le foto, i video, gli audio, scrive il 21 settembre 2011 Marianna Aprile su Oggi. Sono 131 le ragazze attribuite al Cavaliere. Sono tante le donne attribuite al premier, stando alle intercettazioni telefoniche e agli atti dell’inchiesta di Bari. Ecco quelle che a vario titolo sono state citate

Al di là dei profili di rilevanza penale, l’inchiesta barese sul giro di escort messo in piedi da Gianpaolo Tarantini ha riportato in primo piano le dame del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma quante sono le amiche del Cavaliere che in questi anni si sono avvicendate, a vario titolo (anche solo come invitate alle cene galanti), alle sue feste?

L’ELENCO COMPLETO – Mentre la procura di Napoli si dichiara incompetente e l’inchiesta passa a Roma, (LEGGI) il settimanale «Oggi», in edicola da mercoledì, le ha contate. Tra quelle comparse in atti di inchieste giudiziarie, in fotografie scattate nelle residenze del premier e secondo testimonianze dirette il totale è, fino a oggi, di 130. Il catalogo completo, con tutti i nomi e le età? Eccolo.

1. Sabina Began, 37 anni; 2. Terry de Nicolò, 36; 3. Carolina de Freitas, 36; 4. Francesca Lana, 26; 5. Letizia Filippi, 34; 6. Barbara Montereale, 25; 7. Daniela Lungoci, np; 8. Niang Kardiatau, 32; 9. Karen m. Buchanan, 40; 10. Manuela Arcuri, 34; 11. Camille c. Charao, 27; 12. Chiara Guicciardi, 34; 13. Fadoua Sebbar, np; 14. Sara Tommasi, 30; 15. Vanessa di Meglio, 38; 16. Monia Carpentone, 26; 17. Roberta, 34; 18. Maria j. De Britos Ramos, 37; 19. Graziana Capone, 26; 20. Michaela Pribisova, 28; 21. Luciana Francioli, 40; 22. Ioana Visan, 24; 23. Marysthell Garcia Polanco, 29; 24. Michelle Conceicao, 33; 25. Cinzia Caci, 37; 26. Barbara Guerra, 33; 27. Patrizia D’Addario, 45; 28. Lucia Rossini, 27; 29. Marica, np; 30. Michela, np; 31. Milena, np; 32. Carolina Marconi, 33; 33. Francesca Lodo, 27; 34. Diana Iawkic, 22; 35. Siria De Fazio, 34; 36. Nicole Minetti, 26; 37. Barbara Faggioli, 26; 38. Barbara Matera, 29; 39. Raffaella Fico, 23; 40. Cinzia Molena, 32; 41. Iris Berardi, 19; 42. Aris Espinoza, 22; 43. Alessandra Sorcinelli, 27; 44. Valentina Costanzo, 26; 45. Imane Fadil, 24; 46. Maria Makdoum, 20; 47. Ambra Battilana, 19; 48. Chiara Danese, 19; 49. Melania Tumini, 26; 50. Natascia, 21; 51. Katarina, 24; 52. Kristina, 24; 53. Diana Gonzales, 21; 54. Elisa Toti, 22;55. Imma De Vivo, 23; 56. Eleonora De Vivo, 23; 57. Aida Yespica, 30; 58. Claudia Galanti, 30; 59. Roberta Bonasia, 27; 60. Florina Marincea, 27; 61. Nadia Macrì, 27; 62. Francesca Cipriani, 27; 63. Viviana Andreoli, 31; 64. Virna Bello, 29; 65. Francesca Pascale, 28; 66. Licia Ronzulli, 36; 67. Elisa Alloro, 35; 68. Emanuela Romano, 30; 69. Cristina Ravot, 28; 70. Lisandra Silva, 26; 71. Clarissa Campironi, np; 72. Noemi Letizia, 20; 73. Roberta Oronzo, 20; 74. Elvira Savino, 34; 75. Emiliana, np; 76. Miriam Loddo, 28; 77. Karima El Mahroug-Ruby, 18; 78. Marianna Ferrera, 27; 79. Manuela Ferrera, 27; 80. Marianna Yushkah, 24; 81 Raissa Skorkina, 29; 82. Jennifer Rodriguez, 34; 83. Linsey Barizonte, 25; 84. Maria Rosaria Rossi, 39; 85. Marisiel, np; 86. Roberta/1, np; 87. Roberta/2, np; 88. Ioana Claudia Amarghioale, 21; 89. Ludovica Leoni, 30; 90. Elena Morali, 30; 91. Giovanna Rigato, 30; 92. Ale, np; 93. Monica, np; 94. Silvia Travami, np; 95. Renata Wilson, 27; 96. Maribel Torres Munoz, 56; 97. Giada, np; 98. Imma Dininni, 32; 99. Susanna Petrone, 33; 100. Lara Comi, 28; 101. Stella Schan, np; 102. Donatella Marrazza, 37; 103. Stella Maria Novarino, 32; 104. Francesca Garasi, 26; 105. Linda Santaguida, 33; 106. Barbara Pedrotti, 38; 107. Francesca Romana Impiglia, 33; 108. Poliana Gomes, 26; 109. Belen Rodriguez, 26; 110. Dani Samvis, 26; 111. Geraldin Semeghini, 34; 112. Ania Goledzinowska, 28; 113. Elisa De Carolis, 33; 114. Angela Sozio, 38; 115. G. M. 38; 116. Michela Nasponi, 24; 117. Laura Bertocco, 30; 118. Gemma, np; 119. Eleonora, np; 120. Miriam Marcondes, np; 121. Emanuela, np; 122. Michela Chillino, 30; 123. Lionella, np; 124. Christine Del Rio, 32; 125. Licia Nunez (Del Curatolo), 33; 126. Ludovica, np; 127. Giada Di Miceli, 29; 128. Silvia, np; 129. Valeria, np; 130. Giada Culite (alias Rasa Kulyte), 24.

TOGLIMI LE MANI DI DOSSO...ANZI NO! DA TRUMP A WEINSTEIN A HEFNER. SI E' TUTTE CONIGLIETTE?

Le donne ed il loro corpo. Il Sesso come strumento di concorrenza sleale?

Toglimi le mani di dosso, “fai sesso con me e avrai una carriera da giornalista”: in un libro le umiliazioni di Olga. Il “Porco” è untuoso e avanti con l’età, ha gli “occhi acquosi” e il “mento a tre strati”. Le chiede di andare a letto con lui in cambio di un futuro professionale e, quando lei dice no, tutto si risolve in un nulla. Toglimi le mani di dosso è un libro sofferto: "Vorrei che portasse chi gestisce il potere commettendo abusi, oppure tollerandoli, a pensare che forse, prossimamente, non la passerà liscia", scrive Davide Turrini, il 30 settembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il “Porco” è untuoso e avanti con l’età, ha gli “occhi acquosi” e il “mento a tre strati”. Le tocca sempre una spalla, la abbraccia, la invita sempre a cena, le fa balenare un futuro nel mondo del giornalismo solo se è disposta a stargli vicino, toccarlo, andare a letto con lui. Poi quando lei si lamenta, si oppone, o semplicemente si irrigidisce, lui s’incazza, e il futuro professionale promesso sparisce in un amen. La lei che subisce ogni genere di violenza fisica e mentale è Olga Ricci, nome fittizio dell’autrice di Toglimi le mani di dosso (Chiarelettere), il doloroso romanzo che riassume umiliazione e destino di una ragazza che tenta di fare la giornalista senza spinte e raccomandazioni, ma che deve subire le ripetute avances del direttore. Esperienza paradigmatica (e vera) raccontata in parte da un paio d’anni dietro al nom de plume di Olga su un seguitissimo blog, su cui sono state raccolte decine di testimonianze in forma di post di altre donne che sono state vessate sul luogo di lavoro dai propri capi in quanto donne. “In Italia c’è un silenzio assordante sul fenomeno delle molestie e della violenza sul lavoro. Me ne sono resa conto quando, per elaborare la mia ‘esperienza’ personale ho dovuto cercare materiale in inglese perché in italiano non ne trovavo. Così ho scoperto che negli Stati Uniti sono quasi quarant’anni che si occupano del problema”, spiega Olga Ricci a FQMagazine. “Catharine MacKinnon, avvocata e attivista femminista americana, autrice di Sexual Harassment of Working Women, non tradotto in italiano, ha impostato il quadro giuridico di riferimento negli Usa per il riconoscimento delle molestie sessuali sul lavoro come reato. Secondo l’autrice, le molestie sono un sopruso e contribuiscono a mantenere le donne in una posizione subalterna. Non devono essere interpretate come “incidenti” isolati e personali, ma come un problema sociale, che riguarda le donne in quanto donne, cioè appartenenti al genere femminile. Per questo motivo, le molestie vanno considerate addirittura oltre l’abuso, l’umiliazione e l’oppressione di ciascuna vittima: costituiscono una vera e propria discriminazione sessuale, lesiva per tutta la società”. Toglimi le mani di dosso è un libro sofferto, l’agnizione pratica dell’essere sottomessi all’autorità ottusa e alle consuetudini sessiste, un biopic che gronda desiderio di giustizia e vendetta, ma che s’infrange sempre in un singulto di rivolta continuamente rimandato. “Dopo avere studiato la MacKinnon e altre sociologhe ho capito che quello che avevo passato andava raccontato. Stare zitta avrebbe significato essere complice del sistema. Il blog mi ha fatto capire che non ero sola, come avevo creduto per molto tempo”, continua la Ricci. “C’era e c’è bisogno di fare chiarezza su temi come quello delle violenza sul lavoro, della precarietà e della discriminazione. Grazie al confronto con chi mi ha seguita e agli incoraggiamenti delle lettrici e dei lettori del blog ho trovato la forza per andare avanti, anche col lavoro, nonostante le difficoltà, per non darmi per vinta. Perché, nonostante tutto, continuo a fare la giornalista anche se fatico ad arrivare alla fine del mese”. Il romanzo della Ricci ha poi un ulteriore pregio: contestualizzare la vessazione sessista in un mondo, quello del giornalismo italiano, che sembra davvero umanamente irrecuperabile, fatto di precariato perenne, figli di papà, “lecchini” e “mummie” (quei pensionati che continuano a scrivere facendosi pagare profumatamente); “fascisti” o “benpensanti di sinistra” ai comandi nessuno fa nulla, o meglio tutti toccano, palpano, ricattano, tiranneggiano, offendono: “Nei templi della notizia le relazioni sono fatte di materiali tossici”, è scritto nel romanzo. “Secondo l’FNSI ci sono solo 5 donne a dirigere quotidiani mentre sono 113 gli uomini che li dirigono”, prosegue l’autrice. “Cinque le donne vicedirettore di quotidiani contro 99 uomini; 67 redattore-capo contro 477; 65% per cento: donne giornaliste rimaste dentro le aziende editoriali a seguito di stati di crisi di cui solo il 30% ha un contratto e tutte le altre sono precarie. Serve aggiungere altro per definire che il potere, nel giornalismo, è ancora maschile?”. Anche se il sassolino nello stagno gettato da “Olga” con blog e libro sembra come riverberarsi nel vuoto dell’indifferenza di una macchina dell’informazione, e del lavoro in genere, che corre a mille: “Secondo l’Istat il 99,3% dei ricatti sessuali sul lavoro non vengono segnalati. Le vittime non ricorrono alla legge per motivi diversi: paura, vergogna, imbarazzo, timore di essere trattate male, assenza di fiducia nelle forze dell’ordine, mancanza di prove. Per sottrarsi alla situazione di violenza, la maggior parte delle donne lascia il posto. Bisogna tenere presente che è difficile riuscire a dimostrare la violenza sul lavoro. Di solito, infatti, le molestie sessuali e i ricatti avvengono in assenza di testimoni, sono costruite nel tempo come somma di piccole azioni apparentemente “inoffensive”, non sono del tutto esplicite. Perfino in caso di ricatti chiari, una registrazione ambientale non costituisce di per sé una prova decisiva, a meno che non sia stata fatta dalle forze dell’ordine. Se è una registrazione fai da te resta un elemento che certamente può essere considerato dal giudice, ma non è risolutivo”. Come suggerisce la Ricci sempre negli Stati Uniti qualcosa è cambiato: “Per evitare problemi la multinazionale American Apparel ha di recente introdotto regole più ferree per contrastare le molestie sessuali. Nei mesi scorsi il fondatore ed ex numero uno di Apparel è stato travolto da uno scandalo per le accuse di alcune dipendenti. La società, dopo una serie di verifiche, lo ha licenziato e ha proibito ogni tipo di relazione sessuale e amorosa, inclusi gli appuntamenti fuori dal posto di lavoro, tra manager e dipendenti. È prassi che nelle società americane non siano ammesse formalmente le relazioni interpersonali private che possono portare ad abusi di potere”. “Vorrei che il libro portasse chi gestisce il potere commettendo abusi, oppure tollerandoli, a pensare che forse, prossimamente, non la passerà liscia perché ci saranno donne pronte a denunciarli – conclude l’autrice – Vorrei che chi subisce fosse pronta a dire basta. Vorrei che altre donne iniziassero a raccontare e smascherare chi commette abusi e violenze. Vorrei che si capisse che il cambiamento da mettere in atto riguarda tutta la società e non solo le donne. Questa non è una questione femminile, riguarda soprattutto gli uomini. Ma la strada per arrivare anche solo a una vaga presa di coscienza è ancora lunga. Di recente il direttore di un quotidiano nazionale ha patteggiato una condanna per molestie sessuali. Ho saputo della notizia per via traverse. Non l’ho letta su nessun giornale. Perché?”.

Fare sesso per fare carriera? Scrivono Le Fattucchiere, Elisabetta Ambrosi e Lia Celi, l'1 aprile 2015, su "Il Fatto Quotidiano".

Più che alla morale occhio alle complicazioni, scrive Elisabetta Ambrosi. Una bufera di critiche, di accuse di scorrettezza politica e di bieco maschilismo si è rovesciata sulla chirurga vascolare Gabrielle McMullin, rea di aver affermato che, per far carriera, le donne devono essere anche disposte anche a qualche richiesta sessuale. Ma quello che i detrattori della dottoressa australiana non hanno capito è che la sua affermazione non era un auspicio, insomma un dover essere (opportuno e giusto fare sesso con i capi) ma una constatazione di fatto: se fai sesso con i capi, fai anche più carriera. Talmente vero da apparire banale, anche se non andrebbero sottovalutati fastidiosi effetti collaterali – proprio sul lavoro – quando la relazione si interrompe. Più interessante allora sarebbe stato però esplorare un altro aspetto del dilemma: posto che una decida di scopare col superiore, scelta libera in un Paese libero, com’è meglio farlo? Con astuto cinismo, come una specie di fastidioso straordinario, o con coinvolgimento sentimentale (accade, siamo umani, oltre al fascino del potere)? Non sempre è una scelta e normalmente la versione A – distacco completo e obiettivo solo strumentale – è molto rara, perché, nonostante i moralisti la propongano come l’immagine classica della donna avida di carriera che sfrutta qualsiasi mezzo, la realtà è impastata di ambiguità: e dunque di avances affettuose, gratificazioni narcisistiche reciproche, mezzi innamoramenti, a volte persino amore: insomma più spesso il sesso in ufficio appare così. Invece di gridare allo scandalo, allora, sarebbe meglio restare lucide sulle inevitabili ricadute anche professionali, della fine della storia. Se dunque esiste una vera obiezione all’evitare il letto del capo, non è morale, ma pratica. Non fate sesso col superiore perché a volte – altro che benefici- le complicazioni successive (anche sulla carriera) sono molte di più.

A letto con il capo? L’uomo non esiterebbe, scrive Lia Celi.  Ma l’avete visto quanto è bella Gabrielle McMullin, la chirurga australiana secondo cui ogni donna è seduta sulla sua meritocrazia e non lo sa? Una splendida 60 enne tipo Julie Andrews che irradia empowerment e autorevolezza. Il discorso “se il capo ve la chiede dàtegliela, na lavada, na sugada, la par nanca duperada” (non è il motto sull’ultima felpa di Salvini ma un cinico proverbio milanese, “una lavata, un’asciugata e non pare neanche usata”) ce lo saremmo aspettate da un’Olgettina o da una Biancofiore, per chi sa cogliere la sottile differenza. La dottoressa si riferiva in particolare alle stagiste e citava il caso di una giovane specializzanda che per aver denunciato le avance del suo supervisore ha perso il posto cui aspirava. Stop alla carriera, conclamata quanto rovinosa fama di cagacazzo: vale la pena, o è meglio chiudere gli occhi e pensare al proprio futuro? La Realpolitik della passera vale ancora, e a parti ribaltate gli uomini non si farebbero scrupolo a barattare una scopata con una promozione, perché badano al sodo e non dubitano che il loro coso resti come nuovo. Ma quando mio figlio è sul tavolo operatorio non voglio dover pensare che la anestesista che gli sta iniettando qualcosa di potenzialmente letale ha ottenuto quel lavoro non perché era la più competente in anestesiologia, ma perché è andata a letto col primario. Questo non esclude che sia anche competente, ma il dubbio mi induce a diffidare automaticamente di lei e di tutte le donne in ruoli di responsabilità, specie se giovani e belle, e di volere al loro posto dei maschi, che possono far carriera senza puntare sulla libido altrui. Almeno in Australia e nell’Occidente civilizzato. In Italia gli uomini devono puntare su parentele e raccomandazioni. E se fai carriera col sesso almeno devi scopare di tuo, se la fai con gli appoggi strumentalizzi papà ministro e amici di famiglia, che è anche più sporco. Da il Fatto del Lunedì, 23 Marzo 2015

Weinstein lasciato dalla moglie Georgina. Lo accusa anche Cara Delevingne, scrive l'11 ottobre 2017 "La Repubblica". La moglie annuncia di volersi separare dal produttore: "Ho il cuore a pezzi per queste donne". Lindsay Lohan prende le parti del magnate: "Ingiusto quanto sta accadendo". Ma al coro si aggiunge l'attrice e modella inglese: "Voleva coinvolgermi in un rapporto a tre". Il commento dell'Academy: "Vicenda ripugnante e contraria ai nostri principi". "Ho il cuore a pezzi per tutte queste donne che hanno sofferto terribili pene a causa delle sue azioni imperdonabili". Con queste parole Georgina Chapman annuncia alla rivista di People la sua intenzione di lasciare Harvey Weinstein. "Ho deciso di lasciare mio marito. I miei figli ora hanno la priorità e chiedo ai media un po' di privacy in questo momento" ha aggiunto la moglie del produttore, accusato di molestie sessuali nel corso di trent'anni nei confronti di attrici e collaboratrici. Tra queste Asia Argento, che lo ha accusato di stupro e star di primo piano come Gwyneth Paltrow e Angelina Jolie, che hanno raccontato di essere state molestate quando erano agli inizi della loro carriera. Intanto arriva anche la condanna dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Che in un comunicato giudica le accuse rivolte a Weinstein "disgustose, ripugnanti, contrarie ai princìpi dell'Academy e della comunità creativa che essa rappresenta". L'associazione che ogni anno organizza la cerimonia degli Oscar annuncia inoltre sulla questione la convocazione speciale del board dei governatori per sabato 14. In precedenza la British Academy aveva già sospeso il produttore "a tempo indeterminato", giudicando i comportamenti dei quali è accusato "inaccettabili e incompatibili con i principi del BAFTA". Georgina Chapman, 41 anni, e Harvey Weinstein, 65 anni, si sono sposati nel 2007 e hanno due figli, India Pearl di 7 anni e Dashiell Max Robert di 4. Chapman nel 2004 ha fondato la casa di moda Marchesa, molto amata dalle star. In una nota rilasciata dal suo portavoce, Weinstein appoggia la decisione della moglie. ''Nell'ultima settimana la mia famiglia ha sofferto molto e me ne assumo la responsabilita'', afferma il co-fondatore di Miramax. ''Ho discusso con mia moglie quello che era meglio per la nostra famiglia. Abbiamo parlato della possibilità di una separazione e l'ho incoraggiata a fare quello che si sentiva''. Lindsay Lohan difende il produttore in due post, poi cancellati dal suo profilo Instagram: "Sto male per Harvey Weinstein, non credo che sia giusto ciò che gli sta accadendo - dice l'attrice in un video - Credo che Georgina debba fare un passo indietro e restare a fianco del marito". Lohan ha precisato di non aver mai subito molestie da Weinstein, nonostante i due abbiano lavorato insieme in numerosi film. Barack e Michelle Obama. ''Siamo disgustati. Un uomo che umilia e degrada le donne deve essere condannato a prescindere dalla sua ricchezza e dal suo status''. Lo affermano l'ex presidente americano Barack Obama e la moglie Michelle, condannando il produttore di Hollywood e finanziatore dei democratici Harvey Weinstein. ''Dobbiamo celebrare il coraggio delle donne che si sono fatte avanti per raccontare le loro storie dolorose''. Hillary Clinton donerà i fondi ricevuti da Harvey.  Hillary Clinton donerà i fondi ricevuti da Harvey Weinstein in campagna elettorale. Lo ha annunciato la ex first lady in un'intervista alla Cnn. Ribadendo di essere rimasta scioccata dalle accuse al potente produttore di Hollywood, Clinton ha giudicato i suoi comportamenti "intollerabili". "Non avevo alcuna idea di come agisse nella vita privata", assicura, nonostante si dica che molte persone vicine a Weinstein sapessero. E il rapporto con la famiglia Clinton era molto stretto, tanto che Bill e Hillary nel 2015 presero in affitto una casa agli Hamptons proprio vicino alla villa del produttore. Weinstein ha raccolto per i democratici 1,5 milioni di dollari, secondo i dati dell'ultima campagna.

Cara Delevingne. Nuove accuse al produttore arrivano anche da Cara Delevingne. La 25enne attrice e supermodel britannica testimonia su Instagram e accusa Weinstein di aver provato a coinvolgerla in un rapporto a tre con un'altra donna. Il fatto sarebbe accaduto in un hotel di New York. Dopo aver incontrato l'attrice nella lobby, il produttore l'avrebbe inviata a salire nella sua camera, dove era presente un'altra donna. Weinstein avrebbe invitato le due ospiti a baciarsi. Delevingne avrebbe tentato di sottrarsi iniziando improvvisamente a cantare e sostenendo di doversi recare immediatamente a recuperare la sua auto: mentre tentava di uscire Weinstein avrebbe tentato di baciarla. L'attrice ha poi aggiunto di aver comunque ottenuto la parte nonostante il suo rifiuto, ma ha aggiunto di essere stata molto male per aver fatto quel film prodotto da Weinstein.

Asia e le altre, tutte le donne molestate da Weinstein, scrive su "AdnKronos" Manuela Montebello l'11/10/2017. Si sono fatte avanti una dopo l'altra raccontando di aver subito all'inizio della loro carriera molestie sessuali, abusi che le hanno traumatizzate e che ancora oggi ricordano come un incubo. Sono attrici, modelle, assistenti, ex dipendenti della sua società le vittime di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico americano tra i più influenti di Hollywood finito in un gigantesco scandalo per molestie sessuali. A lanciare la bomba è stato giovedì scorso il 'New York Times' che ha pubblicato un'inchiesta, basata su numerose testimonianze, in cui il produttore di film di successo come Pulp Fiction e Shakespeare in Love è accusato di aver molestato molte donne negli ultimi 30 anni. Weinstein è stato costretto ad ammettere le sue colpe e a scusarsi. Scuse però che non sono bastate ad evitargli il licenziamento dalla società che aveva contribuito a fondare. Lo scandalo ha anche mandato in frantumi il suo matrimonio: la moglie Georgina Chapman ha annunciato oggi l'intenzione di lasciarlo. Tra le donne che hanno coraggiosamente denunciato di aver subito molestie da parte di Weinstein ci sono molte star e non solo di Hollywood. Ecco chi sono:

ASIA ARGENTO - L'ultima in ordine di tempo ad aver puntato il dito contro l'influente produttore americano è Asia Argento. L'attrice e regista italiana ha raccontato alla rivista 'New Yorker' di essere stata costretta ad avere un rapporto orale con Weinsten quando aveva 21 anni. I fatti risalgono alla fine degli anni '90, nel periodo in cui Argento stava interpretando un ruolo nel film 'B. Monkey - Una donna da salvare'. L'attrice aveva ricevuto un invito a un party della Miramax, che distribuiva la pellicola, all'hotel di Cap-Eden-Roc, in Costa Azzurra, ma una volta arrivata sul posto aveva scoperto che non c'era nessuna festa. Si era ritrovata così da sola in una stanza d'albergo con Weinstein. Il produttore, dopo essersi complimentato con lei per la sua interpretazione, era uscito dalla stanza. Al ritorno si era presentato in accappatoio, con una lozione in mano, e aveva chiesto all'attrice di fargli un massaggio. Lei aveva accettato suo malgrado ma a quel punto lui l'aveva aggredita costringendola a un rapporto orale. "Ero terrorizzata... è stato un incubo", ha raccontato l'attrice descrivendo l'accaduto come "un trauma orribile".

GWYNETH PALTROW - Aveva 22 anni Gwyneth Paltrow quando si trovò costretta a reagire alle pesanti avances di Weinstein. Era stata scritturata per interpretare 'Emma' dal romanzo di Jane Austen. Prima che le riprese iniziassero, ha raccontato l'attrice al 'New York Times', il produttore la convocò nella sua suite al Peninsula Beverly Hills hotel per una riunione di lavoro. L'incontro cominciò senza problemi, ma a un certo punto Weinstein tentò di metterle le mani addosso invitandola nella camera da letto per un massaggio. "Ero una ragazzina, sono rimasta segnata, ero pietrificata", ha confessato Paltrow che è riuscita a sottrarsi al brutale approccio del produttore e ha raccontato tutto al suo fidanzato di allora Brad Pitt. L'attore ha affrontato Weinstein. Per tutta risposta il produttore ha chiamato l'attrice intimandole di non raccontare a nessun altro l'accaduto. Negli anni successivi Paltrow ha lavorato ancora con lui, che ha prodotto tra l'altro 'Shakespeare in Love', il film della sua consacrazione.

ANGELINA JOLIE - Tra le donne vittime di Weinstein c'è anche Angelina Jolie. L'attrice, riferisce il 'New York Times', ha raccontato di aver subito in una camera d'albergo le spiacevoli avances del produttore alla fine degli anni '90, nel periodo di Scherzi del cuore, e di averle respinte. "Ho avuto una brutta esperienza con Harvey Weinstein da giovane e, di conseguenza, ho scelto di non lavorare più con lui e ho messo in guardia tutti gli altri dal farlo", ha detto Jolie. "Questo comportamento verso le donne - ha aggiunto - in qualsiasi campo e in qualsiasi paese è inaccettabile".

ROSE MCGOWAN - Rose McGowan, star della serie tv Streghe e dei film della saga Grindhouse, è stata tra le prime a rompere il silenzio. L'attrice su Twitter ha pubblicato una sua foto all'epoca dei fatti e ha scritto: "Ecco la ragazza che è stata vittima di un mostro. Ecco la ragazza che avete coperto di vergogna con il vostro silenzio".

ASHLEY JUDD - Tra le grandi accusatrici di Weinstein, secondo l'inchiesta del New York Times, c'è anche Ashley Judd, protagonista di film come 'Il collezionista' e 'Colpevole d'innocenza'. Le molestie risalgono a circa 20 anni fa. Il produttore ha utilizzato il suo solito copione per tentare un approccio. Ha invitato l'attrice nel suo hotel a colazione, si è presentato in accappatoio e le ha offerto di farle un massaggio. "Ho detto no molte volte e in molti modi ma tornava sempre a fare nuove richieste", ha raccontato Judd.

LE ALTRE VITTIME - E' lungo l'elenco delle donne che negli anni si sono trovate a subire le molestie di Weinstein. Da Rosanna Arquette a Judith Godrèche, da Mira Sorvino a Katherine Kendall fino a Ambra Battilana Gutierrez, la modella nata in Italia e con origini filippine, nota per essere finita nello scandalo dei festini di Arcore e come testimone al processo 'Ruby 2'. La modella ha raccontato di aver subito nel 2015 delle molestie sessuali da parte di Weinstein quando aveva 22 anni. Tra le vittime del produttore non ci sono però solo attrici e modelle, ma anche tante altre donne, assistenti o ex dipendenti della sua società, che nel corso di 30 anni sono state costrette a subire le avances di Weinstein. Una lunga lista a cui fortunatamente da oggi in poi, grazie allo scandalo che ha travolto il produttore, non saranno aggiunti altri nomi.

Weinstein e lo scandalo sessuale, la stilista Donna Karan: «Forse le vittime se la sono cercata». In un'intervista ha definito il produttore: «Meraviglioso» e sottolineato «Forse le donne vestendosi in un certo modo se la cercano». Replica una delle vittime: «Sei feccia». Poi le scuse, scrive Annalisa Grandi il 10 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Lei di Harvey Weinstein è grande amica e questo si sapeva. Ma ora che lui è nell’occhio del ciclone per le denunce arrivate da ex dipendenti e attrici su presunti abusi, Donna Karan lo difende. E finisce al centro della polemica a sua volta.

«Se la cercano?» La stilista in un’intervista al «Daily Mail» ha definito il produttore 65enne «meraviglioso». E non si è fermata qui, ha anche aggiunto che «le donne non se la siano cercata». «Forse ci dovremmo chiedere se il modo in cui ci si veste non suggerisca che è quello che vogliamo» ha detto la stilista. Per poi concludere: «Siamo noi che dobbiamo badare a noi stesse». «Mi domando anche come ci mostriamo? Che cosa chiediamo? Non ce la andiamo a cercare mostrando tutta la nostra sensualità e sessualità?» ha detto ancora.

Le polemica e le scuse. Parole, quelle pronunciate da Donna Karan, che hanno scatenato la rabbia di una delle grandi accusatrici di Weinstein Rose McGowan: «Il tuo è un deplorevole sostegno e incoraggiamento, è un crimine morale. Sei feccia con un bel vestito addosso». E su Twitter è partita la campagna contro la stilista, c'è chi ha pubblicato immagini proprio degli abiti da lei disegnati per domandarle se quei vestiti siano un invito agli abusi. Poi, sono arrivate le scuse: «Le mie dichiarazioni sono state estrapolate dal contesto. Credo che le molestie non siano accettabili, sono dispiaciuta per chiunque si sia sentito offeso e mi dispiace per tutte le vittime».

Fabrizio Lombardo e Harvey Weinstein. Il caso di Miramax Italia, le telefonate di Matt Damon e Russell Crowe. E la polemica scoppia anche a Hollywood, e arriva fino in Italia. Rose McGowan tira in ballo Matt Damon e Russell Crowe. Non solo sapevano di quanto accadeva negli uffici di Weinstein, ma avrebbero cercato di impedire che la cosa trapelasse. Tutto parte dalla denuncia pubblicata da una reporter, Sharon Waxman che racconta di come già nel 2004 già si sapeva degli abusi compiuti dal produttore. In una lettera pubblicata da «The Wrap» racconta di come si recò in Italia per incontrare l'allora capo di Miramax Italia, Fabrizio Lombardo. Di lui si sapeva che aveva uno stipendio di 400mila dollari l'anno, che pare non avesse competenze specifiche in ambito cinematografico e che si diceva organizzasse cene per il produttore con giovani ragazze russe. Lombardo, interpellato, si rifiutò di commentare, e la giornalista volò allora a Londra per incontrare una ragazza che rivelò di essere stata costretta a rapporti sessuali da Weinstein. «La storia non l'ho mai raccontata» spiega la reporter che racconta di aver ricevuto «grandi pressioni» da Weinstein, comprese due telefonate da parte di Matt Damon e Russell Crowe «entrambi garantirono per Lombardo». Risultato, nessuna notizia mai uscì. Fino a ora. Lombardo, che fu coinvolto insieme a Stefano Ricucci nel crack della Magiste International, tramite il suo legale ha fatto sapere che le informazioni diffuse da Sharon Waxman e riprese anche da «Newsweek» sono del tutto infondate.

Le altre star. Intanto da Hollywood aumenta la lista di star che parlano della vicenda, George Clooney ha definito Weinstein «Indifendibile». «Ha ammesso, è impossibile scusarlo. Lo conosco da vent’anni ci ho cenato insieme ma non l’ho mai visto avere nessuno di questi comportamenti» ha detto il divo. «Questo tipo di abusi non hanno giustificazioni» ha detto invece Jennifer Lawrence, mentre Kate Winslet, premio Oscar per «The Reader», prodotto dai Weinstein, descrive il tutto come «disgustoso» e «spaventoso».

Caso Weinstein, ora trema il procuratore di Manhattan, scrive l'11 ottobre 2017 Matteo Carnieletto su "Gli occhi della guerra" de "Il Giornale". La prossima vittima del caso Weinstein, l’inchiesta che prende il nome dal produttore di Hollywood accusato di aver stuprato diverse donne in trent’anni di carriera, potrebbe essere il procuratore distrettuale di Manhattan Cyrus Vance Jr. Secondo quanto scrive Vox, il procuratore sarebbe solito non molestare i ricchi e i potenti, soprattutto se in passato sono stati finanziatori della sua campagna elettorale. Vance avrebbe infatti tenuto una linea morbida nei confronti di Weinstein e dei figli del presidente americano, Ivanka e Donald Trump Jr. In entrambi i casi, la documentazione portata dai giornali suggerisce che Vance e i suoi procuratori avrebbero avuto prove convincenti per procedere, ma che non l’abbiano fatto per non alienarsi amicizie potenti. Vance ha dichiarato che, “dopo aver analizzato le prove disponibili, tra cui molteplici colloqui con le parti, si è giunti alla conclusione che un’inchiesta penale non fosse fondata”. Per quanto riguarda il caso Ivanka e Donald Jr., Vance ha invece affermato di “non ritenere oltre ogni ragionevole dubbio che un reato fosse stato commesso”.

Chi è Cyrus Vance. A portarlo sul banco degli accusatori più alto della città Cyrus Vance è stato il ritiro del suo predecessore, il venerabile Robert Morgenthau, che nel 2009, a 90 anni e dopo 36 anni su quella poltrona, decise di non candidarsi per la rielezione. Dopo il ritiro di Morgenthau, tutti i giornali e le figure politiche più importanti di New York puntarono su Vance, un ex viceprocuratore distrettuale di solido background democratico. Quest’anno Vance punta alla rielezione a un terzo mandato. Ed è qui che arriva la grana di Weinstein. In America, infatti, i magistrati si eleggono come qualsiasi altra carica politica e, dopo aver vinto le primarie lo scorso 12 settembre, Vance rischia di non vincere il ballottaggio del 7 novembre. “Avevamo le prove”, ha riferito una fonte della polizia al New Yorker, “per perseguirlo (Weinstein NdR) per aver aggredito la modella italo filippina di 22 anni Ambra Battilana Gutierrez nel marzo del 2015″. L’aggressione di Weinstein era stata denunciata dalla stessa Gutierrez. L’indomani la polizia le aveva messo un microfono addosso, venendo così a sapere che il produttore era un habituee delle molestie. Pochi mesi dopo che Vance decise di non incriminare Weinstein, l’avvocato del produttore, David Boies, decise di donare 10mila dollari alla campagna di rielezione, come riferisce il Business Times International. I rappresentanti di Vance e Boies hanno però negato qualsiasi connessione tra il contributo elettorale e la decisione di non incriminare Weinstein, sottolineando che Boies ha donato negli anni 55mila dollari a Vance.

Il caso Trump. Alcuni media americani, come New Yorker e ProPublica, hanno scoperto che Vance aveva chiuso un’inchiesta sui figli di Trump, ricevendo un grande contributo da un avvocato vicino alla vicenda. Nel 2012, Ivanka e Donald Trump Jr. erano infatti finiti sotto inchiesta per false dichiarazioni fatte nelle carte per lo sviluppo edilizio relativo all’albergo Trump SoHo. I figli del presidente americano avevano detto ai potenziali acquirenti e ai media che gli appartamenti si vendevano alla grande e che nel giugno del 2008 già il 60% era stato comprato. L’obiettivo era creare l’illusione di una forte domanda per avere offerte superiori per le unità ancora sul mercato. Ma le affermazioni di Ivanka erano false: nel marzo 2010, solo il 15,8% delle unità era stato venduto. Ciò ha portato a una causa nei confronti del tycoon da parte degli inquilini, e i Trump rischiavano l’incriminazione per aver violato la legge Martin che proibisce false dichiarazioni nel corso della vendita di un immobile. Anche in questo casi gli inquirenti avevano a disposizione una valanga di prove e l’ufficio del procuratore ha passato due anni a costruire un processo contro Ivanka e Donald Jr. Poi nel 2012 l’avvocato personale di Donald Trump Sr., Marc Kasowitz andò direttamente da Vance per una riunione e cominciò un noioso e complicato giro di soldi. Basti sapere che cifre tra i 25mila e i 32mila dollari partirono dal conto di Kasowitz per entrare e uscire dalle casse della campagna elettorale di Vance finchè si decide che anche dell’inchiesta contro i Trump non se ne sarebbe fatto nulla. Una faccenda complicata, ma che dimostra quanto pesanti possano essere le implicazioni di quello che sembrava essere “solo” uno scandalo sessuale e ora rischia di travolgere come una palla da bowling tanti birilli della giustizia e della politica statunitense.

IL MOSTRO PROTETTO DALLA SINISTRA. Harvey licenziato per molestie. Ma le star tacciono, scrive Giampiero De Chiara il 10 ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". Il produttore Harvey Weinstein, creatore di tante favole per adulti, è rimasto invischiato in una brutta storia, ma stavolta è lui parte in causa nel ruolo dell’orco cattivo in una vicenda che ha scosso Hollywood in queste ultime settimane. Prima che uno scandalo di molestie sessuali lo travolgesse, aveva anche scherzato sulle accuse che giravano sul suo conto: sugli strani provini cui sottoponeva alcune sue attrici: «Questa storia è così bella che vorrei comprare i diritti per farci un film». Mostrando una sicurezza e una arroganza, figlie di una logica che nel mondo della settima arte riporta indietro agli anni d’oro della Hollywood in bianco e nero, quando molte attrici, poi diventate star, passavano dal «divano del produttore».

Ieri però l’orco Harvey (vincitore di un Oscar per aver prodotto Shakespeare in love, ma anche Pulp fiction, Will Hunting - Genio ribelle e La vita è bella di Roberto Benigni, tra gli altri,) è stato licenziato dalla società da lui stesso fondata, assieme al fratello Bob, la «The Weinstein Co.», dopo una inchiesta del New York Times. Il produttore è stato travolto dallo scandalo a seguito delle rivelazioni del quotidiano sulle gravi accuse di molestie contro di lui che giravano da almeno tre decenni. Fino ad ora se l’era sempre cavata, patteggiando in otto casi che coinvolgevano sue dipendenti, ma anche attrici La Kidman ha vinto l’Oscar con «The Hour», prodotto da Weinstein e modelle. C’è chi conoscendolo bene per averci lavorato assieme (Matt Damon protagonista e sceneggiatore con Oscar, assieme a Ben Affleck, di Will Hunting) lo aveva paragonato al protagonista di una famosa favola: «La sapete la storia della rana e dello scorpione. Lo scorpione promette alla rana che non le farà del male, ma alla fine se la mangia. La rana gli chiede perché e lui risponde perché sono fatto così, sono uno scorpione. Ecco, Harvey è lo scorpione». Stavolta però ad inchiodarlo sono state le testimonianze dirette al New York Times di Ashley Judd e Rose McGowan. È stata proprio quest’ultima, ieri dopo la notizia del licenziamento, a postare su Twitter una sua foto di qualche anno fa con un amaro commento: «Questa è la ragazza che è stata vittima di un mostro. Questa è la ragazza che avete coperto di vergogna con il vostro silenzio.» Un attacco rivolto anche a molte colleghe attrici che hanno coperto o sono rimaste in silenzio per anni, pur conoscendo i trascorsi di Weinstein. Accuse di ipocrisia che coinvolgono quel mondo dorato che da sempre guarda a sinistra. Nell’occhio del ciclone soprattutto tre attrici premi Oscar (vinti proprio con film prodotti da Harvey) come Meryl Streep, Nicole Kidman e Gwyneth Paltrow, sempre schierate a favore delle donne vittime di abusi, ma che stavolta non hanno proferito parola. Tranne la prima che, solo ieri dopo giorni di silenzio assordante, è intervenuta parlando di un «disgustoso» e «imperdonabile» «abuso di potere». Chiaro l’imbarazzo di Meryl (che aveva definito Weinstein «Dio», nel 2012 ai Golden Globe) così come quello dei democratici, in particolare dei Clinton e degli Obama. Dal 1990 i finanziamenti del produttore al loro partito sono stati più di un milione e 400 mila euro. La stessa Michelle, in passato, lo ha definito: «Un essere umano meraviglioso e un buon amico». Malia, la primogenita degli Obama, ha anche lavorato nella sede di New York della casa di produzione. E i Clinton, durante la campagna elettorale, hanno partecipato nell’appartamento di Manhattan del produttore ad una cena per raccogliere fondi proprio per la corsa presidenziale di Hillary.

“Signore di Hollywood, il vostro silenzio è assordante”, scrive il 9 ottobre 2017 "Il Post". Dopo le accuse di molestie contro il produttore Harvey Weinstein, il New York Times ha notato i pochissimi commenti di un mondo di solito molto loquace sul tema. Harvey Weinstein è un produttore cinematografico statunitense molto famoso e influente, che è stato licenziato dalla Weinstein Company, la società che lui stesso ha contribuito a fondare e dalla quale si era sospeso alla fine della settimana scorsa, a causa di un grande scandalo per molestie sessuali. La storia era diventata pubblica la scorsa settimana, dopo che il New York Times aveva pubblicato una lunga inchiesta che dava conto delle moltissime accuse contro Weinstein, che nel tempo aveva pagato diverse donne perché rinunciassero a denunciarlo. Domenica 8 ottobre il New York Times è tornato a parlare di Weinstein chiedendosi come mai così poche persone del cosiddetto “mondo dello spettacolo” americano – progressista, liberal, femminista, etc – avessero espresso pubblicamente solidarietà alle donne che erano state molestate, come mai non avessero detto nulla in generale su questa storia e perché, dopo un’esplicita richiesta, non avessero accettato pubblicamente di parlarne. L’articolo si rivolge in particolare a tutte e a tutti coloro che in passato, di fronte ad accuse simili su altre persone, avevano invece preso posizioni molto nette. Da giovedì a sabato, scrive nel suo articolo il giornalista Brooks Barnes, «ho chiamato più di 40 personaggi del mondo dello spettacolo e quasi tutti si sono rifiutati di parlare» della questione. Brooks Barnes ha spiegato che alcune delle persone contattate si sono giustificate spiegando che le loro case di produzione o i loro agenti pubblicitari avrebbero dovuto approvare tutte le loro dichiarazioni, mentre altri hanno presentato motivazioni che rafforzano l’idea per cui la comunità di Hollywood sia spaventata, preoccupata innanzitutto dal difendere i propri interessi e pervasa dall’ipocrisia. «Signore di Hollywood», ha scritto infatti su Twitter Rose McGowan, una delle attrici risarcite per molestie da Weinstein, «il vostro silenzio è assordante».

Il New York Times cita nel suo articolo l’agente pubblicitario di un’attrice molto conosciuta e molto pagata (di cui non si fa il nome) che ha detto che non ci sarebbe stata alcuna convenienza per la sua cliente nel rilasciare una dichiarazione, soprattutto perché non c’era alcun film in uscita da promuovere. Un produttore ha voluto sapere chi avrebbe fatto pubblicamente altri commenti, così avrebbe potuto essere «citato in buona compagnia». Un agente ha parlato negativamente del fatto che nessuno dicesse niente, ma poi si è rifiutato a sua volta di dire qualcosa. Kevin Costner, protagonista in una serie prodotta da Weinstein, «non era disponibile a causa della sua agenda», ha spiegato il suo portavoce. Ci sono state delle eccezioni, comunque: oltre a Rose McGowan, direttamente coinvolta, hanno preso posizione alcuni personaggi famosi come Lena Dunham, Amber Tamblyn, Brie Larson, Seth Rogen e alcuni produttori. Altri hanno fatto notare alcune differenze tra il caso di Weinstein e quello di Trump: Weinstein ha ammesso tutto, una volta scoperto; ha lasciato il suo incarico, non ricopre una carica elettiva (quindi non rappresenta nessuno) e, se non è stato criticato pubblicamente da molti dei suoi ex colleghi, non è stato nemmeno difeso da qualcuno.

Il New York Times spiega che gli stessi attori e attrici che sono intervenuti in altri episodi simili, non sono stati altrettanto presenti in quest’occasione perché ad essere coinvolta è una persona importante che ha direttamente a che fare con il loro mondo. Claudia Eller, co-direttrice di Variety, ha aggiunto che uno dei motivi principali di questo silenzio è dovuto al fatto che «Hollywood protegge sempre i suoi». Naturalmente, precisa il New York Times, si sta parlando appunto di Hollywood: un mondo dove l’immagine è tutto e dove la prima regola è evitare la pubblicità negativa, essere associati a controversie e avere la propria reputazione in qualche modo segnata. Matthew Belloni, giornalista di Hollywood Reporter, ha fatto un passo in più: ha sostenuto che molti dirigenti, agenti e celebrità fossero a conoscenza delle accuse rivolte a Weinstein anche prima che diventassero pubbliche, e che nonostante questo abbiano deciso di non fare e non dire niente. La stessa cosa vale per i principali partner commerciali della Weinstein Co.: o sono rimasti in silenzio o si sono rifiutati di rispondere alle domande di chiarimento e commento, come Amazon Studios. Eppure, si dice sul New York Times, molte delle persone a cui era stato chiesto un commento si erano esposte con molta facilità contro Donald Trump quando si era vantato di «prendere le donne per la figa» (esattamente un anno fa), o contro altri personaggi accusati di molestie sessuali: Roger Ailes, co-fondatore e amministratore delegato di Fox News, morto lo scorso maggio, o Bill O’Reilly, uno dei più noti opinionisti e commentatori sempre di Fox News. Il silenzio contro Weinstein è stato notato infatti soprattutto dai conservatori o da chi è vicino a Donald Trump. Il figlio maggiore del presidente ha chiesto al conduttore e comico americano Jimmy Kimmel (che si era esposto contro Trump) se non avesse niente da dire su Weinstein (Kimmel ha solamente a quel punto risposto: «È disgustoso»).

Goodnight Hollywood! Weinstein, Polansky e l’ipocrisia liberal, scrive Gianpaolo Rossi il 10 ottobre 2017 su “Il Giornale". Più predicano i loro valori progressisti di miliardari gaudenti, più inciampano nell’ipocrisia di quella società patinata che rappresentano. Hollywood è l’immagine riflessa di questo Occidente trasformato in fiction, eterna sceneggiatura di un mondo stellare e corrotto dove ogni sogno è possibile; dove ricchezza, eccessi, potere, violenza diventano l’unica legge nella giungla di una libertà senza regole; trasfigurazione di uomini e donne innalzati a miti, che in realtà, svestiti i panni degli eroi del nostro immaginario simbolico, svelano le miserie della loro natura e di quella finzione che incarnano. La storia di Harvey Weinstein, il mega produttore newyorchese che per trent’anni avrebbe abusato sessualmente di decine di giovani attrici e dipendenti della sua società, rappresenta lo spaccato perfetto di quel mondo ovattato della Hollywood liberal, sempre in prima fila a raccontare i mali del mondo e a distogliere lo sguardo sul marcio del proprio di mondo. Weinstein è il produttore di Martin Scorsese, di Quentin Tarantino e del meglio dell’intellighenzia cinematografica dell’America antropologicamente superiore. Grazie a lui hanno visto la luce capolavori come Pulp Fiction, Il discorso del Re, Imitation Game e mille altri. Amico di Obama, tra i principali finanziatori della campagna elettorale di Hillary Clinton e del Partito Democratico è l’emblema del progressismo dello star system che sfila contro le guerre di Bush ma rimane in silenzio su quelle di Obama; organizza le crociate contro Trump predicando amore per gli immigrati, sfilando tra i viali lussuosi (e lussuriosi) delle mega ville miliardarie di Beverly Hills dove gli immigrati non potrebbero entrare neppure in ginocchio. Il Guardian ha contattato 20 registi tra i maggiori d’America per avere un commento sullo scandalo. Nessuno di loro ha risposto. Neppure Michael Moore il logorroico fustigatore della destra americana, emblema cinematografico della sinistra antagonista, il miliardario anti-capitalista, il giudice senza appello dell’America profonda; è solo un caso che stia lavorando per un film contro Donald Trump finanziato proprio da Weinstein?

TUTTI SAPEVANO. A Hollywood tutti sapevano e tutti hanno taciuto. La giornalista Sharon Waxman ha denunciato su The Wrap che già 13 anni fa, nel 2004, lei aveva condotto per il New York Times un’inchiesta sui presunti abusi di Winestein che arrivava fino all’Italia e vedeva coinvolta la Miramax guidata allora da Fabrizio Lombardo che, lei afferma “non aveva un’esperienza cinematografica e il suo vero lavoro era quello di curare, tra le altre cose, le necessità femminili di Weinstein”. L’inchiesta fu affossata su dirette pressioni del produttore (grande inserzionista del giornale) e di alcune star di Hollywood, tra cui Matt Damon e Russell Crowe.

MERYL LA DOPPIA. Meryl Streep, una della più grandi attrici di tutti i tempi trasformatasi in Grillo Parlante dell’intellighenzia liberal americana, spietata critica di quell’America volgare e di destra che i miliardari di Hollywood detestano, paladina del femminismo progressista, solo ora ha condannato Harvey Weinstein. Non si può biasimarla visto che nel 2012, ricevendo il Golden Globe Awards per quel capolavoro di recitazione che fu The Iron Lady, definì pubblicamente il suo produttore “God”, Dio, nell’imbarazzo compiaciuto della divinità presente in sala. Oggi ammette che il suo Dio è stato “disgustoso”. I pruriti femministi della stupenda attrice impegnata sono pero rimasti in silenzio di fronte ad un altro caso clamoroso: quello di Roman Polansky, il regista icona dei liberal radical-chic ancora sotto processo per diverse violenze sessuali ai danni di ragazze minorenni: la prima nel 1977, su una bambina di 13 anni nella casa di Jack Nicholson; reato per il quale fuggì dagli Stati Uniti e riparò in Francia. Fu lei a guidare la standing ovation che Hollywood gli tributò per l’Oscar vinto nel 2003, nonostante il regista fosse fuorilegge. E fu sempre lei ad esprimere solidarietà al regista in carcere nel 2009 carcere.

PEDOFILIA DI HOLLYWOOD. L’arte più grandiosa non è mai morale. E nessuno che si commuove davanti al capolavoro struggente de Il Pianista potrebbe ridurne la grandezza per il fatto che il suo regista è un pedofilo.

Ma ciò che non è tollerabile è quando Hollywood ed il sistema di potere che rappresenta, pretende di giudicare la moralità degli altri. Quando nel 2004 la regista Amy Berg realizzò Deliver Us from Evil, il film documentario su Oliver O’Grady, il prete cattolico che confessò atti di pedofilia su almeno 25 bambini californiani, Hollywood si mostrò scandalizzata e indignata tanto da candidarla per una nomination degli Oscar. Ma quando otto anni dopo, la stessa regista realizzò “An open secret” sulla pedofilia ad Hollywood, soprattutto verso giovani attori dai loro registi e produttori, non trovò nessuno disposto a distribuirlo. Cane non mangia cane, qualcuno dirà: vero. Ma almeno i cani non hanno la pretesa di fare i moralisti come l’élite progressista e di sinistra di Hollywood.

Se denunci le molestie sei tu la troia. Italia anno 2017, scrive l'11 ottobre 2017 Mauro Munafò su “L’Espresso”. Leggere i commenti sotto gli articoli che riportano la testimonianza di Asia Argento è, semplicemente, rivoltante. La Argento ha rivelato alla testata americana New Yorker, insieme a molte altre attrici, di aver subito violenze da produttore di Hollywood Harvey Weinstein, protagonista in questi giorni di uno dei più grossi casi mai visti di molestie e abusi sessuali nel mondo dello spettacolo, pari forse solo al caso recente di Bill "papà Robinson" Cosby. Le testimonianze contro Weinsten vanno da personaggi poco noti fino a star del peso di Angelina Joyle e Gwyneth Paltrow e ora il muro di silenzio intorno a lui, proprio come nel caso di Bill Cosby, si sta rapidamente sgretolando. Licenziato dalla sua stessa casa di produzione, mollato dalla moglie, abbandonato da amici e potenti che lo frequentavano (tipo gli Obama), Weinsten dovrà affrontare la giustizia. Vedremo come andrà a finire. Tornando in Italia invece, il caso Weinsten è diventato improvvisamente rilevante dopo la dichiarazione della figlia di Dario Argento. Gli articoli dedicati al caso e condivisi poi sui social network sono al momento infestati, sì la parola giusta è infestati, da commenti e battute che come al solito criminalizzano la vittima e trovano ogni scusante per il carnefice. L'attrice è quindi (cito testualmente): "una zoccola"," una troia", "una a cui piace il cazzo", una che non ha talento e quindi ha voluto scopare in giro per fare carriera, una che si sveglia solo ora perché le conviene, una a cui in realtà piaceva fare marchette e quindi di cosa si lamenta, una che doveva ringraziare perché è pure brutta, una che di sicuro sta inventando la storia, una che vabbe' non lo sai come gira il mondo. Potrei andare avanti per ore. In questo post trovate una selezione dei commenti visti in giro, firmati con nome e cognome, speso salutati da reazioni di accordo di altri utenti e lasciati sotto pagine pubbliche con centinaia di migliaia di follower. Tutti commenti di veri maschioni italiani? No, almeno a giudicare dai nomi e immaginando di non aver incrociato decine di fake, sono rimasto stupito dal numero di commenti femminili altrettanto se non più aggressivi.

Poche, ma presenti, le voci contrarie, di chi cerca di spiegare chi in questa storia è la vittima e di come sia complesso denunciare una violenza di questo tipo per paura, vergogna, timore di perdere quello che si ha o di restare isolati. Fiato sprecato contro questo esercito di idioti da tastiera. ‘Vergognatevi, siete dei mostri’: Asia Argento sbotta su Twitter dopo le accuse di violenza da parte di Weinstein.

Asia Argento sbotta su Twitter dopo le accuse di violenza mosse contro Weinstein. L'attrice, figlia di Dario Argento, non accetta le critiche mosse contro di lei e definisce tutti dei mostri. Ecco cosa è successo, scrive Giuseppe Guarino il 12 ottobre 2017 su "Funweek.it". Continua a far rumore il caso di Harvey Weinstein, il produttore americano accusato di aver abusato sessualmente di numerose attrici. Tra coloro che hanno parlato delle violenze dell’uomo c’è Asia Argento, che ha rivelato di essere stata violentata da lui nel 1998. I commenti negativi non si sono fatti attendere e molti hanno lanciato accuse pesanti nei confronti dell’attrice. Sulla questione si è difatti scatenata una agguerrita “battaglia social” che a suon di post sta rimbalzando in tutto in web. Dure le parole pronunciate da Alessandro Sallusti, che a Matrix ha dichiarato che: “Denunciare tutto 20 anni dopo dalla violenza lo trovo vigliacco. Non sei vittima ma complice”. Le parole del direttore de Il Giornale non sono andate giù ad Asia, che ha twittato stizzita: “Vergognatevi, tutti. Siete dei mostri”. Ma la polemica maggiore si è sviluppata con Vladimir Luxuria, che ha postato un tweet che sta facendo molto discutere: “Asia Argento avrebbe dovuto dire NO a Weinstein come hanno fatto altre attrici, le donne devono denunciare lo diceva lei a Amore Criminale!”. Pronta anche qui la risposta di Asia: “Non posso credere che scrivi una cosa del genere. Evidentemente non sei mai stata violentata, non hai mai provato terrore e vergogna”. Sulle stesse note anche Selvaggia Lucarelli, che in uno dei suoi post Facebook ha scritto: “Vai a letto con un bavoso potente per anni e non dici di no per paura che possa rovinare la tua carriera. Legittimo. Frigni 20 anni dopo su un giornale americano raccontando di tuoi rapporti da donna consenziente tra l’altro avvenuti in età più che adulta […] dipingendoli come ‘abusi’. Meno legittimo”. Insomma, una vera e propria guerra a suon di post, nella quale Asia sta cercando di far chiarezza: “Abbiamo denunciato TUTTE dopo 20 anni – ha twittato ancora – perché avevamo paura di quel mostro che è (era) uno degli uomini più potenti del mondo. Solo io troia?”. Le polemiche, dunque, sono ancora lontane dalla parola fine. E voi, da che parte state?

Il predatore sessuale Harvey Weinstein e quelle “comprensioni” italiane. In America il produttore di Hollywood che abusava delle attrici viene condannato senza se e senza ma, in Italia inizia il tiro contro le vittime, scrive Angela Vitaliano su "Lavocedinewyork.com" l'11 ottobre 2017. Sullo scandalo di Harvey Weinstein negli USA, nonostante tutte le aberrazioni e il degrado culturale che ha portato il molestatore in chief alla Casa Bianca Trump, il consenso di una donna va espresso e no significa no. Ma in Italia si legge, scritto persino da donne, che uno che ci prova è “normale che ti tocchi una tetta..." Sono passati solo pochi giorni dalla pubblicazione sul New York Times, dell’inchiesta di Jody Kantor e Megan Twohey su Harvey Weinstein e la storia, ripresa e ampliata da Ronan Farrow per The New Yorker si è inevitabilmente trasformata in una valanga che sta trascinando con sè nomi del mondo dello spettacolo e della politica. Sì perché Weinstein, produttore cinematografico potentissimo, accusato di un numero impressionante di molestie e di tre stupri, è stato anche, per anni, una macchina da soldi per i democratici, inclusi Barack Obama e Hillary Clinton. Non deve, dunque, suonare strano o “esagerato” che entrambi, abbiano rilasciato delle dichiarazioni ufficiali di condanna del comportamento di Weinstein e di sostegno alle donne vittime degli episodi di violenza. Lo stesso hanno fatto i nomi più importanti di Hollywood, molti dei quali devono il lancio della propria carriera proprio a Weinstein: da Clooney (che in un’intervista al Daily Beast cita anche Silvio Berlusconi e il suo famoso letto delle meraviglie) a Meryl Streep, da Kate Winslet a Leonardo Di Caprio, da Mark Ruffalo a Lena Durham. Insomma, massima solidarietà per le vittime prima di tutto e presa di distanza dal comportamento ignobile di Weinstein. In Italia, la notizia per un paio di giorni è passata nella quasi totale indifferenza, fino a quando si è “scoperto” che fra le vittime intervistate da Ronan Farrow c’era anche l’italianissima Asia Argento. E da quel momento, apriti cielo. Ora, mi sento di fare alcune precisazioni: Cominciamo con il chiarire un punto – che per me non peggiora o migliora la posizione di Weinstein – le denunce risalgono agli anni novanta e arrivano fino al 2015. Il produttore, negli anni, ha patteggiato per ben otto volte, per mettere a tacere denunce a suo carico. Quindi se vi state chiedendo “perchè oggi?” non lo chiedete ad Asia Argento ma a un giornale – anzi due – il New York Times e il New Yorker che, abituati alle grandi inchieste, sostenute da prove inconfutabili (no non sono “fake news” come ama dire il presidente) – hanno dovuto aspettare fino ad oggi – dopo diversi tentativi – per far uscire la storia. Il secondo punto è questo: negli USA Weinstein è stato difeso da Donna Karan (poi pentitasi al primo accenno di crollo delle vendite), Lindsey Lohan e chiaramente da tutti quelli che hanno votato Trump esaltati dal suo grido “afferra la vagina”. Gli altri – come dicevo – in grande maggioranza e in maniera pubblica, hanno sostenuto le vittime. In Italia, invece, si è scatenato il tiro al bersaglio contro Asia Argento (che, diciamolo, non fa nulla per risultare simpatica e quindi se l’è cercata/meritata) e contro tutte queste femmine in cerca di notorietà che non aspettano altro che andare a raccontare, pubblicamente, di uno che si masturba in un corridoio di un ristorante guardandole e poi, sentendosi dio, getta il suo seme in una pianta lì vicino, cosi, tanto per onorare la vita. Il punto è che in USA, nonostante tutte le aberrazioni e il degrado culturale che ha portato Trump, il molestatore in chief, alla Casa Bianca, il “consenso” è una cosa seria e va espressa. Come ripete benissimo Joe Biden, uno dei paladini dei diritti delle donne e della lotta agli abusi sessuali, “no significa no”. E il no è no anche se una persona è impossibilitata ad esprimerlo perché ubriaca o perché pietrificata avendo vent’anni e trovandosi di fronte all’uomo che può distruggerle o cambiarle la vita. Il consenso va espresso e no significa no. Eppure ieri ho letto, scritto da donne, che uno che ci prova è “normale che ti tocchi una tetta”. Ma normale dove? In quale mondo? E se sei il mio capo e mi dici “come sei bella oggi” io ti posso mandare a quel paese (e denunciare) perché non è un comportamento appropriato. Questo è ciò che si pensa in grande maggioranza qui e in tutti i paesi in cui la misoginia sta perdendo finalmente colpi. Italia, non inclusa. Ahimè. Ultimo punto (ma ne avrei altri): l’affermazione più frequente che ho letto è stata “io ho sempre rifiutato le avances”. Stabilendo un principio (oltre a mettersi sul piedistallo delle madonnine infilzate): tutto dipende dalla donna, se rifiuta è santa, se accetta è puttana. Ebbene no. Il principio per il quale dovremmo lottare, uniti (uomini e donne) e che le “avances” sono molestie, violenza, stupro e per questo vanno denunciate. Non sono corteggiamento, non sono “cose inevitabili”, non sono prove che dobbiamo superare per andare in paradiso. Le avances, le proposte indecenti, le molestie sono atti illegali e tribali che vanno puniti anche se ricevuti da una donna con una minigonna “a filo di mutanda”. Non siamo noi che dobbiamo comportarci bene, in maniera opportuna, sempre pronte e adeguate. Sono gli uomini (per fortuna non tutti) che devono imparare a tenere gli ormoni a bada e smetterla di vederci come pezzi di carne di cui abusare. E questo sarebbe ora che ce lo mettessimo bene in testa tutti, ma noi donne per prime.

"Se Paltrow, Jolie e le altre avessero raccontato prima le molestie subite da Weinstein, le avrebbero massacrate". Un lettore del New York Times difende le attrici da chi le accusa per non aver parlato prima degli abusi subiti dal produttore americano, scrive l'11/10/2017 "L'huffingtonpost.it". Perché le donne molestate da Harvey Weinstein non hanno parlato prima che la storia venisse a galla grazie all'inchiesta del New York Times? È una domanda che si sono posti in tanti. Molti utenti hanno commentato sul web gli articoli che raccontano la vicenda colpevolizzando le vittime degli abusi, senza pensare a quali potrebbero essere state le ragioni del silenzio. Un lettore del New York Times, riporta Mashable - indignato dalle tante accuse fatte alle vittime - ha espresso la sua opinione e difeso Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e le altre donne che non hanno avuto il coraggio di raccontare ciò che avevano subito. "È sconcertante vedere in quanti commenti queste donne siano accusate di non aver parlato prima - si legge nell'intervento del lettore, che ha voluto sottolineare quanto il fenomeno degli abusi sulle donne sul posto di lavoro sia diffuso e non dipenda dalla professione che la vittima svolge - Consideratevi fortunati se la vostra carriera non è mai dipesa dal fatto che siete andati o no a letto con il vostro capo. È qualcosa che non ha a che fare con la fama o con la ricchezza. Succede alle donne lavorano in un negozio prendendo il minimo dello stipendio così come a quelle che hanno dovuto combattere contro queste cose per riuscire a diventare amministratori delle loro aziende". Il lettore spiega che le vittime delle molestie di Weinstein si saranno sentite umiliate e che, forse, temevano che se avessero parlato non avrebbero lavorato mai più. Ma non solo: ci sarebbe stato anche chi le avrebbe additate come delle donne piagnucolose. "Immaginate se Angelina Jolie e Gwineth Paltrow avessero parlato - continua il lettore - sarebbero state massacrate dai media! Avrebbero scritto 'Per l'amor del cielo! Un uomo vecchio e sporcaccione ti ha fatto delle avances ma tu le hai rifiutate e te ne sei andata. Di che ti lamenti?" Il lettore poi si chiede come mai tutte alle attrici sono state indirizzate tutte queste accuse mentre non c'è stato nessun commento sul silenzio di Brad Pitt. Anche lui - che è stato legato sentimentalmente sia a Paltrow che a Jolie - sapeva tutto, ma si è limitato ad affrontare Weistein, senza nessun clamore mediatico. Si può discutere sul silenzio delle attrici, dunque ma - secondo il lettore - non le si può accusare per aver taciuto.

Scandalo Weinstein, Stone e Tarantino sconvolti, scrive il 13 ottobre 2017 "La Repubblica". Ancora reazioni nel mondo dello spettacolo alle rivelazioni che riguardano il produttore Miramax. Penelope Cruz lo definisce "un abuso inaccettabile" e Tippi Hedren ricorda le avance ricattatorie di Hitchcock. A quasi due settimane da quando è esploso lo scandalo sessuale che ha travolto il produttore cinematografico Harvey Weinstein, accusato di molestie da moltissime star di Hollywood si allunga la lista di donne che confessano gli abusi, qualcuno ammette oggi di essere stato a conoscenza dei fatti. Come Jane Fonda, che ha riferito di aver saputo delle molestie un anno fa. Parlando al programma Hard Talkdella Bbc, l'attrice statunitense ha precisato di non aver mai ricevuto avance da Weinstein, ma ammette di non essere stata abbastanza "coraggiosa" da rivelare ciò che sapeva. "Perché non hanno parlato prima? Perché lui è potente - ha detto l'attrice - e perché la maggior parte delle donne molestate era giovanissima. Ragazze di 20 anni vulnerabili e piene di paura". Oltre all'italiana Asia Argento, le accuse sono arrivate, tra le altre, da parte di Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow, Cara Delevigne, Mira Sorvino, Ashley Judd, Léa Seydoux. Stone prima lo difende poi lo accusa e Tarantino lo "molla". Dopo aver inizialmente preso le difese di Weinstein, Oliver Stone è tornato sui suoi passo. "Credo che un uomo non debba essere condannato da un sistema di giustizieri", ha detto parlando dalla città sudcoreana di Busan, dove si trova in qualità di presidente della giuria di un festival cinematografico, e sia necessario aspettare "il processo" prima di "condannare qualcuno". Poche ore dopo, probabilmente dopo essersi reso conto dell'entità dello scandalo, ha affidato alla sua pagina Facebook una ritrattazione: "sono stato in viaggio in questi giorni e non ero consapevole di tutte le donne che sono uscite allo scoperto per accreditare la storia del New York Times. Sono sconvolto e sostengo il coraggio delle donne che hanno denunciato gli abusi. Mi ritiro dalla mia serie Guantanamo finché la Miramax sarà coinvolta". Anche Quentin Tarantino, che con il produttore Miramax ha realizzato praticamente tutti i suoi film, si è detto "addolorato e stordito" di quello che è venuto a sapere in questa settimana del suo amico da 25 anni e chiede tempo per elaborare la pena, la rabbia e il dispiacere per quello che è venuto a sapere e parlarne pubblicamente".

Asia Argento e il dito medio contro gli hater. Asia Argento è tornata a parlare della vicenda, pubblicando su Instagram una foto che la ritrae con il dito medio alzato. "Questo dito medio è per quegli italiani - ripeto: italiani - scrive l'attrice - che accusano di essermi cercata la violenza subita da ragazza perché non sono scappata e perché non ho denunciato prima. È colpa di persone come voi se le donne hanno paura di raccontare la verità. Dal resto del mondo ricevo solo parole di solidarietà e conforto, nel mio paese vengo chiamata troia. Vergognatevi, tutti. Siete dei mostri". Dopo aver confessato lo stupro, l'attrice è stata criticata, soprattutto sui social, per avere atteso 20 anni prima di parlare.

Penelope Cruz lo attacca, Tippi Hedren lo paragona a Hitchcock. Quello di Harvey Weinstein è stato "un abuso di potere, assolutamente inaccettabile". Anche Penelope Cruz, in una nota inviata al portale BuzzFeed News, si scaglia contro il produttore. L'attrice spagnola ha vinto il premio Oscar come migliore attrice non protagonista per Vicky Cristina Barcelona prodotto dalla Weinstein Company, ma precisa di non aver mai subito molestie. "Non conoscevo questo aspetto di lui. Abbiamo lavorato insieme in diversi film e anche se è stato sempre rispettoso nei miei confronti e personalmente non ho mai assistito" ad alcun episodio di molestia nei confronti di altre donne "ho bisogno di esprimere il mio sostegno tutte coloro che hanno avuto queste orribili esperienze", ha detto l'interprete di Madrid. "Parlando - ha aggiunto Cruz - hanno dimostrato un grande un coraggio. Questo abuso di potere è assolutamente inaccettabile". Anche Tippi Hedren, la star di film come Uccelli e Marnie, ha affidato a Twitter il suo commento paragonando gli abusi del produttore a quello che aveva subito lei dal regista Alfred Hitchcock: "Guardo le notizie su Weinstein. Non c'è niente di nuovo e di certo non riguarda solo l'industria cinematografica. Anche io ho dovuto subire degli abusi durante la mia carriera di modella e attrice. Hitchcock non è stato il primo, ma non avevo intenzione di accettarlo più così me ne sono andata senza voltarmi indietro. Hitch disse che avrebbe rovinato la mia carriera e gli ho detto di fare quello che credeva. Ci sono voluti 50 anni ma è arrivato il momento per le donne di cominciare a ribellarsi come sta accadendo con il caso Weinstein. Buon per loro".

Anche la casa editrice abbandona il produttore e Amazon sospende il capo della divisione video. Weinstein è stato scaricato anche dalla sua casa editrice, la Hachette Books Group, che fa parte del gruppo francese Lagardere. Il gruppo ha annunciato di avere interrotto tutte le pubblicazioni collegate alla Weinstein Book, compagnia del produttore cinematografico, accusato di molestie sessuali nei confronti di numerosi attrici e modelle. Hachette Book aveva un accordo di co-pubblicazione con The Weinstein Company, grazie al quale ha pubblicato circa dieci nuovi libri all'anno. I titoli in via di pubblicazione dalla Weinstein Books e tutti i dipendenti del marchio passeranno all'Hachette Group. Amazon ha sospeso il capo della sua divisione video, Roy Price, dopo le accuse di molestie sessuali della producer Isa Hackett e le critiche al suo stretto rapporto di lavoro con il re di Hollywood.

Caso Weinstein, anche i divi di Hollywood che hanno taciuto sono colpevoli, scrive Loretta Napoleoni il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La stampa anglosassone sembra non avere ancora abbastanza dello scandalo sessuale di Hollywood. I commenti di sostegno delle star nei confronti delle donne che hanno mosso le accuse contro Harvey Weinstein, mega produttore cinematografico, continuano a riempire le prime pagine dei giornali, le conversazioni radiofoniche e televisive. Un vero e proprio bombardamento di solidarietà nei confronti delle vittime di un super-predatore sessuale. E’ da quando lo Stato Islamico ha tagliato la testa a James Foley, facendone girare in rete il video, che la stampa anglosassone non si impunta su una notizia non politica per così tanto tempo. Certo una carriera di assalti sessuali, violenze ed abusi contro le donne più belle del mondo è allo stesso tempo una notizia seria, macabra e frivola. Poiché coinvolge il mondo delle stelle del cinema, poi, si vende bene al pubblico. Un’analisi antropologica dei fatti e della reazione della stampa e del pubblico mette a nudo una realtà scomoda da digerire. In primis, la corsa delle star maschili e femminili su Twitter, Facebook e via dicendo a manifestare la loro solidarietà nei confronti delle vittime attraverso un gigantesco mea-culpa fa riflettere su quanto l’umiliazione sessuale delle donne nel mondo del cinema sia diffusa. Fa riflettere anche che un personaggio come Colin Firth, celebrato solo un paio di settimane fa per aver preso la cittadinanza italiana ed amato un po’ da tutti, abbia confessato di non aver fatto nulla quando la collega, Sophie Dix, gli ha raccontato di essere stata sessualmente attaccata da Weinstein. Firth ammette di averle offerto la sua solidarietà e basta e naturalmente oggi se ne pente. Dunque che Weinstein fosse un predatore sessuale si sapeva benissimo ad Hollywood, e se lo sapevano ad Hollywood lo sapevano anche a Washington DC, eppure sia i Clinton che gli Obama lo hanno celebrato quale benefattore del Partito democratico. Che bel trionfo di ipocrisia! Sono questi gli eroi del villaggio globale? E che differenza c’è tra loro e quelli nostrani? Anni fa una commercialista che lavorava per il Quirinale mi spiegò come una donna fa carriera in politica, poco dopo una giornalista televisiva mi raccontò che anche in televisione la posizione consigliata alle donne in carriera è quella orizzontale. Entrambe affermarono che le prestazioni sessuali con i direttori di testata o i politici non sono affatto legate alla soddisfazione di passioni maschili, piuttosto la sottomissione sessuale imposta alle donne dagli uomini di potere, è un rito di passaggio al quale tutte le donne devono sottomettersi. Leggendo la valanga di accuse mosse contro Weinstein viene il dubbio che anche nel suo caso la frenesia sessuale contro le donne che attraversavano il suo impero cinematografico avesse motivazioni analoghe. Gli psicologi ci insegnano che la continua violenza sessuale sulle donne, specialmente contro quelle molto giovani, spesso nasconde grossi problemi di virilità. E’ quello che emerge dai comportamenti maschili nelle riserve indiane dove è alta l’incidenza degli abusi sessuali sulle bambine ed sulle adolescenti. Le riserve sono veri e propri getti, dove gli uomini sono stati evirati, consegnati all’alcol ed alla miseria. Di fronte a questa tragedia esistenziale si vendicano sulle bambine e le adolescenti di casa, le violentano e così facendo si illudono di riconquistare la propria virilità. In Occidente i predatori sessuali si difendono affermando di essere tossici del sesso, un’espressione usata anche da Harvey Weinstein, ma l’aberrante sostanza dell’atto rimane la stessa. Discorso diverso va fatto per chi tace pur sapendo delle violenze e degli abusi sessuali. Come le donne nelle riserve indiane tacciono quando le loro figlie e nipoti sono vittime dei loro padri, mariti, fratelli e cognati, così i divi di Hollywood hanno tenuto la bocca ben chiusa quando le loro colleghe sono finite preda di uomini come Weinstein – perché parliamoci chiaro lui non è certamente il solo. Non vedo alcuna differenza nei loro comportamenti. In fondo anche Hollywood è un ghetto aperto solo a chi ne fa parte e recintato dall’effimero successo di chi ha scelto di esserci chiuso dentro. A monte c’è l’accettazione di un rito di passaggio, barbaro ed inumano, ma pur sempre tradizionale. Il sesso è sempre andato a braccetto con il potere, la notorietà ed il denaro. E poi c’è la certezza che un’alternativa migliore non esiste. Come non c’è via d’uscita dalle riserve indiane così non esiste un’Hollywood diversa. Morale: il sistema di abuso nei confronti delle donne viene mantenuto in vita da chi ne fa parte, quindi in modi diversi tutti sono colpevoli, le donne indiane che chiudono un occhio e gli attori e le attrici che offrono la spalla alle colleghe violentate, che sfuggono all’attacco del predatore, ma si guardano bene dal denunciare l’abuso sessuale. Ed anche noi siamo colpevoli se condoniamo il silenzio di chi sa e non parla.

Trump, porno-complotto per farlo cadere: molestie sessuali e "taglia" dal big americano, scrive il 16 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Un nuovo porno-complotto contro Donald Trump. Il presidente americano è stato citato in giudizio per molestie sessuali da Summer Zervos, ex concorrente di The Apprentice, il programma televisivo in cui Trump, non ancora sceso in politica, vestiva i panni del boss. La Zervos ha chiesto che sia messa a disposizione la documentazione, testi e foto, di tutte le altre donne (circa una decina) che hanno denunciato molestie da parte del tycoon. La richiesta, sottolineano i media Usa, è stata presentata nel marzo 2017 ma è giunta all'attenzione della Corte lo scorso mese, e ora rischia di entrare nella scia dello scandalo Weinstein che ha terremotato Hollywood e l'opinione pubblica. Già in piena campagna elettorale repubblicano la Zervos denunciò di essere stata aggredita da Trump nel 2007 in un albergo di Beverly Hills: il presidente avrebbe tentato di baciarla e l'avrebbe toccata nelle parti intime. Trump definì la donna "una bugiarda". Contemporaneamente, Larry Flint, re del porno Made in Usa e fondatore della rivista Hustler (una sorta di anti-Playboy più pecoreccio) ha offerto 10 milioni di dollari a chiunque gli fornirà qualsiasi elemento di prova su Trump per riuscire a cacciarlo dalla Casa Bianca. Così Flint che ha acquistato un'intera pagina del mettere la "taglia" sulle - presunte - malefatte del presidente. Per Flynt si tratta in realtà di un rilancio: lo scorso anno in piena campagna elettorale, forse perché non credeva davvero che Trump alla fine avrebbe battuto la democratica Hillary Clinton, Flint aveva offerto "solo" 1 milione di dollari per ottenere lo stesso materiale. Ora che Trump è davvero alla Casa Bianca da quasi 9 mesi, ha deciso di aggiungerne altri 9 di milioni. Sulla pagina del Post si legge a titoli cubitali: "DIECI MILIONI DI DOLLARI PER QUALSIASI INFORMAZIONE CHE POSSA CONDURRE ALLA DESTITUZIONE E ALLA CACCIATA DALLA CASA BIANCA DI DONALD J. TRUMP", e sotto una lunga spiegazione delle argomentazioni per cui il presidente dovrebbe "togliere il disturbo" oltre ad una mail ed un numero di telefono attivi dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 18 dove inviare ciò che Flint vuole per liberare gli Usa (e il mondo) da Trump.

Il fondatore ed editore della rivista pornografica Hustler ha comprato un'intera pagina di pubblicità sull'edizione della domenica del Washington Post per lanciare l'appello. Ci aveva già provato nel 1998, nel mezzo dello scandalo che aveva coinvolto Bill Clinton, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2017. Dieci milioni di dollari a chi abbia prove in grado di incriminare e far cadere Donald Trump dalla presidenza degli Stati Uniti. La “proposta indecente” arriva da Larry Flynt, fondatore ed editore della rivista pornografica Hustler. Che, per non rischiare di passare inosservato, si è premurato di comprare un’intera pagina di pubblicità sull’edizione della domenica del Washington Post. Nella paginata acquistata Flynt spiega le ragioni per cui Trump andrebbe “rimosso dall’ufficio”. L’editore accusa il presidente Usa, tra le altre cose, di portare avanti una “politica interna ed estera compromettente” a causa del suo “enorme impero d’affari in conflitto d’interessi”, di dire “centinaia di bugie” e di “chiamare incompetenti a ricoprire alte cariche”. Per queste e altre ragioni Flynt è in cerca della “pistola fumante” in grado di incastrare il numero uno della Casa Bianca. Dietro lauta ricompensa. Flynt stesso suggerisce qualche strada: “Ha avuto qualche qui pro quo con i russi? C’è qualcosa di nascosto nella sua dichiarazione dei redditi? – è scritto nella pubblicità – Tutto deve venire a galla”. In calce, sono indicati un numero verde e un indirizzo mail. L’editore non è nuovo a queste trovate. Ci aveva già provato nel 1998, nel mezzo dello scandalo sessuale che aveva coinvolto l’allora presidente Usa Bill Clinton, quando Flynt promise un milione di dollari a chi gli avesse fornito materiale “hot” in grado di incastrare politici repubblicani. Le informazioni emerse avevano portato alle dimissioni del portavoce della Camera, Bob Livingston.

La gaffe di Hillary Clinton: dà dell'aggressore sessuale a Trump ma tutti pensano a Bill, scrive il15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Gaffe clamorosa di Hillary Clinton che intervistata dalla Bbc sul caso di Harvey Weinstein, ha accusato il presidente degli Stati Uniti senza accorgersi che tutti hanno pensato parlasse di suo marito Bill e non di Donald Trump: "Le accuse di molestie emerse sono strazianti. Ma è importante che non ci si concentri soltanto su Weinstein e si riconosca che che questo tipo di comportamento non può essere tollerato da nessuna parte. Dopo tutto abbiamo nello Studio Ovale qualcuno che ha ammesso di essere un aggressore sessuale...".

Il diario segreto di Asia Argento: "Weinstein mostro, mi violenta". Il fax dell'attrice mandato nel '97 alla cronista del Giornale. "Stasera a Roma c'è la festa della Miramax, lui è il mio boss", scrive Daniela Fedi, Venerdì 13/10/2017 su "Il Giornale". Da giorni leggo le miserabili cronache di quel che ha fatto Harvey Weinstein a decine di giovani donne e provo un misto di rabbia e di orgoglio. La rabbia è il minimo sindacale per una cosa del genere. A me l'ha raccontato 20 anni fa, quando siamo diventate amiche dopo una lunga e bellissima intervista che le ho fatto per un mensile femminile oggi chiuso. Ho perfino un fax che mi ha scritto poco prima che andasse a Cannes dove è avvenuta la violenza e mi sento ancora in colpa per non aver capito subito cosa stava rischiando. In fondo lei era una ragazzina e io una donna fatta. Avevo una specie di transfer materno nei suoi confronti, fin dal primo momento ho sentito il bisogno di proteggerla. Durante l'intervista mi aveva raccontato una storia che le avrebbe procurato un sacco di grane anche se si trattava di una ragazzata. Le promisi di non scriverla e lei da quel momento decise di fidarsi di me. Abbiamo avuto per parecchio tempo un fitto scambio di corrispondenza via fax perché all'epoca non esisteva la posta elettronica. Ho tenuto via tutti quei fax perché Asia scrive benissimo e io ho un debole per le frasi belle, divertenti, sorprendenti. In uno dei primi per consolarmi di un fidanzato fedifrago ha scritto: «Quasi tutti gli uomini sono dei fagioli in umido: con una cucchiaiata si può fare una strage». Mi aveva fatta ridere fino alle lacrime anche se poche righe prima aveva scritto: «Stasera c'era un festone per il capo della Miramax, mr Weinstein, che è a Roma, ma io non ci sono andata. Certo, è il mio boss, e allora? È un cicciabomba butterato. Ha una lingua lunga tre metri e me la vuole sempre infilare al caldo». Seguiva una frase irripetibile su dove mr Weinstein doveva sbattere quella sua schifosa linguaccia e di lui per un po' di tempo non ho più sentito parlare. Poi Asia era andata a Cannes e io in giro per il mondo per le sfilate: parlavamo un po' al telefono, ci mandavamo un sacco di sms, ma per un paio di mesi non ci eravamo più scritte dei fax così folli e personali. Asia era depressa, di questo sono strasicura, ricordo di essermi preoccupata parecchio per lei perché non era più la simpatica guascona che mi sarebbe piaciuto avere come figlia pur sapendo benissimo che mi avrebbe dato un sacco di gatte da pelare. In settembre aveva compiuto 22 anni e poco dopo mi aveva mandato un fax con un'enorme margherita stilizzata: «Daniela, solo due parole di felicità. Mi ha appena chiamato a casa Abel Ferrara, vuole che domani stesso vado a NY per incontrare lui Willem Dafoe e Christopher Walker. Sono così felice che non credo che riuscirò a dormire... il mio regista preferito. Volevo solo dividere con te questo momento!». Ero felice anch'io per lei e avevo continuato a esserlo finché una notte mi aveva telefonato in lacrime raccontandomi per filo e per segno quel che le aveva fatto a Cannes mr Weinstein. Ero annichilita dall'orrore. Non ebbi neanche bisogno di chiederle perché non avesse denunciato subito lo stupro: me lo disse lei. Ricordo le sue parole esatte: «Quel ciccione schifoso è così potente che la passerebbe liscia. A Monica Levinsky credono solo perché ha tenuto via il vestito. Perderei la stima di Abel. Non ci posso nemmeno pensare». Tentai di consolarla e alla fine le detti ragione: cerca di dimenticare, sei giovane, hai una vita davanti a te. Quando incontrai mr Weinstein a una sfilata della sua ex moglie Giorgina Chapman, stilista (D'Agostino direbbe «per mancanza di prove») del brand Marchesa, mi rifiutai di stringergli la mano. Lui non se ne accorse nemmeno, perché gli americani lo fanno spesso. Hanno paura dei microbi, loro.

Miriana Trevisan: ha ragione Asia Argento, se non la dai te la fanno pagare. Dal caso Weinstein Asia Argento in poi, le consuetudini del mondo dello spettacolo generano isolamento in chi non le vuole accettare. La testimonianza della showgirl Miriana Trevisan: «mi dicevano: “non fai pubbliche relazioni”», scrive Miriana Trevisan su "L’Inkiesta" il 13 Ottobre 2017. Ho letto le parole di Asia Argento. Ho letto le orribili testimonianze contro Weinstein. È proprio vero che tutto si accende (o si riaccende) come un virus latente quando qualcuno lo rimette in giro e lo porta a galla. Basta un articolo e le parole diventano fuoco e ti i svegli una mattina con il sapore amaro in bocca e la consapevolezza che quello stesso attacco l’hai subito anche tu. E non solo tu. Il problema è che, quando accade, non lo riconosci perché è invisibile mentre sei convinta di essere stata tu, l’invisibile. Forse perché scappare, imparare a essere trasparente, fare silenzio o avere un milione di dubbi e di incertezze pensi che ti possa aiutare. E se poi cerchi la perfezione fuori da te stessa ti specchi in persone talmente abituate a convivere con atteggiamenti di sottomissione e maschilismo strisciante tanto da considerarla una consuetudine: finisci tu per diventare l’inconsueta, la strana, la stupidata scema, la solita ragazza di ignorante provenienza. Compi le tue scelte e rischi di impazzire da sola nella tua stanza, nella confusione che forse “deve essere davvero così” e che non sei adatta o non sei all’altezza e non hai bisogno di addormentarti il cervello (e la coscienza) con droghe o alcool: ti ripeti “datti da fare, studia, cerca di parlare l’italiano correttamente, impara a cantare e sfilare e recitare ma per favore non perderti nella confusione”. Invece in certi ambienti in confusione ci vai, eccome. A vent’anni, da sola, con un po’ di bulimia, un po’ di anoressia, qualche libro di filosofia. Chissà se sono salva. Ti dici: dai, sono salva. Poi arriva l’anziana cialtrona truccatrice delle star che mentre ti prepara ti dice “Miriana, tu non capisci, è il mondo che va così”. E il dubbio ti viene, eccome. E se ti viene reagisci scappando. E se scappi “non fai pubbliche relazioni”, ti dicono. Ti fai le feste ma eviti gli incontri, prendi il taxi per tornare a casa piuttosto di qualche auto di lusso; fai finta di non avere capito di essere stata invitata sullo yacht finché alla fine non ti invitano più davvero. Molte delle mie colleghe negli anni del mio lavoro in televisione mi hanno detto la stessa cosa: “hai potenzialità (dicevano bellezza ma intendevano la figa) e non la sfrutti, sei un pazza”, “ci sono calciatori e produttori che sbavano per te: dopo te la lavi ed è tutto come prima”. Consigli dati come se fossi stata un’aliena. Poi ti succede di uscire da un camerino, dopo un’imbarazzante chiacchierata con un mostro sacro della televisione, e una sua dolce collaboratrice ti dice: “hai ancora il rossetto, non ti vedremo più” e con un sorriso di pena ti congeda. E se poi ti fai prendere dall’entusiasmo per una promessa di un ruolo in un film, che quasi ci credi di essere tu, proprio tu, quella giusta per quel personaggio, poi “dobbiamo parlarne più intensamente nel mio albergo, ho una suite”, ti dice il regista italiano osannato nel mondo. E tu ancora provi a convincerti: che male c’è, io sono la prescelta, devo solo studiare e studiare, dare arte in forma di bellezza, che ci vuole. E invece no. È tutto un buio di parole, parole buie, che entrano solo in vicoli bui. Lo spiraglio, per alcuni di loro, l’unico spiraglio è la figa. Mi proponevano anche la soluzione: il fidanzato giusto, dicevano. Ma il chiodo per me è stato sempre troppo stretto, io scivolo come sapone di Marsiglia. Io, l’aliena, ho pensato che lui mi dovesse piacere, che dovesse profumare di pulito. E quando vai avanti così inevitabilmente ti isoli. Come un chiodo, sì, ma l’unico in una parete vuota, immensa. Una parete che qualcuno chiama arte ma io ne ho dipinta una mia, piena d’amore, che chiamo dignità.

Caso Weinstein, Asia Argento nuove accuse: «A 16 anni un regista e attore italiano mi molestò». Nuove rivelazioni dell’attrice: «Altri due uomini hanno abusato di me». E su La Stampa: «Non ho denunciato Weinstein perché tenevo alla mia carriera». Il produttore era «un predatore seriale dalle mille personalità», scrive il 15 ottobre 2017 “Il Corriere della Sera”. Nuove accuse e rivelazioni da parte di Asia Argento. L’attrice, twittando sull’hasthag #quellavoltache (che sta raccogliendo migliaia di denunce da parte delle donne italiane), ha raccontato altri due casi di abusi subiti durante il suo lavoro. Il più grave quando era ancora una ragazzina: «#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del “personaggio”», scrive Argento. E poi ancora l’attrice denuncia che quando aveva 26 anni «un grosso regista statunitense (con il complesso di Napoleone) mi dette la droga dello stupro e mi violentò mentre ero incosciente». L’attrice è anche tornata a parlare di Weinsten in un’intervista pubblicata dal quotidiano La Stampa. Racconta del perché non denunciò subito gli abusi di Weinstein, delle sue tattiche con le sue vittime, del suo dolore per la reazione delle “donne italiane”. «Io mi sono opposta dieci, cento, mille volte a Harvey Weinstein. Mi ha mangiata. Un orco in mezzo alle gambe è un trauma. Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’ è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza». «La cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze», spiega l’attrice nell’intervista: «Non ho ricevuto nessuna critica per il mio comportamento in nessun altro Paese». «Guardi invece che cosa stanno facendo in Italia contro noi vittime». «Oggi sono in grado di sopportarlo. Se avessi detto vent’anni fa quello che ho detto oggi, probabilmente non mi sarei più ripresa. Sarei caduta in depressione. E sarebbe stato addirittura peggio di quello che poi mi è successo». Poi il passaggio sui motivi della denuncia a distanza di tanti anni: «Non sono l’unica che ha deciso di parlare adesso. Hanno parlato tutte ora. “Perché non avete parlato prima?”, ci chiedono. Perché Harvey Weinstein era il terzo uomo più potente di Hollywood. Ora è diventato il duecentesimo e il suo potere e la sua influenza si sono sensibilmente ridotti», dice Asia Argento. E ancora: «La violenza che io ho subito risale al 1997. In Italia, solo un anno prima lo stupro era diventato crimine contro la persona e non solo contro la morale. Pensi se avessi parlato allora. Come avrei potuto? E poi sì, era per la mia carriera! Un tempo io ci tenevo tantissimo alla mia carriera». Asia Argento racconta che incontrò ancora Weinstein a Roma, in un albergo, dopo l’insistenza del produttore che le scriveva continuamente. Dopo un primo momento in cui era presente una sua assistente, Weinstein era di nuovo addosso a lei. E si è sentita ancora in colpa, per essersi fidata «una volta di troppo». D’altronde Weinstein era «un predatore seriale», lo definisce così Asia Argento, un predatore che «cambiava costantemente tono: passava dall’essere un bambino frignone a imporre con violenza quello che voleva. Aveva mille personalità. Mille. E cercava quella che funzionava di più con te». Infine una speranza che l’attrice racconta nell’intervista: «L’ unica cosa in cui ora spero, anche dopo aver rivissuto questa terribile esperienza ed essere stata insultata nel mio Paese - e solo nel mio Paese! - è che ci sia un risveglio tra quelle di noi che hanno subito. Che sempre più donne dicano basta. Ora questi uomini, questi mostri, dovranno avere paura così come noi, ogni volta che li abbiamo incontrati, che siamo rimaste da sole con loro, ne abbiamo avuta».

Asia Argento, prima di Weinstein un italiano: "Quella volta che mi molestò nella roulotte", scrive il 15 ottobre 2017 "La Repubblica". L'attrice partecipa alla campagna social #quellavoltache con la rivelazione di un'altra molestia subìta a soli sedici anni. E di una terza, quando ne aveva 26. La vicenda che vede al centro Harvey Weinstein non accenna a placarsi ma Asia Argento, fra le prime a confermare le accuse rivolte al produttore americano, ora parla anche di un episodio analogo accaduto quando aveva sedici anni, protagonista un regista e attore italiano. L'attrice partecipa alla campagna #quellavoltachelanciata su Twitter dalla scrittrice e blogger Giulia Blasi e scrive "#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del "personaggio"'. Non fa nomi, anche se in un altro post spiega che "questo è il momento di parlare, non di minimizzare". E - sempre su Twitter - racconta anche un altro caso di violenza del quale è stata vittima quando aveva 26 anni, quando cioè "un grosso regista statunitense (con il complesso di Napoleone) mi dette la droga dello stupro e mi violentò mentre ero incosciente". Le nuove rilevazioni si aggiungono a quelle contenute nell'intervista pubblicata oggi dal quotidiano La Stampa in cui l'attrice ha ricordato il trauma della violenza subìta da Weinstein affermando anche che "la cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze". Oggi il presidente francese Emmanuel Macron ha ordinato che al produttore venga ritirata la Legion d'onore, la più prestigiosa onorificenza di Francia. Mentre Mia Farrow (tutto è iniziato da un'inchiesta giornalistica pubblicata dal New Yorker e realizzata dal figlio, Ronan Farrow) ha commentato dicendo che "è la fine di un'era terribile, Harvey è fuori. Ora ce ne sono altri". E sempre di oggi è un post pubblicato su Facebook da Bjork, nel quale l'artista ha raccontato di quando, su un set, fu molestata da un regista danese.

Asia Argento rivela altre due violenze: “A 16 anni vittima di un regista e attore italiano”. L’attrice su Twitter: «Tirò fuori il suo pene nella sue roulotte mentre parlavamo del personaggio», scrive il 15/10/2017 Elena Masuelli su "La Stampa". Asia Argento non ha finito di raccontare. Dopo la denuncia delle molestie subite dal produttore Weinstein, su Twitter risponde alla catena di solidarietà #quellavoltache, l’hastag nato per invitare le donne vittime di violenze a non nascondersi, e rivela che altri due uomini hanno abusato di lei. Il primo quando era solo un’adolescente: «#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del «personaggio» scrive. Ma l’attrice confessa anche che un altro regista, questa volta americano e «con il complesso di Napoleone», le diede la «droga dello stupro» e la violentò mentre era incosciente. Ripete che «questo è il momento di parlare, non di minimizzare». Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker in cui ha rivelato di essere stata costretta a subire la violenza di Harvey Weinstein, uno dei più potenti produttori di Hollywood, ha raccontato tutta la storia in una intervista esclusiva a La Stampa. «Cercare di ricostruire quello che è successo vent’anni fa è stato difficilissimo, credetemi. Mi sono messa in gioco in prima persona e ho fatto in modo che anche altre donne potessero parlare».  

Dopo un precoce esordio a 9 anni, nel film per la televisione Il ritorno di Guerriero, Asia Argento lavora con il padre in due film horror, da lui scritti e prodotti: Dèmoni 2... L’incubo ritorna (regia di Lamberto Bava, 1986) e La chiesa (Michele Soavi, 1989). Nel 1988, a 13 anni, ha un ruolo da protagonista nel film Zoo(1988) diretto da Cristina Comencini, mentre l’anno seguente Nanni Moretti la sceglie per la parte della figlia del suo alter ego Michele Apicella in Palombella rossa (1989). Dopo altri film scritti e anche diretti dal padre, fra cui Trauma (1993), La sindrome di Stendhal (1996), Il fantasma dell’Opera (1998), è la cupa e sensibile Simona succube di un padre incestuoso in Le amiche del cuore (1992) di Michele Placido. In Perdiamoci di vista (1994) di Carlo Verdone è Arianna, la ragazza paraplegica dotata di prorompente vitalità che smaschera le mire di un conduttore televisivo alla ricerca di casi umani per fare audience. Sempre nel 1994 è una dei tre interpreti italiani principali (assieme a Virna Lisi e Claudio Amendola) del kolossal francese La Regina Margot di Patrice Chéreau, ispirato al romanzo omonimo di Alexandre Dumas padre. Due anni dopo, nel 1996, ottiene un secondo David di Donatello sempre come migliore attrice protagonista nel film Compagna di viaggio di Peter Del Monte. Appare poi nel ruolo brillante di una rapinatrice in Viola bacia tutti (1997) di Giovanni Veronesi, e incomincia una carriera internazionale nel film New Rose Hotel (1998) del regista statunitense Abel Ferrara, nel ruolo di una prostituta doppiogiochista. Dello stesso anno è l’ormai chiacchieratissimo B. Monkey. Da qui in poi lavora soprattutto all’estero, dapprima in Francia con un’ennesima edizione de I miserabili diretta da Josée Dayan, e quindi negli Stati Uniti, dove appare nel film d’azione di Rob Cohen xXx, nell’horror di Gorge A. Romero La terra dei morti viventi e in Marie Antoinette di Sophia Coppola. Intanto passa dietro la macchina da presa per dirigere due lungometraggi. Il primo, Scarlet diva (2000) in cui racconta le vicende di Anna, un’attrice di grande successo che vive tuttavia una disperata solitudine. Quattro anni dopo dirige e interpreta Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, tratto dai racconti autobiografici dello scrittore J.T. Leroy.

Weinstein dopo essere stato licenziato in tronco, ripudiato dalla moglie e dal fratello, è stato cacciato dal club degli Oscar, e ora anche Emmanuel Macron ha ordinato di ritirargli la Legion d’Onore, la più prestigiosa decorazione di Francia. Intanto si allunga di ora in ora la lista delle donne che lo accusano di molestie o violenze sessuali e lo scandalo si allarga oltre i confini americani. Quattro i presunti episodi di abusi che gli vengono contestati nel Regno Unito, con Scotland Yard che sta indagando su altri tre episodi. E in queste ore si allunga anche la lista di chi lo attacca: «È la fine di un’era terribile, ha commentato Mia Farrow, che si è detta orgogliosa della decisione dell’Academy di sospendere a vita Weinstein: «Harvey è fuori. Ora ce ne sono altri». Parole che confermano come a Hollywood ormai si respiri un’aria da caccia alle streghe, per scovare veri o presunti molestatori, chi tra manager e star sapeva ed ha coperto o solamente taciuto. Più sfumate le parole dell’ex compagno della Farrow, Woody Allen, che si è detto «rattristato» per Weinstein, lui che in passato ha dovuto difendersi da accuse pesantissime di molestie verso la figlia minorenne adottiva. Allen spiega di non aver mai saputo nulla delle vicende emerse negli ultimi giorni: «Ho sentito in passato alcune voci sui comportamenti di Weinstein, ma non queste storie orribili che stanno venendo fuori adesso». 

Asia Argento: “È un orco, mi ha mangiata. La cosa più sconvolgente? I tanti attacchi dalle donne”. L’attrice replica alle accuse e rivela: gli stupri di Weinstein furono due. “Perché non ho denunciato prima? Tenevo troppo alla mia carriera”, scrive il 15/10/2017 Gianmaria Tammaro su "La Stampa". «La cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze». La voce è rotta dall’emozione ma ferma, sicura. Sceglie le parole con cura, una per una. Ogni tanto trema per la rabbia e la frustrazione. Asia Argento è appena tornata in Italia. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker in cui ha denunciato di essere stata violentata da Harvey Weinstein, uno dei più potenti produttori di Hollywood, aveva deciso di rimanere in silenzio. Ma le polemiche che l’hanno travolta, mettendo in dubbio la veridicità della sua testimonianza e la sincerità dei suoi sentimenti, l’hanno convinta a tornare a parlare. Per questo motivo ora racconta e si racconta, non risparmiandosi sui dettagli di uno degli scandali sessuali più gravi che hanno mai colpito il mondo dello spettacolo. «Cercare di ricostruire quello che è successo vent’anni fa è stato difficilissimo, credetemi. Mi sono messa in gioco in prima persona e ho fatto in modo che anche altre donne potessero parlare». 

Perché ha deciso di rivelare questa storia a distanza di tanti anni?  

«Non sono l’unica che ha deciso di parlare adesso. Hanno parlato tutte ora. “Perché non avete parlato prima?”, ci chiedono. Perché Harvey Weinstein era il terzo uomo più potente di Hollywood. Ora è diventato il duecentesimo e il suo potere e la sua influenza si sono sensibilmente ridotti». 

Non pensa che parlare prima avrebbe evitato che altre donne subissero come lei?  

«Prima non c’erano stati scandali sessuali come quello di Bill Cosby. E se avessimo parlato allora, noi donne non saremmo state credute. Saremmo state trattate come delle prostitute. Come, tra l’altro, sta succedendo qui in Italia: una cosa di cui mi dispiace tremendamente». 

Che cosa l’ha ferita maggiormente?  

«Non ho ricevuto nessuna critica per il mio comportamento in nessun altro Paese. Ci sono amici che mi mandano articoli usciti in tutto il mondo, in cui nessuno si permette di fare “victim blaming”, di colpevolizzare le vittime. Nessuno all’estero. Guardi invece che cosa stanno facendo in Italia contro noi vittime». 

E lei come reagisce?  

«Oggi sono in grado di sopportarlo. Se avessi detto vent’anni fa quello che ho detto oggi, probabilmente non mi sarei più ripresa. Sarei caduta in depressione. E sarebbe stato addirittura peggio di quello che poi mi è successo. Mi creda: dopo quel giorno, non sono più stata la stessa persona». 

Come ha vissuto questi anni di silenzio?  

«Avevo ventuno anni quando è successo. Sa quanto tempo mi ci è voluto prima di capire? Anche se ne parlavo con amici e con amiche, con i fidanzati, questa è una cosa che tenevo seppellita. Una vergogna incredibile, mi creda. Mi ci sono voluti anni per capire che ero una vittima. E per tutto il tempo mi sono sentita colpevole di non essere scappata via, di non aver avuto la forza di dire no». 

Si sente ancora in colpa per questo?  

«Io mi sono opposta dieci, cento, mille volte a Harvey Weinstein. Mi ha mangiata. Un orco in mezzo alle gambe è un trauma. Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza». 

Che cosa temeva che le potesse accadere, in caso di denuncia all’epoca dei fatti?  

«La violenza che io ho subito risale al 1997. In Italia, solo un anno prima lo stupro era diventato crimine contro la persona e non solo contro la morale. Pensi se avessi parlato allora. Come avrei potuto? E poi sì, era per la mia carriera! Un tempo io ci tenevo tantissimo alla mia carriera. Ero giovane e anche io avevo i miei sogni. Non volevo niente da Weinstein, ma non volevo nemmeno che mi distruggesse». 

Fabrizio Lombardo, ex capo di Miramax Italia, nega di averla portata da Harvey Weinstein, come lei invece sostiene.  

«Lombardo è un bugiardo. Ci sono tantissime prove e tantissimi testimoni che ribadiscono che quello che ho detto io è vero. La sua è una bugia: chi gli crede? Ho i suoi messaggi ed erano intimidatori: come può sostenere che me li ha mandati per sbaglio? Voleva dirmi che sono una pazza e una prostituta. Con quei messaggi voleva mettermi paura e farmi credere che nessuno mi avrebbe presa sul serio». 

Dopo il primo incontro in un hotel in Costa Azzurra, lei iniziò una relazione con Weinstein?  

«Questa è un’assurda falsità. Una bugia orrenda. Io non ci sono stata insieme cinque anni dopo quella violenza, come insinua qualcuno». 

Weinstein cercò di contattarla ancora?  

«Alcuni mesi dopo quella violenza, quando ancora doveva uscire B. Monkey, Weinstein continuava a contattarmi, sì. Continuava a scrivermi e a cercarmi. Mi offriva pellicce e appartamenti. Ricordo che venne a Roma e mi propose di incontrarci per discutere delle strategie per pubblicizzare il film». 

Lei accettò?  

«Lo incontrai nella camera di un albergo, nel salottino. Con lui c’era una sua assistente. Ricordo che vedendola mi sentii sollevata. Dopo un po’, però, l’assistente se ne andò e successe di nuovo la stessa cosa. Weinstein mi fu di nuovo addosso. Allora mi sentii doppiamente in colpa. Perché mi ero fidata una volta di troppo. Io non volevo. Non mi piaceva. Quando lui iniziò a toccarmi, era come se potessi vedere dall’esterno quello che succedeva. Come se quella ragazza non fossi io». 

Qual era l’atteggiamento di Weinstein nei suoi confronti?  

«Se sente la registrazione pubblicata dal New Yorker, il modo in cui parlava alle donne, scoprirà che cambiava costantemente tono: passava dall’essere un bambino frignone a imporre con violenza quello che voleva. Aveva mille personalità. Mille. E cercava quella che funzionava di più con te. Weinstein era un predatore seriale. L’ha fatto con centinaia di donne. Se lo scandalo non è uscito prima, è perché lui insabbiava tutto. Ha pagato non solo donne, ma anche giornali e giornalisti». 

Come cambiò il suo comportamento, nei confronti di Weinstein?  

«L’unico mio potere, dopo quella violenza, era non accettare nessun regalo. Era non andare a nessun provino che mi veniva offerto. Io sognavo di diventare la più grande attrice e di vincere il premio Oscar. Erano i sogni di una ragazzina, l’ho detto. “Che bello – pensavo dopo aver girato il film B. Monkey – adesso potrò lavorare all’estero”. Allora amavo il mio lavoro e ci tenevo. E prima di avere figli era tutto quello in cui credevo. Dopo Weinstein non ho più creduto in niente che riguardasse il mio lavoro». 

Quindi vi incontraste altre volte?  

«Prima di risponderle, mi permetta di ribadirlo ancora una volta: la nostra non era una relazione. Non scherziamo. Non pensiamola nemmeno per un istante questa cosa. Tantissime volte sono riuscita a scappare e a evitarlo. Ero con amiche e lui riusciva a entrare negli alberghi e a trovarmi. Una notte, ricordo, venne a bussare alla porta della mia stanza e io ebbi paura. Al Festival di Toronto volle vedermi a tutti i costi; io lo incontrai insieme a una mia amica e lui si mise a piangere. Come un bambino». 

In una scena del suo primo film da regista, “Scarlet Diva”, il personaggio che lei interpreta subisce delle avances. Le viene chiesto di fare un massaggio. Era un modo per raccontare la sua storia?  

«Quando nel 2002 uscì negli Stati Uniti “Scarlet Diva”, Weinstein lo vide e mi contattò. Prima mi fece i complimenti e si comportò come un amico, poi mi disse: “Ho visto il tuo film! Che ridere!”. Aveva paura che dicessi pubblicamente che in quella scena, quella in cui mi viene chiesto un massaggio, era a lui che mi riferivo. Ma non l’avrei detto». 

Perché?  

«In quel momento, era impensabile fare un film del genere in cui denunciavo non solo quello ma anche altri abusi che avevo subito. Avevo solo 23 anni. Parlarne apertamente mi faceva paura: non volevo sentirmi dire che ero stata debole, che ero stata incapace di difendermi. Io volevo credere in ogni modo di essere una persona diversa». 

Nessuno le chiese mai se quella scena si riferisse a una sua vera esperienza di vita?  

«Mi è successo varie volte. E io ogni volta rispondevo di sì. Ma nessuno poi l’ha riportato. L’ho raccontato ad amici attori, produttori, giornalisti; l’ho detto anche ad amici che non lavoravano in questo ambiente. Ma nessuno ha fatto niente. Per me, certo, ma anche per tutte le altre donne». 

Poi però ha deciso di farsi avanti in prima persona: come mai?  

«Quando mi ha chiamato Ronan Farrow del New Yorker, ho iniziato a raccontargli la mia storia ma solo in via confidenziale e anonima. Sono stata la prima a farlo. Non ce la facevo più. Mi sono consultata con il mio fidanzato e con altre persone a me vicine. Tutti mi hanno incoraggiato. Dopo aver raccontato la mia storia, ho detto a Ronan di dirlo anche alle altre attrici e modelle, e di specificare che avevo deciso di acconsentire alla pubblicazione del mio nome». 

Che cosa è successo a quel punto?  

«Il giorno dopo Farrow mi ha richiamato dicendomi che anche altre donne, spinte dal mio racconto, avevano deciso di farsi avanti. E questo mi sembra importante. Prima non ci era stata data nessuna possibilità. C’era un’omertà assoluta su quest’uomo. Appena ho potuto, appena ci è stata data l’opportunità, tutte noi abbiamo denunciato». 

In Italia non tutti la pensano così. Non tutti le credono. Non tutti stanno dalla sua parte.  

«La cosa più sconvolgente è che ci sono anche donne tra queste persone. Donne che stanno scrivendo contro di me. Donne che mi stanno denigrando. E questo è grave. Perché sono sicura che anche tante tra queste donne hanno vissuto o anche solo visto cose del genere. E ora fanno finta di niente. Mi accusano di esserci stata».

La accusano anche di aver firmato la petizione a favore di Roman Polanski, indagato per pedofilia.  

«Roman Polanski fu arrestato in Svizzera. Io non conoscevo la faccenda fino in fondo. Ammetto la mia ignoranza. Fui contattata dal Festival di Cannes. Mi dissero che c’era una petizione e che tutti stavano firmando perché quello che aveva fatto questo giudice a Polanski era contro i diritti di ogni individuo. Io firmai e solo dopo mi sono informata. Ammetto la mia colpa». 

Si è pentita?  

«Mi ero fidata e mi sono sbagliata. C’erano tantissimi colleghi coinvolti e che avevano firmato. Io non avevo letto bene il caso. E poi Polanski era uno dei miei registi preferiti. Lo ripeto: mi fidai, sbagliando. E di questo mi sono profondamente vergognata. E ora mi vergogno ancora di più. Nessuno mi costrinse, voglio precisarlo. Ma mi fidai. E oggi dico pubblicamente che vorrei non averlo mai fatto». 

Dopo essersi fatta avanti insieme alle altre donne e aver raccontato quello che le è successo, cosa spera che accada?  

«L’unica cosa in cui ora spero, anche dopo aver rivissuto questa terribile esperienza ed essere stata insultata nel mio Paese - e solo nel mio Paese! - è che ci sia un risveglio tra quelle di noi che hanno subito. Che sempre più donne dicano basta. Ora questi uomini, questi mostri, dovranno avere paura così come noi, ogni volta che li abbiamo incontrati, che siamo rimaste da sole con loro, ne abbiamo avuta». 

Anche la torinese Ambra Gutierrez vittima di Weinstein: l’audio in hotel. "Weinstein entrò nella mia cabina e poi si masturbò di fronte a me". Aumentano le denunce contro Harvey Weinstein, il produttore accusato di abusi sessuali. Il racconto d Angie Everhart: "Si masturbò di fronte a me", scrive Rachele Nenzi, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale".  Si moltiplicano le denunce contro Harvey Weinstein, il toycoon di grido della Hollywood americana. Dopo le polemiche esplose per le dichiarazioni di alcune attrici, che hanno detto di essere state molestate dal produttore, l'Academy, l'organismo che assegna gli Oscar, ha deciso di espellerlo. Dopo Asia Argento e Rose McGowan, adesso anche Angie Everhart, ex fidanzata di Silvester Stallone, ha deciso di rendere pubblica la sua esperienza con Weinstein: "Mi trovavo su uno yacht e stavo dormendo quando Harvey irruppe nella mia cabina e si masturbò di fronte a me, ha detto l'attrice. Le polemiche non finiscono. Dopo l'Accademy, anche Amazon ha deciso di ritirare la serie della casa di produzione della famiglia Weinstein. Non solo. I finanziamenti elargiti dal tycoon ai grandi politici del partito democratico Usa continuano a far discutere. Lo ched Anthony Bourdain, compagno di Asia Argento, ha attaccato Illary Clinton, sostenendo non potesse non sapere quello che faceva il produttore. E in tanti sostengono che quello emerso in questi giorni fosse in realtà il segreto di pulcinella. Quanti sapevano e non hanno detto nulla? Perché le attrici molestate non hanno parlato? La casa produttrice Wrinstein, per evitare ulteriori contraccolpi, ha cacciato Harvey. Ma non è detto che, soprattutto nel breve periodo, questo possa impedirgli di perdere qualche pezzo. Anche Oliver Stone, infatti, si è sfilato dalla serie Guantanamo.

Asia Argento non è l'unica italiana molestata da Weinstein: chi è lei, ex Miss Italia (e c'entra Berlusconi), scrive il 16 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Nello scandalo di Harvey Weinstein alla fine ci finisce, suo malgrado, anche Silvio Berlusconi. Una delle donne che hanno accusato di molestie sessuali il mega-produttore di Hollywood è Ambra Battilana Gutierrez. Pochi lo hanno notato, forse perché la ragazza sui social si fa chiamare Ambra B. Gutierrez e la stampa americana l'ha sempre chiamata con il suo secondo cognome, ma è proprio quella Ambra Battilana diventata famosa nel 2011 perché testimone contro Berlusconi al processo sul Bunga bunga. Anche lei, insieme a un'altra "pentita", Chiara Danese, era una delle cosiddette Papi Girl e testimoni delle serate ad Arcore nella villa del Cavaliere. Dopo i processi in Italia, la modella italo-filippina ha cercato di rifarsi vita e carriera Oltreoceano e qui si è imbattuta nel potentissimo Weinstein. Nel 2015 la Battilana ha denunciato alla polizia di New York che il produttore la avrebbe palpato il seno nel suo ufficio al TriBeCa Film Center. Ed è proprio Ambra la ragazza dell'audio-bomba diffuso poi dalla stampa che ha incastrato Weinstein, nel quale il manager ammette i suoi abusi: "Perché mi hai toccato il seno?", gli chiede la giovane, oggi 24enne. "Oh scusa - è la serafica risposta dell'uomo -. Mi dispiace, lo faccio sempre. Entra". Purtroppo per lui l'ex finalista di Miss Italia era stata "microfonata" dalla polizia per smascherare i comportamenti di Weinstein, ma non ebbe il coraggio di proseguire l'incontro e fornire prove più schiaccianti contro Weinstein: secondo gli inquirenti americani "era troppo impaurita".

Claudia Cardinale e l’orrore dello stupro: «Ma nacque il mio Patrick». L’attrice racconta di quel figlio avuto in seguito a una violenza e del difficile rapporto con il produttore Franco Cristaldi, scrive Emilia Costantini il 14 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Non è tipo da fare commenti sullo scandalo del produttore Harvey Weinstein, ma quando Claudia Cardinale racconta del suo importante rapporto con un altro produttore, Franco Cristaldi, sembra di percepire nelle sue parole un certo disappunto, come se un remoto rancore tornasse a galla. «Stavo vivendo, in quel periodo, un momento molto delicato della mia vita — racconta la grande attrice che, all’epoca, era reduce da uno stupro subito a Tunisi, dov’era nata —. Un uomo che non conoscevo, molto più grande di me, mi costrinse a salire in auto e mi violentò. È stato terribile, ma la cosa più bella è che da quella violenza nacque il mio meraviglioso Patrick. Io infatti, nonostante fosse una situazione molto complicata per una ragazza madre, decisi di non abortire. Quando quell’uomo seppe della mia gravidanza, si rifece vivo, pretendendo che abortissi. Neanche per un attimo pensai a disfarmi della mia creatura! Ne parlai con i miei meravigliosi genitori e con mia sorella Blanche e tutti insieme decidemmo che il mio bambino sarebbe cresciuto in famiglia, come un fratello minore». Poi Claudia scoppia in una di quelle sue fragorose risate e aggiunge: «L’aspetto buffo della vicenda è che io avevo già cominciato a lavorare nel cinema e praticamente fino all’ultimo nessuno si era accorto che ero incinta». Quando fu il momento di partorire, per contenere lo scandalo, Franco Cristaldi, con cui aveva appena iniziato un contratto, decise di portare la sua giovanissima attrice a Londra: «Per questo mio figlio si chiama Patrick: ha preso il nome della chiesa dov’è stato battezzato. Fui grata al produttore per avermi aiutata in quel momento difficile, poi però...». Con Cristaldi iniziò una relazione «e lui voleva che mantenessi segreta la nascita del bambino, non voleva nemmeno che vivesse con noi». Una storia tormentata: «Con lui ero praticamente un’impiegata, una subalterna che veniva pagata al mese per i quattro film l’anno che facevo: non lo chiamavo nemmeno per nome, ma per cognome. Mi sentivo in ostaggio, mio padre e mia madre erano furibondi». Si celebrò anche un matrimonio, però: «Che aveva deciso lui — ribatte Claudia — e in gran segreto: lo aveva organizzato senza dirmi nulla, io lo annullai perché non ero innamorata, era lui ad esserlo di me. Insomma, Cristaldi è stato certamente un grande produttore, ma sul piano privato... meglio sorvolare». La storia d’amore veramente importante per Claudia è quella vissuta per oltre vent’anni con il regista Pasquale Squitieri, di cui proprio in questi giorni sta per portare in scena il progetto teatrale su «La strana coppia» di Neil Simon con l’attuale vedova del regista, scomparso nel febbraio scorso, Ottavia Fusco: lo spettacolo, prodotto da Pragma srl, debutta al Teatro Sistina il 31 ottobre con la regia di colui che fu l’assistente di Squitieri, Antonio Mastellone. «Pasquale è la persona con cui ho condiviso tutto: sono stata io a sceglierlo, per conquistarlo lo raggiunsi a New York». E con lui ebbe la seconda gravidanza e la nascita di Claudine: «È stato Pasquale a voler dare a nostra figlia il mio stesso nome perché, siccome non volevo sposarmi, ci sarebbe stata comunque una Claudia Squitieri». Un grande amore ma niente matrimonio, perché? «Pesava su di me il ricordo della violenza subita. Inoltre, non ho mai amato mischiare vita pubblica e privata, sono fatta così... sono una maschiaccia. Da ragazzina non volevo fare l’attrice, ma l’esploratrice». Una «selvaggia», si autodefinisce, molto corteggiata e amata da molti: tra i tanti, anche Marcello Mastroianni perse la testa per lei, mentre giravano «Il bell’Antonio». Ride di nuovo Claudia: «E pensare che nel film impersonava un uomo che era talmente innamorato di me da diventare impotente. La storia era ambientata a Catania e, durante le riprese, i catanesi non gradivano molto che un siciliano fosse rappresentato come impotente!».

Tutte contro Asia per non aver parlato prima. Ma basta per far passare in secondo piano il reato? Scrive il 15/10/2017 Nicola Pinna su "La Stampa". Se questa fosse la giuria popolare di un tribunale, a beccarsi la condanna, la più pesante, sarebbe la vittima. I giudizi più duri, quasi sempre spietati, arrivano dalla bocca – anzi, dalla tastiera – delle donne, da quelle che verso il tema della violenza dovrebbero avere la sensibilità maggiore. Il caso che ha sconvolto Hollywood, in Italia si sta trasformando in una specie di attacco contro un’attrice che da sempre ha diviso la critica. Ma questa volta non c’è di mezzo il giudizio sulla sua recitazione: la vicenda è quella drammatica degli stupri che Asia Argento avrebbe subito dal potentissimo produttore Harvey Weinstein. Lei lo aveva già percepito che l’unico sostegno sul quale non avrebbe potuto contare è proprio quello delle donne. E oggi, nell’intervista concessa a La Stampa, lo ha detto e ripetuto più volte: «La cosa più sconvolgente sono i tanti attacchi da parte delle donne. Solo in Italia si colpevolizzano le vittime. Tutto questo perché? Perché ho denunciato dopo vent’anni. Ma allora Winstein era l’uomo più potente di Hollywood e io tenevo troppo alla mia carriera».  Il racconto di tutto ciò che è successo dietro le quinte del circo di Hollywood sembra passare subito in secondo piano. La pressione psicologia, la vita che cambia, il dramma di una ragazzina che cresce con questo segreto e le paure di una donna che è diventava grande portandosi dentro questo peso non colpiscono quasi nessuno. Tutti pronti a puntare il dito contro Asia Argento: perché? Basta semplicemente ribadire che i social network sono una grande fabbrica dell’odio? Forse no. Leggere le centinaia di commenti all’intervista concessa da Asia Argento a Gianmaria Tammaro è come fare uno zigzag tra insulti, offese e cattiverie inspiegabili. «Mi spiace Asia ma non sono solidale con te – scrive Alessandra Bartoli - Qui la violenza non c’entra. Nella vita si può scegliere: se farsi “mangiare dall’ orco” per convenienza o decidere di fare carriera percorrendo altre strade, magari più lunghe ma più dignitose». «Sinché le ragazze pur di far carriera, acconsentono il malvezzo non smetterà – rincara Bruna Bonino - A lamentarsi dovrebbe essere la maggioranza delle donne oneste che si vedono scavalcate da quelle disponibili a tutto». Per accusare la vittima c’è anche chi, come Anna Ferretti, sfrutta uno strano paragone: «È forse una vittima l’imprenditore che ha pagato la mazzetta per avere l’appalto? O sono vittime coloro che, magari con più meriti, hanno scelto di non pagare e non hanno lavorato? La legge punisce il concusso e il concussore».  Insomma, la vittima degli stupri ha una colpa imperdonabile: non aver parlato prima. Ma è sufficiente per far passare in secondo piano il reato vero? «Tenere troppo alla propria carriera non è una scusa accettabile – risponde Patrizia Maffe – Anzi, è un’offesa verso tutte quelle donne che hanno saputo dire di no». «È un’ipocrisia denunciare tutto dopo vent’anni quando sei già nella privilegiata condizione di potere vivere di rendita per le prossime tre reincarnazioni – rincara Sandro Vergato – Questa per Asia Argento è una ghiotta occasione per tornare a fare parlare di lei, ecco che prende al volo l’occasione e confessa “l’inconfessabile”». «La carriera vale più della dignità? – dice provocatoriamente Anna Rita Cesamento – Allora non lamentarti dopo 20 anni senza contare che per 5 anni hai continuato a frequentare il cosiddetto orco non sei credibile».  Sembrano voci isolate, ma nel tribunale improvvisato, e talvolta delirante, dei social network c’è anche qualcuno che ha trovato il coraggio di andare controcorrente: difendere Asia Argento. «Trovo ingiusto attaccare chi si è trovato in una situazione confusa e raccapricciante come questa – dice Sara De Sanctis - Asia Argento quindi sarebbe da attaccare solo perché quando era una ragazzina di 21 anni (e negli anni successivi) non ha saputo ribellarsi alle avance di un mega colosso mondiale che l’avrebbe schiacciata moralmente e lavorativamente, per di più in un momento storico in cui lo stupro non era neanche riconosciuto legalmente». «La violenza psicologica è molto più grave di quella fisica – ragiona Patrizia Gallo - Riflettiamo prima di giudicare. Il produttore non le ha costrette con la forza ma le ha intimorite con il suo potere, facendo credere loro che si sarebbe trasformato in ritorsione. Avrebbero chiuso una carriera appena iniziata. Ancora Eva contro Eva? Direi anche basta». 

Lettera femminista ad Asia Argento. La lettera apparsa sul blog Manginobrioches gestito dalla giornalista Anna Mallamo il 15 ottobre 2017. Cara Asia Argento, comincio col dirti che tu non mi eri mai stata particolarmente simpatica. Mi eri sempre sembrata poco più di una starlette, aiutata da un cognome famoso, e disinibita ma soprattutto a favore di telecamera. Sai, la mia generazione – che pure è quella che più ha lottato contro moralismi e inibizioni e divieti – ha sviluppato tutto un suo moralismo e inibizione verso quelle più giovani e disinibite, ma con un sospetto di tornaconto e/o narcisismo che a noi, madri fondatrici della disinibizione, suona inaccettabile. Ti chiedo scusa di questo, ma te lo dico perché forse può aiutare un poco a comprendere questa vicenda, che nasce orribile in America tanti anni fa, ma assume qui, oggi, in Italia, tutta una sua sfumatura marroncina a cui concorrono firme famose, amazzoni del web e testate giornalistiche (sia pure di quelle avvezze alle patate bollenti, più che altro: i loro titoli di prima pagina sono ormai un sottogenere del trash). Ti chiedo scusa anche a nome loro. Purtroppo, sei caduta anche tu nella famosa trappola che ogni giorno inghiotte tante di noi: il rovesciamento delle responsabilità. La colpa della violenza, della molestia, dell’abuso sono tuoi. E il linciaggio nei tuoi confronti è persino superiore, e di tanto, alla riprovazione nei confronti dell’autore di violenze, molestie, abusi. Peraltro c’avete proprio il fisico: tu bella, sensuale, trasgressiva; lui sfatto, butterato, con la silhouette da cinghiale strizzato negli smoking. Ecco imbastito il romanzaccio che colpisce la fantasia. E anche la trama perfetta perché ciascuna di noi possa impersonale il ruolo migliore: quella-che-non-l-avrebbe-mai-tollerato. Quella che di fronte al maiale che chiede “un massaggio” (talmente vigliacco da non chiamare nemmeno le cose col loro nome, e sminuirle lì stesso, davanti alla vittima, mentre si apre l’accappatoio, suggerendo l’eufemismo come riparo per entrambi, come paravento) avrebbe messo il mondo al suo posto e fatto giustizia per tutte. Io di me devo pensare che avrei detto di no, perché ne va della mia definizione di me. Devo pensare che avrei rifiutato il cinghiale e tutto il suo sistema (il solito, antico e consolidato: proprio quello in cui prosperano tanti che oggi ti stanno biasimando, proprio quello in cui tutto l’ipocrita star-system, che oggi è tutto un “ma io non sapevo, io non credevo, io non so perché ho taciuto”, è immerso fino al collo). Ma non ne sono mica sicura. A 21 anni ero inimmaginabilmente cretina e fragile, e tante fragilità nel tempo si sono solo fatte più furbe. Guardo indietro, a quella me, con indulgenza e un certa tenerezza, e vorrei guardare te così, oggi. Quella di 21 anni che non sa fronteggiare il cinghiale e ci si sottomette, quella di 22 che continua a dargli sesso non desiderato – come fanno milioni di donne che non riescono a dire un “no” che fermi i cinghiali, e poi lo trasformano in tanti altri “sì” senza che questo renda la violenza meno violenta e disgustosa. Vorrei abbracciare quella ragazza lontana, e tutte le altre: anche, oggi, quelle che – come me per cinque minuti – hanno pensato “ma io avrei detto no, lei perché non lo ha fatto, anzi poi ha continuato?”. Per milioni di motivi (e se entrate per un solo pomeriggio in un centro antiviolenza – di quelli che esistono ancora – potreste conoscerne un certo numero). Per la definizione di sé, perpetrando quell’inganno di linguaggio che il cinghiale ha messo in scena con quella sua richiesta di “massaggio”, mica di sesso estorto. Per la fragilità di chi si sente comunque solo, debole e perdente di fronte a un gigantesco sistema (che sì, ha le fattezze di un cinghiale in accappatoio, grande quanto Godzilla) che non gli consentirà di sopravvivere, dopo. Per la paura di avere paura, di mostrarla, di doverla sostenere, poi, davanti all’istruttoria ininterrotta di media, pubblico, familiari, amici, coscienza. Per non dover rispondere alle domande irrispettose, oscene, violente quanto la stessa violenza (vi ricordate la sentenza sui jeans? Vi ricordare Jodie Foster in “Sotto accusa”, violentata su un flipper da cinghiali che si erano sentiti provocati dal fatto che lei fosse provocante?). Per non sentirsi dire “figliuola, ma tu volevi fare l’attrice: se avessi voluto fare la lavapiatti non ti sarebbe successo”. Dimenticando che invece succede anche a tante lavapiatti, che nemmeno vent’anni dopo lo potranno raccontare. Per non ammettere che si sta aderendo a un sistema disgustoso, ma non si ha la forza di combatterlo e cercarne un altro (per inciso: sono molti anni che lo cerchiamo tutte, con risultati non incoraggianti, ma indispensabili. Ci auguriamo che anche la tua storia serva a questo) (per altro inciso: se anche esistono donne che credono nel sistema maschilista o lo usano per vantaggi personali, questo non assolve il maschilismo o condanna le donne, nemmeno quelle che lo sostengono. Sia ben chiaro). Sei bella, sei famosa, fai una vita interessante, ma non baratterei nessuna delle tue fortune con una sola ora nel letto del cinghiale, cara Asia. Quindi, se c’è qualcuno ansioso di “farti espiare”, sappia che lo hai già fatto. Tutta la mia solidarietà, dunque, cara Asia, di sorella maggiore che vorrebbe abbracciare non solo le vittime degli altri, ma anche le vittime di se stesse: a cominciare da quelle che si dicono “io avrei detto no” per rassicurarsi, e attaccano te per tranquillizzarsi, col solo effetto di sminuire le colpe dei cinghiali. Sorelle, non è necessario. Facciamo un gesto di forza vera: riconosciamo le nostre debolezze e abbracciamole. E fanculo ai cinghiali.

“Prima la danno via e poi frignano”: Asia Argento e il “femminismo meritocratico” italiano, scrive "Roba da donne". Tutte le donne che denunciano uno stupro o molestie meritano la nostra solidarietà? Cosa ci ha insegnato la vicenda di Asia Argento di questi giorni. La vicenda di Harvey Weinstein, il grande produttore americano accusato di violenza sessuale da un numero crescente di star, sta facendo tremare Hollywood, ma anche l’Italia che si è svegliata nuda, senza il velo dell’apparenza a salvare la nostra cultura dove giusto il femminismo, a quanto pare, è meritocratico, e vale “solo se” una donna ne viene reputata “degna”. Ma è riduttivo derubricare a una lotta tra maschilismo e perbenismo la spaccatura che si è venuta a creare, anche tra persone tutt’altro che bigotte o culturalmente arretrate, sullo stupro denunciato 20 anni dopo da Asia Argento.  Di sicuro, c’entra in questa storia un problema portante di questi tempi così politically “incorrect” nei fatti, ma dominati dalla gogna del politically correct in apparenza che impedisce, a volte, di chiamare semplicemente le cose come stanno, dove innocui aggettivi sono stati demonizzati e sostituiti da perifrasi puritane e dove qualsiasi convinzione diventa una crociata alla convinzione contraria. In che senso? A sollevare la rivolta non è tanto la denuncia di Asia Argento, quanto il fatto che lei dopo abbia avuto una relazione pluriennale e conseguenti rapporti consenzienti, per sua stessa ammissione, con il suo carnefice, si sia fatta fotografare con lui sorridente sui red carpet, abbia accettato regali costosi, abbia affidato a lui la produzione di quello che oggi definisce il suo video denuncia, abbia firmato la petizione, sempre insieme a Weinstein, a favore di Roman Polanski e altre cose illustrate, tra gli altri, da Selvaggia Lucarelli: "Questa faccenda di Weinstein, produttore potente e bavoso di Hollywood, che molesta le attrici presenta numerosi punti oscuri e francamente non tutti esattamente edificanti pure per le donne. Lui: un maiale. Sessuomane. Molestatore. Di quelli in cui si può inciampare, purtroppo. E succede pure in Italia. Ce ne sono di noti. Sono certa che parecchie ragazze famose e non che li hanno conosciuti sanno esattamente di chi sto parlando. Qualcuna avrà scelto di assecondarli e di lavorare in virtù di quel sì, qualcuna se ne sarà andata con un no, però standosene zitta e sperando di non avere ritorsioni sulla carriera. Di uno di questi avevo a lungo sentito parlare, l'ho conosciuto anni fa e sì, fu molesto e fuori posto. Gli dissi "Sei più intelligente di quello che stai facendo", si ricompose, si scusò e tanti saluti. E' stato mortificante, ma non mi sono sentita obbligata né manipolata psicologicamente come può accadere a una ragazzina di 13 anni. Mi sono sentita in imbarazzo. Umiliata. Siamo adulte, le molestie sono orrende ma non sono violenze sessuali. Possiamo dire no. Detto ciò, mai lavorato con lui. (e con altri) Mai vissuta con grande frustrazione. Di gente perbene ce n'è, basta scegliere. E non mi sento neppure un'eroina né voglio medaglie o pubblicità, altrimenti racconterei dettagli e molto altro. Non ho neppure un particolare astio nei confronti di quelle che invece ci vanno e ci stanno. Ognuna si dà il valore che desidera. Se per te un ruolo vale una scopata, tanti auguri. Non sei il mio modello di riferimento, ma francamente mi piace ancor meno un'altra categoria di donne. Quella di coloro che fanno lo stesso ma non riuscendo ad assolversi, cercano di vendersi come delle virtuose costrette dalle circostanze. Leggo dal sito dell'Ansa: "Nel '97, Asia Argento racconta di aver ricevuto un invito per un party della casa produttrice: quando arrivò però non c'era alcuna festa, ma fu portata nella suite di Weinstein. Lì, nonostante lei abbia ripetutamente tentato di sottrarsi, è stata costretta a subire del sesso orale, dopo che Weinstein le sollevò la gonna. "Mi terrorizzava, era un uomo troppo grosso per me. E' stato un incubo", ricorda l'attrice, che alla fine di quel rapporto disse: "Non sono una prostituta". E Weinstein - racconta - cominciò a ridere. "Non ho detto nulla finora perchè avevo paura che potesse distruggermi come ha fatto con molte altre persone. Che potesse rovinare la mia carriera".  Argento ricorda quindi di aver poi frequentato per anni il produttore, avendo con lui anche rapporti consensuali: "Sembrava ossessionato da me, mi faceva molti regali costosi". Ma quell'episodio iniziale ha comunque segnato la sua vita per anni: "Mi sono sentita responsabile. Se fossi stata una donna forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l'ho fatto. E' stato un trauma orribile". Ora. Francamente. Vai a letto con un bavoso potente per anni e non dici di no per paura che possa rovinare la tua carriera. Legittimo. Frigni 20 anni dopo su un giornale americano raccontando di tuoi rapporti da donna consenziente tra l'altro avvenuti in età più che adulta, dovendo attraversare oceani, con viaggi e spostamenti da organizzare, dipingendoli come "abusi". Meno legittimo. Ad occhio, sono abusi un po' troppo prolungati e pianificati per potersi chiamare tali. E se tu sei la prima a dire che lo facevi perché la tua carriera non venisse danneggiata, stai ammettendo di esserci andata per ragioni di opportunità. Nessuno ti giudica, Asia Argento. Però ti prego. Paladina delle vittime di molestie, abusi e stupri, anche no. Facciamo che sei finita in un gorgo putrido di squallidi do ut des e te ne sei pentita. Con 20 anni di ritardo però. Roman Polanski stupró una ragazzina di 13 anni. O meglio. Il giudice stabilì che si approfittò di questa ragazzina. Del suo potere su di lei. Andò in galera e poi una lunga storia processuale.  Nel 2009 Asia Argento firmò la petizione pro-Polanski (stupratore di 13enni) assieme a #weinstein e altri.  Noi che abbiamo delle perplessità sul suo racconto (relative alla sua relazione consensuale lunga 5 anni) facciamo apologia dello stupro. Però, sia chiaro, le petizioni a favore di uno stupratore non le firmiamo."

Ingiustificabile il fatto che lo sdegno si sia scagliato sulle donne e non su Harvey Weinstein che, sebbene abbia ammesso la fondatezza di tutte le accuse, si è giusto meritato una nota a margine nei commenti indignati di chi “sì, ok, lui è un porco ma…”. Ingiustificabili i toni di testate giornalistiche e personaggi televisivi, contro cui andrebbero presi provvedimenti che nulla hanno a che vedere con la censura, né ledono la libertà di parola, dal momento che gli stessi ledono semmai la dignità delle persone. Ma esistono alcune cose che chiunque di noi, donne e uomini, ha probabilmente pensato e non dirselo significa autocensurare un pensiero che sappiamo essere controverso e non politically correct in questi tempi di nuove (ed effettivamente mai sufficienti) lotte femministe.  Ed è quello espresso – male, a mio avviso e con mio grande stupore visti gli autori – dalla Lucarelli e da Luxuria. Non è difficile per nessuno comprendere come una violenza si consumi senza che la vittima, stordita, spaventata, riesca a opporre una reale resistenza. O almeno spero, ma temo a questo proposito il riscontro con la realtà. La stessa Asia non ha cercato alibi nel dire: Mi sono sentita responsabile. Se fossi stata una donna forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l’ho fatto. E’ stato un trauma orribile. Ma a chi di noi è successo deve avere l’onestà intellettuale e morale di dire che quello che Selvaggia Lucarelli e Vladimir Luxuria hanno avuto, a modo loro, il “coraggio” – mi si passi il termine – di esternare, è passato anche nella nostra testa e, in parte, non riesce ad andarsene e possiamo semmai limitarci a tenerlo a bada. Perché? Un po’ perché ha ragione Michela Murgia quando ha detto "Viviamo in un Paese in cui non servono nemmeno i maschi per essere maschilisti" e anche i più illuminati di noi, probabilmente, questa cultura patriarcale ce l’hanno nel sangue, annidata come un virus che ci è stato iniettato da piccoli. L’abbiamo saputo sconfiggere con la consapevolezza, la cultura, l’empatia, ma resta è lì, latente e ostinato, in attesa di aggredirci alla prima distrazione. Ammetterlo è motivo, per la sottoscritta, di vergogna, perché va a minare qualsiasi possibile e appagante “posa” da femminista senza se e senza ma. Non farlo, sarebbe codardia e perbenismo camuffato da impegno sociale e lotta femminista. Roba da bigotte “alternative”. Ho pensato anch’io che fosse “comodo”, di più, che fosse “sbagliato” accettare i compromessi più schifosi non per una questione di vita o di morte, ma per un prestigio o un lusso, come quello del successo o una carriera nel cinema, e poi gridare allo scandalo a “risultato ottenuto”.  Ho pensato anche io alle donne che probabilmente non sono un nome e un cognome da noi idolatrato e ricoperto d’oro solo perché quando si sono trovate davanti all’obolo di darla a quello giusto hanno detto vaffanculo e quel calcio nelle palle lo hanno dato. Ci siamo passate un po’ tutte, o in molte, al bivio dell’accettare o non accettare il favore di qualcuno che, guarda caso, se sei donna e vagamente piacente, passa sempre per un letto e chi di noi ha detto no sa bene dov’è arrivata chi non lo ha detto, perché magari era quel posto che, per merito, avrebbe dovuto essere nostro. Si paga con la rabbia, la frustrazione e tanto altro quel senso di impotenza e allora è facile prendersela con Asia Argento, con Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie o le altre, le “complici”, che hanno pagato il loro silenzio o il loro dramma personale con il successo e i soldi. La stessa rabbia non l’avremmo riservata alla donna delle pulizie o l’operaia che si piega al volere del capo pervertito per paura di perdere un posto di lavoro.  Lei ha chinato il capo per la sopravvivenza, le altre per il superfluo. Greta Priviteri di Vanity Fair ha chiesto a Michela Murgia "E chi accusa queste attrici di aver goduto dei benefici di certe scelte? La risposta, confesso, mi ha aiutata molto per capire i sentimenti controversi che questa vicenda ha suscitato nella sottoscritta: Parte da un punto sbagliato. Infatti, viene spesso messo l’accento su quello che si ottiene accettando il ricatto sessuale. Poi, se raggiungi qualcosa, secondo questa stupida teoria, non puoi più dirti ricattata. Ma si dovrebbe partire da un altro presupposto: queste donne potevano discutere le condizioni del ricatto? Se desideravano con tutte loro stesse di fare le attrici, la colpa è di quel qualcuno che le ha in qualche modo costrette a saltare nel suo letto o è loro che avevano un sogno? Dobbiamo discutere la condizione a livello iniziale. Chiediamoci: poteva ottenerlo diversamente? Poi c’è chi è forte e riesce a dire di no, dipende da quanti anni hai, che esperienze hai, in che condizione psicologica sei.

Perché non riuscivo a dire con lo stesso sdegno di sempre “Asia è una vittima”, con lo sdegno che diventa nausea per quelli che “sì ma lei un po’ se l’è cercata” o “se non si è ribellata è perché le piaceva”? Ho capito che la compassione e il disprezzo, spesso, dipendono da cosa “hai ottenuto”. Se la donna delle pulizie o l’operaia col tempo diventa la responsabile di un reparto con un ruolo sicuro e uno stipendio più che dignitoso ecco che la nostra compassione finisce e diventa una “puttana”. L’empatia va meritata. E se hai ottenuto qualcosa, la molestia diventa il “valore” che hai dato al tuo obiettivo, il “pagamento” per quanto hai ricevuto in cambio e, quindi, non meriti compassione. È la versione, se possibile ancora più subdola, del se ti stuprano e hai la minigonna o un atteggiamento provocante, allora sei una “troia che se l’è andata a cercare”, mentre se sei vestita come l’omino Michelin e magari pure un po’ sfigata allora sei la vittima. Asia, Gwynet e le altre ora denunciano e “piagnucolano ingrate”, secondo alcuni, dopo aver fatto incetta dei favori ottenuti in cambio di quello che hanno subito in silenzio. Questo è quello che ci dice il “femminismo meritocratico”. È vittima la ragazza che resta inerme a subire la violenza, perché troppo spaventata e incapace di reagire, ma da questa non ottiene nulla. È vittima la donna che è soggiogata a un uomo senza trarne alcun giovamento personale. Ma non esiste più possibilità di denunciare e di sentirsi vittime se la sudditanza fisica e psicologica a un uomo ti ha portato ad appartenere a un elite cui tanti aspirano. In che condizioni psicologiche era l’Asia che ebbe la relazione con Harvey Weinstein? Quanto ha pesato il fatto di non aver saputo sottrarsi la prima volta, nel sentirsi colpevole e in condizione di non poter più denunciare se non lo hai fatto subito? Non abbiamo consultato psicologi o persone titolate a farlo, prima di emettere la nostra sentenza.  Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che la violenza ha varie forme. Sì, ma le donne che hanno detto no e non hanno avuto successo? Sì, ma le vittime di stupri “veri”, quelli per strada, quelli dove tu ti ribelli ma subisci uguale e rischi pure di essere ammazzata? Così si manca loro di rispetto, così si mettono sullo stesso piano, così è ingiusto, loro meritano di… queste altre non sono certo delle sante. Obiettano i più. Eccolo il femminismo “meritocratico”, che vuole la graduatoria delle vittime per decidere chi ammettere nella rosa della nostra compassione. Non mi risulta che né Asia, né nessun’altra star stiano sostenendo di essere più vittime o vittime tanto quando le altre di cui sopra. Asia Argento non è una santa, non lo è nessuna delle vip hollywoodiane coinvolte in questa brutta storia, non lo è nessuna di noi che, almeno in un momento della sua vita, secondo la “meritocrazia”, sarebbe stata esclusa dalla lista delle vittime riconosciute per un ammiccamento, un abito o per la concessione a un capo bavoso di dirci quella parola di troppo, nonostante lo schifo che ci faceva. La verità è che abbiamo perso l’occasione per parlare di un altro volto della violenza: quello che passa per l’abuso di potere e non ha a che fare necessariamente con un uomo che ti mette in un angolo, all’improvviso, e ti assale. È una violenza subdola, di cui ti senti colpevole perché allunga la mano dopo che tu non sei stata in grado di mettere al suo posto l’uomo che lo fa quando le sue molestie erano ancora solo parole, atteggiamenti, allusioni ogni giorno più insistenti e che nulla hanno a che fare con uno che “ci prova” o ti sta corteggiando. La maggior parte di noi quando è arrivata quella mano probabilmente ha finalmente trovato la forza di andarsene e respingere, insieme a quelle dita sudicie, anche il sogno che per meritocrazia ci spettava di diritto e non è mai diventato realtà perché non abbiamo pagato quel “prezzo” finale. Siamo state migliori? Vorrebbe dire stilare un’altra graduatoria. Forse sì, forse abbiamo avuto solo la fortuna di essere più “carrozzate” e preparate emotivamente e psicologicamente, forse avevamo accanto qualcuno che ci ha dato la forza. La verità è che abbiamo perso l’occasione di dire alla ragazza che entra nel mondo del lavoro, che può denunciare e gridare tutto il suo schifo anche se non ha dato uno schiaffo la prima volta al superiore che ha finto di sfiorarla casualmente in ascensore e che ogni giorno diventa più insistente e poi ancora di più. Abbiamo perso l’occasione di dirle che può fermarlo alla seconda, quinta, decima o ventesima volta anche se non è riuscita a farlo prima. Del resto non avremmo potuto dirle nulla di questo, perché la verità è che se lo facesse sarebbe per ancora tante, troppe persone, una puttana, cui è piaciuto e ora si è stancata.

Cara Natalia Aspesi, due cose su Asia Argento e il caso Weinstein. Per tutti quelli che si chiedono che senso abbia parlare dopo vent'anni, o fin dove arrivi il confine della vittima, scrive Irene Graziosi il 12 ottobre 2017. Non è semplice parlare di ciò che sta succedendo dopo l'esplosione del caso Harvey Weinstein. Per evitare di fare confusione e mischiare i vari piani di lettura che sono stati sollevati dai media italiani in questi ultimi giorni, procederò per punti.

La vittima imperfetta. C'è questo film del 1988 che si chiama Sotto accusa. Jodie Foster è Sadie, una ragazza sexy, di una bellezza provinciale e un po' marcia, che va in giro con una macchina rossa targata "Sexy Sadie", beve, fuma e ha un ragazzo che è un semi avanzo di galera. Sadie viene stuprata in un bar sotto gli occhi degli avventori del locale che osservano divertiti la scena. Il ruolo interpretato da Jodie Foster nel film è quello della vittima che definire imperfetta è un eufemismo: la vittima imperfetta è la donna che nei casi di stupro o molestie sessuali viene giudicata colpevole, vittimista e isterica perché ha dei costumi discutibili secondo la società. Non voglio dire che Asia Argento sia Sadie. Ma con lei condivide alcune delle caratteristiche della vittima imperfetta. È sexy, con un'aria che i giornali italiani—ci scommetto l'alluce destro—avranno definito da "cattiva ragazza" almeno trentasette volte, e con un certo tipo di reputazione e un passato di sostanze alle spalle. In più è figlia d'arte, quindi per associazione è ricca, viziata, libertina e blasée. Non so quali storie circolino sul suo conto negli ambienti, ma so esattamente che è il genere di donna che se decide di ammettere di essere stata molestata si ritrova in mano una manciata di commenti che le ricordano che forse, magari, se l'è cercata. Eppure Asia Argento è una vittima. E le vittime possono tranquillamente somigliare più ad Asia Argento che a Valeria Bruni Tedeschi. Perché prima o poi il mondo—e mentre lo scrivo penso alle parole di Selvaggia Lucarelli e Vladimir Luxuria—dovrà fare i conti con il fatto che la vittima perfetta non esiste e che spesso non è un caso. E che rinfacciare a qualcuno di aver parlato tardi, dopo vent'anni, accodandosi alle altre vittime, non porta lontano. Come se l'aver avuto paura (anche per la propria carriera, sì) quando tutti tacevano e aver deciso di parlare quando lo stavano facendo tutti fosse qualcosa di cui vergognarsi e non la reazione più naturale del mondo. Le vittime sono vittime a prescindere dal tempo.

Perché hanno detto di sì. Ora racconto una storia. A un certo punto, vivevo già da sola e lontano dalla mia città natale, conosco un tizio. Ero in un periodo di libertinaggio per cui tutte le persone che incontravo erano potenzialmente degli amanti. Questo tipo, più grande di me e sopra di me professionalmente, mi chiede di andare a fumare da lui perché tanto sta arrivando anche una sua amica. Salgo, ci sediamo, gira una delle canne più potenti del mondo, io divento di gelatina e lui pensa che quello sia il momento giusto per approcciarmi. Dico di no, me lo scrollo di dosso, provo a rialzarmi, ricado giù, rimango immobile un secondo e intanto il mio cervello (il mio cervello!) mi suggerisce: "Forse lascia che succeda. Questa è una storia che domani puoi raccontarti in un altro modo. Alla fine in un'altra circostanza te lo saresti scopato." Non è successo nulla, sono andata via barcollando dopo aver rovesciato la bici nel corridoio perché lo ostacolasse. Io stavo per dire di sì, o meglio, stavo per raccontarmi di aver detto di sì, a uno che non mi stava ricattando per una svolta di carriera solo perché per un attimo mi sembrava meno terrorizzante e sfiancate, meno complicato, meno violento. Le donne che stanno accusando Weinstein hanno raccontato di aver detto sì (o di no, finendo comunque in situazioni spiacevoli con Weinstein) in una stanza vuota, con solo un uomo strapotente, più vecchio, più grosso, che non ha neanche bisogno di dirtelo che ti rovina la carriera, perché va da sé. Tu hai 21 anni, 22, 30, 19 e hai paura. Punto. Quindi è possibile (non dico che sia successo così, perché non c'ero) che se ti chiede un massaggio tu gli faccia un massaggio. Gli fai un massaggio e intanto ti odi, ti disprezzi e pensi che non potrai mai dirlo a nessuno perché sei complice e quindi colpevole, più di lui, perché tu stai tradendo te stessa. Quando il giorno dopo ho detto ai miei due amici cosa fosse successo, la prima mi ha detto che stavo esagerando, il secondo che avrei dovuto stare attenta perché di quel tizio non c'era da fidarsi.

Il sistema. Natalia Aspesi ha rilasciato un'intervista a Vanity Fair in cui con l'aria di chi oramai ha uno stiletto nel Valhalla e l'altro su un cuscino di seta e che di cose ne ha viste tante dichiara che alla fine questo è un gioco noto, che mettono tutti in pratica, e spesso le donne si siedono su quei divani ben consapevoli di cosa stanno scambiando. A un certo punto poi chiede: "Sa cosa diceva Sophia Loren? 'Mi sono sposata per proteggermi, per non passare attraverso esperienze molto negative'." A dir la verità mi è sembrata un'intervista molto coerente. Nel momento in cui dai per scontato che il potere è e rimarrà sempre in mano agli uomini, l'unica soluzione per non essere molestate da altri uomini è trovarsi un ulteriore uomo che ti protegga grazie al suo di potere. Ma il sistema non è dato. Non ci è stato imposto da un'autorità superiore. Il sistema è figlio della storia in cui gli uomini hanno avuto più potere delle donne e di passi avanti nel corso degli anni ne abbiamo fatti. Natalia Aspesi dovrebbe ricordarsi che il femminismo ha cambiato le cose e che lo può ancora fare. Viviamo in una società che poggia ancora sugli avanzi di un mondo arcaico in cui la forza fisica e la famiglia erano elementi fondamentali che relegavano ognuno al proprio ruolo e in cui vigeva una componente di segregazione forte tra i generi. Questo scandalo è figlio del suo tempo, è figlio di un momento in cui la società presta più attenzione a certi temi e di conseguenza ci si sente più sicuri nel denunciare certi atteggiamenti. Non penso che Monica Lewinsky avrebbe ricevuto il trattamento che le è stato riservato se lo scandalo Clinton fosse scoppiato adesso. Il fatto che le donne stiano ricoprendo via via ruoli sempre più importanti all'interno della società fa sì che le dinamiche di potere lentamente cambino. Queste voci, che per Natalia Aspesi sono "un lamento tardivo. Un coro che non tiene conto della realtà dei fatti" sono le voci di chi finalmente vive in un mondo dove lo scotto da pagare per una denuncia non è più alto di quello per il silenzio.  Ah, e definire Weinstein uno "sporcaccione," come se fosse uno scopatore un po' promiscuo, non fa che sottolineare un problema molto grave con quel femminismo in cui chi parla dice di credere ciecamente.

Ci sono donne che lo fanno consapevolmente. Questo penso sia uno dei punti più interessanti di tutta la vicenda, anche se molto al latere. È probabile che ci siano donne—come dice Aspesi—che lo fanno o lo hanno fatto consapevolmente. E questo apre tutto un dibattito su cosa sia il femminismo, chi è autorizzato a darne la definizione giusta, e subito parte un bel giudizio morale sulle donne che non si comportano secondo i precetti di un certo tipo di femminismo. Anche se alla società piacerebbe che le donne fossero angelicate e che non si umiliassero mai, che non facessero mai schifo, penso che il femminismo non possa mai prescindere dalla totale libertà fisica, ancor prima che mentale. È proprio il primo gradino, il corpo. Le donne possono abortire, possono decidere che farsene del loro utero, possono decidere di provocarsi un prolasso anale su Kink e possono, in un secondo momento, un momento che viene dopo il confine fisico del proprio corpo, addirittura decidere di non definirsi femministe. Ma la questione Harvey Weinstein riguarda queste donne? Non mi pare. La violenza e la coercizione sono date dal contesto, che in questo caso è quello di un uomo potentissimo, pressante, minaccioso e che dichiara più o meno implicitamente di non farti lavorare mai più a meno che tu non gli succhi il cazzo. Queste vicende sono complicate perché portano alla luce un sottobosco di sfumature di cui sarebbe bellissimo poter fare a meno. Che le vittime fossero sempre delle vittime perfette, che nelle situazioni abusanti le persone fossero in grado di dire no forte e chiaro per non dover incorrere in accuse di vittimismo e isteria in un secondo momento. E invece è sempre tutto ingarbugliato, spesso permeato da omertà e pettegolezzi vari e tutti gli elementi si muovono all'interno di un sistema che viene percepito effettivamente come immutabile, in cui le vittime devono farsi furbe e sottostare alle regole del gioco anche quando non vogliono. Eppure mi sembra importante ribadire che se Harvey Weinstein, Bill Cosby, Strauss Kahn e tutti gli altri uomini potenti sono stati smascherati in questi anni, mentre Ted Heath ha avuto il tempo di morire prima che scoprissero cosa aveva fatto durante la sua vita, un motivo c'è.

Weinstein, Natalia Aspesi: «Se mi chiedi un massaggio in ufficio e io te lo concedo, poi non mi posso stupire su come va a finire». Secondo la commentatrice Natalia Aspesi le accuse al magnate non aiutano il femminismo: «Non esistono leoni e agnelli», scrive Malcom Pagani su "Vanity fair" l'11 ottobre 2017. Darryl Zanuck, il produttore di Elia Kazan, di Henry King e di Eva contro Eva «le voleva tutte biondo cenere» e ogni pomeriggio, né troppo presto, né troppo tardi, «riceveva in ufficio una ragazza diversa con la promessa di un contratto». Se Hollywood è stato sempre sinonimo di Babilonia, il divano del produttore, «meglio il sofà, come in quello straordinario libro di Ford e Selwyn uscito all’inizio dei ‘90», sostiene Natalia Aspesi, 88 anni da eretica sopravvissuta con un certo piglio ai roghi del pensiero debole, ha rappresentato il lasciapassare per attrici dal talento variabile. Ava Gardner, ma anche Betty Grable, che con le sue gambe chilometriche passava dai set dal titolo profetico, Come sposare un milionario, a feste da cui usciva, ricordò poi, «alle prime luci del giorno, sentendomi come un osso intorno al quale cani rabbiosi avevano lottato tutta la notte». La storia, suggerisce Aspesi, «è vecchia come il mondo». E prima di Harvey Weinstein – e con ogni probabilità anche dopo di lui – continuerà. Dei latrati che rincorrendosi sul web, in un ribaltamento di ruoli tra presunte vittime e carnefici da prima pagina, abbaiano insulti verso le attrici che hanno denunciato le incontrollabili pulsioni del produttore statunitense, Aspesi non si cura: «Mi dispiace, ma non avendo tempo di frequentare la rete, devo fare delle scelte».

E cosa ha scelto?

«Ho scelto di non occuparmene».

Però avrà letto. Dopo un silenzio ultraventennale, accompagnato da un brusio di voci non verificate, il New York Times e il New Yorker, sul tema Weinstein, negli ultimi giorni si sono dati battaglia a colpi di inchieste.

«Ho letto. Non tutto, ma quel che bastava. E le dico la verità: mi sembra una vicenda in cui le storie finiscono per assomigliarsi tutte tra loro».

E cosa raccontano queste storie?

«Un’insincerità di fondo. Sono un lamento tardivo. Un coro che non tiene conto della realtà dei fatti».

E qual è la realtà dei fatti?

«Che i produttori, almeno da quando ho memoria di vicende simili, hanno sempre agito così. E le ragazze, sul famoso sofà, si accomodavano consapevoli. Avevano fretta di arrivare. E ancor più fretta di loro avevano le madri legittime che su quel divano, senza scrupoli di sorta, gettavano felici le eredi in cerca di un ruolo, di un qualsiasi ruolo».

C’è stata qualche eccezione?

«Poche. Sa cosa diceva Sofia Loren?».

Cosa diceva?

«Mi sono sposata per proteggermi, per non dover passare attraverso esperienze molto negative».

Cosa le dà fastidio leggendo a posteriori le ricostruzioni degli incontri di Weinstein con le attrici?

«La rappresentazione ecumenica, irrealistica, quasi angelicata di questi incontri. Il mostro da una parte, l’agnello sacrificale dall’altra. A quanto leggo, Weinstein non concedeva normali appuntamenti professionali, in ufficio, con una scrivania a dividere ambiti e intenzioni. Non parlava di sceneggiature. Chiedeva massaggi. E se tu chiedi un massaggio e io il massaggio te lo concedo, dopo è difficile stupirsi dell’evoluzione degli eventi».

Che fa, Aspesi, giustifica?

«Non giustifico niente. Il femminismo è ancora una delle missioni più importanti per le donne di tutto il mondo, forse la più importante in assoluto. È qualcosa in cui ho creduto e credo ancora ciecamente. Ma non mi pare che con queste denunce possa fare un salto decisivo. Magari sbaglio, ma ho i miei dubbi».

Che altri dubbi le vengono leggendo le cronache degli ultimi giorni?

«Che sia una vendetta fratricida, per togliere di mezzo Weinstein. Era un produttore potente come pochi e sporcaccione come moltissimi altri. Che la storia, risaputa da decenni, sia venuta fuori con questa virulenza soltanto adesso, accompagnata da decine di testimonianze, non può essere casuale».

Cos’altro non è casuale?

«Il tempo che scorre. Alle 20 devo spedire un articolo per il mio giornale. La saluto, mi stia bene».

Caso Weinstein, Cucinotta: «Ma non bisogna attendere vent’anni per denunciare», scrive Emilia Costantini il 15 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera". «Un uomo che usa il suo potere per abusare di una donna è un vigliacco, un poveraccio impotente e neanche la castrazione chimica servirebbe, tanto là sotto non ha niente da castrare. Ma le donne devono imparare a dire dei no». Maria Grazia Cucinotta, che recentemente ha creato l’associazione «Vite senza paura» insieme a magistrati, avvocati, psicologi, per assistere le donne vittime di violenza, ha conosciuto il produttore Harvey Weinstein: «Ha distribuito il film “Il postino”, ma con me si è comportato in maniera corretta. E mi meraviglio di quanto è accaduto, perché in America, dove ho vissuto a lungo, gli uomini sono terrorizzati dalle denunce e difficilmente si espongono: temono di fare complimenti o avances eccessive e addirittura ci sono quelli che evitano di prendere l’ascensore da soli con una donna!». Strano, però, che la moglie di Weinstein, Georgina Chapman, non si sia mai accorta di nulla. «Sì, strano, adesso prenderà in mano tutto lei, forse chissà...» Forse non le conveniva accorgersi delle manie erotiche del marito? «Io non giudico nessuno — ribatte l’attrice — dico solo che queste storie avvengono ovunque, in tutti gli ambienti lavorativi, e soprattutto in Italia dove non esistono leggi che tutelino seriamente il mondo femminile dai soprusi maschili. Una mia amica, per esempio, ha dovuto ripetere tante volte un esame all’università perché non cedeva alle voglie del professore: certi individui mi fanno proprio pena, il loro “cervello” basso prevale su quello alto. Ma succede persino agli uomini di essere molestati da altri uomini, occorre avere il coraggio di denunciare subito e non aspettare vent’anni, altrimenti a che serve? A meno che — aggiunge — non ti piaccia la persona che ti corteggia, e questa è un’altra questione. Insomma, in queste vicende non si sa mai dove finisce il gossip e dove inizia la storia vera». È la paura di non ottenere un posto di lavoro, oppure un ruolo in un film che induce a subire? «Io ho detto tanti no, non sono mai stata obbligata a fare cose che non volevo e non sono mai morta — è categorica Cucinotta —. Avevo solo 19 anni quando un famoso fotografo voleva spogliarmi e ritrarmi a tutti i costi nuda, mi rifiutai e lui, con tono dispregiativo, sentenziò: “Tu puoi solo servire ai tavoli”. Be’, mi spiace per lui, ma non ho mai dovuto fare la cameriera. E non è vero che potevo permettermi di rifiutare compromessi: sono partita da Messina con 600 mila lire in tasca, guadagnate facendo la commessa in un negozio di antifurti. Certo, ci vuole carattere e soprattutto non fissarsi su certi obiettivi, altrimenti sei una perdente: io diversifico, faccio regia, produzione, volontariato...». Maria Grazia ha una figlia di 16 anni, che non vuole seguire le orme della mamma: «Di fare l’attrice non se ne parla proprio. Quello che le ripeto spesso è di rispettare se stessa e io, come madre, potrei uccidere qualcuno che non rispetta mia figlia. Perché le madri hanno una funzione importante, anche nell’educazione dei maschi: quante volte capita di sentire una donna dire al proprio figlio “quella è una mignotta”. Purtroppo, a volte, le prime nemiche delle donne sono proprio le donne, cosa che difficilmente accade agli uomini, di solito molto complici e sodali tra loro». L’attrice conclude: «Per reagire ai vari Weinstein che si possono incontrare, e che per quanto lo riguarda ha ormai la carriera finita, un sano “no” non fa mai male».

Abusi sessuali, il sondaggio che "depone a sfavore" di Asia Argento: cosa pensano gli italiani, scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Il caso di Harvey Weinstein, il porco molestatore di Hollywood, ha acceso in Italia un aspro dibattito sui ricatti che le donne spesso subiscono per entrare nel mercato del lavoro, nel mondo dello spettacolo in particolare. Ad accendere la discussione, anche e soprattutto il fatto che Asia Argento abbia puntato il dito contro il produttore, ma soltanto 20 anni dopo. In molti hanno preso posizione contro l'attrice, accusata di aver taciuto per convenienza. Accuse che lei rigetta. Ma a "deporre a sfavore" di Asia, ora, fa capolino un sondaggio Ipr Marketing pubblicato su Il Giorno. Al netto del fatto che il 65% degli intervistati ritiene che questo tipo di problemi riguardi non soltanto i vip, un 44% sostiene che chi è stata vittima di abusi non avrebbe dovuto accettare di far parte del cast del film dopo aver subito la violenza. C'è poi un 38% che giustifica l'atteggiamento di compromesso con il fatto che, spiega Antonio Noto, "nel cinema è una prassi consolidata". Dunque un ultima domanda: "Per entrare nel mondo dello spettacolo le donne utilizzano il loro corpo?". Il 42% risponde di sì, il 36% no mentre il 22% afferma di non sapere.

Cunnilingus, la verità di Feltri: Asia Argento e quella "leccatina". Il direttore senza freni, scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano”. "Asia Argento? A me sembra strano che ci siano degli stupri consensuali. Non mi pare che questa ragazza si sia opposta. Fa ancora più ridere il fatto che prima la danno via, poi piagnucolano un po', e dopo 20 anni si pentono accusando il presunto stupratore. Mi sembra addirittura paradossale". Vittorio Feltri, ospite a La Zanzara su Radio 24, attacca duramente l'attrice che ha denunciato per molestie il produttore cinematografico Harvey Weinstein. "Dico presunto perché se l'hai data via consensualmente e sei maggiorenne, alla fine sei tu che gliela hai data. E non dovevi, perché non tutte la davano a questo signore. Alcune si sono rifiutate. Invece di fare la parte di un filmino, andavano a fare le commesse o le cassiere in un supermercato. Nessuno ti obbliga a diventare una grande attrice. Se tu la dai via per ottenere un vantaggio, è una forma di prostituzione". Insomma, conclude il direttore di Libero:" Alla fine si è trattato, sembra, di uncunnilingus. Cioè una leccatina. Era un cunnilingus, dunque doveva dare lei qualcosa al produttore. E poi, una leccatina fa sempre piacere". E a 21 anni non si è in una condizione di sudditanza: "A 21 anni io avevo già due figli e lavoravo. E' uno schifo anche darla, non solo chiederla. E poi entriamo nello specifico". "E' stata forse costretta a farsela leccare? L'ha legata? Allora che stupro è? Gliel'ha data per ottenere la parte, sperava di ottenere qualcosa. Poi è successo altre volte. E poi questa (Asia Argento, ndr) di fronte a una lingua si intimidisce, ma non diciamo stupidaggini. Io non ho mai visto di fare violenza con la lingua. Perché denunciare dopo 21 anni? Ha avuto una riflessione piuttosto lunga. Le è piaciuto evidentemente, sennò avrebbe smesso di frequentarlo".

Prima la danno poi frignano e fingono di pentirsi, scrive il 13 Ottobre 2017 Renato Farina su "Libero Quotidiano". Harvey Weinstein, come il 95 per cento di chi mi sta leggendo, non lo avevo mai sentito nominare. È diventato famoso tra la gente che non è del mestiere per aver usato il suo potere di produttore cinematografico per prendersi le donne più belle. Adesso Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow e tante altre sono famose ma allora erano sconosciute. Il metodo di selezione del cast femminile era spiccio. Metteva ragazze molto carine e indifese davanti al dilemma: se ti fai prendere da me, tu ti prendi il cinema. Questa storia è durata molti anni. Lascio perdere i particolari di contorno, ma non tanto, e cioè che tutti di quel mondo sapevano, ma tacevano, e che in realtà specie nel mondo dello spettacolo, ma un po' dovunque, il ricatto sessuale è il lasciapassare per le carriere femminili. Ora Weinstein dice di essere stato abbandonato da tutti. Troverà finalmente pace alle sue scalmane in piaceri solitari? Figurarsi. Finché ha denaro, e ne ha tanto, ci sarà la fila. Non è una cattiveria sulle donne, ma la constatazione di com' è fatta la natura umana. È attratta dal miele del potere e del contante. È un gioco triste, ma qui non s' inventa niente. La storia che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo è stantia e falsa, dicono gli antropologi: prima ci furono la caccia, la pesca, la raccolta dei frutti, specie delle mele. Ovvio. Ci doveva essere per forza una merce da scambiare. E siamo a Weinstein. Indifendibile, come ha detto George Clooney. Ma perché allora sarebbero difendibili le donne che hanno accettato il prezzo dello scambio? Perché lui era ricco, forte, e loro deboli e sole? Non diciamo sciocchezze. Il produttore della filibusta aveva un contratto che esse desideravano. Quale prezzo erano disposte a offrire? Al prezzo che Enzo Biagi definiva «la fortuna su cui le belle donne sono sedute»... Non si giudicano le coscienze. Forse Gwyneth Paltrow era convinta che avrebbe salvato il mondo con i suoi film da sventolona, e per questo compito immane ha accettato il sacrificio. Forse. Un critico cinematografico, Goffredo Fofi, ha scritto in un libro, e mi scuserete il linguaggio crudo, ma è una citazione molto di sinistra: «Può anche capitare, per campare, di vendere il culo. L' importante è non vendere mai l'anima». Esiste un problema in questo distinguo. Sappiamo molto bene che ciò che accade sotto la cintura - e non c' è bisogno né di riferirsi al catechismo e neppure a Freud - non riguarda solo quei territori anatomici. Dare il corpo senza cedere l'anima è difficile, in fondo appartengono alla stessa persona. In queste ore la polemica più forte investe Asia Argento. Dileggiata e insultata, perché l'attrice ha svelato solo ora di essere stata avviata alla carriera da un vero e proprio stupro, avvenuto nel 1996, quando aveva 21 anni. Fu accompagnata nella stanza di Weinstein da un tizio di cui essa ora fa nome e cognome. Una volta alla presenza del Potente si sentì soggiogata, lasciò fare. Fuori da quella camera non denunciò nulla e nessuno per due decenni. Aveva anche allora un padre, Dario, che con i suoi film ha spaventato le nostre giovinezze. Forse con un po' di coraggio, Asia poteva salvare, dal terrore inflitto da Weinstein, chissà quante aspiranti attrici che a sua differenza non sono dotate di un genitore famoso. Insomma, la discussione alla fine si spiaccica, come una mosca sul vetro, sempre lì. La proposta indecente che hanno ricevuta è in se stessa una violenza che le fa essere vittime qualunque risposta abbiano data? L'essersi lasciate possedere senza reagire è il simbolo della condizione infame di tutte le donne costrette a compromessi ignobili per dimostrare il loro talento? Ecco io vorrei cambiare mosca e anche vetro. C' è una categoria di donne dimenticate. Quelle che hanno detto di no a Weinstein & C, forse anche no-grazie, o magari dillo-a-tua-sorella-porco. Nessuna ha alzato la mano, e se la alzassero, non se le filerebbe nessuno, perché hanno un nome che dice qualcosa soltanto a chi gli vuol bene o trova delizioso il loro saluto. Le incontriamo sul tram o al supermercato dietro la cassa, e nessuno le ferma per l'autografo. Decisero di non prendere quell' ascensore. Nessun ascensore. Se un uomo potente dice a una ragazza: alzati la gonna e vinci la lotteria, c' è chi dice no, costi quello che costi. «Le donne ci salveranno», come dice un bel titolo di Aldo Cazzullo: non tutte. La speranza sta in quei nomi sconosciuti agli altri, ma non a noi, senza cui le città, gli uffici, le nostre case, sarebbero un deserto desolato. Renato Farina

Asia Argento denuncia Libero. Poteva aspettare 20 anni, scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano”. Asia Argento non perde tempo. Querela Libero per il pezzo di Renato Farina sulle donne che assecondano i desideri del boss per la carriera, in particolare il recente caso clamoroso di Harvey Weinstein. Visto che ci ha messo 20 anni a denunciare le malefatte di Weinstein, Asia ci poteva mettere gli stessi 20 anni per denunciare Libero, invece è stata più rapida. "Rendo noto di aver querelato @Libero_official per aver offeso la mia dignità di donna e leso la mia reputazione con il loro pessimo articolo", ha scritto l'attrice, che 20 anni fa fu molestata dal produttore porcello, ex capo della casa di produzione Miramax. Anche il fidanzato, lo chef Anthony Bourdain, attacca il quotidiano (e tutta la stampa) definendoci "cani e porci". E invita Farina a leggergli di persona l'articolo. 

Simona Ventura, la bomba: "Una cosina che so su Asia Argento, Harvey Weinstein e sua moglie", scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Adesso che è il caso del momento, è diventata una moda dire di conoscere Harvey Weinstein o le sue malefatte sessuali a Hollywood. Chi più e chi meno, si scopre che tutti sapevano. Ma parlano solo adesso. Per esempio Simona Ventura, che per la verità non è mai stata un'attrice a Los Angeles. Scrive la conduttrice sui social: "Quello che sta succedendo ad Asia Argento mi ha fatto pensare.  Conosco Harvey Weinstein da molto... A metà anni 2000 lo incontravo spesso nel mio girovagare a livello internazionale. Erano gli anni delle INARRIVABILI feste di Dolce e Gabbana a Cannes e Venezia... dei 45 anni di carriera dell’imperatore Valentino (e Roma che così bella non ho mai più visto) della Formula 1 di Flavio Briatore (che scherzosamente chiamavano "il meccanico"), degli Halloween parties di NYC, delle feste e il karaoke nel privée Cipriani (pieno di gente di tutto il mondo)".  La Ventura dopo la premessa va al nocciolo della questione: "E quello che faceva Weinstein era risaputo da tutti". Il metodo Weinstein: "Se accettavi i suoi 'corteggiamenti lavoravi in grandi film hollywoodiani, Oscar e grandi cachet, sennò no. Era duro e rischioso, lo sapevano tutti ma capire qual è il confine tra volontà e costrizione è molto difficile". Ma adesso lui non conta più nulla. "Ora che il vento è cambiato, tutte (chi in ritardo chi no) si scatenano contro di lui. Meglio tardi che mai!". E poi un velenoso aneddoto sulla moglie: "La moglie Georgina ora divorzia, ma per molti anni le più grandi attrici indossavano i suoi abiti per fare i film con lui. E lei zitta. Faceva comodo passare dove l’acqua è più bassa". La Ventura poi si rivolge ad Asia Argento: "Asia per me non sei colpevole, meglio tardi che mai, hai fatto bene a denunciare. Non puoi però pretendere che molte di noi provino compassione. Oggi c’è più maschilismo nelle donne che negli uomini stessi. E fa male".

"Morgan mi confessò: Asia era lusingata dalla corte di Weinstein". L'ex marito dell'attrice: "Lui per lei prendeva l'aereo privato fino a Roma e le portava i fiori", scrive Paolo Giordano, Sabato 14/10/2017, su "Il Giornale". «Morgan mi ha detto che Asia Argento ha avuto a lungo rapporti con Weinstein e non gli sembra si sia mai lamentata. Anzi, oggi lui fatica a credere che Asia l'abbia denunciato ora. E che non l'abbia fatto a suo tempo». Vittorio Sgarbi ha chiacchierato a lungo con l'artista che è stato per molto tempo compagno di Asia Argento e con la quale ha avuto la figlia Anna Lou (ora ha 15 anni). Nei giorni scorsi l'attrice ha rivelato di aver subito rapporti molto ravvicinati con Harvey Weinstein, che avrebbe «fatto» con lui sesso orale quando aveva 21 anni. Ieri il Giornale ha riportato le confidenze che la figlia di Dario Argento ha fatto via fax alla nostra cronista Daniela Fedi proprio in merito alla frequentazione con il più potente produttore di Hollywood. Ora, mentre l'attrice si lamenta di essere stata maltrattata dopo le sue rivelazioni, il suo ex compagno Morgan, parlando con l'amico Vittorio Sgarbi, ricorda come lei «fosse contentissima quando Weinstein prendeva l'aereo privato e arrivava a Roma per incontrarla. Dopo l'atterraggio, prendeva un elicottero e la raggiungeva. Spesso portava anche dei fiori, come un vero innamorato in pieno corteggiamento. E talvolta lei non si faceva trovare, mortificandone le dimostrazioni amorose». Vittorio Sgarbi ha incontrato Harvey Weinstein alcune volte specialmente alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle vesti sia di sottosegretario ai Beni culturali sia di Soprintendente alle Belle Arti, «e ci ho anche litigato perché mi sono trovato di fronte una persona molto arrogante che non ho nessuna voglia di difendere. Mi è sempre sembrato un maiale», ricorda. Ma, mentre riporta le parole di Morgan, Sgarbi sembra convinto della realtà delle accuse. E si spinge a ricordare il caso di Artemisia Gentileschi che accusò (e fece processare) per stupro il pittore Agostino Tassi «non per la violenza in sé, ma perché lui dopo un mese non l'aveva ancora sposata». In ogni caso, per tornare ai nostri tempi, si tratta di una questione delicatissima e, ovviamente, sottoposta a tutti i condizionali del caso. Di certo, il rapporto lavorativo di Asia Argento non si è interrotto dopo la presunta violenza, ma è proseguito per anni senza alcuna apparente variazione. «Morgan mi ha ricordato che Asia gli ha sempre riferito cose positive sia per la personalità sia per le qualità professionali di Weinstein sia per le sue manifestazioni amorose, che lei mostrava di apprezzare e di aver ricevuto molto di più di quanto avesse chiesto, lavorando con piena soddisfazione e gratitudine per lui. Non avendo mai pensato che lei avesse intenzione di denunciare Morgan si chiede perché lo abbia fatto oggi, forse non avendo più avuto quello che prima le era stato utile. E che quindi anche in questo caso abbia fatto quello che le era più conveniente, essendo così abile da far tornare a suo favore quello che al tempo non la preoccupava minimamente, di cui non mi ero affatto accorto e non si era mai lamentata con me». A questo punto, se le parole di Morgan riportate da Vittorio Sgarbi saranno confermate, lo scenario cambia completamente e le iniziali dichiarazioni di Asia Argento riceverebbero un riflesso diverso e inedito anche all'interno di questa delicatissima questione ormai allargatasi da Hollywood al resto del mondo. Anzi, secondo quanto riporta Morgan attraverso Sgarbi, «Asia Argento qualche volta addirittura si rifiutava di incontrarlo e lo mandava via come un cane bastonato». In sostanza, le solite schermaglie tra due persone che flirtano. Schermaglie che, se confermate, si inserirebbero con un'altra luce in una questione della quale tutto il mondo, con paura o curiosità, sta parlando da giorni.

Vittorio Feltri risponde ad Asia Argento: "Fa il dito a noi ma disse sì al vecchio porco di Hollywood", scrive il 14 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Libero è stato attaccato da varie parti per aver commentato la vicenda di Asia Argento, la quale ha dichiarato di essere stata violentata dal produttore cinematografico americano Weinstein. Il nostro valente Renato Farina, in sintesi, ha scritto che cedere alle avances del boss per fare carriera è prostituzione e non stupro. Difficile sul piano tecnico e giuridico dargli torto. All’epoca dei fatti la figlia di Dario aveva 21 anni, età in cui poteva votare essendo maggiorenne. Il che significa che era responsabile delle sue azioni. Al cento per cento. Se Asia ha accettato le profferte del signore in questione, si vede che aveva la sua bella convenienza. Quale? Recitare in un film o in vari film. Altrimenti lo avrebbe mandato, probabilmente, al diavolo. Non è una bella cosa farsela dare da una ragazza promettendole mari e monti, ma non è una bella cosa neppure donarsi per ottenere un vantaggio. Pertanto siamo di fronte a due persone con una moralità poco solida. Madame Argento, forse per pudore, non ha mai rivelato la sua triste esperienza. Ha aspettato un ventennio a raccontarla urbi e orbi, quando il potente produttore si è trovato al centro di uno scandalo. Un pentimento tardivo e quindi non genuino. Trattasi di vendetta? Questo sarà difficile accertarlo. Ma prima di condannare Weinstein, è meglio aspettare venga processato e siano chiarite le sue eventuali colpe. La presunzione di innocenza vale per chiunque. Comunque l’attrice ha reagito alle nostre osservazioni logiche e a quelle di altri postando una propria fotografia sui social in cui ella è ritratta col dito medio irrigidito e rivolto verso l’alto, il cui senso è il medesimo di un sonoro vaffanculo. Una volgarità degna di una che la dà via per strappare un favore. Sarebbe stato più opportuno che Asia, per giustificarsi, avesse detto: «Cari amici, ho acconsentito a giacere con l’orco per motivi alimentari e allo scopo di soddisfare le mie ambizioni, e ciò mi ha devastata psicologicamente. Voi evitate di cedere a certi ricatti più o meno celati che segnano per la vita». La sincerità paga sempre. Lei avrebbe lanciato un messaggio utile, invece ha puntato il dito accusatorio venti anni dopo aver subìto il presunto torto. Il che è stato ed è diseducativo e offende quelle donne a cui non è data alcuna facoltà di scelta e sono abusate, prese con la forza, poi gettate in strada quali stracci. In effetti la signora Argento non si è ribellata, ha deciso di sottostare alle pretese del produttore perché redditizio. Ha agito bene o male? Nessuno la giudica. Ma ci risparmi il fervorino della vittima, della pecorella smarrita, di Cappuccetto rosso minacciata dal lupo cattivo. Fa ridere che una giovanotta di 21 anni non sia stata in grado di respingere le bramosie di un vecchio porco. Pensiamo piuttosto alle povere donne brutalizzate da energumeni con la bava alla bocca e totalmente disarmate dinanzi ai muscoli e alla prepotenza di veri delinquenti. Quel dito medio sessista (lo segnaliamo alla presidente Boldrini), cara Argento, se lo tenga per lei, le può servire per schivare altri incidenti. Vittorio Feltri

Renato Farina ad Asia Argento: "Ti spiego la differenza tra stupratore e sporcaccione", scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Ci tocca dire una cosa antipatica. Un conto è la morale, un’altra il codice penale. Senza questa distinzione essenziale vivremmo nella tirannide dei presunti puri, in realtà dei Robespierre sanguinari, in balia di plotoni di esecuzione al servizio della morale corrente, assai volubile e manipolabile. Detto nel contesto di Harvey Weinstein Asia Argento e dintorni. Esiste il reato di stupro. Quello di maialaggine non c’è. Peraltro, non esiste neppure il reato di odio. Non c’è neanche quello di essere uomini o donne di merda, sarebbe una forma di razzismo scatologico. Per rimanere al caso nostro. So che togliere il marchio di criminalità alla smodata lussuria, propria di omoni ricchi e gaudenti, mi farà passare per un complice che banalizza la schifezza, o come minimo per un lassista, un epiteto che evocando il lassativo non appare un complimento. Alle proposte indecenti c’è lo spazio della libertà: del sì e del no. Talvolta questo esercizio di coraggio è difficile per anime cresciute nella bambagia, ma non ci posso fare niente. Per queste mie tesi, Asia Argento annuncia querela, ritenendo la mia opinione un crimine. Perfetto. Ma io insisto lo stesso. La maialaggine non è reato. È odiosa e merita riprovazione. Non è un crimine però. Quando il porco morde e divora la vittima, è un’altra storia: è stupro, molestia sessuale, sequestro di persona. È abominevole delitto. Per provarlo cerco soccorso e rifugio in Mozart-Da Ponte, e nella loro opera lirica più famosa, il «Don Giovanni». Consiglio a tutti i progressisti, che si specchiano in quelle vicende teatrali perché si sentono belli e seduttivi come l’eroe delle braghette, di smetterla con la doppiezza. Ormai infatti gli intellettuali, donne comprese, hanno sdoganato le prodezze di Rocco Siffredi e la filosofia del «culo alto ci fo un salto» che da «Amici miei» in poi è rivendicata come morale nazionale, però poi non inorridiscono per Weinstein, e non colgono che l’esasperazione del concetto tracima spesso nell’umiliazione violenta dell’altro/a. Come in Don Giovanni. Per il fuoriclasse di Siviglia, campione dei libertini d’ogni età ed epoca, la seduzione insaziabile è lo scopo della vita, e dunque supremamente morale, distrae dalla noia, attinge bellezza e piacere. È un crimine? No. Finché applica il suo motto «purché porti la gonnella voi sapete quel che fa» e usa il suo potere per portare Zerlina nel «casinetto» promettendole di sottrarla al suo destino di sposa contadina, insiste, e lei dice sì, non è un reato. Anche se la inganna, non commette reati. Scema lei che ci è cascata. Don Giovanni un minuto dopo offre «cioccolato, caffè, vini e prosciutti» per adescarne altre, trionfa. Dissipa la sua vita e sciupa quella delle molte donne che ha posseduto. Certo esse hanno ceduto all’autorità del cappello piumato, ma a Mozart è più simpatico lui. Alla fine però trova Donna Anna. Lei gli resiste. Come possibile? Allora cerca di violentarla, e ammazza il padre accorso per difenderla. Crimini spaventosi, questi sì. Non si pente e sprofonda all’inferno. In quel momento. E solo allora, anche il servo Leporello, che avrebbe voluto essere come lui e ha coperto i suoi delitti, lo scarica, e va all’osteria a cercare un padron migliore. Forse non c’è bisogno, ma ritraduco: Weinstein è un porco. Un Don Giovanni senza Mozart, dunque un suino dall’anima setolosa. È ufficiale. Questo nessuno lo può negare, lo confessa anche lui che si è rifugiato in una clinica per de-maializzarsi. (Mi domando quale sia il trattamento: pozioni di bromuro? Oppure, come insegnavano ai chierichetti e praticavano in proprio certi vecchi preti, lunghe corse in bicicletta?). È un delinquente? Aspettiamo il tribunale che verifichi o meno le violenze, anche se dopo tanti anni è difficile arrivare a un giudizio. Di certo è opportuno chiarirci le idee. Nella nostra società occidentale si tutelano, anzi si dovrebbero tutelare insieme la libertà individuale e “la buona vita” del popolo, esiste, deve esistere, questa distinzione tra morale e leggi. Ovvio, le leggi hanno anch’esso un contenuto etico e pedagogico, lo sosteneva già Aristotele. La legge non stabilisce ciò che è buono e giusto. Vieta l’uso della violenza in tutte le sue forme e sfumature. Il resto appartiene alla sfera individuale o a quella delle relazioni interpersonali che attengono al gioco della libertà. In questo campo esistono sanzioni che non tocca sentenziare ai tribunali ma coincidono con la stima disistima del proprio ambiente sociale e dell’opinione pubblica. E possono decretare la morte sociale, che è persino peggio di un po’ di galera. Molto spesso questo tipi di gogna è basato sul pregiudizio. Un esempio? Il regista Roman Polanski passa per un fenomeno del cinema. Ha violentato una ragazzina in America? Licenza poetica. Tutto il mondo del cinema e dell’intellettualità ha impedito la sua estradizione dalla Svizzera. E questo non è un porco, ma uno stupratore di minorenni. In questi giorni è venuto fuori che Luchino Visconti promuoveva o bocciava attori sulla base fossero di suo gusto, nel senso che state pensando. Prostituzione lampante! Ma transeat. Sarà stato un porco, ma è una gloria italica. Al contrario, Dario Argento, il padre di Asia, sostiene che lui non ha mai accettato lo scambio, ma ci sono attrici che gli si sono offerte in cambio di una parte. Mi domando: perché non le ha denunciate? Ovvio: non hanno usato violenza. Erano delle maiale, o - secondo un sinonimo applicato sovente in modo esagerato – erano troie. E non è un reato. Né la maialaggine né la troiaggine lo sono. Renato Farina

#90secondi, Pietro Senaldi: "La verità su Asia Argento è che la conosciamo perché limonava con un cane...", scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". La verità è che Asia Argento la conosciamo "perché è stata la moglie di Morgan, perché "figlia di un grande regista italiano", per l'immagine in cui "limonava con un cane" e ora per il fatto di "essersi venduta a un produttore". Il direttore Pietro Senaldi, a #90secondi, chiede: "Qualcuno ha in mente un film di Asia Argento? Una sua performance artistica? Nessuno". 

Famiglia cristiana si butta sul femminismo corretto, scrive il 7 marzo 2017 "La Nuova Bussola Quotidiana". Femminicidio, violenza sulle donne e omofobia. La chiave di lettura sulla festività dell’8 marzo offerta dai due settimanali delle Edizioni San Paolo, Famiglia Cristiana e Credere, si appiattisce sulla narrazione comune della stampa laica che vede nell'uomo italiano il maschio violento e da assassino. Le storie di copertina sono infatti dedicate alle testimonianze di due attrici siciliane Maria Grazia Cucinotta e Annamaria Spina. Entrambe raccontano attraverso le loro esperienze personali l’impegno contro le discriminazioni di genere. “Dio mi ha salvata da un uomo violento” racconta la Spina a Credere, l'attrice che denuncia i femminicidi portando in un tour per l’Italia il monologo dal titolo Sei mia. Una frase pronunciata dagli innamorati di tutto il mondo ma che ormai è stata messa all'indice dalle attiviste del femminismo militante, come emblema della prevaricazione del maschio medio.  “Donne a testa alta” è invece il motto che introduce l'intervista alla Cucinotta su Famiglia Cristiana. La famosa attrice messinese parla della necessità di educare i bambini fin da piccoli e dei suoi progetti professionali tesi alla lotta contro le discriminazioni tra cui la produzione di un film contro l'omofobia, Viola di mare, una storia ambientata a fine ‘800. Ovviamente nessuno vuole negare il drammatico fenomeno delle violenze domestiche perpetrate da fidanzati e mariti. Tuttavia da due settimanali cattolici ci si aspetterebbe un altro taglio, anche nell'affrontare una tematica come questa. Nella visione della Chiesa uomo e donna devono emergere insieme, non a scapito l’uno dell’altro, in un percorso di reciprocità. Perché allora non raccontare le storie di cambiamento? Perché non illustrare anche quali sono gli strumenti per curare un uomo violento?  Prendendo spunto dai comunicatori vicini a papa Francesco, viene quindi da chiedersi per quale ragione un giornale cattolico deve ridursi alle ‘bad news’ piuttosto che portare avanti esempi positivi di coppie che hanno superato insieme divisioni che sembravano insanabili? I settimanali delle Edizioni Paoline concorrono a creare quel clima da epidemia di femminicidi che non trova riscontro nelle statistiche. Fatto sta che proprio sullo stesso numero dell'ammiraglia delle Paoline, un articolo di Mariapia Bonanate conferma che ogni anno sono circa 100 le donne uccise da uomini nel nostro Paese, un dato che secondo l'Istat resta praticamente costante dal 2002 e che registra perfino una leggera diminuzione negli ultimi tre anni. Numeri in linea con quelli evidenziati dall'Agenzia Europea per i diritti fondamentali (FRA), secondo la quale l'Italia è al diciottesimo posto sui 27 paesi Ue nella classifica degli abusi di genere. Paradossalmente, i paesi scandinavi Danimarca, Finlandia e Svezia sono quelli dove si registra il tasso più elevato di violenze, le stesse nazioni che da più tempo applicano programmi educativi volti alla promozione dell’uguaglianza di genere e all’emancipazione delle donne. Ma pur volendo dedicare la copertina dell’8 marzo a questo dramma, anche se di dimensioni ridotte rispetto a quelle tratteggiate dalla martellante propaganda mediatica, le due testate avrebbero potuto affrontare anche altre tematiche di cruciale importanza che incidono sugli stili di vita e diritti fondamentali delle donne di quest'epoca. Da una rivista cattolica è lecito aspettarsi che venga dedicata almeno una riga al crollo delle nascite, al mancato sostegno alla maternità e alla mancanza di politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia.  Tutto questo la dice lunga sulle capacità di percepire i problemi più diffusi di un universo femminile che si trova a fare i conti con cambiamenti antropologici epocali. Famiglia Cristiana e Credere non offrono quindi spunti di riflessione tanto diversi da qualsiasi altra rivista patinata rivolta ad un pubblico femminile ormai immerso nel pensiero unico dominante. Rimangono senza rappresentanza le voci di migliaia di ragazze che sognano di realizzare le loro aspirazioni di mogli, madri e lavoratrici in un'Italia in cui la questione della maternità e della filiazione è considerata un reflusso reazionario, anche in quei contesti culturali che dovrebbero contaminare il dibattito pubblico con un punto di vista più ricco, integrale, non conflittuale. Non sorprende quindi che, sempre sul numero attualmente in edicola di Famiglia Cristiana, Andrea Riccardi riesca a parlare di Cina solo in termini di interscambio commerciale tra Roma e Pechino. In occasione della festa della donna, avrebbe potuto spendere un pensiero sul fatto che nascere femmina in Cina rappresenta molte volte una sentenza di morte, a causa della politica del figlio unico, solo recentemente abolita, e dei conseguenti aborti selettivi dei feti di sesso femminile. Un olocausto documentato dalle statistiche che certificano il più grande squilibrio del genere del mondo, con circa 40 milioni di donne che mancano all'appello per via di una folle politica eugenetica. Un disequilibrio che sta segnando anche l'India, dove l'aborto delle bambine femmine è un fatto economico e legato a questioni culturali. Insomma la scelta editoriale di questa settimana sembra essere dettata da quella mondanità tanto avversata da Papa Francesco. Massimo esempio dell'impegno femminile è infatti un’attrice come la Cucinotta che, solo nel 2013, sfilò come madrina del Gay Pride di Palermo. In più di un’occasione l'attrice siciliana ha esplicito anche il suo favore alle adozioni per le coppie omosessuali e ha detto che l'aspirazione a diventare genitori “non ha limiti”. «Sono stata 10 anni in America dove i miei migliori amici gay erano papà e mamme fantastiche - ha detto l'attrice siciliana -. L'amore non dipende da con chi vai a letto, va al di là. Un figlio lo ami se sei gay o non sei gay, e questo non condiziona nulla. L'importante è che il bambino sia amato». Alla luce di quelle che il Santo Padre ha definito colonizzazioni ideologiche e della drammatica attualità che vede avanzare la barbara pratica dell'utero in affitto (sul quale non è stata fatta nemmeno una domanda), usare come testimonial del sentire femminile chi si pone con pervicacia e orgoglio su queste posizioni appare come l'ennesima resa al politicamente corretto. Eppure non era molto difficile dare voce alle tante donne italiane che ogni giorno fanno i salti mortali per conciliare impegni in ambito professionale, sociale, confessionale e familiare. Donne che si spendono gratuitamente nella semplicità e nell'armonia della verità, lontane dalle luci della ribalta che strumentalizzano drammatici casi di cronaca per sostenere la necessità di distruggere quelli che vengono presentati come arcaici modelli patriarcali. Ma è chiaro che ormai di “Famiglia Cristiana” c'è rimasto solo il nome della testata.

La prima molestia nel 1984: chi sono le 30 donne che accusano Harvey Weinstein. Asia Argento: "Costretta a subire sesso orale". Ci sono anche Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Cara Delevigne, scrive il 13/10/2017 "L'Huffingtonpost.it". Accuse infinite per Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood che avrebbe molestato e abusato sessualmente decine di donne del mondo dello spettacolo per oltre 30 anni. La prima vittima, in ordine cronologico, sarebbe Tomi-Ann Roberts, ora insegnante di psicologia. Nel 1984 aveva 20 anni e sognava di fare l'attrice: Weinstein rimase solo con lei nonostante le avesse detto che ci sarebbero state altre tre ragazze. Tra i nomi più grossi che hanno accusato il produttore ci sono quelli di Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Cara Delevigne. HuffPost Us ha raccolto in un video tutte le presunte molestie, anno dopo anno. Il numero delle donne ha già superato quota 30. Tra decine di denunce di molestie, ci sono anche almeno tre accuse di stupro. Una è arrivata dall'attrice italiana Asia Argento, che al New Yorker ha raccontato di aver subito sesso orale da Weinstein nel 1997 durante una festa in Francia. Argento ha aggiunto che, dopo quel fatto, ha avuto rapporti consenzienti (ma sempre "onanistici") con il produttore per i 5 anni successivi. "Non ho parlato prima perché avevo paura e temevo che mi rovinasse la carriera", ha spiegato. A tutti quelli che sui social network ora la stanno accusando per questa frase, l'attrice ha risposto con un dito medio "agli italiani" su Instagram.

Caso Weinstein, Ambra Battilana Gutierrez: «Tutta la verità su Harvey». La modella italiana è stata l'unica a denunciare il produttore americano per molestie sessuali. E su LetteraDonna racconta tutta la vicenda, scrive Giacomo Iacomino il 20 ottobre 2017.  Sono almeno 40 le donne che hanno già dichiarato di aver subito molestie sessuali da Harvey Weinstein. Probabilmente il numero è destinato a crescere, così come sono destinate a crescere le testimonianze di chi ha ammesso di aver sempre saputo, preferendo però di rimanere in silenzio. Probabilmente è anche questo uno dei motivi per cui nessuno ha mai denunciato l’uomo più potente di Hollywood alla polizia. Nessuno, tranne una persona. Tranne lei. Ambra Battilana Gutierrez.

LA TESTIMONE DI PRIAPO. Modella, nata a Torino, 24 anni, occhi a mandorla per le sue origini filippine. Vive a New York, a Midtown Manhattan. Finalista di Miss Italia, testimone del processo Ruby, è stata una delle prime a raccontare agli inquirenti cosa avveniva durante le sere di Arcore con Emilio Fede e Nicole Minetti. Le ragazze, i loro spogliarelli, le barzellette sconce di Silvio Berlusconi, la statua di Priapo dio della fertilità, che l’ex premier, al termine dell’unica cena a cui Ambra aveva partecipato, mostrava alle presenti ordinando loro di baciarla e di venerarla. Per qualcuno, Ambra Battilana è una delle pentite del Bunga Bunga. Ma la sua versione dei fatti è decisamente diversa. E infatti assieme alla sua amica Chiara Danese, anche lei presente quella notte, si è costituita ed è stata riconosciuta dal Gup di Milano parte civile nel processo penale che vede tra gli imputati lo stesso Silvio Berlusconi. Nella migliore delle ipotesi, ci ha spiegato l’avvocato delle due ragazze, Mauro Rufini, il dibattimento non comincerà prima del 2018.

«ASSOMIGLI A MILA KUNIS». Prima di Asia Argento, che su Twitter l’ha definita «A brave young warrior», una giovane e coraggiosa guerriera, prima di Angelina Jolie, Ashley Judd, Rose McGowan, fra le attrici più belle e popolari di Hollwyood, e prima delle loro denunce raccolte dal New York Times nell’inchiesta che, di fatto, ha messo al tappeto Weinstein, lasciato dalla moglie e licenziato dalla compagnia che lui stesso ha fondato con il fratello in quello che è uno dei più grandi scandali nel cinema americano, prima di tutti e di tutte, dunque, c’è stata lei, Ambra Battilana. Che dalla polizia, al contrario di tutte le altre, c’era andata subito. Un incontro casuale durante uno spettacolo in un teatro nella Grande Mela. Lei è una delle invitate assieme ad altre 15 modelle. Lui la nota. «Assomigli a Mila Kunis» bellissima attrice americana candidata al Golden Globe per Il Cigno Nero. E la invita il giorno dopo nei suoi uffici per un casting. Era il 2015. Lui le mette la mano sul seno e le chiede: «È rifatto?». Poi sotto la gonna: «Non voglio, non mi va». La sera stessa, la ragazza si reca al New York Police Department.

IL REGISTRATORE NASCOSTO. «Mi ha molestata sessualmente. Harvey Weinstein, sì, è stato lui». Durante la sua testimonianza, riceve una chiamata proprio dal produttore. La vuole rivedere. Alla polizia servono prove. Le viene proposto allora di accettare l’invito e di andare all’appuntamento indossando un microfono nascosto. Il giorno dopo si incontrano nella hall di un albergo nel quartiere newyorkese di Tribeca. Lui le chiede di salire nella sua stanza. Prendono l’ascensore insieme ma lei si blocca nel corridoio. Il dialogo che si tiene in quel momento viene catturato dal microfono della polizia, ma anche dal cellulare di Ambra: in questi giorni è stato pubblicato in rete ed è diventato virale. «Perché mi hai toccato il seno ieri?» dice lei. «Perché faccio sempre così. Dai non lo faccio più, vieni in camera con me, facciamo una doccia». Lei prende le distanze: «No, per favore, preferisco di no». Lui diventa aggressivo: «Sono un uomo potente, mi stai mettendo in imbarazzo». L’intervento di un agente in ascolto, rimasto nelle vicinanze, fingendosi un reporter della testata TMZ, interrompe la conversazione, lui si chiude in camera, lei va via dall’hotel. Ambra porta la registrazione alla procura distrettuale. Che convoca Harvey Weinstein per interrogarlo. Lui si affida a uno squadrone di avvocati, che indaga nel passato di Ambra Battilana trovando tracce di una sua vecchia denuncia contro un 70enne che l’avrebbe costretta a rapporti sessuali con lui a pagamento quando era minorenne, denuncia poi decaduta. Il procuratore, Cyrus Vance Jr, decide che non ci sono prove consistenti per un’accusa di molestie sessuali.

PAGAMENTI SOSPETTI. Secondo un’indagine dell’International Business Tribune, dopo l’archiviazione del caso, l’ufficio legale di Harvey Weinstein avrebbe consegnato al procuratore un assegno di 100mila dollari. Il motivo di questo pagamento non è mai stato accertato. Ma Vance non sarebbe il solo ad aver ricevuto denaro dal produttore. GIà perché secondo il New York Times, stando alla testimonianza di due persone informati dei fatti, anche Ambra avrebbe ricevuto una grossa somma in cambio del suo silenzio. La denuncia della modella però, come detto, non aveva avuto più alcun seguito. E agli occhi della stampa americana, la ragazza era diventata una semplice bugiarda, che aveva provato a farsi pubblicità. Anzi, secondo l’ufficio legale di Weinstein, il suo era stato un maldestro tentativo di ricatto per recitare in un film. Per lei, trovare lavoro diventa durissima: «Nemmeno nei locali e nei ristoranti di Soho, centro nevralgico della moda newyorkese, ero gradita». Al telefono, il suo è un tono adulto, maturo. L’accento torinese si sente ancora molto nonostante Ambra Battilana viva ormai da diversi anni negli Stati Uniti. Un tono decisamente diverso da quello ascoltato nella registrazione rubata ad Harvey Weinstein, dove il suo è un soffio di voce appena accennato, sovrastato da quello più profondo, e aggressivo, del fondatore della Miramax e della Weinstein Company, 300 film candidati agli Oscar, 70 vincitori della statuetta.

DOMANDA: I fatti più recenti ti stanno dando ragione. L’ultima testimonianza è un’attrice italiana, che secondo il LA Times sarebbe stata stuprata in bagno.

RISPOSTA: La mia è una piccola grande vittoria. Finalmente non sarò più trattata come quella che racconta balle com’è successo un paio di anni fa. Io ho sempre detto la verità. L’ho sempre fatto perché è qualcosa che mi fa stare bene, per me è un valore.

D: In queste settimane se ne sono lette di ogni. Anche che Harvey Weinstein avrebbe abusato di te. Nella sua camera d’albergo, per giunta.

R: Non ha mai abusato di me. Mi ha molestato sessualmente, questo sì. E io gli chiesi di smettere. È successo nei suoi uffici di Manhattan, durante un casting. Ma io non sono mai entrata nella sua stanza di albergo.

D: Quella registrazione: la voce è davvero la tua.

R: Confermo, è la mia. Ero troppo spaventata. Se un uomo mi mette le mani addosso io faccio un passo indietro. Mio papà picchiava me e mia madre quando ero piccola. Adesso va meglio, ma il mio è come un gesto istintivo.

D: Dall’audio si sente chiaramente che Weinstein conferma di averti toccata. 

R: Ma non è bastato. E quando hanno archiviato il caso, per me è iniziato un periodo tremendo dal punto di vista lavorativo. Ero additata come la modella bugiarda che voleva incastrare il grande tycoon di Hollywood. I giornali hanno scritto cose orribili su di me, neanche un posto come cameriera riuscivo a trovare.

D: I legali di Weinstein trovarono il modo di screditarti agli occhi della DA (District Attorney) tirando fuori una tua presunta denuncia contro un 70enne per averti costretto ad avere rapporti sessuali con lui quando eri minorenne.

R: Non ho mai avuto rapporti a pagamento, né allora, né mai. In questo senso sono rimasta delusa anche dai media italiani. Ho già deciso che prenderò gli opportuni provvedimenti contro tutti quei giornali che hanno scritto falsità sul mio conto.

D: In effetti il tuo avvocato, Mauro Rufini, del foro di Roma, che ti rappresenta nel processo Ruby Tre, ci ha confermato che non hai alcun precedente giudiziario, di nessun tipo.

R: So che ci vorrà molto tempo, continuano a rinviare l’inizio delle udienze. Ma alla fine anche in questo caso tutta la verità verrà fuori. Bisognerà solo avere un po’ di pazienza, sono sicura che tutti quelli che mi hanno giudicato male solo perché ho avuto il coraggio di parlare, riceveranno la giusta punizione.

D: A proposito di giornali, secondo il New York Times hai ricevuto soldi in cambio del tuo silenzio, in tutto sareste una decina ad aver accettato questo accordo.

R: Non mi pare di stare in silenzio in questa intervista, anzi, vi ho già dato diverse risposte. Di sicuro assieme al mio avvocato Paul Kiesel stiamo valutando il da farsi, anche in base agli ultimi sviluppi. Lui mi ha consigliato di non espormi in maniera eccessiva.

D: Resta il fatto che sei stata la prima a denunciarlo.

R: Andai immediatamente alla polizia e sono stata l’unica ad averlo fatto, questo posso confermarvelo.

D: Ci hai raccontato che sei rimasta mesi senza lavorare dopo il nulla di fatto della tua denuncia. Ti era già successo in passato.

R: Dopo essere fuggita da Arcore con la mia amica Chiara Danese, la sera in cui ci ritrovammo nostro malgrado ospiti nella villa di Silvio Berlusconi, la mia vita era diventata un inferno. I giornali parlavano di me come una delle Olgettine, scrivevano che ero una escort, i paparazzi si appostavano per farmi le foto all’uscita della scuola. Aver detto no al Bunga Bunga mi chiuse molte strade, ma ciononostante, per tutti, rimanevo una delle raccomandate dal Presidente.

D: È per questo che hai cambiato Paese?

R: Volevo fare la modella sin da piccola, mia mamma mi ricorda sempre che lo ripetevo in continuazione già quando avevo 5 anni. Capii che l’Italia non poteva più essere la mia casa. Ho anche cambiato nome. Gutierrez è il cognome di mia madre, che si trasferì in Italia dalle Filippine per fare la ballerina.

D: Prima hai detto che tu e Chiara eravate “ospiti ad Arcore senza volerlo”. In che senso?

R: Eravamo giovanissime, entrambe 18enni, e avevamo vinto un concorso di bellezza. Ci fidammo di una persona (Emilio Fede, ndr) che ci disse: vi porto a una cena con persone importanti. Ci ritrovammo ad Arcore senza neanche saperlo. «Ma sì, è solo una cena, non preoccupatevi». Fu una serata traumatica. Quando Berlusconi tirò fuori la statua di Priapo chiedemmo di essere riaccompagnate a casa. La risposta? «Se volete andare via fate pure, ma scordatevi di vincere Miss Italia o di diventare meteorine».

D: C’è un processo penale che inizierà nel 2018, e il Gup ha approvato la vostra richiesta di costituirvi parte civile. Significa che il giudice ha già riconosciuto che tu e Chiara avete subito un danno. Si tratta di un’altra vittoria?

R: Già, però non ne parla nessuno. In Italia c’è cattiva informazione, anche in questo caso, con il mio avvocato (Mauro Rufini, ndr) prenderemo ogni provvedimento per riabilitare, se necessario, la mia immagine. E farò un film per raccontare quanto accaduto, a me e a Chiara. Presto verrà messo in produzione a Los Angeles. Credo sia giunta l’ora di far sapere a tutti cosa è successo, per davvero.

Giovanna Rei, la denuncia di un’attrice napoletana: “Si presentò nudo con crema da massaggio”, scrive il 20 ottobre 2017 Fabiana Coppola su "La voce di Napoli". “Mi si presentò davanti completamente nudo con una crema da massaggio. Mi disse non voglio fare sesso, non ti preoccupare… devi solo accarezzarmi e farmi rilassare”, queste sono le parole che Harvey Weinstein avrebbe detto a Giovanna Rei. L’attrice napoletana, ospite in studio de "La Vita in Diretta", il programma di Rai Uno condotto da Francesca Fialdini e Marco Liorni, ha raccontato a tutti la sua esperienza. L’episodio di cui la Rei è stata protagonista sarebbe avvenuto nel 1998 in un noto hotel della capitale quando il produttore statunitense, finito nella bufera dopo le rivelazioni di alcune attrici su alcuni abusi sessuali, invitò l’attrice a una cena in terrazza con altre persone e le propose una parte in un film. Dopo esser rimasta sola con Weinstein però l’uomo ha cambiato atteggiamento e “ha cominciato a diventare prepotente e mi ha strattonata verso la stanza da letto”. L’attrice racconta di aver trovato la forza di reagire e di aver urlato, tirato oggetti e di averlo minacciato dicendo: “Se non mi lasci andare immediatamente, io ti denuncio”. E aggiunge: “Ero impaurita ma ringrazio Dio di averla fatta sentire la mia voce”. A quel punto Weinstein spaventato l’ha lasciata andare. “Era una trappola bella e buona… quella era una violenza, anche se per fortuna non c’è stata, ma – aggiunge – psicologicamente è stata fortissima”. Oltre Giovanna Rei anche Asia Argento ha denunciato Weinstein e proprio recentemente anche una modella e attrice italiana, di cui al momento non si conosce l’identità, ha accusato il produttore di stupro. Come riporta il Los Angeles Times, la vittima ha fornito agli agenti un resoconto dettagliato della violenza che avrebbe subito nel febbraio del 2013. Secondo le dichiarazioni della donna Weinstein, dopo un evento a Los Angeles, avrebbe fatto irruzione nella stanza, afferrata per i capelli e violentata. Dopo lo stupro, il produttore le avrebbe detto che era molto bella, e che avrebbe potuto lavorare a Hollywood. Queste accuse potrebbero avere gravi conseguenze legali dato che l’eventuale reato non sarebbe ancora caduto in prescrizione, cosa che avviene dopo dieci anni.

Elisabetta Gregoraci sul caso Weinstein: “E’ amico di Flavio, ho percepito la sua potenza”, scrive il 18 ottobre 2017 "La voce di Napoli". Harvey Weinstein è al centro dello scandalo da giorni, l’ex produttore cinematografico statunitense è stato accusato di molestie e violenze sessuali da decine di attrici. Sul caso si è espressa anche l’italiana Asia Argento che ha confessato di aver subito molestie da Weinstein in passato. Lo scandalo sessuale che ha travolto il potente produttore di Hollywood ha investito anche Elisabetta Gregoraci. La showgirl calabrese ha confessato di averlo conosciuto e ha specificato di aver avuto con lui solo un’interazione di natura amichevole. Al settimanale chi la moglie di Briatore ha raccontato di aver conosciuto Weinstein in occasione della presentazione del film Mata Hari a Los Angeles: “Quando ho conosciuto Harvey Weinstein posso dire che ho percepito la sua potenza nel mondo del cinema proprio in quell’occasione. Si capiva che è un uomo rispettato e temuto all’interno del magico mondo del cinema americano”. L’incontro tra i due sarebbe avvenuto perché l’imprenditore milanese conosce molto bene il produttore. La Gregoraci però dà un’opinione sull’uomo che va in controtendenza rispetto a quello che si sta dicendo in queste ultime ore: “Ero a Hollywood per presentare il film al ‘Los Angeles Italia – Film, Fashion and Art Fest’. Con Harvey ho scambiato poche parole. Io mi baso su quello che tutti abbiamo letto. Altro non posso aggiungere, perché non sono a conoscenza dei fatti. Certo, lui si presenta in modo gentile, diverso dai racconti di questi giorni, e poi è molto amico di mio marito Flavio Briatore e di Giuseppe Cipriani. Si conoscono da anni. Per quanto riguarda le accuse gravissime che muovono a Weinstein preferisco non parlare. Non conosco la situazione. Posso solo basarmi su quello che tutti abbiamo letto: ma se fosse vero, stiamo parlando di una brutta pagina non solo del cinema, ma della vita”.

Elisabetta Gregoraci e l’incontro con Weinstein: partono le querele, scrive il 20 ottobre 2017 "Diretta News". Elisabetta Gregoraci irrompe nella vicenda Weinstein, il produttore accusato di aver molestato e addirittura stuprato decine di attrici tra le quali la nostra Asia Argento. La compagna di Flavio Briatore è stata tirata in ballo da “Chi” che ha mostrato una foto della showgirl accanto a Weinstein e non ha affatto gradito questo accostamento. Oggi sul proprio profilo Instagram ha annunciato azioni legali nei confronti del settimanale: “Il settimanale Chi domani pubblicherà una mia foto accanto a Harvey Weinstein mettendola in copertina. Una foto scattata ad un evento pubblico del febbraio scorso, una tra le mille foto fatte quella sera con le tante celebrità presenti all’evento. Mi è stata falsamente attribuita persino la dichiarazione “Vi racconto io chi è l’orco di Hollywood” come se io mi fossi offerta di parlare di Weinstein. Foto e finto titolo mi accostano ad un personaggio in questo momento molto discusso. Mi vedo costretta ad avviare le necessarie azioni giudiziarie”. La Gregoraci poi aggiunge: “Quando ho conosciuto Harvey Weinstein posso dire che ho percepito la sua potenza nel mondo del cinema proprio in quell’occasione. Si capiva che è un uomo rispettato e temuto all’interno del magico mondo del cinema americano. Io mi baso su quello che tutti abbiamo letto. Altro non posso aggiungere, perché non sono a conoscenza dei fatti. Certo, lui si presenta in modo gentile, diverso dai racconti di questi giorni, e poi è molto amico di mio marito Flavio Briatore e di Giuseppe Cipriani. Si conoscono da anni. Per quanto riguarda le accuse gravissime che muovono a Weinstein preferisco non parlare. Non conosco la situazione. Posso solo basarmi su quello che tutti abbiamo letto: ma se fosse vero, stiamo parlando di una brutta pagina non solo del cinema, ma della vita”.

Claudia Gerini furiosa: "Sesso a tre con Weinstein? Tutto falso, è gravissimo". E querela Zoe Brock, scrive "Il Mattino" Martedì 17 Ottobre 2017. «Ha fatto bene a denunciare gli abusi ma perchè mettermi in mezzo con un episodio falso che peraltro non c'entra nulla con la molestia che avrebbe subito da Harvey Weinstein? Mi dispiace è una cosa gravissima e io devo fermarla, sono costretta a fare un'azione legale contro questa modella Zoe Brock per diffamazione» dice all'ANSA Claudia Gerini. La Brock, come riportato da alcuni media oggi, tra le vittime del produttore americano a Cannes nel 1997, ha raccontato della proposta di fare sesso a tre con Fabrizio Lombardo e la sua fidanzata di allora, Claudia Gerini appunto.

Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque sul caso Weinstein: “Ho ricevuto proposte indecenti”, scrive il 17 ottobre 2017 "La voce di Napoli". Durante l’ultima puntata di Pomeriggio Cinque si è dibattuto sul caso Harvey Weinstein, il produttore cinematografico di Hollywood che ha abusato di diverse attrici famose tra cui l’italiana Asia Argento. In trasmissione gli opinionisti hanno espresso il loro pensiero sulla vicenda e così sono venute fuori diverse dichiarazioni interessanti. Particolarmente attivi nella discussione Daniele Interrante e Vladimir Luxuria contro Anna Pettinelli. I primi due sostenevano che l’attrice avesse comunque continuato un rapporto con Weinstein accettando dunque il compromesso sessuale, la seconda invece difendeva la figlia di Dario Argento. Sul caso anche altre attrici di fama internazionale hanno denunciato come come Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie. Le stelle del cinema hanno raccontato di differenti episodi spiacevoli e sessualmente inopportuni o violenti nei quali sono state coinvolte dal produttore che nel frattempo ha negato tutte le accuse di sesso non consensuale, ma è stato licenziato dalla società di produzione che aveva fondato ed espulso dall’associazione degli Oscar.  Per tutto il tempo Barbara D’Urso si è tenuta in disparte nella discussione finché non ha espresso il proprio parere spiazzando tutti gli ospiti di Pomeriggio Cinque. La conduttrice infatti ha raccontato di essersi trovata nella medesima situazione dell’attrice, cioè di aver ricevuto delle proposte indecenti: “Mi ci sono trovata e ho detto no. Io ho avuto un uomo per 11 anni che faceva film e non ho mai voluto una parte nei suoi lavori. Non c’è bisogno di accettare violenze e compromessi, mai. E dico comunque alle donne di denunciare sempre”. La napoletana è stata sposata con Mauro Berardi da cui ha avuto due figli: Emanuele e Giammauro.

L’ex velina di Striscia la Notizia confessa: “Se non la dai te la fanno pagare”, scrive il 17 ottobre 2017 Valentina Giungati su "La Voce di Napoli". Una confessione che ha il sapore di denuncia, arriva proprio dopo lo scandalo che ha letteralmente investito Hollywood coinvolgendo oltre trenta famose attrici e star tra cui Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow, interessando trasversalmente anche l’Italia dopo l’ammissione da parte di Asia Argento di aver subito abusi e molestie da parte del produttore Harvey Weinstein. Miriana Trevisan a tal proposito è intervenuta nella questione, denunciando un sistema nostrano che sembrerebbe ricalcare le stesse pratiche: “Basta un articolo e le parole diventano fuoco e ti i svegli una mattina con il sapore amaro in bocca e la consapevolezza che quello stesso attacco l’hai subito anche tu. E non solo tu” si legge su Linkiesta. “Il problema è che, quando accade, non lo riconosci perché è invisibile mentre sei convinta di essere stata tu, l’invisibile. Forse perché scappare, imparare a essere trasparente, fare silenzio o avere un milione di dubbi e di incertezze pensi che ti possa aiutare. E se poi cerchi la perfezione fuori da te stessa ti specchi in persone talmente abituate a convivere con atteggiamenti di sottomissione e maschilismo strisciante tanto da considerarla una consuetudine: finisci tu per diventare l’inconsueta, la strana, la stupidata scema, la solita ragazza di ignorante provenienza” racconta la Trevisan. Poi entra nel vivo del racconto, ed è da pelle d’oca la sua confessione: “Poi arriva l’anziana cialtrona truccatrice delle star che mentre ti prepara ti dice “Miriana, tu non capisci, è il mondo che va così”. E il dubbio ti viene, eccome. E se ti viene reagisci scappando. E se scappi “non fai pubbliche relazioni”, ti dicono. […] Molte delle mie colleghe negli anni del mio lavoro in televisione mi hanno detto la stessa cosa: “hai potenzialità (dicevano bellezza ma intendevano la figa) e non la sfrutti, sei un pazza”, “ci sono calciatori e produttori che sbavano per te: dopo te la lavi ed è tutto come prima” […] E se poi ti fai prendere dall’entusiasmo per una promessa di un ruolo in un film, che quasi ci credi di essere tu, proprio tu, quella giusta per quel personaggio, poi “dobbiamo parlarne più intensamente nel mio albergo, ho una suite”, ti dice il regista italiano osannato nel mondo. E tu ancora provi a convincerti: che male c’è, io sono la prescelta, devo solo studiare e studiare, dare arte in forma di bellezza, che ci vuole. E invece no. È tutto un buio di parole, parole buie, che entrano solo in vicoli bui. Lo spiraglio, per alcuni di loro, l’unico spiraglio è la figa. Mi proponevano anche la soluzione: il fidanzato giusto, dicevano. Ma il chiodo per me è stato sempre troppo stretto, io scivolo come sapone di Marsiglia. Io, l’aliena, ho pensato che lui mi dovesse piacere, che dovesse profumare di pulito. E quando vai avanti così inevitabilmente ti isoli. Come un chiodo, sì, ma l’unico in una parete vuota, immensa. Una parete che qualcuno chiama arte ma io ne ho dipinta una mia, piena d’amore, che chiamo dignità”.

Anche l'attrice di 12 anni schiavo fu molestata da Weinstein. Anche Lupita Nyong'o esce allo scoperto e denuncia il produttore hollywoodiano, scrive Lucio Di Marzo, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". È una lista che continua ad allungarsi quella delle attrici che denunciano di essere stata molestate dal produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. E se a uscire allo scoperto sul New York Times è stato oggi il regista Quentin Tarantino, che ha fatto mea culpa, sostenendo di non avere fatto abbastanza, nonostante sapesse di quanto stava succedendo, ad alzare la mano ora è anche Lupita Nyong'o, vincitrice del premio Oscar nel 2013 per "12 anni schiavo". "Ora che ne stiamo parlando, facciamo in modo che non ci sia più silenzio su cose del genere", ha esortato l'attrice, confessando di avere rifiutato le avance di Weinstein in alcune occasioni e di essere stata costretta a concedergli un massaggio, per guadagnare tempo e uscire da una situazione difficile. "Facciamo sì che questo tipo di comportamento non meriti una seconda chance. Io parlo per contribuire alla fine della cospirazione del silenzio", aggiunge la Nyong'o, invitando le colleghe a uscire allo scoperto e l'ambiente a smettere di condonare atteggiamenti come quelli del produttore.

Weinstein, Tarantino si accusa: "Sapevo e non ho fatto nulla". Avance all'ex fidanzata del regista che ora fa mea culpa con il New York Times, scrive Lucio Di Marzo, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". È un me culpa quello del regista Quentin Tarantino, che intervistato dal New York Times interviene sullo scandalo che ha travolto il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein e si auto accusa, sostenendo di avere sempre saputo quello che stava succedendo. "Sapevo abbastanza per fare di più di quanto non abbia fatto", dice il regista delle Iene e di Pulp Fiction, che spiega al quotidiano newyorchese che quelle che aveva in mano "non erano informazioni di seconda mano", ma anzi "più di un normale gossip". E che proprio per questo avrebbe dovuto spendersi di più per le vittime delle molestie. A rifiutare le avance del produttore fu infatti anche Mira Sorvino, attrice italiana ora sparita dalle scene e che per un periodo fu fidanzata di Tarantino, nonché premio Oscar come attrice non protagonista per il La dea dell'amore di Woody Allen. Vincitrice come Lupita Nyong’o, magistrale in 12 anni schiavo, che ha denunciato ed esorta: "Ora che ne stiamo parlando, facciamo in modo che non ci sia più silenzio su cose del genere … facciamo sì che questo tipo di comportamento non meriti una seconda chance".

Lupita Nyong’o disse no a Weinstein. E ha vinto un Oscar, scrive "Blitz Quotidiano" il 20 ottobre 2017. Un’altra famosa attrice ha detto di essere stata molestata (a parole), cioè di aver ricevuto avance indesiderate da Harvey Weinstein. A uscire allo scoperto è Lupita Nyong’o, vincitrice del premio oscar nel 2013 per "12 anni schiavo". In un editoriale sul New York Times, l’attrice confessa di aver ricevuto avance indesiderate dal produttore in alcune occasioni ma di averlo rifiutato, nonostante un massaggio concesso a Weinstein per guadagnare tempo e districarsi da una situazione difficile. “Ora che ne stiamo parlando, facciamo in modo che non ci sia più silenzio su cose del genere”, “facciamo sì che questo tipo di comportamento non meriti una seconda chance. Io parlo per contribuire alla fine della cospirazione del silenzio”. “Dovevo trovare un modo – ha raccontato – di uscire da quella difficile situazione”, in cui il produttore insisteva per togliersi i pantaloni. La giovane attrice non ha ceduto e se n’è andata. In un’altra occasione Weinstein le avrebbe suggerito di fare ciò che lui le chiedeva, condizione necessaria – le avrebbe detto – per fare l’attrice a Hollywood. Ma lei non ha ceduto e alla fine ha avuto ragione (mica si vince un Oscar per caso).

Un'altra attrice italiana accusa Weinstein. Tarantino: "Sapevo, ma non ho fatto nulla". Il regista riferisce due episodi che gli erano stati riferiti dalle dirette interessate: una era la sua fidanzata Mira Sorvino. E Veronesi: "Asia me lo raccontò, avrei dovuto denunciare". Si allunga l'elenco delle vittime delle molestie: c'è anche l'attrice premio Oscar Lupita Nyong'o, scrive il 21 ottobre 2017 "La Repubblica". Tra le vittime di Harvey Weinstein ci sarebbe un'altra attrice italiana. Lo ha anticipato il Los Angeles Times, secondo il quale si tratta di un'attrice di 38 anni della quale non viene reso noto il nome. L'avvocato David M. Ring, che assiste l'attrice, ha confermato alla stampa di aver depositato una denuncia per stupro riferita a fatti avvenuti durante il soggiorno dell'attrice in occasione dell'Italian film festival di Los Angeles del 2013. Il legale non ha riferito l'identità della sua assistita, spiegando il riserbo con la necessità di tutelarla poiché la violenza subìta ha avuto "un impatto mostruoso sulla sua esistenza" e l'aveva "terrorizzata". Secondo la denuncia, Harvey Weinstein - che l'attrice aveva incontrato a quel festival per la prima volta - sarebbe entrato nella stanza dell'hotel dove lei alloggiava e l'avrebbe violentata. Della giovane italiana autrice delle denunce, oltre all'età, si sa solo che ha fatto anche la modella e, secondo il Los Angeles Times, ha avuto una copertina su Vogue. All'epoca della violenza viveva ancora in Italia, poi si è trasferita in California. Il fascicolo del caso molestie sessuali a carico di Harvey Weinstein si arricchisce dunque sul fronte delle denunce, ma anche su quello dei 'pentimenti'. Quentin Tarantino, il regista più legato al produttore, ha confessato di aver saputo da decenni delle accuse contro il suo 'benefattorè - Weinstein produsse i suoi successi Le Iene, Pulp Fiction, i due Kill Bill, Inglourious Bastards ed anche il più recente The Hateful Height - ed ora si vergogna di non aver fatto nulla, neanche di aver smesso di lavorare per lui. Tarantino ha dichiarato di aver cercato di contattare l'amico più volte da quando il 5 ottobre lo scandalo scoppiò dopo lo scoop del New York Times. Ma Weinstein non gli ha mai risposto. E anche il regista italiano Giovanni Veronesi racconta tramite Twitter che Asia Argento si era confidata con lui all'epoca. "A me lo disse vent'anni fa ma era piccola e aveva paura. E io non sapevo che fare. Mi sembrava una cosa troppo lontana da me. Ma avrei dovuto denunciare io". E sulla posizione da adottare oggi il regista di Manuale d'amore non ha dubbi: "Asia Argento va difesa e basta. Non c'è nessun dibattito. Nessun dubbio". Tarantino invece riferisce: "Sapevo abbastanza da fare di più di ciò che ho fatto. Non erano cose riferite. Sapevo di almeno un paio di questi episodi direttamente. Avrei voluto prendermi la responsabilità di quanto avevo saputo e se lo avessi fatto avrei dovuto smettere di lavorare con lui", ha dichiarato il regista. Tra l'altro una delle donne molestate da Weinstein fu Mira Sorvino con cui il regista era stato fidanzato al tempo delle avances sessuali del produttore: per lei la carriera fu stroncata proprio dopo il rifiuto opposto alle richieste di Weinstein.

Nel 1995 - tre anni dopo l'uscita delle Iene, prodotto da Weinstein - quando Tarantino usciva con Mira Sorvino, lei gli raccontò che il produttore l'aveva massaggiata contro la sua volontà e le diede la caccia nella sua stanza d'hotel. "Ero scioccato e sconvolto. Non potevo crederci ma pensavo che all'epoca Weinstein fosse particolarmente preso, infatuato da Mira". A differenza di altre attrici, le molestie a Mira Solvino si interruppero proprio perché l'attrice si era fidanzata con il regista. Ma, scrive il New York Times, Tarantino ammette che nel corso degli anni aveva saputo di prima mano da altre attrici di altri episodi di molestie. Successe anche ad una sua amica e lui ne chiese conto a Weinstein, che offrì alla donna "scuse deboli". Lo stesso regista sapeva che Rose McGowan aveva raggiunto un'intesa per un episodio di molestie sempre in un hotel, anche se recentemente McGowan ha poi accusato Weinstein di stupro. Intanto sul fronte dell'inchiesta penale, si aggrava la posizione dell'ormai ex re Mida di Hollywood: dopo la polizia di New York e quella di Londra, anche quella di Los Angeles ha aperto un'inchiesta sulle accuse di molestie sessuali. E si allunga la lista delle attrici che sono state molestate: a uscire allo scoperto è ora Lupita Nyong'o, vincitrice del premio oscar nel 2013 per 12 anni schiavo. In un editoriale sul New York Times, racconta di aver ricevuto avance indesiderate dal produttore in alcune occasioni ma di averlo rifiutato, nonostante un massaggio concesso a Weinstein per guadagnare tempo e districarsi da una situazione difficile. "Ora che ne stiamo parlando, facciamo in modo che non ci sia più silenzio su cose del genere", "facciamo sì che questo tipo di comportamento non meriti una seconda chance. Io parlo per contribuire alla fine della cospirazione del silenzio".

Anche l'Onu scende in campo intanto contro Harvey Weinstein. Phumzile Mlambo-Ngcuka, sottosegretario generale delle Nazioni Unite e direttrice esecutiva di UN Women, ha osservato che il movimento #MeToo, nato in seguito alle accuse di decine di donne contro il potente ex produttore di Miramax, nasce "dalle sofferenze e dalla rabbia" di oltre un milione di donne che si sono espresse sui social usando l'hashtag che significa "anch'io". "L'indifferenza casuale contro le molestie sessuali è inaccettabile", ha detto la capo dell'agenzia dell'Onu per i diritti delle donne. "Quel che adesso vediamo, mentre le donne costruiscono e rafforzano i racconti reciproci, e mentre anche uomini si uniscono a loro riconoscendo il loro ruolo, è la conferma dell'importanza di alzare la voce". L'hashtag #MeToo è nato con una attivista di New York, Tarana Burke, ma è diventato popolare quando lo ha rilanciato l'attrice Alyssa Milano.

L'accusa di un'attrice italiana: "Stuprata in hotel da Weinstein". Secondo alcune indiscrezioni gli agenti americani hanno ascoltato nelle ultime ore una modella-attrice italiana che accusa il produttore di stupro, scrive Luca Romano, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Secondo alcune indiscrezioni gli agenti americani hanno ascoltato nelle ultime ore una modella-attrice italiana che accusa il produttore di stupro. Per il momento non è stata rivelata l'identità dell'attrice ma si sa che ha 38 anni, come riporta il Los Angeles Times. L'abuso si sarebbe consumato nel 2013 mentre l'attrice si trovata all'ottava edizione del "Los Angeles, Italia Film, Fashion and Art Festival”. La donna martedì scorso avrebbe contattato la polizia per raccontare quanto accaduto. "Ha cominciato a farmi delle domande, ma presto è diventato molto aggressivo e ha iniziato a chiedermi di spogliarmi. Ha afferrato i miei capelli e mi ha costretto a fare qualcosa che non volevo. Poi mi ha trascinato nel bagno e mi ha violentato", ha affermato nel suo colloquio con gli agenti. Non ha voluto rivelare la sua identità per proteggere i suoi figli, ma di fatto ha indicato l'hotel in cui è avvenuta la violenza, il Beverly Hills Mr. C hotel. "Mi sento responsabile per aver taciuto per anni, per non aver reagito, per avergli aperto la porta della stanza e per non aver chiamato la polizia", ha aggiunto l'attrice italiana. Insomma il caso sui presunti abusi da parte del produttore di Hollywood non finisce qui e la tempesta è solo all'inizio.

Weinstein, un’attrice italiana lo denuncia, lui (forse) espatria. La polizia di Los Angeles ha aperto un’indagine sul produttore dopo l’ennesima denuncia di violenza sessuale. Anche da Lupita Nyong’o tra le vittime. Tarantino: sapevo ma ho taciuto, scrive Chiara Maffioletti il 20 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". La polizia di Los Angeles ha aperto un’indagine su Harvey Weinstein. Questo dopo che, martedì, un’attrice e modella italiana di 38 anni, che ha scelto l’anonimato pur essendo «molto nota, apparsa anche sulla copertina di Vogue», ha denunciato la violenza sessuale subita dal produttore nel 2013. Un nuovo fatto che rende più inquietante la notizia lanciata ieri da una società immobiliare, secondo cui Weinstein avrebbe affittato una villa a Lugano. Se questa ipotesi trovasse conferma, se davvero l’ex produttore più potente di Hollywood avesse lasciato il suo ex paese dei balocchi, non sarebbe così assurdo pensare che la partenza non sia tanto un tentativo di staccare, ma di salvarsi. Polanski insegna che con certe accuse non si scherza e Weinstein ormai ne ha raccolte parecchie: sono sei quelle di stupro. Sallie Hofmeister, sua portavoce, è tornata a negare ogni accusa di «sesso non consensuale», ma la deposizione che ha fatto scattare le indagini della polizia di Los Angeles dice altro. L’attrice ha raccontato agli agenti e al Los Angeles Times di essere stata violentata in un hotel di Beverly Hills, nel febbraio del 2013, al termine del Los Angeles Italia Film, Fashion and Art Fest. Un primo incontro con Weinstein c’era stato a Roma: già lì il produttore le aveva chiesto di seguirlo in camera. Aveva detto no. Ma a Los Angeles avrebbe bussato alla sua stanza «senza alcun preavviso», chiedendole di parlare. Una volta dentro, «è diventato molto aggressivo, continuava a chiedermi di spogliarmi». Per farlo desistere, l’attrice gli avrebbe mostrato le foto dei suoi tre figli e di sua madre, all’epoca in chemioterapia. Ma Weinstein l’avrebbe afferrata per i capelli e trascinata in bagno, «dove mi ha violentata. Mi sento responsabile per aver taciuto anni, per non aver reagito, avergli aperto la porta e non aver chiamato la polizia». Ma ora, proprio grazie alla sua denuncia, il produttore che già ha perso moltissimo, rischia di perdere anche la libertà. Nel frattempo, alle decine di accuse di molestie, si sono aggiunte anche quelle di Lupita Nyong’o. Il premio Oscar si era ritrovata in quello che, si è ormai capito, era il copione che Weinstein imponeva a molte. Una volta sola con lui, il produttore insisteva per togliersi i pantaloni. Per «guadagnare tempo», gli fece un massaggio: «Dovevo trovare un modo di uscire da quella situazione». Se ne era andata. Ma poi Weinstein l’aveva invitata ad assecondarlo, se voleva fare l’attrice a Hollywood. Oggi tutto il mondo sa che per lui, abusare del suo potere, era come per tutti noi lavare i piatti dopo cena: qualcosa di normale. Una disinvoltura che si è guadagnato anche grazie ai silenzi di chi sapeva. Come Quentin Tarantino. Il regista, che deve a Weinstein molti dei suoi successi, da Pulp fiction a Kill Bill, ha ammesso: «Sapevo, ma se avessi parlato non avrei mai lavorato con lui». Oltre alle «voci», il regista era a conoscenza dei racconti della sua ex Mira Sorvino, tra le prime ad accusare il produttore. «Sapevo abbastanza per fare molto di più», ha ammesso. Di più, da giorni, lo sta facendo chi condivide storie di abusi con l’hashtag #MeeToo («anche io», ndr). Un movimento spontaneo e potentissimo, che da ieri ha anche l’appoggio dell’Onu.

Weinstein, anche il fratello Bob accusato di molestie, scrive il 17 ottobre 2017 "La Repubblica". Lo scandalo si allarga. Nella polvere pure Roy Price: il capo Studios di Amazon costretto a mollare dopo essere stato sospeso. Mentre prosegue il successo della campagna "Me too", lanciata dall'attrice Alyssa Milano per denunciare molestie in situazioni di lavoro, anche Bob Weinstein, fratello di Harvey Weinstein nonché co-fondatore della omonima casa di produzione cinematografica, viene accusato di molestie sessuali. E intanto Asia Argento, al centro di una bufera sui social dopo aver rivelato di essere stata vittima di molestie, annuncia di voler lasciare l'Italia: "Non vedo cosa ci sto a fare, tornerò quando le cose miglioreranno per combattere le battaglie con tutte le altre donne". I guai dell'altro Weinstein. Anche sul fratello di Harvey Weinstein si allungano ora ombre. In un'intervista a Variety, la produttrice Amanda Segel ha sostenuto che Bob Weinstein ha cominciato a farle avances la scorsa estate e ha insistito per tre mesi finchè un legale della donna non ha minacciato l'interruzione del rapporto di lavoro. "Un 'no' dovrebbe essere sufficiente", ha detto Segel. Un legale di Bob, intanto, ha negato ogni condotta inappropriata. Si dimette capo Studios di Amazon. Ma non c'è solo Weinstein. In queste ore è finito nella polvere anche il direttore degli Amazon Studios, Roy Price. Il dirigente è stato costretto a dimettersi dopo essere stato sospeso cinque giorni fa dalla società per una denuncia, peraltro vecchia, di molestie sessuali da parte della produttrice Isa Hackett della serie The Man in the High Castle. Hacket aveva riferito che l'episodio era avvenuto nel 2015 e che lo aveva prontamente denunciato alla società di Jeff Bezos. Amazon all'epoca sostenne di aver preso seriamente la denuncia ma non fece nulla. Ma dopo il caso Weinstein, il clima negli Usa è cambiato. Il sindacato dei produttori. Intanto, il sindacato dei produttori di Hollywood (la Pga) ha iniziato le procedure di espulsione di Harvey Weinstein, dopo le numerose accuse di molestie e violenza sessuale che lo riguardano. "Qualsiasi tipo di molestia è del tutto inaccettabile. Questo è un problema sistemico e diffuso che richiede l'intervento dell'intero settore", scrive l'organizzazione in un comunicato stampa. Il sindacato ha tenuto una riunione straordinaria nella quale il Consiglio, composto da 20 donne e 18 uomini, ha votato all'unanimità l'espulsione di Weinstein. L'espulsione, tuttavia, non sarà immediata poiché, secondo il regolamento sindacale, Weinstein avrà la possibilità di difendersi prima che la Pga prenda la decisione definitiva, prevista il 6 novembre. Michelle Yeoh a colpi di arti marziali. La star malese di origine cinese Michelle Yeoh, intervistata a Hong Kong dall'Associated Press, ha definito Weinstein "un bullo" e di certo "non una persona onorevole". L'attrice protagonista di La tigre e il dragone, prodotto dalla Miramax, ha detto di essere consapevole della cattiva reputazione del produttore e che se mai avesse tentato di molestarla lei avrebbe messo in pratica "anni di allenamento alle arti marziali". Il racconto di Reese Witherspoon. Reese Witherspoon, durante il suo discorso all'evento di Elle Women a Hollywood, ha raccontato degli abusi subiti quando aveva appena 16 anni. "Questa è stata una settimana veramente dura per le donne di Hollywood - ha detto l'attrice 41enne secondo quanto riporta People - e per le donne di tutto il mondo. Le esperienze che ho avuto sono tornate vivide e ora trovo difficile dormire, pensare e comunicare i miei sentimenti". Whiterspoon ha quindi spiegato di essere stata molestata da un regista quando aveva appena 16 anni e di provare ancora rabbia per tutti quelli che gli fecero capire che il silenzio era la condizione necessaria per continuare a svolgere il lavoro di attrice. "Mi piacerebbe poter dire che quello fu un episodio isolato della mia carriera - ha aggiunto -, ma purtroppo non è così. Ho avuto diverse esperienze di molestie sessuali e non ne parlo molto volentieri". Gerini querela la modella Zoe Brock. "Ha fatto bene a denunciare gli abusi ma perchè mettermi in mezzo con un episodio falso che peraltro non c'entra nulla con la molestia che avrebbe subito da Harvey Weinstein? Mi dispiace è una cosa gravissima e io devo fermarla, sono costretta a fare un'azione legale contro questa modella Zoe Brock per diffamazione" dice all'ANSA Claudia Gerini. Zoe Brock, come riportato da alcuni media oggi, tra le vittime del produttore americano a Cannes nel 1997, ha raccontato della proposta di fare sesso a tre con Fabrizio Lombardo e la sua fidanzata di allora, Claudia Gerini appunto. Scott Rosenberg, il post di scuse su Facebook. "Voglio essere chiaro su una cosa: tutti sapevamo. Non che stuprasse (le donne) ma eravamo consapevoli di un certo schema di comportamento terribilmente aggressivo. Sapevamo del suo appetito, della sua fame, del suo fervore. Non c'era nulla di segreto su questa sua voracità. Era come un orco dei fratelli Grimm". A raccontarlo con un lungo post su Facebook è Scott Rosenberg, produttore e sceneggiatore, che parla apertamente del caso che ha travolto Harvey Weinstein, accusato da almeno 40 donne di violenza sessuale e abusi. Lo schiaffo di Jeffrey Katzenberg. Il presidente della Former Dreamworks, Jeffrey Katzenberg, ha pubblicamente ripudiato il collega Harvey Weinstein durante la conferenza stampa live al Wall Street Journal che si è tenuta ieri mattina a Laguna Beach, in California. Ha usato parole fortissime: "È un mostro". Katzenberg ha però sottolineato che Weinstein non può aver agito da solo raccontando di "un branco di lupi" e che è assolutamente urgente che Hollywood riveda le proprie politiche chiave.

Soldi, soffiate e detective privati: così Weinstein gestì «la grana» Battilana. L'intervista di Francesco Oggiano del 21 Ottobre 2017 su "Vanity Fair". Il sistema di contrattacco del produttore nei confronti della modella italiana, la prima a denunciarlo alla polizia per molestie. Che a Vanity racconta l'infanzia difficile, quella «relazione» con un imprenditore 70enne e la vita oggi a New York. Con una coinquilina particolare. Il pomeriggio del 27 marzo 2015, appena messo piede fuori dalla stazione di polizia di New York, Harvey Weinstein tirò fuori dalla tasca il suo cellulare e iniziò a comporre il primo numero: un’agenzia di detective privati. Le due chiamate successive le riservò per i due migliori avvocati della città. L’ultima, per un fuoriclasse nelle pubbliche relazioni. Poi, aspettò e ripensò a quello che era successo. Per la prima volta nella sua vita, si era trovato davanti a dei poliziotti veri, che lo avevano accusato di molestie sessuali. Aveva già affrontato delle accuse, ma da parte di donne che aveva messo a tacere con una valanga di denaro: di nero su bianco, finora, era rimasto solo l’accordo di riservatezza a tempo indeterminato che quelle avevano firmato in cambio di soldi. Questa volta, non c’erano tweet, interviste o messaggi privati: solo un verbale già consegnato ai poliziotti, e una registrazione in cui lui ammetteva di aver toccato il seno a una donna e averla invitata a salire in camera. Quella donna è Ambra Battilana, di gran lunga la più sfortunata tra quelle che Weinstein ha incontrato: dalla vita ha avuto un padre ubriacone, decine di violenze domestiche, un’infanzia in povertà e tre «disavventure» col sesso maschile. Per un ironico gioco delle parti, se decine di star mute con la polizia adesso parlano con i giornali, Ambra, una delle poche ad aver raccontato tutto alla polizia, è l’unica a non poter concedersi ai media, per un accordo di riservatezza firmato con lo stesso Weinstein. Le parole che oggi confida a Vanity Fair, dall’appartamento di Midtown Manhattan in cui ora vive, riguardano tutto, tranne il caso del produttore americano. Un caso che nonostante tutto ha fatto emergere il sistema di contrattacco mediatico-giudiziario agli ordini di uno dei più potenti uomini di Hollywood e che vale la pena raccontare.

L’INCONTRO CON AMBRA. Weinstein conosce Ambra alla fine del marzo 2015 al Radio City Music Hall di New York. «Assomigli a Mila Kunis», la adocchia lui, che le chiede di reincontrarla il giorno dopo nel suo ufficio a Tribeca. Seduti su un divano, i due guardano insieme il portfolio di lei su un tablet. Il produttore inizia a fissare il suo seno, chiedendo se sia rifatto. Stando al racconto di Ambra, si lancia verso di lei e le mette una mano sul seno. Lei protesta, lui si ritrae e le offre dei biglietti per un musical il giorno dopo. Ambra snobba Broadway e si fionda dalla polizia. Quando la sera dopo lui la chiama, lei è con gli investigatori della divisione del Nypd specializzata in abusi sessuali. Insieme organizzano il piano d’azione. La sera dopo Ambra incontrerà Weinstein. Ma con un registratore addosso per incastrarlo. L’appuntamento è al bar del Tribeca Grand Hotel. Weinstein non sospetta niente. Si offre di pagarle un corso di dizione. Poi, passa all’attacco e le chiede di salire con lui in camera. La registrazione nascosta di quel dialogo farà il giro del mondo. Uno dei detective appostati lì vicino, preoccupato per la sicurezza della ragazza, interviene. Si spaccia per un giornalista di Tmz e chiede un’intervista a Weinstein. L’uomo si ritrae, la Battilana si defila. Questa volta il detective si qualifica e chiede a Weinstein di parlargli. E’ la prima volta che Weinstein si ritrova davanti alla polizia. In altri casi, almeno sette, ha semplicemente pagato le sue accusatrici in cambio del loro silenzio, convincendole così a non rivolgersi agli investigatori. L’uomo accetta di farsi interrogare, ma subito stoppa le domande e chiede la presenza di un avvocato.

LA CONTROFFENSIVA DEL PRODUTTORE. E che avvocato. Nelle ore successive all’incontro con Battilana, Weinstein mette in moto la macchina di difesa e contrattacco. Si tratta di una macchina ben rodata, che negli anni passati ha evitato al produttore qualsiasi pubblicità negativa. La denuncia di Ambra rappresenta di fatto la più grave minaccia mai affrontata dal produttore. Bisogna agire subito e con tutti i mezzi possibili. Weinstein agisce su tre fronti.

1) Si rivolge ai due avvocati Elkan Abramowitz e Daniel Connolly, e chiama per una consulenza Linda Fairstein, ex procuratore specializzato in crimini sessuali che ha sempre sognato di fare un film con lui. La linea difensiva è semplice: Weinstein nega di aver afferrato le cosce della ragazza, ma ammette di averle toccato il seno. Il motivo era semplice: stavano parlando di un possibile impiego di lei come modella di lingerie e stavano discutendo se il suo seno fosse rifatto o meno.

2) Sui tabloid iniziano a circolare storie di una richiesta di 100 mila dollari, fatta dalla Battilana verso Weinstein, in cambio del suo silenzio. Weinstein stesso, sostiene il New York Times citando fonti anonime, inizia a spargere voci sulla poca credibilità di Ambra. L’obiettivo è quello di demolire la figura della ragazza e costringerla alla resa. Ambra stessa viene interrogata quattro volte e smentisce in parte le sue stesse deposizioni passate.

3) Mette al lavoro alcuni investigatori privati, che iniziano a raccogliere materiale sui due casi che riguardano Ambra: la denuncia per molestie poi fatta cadere nei confronti di un imprenditore 70enne, e la costituzione di parte civile nel Rubygate. E’ materiale bomba, che mette in luce alcune reticenze e contraddizioni in molte delle dichiarazioni della ragazza.

L’INFANZIA DI AMBRA. Per capire l’esultanza dei collaboratori di Weinstein, bisogna tornare indietro di 25 anni. All’interno di una casa popolare alla periferia di Torino. Qui, nel 1992, Ambra cresce da padre di origine meridionale e madre filippina. «Ero una bambina silenziosa e creativa. Disegnavo molto per sfogarmi. Visto che mia madre lavorava tutto il giorno, sono cresciuta con la vicina di casa, che ancora adesso chiamo “La Zia”. Lei conserva ancora tutti i miei disegni. Ma volevo fare la modella. Mia madre mi dice sempre che da quando avevo cinque anni mi vestivo e mi acconciavo i capelli, per fare le sfilate». L’infanzia, stando al racconto fatto a Vanity Fair, non è delle più tranquille: «Mio padre veniva da una famiglia povera del Sud Italia. Cambiava continuamente lavoro. Quando tornava a casa, ubriaco e drogato, mia madre gli chiedeva dove fosse stato. Lui reagiva male, spesso alzava le mani. A volte mi sono messa in mezzo, e mi sono presa qualche schiaffo anch’io. Da allora, fatico a tollerare qualsiasi contatto fisico con sconosciuti o addirittura familiari. Non mi trovo a mio agio nemmeno se devo abbracciare mio fratello o mia madre». Quando ha 14 anni, Ambra, sua madre e suo fratello più piccolo di tre anni, vedono il padre andare via e farsi un’altra famiglia. In casa, assieme agli schiaffi, diminuiscono anche i soldi.

LA RELAZIONE CON IL 70ENNE. E così, la ragazza che studia all’Istituto tecnico per geometri di Torino e vive in una casa popolare, tenta la scalata. Inizia a frequentare persone del giro dello spettacolo. Stringe un’amicizia con Daniele Salemi, ambizioso ragazzo di Torino amico di Lele Mora, da lei chiamato il suo «agente». Grazie a lui conosce un famoso commerciante di auto del Nord-Ovest di 70 anni, il primo uomo verso cui sporgerà denunce per molestie. Vicenda oscura, piena di mezze verità, che Ambra racconterà tra pianti e «non ricordo» solo quando verrà incalzata, anni dopo, dai pm del Rubygate. Ambra, ancora minorenne, inizia una «relazione» con l’uomo. Ci va a letto regolarmente. E viene riempita da lui di gioielli, abiti (5 mila euro in un pomeriggio), notti in albergo («per tutta la famiglia»), auto («per la mamma») e perfino una casa (in centro a Torino). «Quando è andata alle finali di Miss Italia a Salsomaggiore, mi ha chiesto soldi anche per le creme abbronzanti», racconterà l’uomo. Ambra si prostituiva? Difficile da dire. Piuttosto, veniva trattata molto bene dall’uomo. Eppure, nel 2010, poche settimane dopo lo scandalo del Rubygate, lei va alla procura di Milano con il suo agente e il suo avvocato (di cui non ricorda il nome) e denuncia il 70enne. Il reato: molestie sessuali. L’uomo con cui faceva sesso regolarmente, è la denuncia, qualche volta l’avrebbe costretta a rapporti non consenzienti. Perché lo fa solo dopo molti mesi? «In quel periodo mi ero stufata», dirà tempo dopo. «Non ce la facevo più a essere utilizzata così. Perché dopo un po’ vedi che la natura di una ragazza di 17 anni non è quella». Parole sante, destinate però a cadere nel vuoto. Quando la procura la chiama per interrogarla, Ambra non risponde e scompare. «Non volevo lasciare il lavoro e andare in Procura». L’inchiesta, com’è ovvio, viene archiviata. Quando le chiediamo di questo episodio, Ambra nega tutto. Poi, davanti alle decine di articoli dell’epoca che le mostriamo, preferisce glissare. Ci rimanda al suo avvocato in Italia, tale Mauro Rufini, che ci rimbalza a un incontro di persona la settimana prossima. Non ci resta perciò che affidarci alle parole dette sotto giuramento da Ambra in Tribunale due anni dopo, durante il processo Ruby. Per valutare la sua credibilità, i pm le chiedono conto di quella storia. «Non erano rapporti a pagamento. Erano rapporti (trattiene a stento le lacrime, ndr) obbligati. Perché comunque ho avuto sempre problemi di denaro per la mia situazione familiare». La vicenda, che verrà ritrovata dagli avvocati di Weinstein a caccia di informazioni sulla Battilana, è un punto micidiale per minare la credibilità della ragazza.

LA SERATA AD ARCORE. Ambra, intanto, insegue il suo sogno. Vince Miss Piemonte. E’ decisa a fare la meteorina, vuole diventare qualcuno. Il 22 agosto 2010 è in macchina assieme all’agente Daniele Salemi e all’amica Chiara Danese. Tutt’e tre, invitati da Emilio Fede, vanno a Villa San Martino da Silvio Berlusconi. «Il mio agente disse a me e Chiara che stavamo andando a festeggiare il mio titolo di Miss Piemonte», racconta oggi. Una volta lì, Chiara entra e rimane per gran parte della serata, rifiutando qualsiasi contatto con Berlusconi. «È sempre per la questione di voler fare la meteorina, mi interessava di andare avanti a Miss Italia e cambiare la mia vita», dirà ai magistrati. Quando scoppia lo scandalo, lei e Chiara denunciano tutto e si costituiscono parte civile nel processo contro Lele Mora, Nicole Minetti ed Emilio Fede. Chiedono un risarcimento di 400 mila euro (200 mila a testa), e si vedranno dar ragione dai giudici nel 2013: per la «sofferenza» patita, dovranno essere risarcite. Oggi spiega: «Ora speriamo che tutto si velocizzi. Non è un discorso di soldi. Ne guadagno abbastanza con il mio lavoro. Lo faccio per riprendermi la possibilitá di usare il mio nome che quelle persone ci hanno infangato. Per poter tornare in Italia e zittire tutte quelle persone che ci hanno additato senza sapere, solo per il gusto di far male».

LA NUOVA VITA IN AMERICA. Dopo lo scandalo, è il momento di cambiare aria: «A Milano le voci giravano. Così chiesi alla mia agenzia di andarmene dall’Italia. La famiglia e gli amici mi sarebbero mancati, ma volevo iniziare da zero da un’altra parte. Fui presa da un’agenzia a Londra. Mi trasferii senza pensarci, imparai l’inglese e rimasi lì per un anno. Dopo trovai agenzie in altre città. Nel 2014 mi sono trasferita a New York e ci sono rimasta».

L’ACCORDO DI RISERVATEZZA. A New York Ambra conosce Weinstein, viene toccata da Weinstein, denuncia Weinstein. Ma quel materiale sulla sua vita passata, inizia a pesare. Due settimane dopo l’inizio delle indagini, i procuratori di New York si arrendono e lasciano cadere il caso per almeno due motivi.

1) Non riescono a dimostrare che Weinstein abbia infilato la mano sotto la maglietta della ragazza. Il particolare, seppur crudo, dimostrerebbe inequivocabilmente lo scopo sessuale del gesto.

2) Ambra si rivelerebbe una testimone poco credibile, visti i suoi precedenti in Italia. Gli avvocati dell’imputato, specie se quell’imputato si chiama Harvey Weinstein, la demolirebbero in un’aula di tribunale nel giro di 30 minuti. Secondo una fonte investigativa citata dal New Yorker, Weinstein potrebbe essere accusato di abuso sessuale di terzo grado (contatto sessuale senza consenso della vittima, per averle toccato il seno), punibile con massimo tre mesi di galera. Macchina perfetta. Vicenda chiusa. Vittoria per Weinstein. Scandalo rimandato di due anni. Manca solo il colpo finale, quello del ko. Che arriva, puntuale, qualche giorno e qualche chilometro più in là. Weinstein offre un’altra valanga di soldi ad Ambra. In cambio, ottiene da lei un eterno silenzio sulla vicenda. È un accordo di riservatezza, perfettamente legale, che lei rispetta alla lettera. Quando le chiediamo cosa sia successo, cosa direbbe se si trovasse davanti Weinstein oggi, quanti soldi ha ricevuto, se si è mai pentita di aver firmato l’accordo, se non ha mai pensato che parlando avrebbe evitato a ragazze come lei lo stesso «trauma», Ambra ci risponde con un gentile no comment.

AMBRA OGGI. Quello che ci può dire è che è ancora scossa dall’accaduto. Da una settimana, a raggiungerla a New York e confortarla, è arrivata Chiara Danese, l’altra ragazza che con lei testimoniò al Rubygate: «Si è trasferita nel mio appartamento a New York. Sta studiando l’inglese. Spero di aiutarla con il suo futuro lavorativo». Sostiene che dopo il caso la sua vita è cambiata in peggio: «Ho trovato porte chiuse, ho visto persone allontanarsi da me. Mi spiace anche che in Italia ci siano persone così poco empatiche sempre pronte a giudicare. Gli uomini che dicono che Asia se l’è cercata? Spero non abbiano figlie femmine». Una figlia femmina come lei, con un padre violento e una storia complicata. Che se tutto andrà bene continuerà a inseguire il suo sogno: lavorare nella moda, girare il mondo, diventare qualcuno. Oppure lo vedrà svanire: magari si fiderà di persone migliori, tornerà alla casa popolare della «zia» e riguarderà i disegni di quella bambina che sognava di fare la modella. Una giornata tranquilla, una volta tanto.

Terra bruciata attorno a Weinstein: Harvard gli ritira la medaglia Du Bois. L'ateneo americano si e' ripreso la medaglia W.E.B Du Bois attribuita al potente produttore nel 2014 per il suo contributo alla cultura africana, scrive il 20 ottobre 2017 "Globalist". Harvard si dissocia dal produttore americano accusato di molestie e gli ritira l'onoreficienza concessagli qualche anno fa: non è la sola istituzione che decide di agire in tal modo, vista l'espulsione di Harvey dalla Accademia degli Oscar e la decisione di Macron di ritirargli la Legion d'onore. L'ateneo americano si e' ripreso la medaglia W.E.B Du Bois attribuita al potente produttore nel 2014 per il suo contributo alla cultura africana e dei neri d'America. All'epoca il comitato esecutivo dell'Hutchins Center for African and African American Research, un gruppo di 5 professori, aveva votato all'unanimità per la medaglia a Weinstein. Altrettanto unanime e' stato il voto per ritirare l'onorificenza alla luce delle accuse. La medaglia Du Bois è il più alto onore che Harvard concede per i contributi alla cultura nera. In passato è andata tra gli altri a Oprah Winfrey, Muhammed Ali e Maya Angelou. 

Weinstein: sesso & potere, percorsi di vita! Scrive il 21 ottobre 2017 Giovanni Falcone su "Wallstreetitalia.com". Con tutto l’inchiostro che si è consumato in questi giorni a livello planetario sulla vicenda “Weinstein “, stanno emergendo una classe di ipocriti che avrei fatto fatica ad immaginare solo qualche giorno addietro. La mia è una riflessione ad alta voce che, pur senza biasimare chi ha accettato la “parte in commedia”, mi sentirei particolarmente male se mi dovessi immaginare al posto del produttore. In Italia, abbiamo avuto un altro personaggio che più volte ha detto pubblicamente di non aver mai pagato una donna per avere le sue grazie, nel mentre c’era la fila delle prenotazioni. Il “do ut des” è un fenomeno naturale frutto di una combinazione di interessi, accettato, in qualche caso addirittura perseguito da ambo le parti. Oggi, al netto di tutte queste “monache pentite” che stanno uscendo pubblicamente, dopo aver comunque fatto, in modo consapevole una scelta professionale che forse le ha adeguatamente ripagate sotto ogni profilo. In queste circostanze, vorrei che qualcuno ricordasse le tante aspiranti, forse anche più brave che hanno mandato a “cagare” il produttore. Ciò detto, non biasimo chi, come l’attrice italiana figlia del notissimo regista italiano dell’horror laddove, sia pure con motivazioni assolutamente legittime ha accettato il “baratto”. Proprio, sono abbastanza sorpreso che certe prese di posizione giungano dal mondo femminile che, notoriamente, ha sempre distinto il sesso dal sentimento. Comincio a pensare che l’altra metà del cielo è identica alla nostra dove, il sesso o il sentimento, variano a seconda delle circostanze, dell’interlocutore e degli obiettivi. Basta dirlo, senza ipocrisia, forse corrisponde alla natura umana! La vita è bella anche per questo, essendo fatta di tanti percorsi dove ognuno sceglie il suo, salvo magari pentirsene a distanza di venti anni!

Lettera a "Italians" su "Il Corriere della Sera" di venerdì 20 ottobre 2017.  Caso Weinstein: che ipocrisia ora…"A Hollywood hanno scoperto l'acqua calda? Si sono svegliati e si sono ricordati che Harvey Weinstein, produttore cinematografico della Miramax, è un orco. Non mi stupisce la notizia in sé. «Do ut des». E ammettiamo che spesso accade anche – con le dovute proporzioni! – anche in un normalissimo ufficio... E sia ben chiaro che non lo sto giustificando. Mi stupisce e mi irrita invece il silenzio pluridecennale che viene adottato in questi casi, salvo poi gli "oooh" di stupore più falsi di una "Monna lisa triste". Nel mondo del cinema, tutti conoscevano bene i modi di fare di Weinstein fino a ieri osannato e oggi definito «orco insaziabile uscito dalle favole dei fratelli Grimm», ma perché tutti hanno deciso di tacere per circa trenta anni? Tutti sapevano dei suoi comportamenti aggressivi ed arroganti ma un film prodotto da lui aveva già un Golden Globe (e forse un Oscar!) in mano. Particolarmente interessante il silenzio sulla vicenda di una "pasionaria" dei diritti femminili come Meryl Streep (sempre pronta a fare aspre intemerate al presidente Donald Trump additato come "sessista"). Sarà che lei deve a Weinstein buona parte del suo Oscar come miglior attrice per «The Iron Lady» film prodotto – incredibile dictu – da Weinstein. Nel 2012 durante la cerimonia dei Golden Globe l'aveva definito «un dio». Ora fa marcia indietro e parla di un «disgustoso ed imperdonabile abuso di potere». I 54 membri del «Academy of Motion Picture Arts and Sciences Award board» (la giuria del premio Oscar, per intenderci!) lo ha escluso dal comitato. Emmanuel Macron ha immediatamente avviato la procedura per annullare la “Légion d'honneur”. Silenzio anche dalle parti di casa Clinton visto è stato uno dei maggiori finanziatori di Hillary e delle spese legali del consorte Bill nell’affaire della «sala Orale» (ehm volevo dire «Sala Ovale»). Che dire di Woody Allen che definisce questa vicenda "triste"? Proprio lui che sposò la figlia adottiva? Vincenzo Mangione".

Caso Weinstein. La confessione di Rosenberg: "Io c'ero e tutti sapevamo", scrive Aida Famularo il 19 Ottobre 2017 su "Il Corriere della Città". Harvey Weinstein. Famosissimo nella produzione di grandi film come Pulp Fiction, Clerks e Shakespeare in love, il quale gli fruttò persino un premio Oscar. Per quanto riguarda Harvey Weinstein, l'ultima vittima ad aver parlato, in ordine cronologico, è stata Lena Headey. Ma le accuse rivolte al potente produttore della Miramax non si sono fermate a Hollywood, hanno prodotto un'escalation di rivelazioni da parte di tante donne nel mondo. Rosenberg ha lavorato fianco a fianco con Harvey Weinstein e il fratello Bob dal 1994 ai primi 2000 quando nessun'altro credeva in lui: "Hanno fatto in modo che gli altri studios pensassero che fossi quello giusto". L'attrice racconta che Freed si alzò bruscamente dalla sedia e tirò fuori il pene davanti all'allora undicenne che non ne aveva mai visto uno. Weinstein era la gallina dalle uova d'oro che organizzava feste e regalava viaggi da sogno. Il produttore provò ad abusare di lei ma lei lo respinse, decise di non lavorare più per lui avvisando chi poteva tra le giovani attrici di stare alla larga da Weinstein. Lo sceneggiatore ricorda i numerosi festival, i viaggi e i benefici che ha avuto nel corso del tempo grazie ad Harvey Weinstein, dagli spettacoli d Broadway al Super Bowl, passando per camere d'albergo. Trovo abbastanza raccapricciante che siano stati tutti zitti per anni. Siamo perfettamente chiari su una cosa: tutti lo sapevano. Non che violentasse. No, quello non lo avevamo mai sentito. Le feste, le donne, le molestie, i ricatti: era tutto permesso, perché tutti ne traevano vantaggio, a parte le poche povere vittime che non hanno fatto carriera e che per anni non sono state credute dopo le loro sparute ma esistenti denunce. Sapevamo della sua brama, il suo fervore, il suo appetito. Non c'era niente di segreto sulla sua rapacità vorace; come un orco insaziabile uscito dalle favole dei fratelli Grimm. A tutte faceva vaghe promesse su potenziali ruoli al cinema. "Volontariamente. Che di sicuro lo avrà solo incoraggiato a lanciare la sua rete fetida in modo ancora più ampio", scrivono su Dagospia traducendo il post. La valanga di accuse che si è abbattuta su Weinstein ha creato un vero terremoto. Asia rimane molto colpita dalla reazione di una parte delle donne e decide di andare a Berlino, dichiarando che preferisce andare lì, perché nel nostro Paese le donne non sono sufficientemente unite. E ne abbiamo parlato insieme. Autore di film come "Prendimi l'anima" o "La verità sta in cielo", ha commentato il caso al Fatto Quotidiano, lanciando una notizia bomba: una decina di attrici italiane avrebbe offerto prestazioni erotiche al produttore in cambio di un ruolo sul grande schermo. Voi, i grandi giornalisti; voi, i grandi sceneggiatori; voi, le grandi rockstar; voi, i grandi ristoratori; voi, i grandi politici. Della gravità della cosa. Per questo motivo la presidentessa della Lucasfilm, Kathleen Kennedy, sta cercando di portare avanti una campagna contro le molestie e gli abusi sessuali che avvengono a Hollywood. Anzi, quasi nessuno: "E questo è patetico quanto vero: Che avremmo dovuto fare?" Il produttore che considerava le donne sua preda deve fare le valigie e sparire. Ha ricordato anche che le attrici hanno scelto di parlare e che se ci avessero provato, gli agenti stessi avrebbero consigliato loro di tacere. Chi subiva le molestie e le avances perché prese in una morsa di paura, tutti quelli che erano in una immaginaria stanza accanto, per convenienza. "Okay, forse non ci servivano ma ci piacevano davvero davvero molto".

Harvey Weinstein, il mostro, le vittime e le ipocrisie, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche.net" il 20 ottobre 2017. “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” ha scritto Bertolt Brecht. Non posso farci nulla, ma la lettura de “La banalità del male” mi ha portato a riflettere su di un evento di cui in queste ore si parla con maggiore interesse di quello dedicato a problemi ben più seri: i misfatti sessuali del “mostro” Harvey Weinstein (in foto), per il quale non passa giorno senza che non venga cacciato o espulso da qualche associazione, ente o impresa di cui era stimato aderente. Eppure, se intendono agire in nome di “un significato morale superiore” le vittime del sistema “me la dai o scendi” corrono soltanto il rischio di ritornare a casa a piedi.

Sto leggendo “La banalità del male” il saggio di Hannah Arendt sul nazismo. La filosofa tedesca prende le mosse dal processo a Otto Adolf Eichmann (iniziato l’11 aprile 1961) dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme (che Arendt seguì come inviata del ‘’New Yorker’’) per tracciare un quadro delle sterminio del popolo ebraico in Europa, attraverso “la soluzione finale” attuata dal regime nazista (per realizzare la quale Eichmann organizzò la selezione, la distribuzione e il trasferimento degli ebrei nei campi del martirio). Il criminale nazista fu poi condannato a morte e giustiziato, ma gli fu garantito un processo equo e corretto (non un atto di vendetta come quello a cui in Italia è stato sottoposto Eric Priebke). Il filo del ragionamento della scrittrice si muove lungo degli interrogativi inquietanti (che sono, poi, alla base del complesso di colpa del popolo tedesco, almeno di quelle generazioni che uscirono dalla tragedia in cui furono travolti e protagonisti): fino a che punto esiste una responsabilità individuale nel contesto di un sistema e di un ordinamento criminali, quando le persone possono sottrarsi ai suoi misfatti soltanto mettendo a repentaglio la propria vita e la sicurezza della propria famiglia? Fino a che punto si possono affermare i principi del diritto quando la legalità (intesa come conformità alla legge) è intessuta di delitti? A questo proposito, nel libro, viene ricordata la testimonianza di un medico della Wehrmacht, Peter Bamm, un militare, il quale ammette di aver assistito, senza fare nulla, ad uno dei tanti massacri compiuti sul fronte russo. E aggiunge: “Chiunque avesse protestato sul serio o avesse fatto qualcosa contro le unità addette allo sterminio sarebbe stato arrestato entro 24 ore e sarebbe scomparso’’. In sostanza, neppure la morte, il sacrificio sarebbero serviti, perché “la dittatura fa scomparire i suoi avversari di nascosto, nell’anonimo”. Ciò vuol dire – secondo il medico – che il sacrificio sarebbe stato privo di senso. “Nessuno di noi – conclude – aveva convinzioni così profonde da addossarsi un sacrificio praticamente inutile in nome di un “significato morale superiore”. Arendt si rende conto di questa grande difficoltà, ma sostiene che “i vuoti d’oblio non esistono … Qualcuno resterà sempre in vita per raccontare”. Non vi può essere rettitudine, secondo la filosofa, se manca un “significato morale superiore”.

Caso Weinstein: almeno 10 attrici italiane a letto con lui. Almeno una decina tra le attrici italiane sono state a letto con lui per avere una particina in un suo film. Il che significa che tutti sapevano: la dichiarazione del regista italiano Roberto Faenza sul caso Weinstein fa tremare il mondo dello spettacolo, scrive Monica Monnis, il 19 Ottobre 2017.  Caso Weinstein: almeno 10 attrici italiane sarebbero andate a letto con il produttore americano, ora in rehab per guarire la sua dipendenza dal sesso. Il caso Weinstein continua a far tremare il mondo dello spettacolo internazionale ma non solo. Questa volta a parlare è il regista Roberto Faenza che butta benzina sul fuoco e e afferma che almeno dieci attrici sarebbero state a letto con Harvey Weinstein per ottenere una piccola parte in un suo film. Sono più di 35 le attrici che hanno accusato Harvey Weinstein di violenza sessuale. La prima a raccontare gli abusi è stata Asia Argento, che proprio nei giorni scorsi ha annunciato di voler lasciare L’Italia a causa delle dure accuse subite dopo la sua denuncia. La figlia di Dario Argento non sarebbe l’unica italiana a finire nella rete dell’ “orco di Hollywood”. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Roberto Faenza parla del cinema italiano e afferma che almeno dieci attrici sarebbero state a letto con Weinstein per ottenere una piccola parte in un suo film. “Almeno una decina tra le attrici italiane sono state a letto con lui per avere una particina in un suo film. Il che significa che tutti sapevano”, ha affermato il regista del film “La verità sta in cielo”, lasciando intendere che molte donne dello spettacolo avrebbero deciso con coscienza di avere degli incontri ravvicinati con Weinstein in cambio di fama e popolarità. “C’era reticenza ad accusare il prepotente che abusava del suo potere in maniera scandalosa. A me colpisce anche l’omertà di questo sistema hollywoodiano fatto di un opportunismo raccapricciante. Finché Harvey ha fatto comodo nessuno ha parlato”, ha continuato il 74enne sintetizzando il pensiero di molti. Faenza ha parlato anche della denuncia di Asia Argento nei confronti di un regista italiano che avrebbe tentato di abusare di lei 30 anni fa. “Quando si lancia un’accusa del genere dovresti fare anche il nome. Trovo grave in questo caso l’omertà dell’ambiente. È come se si svegliasse Biancaneve e scoprisse che uno dei nani era un delinquente. Ma dov’erano tutti?”.

Marina Ripa di Meana: “Weinstein un mostro? E io che tentati di sedurre Scalfari…”, scrive Blitz Quotidiano il 18 ottobre 2017.  Marina Ripa di Meana: “Weinstein il demonio? E io che tentati di sedurre Scalfari…”.  Lo scandalo delle molestie ha travolto il produttore di Hollywood Harvey Weinstein, accusato da attrici come Asia Argento e Angelina Jolie o Gwyneth Paltrow. C’è chi lo condanna e chi invece stempera gli animi, come Marina Ripa di Meana, che spiega il suo punto di vista: “In realtà eravamo quasi tutte pronte a darla anche al gatto, come si dice a Roma, pur di raggiungere lo scopo. E senza fare confusioni tra lupi e agnelli, tra vittime e carnefici, trovo tuttavia ipocrita questa slavina di perbenismo che l’America puritana sta riversando addosso a Weinstein”. Marina Ripa di Meana nella lettera al direttore pubblicata sulla 27Ora sul Corriere della Sera parla di esagerazione nelle accuse al produttore di Hollywood: “Non staranno esagerando? Cosa avrebbero dovuto fare a me, che ho tentato di sedurre nientedimeno che Eugenio Scalfari? Erano gli anni ’80, avevo appena pubblicato I miei primi quarant’anni, imperversavano i film sulla mia vita, ero sulla cresta dell’onda, quando su Repubblica uscì una vignetta di Pericoli e Pirella decisamente offensiva nei confronti miei, di Sandra Milo e Marta Marzotto. Vittorio Ripa di Meana, fratello di mio marito Carlo, e avvocato di Repubblica, avvertì Scalfari che la faccenda era molto seria e che il giornale rischiava una pesantissima querela. Il direttore allora venne a casa mia per scusarsi e chiedermi come si poteva lavare l’onta senza spargimento di sangue. In quel momento mi ricordai che spesso Scalfari aveva detto che «ero la donna più bella del mondo, che era folgorato dalla mia simpatia». Allora mi accostai vicina vicina a lui sul divano della mia casa di via Borgognona e con un bel po’ di presunzione tentai di sedurlo seduta stante. Dopo qualche «ammoina», gli dissi: «Perché invece di mettere di mezzo avvocati e querele, non mi dedichi la copertina del Venerdì?». Lui però rimase imperturbabile, si ritrasse garbatamente con il suo famoso aplomb, non si lasciò sedurre e non mi fece nessuna copertina del Venerdì. Poi la faccenda passò nelle mani degli avvocati”. Per la Ripa di Meana la morale è che si può anche dire no: “Tutte queste attrici che oggi accusano Weinstein di «molestie» hanno a mio parere il torto di allinearsi, di fare fronte comune. Una specie di class action. Io preferisco l’azione individuale, libera”. E ne ha anche per Asia Argento: “Mi ha deluso. La considero la migliore attrice italiana, la più intelligente, la più estrosa, con quella sua bella voce un po’ roca e quell’arietta torbida da baby delinquente. Dice che ha accettato le avances di Weinstein solo per non farsi rovinare la carriera. Lei però a vent’anni ne sapeva una più del diavolo”.

Quando Hollywood sbarcò in Italia (e Weinstein non c’era ancora): un documentario racconta. The Italian Jobs: Paramount Pictures e l’Italia di Marco Spagnoli è un viaggio inedito nella storia della prima casa di produzione cinematografica che ha lavorato in Italia e ha lanciato negli States star come Virna Lisi e Sophia Loren, scrive il M. B. il 20 ottobre 2017 su "Io donna". Vi sarà capitato centinaia di volte di andare al cinema e prima dell’inizio della proiezione essere catturati dall’immagine di una montagna circondata da una corona di stelle. È il logo della Paramount Pictures, uno degli studi di Hollywood che produce e distribuisce lungometraggi da oltre cento anni. Indiana Jones, Vacanze Romane, la saga de Il Padrino, La donna che visse due volte, I dieci comandamenti, Colazione da Tiffany, Forrest Gump sono solo alcuni dei titoli realizzati dalla Paramount. Il documentario The Italian Jobs: Paramount Pictures e l’Italia di Marco Spagnoli racconta i fasti della famosa major, ma soprattutto il suo rapporto con il nostro paese e verrà presentato il 24 ottobre alla Festa del Cinema di Roma. La Paramount fu il primo studio hollywoodiano a produrre in Italia e il primo a mettere sotto contratto la nostra Isa Miranda, che debuttò in America nel 1939 con Hotel Imperial di Robert Florey. L’accoglienza fu eccellente. L’anno seguente toccò a La signora dei diamanti di George Fitzmaurice. Miranda non fu l’unica attrice nostrana a ricevere le attenzioni della Paramount: pensiamo ad Anna Magnani che vinse il primo Oscar italiano grazie all’interpretazione de La Rosa tatuata (1955) a fianco di Burt Lancaster, a Virna Lisi e Sophia Loren. La carriera internazionale della Loren fu lanciata proprio grazie alla casa di produzione nata nel 1912 che le contrattualizzò cinque pellicole: da Desiderio sotto gli olmi (1958) con Anthony Perkins a Un marito per Cinzia (1958) con Cary Grant, a Il diavolo in calzini rosa (1959) di George Cukor, dove per la prima volta appare bionda. Sophia era già sposata al produttore Ponti. Ma The Italian Jobs: Paramount Pictures e l’Italia è molto altro. Racconta anche la storia di due executive italo-americani Pilade Levi e Luigi Luraschi, che alla fine della seconda guerra mondiale arrivano in Italia per rifondare la nostra industria cinematografica: l’idea di produrre film europei, finanziati con fondi americani, è nata in Italia grazie a Paramount Pictures. Si sfornano così capolavori come Le Notti di Cabiria di Federico Fellini, Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli e Il Conformista di Bernardo Bertolucci. Gioia Levi e Tony Luraschi, i figli dei due executive, raccontano le vicissitudini dei loro genitori. E non sono le uniche testimonianze raccolte da Spagnoli. All’interno del documentario Spagnoli ha raccolto le testimonianze di molti autori e personalità del cinema italiano: Enrico Lucherini, Felice Laudadio, Roberto Faenza, Claudio Masenza, Massimo Cristaldi, per citare qualche nome. A guidarci, invece, tra le pieghe della storia che legano Paramount e l’Italia è la voce dell’attore e doppiatore Adriano Giannini. Assieme a Luca Argentero, Stefano Fresi e Greta Scarano che leggono alcuni estratti di lettere e diari scritti dai protagonisti del documentario.

Il caso Weinstein, le violenze sulle donne e quei musulmani con il ditino alzato, scrive Angela Napoletano su “L’Occidentale” il 19 ottobre 2017. Quello di Harvey Weinstein è l’ennesimo scandalo a sfondo sessuale che l’America e il mondo intero potrebbero prevenire se solo imparassero a trattare le donne come l’Islam comanda. E’ la tesi shock al centro di un articolo pubblicato domenica dal quotidiano inglese The Independent e firmato da Quasim Rashid, un avvocato musulmano residente negli Stati Uniti esperto in diritti civili. A ispirare il “bizzarro” intervento di Rashid sembra sia stato il caso Weinstein e la lunga serie di outing che ha visto protagoniste in questi giorni alcune delle più note attrici hollywoodiane cadute nella trappola ricattatoria del potente produttore cinematografico. Se ciò accade, è il ragionamento dell’avvocato, lo si deve all’ ipocrisia di una cultura che condanna l’aborto e l’infedeltà, nonché a dogmi religiosi vuoti, inutili e dannosi come quello cristiano che considera la donna come una creatura plasmata dalla costola dell’uomo. L’Islam è differente, dice. Seguono una serie di citazioni a capitoli e versetti del Corano a dimostrare che “l’Islam è un modello secolare che può fermare questa mattanza” e che “gli insegnamenti del profeta Maometto possono risolvere il problema come nessuno Stato può fare”.  Il libro sacro dei musulmani insegna, per esempio, che “l’uomo e la donna sono stati creati da una stessa anima, per questo sono della stessa specie”; e che se l’uomo è chiamato a provvedere al sostegno economico della donna è per evitare che questa venga esposta al rischio di un abuso dettato da necessità finanziarie. Rashid parla come se il mondo non sapesse davvero come in gran parte dei Paesi islamici gli uomini musulmani trattano le loro madri, le loro mogli, le loro figlie. Come se non conoscesse la violenza pubblica e domestica che le donne sono costrette a subire ogni giorno, in tempo di pace come in tempo di guerra. Come se quella degli stupri seriali messi in atto dalle gang islamiche in tante città d’Europa sia una favola senza alcun fondamento. Il problema sollevato dal caso Weinstein non ha niente a che vedere con la costola di Adamo da cui Dio creò Eva, ma con l’idea del potere e del compromesso su cui la società secolarizzata si è appiattita. La questione, qui, è un’altra. Ed è che il quotidiano inglese, non più propriamente “independent” da quando il sultano saudita Muhammad Abuljadayel ha comprato una quota consistente della società editoriale, ha dato voce a un musulmano sospettato di far parte di un gruppo, Ahmadiyya, che ha come unico obiettivo quello di mostrare la superiorità dell’Islam sulle altre fedi, e in particolare sul cristianesimo.

Weinstein, Asia Argento e Laura Boldrini: appello fuori luogo. E se invece…, scrive Silvia Cirocchi il 20 ottobre 2017 su "Blitz quotidiano". Leggo e rileggo le dichiarazioni di Asia Argento e l’unica parte delle sue affermazioni che mi salta all’occhio, quella che mi è rimasta più impressa è quella in cui dice che non è riuscita a rifiutare le violenze di Hervey Weinstein (come se qualcuno l’avesse segregata in casa e buttato la chiave) perché temeva che la sua carriera potesse essere rovinata. Di cosa stiamo parlando? Di chi per un momento di maggiore consenso e popolarità è disposta a cavalcare l’onda del femminismo? E questo ovviamente non vale solo per Asia Argento, ma anche per tutte le attrici di Hollywood che osannavano Weinstein fino al giorno prima e si ritrovano improvvisamente puritane, tutte sante. Come se il segreto di Pulcinella dovesse rimanere nascosto. Insomma tutti ad attaccare il drago, peccato io non veda le vergini. Ed ovviamente, poteva mancare in un questo perfetto quadretto femminista-buonista l’intervento del Presidente della Camera Laura Boldrini? Eh no! Scherziamo? Asia Argento ci comunica che in Italia le donne non sanno lottare (e qua mia madre potrebbe raccontarle cosa vuol dire fare gavetta e sacrifici per la propria famiglia, a differenza di chi non ha avuto bisogno di lottare mai nella vita come lei) e che quindi lei se va. Immaginatevi questa scena strappalacrime scritta sui giornali in cui la terza carica dello stato dice all’attrice (?) di non andarsene perché tutte le donne in Italia sono con lei. Ma tutte chi? Perché non cerchiamo invece di risolvere due problemi in una volta sola e chiediamo alla Boldrini di raggiungere Asia Argento all’estero? E’ davvero incredibile la capacità del Presidente della Camera di accaparrarsi le cause perse. L’inadeguatezza della sua persona rispetto al ruolo che ricopre è ancora confermata. In questi giorni si sono spesi fiumi di parole sulla questione violenze. Molti hanno parlato a sproposito, altri sicuramente senza averne alcun titolo. Ma credo che tra la moltitudine di dichiarazioni ce ne sia una in particolare che spicca su tutte. E mi pare strano, ma è così, che Marina Ripa di Meana abbia detto la cosa più vera: “In realtà eravamo quasi tutte pronte a darla anche al gatto, come si dice a Roma, pur di raggiungere lo scopo. E senza fare confusioni tra lupi e agnelli, tra vittime e carnefici, trovo tuttavia ipocrita questa slavina di perbenismo che l’America puritana sta riversando addosso a Weinstein”. Per una volta, proviamo a mettere da parte l’ipocrisia. Le vere donne questo fanno.

Tutte le volte che Asia Argento ha insultato e disprezzato le donne, scrive il 19 ottobre 2017 "Diretta news". Il caso Weinstein ha monopolizzato l’attenzione per più di una settimana, assumendo in Italia una connotazione particolare per via delle polemiche che la denuncia di Asia Argento ha suscitato nell’opinione pubblica. Sono stati, infatti, parecchi quelli che si sono schierati contro l’attrice italiana, sostenendo che quello subito da lei non era certo uno stupro, bensì una molestia e accusandola di averlo accettato per fini utilitaristici. Agli attacchi Asia ha reagito in diverso modo: si è detta delusa dalle parole di Vladimir Luxuria, ha contrattaccato a quelle di Selvaggia Lucarelli ed infine ha denunciato Libero per diffamazione. Ieri, infine, la Argento ha dichiarato di voler lasciare l’Italia perché si sente abbandonata dalle donne, coloro che, secondo lei, avrebbero dovuto difenderla a spada tratta poiché rappresentanti del suo genere. Anche in questo caso l’attrice ha ricevuto parole di sostegno, Emma Bonino e la Boldrini le hanno chiesto di ripensarci e di rimanere nel nostro Paese, ma soprattutto le critiche di chi la ritiene opportunista anche nel cercare l’appoggio delle donne. A ben vedere, infatti, Asia è un tipo eccentrico, non convenzionale, che in più di un’occasione si è espressa in maniera sessista e dispregiativa nei confronti di altre donne, basterebbe rammentare la volta in cui ha fotografato di nascosto Giorgia Meloni in un ristorante per poi postare la foto sui social con commenti sprezzanti sulla sua forma fisica: “La schiena lardosa di una fascista”, a cui ha aggiunto: “Il culo grasso di una ricca senza vergogna”. Insomma non proprio parole di una donna che difende il genere in quanto tale. C’è stata quella volta poi, in cui ha iniziato una battaglia social contro Selvaggia Lucarelli per una bocciatura a Ballando sotto le stelle: in quella occasione Asia ha dato il peggio di sé dicendo alla Lucarelli che sembrava vestita come una nonna, aggiungendo che: “Chi fa parlare di sé solo perché copula o fa arrabbiare personaggi famosi non è altro che un parassita della notorietà altrui” e concludendo con una frase che farebbe inorridire qualsiasi donna: “Guarda nella tua anima puttana”. Che dire? Non proprio affermazioni da femminista o da donna che rispetta le altre. Ma la mancanza di rispetto peggiore nei confronti di una donna di cui si è macchiata Asia Argento è senza dubbio la difesa di Roman Polanski: il regista polacco si è macchiato di un crimine aberrante, ha stuprato una tredicenne, ma lei, senza battere ciglio, si è espressa in suo favore.

La doppia morale di Asia Argento. Delusa per le critiche subite, oggi, la Argento si appella alla solidarietà femminile dimenticandosi delle brutte parole rivolte pochi mesi fa alla neo-mamma Giorgia Meloni, scrive Elena Barlozzari, Mercoledì 18/10/2017, su "Il Giornale".  Asia Argento ha deciso di abbandonare l’Italia. Sull’onda dello sdegno per la mancata solidarietà di chi non è dalla sua parte. Dopo la rivelazione “intempestiva” con cui ha dato il via ad una ridda di denunce nei confronti del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, in molti l’hanno accusata di esser una “carrierista” e non una “vittima”. Anche quelle donne che, lei, vorrebbe rappresentare. Al timone delle polemiche c’è la nota blogger Selvaggia Lucarelli che, sul suo profilo Facebook, ha pubblicato un lungo commento alla notizia. “Questa faccenda di Weinstein, produttore potente e bavoso di Hollywood, che molesta le attrici presenta numerosi punti oscuri”. Ripercorrendo il “caso Weinstein” e la frequentazione tra il patron della Miramax e la Argento, la Lucarelli ha commentato: “Ora. Francamente. Vai a letto con un bavoso potente per anni e non dici di no per paura che possa rovinare la tua carriera. Sei la prima a dire che lo facevi perché la tua carriera non venisse danneggiata, stai ammettendo di esserci andata per ragioni di opportunità. Nessuno ti giudica, Asia Argento. Però ti prego. Paladina delle vittime di molestie, abusi e stupri, anche no. Facciamo che sei finita in un gorgo putrido di squallidi do ut des e te ne sei pentita. Con 20 anni di ritardo però”. E allora, la Argento, si è sfogata. Ieri sera, da Berlino, in un’intervista esclusiva concessa a Carta Bianca ha annunciato: “Tornerò in Italia in vacanza. Non vado via subito, ci vorrà un po’ di tempo per organizzarmi, ma non vedo cosa ci sto a fare in Italia adesso, tornerò quando le cose miglioreranno per combattere le battaglie con tutte le altre donne”. Un appello alla solidarietà femminile, a quel fronte comune che, in questi giorni, si è spaccato in due. Peccato che, qualche mese fa, la figlia del maestro dell’horror sia stata la prima a non aver dato il buon esempio. Nella didascalia di una foto “rubata” e diffusa su Instagram, l’attrice si era scagliata contro l’allora neo-mamma Giorgia Meloni. Le due, a febbraio scorso, si erano incrociate in un ristorante romano. In quell’occasione, dopo averla fotografata di nascosto, la Argento aveva pubblicato lo scatto accompagnandolo con una didascalia choc, nella quale definiva la leader di Fratelli d’Italia “lardosa”, “ricca”, “senza vergogna”, “fascista beccata a mangiucchiare”. La Meloni aveva quindi rilanciato dal suo profilo Facebook le offese “per dire a tutte le donne che hanno partorito da pochi mesi e che per dimagrire non usano la cocaina di non prendersela se qualche poveretta fa dell’ironia sulla loro forma fisica. Valeva la pena mille volte di prendere qualche chilo”. Chi la fa l’aspetti.

Asia Argento e le accuse a Weinstein: ecco cosa ha detto al New Yorker, scrive Blitz Quotidiano" il 21 ottobre 2017.  Asia Argento e Harvey Weinstein, ecco tutto quello che l’attrice italiana ha detto al New Yorker. L’intervista di Asia Argento al New Yorker, sull’onda dello scandalo che ha travolto il produttore americano Harvey Weinstein, ha fatto il giro del mondo e provocato polemiche il Italia. Ma cosa ha detto Asia Argento al New Yorker? Ecco la parte dell’articolo di che riguarda la diva italiana. Regista ed attrice italiana, la Argento ha spiegato di non aver parlato prima di Weinstein, che l’avrebbe presumibilmente costretta a subire un rapporto orale, poiché temeva che il produttore la “facesse fuori” dal mondo del cinema. “Ecco perché questa storia, che risale a vent’anni fa, non è venuta fuori prima d’ora, così come tante altre ancora più datate” ha detto l’Argento. L’attrice, nata a Roma, ha interpretato il ruolo di una ladra nel film “B. Monkey”, uscito in America nel 1990 e prodotto da Miramax. In una serie di lunghe e toccanti interviste, Argento ha spiegato che Weinstein l’ha aggredita mentre lavoravano insieme. Al tempo l’attrice aveva 21 anni ed era vincitrice dell’equivalente italiano dell’Oscar; nel 1997, uno dei produttori di Weinstein la invitò in quella che la Argento pensò fosse una festa della Miramax: la ragazza, quindi, si sentì in dovere di partecipare all’evento tenuto all’Hotel Cap-Eden-Roc, sulla riviera francese. Dopo una rampa di scale, l’Argento ha spiegato che iniziò ad avere i primi dubbi. “Mi fecero salire e vidi che non c’era nessuno. Chiesi dove fosse la festa e risposero che eravamo in anticipo”. Il produttore italiano, quindi, lasciò la ragazza sola con Weinstein, che cominciò a elogiare il suo lavoro; poco dopo, uscì e rientrò nella stanza con una bottiglia di olio per massaggi e un accappatoio. “Weinstein mi chiese se volevo fargli un massaggio. Gli risposi che non ero pazza. Ma, a guardare indietro, forse un po’ pazza lo sono”. Dopo aver accettato, con riluttanza, di fare il massaggio, l’Argento racconta che Weinstein le ha aperto le gambe con forza e praticato un rapporto orale. “Ho pensato che l’unico modo per far finire quell’incubo fosse fingere che mi stavo divertendo. In realtà avevo addosso un uomo grasso e enorme”, spiega. “Il punto è che mi sento responsabile. se fossi stata una donna forte, lo avrei colpito nelle palle e me ne sarei andata”. L’attrice descrive l’episodio come un “orribile trauma”, sottolineando di non riuscire più, da allora, a praticare sesso orale. “Gli dissi che non ero una prostituta. Lui si mise a ridere”. Per alcuni mesi, Weinstein continuò a inviare costosi regali alla ragazza. Ciò che complica la storia, aggiunge l’Argento, è il fatto che lei stessa si era ormai “abituata” alle avances; un giorno il regista la presentò anche alla madre. “Mi fece sentire come se fossimo grandi amici, che davvero mi apprezzasse”. L’attrice ha spiegato che nel corso di cinque anni, ha avuto con Weinstein altri rapporti consenzienti.

All’uscita del film B.Monkey, il produttore tornò alla carica e “non volevo farlo arrabbiare, ho pensato che mi avrebbe rovinato la carriera”. Anni dopo, quando la Argento diventò mamma e si trovò a dover far fronte alle spese che comporta allevare un figlio, Weinstein si offrì di pagare una tata. Anche stavolta, l’attrice si sentì “obbligata” a cedere alle sue avances sessuali. Il produttore ha avuto il potere di farla sentire completamente sottomessa, anche a distanza di anni: “La sola presenza, il suo corpo, il suo volto, mi fanno tornare indietro, a quando avevo solo 21 anni. Quando lo vedo, mi sento piccola, stupida e debole. Dopo avermi violentata, ha vinto lui” ha concluso.

Giovanni Veronesi: "Sapevo di Asia Argento, dovevo denunciare". Il regista italiano fa "mea culpa": "Asia Argento me lo disse vent'anni fa ma era piccola e aveva paura. Avrei dovuto denunciare", scrive Chiara Sarra, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Come Quentin Tarantino ammette solo oggi di non aver denunciato le molestie commesse da Harvey Weinstein nei confronti dell'ex fidanzata Mira Sorvino, anche Giovanni Veronesiora fa "mea culpa". "C'è' ancora in giro chi dubita, chi dice che l'ha fatto per la carriera", dice oggi su Twitter il regista italiano parlando di Asia Argento, che diresse in "Viola bacia tutti", "A me lo disse vent'anni fa ma era piccola e aveva paura". Poi un secondo tweet: "E io non sapevo che fare", spiega, "Mi sembrava una cosa troppo lontana da me. Ma avrei dovuto denunciare io". E ancora: "Che cazzo di ragionamenti fate? Non c'è nemmeno da discutere. @AsiaArgento va difesa e basta. Non c'è nessun dibattito. Nessun dubbio".

Asia Argento: "Abusi, il linciaggio contro di me colpa di Silvio Berlusconi. E Vittorio Feltri è disgustoso", scrive il 18 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". L'ultimo capolavoro di Asia Argento? Andare in televisione, parlare del caso Harvey Weinstein e della bufera scatenata dalla denuncia a scoppio ritardato degli abusi e dare tutta la colpa a...Silvio Berlusconi. Certo, testuale. Un parere consegnato a CartaBianca di Bianca Berlinguer. Secondo Asia, le polemiche che la stanno lambendo, sono dovute all'"umiliazione e alla visione della donna nell'Italia berlusconiana". Ritornello patetico, trito e ritrito, ormai quasi dimenticato, ma non da lei. Insomma, se la guardano con sospetto per aver rivelato soltanto dopo 20 anni di aver subito abusi da Weinstein la colpa è di Berlusconi. Anche se lei stessa ha detto: "Ai tempi mi interessava la mia carriera". Roba da ridere, se non ci fosse da piangere e da indignarsi. Se ne deduce, dunque, che anche le molte donne che hanno eccepito sull'atteggiamento dell'Argento abbiano aderito con entusiasmo a questa "umiliazione" e a questa "visione della donna nell'Italia berlusconiana". Ma non è tutto. Ovviamente nel mirino ci finiscono anche Libero e il direttore, Vittorio Feltri. La nostra colpa? Altrettanto aver eccepito, in primis con un articolo di Renato Farina, e aver risposto alla "signora" che ci aveva dedicato un simpaticissimo dito medio, promettendo inoltre querela (qui la risposta di Vittorio Feltri). Ma quello di Asia a CartaBianca è stato uno show a tutto tondo, tanto che si è spinta ad affermare di voler lasciare l'Italia: "Non vedo cosa ci sto a fare, tornerò quando le cose miglioreranno per combattere le battaglie con tutte le altre donne". Lo dice da Berlino, da dove era collegata e da dove si trovava "perché avevo bisogno di andarmene un po'". Sempre sul caso Weinsten, la Argento spiega: "Ci ho messo tantissimo tempo anche a dirlo a mia madre. Mentre a mio padre e a mia figlia l'ho detto solo ora". Dunque la replica ai molti che la hanno accusata di carrierismo: "Non ho avuto nessun favore. Non mi fa piacere stare qua a parlare di queste cose, il mio unico potere è stato dire di no alle proposte di regali e di film che arrivavano da Weinstein, non ho più fatto provini o letto un copione per loro".

Caso Weinstein, Asia Argento querela, scrive "L'Adn Kronos" il 21/10/2017. "Informo di aver querelato alcuni ospiti della trasmissione 'Porta a Porta' del 17/10/17". E' quanto scrive Asia Argento su Twitter, pubblicando anche due filmati - ripresi con il cellulare - che mostrano alcuni momenti della trasmissione di Rai 1.

In un altro tweet, l'attice e regista - che assieme a molte dive di Hollywood ha denunciato di aver subito violenze sessuali dal produttore Harvey Weinstein - ha poi scritto: "Le dichiarazioni di Vittorio Sgarbi a Dagospia sono vagliate dal mio legale. Non si tratta di me ma della dignità di tutte le donne". Inoltre, postando un ulteriore filmato della trasmissione registrato con lo smartphone, Asia Argento ha ringraziato Catherine Spaak "per il sostegno durante l'ignobile gogna da me subita senza possibilità di replica" a Porta a Porta.

"Non sapevo che mia figlia...". Parla il padre di Asia, Dario Argento: la sua verità sulla violenza sessuale, scrive il 14 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Per me è molto doloroso parlare di questa storia che coinvolge Asia. Lei non me ne ha mai fatto accenno, l'ho saputa in questi giorni". Il regista Dario Argento, padre di Asia, ha parlato così al Tg Zero di Radio Capital della vicenda Weinstein, il magnate di Hollywood accusato di violenza sessuale da da sua figlia: "Il comportamento di Weinstein è sicuramente uno scandalo ma il mondo del cinema non è tutto così - prosegue il regista - Chi si è comportato bene non si sente molto imbarazzato. È lui, Weinstein, che si deve sentire imbarazzato. Del resto è stato abbandonato da tutti. Si tratta di una vicenda molto triste. Non è affatto vero che così fan tutti; così fanno solo gli sporcaccioni". In America, aggiunge Argento, "c'è questo gusto del sesso sul divano. Purtroppo l’uomo potente ha un ascendente molto forte, ha armi di ricatto. L'attrice Mira Sorvino, per esempio, siccome non ha voluto cedere agli abusi di Weinstein, è sparita dalle scene. È successo anche a me che attrici mi si siano offerte per fare un film. Ovviamente ho sempre detto no", dice ancora Argento che quanto agli attacchi sui social a sua figlia per aver denunciato la violenza solo dopo anni afferma: "Di questo preferisco non parlare. È una situazione veramente pesante. Ringrazio comunque chi esprime solidarietà e simpatia a mia figlia".

Fermi tutti: Asia Argento non si chiama davvero Asia. Il vero nome dell’attrice è un altro: all’anagrafe è registrata come "Aria" Argento, è non si tratta di un refuso dell’impiegato ma degli effetti di una vecchia legge, scrive il 19 Ottobre 2017 "L’Inkiesta". Allo scoppio del “caso Weinstein” i media e i social italiani hanno cominciato a dibattere sulle dichiarazioni di Asia Argento, attrice e figlia del noto regista Dario Argento, che ha raccontato di essere stata, tra le altre, anche lei vittima delle molestie del produttore americano. Ha fatto bene a dirlo? Ha fatto male? Poteva/doveva dirlo prima? Vent’anni di silenzio sono tanti/troppi/ininfluenti? Ha avuto coraggio? Ne ha approfittato? A LinkPop interessa un altro aspetto della questione: il nome. Come forse non tutti sanno, Asia Argento non si chiama davvero Asia Argento. Il suo vero nome, almeno per come è registrata all’anagrafe, è Aria (Maria Vittoria Rossa) Argento. Proprio così: con la “r”, non la “s”. Colpa di un errore di un addetto distratto? No. Colpa, sembra, di un Regio Decreto del 1939. All’epoca della nascita di Asia/Aria, cioè il 1975, era quella la legge che regolava i nomi all’anagrafe. Al comma 72 era presente il divieto, scritto in modo molto chiaro, di assegnare ai figli nomi geografici – oltre al nome del padre, della madre, del fratello e della sorella: in Italia il concetto di “junior”, molto noto in Usa, non esiste. I genitori furono perciò costretti a ripiegare su un nome simile, ma non geografico: Aria. Tutti però continuarono a chiamarla Asia, a segno che una cosa è l’uso e un’altra le scartoffie, anche se era noto che il suo vero nome era diverso. (Non è per caso, si deduce, che Morgan, all’epoca, intitolò una canzone Aria. Cantando, per la precisione, “Voglio Aria, niente come lei; ho un desiderio per aria, voglio aria). Tutto risolto? Non proprio. Come si spiega qui, lo stesso episodio si ripeterà nel 1997 a Oliena, provincia di Nuoro: anche in quel caso i genitori volevano chiamare la figlia “Asia”, ma il rigoroso impiegato dell’anagrafe, regolamento alla mano, si oppose. Ne nacque un piccolo caso che finì perfino sui giornali nazionali. E a un’analisi più attenta, si scoprì che la questione si rivelò più complicata. Non solo, dicevano, si era sempre dimostrata una certa tolleranza, negli ultimi sessant’anni, per nomi come Europa e America. Ma perfino Asia, si fece notare, non era soltanto il nome di un continente. Anche una ninfa della mitologia greca, figlia di Oceano e Teti e madre di Prometeo, si chiama Asia. In questo caso, si deduceva, si sarebbe potuto aggirare il divieto sui nomi geografici: Asia è anzi un richiamo storico, colto e classicheggiante. E insomma, con un po’ di mestiere, anche quell’impiegato dell’anagrafe di Roma che registrò la nascita di Asia Argento avrebbe potuto rivelarsi più flessibile. E invece no: non fece sconti alla piccola Asia. Cosa che, del resto, anche adesso fanno in pochi.

Caso Weinstein, Eleonora Giorgi contro Asia Argento: Vuole farsi pubblicità. L’attrice e regista attacca la figlia di Dario Argento, colpevole di aver frequentato Weinstein per cinque anni, anche dopo le violenze subite e denunciate a inizio ottobre 2017: Cosa vuole Asia Argento? – si chiede Eleonora Giorgi in una lunga invettiva su Facebook – forse semplicemente che si parli di lei, scrive Fulvia Leopardi il 20 Ottobre 2017 su "Nano Press". Eleonora Giorgi attacca Asia Argento in merito alle violenze e molestie subite da Harvey Weinstein (e non solo) e denunciate dalla figlia del regista di Profondo Rosso. Perché definisce stupro una sua libera scelta, protratta per altro per cinque lunghi anni?, si chiede la Giorgi, citando l’intervista della Argento a un giornale americano in cui l’attrice e regista spiegava come, dopo le molestie subite dal producer americano oggi accusato da decine di donne, fosse diventata quasi amica di Weinstein. Cosa vuole dunque Asia Argento? (…) Forse semplicemente che si parli di lei. Parola di Eleonora Giorgi, che in un post su Facebook (visibile solo agli amici ma screenshottato da qualcuno) parte da una considerazione di carattere generale per poi colpire la Argento. Per Eleonora Giorgi, alcuni uomini hanno una vera ossessione nei confronti del sesso, in alcuni casi arrivando a molestare anche delle bimbe. In alcuni casi, però, ci sono donne che accondiscendono, un comportamento assimilabile al meretricio. Perché quindi stupirsi di Weinstein, che ha sempre ripagato in maniera sonante l’oggetto delle sue, talvolta violente e sempre disgustose, attenzioni: ragazze desiderose – per la Giorgi – di ottenere un ruolo importante nel mondo dello spettacolo?. Segue la domanda diretta ad Asia Argento, che per la Giorgi è solo in cerca di pubblicità. In Italia, dove il cinema è finanziato con denaro pubblico, e anche se non si esclude che ci siano produttori molesti, per l’attrice molte carriere sono cominciate (e magari continuano tuttora) con prestazioni a politici e loro incaricati. La Giorgi racconta di come anche lei sia stata molestata, non tanto con prestazioni private, ma con una ‘prestazione’ che era compresa nei suoi personaggi, ninfette e lolite che si spogliavano con facilità. La rampogna della Giorgi si chiude con un appello alle colleghe ad avere un minimo di dignità, e ad indignarsi per altri tipi di ricatti e molestie, come capi del personale nei posti di lavoro, primari e professori nel mondo della sanità e nel mondo degli avvocati. Ah – conclude la Giorgi – che afflizione il desiderio sessuale in alcuni uomini. Ah, che deprecabili donne quelle che ne approfittano.

Flavia Vento sul caso Weinstein: “Anche io l’ho conosciuto ma…”, scrive "Blitz Quotidiano" il 20 ottobre 2017.  Flavia Vento ha deciso, via Twitter, di dire la sua sullo scandalo-Weinstein. La soubrette ha confessato di aver anche lei incontrato produttore: “Ho conosciuto Harvey Westein (sbagliando il cognome) a New York nel ’99 con me non ci ha mai provato. Siamo andati anche al cinema a vedere stars wars! (sbagliando, anche qui, questa volta il nome del film)”. Il tweet ha però scatenato l’ilarità dei fan che hanno iniziato a prendere in giro la Vento a causa dei refusi. Qualcuno scrive: “Ce credo Flavié, se chiama Weinstein, hai sbagliato persona!”.

Antonella Clerici, il tweet su Harvey Weinstein scatena la bufera. La presentatrice de "La prova del cuoco" nell'occhio del ciclone per una frase che ha scritto sui social: "I maiali ci sono sempre stati", scrive "Di Lei" il 19 Ottobre 2017. Antonella Clerici è finita nell’occhio del ciclone per un tweet in cui, senza citarlo, esprime la sua opinione sul caso Harvey Weinstein, il potentissimo produttore hollywoodiano travolto dal più grande scandalo sessuale della storia del cinema. La presentatrice cinguetta così: Si può sempre dire No. Anche questa è una scelta, scorciatoie e maiali ci sono sempre stati. La frase, che per altro ha ricevuto migliaia di “like”, ha suscitato l’indignazione di molti follower che l’hanno interpretata come una giustificazione degli abusi e delle violenze perpetrate dal produttore. I commenti sono molto duri: “Si può sempre dire No. SEMPRE? Imbarazzante che una donna faccia un’affermazione così generica e superficiale”. E ancora: “E i maiali non ci devono essere per forza. Proposte del genere non devono essere proprio.” È evidente che la Clerici non ha alcuna intenzione di difendere o accettare i ricatti sessuali, ma è ferma nel difendere la sua posizione per cui le donne non devono sottostare a bieche proposte e imparare a dire di no, anche se questo può essere controproducente per la carriera: Si cambia strada, si manda affanculo, si denuncia subito, si rinuncia a fare un film, parliamo di un ambiente di privilegi. Nonostante i tentativi di chiarimento, la bufera in Rete non accenna a diminuire e la presentatrice, sconfortata, decide che sui social è meglio “parlare di tortellini”. È indubbio che lo scandalo Weinstein ha svelato il lato oscuro del dorato mondo dello spettacolo. Meglio tardi che mai. Diversi vip italiani sono tornati sulla vicenda Weinstein, da Elisabetta Gregoraci a Fabio Testi e Asia Argento. Solo per citarne alcuni.

Rossella Brescia, la frase da applausi che asfalta Asia Argento: "O sono cessa io oppure...", scrive il 20 Ottobre 2017 Brunella Bolloli su “Libero Quotidiano”. Asia Argento forse, non è ancora sicuro, lascerà l'Italia crudele che non l'ha difesa abbastanza sul caso Weinstein. Nel frattempo blocca il profilo social di chi sulla vicenda osa pensare in modo diverso da lei. Come Rossella Brescia. La ballerina e attuale conduttrice radiofonica di Rds ha usato l'hashtag (#quellavoltache), ora tanto di moda tra le ragazze che vogliono denunciare violenze sessuali o molestie, e il suo post in mezza giornata è diventato virale. «Allora, vediamo: #quellavoltache mi hanno dato appuntamento in ufficio dopo le 20... col cacchio che mi sono presentata». E #quellavoltache un regista che non conoscevo mi voleva incontrare al ristorante, ma solo noi due di sera per parlare di lavoro. Sì, come no che ci vengo...». Magari la Brescia si è un po' lasciata prendere la mano all' inizio del messaggio, criticatissimo su Twitter («...comunque le cose sono due: o sono cessa io, oppure c' è qualcosa che non mi torna...»). Infatti lei stessa, sentita da Libero, giura che mai avrebbe voluto andare contro le donne, o scrivere qualcosa che potesse offenderne qualcuna. «Asia, poi, non l'ho neppure nominata, e invece lei mi ha bloccata». In fin dei conti, l'ex prima ballerina di Amici, con un corpo mozzafiato e uno stacco di coscia da urlo, cessa non è di sicuro: difficile credere che nessuno ci abbia provato con lei, soprattutto agli inizi della carriera in tv, quando ti offrono la luna se sei disposta a vedere la collezione di farfalle. «Ma sì, è successo di aver ricevuto delle proposte, ma ho fiutato cosa c'era dietro e non le ho accettate», spiega. «Per il resto mi dispiace molto, io volevo solo fare una battuta», si è scusata, e invece le si sono scatenati contro gli "odiatori" del web, tutti fan della Argento. «Ci sono rimasta male», ammette Rossella. «Non sono contro le donne, ho fatto spettacoli a teatro in sostegno del genere femminile, lavoro con "Save the Children donne" e con l'associazione "We World" che aiuta milioni di donne vittime di violenza in Italia. Le mie parole sono state strumentalizzate». Il corteggiamento spinto che sfocia nella molestia non distingue tra bellezze da copertina o bruttine (cesse). Per Rossella Brescia è una questione di intuito. Bisogna «fiutare il marcio» per non rischiare di incapparci, perché di Harvey Weinstein, cioè di laidi e sporcaccioni, è piena anche l'Italia, non solo Hollywood. «Come mai io non mi sono mai trovata nella stessa situazione» di Asia e delle altre che ora gridano indignate e riempiono Twitter di particolari agghiaccianti che riemergono da un passato lontanissimo? Eppure faccio questo mestiere da anni, insiste, ma quando mi succede di captare qualcosa di negativo, sfodero il mio sorriso migliore e volto le spalle. Dico sempre a me stessa: siamo talmente tanti nel mondo, non c' è mica solo Weistein». La risposta della Argento è stata lapidaria: «Brava, sei meglio tu». E con la figlia del re dell'horror scende in campo la politica: dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, al capogruppo di Mpd, Roberto Speranza: «Le istituzioni non fanno ancora abbastanza», bacchetta. Weinstein, intanto, è stato espulso anche dal British Film Institute, del quale era membro. E a "Un giorno da pecora" Pupi Avati racconta di quella volta che, a un provino, una mamma aveva lasciato intendere che la figlia minorenne era disponibile pur di avere la parte... Brunella Bolloli

Asia Argento e Weinstein, la verità di Rocco Siffredi: "Vi dico perché parla solo ora, dopo 20 anni. Forse...", scrive il 21 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Perché Asia Argento ha parlato delle molestie sessuali subite da Weinstein solo ora, dopo 20 anni? Ho un sospetto...". Intervistato dalla Zanzara su Radio24, Rocco Siffredi si è schierato con Libero smitizzando la figura dell'attrice e figlia d'arte come "vittima" del produttore più potente di Hollywood, travolto dallo scandalo di abusi che hanno coinvolto una cinquantina di attrici di ogni nazionalità. "Funziona da mille anni che chi fa il cinema tradizionale è abituato a fare questo. Vi potrei fare mille altri nomi di persone che hanno fatto casting hard per fare una parte in cui devono recitare, parlare. Mi fa schifo voler fare vittimismo dopo vent'anni - è la replica del più famoso pornodivo del mondo -. Perché parlare le violenze sulle donne che non c'entra un cazzo, è una strumentalizzazione. Sei tu che hai deciso di farlo per ottenere una parte. Ma di che parliamo…". "Basta con le stronzate di una ragazza maggiorenne con un'esperienza di vita, la madre attrice, il papà regista famoso, conosce il set, che ha avuto paura e si è messa paura di fronte al produttore di Hollywood - conclude il ragionamento Siffredi -. E non una sola volta, ma più volte. È recidiva la signorina. Forse c'è un processo penale, e forse c'è l’idea di farsi pagare, incassare dei soldi. Sei stata tu a decidere di farlo per essere sicura di avere una parte". "Non puoi decidere di scopare con un maiale e poi farla pesare agli italiani, che giustamente dicono: Ti è piaciuto fare l'attrice in quel film, allora va bene così". 

Siffredi: "Le molestie? Purtroppo se vuoi lavorare la devi dare". E attacca la Argento. Rocco Siffredi non le manda a dire: "Le molestie? Tutti hanno sempre saputo, ma così si offende chi è stata stuprata davvero". E sulla Argento: "Ha fatto quello che ha fatto per perversione personale", scrive Chiara Sarra, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". "Tutti sanno, tutti hanno sempre saputo: oggi, purtroppo, se vuoi lavorare nel mondo dello spettacolo a qualcuno la devi dare, prima, dopo o durante". Parola di Rocco Siffredi che commenta così, in un'intervista a Libero, lo scandalo molestie scoppiato nelle scorse settimane sul mondo del cinema mondiale e italiano. "Tutti ci provano. A un regista tante la sbattono in faccia", spiega il pornodivo, raccontando il caso di un'amica pugliese "Mi ha detto: per fare questo libro ho fatto un pompino all'editore. E' un editore importante, ne avevo bisogno. Purtroppo è così. Le violenze sono un'altra storia. Qui parliamo di una normale compravendita. Ogni donna, anche mia moglie, potenzialmente è una prostituta. La prostituzione non è solo quella legata ai soldi e al sesso. C' è anche una prostituzione morale: fare cose controvoglia per ottenere vantaggi. Lo fanno tutti, molti ci stanno male". Secondo Siffredi, infatti, prima o poi tutte quelle che hanno a che fare col mondo dello spettacolo si sono trovate di fronte a una situazione simile a quella descritta dalle dieci attrici che accusano Fausto Brizzi - anche se, precisa, "certe sono furbe e fanno finta di dartela" -. Che non difende: "Si è preso le sue responsabilità", spiega. Ma aggiunge: "Il mondo è pieno di Brizzi. Tutti ci provano e molte ci stanno ma ci piace vivere nell'idea che non sia così. Colpiscono Brizzi per non colpire i più potenti. Mi dà fastidio che questa onda debba arrivare dall' America di cui adesso stiamo assorbendo la mentalità bigotta". E su Tornatore: "Magari ci avrà pure provato, ma lo sputtani perché ti ha toccato un seno?". Se la prende invece con Asia Argento: "Fa la paladina di sto cazzo quando per la carriera ha fatto quello che ha fatto per perversione personale", dice, "Con Weinstein ha girato quattro film ma non è riuscita a sfondare. Tante l'hanno data e non hanno ricevuto nulla quindi adesso parlano. Le uniche donne per cui penso poveracce sono quelle che per fare mangiare i figli fanno le web cam porno di nascosto. Ne conosco molte. Le campagne contro la violenza sulle donne sono fondamentali. È una mancanza di sensibilità per chi è stata veramente stuprata parlare di violenza in alcuni casi". Del resto anche lui è stato accusato di molestie dalla giornalista francese, Cécile de Ménibus. "Eravano in tv", racconta Siffredi, "Il suo mentore, il Chiambretti di Francia, dice: Rocco, facci vedere le posizioni. Io le ho mimate, lei rideva. Poteva pure dire Non ti permettere. Dopo 15 anni lei scrive un articolo in cui accusa tutti di molestie. C'ero pure io. Meno male che ha scritto che tutto era avvenuto durante il programma: i video dimostrano il contrario. Pensi se avesse detto che era avvenuto in camerino. Ora qualcuno penserebbe che io sia un molestatore".

Morgan nuove bordate contro Asia Argento: “Ha parlato tardi, non è un buon modello di madre”. La replica… è al veleno, scrive il 14 novembre 2017 "Oggi". Botta e risposta tra gli ex sul caso Weinstein. Il cantante si chiede perché tutte le denunce siano arrivate quasi ora e attacca l’ex moglie, che replica su Twitter. Morgan torna a sparare ad alzo zero contro la sua ex Asia Argento. Complice il caso Harvey Weinstein e le molestie sessuali denunciate dalla stessa Argento da parte del produttore Usa. E la risposta della figlia di Dario non si fa attendere.

IL CASO - Asia Argento è stata tra le prime a denunciare, a mezzo stampa, le molestie del produttore americano, che sarebbero avvenute diversi anni fa. Successivamente Weinstein è stato travolto dalle accuse di numerose altre attrici, accuse quasi sempre portate su episodi datati di anni.

L’INTERVISTA - Sulla vicenda interviene ora Morgan che, intervistato da Il Mattino, dice: “Ma perché Asia e altre persone hanno denunciato le molestie solo adesso? Perché non l’hanno fatto prima, quando Harvey Weinstein era uno degli uomini più potenti del mondo? Improvvisamente ha passato dei guai e ora tutti gli si sono piombati addosso come avvoltoi. Adesso mi viene quasi da provare pietà per lui”.

LO SAPEVO, MA… – Morgan dice che all’epoca Asia le aveva parlato di quanto avvenuto col produttore “anche se trovo esagerato parlare di violenza”. E aggiunge: “Non lo so, ma le persone che subiscono violenze non ottengono guadagni da questo, come un posto di lavoro, hanno solo da perdere. Non ho il livello per parlarne, ma le bimbe violentate perdono la loro essenza di vita. Quella invece è una scelta, non bisogna confondere con la violenza che è abominevole ed è uno degli atti peggiori che un essere umano possa commettere. In questo caso non mi sembra di doverla mettere in questi termini”.

NON UN BUON MODELLO- Ma il cantante non si ferma qui. E attacca l’ex in maniera molto dura: “Vorrei mantenere una certa eleganza, ma dico che non la denuncerò al tribunale dei minori dicendo che le porterò via la figlia perché una madre del genere non è tanto un buon modello”.

LA REPLICA DI ASIA- La replica dell’attrice non si fa però attendere. È breve, ma molto tagliente. E arriva su Twitter, in cui chiama l’ex col nome di battesimo: “Marco Castoldi, padre di mia figlia, non paga il suo mantenimento dal 2010. Gli pignoreranno la casa. Non mi sembra una fonte attendibile”. Edoardo Montolli frontedelblog.it

Asia Argento, anche la moglie di Rocco Siffredi la demolisce: "Weinstein? Pene in bocca e poi...", scrive il 20 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Non è solo Rocco Siffredi a criticare Asia Argento sullo scandalo Weinstein e le molestie sessuali subite dall'attrice italiana da parte del mega-produttore di Hollywood. Intervistato da La Zanzara su Radio24, il pornostar, oltre a difendere Libero, ha spiegato perché Asia è vittima ma solo in parte. "Di Weinstein è pieno il mondo del cinema e non solo. E ora arrivano queste poverine che dicono di aver sofferto… Poverine cosa? Poverine ‘sto cazzo. Quando decidi di non andarci, di mollare e andare via, il potere finisce. È solo un interscambio, punto. Mica ha deciso di trattenere a forza le persone, bloccarle in una camera. Sei in un grande hotel a cinque stelle, trattata come una super star e non hai il coraggio di dire: Brutto stronzo il tuo film te lo metti nel culo e non lo faccio!!". E qui a supporto della tesi di Rocco arriva lo sfogo di Rosza Caracciolo Tassi, la moglie di Siffredi. "Mia moglie mi ha detto – rivela Rocco - che al posto di Asia a Weinstein avrebbe staccato l'uccello a morsi con la bocca e glielo avrebbe sputato in faccia. Ma basta con le stronzate di una ragazza maggiorenne con un'esperienza di vita, la madre attrice, il papà regista famosa, conosce il set, che ha avuto paura e si è messa paura di fronte al produttore di Hollywood. E non una sola volta, ma più volte. È recidiva la signorina. Forse c'è un processo penale, e forse c'è l’idea di farsi pagare, incassare dei soldi. Sei stata tu a decidere di farlo per essere sicura di avere una parte". 

Naike Rivelli porno-sculacciata ad Asia Argento: la umilia con una clip a luci rosse, scrive il 18 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Quando sei figlia di una donna che è una attrice vera, che ha avuto l'integrità e l'autostima di starne fuori e allontanarsi dal mondo della Calippocrazia...". Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, con un video pubblicato sul suo profilo Instagram, attacca Asia Argento e tutte quelle attrici che hanno ceduto alle avances di registi e produttori per fare carriera: "Grazie mamma Ornella per averci insegnato a tenere la testa alta e la bocca chiusa! La schiena dritta e le gambe incrociate. Grazie di averci insegnato a dire No piuttosto che...".

Playboy, la dignità delle donne calpestata dall’impero Hefner. La rivista «Playboy» con le sue 7 milioni di copie (da ultimo ridotte a 3 per l’avvento della rete di più facile ed economico accesso), non solo ha partecipato alla regressione sessuale maschile, ma ha sistematicamente offeso le giovani donne, scrive Dacia Maraini il 9 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". Oggi l’attualità, che corre come un coniglio inseguito dalla volpe, vorrebbe che parlassi della guerra fratricida in Spagna, o della Brexit che sta sconvolgendo la Gran Bretagna, o per quanto riguarda la cronaca nera, delle tantissime donne che vengono stuprate e uccise dai loro mariti, fidanzati, conviventi «per troppo amore». Ma, proprio a questo proposito vorrei parlare, anche se un poco in ritardo, di Hugh Hefner e della sua rivista Playboy che ha partecipato a costruire una cultura del consumo sessuale voyeuristico, e della reificazione del corpo femminile. La rivista Playboy con le sue 7 milioni di copie (da ultimo ridotte a 3 milioni per l’avvento della rete di più facile ed economico accesso), non solo ha partecipato alla regressione sessuale maschile, ma ha sistematicamente offeso la dignità delle giovani donne riducendole, anche se solo simbolicamente, ad animaletti domestici alla mercé di un padrone sessuale occhiuto e sprezzante. Tempo fa ho conosciuto a Los Angeles una ragazza che per guadagnare aveva fatto la coniglietta per due anni. Mi raccontava che la costringevano a portare tacchi altissimi che le provocavano piaghe ai piedi, la obbligavano a imbottirsi di cotone il reggipetto per mostrare un seno abbondante, le imponevano di stamparsi addosso un sorriso bambinesco e provocante che doveva mantenere anche quando veniva trattata come una serva. La paga era buona, ma sempre scarsa, a suo dire, per la fatica che faceva, costretta a stare in piedi fino all’alba per accontentare il voyeurismo dei clienti. Chiamare tutto questo una «sfida al puritanesimo», una «rivoluzione sessuale», una «liberazione erotica della società americana», mi sembra veramente ridicolo. L’impero Hefner aveva semplicemente e genialmente inventato la mercificazione di massa di un sesso da onanisti. Infatti, anche nei popolarissimi sexy-club le conigliette non dovevano accoppiarsi coi clienti ma dovevano eccitarli per lasciare che poi andassero a compiere i loro doveri coniugali con la testa piena di immagini di ragazze bellissime e affascinanti che si potevano solo sognare. Guardare ma non toccare. Guardare, vagheggiare e prepararsi all’assalto nei riguardi di prede più facili ed economiche. Se questo si definisce «liberazione sessuale», stiamo freschi.

Iva Zanicchi, Barbara D’Urso e le altre che posarono per Playboy, scrive Igor Ruggeri il 7 ottobre 2017 su GENTE. Hugh Hefner, scomparso il 27 settembre a 91 anni, nel 2010 con le ballerine del Crazy Horse, tempio parigino del nudo, in tour in Nevada. All’epoca il fondatore di Playboy (creato a Chicago nel 1953) aveva 84 anni, ma non rinunciava a circondarsi di belle donne. Si vantava di averne possedute migliaia.

LA PRIMA FU MARILYN: UN INIZIO COL BOTTO. Hefner con la copertina del primo numero di Playboy dedicata a Marilyn, ritratta senza veli nelle pagine interne. La giovane attrice in ascesa divenne l’icona più sexy di Hollywood e la rivista ebbe un grande successo. Negli anni d’oro vendeva oltre cinque milioni di copie negli Stati Uniti. Furono aperte edizioni di Playboy in molti Paesi e la coniglietta, logo della rivista, si affermò come marchio internazionale. Hefner ha voluto essere sepolto a Los Angeles accanto alla Monroe, sua prima musa. «Voglio giacere con Marilyn in eterno», spiegava.

La fine di un’era. Sono tutti d’accordo nel definire così la morte (“per cause naturali”, precisa la sua casa editrice) di Hugh Hefner, 91 anni, fondatore e storico direttore di Playboy, che dagli anni Cinquanta in poi ha cambiato la percezione dell’erotismo e i costumi sessuali dell’Occidente. Ma il bilancio di questa era che tramonta è positivo, specie per le donne? Qui le opinioni divergono, perfino tra le molte celebrità che hanno posato nude per Hefner, in America e altrove. Pamela Anderson su Instagram applaude “l’uomo che ha reso il mondo più libero e più sexy”. Kim Kardashian scrive su Twitter di sentirsi “onorata di aver fatto parte del team di Playboy”. Amanda Lear invece dichiara: «Hefner non mi è mai interessato, specie negli ultimi anni. Era un vecchietto ridicolo in pigiama e vestaglia, circondato da ragazze giovanissime nude o semi-nude, le sue conigliette, un’immagine terrificante a cui non credeva nessuno. O forse no: l’unico a crederci era lui». Fin dagli inizi Hugh si identifica talmente con la sua creatura da vivere secondo quei canoni e diventarne il testimonial.

Fonda Playboy a Chicago nel 1953, raccogliendo soldi tra gli amici e impegnando i mobili di casa. La formula rivoluzionaria nell’America puritana del tempo è presentare in copertina una bellezza mozzafiato e poi svestirla in patinati servizi nelle pagine interne. Ci sono anche articoli su temi di attualità, affidati a grandi giornalisti e scrittori. La partenza è vincente: il primo numero ritrae Marilyn Monroe, giovane attrice in ascesa, che viene così consacrata per sempre come l’icona sexy di Hollywood. La rivista di Hefner vietata ai minori spicca il volo, malgrado lo scandalo, e diventa un prodotto di culto per larga parte del pubblico maschile. Vende valanghe di copie (il record è 5,6 milioni nel 1975), apre edizioni.

«ATTRICI, CANTANTI, TUTTE VOLEVANO FINIRE SU “PLAYBOY”. ORA SI PRESENTANO NUDE SUL RED CARPET...», DICE AMANDA LEAR. in molti Paesi. Il logo della coniglietta, ricalcato sulle modelle procaci di Playboy, è ormai un marchio internazionale. Hugh si circonda di bellezze uscite dalle pagine del suo giornale. Le invita nella Playboy Mansion, sua lussuosa dimora a Los Angeles, dove organizza feste sontuose. Le ama in quantità industriale (si vantava di averne possedute migliaia), convive con sette di loro alla volta e due le sposa perfino. Dalla prima divorzia nel 2010 e ora ha lasciato vedova Crystal Harris, 31 anni. Pare che le pagasse uno stipendio mensile e che non l’abbia nominata affatto nel testamento. Eterno Peter Pan dell’eros, Hugh fino alla fine è stato fedele al suo motto: «La vita è troppo breve per vivere il sogno di qualcun altro».

Criticato da molte femministe («Vestiti tu da coniglietto», l’invitò la scrittrice Susan Brownmiller), Hefner sapeva di dovere tutto alle donne. Ed è sorprendente quante di loro si sono spogliate per lui. Anche solo in Italia, la lista è lunga: accanto a dive della commedia sexy come Barbara Bouchet, Gloria Guida, Edwige Fenech, ci sono figure meno prevedibili come Loret- ta Goggi, Ornella Muti, Valeria Marini, Patty Pravo, Loredana Bertè, Ornella Vanoni, Paola Pitagora (interprete di Lucia ne I promessi sposi della Rai) e perfino Alessandra Mussolini. Iva Zanicchi ricorda: «A 40 anni forse volevo dimostrare di essere ancora in forma. Non lo rifarei. Non l’ho mai raccontato a mio padre». Enrica Bonaccorti ha spiegato: «Avevo 26 anni, una figlia di 2 che tiravo su da sola e bisogno di soldi. Ero imbarazzata, inconsapevole di essere così carina». Alba Parietti dice di essere finita su Playboy suo malgrado: «Usarono quelle foto a mia insaputa. Non mi piaceva il contesto, a uso e consumo del maschio. Il termine coniglietta mi dà ai nervi. Sono orgogliosa, invece, di aver posato nuda per Helmut Newton». È di parere opposto Lory Del Santo: «Playboy era garanzia di foto artistiche. Hefner è stato il promotore di una nuova visione dell’eros. Credo che la libertà sessuale delle donne passi anche dal di- ritto di usare il proprio corpo a fini commerciali». Amanda Lear, molto critica su Hefner, riconosce: «Attrici, cantanti, tutte volevano finire sulla sua rivista. Ora per vendere dischi si presentano nude sul tappeto rosso dei festival... Playboy ha perso il suo spirito. C’è Internet, ci sono i cellulari e altri modi per vedere una donna nuda». In effetti la rivista è in crisi e aveva perfino rinunciato al nudo integrale per fronteggiare la concorrenza del Web. Poi ci ha ri- pensato. Anche Barbara D’Urso ha posato per Hefner e ha voluto ricordarlo a Pome riggio Cinque. «È stata un’esperienza positiva, senza alcun risvolto volgare. Mi resta un bel ricordo che mi porto dentro». Adesso Hugh riposa in un loculo acquistato molti anni fa accanto a quello della Monroe, la sua prima musa, nel cimitero di Westwood a Los Angeles. Chiedeva infatti, incorreggibile: «Chi non vorrebbe giacere con Marilyn per l’eternità?».

Playboy. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Playboy (o Playboy Magazine) è una celebre rivista erotica rivolta al pubblico maschile, fondata nel 1953 a Chicago da Hugh Hefner e diffusa in tutto il mondo, sia nella versione originale sia in edizioni locali. La rivista esce mensilmente e propone servizi fotografici di nudo femminile insieme ad articoli di costume, moda, sport, politica, interviste a personaggi illustri di ogni settore, nonché contributi letterari di autori famosi (per esempio Arthur C. Clarke o Stephen King). La linea editoriale adottata negli articoli dedicati alla politica e alla società è in genere considerata di taglio piuttosto liberal.

Cenni storici. Nel 1954 nasce la Playmate, in seguito nota in Italia anche come Coniglietta. Un anno dopo, nel luglio del 1955, nel pieghevole appare Janet Pilgrim, una delle sue segretarie che accetta di posare nuda. Hugh ha trasformato la sua amante nella coniglietta del mese: la distanza tra lavoro e sesso, pubblico e privato, è minima. Pilgrim è il primo modello delle future famose-sconosciute dell'era tv dei decenni successivi e quindi teorizzate da Warhol con la sua frase sul quarto d'ora di celebrità, che spetterebbe a chiunque. Inoltre Hefner fa entrare la vita privata nel processo produttivo rendendo pubblica la sua vita privata trasformando la segretaria e amante in "ragazza del mese". Playboy fu la prima rivista esplicitamente dedicata alla fotografia erotica, ed ebbe (anche grazie alla figura carismatica di Hefner) un ruolo non irrilevante nel movimento noto come rivoluzione sessuale. Il genere di fotografia di nudo proposta da Playboy viene definita softcore, contrapposto alla pornografia hardcore introdotta inizialmente da Penthouse e poi sviluppatasi, a partire dagli anni settanta, nell'enorme mercato dell'editoria pornografica. Tra le altre caratteristiche di Playboy destinate a fare la storia delle pubblicazioni soft o hardcore vi fu l'uso del "paginone centrale" (espressione poi entrata nell'uso comune) dedicato interamente alla riproduzione di una singola fotografia, in grande formato. Le modelle a cui vengono dedicati i paginoni centrali della rivista vengono dette playmate (letteralmente: "compagne di giochi", ma in italiano "conigliette"). Il primo numero di Playboy fu pubblicato nel dicembre del 1953 e venduto a 50 centesimi di dollaro. Vi compariva l'allora esordiente Marilyn Monroe, a cui fu dedicato il primo "paginone centrale", in una foto scattata per pubblicazioni precedenti da Tom Kelley, e comprata a modico prezzo da Hefner da una casa editrice di calendari e poster di pin-up. La rivista, uscita senza indicazione di data nel caso che non venisse pubblicato un secondo numero, vendette l'intera tiratura di 53.991 copie. Una copia del primo numero in condizioni perfette è un pezzo da collezione quotato nel 2002 attorno ai 5.000$. Il logo della rivista fu disegnato da Art Paul e comparve per la prima volta nel secondo numero. Hefner dichiarò di aver scelto l'immagine di un coniglio con lo scopo di alludere in modo giocoso a un certo tipo di atteggiamento sessuale. Dal 1955 al 1979 (con l'eccezione di un intervallo di sei mesi nel 1976), la "P" di "Playboy" apparve decorata con un certo numero di stelline, variabile da 0 a 12. Ne nacque una leggenda metropolitana secondo cui il numero di stelle indicava una sorta di giudizio di Hefner sulla playmate del mese (sulla sua avvenenza o sulle sue prestazioni sessuali) o altre valutazioni di questo tipo. Questa leggenda risultò essere infondata; il numero delle stelle aveva a che vedere con i contenuti pubblicitari nazionali o internazionali di una particolare edizione. I contenuti di Playboy non sono limitati al nudo, ma spaziano tra l'intrattenimento colto (già nel primo numero vi erano articoli sul jazz, sul Decameron e brani di Sherlock Holmes) e il design. Nel tempo Hefner ha realizzato per mezzo delle pagine del suo periodico, ma anche mediante le foto della sua casa, e poi dei Playboy Club, la teatralizzazione dello spazio domestico. Playboy, con il relativo impero commerciale che gli si stava affiancando, ebbe il suo momento di maggior successo negli anni sessanta e settanta. Nel 1969 la più esplicita rivista Penthouse arrivò negli Stati Uniti. La rivalità fra le due riviste portò entrambe a pubblicare immagini di nudo sempre più integrale per aumentare le rispettive quote di mercato e fu definita da Hugh Hefner col nome scherzoso di guerre pubiche. L'avvento di pubblicazioni concorrenti come Penthouse e in seguito di riviste pornografiche in senso stretto (a cui si affiancarono negli anni ottanta i prodotti porno per l'home video) e di riviste dedicate al pubblico maschile dai contenuti più soft (come le europee Maxim, Max e FHM), intaccarono in modo significativo la sua posizione sul mercato. Per contrastare questa competizione, Playboy ha agito principalmente modificando anche il proprio target, e configurandosi in modo sempre più netto come una rivista "di lusso" per uomini adulti di un certo livello culturale e sociale. Christie Hefner, figlia di Hugh Hefner, divenne CEO di Playboy nel 1988: l'incarico è terminato nel 2009. La rivista ha celebrato nel gennaio 2004 il suo cinquantesimo anniversario, con grandi feste a Las Vegas, Los Angeles, New York e Mosca. Playboy è anche una delle riviste più diffuse al mondo, con circa trenta edizioni pubblicate in ogni parte del mondo, dal Brasile al Giappone, dalla Lituania alle Filippine, dalla Francia all'Argentina. L'edizione italiana, la cui pubblicazione iniziò nel 1972, dopo alterne vicende, è scomparsa nel 2003 per poi tornare in vendita nel 2008 (direttore Gian Maria Madella). Nel marzo 2016, i diritti della rivista vengono venduti, per una cifra intorno ai 500 milioni di dollari, ad Hammy Media Ltd., già proprietario di uno dei siti pornografici più popolari del web, xhamster.com.

Le interviste. Una rubrica di Playboy di particolare importanza sono le interviste mensili a personaggi celebri, divenute famose per il loro livello di approfondimento. Il testo dell'intervista viene estrapolato da confronti che possono durare oltre 10 ore. Fra gli intervistatori più noti che hanno lavorato per Playboy ci sono Alex Haley e Alvin Toffler. La rubrica Playboy Interview ebbe inizio nel settembre 1962 (volume 9, numero 9) con Miles Davis. Fra le tante celebrità intervistate nel corso degli anni da Playboy compaiono Jimmy Carter, John Lennon, Fidel Castro, Ayn Rand, Vladimir Nabokov, Gabriel García Márquez, Allen Ginsberg, Malcolm X, George Lincoln Rockwell, Kurt Vonnegut, Bertrand Russell, Salvador Dalí, Martin Luther King Jr., Jean-Paul Sartre, George Wallace, Cassius Clay, Madalyn Murray O'Hair, Orson Welles, Ralph Nader, Arthur C. Clarke, Yasser Arafat, Steve Jobs, Stephen Hawking, Larry Ellison, Shintaro Ishihara, Robert De Niro, Carl Sagan e Barbra Streisand.

Divieti di vendita di Playboy. Molte persone nella comunità religiosa americana erano contrari alla pubblicazione di Playboy. Il pastore della Louisiana Ll Cover ha scritto nel suo libro "spiriti maligni, intellettualismo e logica" che Playboy ha incoraggiato i giovani a vedere se stessi come individui per cui il sesso è divertente e le donne sono la cosa con cui giocare.

In molte parti dell'Asia, tra cui India, Cina, Birmania, Malesia, Thailandia, Singapore e Brunei, la vendita e la distribuzione di Playboy è vietata. Inoltre, la vendita e la distribuzione è vietata anche in molti paesi mediorientali (ad eccezione del Libano e della Turchia), in Asia e in Africa, tra cui l'Iran, l'Arabia Saudita e Pakistan. Nonostante il divieto della rivista in questi paesi, il marchio stesso può ancora apparire in varie mercanzie, come profumi e deodoranti.

In Giappone, dove non possono essere mostrati i genitali delle modelle esiste un'edizione separata, pubblicata sotto licenza da Shueisha.

Un'edizione indonesiana è stata lanciata nel mese di aprile 2006, ma la polemica è iniziata prima che venisse lanciato il primo numero. Anche se l'editore ha affermato che il contenuto dell'edizione indonesiana sarà diverso dall'edizione originale, il governo ha cercato di vietare lo stesso l'uscita della rivista utilizzando le regole anti-pornografia. Una organizzazione musulmana indonesiana, l'Islamic Defenders Front (IDF), si è opposta a Playboy per motivi di pornografia. Il 12 aprile 2006, circa 150 membri del Fronte dei Difensori Islamici si scontrarono con la polizia e lanciarono pietre contro la redazione. Ciononostante, la prima edizione andò rapidamente esaurita. Il 6 aprile 2007, il giudice supremo respinse le accuse, a causa di un vizio di forma nel deposito degli gli atti.

Nel 1986, la catena americana 7-Eleven ha rimosso la rivista dai propri punti vendita. Il negozio ha venduto Playboy fino a fine 2003. 7-Eleven aveva anche la vendita di Penthouse e altre riviste simili.

Nel 1995 Playboy è ritornato ad essere pubblicato nella Repubblica d'Irlanda, dopo un divieto di 36 anni, nonostante la ferma opposizione di molti gruppi di donne.

Playboy non è stato venduto nello Stato del Queensland, in Australia durante il 2004 e il 2005, ma tornò a partire dal 2006. A causa della flessione delle vendite, l'ultima edizione di Playboy in Australia è stata quella del gennaio 2000.

Il numero più venduto dell'intera serie mondiale di Playboy fu quello del novembre 1972 dell'edizione USA, con 7.161.561 copie vendute. La copertina fu realizzata da Jack Niland secondo i principi della Dharma Art insegnati dal maestro di meditazione tibetano Chogyam Trungpa Rinpoche. Una porzione del paginone centrale di questo numero (dedicato alla playmate Lena Sjööblom) divenne un'immagine standard per il collaudo degli algoritmi di elaborazione digitale delle immagini; l'immagine è nota nel settore col nomignolo di Lenna (o Lena).

Le Playmate.

Numerose celebrità hanno posato negli anni per Playboy; fra le altre:

Cinema: Marilyn Monroe (dicembre 1953), Paola Tedesco, Anita Ekberg, Mara Corday (ottobre 1958), Dorothy Stratten (giugno 1980), Debra Feuer (novembre 1986), Drew Barrymore (gennaio 1995), Charlize Theron (maggio 1999), Carré Otis (giugno 2000), Kristy Swanson (novembre 2002), Daryl Hannah (novembre 2003), Denise Richards (dicembre 2004), Bai Ling (giugno 2005).

Musica: Amanda Lear (1978), Iva Zanicchi (gennaio 1979), Loretta Goggi (luglio 1979), Madonna (giugno 1988), LaToya Jackson (marzo 1989 e novembre 1991), Nancy Sinatra (maggio 1995), Linda Brava (aprile 1998), Geri Halliwell (maggio 1998), Carmen Electra (maggio 1996, dicembre 2000, aprile 2003, gennaio 2009), Belinda Carlisle (agosto 2001), Tiffany (aprile 2002), Carnie Wilson (agosto 2003), Debbie Gibson (marzo 2005), Willa Ford (marzo 2006), Dolcenera (settembre 2011), Playboy Italia.

Sport: Katarina Witt (dicembre 1998), Tanja Szewczenko (aprile 1999 edizione tedesca), Mia Saint John (novembre 1999), Joanie Laurer (novembre 2000 e gennaio 2002), Gabrielle Reece (gennaio 2001), Amy Hayes (marzo 2002), Kiana Tom (maggio 2002), Torrie Wilson (maggio 2003 e marzo 2004), Rena Lesnar (aprile e settembre 1999, marzo 2004), Christy Hemme (aprile 2005), Candice Michelle (aprile 2006), Ashley Massaro (aprile 2007), Maria Kanellis (aprile 2008), Traci Brooks (settembre 2009).

Televisione: Linda Evans (luglio 1971), Claudia Christian (ottobre 1999), Charisma Carpenter (giugno 2004), Shannen Doherty (marzo 1994 e dicembre 2003), Farrah Fawcett (dicembre 1995 e luglio 1997), Attrici di Baywatch (giugno 1998), Shari Belafonte (settembre 2000), Brooke Burke (maggio 2001 e novembre 2004), Gena Lee Nolin (dicembre 2001), Peta Wilson (luglio 2004), Marge Simpson (ottobre 2009).

Moda: Lily Cole - Playboy Francia (Ottobre 2008), Eva Riccobono - Playboy Italia (Marzo 2009), Bianca Balti - Playboy Francia (Giugno/Luglio 2009), Dita Von Teese - Playboy America (Febbraio 2008), Playboy Germania (Dicembre 2008), Eva Herzigova - Playboy America (Agosto 2004), Cindy Crawford - Playboy America (Ottobre 1998), Naomi Campbell - (Dicembre 1999), Carla Bruni - Playboy America (Maggio 1993), Carol Alt - (Dicembre 2008), Elle MacPherson - Playboy America (Maggio 1994), Rachel Hunter - (2004).

Playboy Enterprises. Dalla rivista si è sviluppata la Playboy Enterprises, società quotata alla borsa valori di New York con la sigla PLA, che si occupa dell'intrattenimento per adulti attraverso praticamente ogni tipo di media. Il logo di Playboy (una testa stilizzata di coniglio con un farfallino da smoking) è uno dei marchi più noti e diffusi al mondo e in qualche modo oggetto di un "culto" specifico (vengono venduti in tutto il mondo adesivi col logo di Playboy da applicare, per esempio, alla carrozzeria delle automobili). All'inizio il simbolo della società era un cervo (stag), richiamo al rito maschile della caccia, ma anche delle serate per soli maschi, in cui si vedono in case private filmini pornografici muti: stag party. Poi con un colpo di genio grafico, il logo diventa un coniglio di bell'aspetto, giocherellone e sexy che indossa uno smoking.

Edizione italiana. Per l'edizione italiana tra le varie celebrità (alcune delle quali note anche fuori dall'Italia) che hanno posato in Copertina si ricordano: Caterina Murino - Gennaio 2009, Violante Placido - Febbraio 2009, Eva Riccobono - Marzo 2009, Stefania Rocca - Aprile 2009, Carolina Crescentini - Maggio 2009, Martina Stella - Giugno 2009, Belén Rodríguez - Luglio/Agosto 2009, Valeria Marini - Settembre 2009, Gabriella Pession - Ottobre 2009, Sarah Nile - Febbraio 2010 e ottobre 2012, Susanna Petrone - Giugno 2010, Melita Toniolo - Luglio/Agosto 2010, Francesca Fioretti - Luglio/Agosto 2011, Dolcenera - Settembre 2011, Francesca De André - Novembre 2011, Francesca Piccinini - Dicembre 2011, Melissa Satta - Marzo 2012, Cristina Del Basso - Aprile 2012, Aída Yéspica - Maggio 2012, Francesca Lukasik - Ottobre 2012, Federica Ariafina - Ottobre 2012, Paz de la Huerta - Marzo 2013, Tania Cagnotto - Aprile 2013, Tamara Ecclestone - Maggio 2013, Claudia Gerini - Luglio/Agosto 2013, Anna Bader - Settembre 2013, Valentina Vignali - Ottobre 2013, Kate Moss - Gennaio 2014, Brigitta Boccoli - Marzo 2014, Ana Falasca - Maggio 2014, Sara Salvi - Luglio/Agosto 2014, Giorgia Crivello - Settembre 2015, Le Donatella (Giulia e Silvia Provvedi) - Ottobre 2015, Elena Rizzello - Novembre 2015, Chiara Arrighi - Dicembre 2015, Vittoria Schisano - Febbraio 2016, Simona Basti - Aprile 2016, Giada Sciortino - Maggio 2016, Francesca Bettori - Giugno 2016, Francesca Pepe - Luglio/Agosto 2016, Valentina Cherubini - Luglio/Agosto 2016, Andressa Senna - Luglio/Agosto 2016, Nanda Rodrigues - Settembre 2016, Anna May - Ottobre 2016, Karine Garcia - Novembre 2016, Barbara Francesca Ovieni - Dicembre 2016, Valentina Kolesnikova - Febbraio 2017, Valeriya Radkevich - Marzo 2017, Elisa Bertolotti - Aprile 2017, Giulia Borio - Maggio 2017.

Vita e carriera delle conigliette «La pensione? Sposare un ricco». Ogni anno le ex «animatrici» dei Playboy Club si riuniscono in un hotel di Las Vegas per insegnare alle ragazze l'arte della seduzione, scrive Nino Materi, Giovedì 01/06/2006 su "Il Giornale". La madre di tutte le conigliette è una fascinosa signora di 82 anni che nella famiglia delle bunnies (le famose, e formose cameriere «animatrici» dei Playboy Club sparsi per gli States) occupa un ruolo speciale: miss Lila Helms è infatti la presidente dell'unico sindacato femminile in cui le iscritte hanno come segno di riconoscimento due lunghe orecchie rosa e un pon pon fucsia sul sedere. Anche oggi che Lila e le sue colleghe pensionate non sono più sexy come quando erano giovani, non rinunciano a quei simboli di seduzione. Ogni anno si ritrovano in un hotel a 5 stelle di Las Vegas e ricordano i bei tempi passati. Riunioni che non sono solo patetici amarcord, ma veri e propri corsi di aggiornamento professionale seguiti dalle «emergenti» che sborsano senza batter ciglio 4mila dollari di iscrizione pur carpire dalle «veterane» i segreti per conquistare il mitico paginone centrale dell’unica rivista al mondo capace di trasformare una semplice bellezza in un'icona erotica. È accaduto a Pamela Anderson, è accaduto ad Anna Nicole Smith e ad altre centinaia di playmate che stanno alle migliaia di bunnies come le dive di Hollywood stanno alle Veline di «Striscia la notizia». A spiegare il divario che c’è tra una playmate e una coniglietta è proprio miss Helms che al centro del «giornale che si legge con una mano sola» (come fu maliziosamente ribattezzato Playboy) non è mai arrivata: «Le mie foto da ragazza parlano chiaro, non ero certo meno sensuale di tante colleghe che Hefner ha scelto per il set fotografico». «Noi conigliette - racconta Ellen Mattis, 76 anni, moglie del campione di baseball John Sallivan - non eravamo le maggiorate che posavano sulla rivista nel cosiddetto abito del giorno della nascita, il birthday suit come allora allusivamente chiamata la foto senza veli. Vivevamo questa situazione in maniera frustrante, ma anche a noi capitavano occasioni doro. L'importante era non farsele sfuggire...». La stessa cosa è accaduta alla maggior parte delle bunnies che non hanno mai fatto il grande salto qualitativo, rimanendo intrappolate nel limbo dei Playboy Club: un purgatorio della seduzione che però non ha impedito alle conigliette di «sistemarsi» in maniera più che dignitosa. Nel passato come in tempi più recenti. Emblematica la vicenda economico-sentimentale di Susanna Werner, ex compagna di Ronaldo che la «notò» in un accaldato dopopartita in un Playboy Club di Rio de Janeiro. La love story è finita dopo qualche anno, ma la ricca buonuscita ottenuta da Susanna dal Fenomeno è diventata leggenda al box office delle conigliette cacciatrici di dote. Statistiche ufficiali non ce ne sono, ma dalle convention di Las Vegas emergono dei trend che la dicono lunga su come sia facile per una brava coniglietta accalappiare i cummenda di ogni parte del mondo. «Il 30% di noi - assicura Sonia Petty, coniglietta degli anni 70 - si è sposata con un industriale, il 20% ha trovato marito nel mondo dello spettacolo, il 40% ha racimolato il necessario per una vecchiaia dorata adattandosi a fare lamante di uomini facoltosi, non disdegnando qualche boss della malavita». Ma non sempre le playmate hanno fatto meglio delle bunnies. Lo racconta con comprensibile orgoglio Sally Pelgrin, 72 anni, sorella gemella di Janet Pelgrin: «Sally sembrava lanciata verso un sicuro successo, tanto da conquistare tre paginoni in due anni. Io invece dovevo accontentarmi di fare la barista nel Playboy Club di San Francisco. Sapete comè andata a finire? Lei è rimasta zitella e io mi sono sposata con il re della carne in scatola e vivo in una villa che sembra una reggia». Tiè.

Caso Weinstein, sulle molestie sessuali sappiamo fare solo chiacchiere da bar, scrive Nadia Somma il 13 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Caro diario, Harvey Weinstein è un potente e ricco produttore cinematografico americano, finito sotto inchiesta per accuse distupri e violenze. Il caso è scoppiato in America e se ne è parlato anche sulla stampa italiana. Soprattutto quando Asia Argento ha rivelato di aver subito, 20 anni or sono, delle molestie sessuali da Weinstein. Poteva essere una buona occasione per parlare del potere e di ciò che fa ai corpi. Poteva essere l’occasione di parlare di relazioni tra uomini e donne e della disparità che le attraversano. Poteva essere il momento di affrontare il problema delle molestie sessuali sul lavoro. Un fenomeno enorme, sommerso e raramente denunciato. Invece il confronto si è appiattito con chiacchiere da bar e ci mancava solo qualche commento tipo: “tira più un pelo di fica che due paia di buoi”, “na lavada e n’asugada e la par nanca aduperada” e “gli uomini sono tutti porci e le donne tutte troie”. Ho avuto pure la sorte di sorbirmi Matrix. Durante la trasmissione dopo un breve cenno al “porco americano” ma proprio breve, Alessandro Sallusti e Paolo Crepet hanno imbastito un processino ad Asia Argento con i giudizi sparati a raffica sulle “giovani donne che usano il corpo per ottenere vantaggi” ribaltando la frittata con una paraculaggine ammirevole. Tra una sentenza sallustiana e una crepettiana, Nicola Porro ha anche detto che le molestie sessuali non sono violenza eppoi si è domandato se le battute che ama fare mentre lavora siano moleste: sono a sfondo sessuale? Quante volte al giorno le fai figliolo? Sei sicuro che le colleghe si divertano? Intanto in studio scrosciavano applausi e sul web si era già scatenato da ore il linciaggio di Asia Argento. In tanti hanno twittato ma delle violenze e degli stupri commessi da Harvey Weinstein, produttore e finanziatore dei democratici americani nessuno parlava più. Del problema delle molestie sessuali nemmeno ma moltissimi erano incazzati neri con Asia Argento e mica con Mario Caruso per esempio, il deputato accusato di molestie da una collaboratrice.

Caro diario, ai potenti gli si deve sempre parare le chiappe soprattutto quando hanno le braghe calate. Temo sia un riflesso pavloviano questa coazione a rimuovere, attenuare e offuscare le responsabilità dei mega direttori galattici e correre a parlare d’altro congiochi di prestigio. Avvenne anche con Strauss Kahnquando si parlò di complotto e pazienza se si sapeva da anni che era un predatore sessuale. Si tirò fuori lo stesso dubbio: “ma perchè parlano tutte proprio ora? Perchè dopo tanti anni?” quando molte donne francesi cominciarono a parlare e raccontare di aver subìto violenze da Kahn. Natalia Aspesi che si dichiara femminista, intervistata su Harvey Weinstein per Vanity Fair, ha risposto più o meno: “se una donna sul posto di lavoro va a fare un massaggio al suo capo poi deve sapere come va a finire”. Ci mancava che aggiungesse “E ora itevene che ho da fare di meglio”. Leggendo ho pensato che bastano poche battute per rendere il problema delle molestie sul lavoro una barzelletta oppure farlo diventare una colpa che ricade sulle donne ingenue o vigliacche perché continuano a stare zitte. Poi mi è venuta in mente Olga Ricci e le molestie sessuali che ha subìto da parte del direttore del giornale per cui scriveva. In Toglimi le mani di dosso ha denunciato gli effetti del precariato che ha amplificato disparità e rafforzato la protervia di chi ha il potere di prendere a calci la tua vita, di buttare all’aria anni di studio e di cestinare con sadismo le tue passioni, sventolandoti sotto il naso il sogno di un contratto mentre consuma violenze quotidiane contro te e la tua vita da precaria. Ogni tanto mi domando che fa nella vita Olga Ricci, perché il suo libro, così ben scritto, non ha scoperchiato nessuna pentola. E’ stato ignorato insieme alla sua denuncia sulla condizione delle giovani giornaliste, e spero non sia stata messa da parte nemmeno lei. Ma in tarda serata, anzi notte, sono felicemente incappata nell’articolo di Angela Vitaliano e in un articolo pubblicato su La Voce di New York ha spiegato che Harvey Weinstein è stato denunciato per una serie impressionante di molestie tra gli anni 90 e il 2015 e il produttore ha patteggiato per ben otto volte per mettere a tacere le denunce a suo carico. Ha scritto Angela “Se vi state chiedendo ‘perché oggi?’ (vengono fuori le denunce) non lo chiedete ad Asia Argento ma a un giornale, anzi due, il New York Times e il New Yorker che, abituati alle grandi inchieste, sostenute da prove inconfutabili (no non sono “fake news” come ama dire il presidente) hanno dovuto aspettare fino a oggi, dopo diversi tentativi, per far uscire la storia. Il principio per il quale dovremmo lottare, uniti (uomini e donne) è che le “avances” sono molestie, violenza, stupro e per questo vanno denunciate. Non sono corteggiamento, non sono cose inevitabili, non sono prove che dobbiamo superare per andare in paradiso. Le avances, le proposte indecenti, le molestie sono atti illegali e tribali che vanno puniti”.

Salvate il poveruomo italiano terrorizzato dal caso Weinstein, scrive Flavia Perina su "L'Inkiesta" il 2 novembre 2017. I giornali in Italia li dirigono gli uomini, hanno caporedattori uomini, editori uomini, così come le reti televisive. Il poveruomo italiano è quello che commissiona fotogallery sulle scarpe della Boschi e ride alle battute sull’estetica della Bindi e pensa che le donne se la vadano a cercare. Il carro degli uomini in Italia è molto comodo, con sedili di velluto attrezzati di sportello bar, e peraltro non ce ne sono altri. Salirci sopra è più o meno un obbligo, e lo abbiamo visto in queste due settimane di Caso Weinstein: nessuno, da Natalia Aspesi di Repubblica ad Annalisa Chirico del Foglio ha voluto rimanere a bordo strada. Tutti/e su quel carro lì, senza incertezze. L’uomo è la vittima, nel caso specifico (il povero Weinstein, che “se tu chiedi un massaggio e io il massaggio te lo concedo, dopo è difficile stupirsi dell’evoluzione degli eventi” – Aspesi) ma anche nell’ordine planetario delle cose: “braccato da femministe fuori dal tempo e donne in carriera che per sopravvivere alla gender society deve rinunciare a se stesso” (Chirico). Questo poveruomo vittima di vendette postume, cacciato come una quaglia in riserva, apparentemente potente ma in realtà assai più fragile delle astute maghe Circe che lo insidiano, risponde assai poco alle esperienze personali che ne abbiamo tutte noi, e persino ai titoli di cronaca, ma tant’è. I giornali in Italia li dirigono gli uomini, hanno caporedattori uomini, editori uomini, così come le reti televisive, la maggior parte dei telegiornali e ogni branca riferibile alla comunicazione, ed è su quel velluto che dobbiamo sederci, quello il bar da cui versarci una Coca Cola (Zero, se possibile, che se ingrassiamo diventa un problema anche professionale). Il poveruomo italiano è quello che commissiona le photogallery sulle scarpe con le borchie di Maria Elena Boschi, senza nemmeno immaginare – è un poveruomo – che l’abbigliamento delle donne di potere sia un messaggio, e quindi quelle scarpe vogliano dire qualcosa oltre la visione del poveruomo medio. Il poveruomo italiano è quello che ride alle battute sull’estetica della Bindi, ripetute da tre generazioni di poveruomini e sempre accolte da grande letizia senza neppure immaginare che quell’estetica è una scelta, corrisponde a una dichiarazione di intenti. Il poveruomo dice “Prima la danno via e poi piagnucolano” perché, appunto, si sente braccato: ai bei tempi le Franca Viola manco se lo sognavano di denunciare, né un giorno né un mese dopo, e il poveruomo non sa a che santo votarsi in questo mondo dove si affibbia “il marchio di criminalità alla smodata lussuria di omoni ricchi e gaudenti” (Renato Farina). Si criminalizza cosa? L'”o me la dai o scendi” che è tradizione dei nostri nonni? E che cosa sarà mai l’estorsione di sesso nel Paese della mafia, dove devi pagare pure per fare il pasticciere o il bracciante agricolo? Ma dove vivete voi ragazze? Sul carro di questi poveruomini è complicato starci, ma starci si deve, in quanto saranno pure poveruomini ma comandano loro. La doppia verità, una voce sulle piazze e un’altra in Parlamento. Il caso Guia Soncini, per dire, che ride delle vittime di Weinstein su Fb e poi scrive un articolo per il Nyt sulle donne italiane incapaci di solidarizzare con chi non fa parte della propria cerchia. Abbiamo opinioni, ma abbiamo anche editori. E se l’editore Usa si chiede come mai Asia Argento da noi è stata seppellita dalle critiche, l’editore italiano trova al contrario che l’articolo da scrivere sia: «Vi spiego perché Weinstein è un perseguitato»

Il poveruomo è indignato. Non è servito a niente spiegare per anni che “siamo tutti puttane” se poi queste, le puttane, salgono su a dirti: mi ha obbligato, mi ha ricattato, mi ha violentato. Il poveruomo chiede tutela, protezione, è un Panda sperso nella deforestazione delle latitudini pluviali. E il suo Wwf risponde con entusiasmo denunciando “la sconcertante, conformista, morbosa, vigliacca festa del vittimismo femminile” (Anselma Dell’Olio) e rovesciando il mondo a misura del mainstream italiano, dove la vittima è sempre meno vittima che altrove: stupro? Ma come eri vestita? Botte in Questura? Ma tu che gli hai detto al poliziotto? Aggressione allo stadio? E che ci facevi tra gli ultras? Usura? Perché gli hai chiesto soldi? Truffa bancaria? Perché non hai letto le avvertenze in piccolo? Il poveruomo non vede per quale motivo non si possa fare la cresta sul contratto di una donna come su un appalto o su una concessione edilizia: “il reato di maialaggine – dice – non esiste mica” (sempreFarina); “solo se è a rischio l’incolumità fisica è giustificato subire” (sempre la Dell’Olio). Sul carro di questi poveruomini è complicato starci, ma starci si deve, in quanto saranno pure poveruomini ma comandano loro. Si elaborano strategie togliattiane. La doppia verità, una voce sulle piazze e un’altra in Parlamento. Il casoGuia Soncini, per dire, che ride delle vittime diWeinstein su Fb e poi scrive un articolo per ilNyt sulle donne italiane incapaci di solidarizzare con chi non fa parte della propria cerchia. Abbiamo opinioni, ma abbiamo anche editori. E se l’editore Usa si chiede come mai AsiaArgento da noi è stata seppellita dalle critiche, l’editore italiano trova al contrario che l’articolo da scrivere sia: “Vi spiego perché Weinstein è un perseguitato”. E siccome siamo brave, e siccome sappiamo scrivere a favore di San Francesco ma anche contro, e siccome dobbiamo lavorare, faremo tutte questo articolo con zelo, e le notizie sui Weinstein nostri, sui poveruomini braccati che cercano sui divani un estremo anelito prima di soccombere “alla gender society” (qualsiasi cosa voglia dire), ce le scambieremo facendo aperitivo. Come fanno da sempre le donne della nostra bellissima Italia sulle soglie delle case di paese, capando la verdura o sgranando fagioli, e sussurrando del Don Rodrigo locale che quella Lucia sì, vabbè, l’hanno rapita i Bravi, ma pure lei se l’è cercata, se non avesse fatto tante storie a quest’ora era già sposata…

Stai con Asia o con Mammona? Io sto con Musil…, scrive Gilda Policastro l'1 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Parlo di Weinstein e penso a Moosbrugger, l’eroe nero de “L’uomo senza qualità”. Quest’estate abbiamo scoperto che gli scrittori under 40 non hanno letto Musil, figurarsi se l’hanno letto i commentatori compulsivi, che, essendo sempre su Facebook, non leggono mai. Ecco, L’uomo senza qualità è un libro in cui, tra una trattazione storico- filosofica e l’altra, si racconta la vicenda di Moosbrugger, assassino seriale su cui il narratore e la giustizia del tempo non finiscono di arrovellarsi: è o meno capace d’intendere e di volere un uomo che quando vede le donne, certe donne, non riesce a trattenere l’impulso di ucciderle? Moosbrugger diventa così l’eroe nero di alcuni personaggi femminili del romanzo, come ad esempio Clarisse, che ne sogna la libertà e la redenzione se non altro per compiacere Ulrich, il protagonista così appassionato al caso. Ci ho pensato in questi giorni di feroci polemiche sui social in cui non mi sentivo di sostenere incondizionatamente ed empaticamente il ruolo, in quanto donna, di “vittima” e mi veniva piuttosto da pensare al (presunto) carnefice, che qui d’ora in avanti chiameremo W. E non per costruirgli una leggenda romantica attorno, tanto più che non è nemmeno lontanamente paragonabile all’assassino musiliano, non solo per l’entità del capo d’imputazione, ma anche perché non mi pare sia reo confesso né che la giustizia lo abbia già condannato. Lo chiameremo W. solo per restituirgli, con l’indeterminatezza del nome, anzi cognome, puntato, la dignità giuridica di persona meritevole del beneficio del dubbio, come tutti gli imputati (o accusati) a tutte le latitudini o quasi, fino a prova contraria. La mia posizione è scomoda tanto quanto quella di chi giudica Moosbrugger in Musil. Ci si trova di fronte un uomo, un uomo come tanti, con le sue deviazioni alternate a lucidità e comportamenti comuni: com’è possibile che sia stato crudele al punto da assassinare delle povere donne? Queste donne, si dice a un certo punto, lo irritavano. Giravano di notte, lo stuzzicavano. Lui non voleva saperne, e loro insistevano. A quel punto, lui uccideva. Questo a Musil serve a suggerire al lettore che l’irritazione provocatagli da quelle donne valesse come attenuante? Nessuno lo pensa, mentre legge il romanzo. La letteratura, si sa, è il campo in cui si osa, a partire dalle origini classiche. Nella tragedia greca si va a letto con le madri, si ammazzano i padri e i figli. E siamo tutti a com-muo-ver-ci, in teatro, dopo duemila anni e passa, mentre si autodenunciano, gli eroi pentiti o disperati, Medea accecata dalla gelosia, Oreste che non trova pace per essersi macchiato, del sangue materno, queste mani, le mie. E non vale solo per la letteratura antica: pure quella moderna è piena di personaggi immorali. Peggio ancora quando arriva l’autofiction, per cui il protagonista si chiama con lo stesso nome scritto in copertina e non sappiamo più quanto l’autore ne stia prendendo le distanze (succede al Mozzi de Il male naturale come al Siti di Troppi paradisi o dell’ultimo romanzo). Anche Carrère, ne L’avversario, si è posto il problema: lo scrittore non giudica, come la massa che legge la cronaca nera e ne parla con un misto di raccapriccio e di sollievo. Il mostro è isolabile, riconoscibile, infine punito, in ogni caso lontano, diverso da noi, altro. Entriamo, sembra dire invece Carrère, nelle ragioni perfettamente umane di un’azione riprovevole come quella di uccidere figli e moglie. La vita vera non è letteratura, si obietterà, dunque non c’è confronto tra le pagine di un romanzo e quello che sta capitando oggi a W.

Cosa gli sta capitando? In sintesi: una serie di attrici, vent’anni dopo i fatti, denuncia, anzi, no, racconta ai giornali di aver subito abusi da lui, nel frattempo passato, come dice una delle principali accusatrici, «da produttore numero 3 a numero 200 del mondo». Noi non eravamo in quelle stanze d’albergo, in quegli ascensori, a quei festival, non l’abbiamo visto in accappatoio, non siamo stati molestati o ricattati da lui (né da tutti gli uomini di cui tutte le donne, sui social, si confessano a posteriori assediate o infastidite). Quindi rimaniamo a quello che ne scrivono i giornali. Che, com’è noto, non testimoniano e basta, ma ricostruiscono, interpretano, così come la letteratura finge, immagina, estremizza, spostando di volta in volta il limite del possibile e potendo arrivare a difendere un assassino seriale. Non sono un giudice, non sono nemmeno Musil, ma scrivo romanzi. Uno dei miei romanzi s’intitola Sotto e parla dei rapporti di potere e delle dinamiche di relazione uomo- donna all’interno di un sistema gerarchico come l’università. La mia non era una denuncia di comportamenti precisi e non aveva personaggi à clef: non desta clamore la riflessione senza scandalo, senza nomi, senza facce. Gli uomini calati nei ruoli specifici condannano o, se del caso, riabilitano; gli scrittori hanno come specifico di calarsi nell’umano in tutti i suoi aspetti, anche i meno presentabili e difendibili. All’attenuarsi del clamore, dell’odor di scandalo, del “dagli all’untore”, qualcuno, forse, darà voce a W., che da un giorno all’altro viene additato come “mostro”: d’improvviso tutto cambia, per lui, i ringraziamenti di rito per gli Oscar diventano accuse di molestie o peggio (perché nella confusione livellante dei media il capo d’imputazione si confonde con la violenza sessuale, lo stupro). Dopo decenni di vita fortunata e successo planetario, il suo volto e il suo nome si fanno sinonimi di oltraggio alle donne, contro di lui si combatte una battaglia antica e velleitaria: il sogno di trasformare tutti gli esseri umani in persone perbene, che non danno mai noia ai propri simili e vivono nell’armonia universale, senza accappatoi sbottonati e sguardi predatori. E siccome il W. letterario sarà idealista (o moralista a sua volta) si chiederà, a un certo momento della storia: perché non è un magistrato a giudicarmi, ma la pubblica opinione, fatta di persone che nelle loro vite sono violente, sgarbate, evadono le tasse, si approfittano dei sottoposti, li fanno lavorare senza paga. Il mondo è pieno di aberrazioni e di soprusi ma a loro interesso io, i miei comportamenti deviati, la mia sessualità compulsiva. Chi mi condanna è più ossessionato di me, a partire da quelle donne, entrate sulle loro gambe nelle mie camere d’albergo, con lo sporco segreto custodito per anni. Intanto, mentre W. conciona e qualcuno, forse, si prepara a scriverne la storia, chi nei social non difende e non giudica ma semplicemente dubita, fino a prova contraria, si taccia di misoginia, fallocentrismo, istigazione al femminicidio. Perché il processo in rete prevede solo aut aut: con Asia o con Mammona. Ma ci sarebbe anche Musil, ad averlo letto.

Dustin Hoffman, carnefice o vittima della bulimia accusatoria? Una seconda donna accusa il premio Oscar di molestie sessuali in quello tsunami di denunce partito da Weinstein che non risparmia nessuno, scrive il 2 novembre 2017 su Panorama Barbara Massaro. Un tempo le donne accettavano. Accettavano il collega di lavoro che sbirciava nella loro scollatura; accettavano i "Ciao bella!" gridati dalle auto; accettavano i fischi per strada e i "Perché non andiamo fuori a bere qualcosa io e te?". Facevano parte del gioco, erano il prezzo che una bella e giovane donna doveva pagare per essere - appunto - giovane e bella. Ora le donne hanno detto basta. Basta al machismo imperante, basta agli occhiali da sole abbassati spudoratamente per ammirare meglio il derierre della malcapitata di turno e basta a quella sindrome predatoria che sembra essere il male genetico del quale soffre il maschio medio (e mediocre).

Tsunami Weinstein. Le accuse fioccano. Harvey Weinstein ha avuto, se non altro, il merito di scoperchiare il vaso di Pandora. Di permettere di dire a tante, tantissime donne, che no: la doccia con te non solo non la faccio, ma ti denuncio pure. Non ti massaggio i piedi per un contratto e non sbatto le ciglia per una parte in questo o quel film. Si tratta di una rivoluzione, ma di una rivoluzione tardiva. Già da tempo, infatti, le signore (e signori) arrivate al successo o a ruoli di prestigio sociale grazie alla cena consumata con la persona giusta o al drink bevuto con chi poteva aiutarle avrebbero dovuto spezzare la catena, e invece no. Per anni sul sottile filo che separa avance da molestie ci hanno marciato e hanno costruito la propria carriera giustificando e giustificandosi. Succedeva così e le più furbe (o furbi) ne approfittavano, gli altri restavano un passo indietro mantenendo intatta la reputazione, ma indietro la fama. Chi finge di scoprire oggi le regole di un gioco che ha fatto comodo a tanti fa un doppio torto: alla propria intelligenza e a quella delle vittime.

Il caso Hoffman. Perché se una donna arriva a denunciare oggi una "palpatina" subita nel 1985 qualcosa di marcio nel meccanismo c'è. Cosa spinge un'ex stagista a dichiarare che 30 anni fa Dustin Hoffman le ha toccato per quattro volte il sedere? Bisogno di giustizia? Impossibilità a dormire sogni sereni da tre decenni? O altro? Perché è, appunto, davvero sottile il filo che separa un molestatore reale dal solito maschio che spesso perde l'occasione per tenere la bocca chiusa con un'avance di troppo. Ad Hollywood in queste settimane è in corso una partita a domino che sta facendo cadere un numero elevato di pedine del bel mondo patinato. Come funzionava per entrare nelle grazie di Weinstein lo si è capito e condannato abbondantemente e lo stesso vale per il regista James Toback contro cui oltre 200 donne hanno fatto denuncia.

Kevin Spacey e la denuncia facile. Ora però pare che il copione della molestata (e molestato) si stia diffondendo a macchia d'olio. "Mi ha invitato a seguirlo nella sua camera d'albergo" ha detto l'attore Anthony Rapp nei confronti di Kevin Spacey che ha chiesto scusa ma è finito con la lettera scarlatta del molestatore impressa sul petto. Certo erano gli anni '80, lui era giovane e ubriaco, ma non basta a giustificarlo. L'altro era minorenne, quella manciata di mesi che lo separavano dai 18 anni era penalmente perseguibile. Ma perché dirlo ora? Perché rovinare la reputazione di un attore che ha segnato pagine memorabili della storia del cinema? La tempistica che sta facendo tremare l'intero star system è, se non altro, sospetta. Dopo la stagista che ha accusato Hoffman di molestie (lei si chiama Anna Graham Hunter e sostiene di essere stata molestata sul set di Kramer contro Kramer - 1985) oggi si è aggiunta una seconda donna che ha detto: "Sì, nel '91 Dustin Hoffman ha molestato anche me". Si tratta della sceneggiatrice e produttrice tv, Wendy Riss Gatsiounis. Aveva incontrato il premio Oscar per proporre l'adattamento cinematografico di una pièce teatrale. Lui aveva provato a sedurla. Lei aveva detto no. E lui non aveva più voluto fare il film. E' molestia? Ciò che andrebbe spiegato e valutato è il terreno che separa un uomo stupido da un uomo violento.

Stupido o violento? Andrebbe raccontato anche alle donne che oggi pescano a mani piene nel vaso dell'indignazione popolare raccontando di quando il compagno di classe le ha sbirciato nella scollatura con l'hashtag#molestie. Perché le violenze, quelle vere, segnano nel corpo e nell'anima e per rispetto alle troppe donne che subiscono angherie d'ogni tipo da parte degli uomini bisognerebbe avere il pudore del silenzio e l'intelligenza di chi sa distinguere per non mettere alla pubblica gogna uomini sciocchi, tonti, mediocri, ma non violenti che si vedono trasformati in orchi messi al bando dalla società in questa bulimica mania accusatoria che non risparmia nessuno.

L’uomo alla coque, scrive il 03/11/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Dopodiché... Dopo aver detto che non sono i maschi, in quanto maschi, a essere violenti, ma che è il potere a stabilire vili rapporti di forza (poi non è una coincidenza che i maschi detengano molto più potere delle femmine). Dopo aver detto che nessun maschio, in quanto maschio, deve rispondere delle zozzerie di altri maschi. Dopo aver detto che togliere l’Emmy a Kevin Spacey è un ridicolo eccesso di zelo, perché i quadri di Salvador Dalí restano capolavori nonostante una certa pedofilia dell’autore. Detto tutto questo, si aggiungerà che Kevin Spacey, molestatore di ragazzini, andò in visita dal dittatore venezuelano Hugo Chávez, trovando meravigliose alcune sue politiche sociali, e che, quando vinse uno dei suoi Oscar, disse, testuale, che è più soddisfacente «aiutare i giovani». Si aggiungerà che, come è noto, Harvey Weinstein era molto attivo nelle battaglie liberal sui diritti civili, al fianco di Bill Clinton e Barack Obama. Che Dustin Hoffman, il quale amava toccare il sedere a una diciassettenne e chiederle «un clitoride alla coque», aveva un tono da «simbolo positivo nella stagione del machismo elevato a virtù» (non diciamo chi l’ha scritto, per solidarietà), e sosteneva che «il Watergate è roba da educande in paragone alla Casa Bianca di Trump» (lo ha ricordato ieri Maria Giovanna Maglie su Dagospia).  Per dire che stare dalla parte giusta della piazza è più facile che stare dalla parte giusta del letto, e che battersi per cambiare il mondo è decisamente più facile che battersi per cambiare sé.  

Siamo tutti un po’ molestatori, possibile? Una donna chiaramente piegata dalle logiche macho-falliche, scrive il 2 Novembre 2017 Francesco Fausto Cantù su “L’Inkiesta". Nella galassia del perbenismo a sfondo sessuale un clima da Terrore francese dilaga in America e non solo. D'Urso e amici festeggiano quando ci sarebbe da eseguire una class action educativa verso il popolo. Presto, costruite altre galere: tra poco saremo tutti carcerati anche solo per aver fatto un complimento un po' troppo spinto. Calma calma. L’ipocrisia del politically correct a sfondo sessista non si ferma e colpisce anche Hoffman; prima di lui Spacey e Weinstein. Al di là degli squisiti discorsi riguardo la presenza di sessismo in determinati ambienti qui il problema è essenzialmente di tipo contenutistico. Cos’è una molestia? E soprattutto, quando si supera la soglia di guardia che ci etichetta come porci? La legge, come al solito, viaggia sul binario dell’astratto, per colpire più casistiche possibili ma come sappiamo bene c’è tutto un ventaglio di sfumature più o meno grigie non contemplate. È possibile etichettare tutti gli uomini di sessismo? Tacciarli di molestie, più o meno velate? Dire in sostanza che son tutti dei marci? Qualcosa non torna, più di qualcosa: grazie alla diseducazione di classe si sta arrivando ad un clima da caccia alle streghe. Vite fa. Apprendo dai giornali che Weinstein rischia la galera per un “qualcosa” di non ben dichiarato commesso anni e anni or sono con la famigerata (?) Asia Argento. I giornali, per ingigantire citano decine e decine di donne; viene da chiedersi se questo tizio lavorasse, quand’anche. Mi piacerebbe capire come si possano pesare le “prove” raccolte. Bastano le testimonianze? Bastano azioni di “classe” come la maggior parte delle attrici sta facendo? Spero di no. Sempre dai giornali leggo del celebre Spacey che, dopo un calcolato tentativo di esprimere la sua mancanza di eterogeneità, viene non solo accusato ma punito con il ritiro di un premio e il suo prodotto di punta chiuso. Anche qui si parla di anni ed anni fa, con testimonianze che scivolano nell’oblio, ricordi confusi e dettagli oltre che sbavati. Ultimo, ma non ultimo, Hoffman, il protagonista de Il Laureato, accusato di aver molestato, il come e il quanto non è noto, una stagista ben trentadue (32) anni fa. Una vita fa insomma.

Molestie sessuali sul lavoro – è un problema per chi lavora per sé stesso? – Victoria Wood. Punti di attenzione. I punti critici di questo modo di approcciare le cose sono molti, soprattutto per un argomento così spinoso e spesso tragico per chi l’ha vissuto. In primo luogo la possibilità di far emergere fatti e comportamenti di decine di anni fa. Quando si può parlare di “prescrizione” naturale? Perché Asia Argento può svegliarsi una mattina e decidere di denunciare un abuso in qualsiasi momento della sua vita? Il metro di misura è totalmente abbandonato alla possibile vittima? Parallelamente anche la stagista, molestata da Hoffman, che decide, tutto a un tratto, di far riemergere tutto. Siamo umani e, se fossi un giudice, dubiterei della versione della vittima; non per sessismo ma perché trent’anni sono molti, per tutti. Ammesso e non concesso che Weinstein sia innocente: costui, dopo uno scandalo simile, ha la carriera completamente rovinata. Al di là del lavoro che ha sempre fatto. Questo modo dannoso di fare mi ricorda l’accanimento della magistratura contro alcuni politici nostrani; quasi un giustizialismo con l’orologio. È lecito pensare ad un rimborso “reputazionale” una volta accertati i fatti e chiarite le colpe? E se no, è giusto rimanere in questo clima da Robespierre degli ultimissimi rintocchi? Visto che le vittime passano tramite vie legali si studiano i casi con metodi legali: cosa significa una molestia? Quand’è che si supera il limite con una donna? Come si riconosce un secco “NO” da un “mi piace il tuo modo diretto, continua, sto solo facendo la preziosa”. Codice alla mano: “Art. 660. C.P.: Molestia o disturbo alle persone. Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516.” A ben guardare è una definizione, volutamente aggiungo io, abbastanza vaga e chiunque potrebbe essere arrestato oggi stesso. Si alzi la mano chi non ha mai oltrepassato il limite prescritto dalla norma. [silenzio...] Da un altro lato. Penso che il problema sia triplice: da un lato l’ambiente dove, inutile negarlo, ha sempre permesso comportamenti discutibili a vantaggio della carriera. Tutti sappiamo il potere dell’influenza interna ad un contesto. Un secondo problema è sicuramente legato ad un perbenismo folle e costante in crescita esponenziale. Il politicamente corretto è il male del nostro secolo. Rimane granitico di sottofondo il problema più grande: la mancanza di Educazione che colpisce come un martello l’incudine. Una educazione che si sta vorticosamente perdendo: lo dimostra il fatto che il programma televisivo più seguito dai giovani è il Grande Fratello; con la sorella di Belen che, oltre agli occhioni da mostrare, attira l’attenzione di molti omaccioni. Ops, un attimo, ho molestato indirettamente una donna?

Basta con questi Pasolini, scrive Giuseppe Nibali il 03/11/2017. È pandemia. Si sta allargando a macchia d’olio questo morbo che ci vuole ancora una volta qui armati di fucili e forconi, in cuore pagine e pagine di codici etici e morali, per lanciarci all’inseguimento della preda, del lupo, dell’orco. Per farne carne da giornale, carne da cannone. Sulla nostra strada, prima, il mostro Wenstein, adesso, invece: Kevin Spacey. Ma cosa stiamo difendendo? Cosa stiamo attaccando? Siamo davvero di fronte a una diffusa riflessione sul maschilismo, sugli imperi da caporalato? Ci troviamo di fronte allo scoperchiamento di un sistema sempiterno o è solo l’ennesima furia collettiva e popolare che ci fa baccanti pronte al massacro? Intorno tutto un viavai di voci contrastanti e incomprensibili, un rumore, dai social, dai giornali, che non lascia spazio al dialogo: Spacey come Wenstein, Wenstein come Hoffman. Anche l’attrice Anna Graham Hunter, incoraggiata dai risvolti dell’Affaire Wenstein, ha infatti sentito il bisogno di confessare che quando aveva 17 anni ed era una stagista ha subito molestie da Dustin Hoffman mentre l’attore stava girando Morte di un commesso viaggiatore. Sul web è spuntato addirittura lo Shitty Media Men (uomini di merda dei media), un faldone di mail private redatte dalle giornaliste della stampa americana in cui ognuna di loro, in forma anonima, era chiamata a mettere dentro il sacco i nomi e i cognomi dei molestatori seriali (colleghi, direttori, produttori e compagnia cantante), tutta gente che come minimo dorme, in queste ore, con la valigia pronta sotto al letto. Siamo, si capisce benissimo, alla giustizia sommaria. Ma è il caso Specey, in questo inizio di novembre, a registrare il tutto esaurito. Questi i fatti: Anthony Rapp, interprete del fortunato ciclo di Star Trek, racconta di essere stato molestato da Kevin Spacey quando aveva 14 anni, nel 1986. Dopo le dichiarazioni di Rapp arriva il coming out dell’attore che sceglie come canale il suo account Twitter, dove, in due paragrafi ben distinti, spiega di non ricordare il caso incriminato, ma chiede scusa e ammette, contemporaneamente, la sua volontà di vivere da uomo gay. Apriti cielo. La prima a lasciare la nave è Netflix: la prossima sarà l’ultima serie di House of Cards, fa sapere immediatamente il colosso della TV in streaming (si sospettava già, comunque). Poi è la volta dell’Academy (The International Academy of Television Arts & Sciences) che decide di revocargli l’Emmy, il riconoscimento, già assegnato, a un attore incredibilmente capace. Specey aveva, all’epoca dei fatti, 26 anni, aveva dato una festa, aveva bevuto molto e ci aveva provato con un ragazzo. Non con un bambino, con un ragazzo. Niente. L’effetto cascata è ormai inevitabile. È Tony Montana il secondo a farsi avanti. Fu “toccato” da Kevin Spacey durante una serata a Los Angeles, mentre era ubriaco. Questo mentre altre donne si uniscono al coro unanime anti-Wenstein, la notizia è servita – non bisogna dimenticarlo – quasi sempre nello stesso piatto. Così una molestia non meglio chiarita diventa, nella vulgata comune, grave come uno stupro. In questo è stato illuminante Matteo Bordone che sul Post ieri ha scritto: «Nel dibattito su questi temi, soprattutto nel mondo anglosassone, si sente in lontananza l’effetto di questa estasi dell’identità che pervade il dibattito sociale anglosassone, che io trovo molto pericolosa». E ancora: «C’è anche chi rivendica con forza la propria natura undecided, indecisa: come se fosse impossibile non avere ancora capito o deciso come e se orientarsi, e l’unica via percorribile fosse proclamare ufficialmente di appartenere a una genia diversissima dalle altre, cioè quella degli indecisi. È l’incrocio tra una posizione politica e un disegno di Escher. In questa ottica la discrezione è malvista, ovviamente, soprattutto se viene da un personaggio pubblico che potrebbe incarnare la categoria così bene, far parte del club e sfoggiare anche la coccarda!».

Intanto passano velocemente di mano (e di mente) le altre notizie, avvolte, come pesce crudo, in carta di giornale. E così dalla stessa parte, forse un po’ più avanti o più indietro nella Home, in una pagina o nell’altra del quotidiano ecco il Santo Morto di giornata: Pier Paolo Pasolini. Il santo, l’alter christus, il capro da citazione (Io so perché sono un intellettuale…) messo lassù sulla croce, svuotato completamente della propria storia e del proprio tempo. Meglio ancora imprigionato dal proprio tempo. Santo, certo, ma solo perché morto in odore di mistero. Immenso, certo, proprio perché mai categorizzabile, perché scomodo, slabbrato, incoerente e spigoloso per ogni società e ogni epoca. Come possono convivere, nello stesso contenitore e in due ruoli diversi, Pasolini e Kevin Spacey? La risposta è semplice: se fossero rappresentati, se fossero realmente compresi, non potrebbero. Ma «il mondo, oggi, non è un teatro, sul quale azioni e sentimenti possono essere rappresentati e letti, ma è un mercato nel quale le intimità vengono esposte, comprate e consumate. Il teatro è un luogo della rappresentazione, mentre il mercato è un luogo dell’esposizione. Così la rappresentazione teatrale cede oggi il passo all’esposizione pornografica». In questo cortocircuito ideologico ed etico, in questa miopia eccoli lì: l’uno demonizzato e l’altro semplificato fino al poster, all’icona, entrambi goffamente vituperati. Da un lato l’attore di genio, il mattatore, che è morto davanti a parte del suo pubblico due giorni fa lasciando il posto al pederasta, dall’altro l’intellettuale contrario (nessun accenno, mai, alla sua militanza politica) dimenticando prestissimo le notti di borgata, i ragazzi di vita, gli spigoli, il mostruoso: vizi, nulla di più. Il mostro ama il suo labirinto, scrive il poeta Charles Simic in un libro di rara intelligenza e bellezza, il mostro ama il luogo della propria fissazione monomaniacale. Noi, nella piena società della trasparenza, nella piena società della pornografia, amiamo il nostro: la sovraesposizione, la trasparenza. Il minotauro, scoperchiato il labirinto e mostratasi la calca, non può che comportarsi come un volgare toro da corrida, ce ne sono alcuni che ricevono la grazia, se hanno combattuto davvero bene, se il loro fisico ha retto, se hanno evitato con cura le staffilate. Più spesso finiscono insieme agli altri cadaveri e ai resti del pranzo, nell’umido, ancora caldi di sangue.

Puritani da Oscar, scrive Augusto Bassi il 3 novembre 2017 su “Il Giornale. Possiamo definire la molestia? E’ qualcosa di oggettivo o di soggettivo? Forse di oggettivamente soggettivo? Come ben sanno i lettori di questi quaderni, da molti anni porto a spasso quel genere di corpo che eccita ambo i sessi: una dannazione. Quindi anche banali corsette in calzoncini corti mi procurano spiacevoli esperienze, fra occhiate predatrici, commenti scostumati e sonore zufolate di cupidigia. Tuttavia, anche quando mi sento violato dagli sguardi e dalle interiezioni altrui, non mi risolvo a denunciare… perché credo che il confine sia stabilito dal contatto fisico. Mi rendo conto che si tratta di una semplificazione arbitraria, e come tale va costantemente rimessa al vaglio della regione. In passato, fra questi pensieri, avevo già segnalato come vi sia una maniera infallibile per sapere se una donna è ben disposta verso le vostre attenzioni: far caso a quanto e come vi tocca. Nel caso i contatti siano immotivati, impercettibili e quasi involontari… una bottarella complice, un’aggiustatina al bavero, alla cravatta, una gomitatina indispettita… beh, c’è trippa. Certamente anche se vi cala le brache e vi fa una pugnetta al bancone del bar, è ben disposta. Ma quando vi macerate nel dubbio, e non sapete con certezza se la bella colombella ci sta – magari perché i suoi commenti sono contradditori, le parole nebulose, bionde tinte – osservate il linguaggio non verbale e capirete tutto. Un’indagine che vale anche al contrario, benché l’uomo sia spontaneamente più incontinente nella fisicità degli approcci, ma non tanto da annullare l’osservazione. Tutto ciò per dire che il contatto fisico è un linguaggio e come tale va interpretato. Si può dunque sussurrare, si può parlare apertamente e ancora offendere. Come nel linguaggio verbale, molto dipende dall’interlocutore, poiché c’è chi pretende schiettezza, chi preferisce un’interazione più formale e chi si fa il segno della croce alla prima parolaccia. In questi ultimi mesi viviamo nella paranoia della molestia, importata come tutto il resto dal puritanesimo anglosassone, più specificamente dalla secolarizzazione laicista della teocrazia calvinista coloniale. Il Verbo del vangelo corretto ormai da lustri ci fa vivere in atmosfere da Lettera scarlatta, da processo alle streghe di Salem, dove al senso di colpa cattolico – massimo propellente per il godimento, da cui si evince il genio di Santa Romana Chiesa – come catarsi spirituale universale si è sostituita l’accusa, lo sdegno, il dito puntato, infine il patibolo purificatore. E noi esistiamo torchiati, schiacciati fra l’integralismo islamico e il dogmatismo laicista-moralista. Fra l’avvocato egiziano che ritiene dovere patriottico violentare le ragazze vestite in maniera licenziosa, e i liberal occidentali per cui una donna può anche schiaffeggiarti con le puppe, ma guai a te se la sfiori, lurido maiale sessista, al rogo, al rogo! Dipendenti precarie molestate quotidianamente da ritmi di lavoro insostenibili, da mansioni mortificanti, da paghe umilianti, con prospettive di vita avvilenti, impugnano l’esecrazione solo se vengono sfiorate sotto la gonna. Ora, non è mia intenzione sminuire i lubrichi approcci sessuali di un superiore a un subalterno, femmina o maschio che siano. Se il capo della mia compagna provasse a interpretare Er Manazza, scivolando sulle natiche scolpite da Prassitele dell’amata, sarei il primo a contattare quell’albanese che mi deve un favore, conosciuto nel quartiere come l’Ivo Carlovic del cric. Il sistema fallocentrico che Weinstein ha reso colossal, ma che vale anche nei teatri di serie B, nelle redazioni dei giornali di provincia o negli studi assicurativi più anticoncezionali, fa ribrezzo, schifìo. Niente di nuovo, naturalmente. Specie per il milieu dello spettacolo. “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli con Stefania Sandrelli raccontava già tutto quello che c’era da sapere. Ciò che è cambiato risiede nel dispaccio dell’emancipazione, che intende detonare senza cautele e con avventatezza ostentatamente provocatoria la seduzione… gridando poi “al fuoco, al fuoco!” quando tutto salta per aria. Il pericolo per l’uomo è il comportamento rapace, irascibile; per le donne quello concupiscibile, la volontà, conscia o inconscia, di sedurre. E basta fare un giro sulla bacheca di Diletta Leotta per comprendere quanto questo pericolo sia presente e sempre sul punto di deflagrare. Ma noi neghiamo tutto questo per poi vivere il palpito malverso di gridare allo scandalo. Noi abitiamo un mondo dove un pedofilo che ha ripetutamente violentato una bambina di seconda elementare può essere assolto per prescrizione, mentre un attore di smisurato talento artistico viene accusato a 30 anni di distanza per aver molestato un bimbominchia da fantascienza che si era chiuso nella sua stanza da letto… e ora rischia la carriera; una star costretta ad appellarsi all’omosessualità (ma non si predicava la parità?) e alle violenze di un padre nazista per sfangarla. Eppure niente… premi ritirati, serie tv annullate, immagine compromessa per sempre: Oscar al puritanesimo per la miglior sceneggiatura non originale. Lo stesso goffo puritanesimo che costringe alle dimissioni il ministro della Difesa britannico Michael Fallon per aver accarezzato, durante un congresso dei Tories nel lontano 2002, il ginocchio della giornalista radiofonica Julia Hartley-Brewer. Robe da matti. Matteo Renzi per tutta la campagna delle ultime primarie ha sventolato la parola merito, l’ha brandita come un pungolo; e io a Matteo ho sempre creduto. Perciò quando il nostro segretario trionferà alle prossime elezioni, e il merito con lui, sarò meritoriamente piazzato al posto di Beppe Severgnini. A quel punto non mi sentirei di escludere che una ragazza saltasse fuori dal mio passato montando su tacchi Caovilla per accusarmi di averle sfilato le mutandine mentre prendeva appunti con una collega durante quella conferenza stampa sul cirage di dieci anni prima. E come potrei difendermi? Come potrei negare di averle proposto un cirage à trois? Dopotutto se osservate la fotina del mio avatar da lontano… vedrete un perizoma nero. Un caso? Cionondimeno, mi consolerei con un’ottima compagnia. Guardando a ritroso, infatti, si salverebbero davvero in pochi. I film di Luchino Visconti sarebbero ritirati dal commercio. “Il ginocchio di Claire”, capolavoro di Rohmer, verrebbe accusato di pedofilia e traviamento. Molti semplici piacioni di mia conoscenza, fra i quali alcuni di voi, farebbero intima conoscenza delle patrie galere. Il revisionismo perbenino riscriverebbe la storia e i destini di uomini e donne. La verità è che i riti dell’adescamento oggi somigliano alla viabilità. Mezzi sempre più esplosivi, prestazionali, accattivanti… in dialettica con limiti sempre più stringenti, contravvenzioni sempre più punitive. Collisione inevitabile in una sintesi cretina. Con la differenza che le auto e le moto puoi sempre portarle in pista, liberare la passione e scatenare il motore; con il sesso non è più possibile, perché spendere una sana domenica al postribolo ci è da tempo precluso. Struggenti ricordi quando papà, per festeggiare solennemente il mio quattordicesimo compleanno, mi portò in quel di Liegi a conoscere Clio la Cendrée – all’epoca in cui l’Europa era ancora luogo di fiammeggiante scambio culturale – fra i cui seni esuberanti e premurosi sono diventato uomo. Di questi tempi la cappa paranoide che ci occlude le stelle inaridisce ogni spontaneità, piega al calcolo, detta regole, per lo più sceme; demolita la prammatica del galateo – dove nell’autodisciplina si sublimava l’aspettazione e quindi il piacere – ha imposto un nuovo codice da inquisitori laici, che assassina il desiderio nel momento in cui cerca di amministrarlo. Si è quasi concretizzato l’orizzonte di Arancia meccanica, dove la brutalità e frustrazione sessuale del sistema erano molto più sinistre della scanzonata e virtuosistica violenza che volevano moralizzare. Perché abbiamo sostituito all’angelica malìa del peccato, che era pur sempre libertà… il gusto perverso e dispotico del castigo.

Alec Baldwin litiga con Asia Argento su Weinstein e la blocca su Twitter. L’attore aveva polemizzato contro la «giustizia a scoppio ritardato», Argento gli aveva dato dell’idiota: lei e il fidanzato chef Bourdain sono stati così oscurati dai suoi social, scrive Chiara Maffioletti il 5 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Alec Baldwin e Asia Argento sono stati protagonisti di uno scambio di messaggi su Twitter molto poco rilassati, che hanno portato l’attore a bloccare l’account di Argento, impedendole così di continuare a comunicare con lui.

Gli insulti e le accuse. Tutto è nato da una critica dell’attrice italiana per una intervista alla Pbs, in cui il «Donald Trump» di Saturday Night Live aveva polemizzato con la «giustizia a scoppio ritardato» ottenuta da Rose McGowan nel caso Harvey Weinstein. Il litigio è scoppiato quando Asia, una delle donne che per prima ha accusato Weinstein di violenza sessuale, ha dato a Baldwin del «completo idiota»: «Altrimenti stai proteggendo i tuoi amici e salvando la tua reputazione. Forse tutte e tre le cose».

La risposta di Baldwin. Una frecciata a cui Baldwin ha risposto, dicendo: «I casi sono due: se dipingi tutti gli uomini con lo stesso colore, o finisci il colore o finisci gli uomini». Dopodiché, appunto, l’ha bloccata su Twitter. Un passaggio che Asia Argento ha prontamente fatto notare: «Mi ha bloccato. Porto questa medaglia con onore». Ed è stato bloccato anche il suo fidanzato, lo chef superstar Anthony Bourdain: anche lui aveva avuto un battibecco con l’attore su questa vicenda.

Nuove accuse per Spacey. Nel frattempo si arricchisce di nuovi pezzi anche lo scandalo che ha travolto Kevin Spacey. Il figlio di Richard Dreyfuss lo ha accusato di averlo molestato in presenza di suo padre. L’episodio risalirebbe al 2008. Harry Dreyfuss, che all’epoca aveva 18 anni, ha raccontato su Buzzfeed che l’attore aveva invitato lui e il padre nel suo appartamento di Londra a leggere un copione.

La mano sui pantaloni di Harry Dreyfuss. I tre leggevano il testo quando il ragazzo ha sentito la mano di Spacey che si faceva strada lungo i suoi pantaloni. «Mi sono detto, non si azzarderà a farlo in presenza di papà», ha raccontato Harry: «Ma la sua mano è rimasta lì, e ogni volta che cercavo di spostarmi, tornava alla carica fino a quando non è arrivata all’inguine». Richard Dreyfuss, ha detto suo figlio, era così preso dalla lettura che non si è accorto di nulla.

Il sostegno del padre. Ci sono voluti anni prima che il figlio si sentisse di raccontare dell’abuso al padre. «Kevin Spacey è un predatore sessuale», ha scritto su Buzzfeed: «Ma non avevo mai pensato che parlarne sarebbe stato una opzione». Quanto a Richard, oggi su Twitter ha elogiato il coraggio del figlio per aver raccontato la sua storia: «Amo mio figlio oltre ogni parola e oggi sono così orgoglioso di lui». Harry Dreyfuss è uno degli oltre dieci uomini che fino ad oggi hanno accusato Spacey di molestie sessuali.

Il caso Weinstein ha scoperchiato il vaso di Pandora Gran Bretagna, Francia, Austria: lo scandalo molestie travolge anche la politica. E' una inchiesta di Le Monde, nel numero in edicola oggi, a far esplodere lo scandalo. Diverse donne del Front National "accusano in modo ricorrente di essere vittima di aggressioni, molestie o minacce da parte di membri del partito". Accade mentre dalla Gran Bretagna arrivano notizie di altre accuse e sospensioni e in Austria si dimette lo storico funzionario dei Verdi, Peter Pilz Tweet. Molestie, bufera sul governo britannico: dopo Fallon altri ministri rischiano il posto Londra, anche una attivista accusa Green di molestie. May indaga sul suo numero due. Un'altra donna accusa Donald Trump di molestie, scrive il 4 novembre 2017 "Rai News".  Dal cinema alla finanza e, in ultimo, alla politica, il salto è stato breve. Il caso Weinstein ha scoperchiato il vaso di Pandora, ha spazzato via dubbi e timori ed ecco che le denunce di molestie sessuali si allargano e sconfinano fino a diventare uno scandalo globale che travolte ministri e deputati. La prima a essersi trovata tra le mani un dossier imbarazzante è stata Theresa May. Il ministro della Difesa Fallon si è dimesso, un cono d'ombra è calato sul vice di May, Green, un deputato Tory è stato sospeso dal partito proprio oggi. A loro potrebbero aggiungersi molti altri, visto che quel dossier preparato da assistenti parlamentari contiene 40 nomi.  Oggi, tocca a Francia e Austria. Oltralpe, è una inchiesta di Le Monde a far esplodere lo scandalo. Dopo attrici, medici, poliziotte e consulenti finanziarie, tocca a diverse donne del Front National, il partito di estrema destra. Secondo il quotidiano di Parigi, "diverse donne accusano in modo ricorrente di essere vittima di aggressioni, molestie o minacce da parte di membri del Front National". L'inchiesta di Le Monde parte da un episodio del luglio 2016, quando una ex collaboratrice del partito denuncia mesi di minacce e ricatti da parte di un consigliere regionale, Axel Loustau. Interviene la polizia, ma il presidente del gruppo FN in Parlamento, Wallerand de Saint-Just, non dà peso alla vicenda. Loustau un uomo di fiducia di Marine Le Pen, tesoriere del piccolo movimento della presidente del FN, "Jeanne". Ma non l'unica volta che fatti del genere sarebbero accaduti. Una consigliera regionale del FN, Aurelie Vournet, ha denunciato l'ex amante, che l'avrebbe picchiata proprio dopo una seduta del partito. La Vournet avrebbe denunciato i fatti alla Le Pen, che avrebbe per risposto di rivolgersi alla giustizia. Nel partito, sostiene Le Monde, "il culto della virilità e l'indulgenza nei confronti di comportamenti gallici, secondo un'espressione utilizzata nei corridoi, può insabbiare comportamenti problematici". In Gran Bretagna sospeso deputato Tory, arrivano nuove accuse a Fallon L'ultimo nome a venire a galla è quello del deputato conservatore Charlie Elphicke, 46 anni, sospeso dal partito sulla base di "accuse gravi": talmente gravi da coinvolgere per la prima volta, a dispetto delle smentite dell'interessato, la stessa polizia, a cui la denuncia è stata già trasmessa. Il partito di Theresa May deve fare i conti anche con nuove rivelazioni sull'ex ministro della Difesa, Michael Fallon. Stando al Times, Fallon si sarebbe infatti dimesso non solo per vecchi episodi di presunte molestie, ma anche per un'accusa di "aggressione sessuale" vera e propria - che egli nega - arrivata sul tavolo della May poche ore prima del passo indietro. Intanto, spuntano ombre pure sul Labour di Jeremy Corbyn: dopo la sospensione del deputato Kelvin Hopkins, un'attivista ha accusato Clive Lewis, ex ministro ombra della Difesa, d'averla "palpeggiata". Lui smentisce, ma il partito indaga. Austria: si dimette l'ex capo dei Verdi, Pilz Sempre in queste ore, il deputato austriaco Peter Pilz, storico funzionario dei Verdi, entrato in Parlamento il mese scorso con un'omonima lista anti-establishment, ha annunciato le sue dimissioni dopo le accuse di molestie sessuali che ha comunque sempre negato. Durante una conferenza stampa, Pilz ha fatto sapere che non darà seguito al suo incarico, ottenuto nelle elezioni di ottobre, ma che continuerà ad appoggiare "da fuori" la sua lista, la Lista Peter Pilz, fondata a luglio dopo essere uscito dai Verdi di cui era co-fondatore. Secondo quanto riferito dall'emittente austriaca Orf, una dipendente dei Verdi ha accusato Pilz, nel 2106, di abusi sessuali in almeno 40 occasioni. La dirigenza del partito ha confermato che un caso "ha mostrato le caratteristiche delle molestie" ma che era stato deciso di tenere tutto sotto silenzio su richiesta della donna coinvolta. Lo stesso Pilz accusa però il suo ex partito di non aver voluto chiarire le accuse, definendole "invenzioni". Inoltre, al settimanale Falter una giovane donna ha rivelato di essere stata molestata da Pilz nel 2013 nel corso di un forum a Alpbach. Il deputato ha ammesso di non ricordare il caso ma di essere disposto ad crederlo reale "se vi sono almeno due testimoni".

Scandalo molestie, dallo spettacolo alla politica: crescono le denunce. Lo scandalo sulle molestie dilaga a macchia d'olio passando dal mondo dello spettacolo alla politica, scrive "Palermomania.it" il 05/11/2017.  Lo scandalo sulle molestie dilaga a macchia d’olio passando dal mondo dello spettacolo alla politica. Adesso è il turno dell’Austria, dove Peter Pilz - ex capo dei Verdi, adesso della "Pilz List", che ha ottenuto quattro seggi alle ultime elezioni - si è dimesso da leader del suo gruppo dopo le accuse di molestie sessuali mosse nei suoi confronti da una giovane donna e risalenti al 2013. "Mi sono sempre battuto per gli standard rigorosi e ora questi standard li applico a me", ha dichiarato. Il 63enne Pilz ha deciso di dimettersi dopo un articolo pubblicato dal settimanale Falter, al quale una giovane donna ha rivelato di essere stata molestata nel 2013 nel corso di un forum a Alpbach. "Mi mise le mani ovunque", ha raccontato la donna. Pilz dice di non ricordare nulla, ma assicura di prendere le accuse "molto seriamente". Il politico austriaco, inoltre, ha rigettato le insinuazioni fatte la scorsa settimana anche da una componente dei Verdi, che ha detto di aver ricevuto attenzioni non richieste in almeno una decina di occasioni quando ancora Pilz faceva parte del partito. Dallo spettacolo alla politica, sono sempre di più i personaggi di spicco che vengono accusati di molestie sessuali. Sono passati pochi giorni dalle dimissioni del ministro della Difesa inglese Michael Fallon e poche ore dalla denuncia delle militanti del Front National. Intanto, anche il mondo dello spettacolo continua a essere travolto dagli scandali: in Italia, Miriana Trevisan ha accusato Giuseppe Tornatore di averla molestata circa 20 anni fa. Il caso Weinstein, insomma, ha creato una vera e propria catena di denunce che pare non placarsi. E proprio il regista - da cui tutto è partito - è ora vicino all’arresto. Perfino l’Onu è stato coinvolto in questo maxi polverone. Tra luglio e settembre, le Nazioni Unite hanno ricevuto 31 nuove denunce di abusi sessuali che riguardano il personale dell'organizzazione. È quanto reso noto dal portavoce Stephane Dujarric.

Molestie: le donne denunciano e travolgono anche i partiti, scrive "Il Giornale di Brescia" il 5 novembre 2017. L’onda lunga dello scandalo Weinstein, il produttore di Hollywood finito in disgrazia per molestie e stupri e ora rischia l’arresto, sta contagiando anche l’Europa investendo le istituzioni e i partiti. È un vero e proprio terremoto quello delle molestie sessuali. La politica. Dapprima ha interessato il Regno Unito con il traballante governo May alle prese con le complicazioni della Brexit che perde pezzi (si è dimesso il ministro della Difesa Fallon, c’è il vice della May Green che rischia, ieri è stato sospeso un deputato Tory), mentre notizia di ieri lo scandalo ha colpito il Front National, il partito nazionalista presieduto da una donna, Marine Le Pen. E pure in Austria non se la passano troppo bene. Si è infatti dimesso, rinunciando dal suo seggio in parlamento, Peter Pilz, leader di una lista (dopo la scissione dai Verdi) che ha conquistato 4 seggi nelle ultime politiche. La decisione dopo le accuse arrivate da una giovane donna che aveva denunciato, al settimanale Falter, di essere stata molestata nel 2013 durante una conferenza di partito. In Francia il quotidiano Le Monde scrive che «diverse donne accusano di essere vittima di aggressioni, molestie o minacce da parte di membri del Front National». L'inchiesta di Le Monde parte da un episodio del luglio 2016, quando una ex collaboratrice del partito denuncia mesi di minacce e ricatti da parte di un consigliere regionale, Axel Loustau. Interviene la polizia ma il presidente del gruppo Fn in Parlamento, Wallerand de Saint-Just, non dà peso alla vicenda. Loustau è uomo di fiducia di Marine Le Pen, Nel partito, sostiene Le Monde, «il culto della virilità e l'indulgenza nei confronti di comportamenti gallici, secondo un'espressione utilizzata nei corridoi, può insabbiare comportamenti problematici». Tace la Le Pen che si è lamentata nei giorni scorsi dell’inedia del Governo di fronte alle violenze compiute da profughi. Il cinema. Intanto a Hollywood lo scandalo cambia genere non modalità, investendo uno degli attori di punta, Kevin Spacey, protagonista di House of Cards, la fiction tv che vede l’attore nei panni del presidente degli Usa. Netflix pensa di far uscire il personaggio attraverso un omicidio. E l’Italia? Dopo le denunce di Asia Argento contro Weinstein, c’è la sfogo della starlette Trevisan contro il regista premio Oscar Tornatore. Ma aperto il vaso di pandora, potrebbe essere solo il primo caso di un lunga serie.

Gabriele Salvatores: “Le molestie sessuali non sono solo nel cinema”, scrive "consumatrici.it" il 05/11/2017. Un altro famoso regista italiano interviene sul tema delle molestie sessuali. Si tratta di Gabriele Salvatores, che ieri ha affermato: “Il problema delle molestie e delle violenze sessuali credo che esista dappertutto: nel mondo del cinema fa più notizia, ma questa cosa succede nell’università, negli ospedali, nelle scuole, negli uffici. E vorrei ricordare che a un certo punto il Parlamento italiano ha deciso di credere che Ruby era la nipote di Mubarak…”.

Il parlamento e la nipote di Mubarak. Lo ha detto il regista premio Oscar Gabriele Salvatore, a Lucca Comics, a margine della presentazione del nuovo film “Il ragazzo invisibile – seconda generazione”, parlando degli scandali nel mondo del cinema che in questi giorni hanno lambito anche Giuseppe Tornatore, accusato dalla showgirl Miriana Trevisan di averla molestata (accuse che l’autore di “Nuovo cinema paradiso” ha smentito annunciando il ricorso alle vie legali). “Ben venga questo momento che permette a tante donne di prendersi un attimo di rivincita e denunciare l’abuso di potere con finalità sessuali”, dice Salvatores, “Ma non è un problema solo del cinema. E vorrei anche cominciare a capire dove esistono le connivenze”.

La accuse di Miriana Trevisan a Tornatore. Forse comincia a comparire il nome del regista italiano – potente ed influente – di cui si è tanto parlato nei giorni scorsi a proposito di molestie sessuali. Ed è vero che si tratta di un nome di primo piano. Lo fa Miriana Trevisan, in una intervista a Vanity Fair rilanciata da Dagospia. “È una storia di vent’anni fa. Probabilmente lui neanche se ne ricorda. Ma io sì. E ricordo anche molto altro. Oggi, nel clima post Weinstein che si respira anche in Italia, si è fatta coraggio e torna su un episodio di 20 anni fa. Miriana Trevisan, una delle ragazze di Non è la Rai, è stata sposata per 10 anni al cantante Pago, dal quale ha avuto un figlio. I due – dal 2013 – hanno rotto definitivamente.

Negli uffici di Giuseppe Tornatore. “Andai negli uffici di Giuseppe Tornatore. Era un appuntamento che mi aveva organizzato il mio agente. Non era un provino, ma un primo incontro in vista di un film in lavorazione, La leggenda del pianista sull’Oceano. C’era una segretaria che mi accolse, ma poi se ne andò. Rimanemmo soli. Dopo qualche tranquilla chiacchiera sul film, quando ci stavamo salutando, il regista mi chiese di uscire con lui quella sera per andare a mangiare una pizza. Io risposi che avevo già un impegno, lo ringraziai e mi alzai per andarmene.

“Mi seguì fino alla porta…” “Lui – continua Miriana – mi segui fino alla porta, mi appoggiò al muro e cominciò a baciarmi collo e orecchie, le mani sul seno, in modo abbastanza aggressivo. Riuscii a sfilarmi e scappai via. Ero entrata sentendomi una principessa, a un passo da un sogno che si realizzava, pensavo ‘forse farò un film con un regista premio Oscar’ e sono uscita sentendomi uno straccio. Non riesco a dimenticarmi il suo sguardo: incantato al mio ingresso, pieno d’odio mentre uscivo. Come se avesse scoperto che il giocattolo erotico aveva la batteria scarica. Mamma, quanto ho pianto”.

“Consapevole di quel che dico…”. Al settimanale che le chiede se è consapevole della gravità delle sue affermazioni, la Trevisan risponde: “So benissimo che è la mia parola contro la sua”, ma mantiene ferma l’accusa.

Il regista minaccia una querela. Giuseppe Tornatore risponde su Repubblica e non è per niente tenero: “Non l’ho mai sfiorata. Io rammento solo un incontro cordiale, pertanto respingo le insinuazioni mosse nei miei confronti, riservandomi di agire nelle competenti sedi a tutela della mia onorabilità”. Ma è probabile che, a partire da oggi, si scateneranno nuove accusa contro di lui, dopo i tanti gossip “anonimi” dei giorni scorsi.

Dopo le accuse della Trevisan, la Gerini difende Tornatore. Claudia Gerini entra nella polemica innescata da Miriana Trevisan che ha accusato di molestie il regista Giuseppe Tornatore, scrive Luca Romano, Domenica 05/11/2017, su "Il Giornale". Claudia Gerini entra nella polemica innescata da Miriana Trevisan che ha accusato di molestie il regista Giuseppe Tornatore. La Gerini di fatto al Messaggero ha messo nel mirino la showgirl difendendo il regista con cui ha lavorato: "Ho solo ricordi piacevolissimi dell'esperienza con Tornatore che si è comportato come un galantuomo d'altri tempi. È giusto, ci mancherebbe, che le violenze sessuali vengano denunciate e punite. Ma non lo è cavalcare l'aria del tempo solo per far parlare di sé". Ma la posizione dell'attrice non è isolata. Infatti altre colleghe che hanno lavorato con Tornatore si schierano dalla parte del regista: "Giuseppe un molestatore? Ma se è uno dei più grandi gentiluomini con cui abbia mai lavorato - dice la Buy - È impensabile che abbia assalito qualcuna", ha affermato Margherita Buy. Poi è stato il turno di Laura Chiatti: "Tornatore è un vero signore e un serio professionista. Con me è stato ineccepibile, chiedendomi di partecipare ad uno dei suoi film migliori, mi ha fatto un grande onore". Intanto Tornatore, dopo aver respinto le accuse della Trevisan, ha deciso di tutelarsi nelle sedi opportune.

Miriana Trevisan: «Scappai da Tornatore quando lui mi spinse al muro, e mi mise le mani sul seno», scrive Paola Jacobbi su "Vanityfair.it" il 3 novembre 2017. La showgirl racconta per la prima volta l'episodio avvenuto venti anni fa negli uffici del regista premio Oscar: «Mi seguì fino alla porta, e cominciò a baciarmi». «È una storia di vent’anni fa. Probabilmente lui neanche se ne ricorda. Ma io sì. E ricordo anche molto altro». Lo sguardo è malinconico, non rabbioso, ma deciso a parlare. Siamo a casa sua, davanti a due tazze di tisana. Lei è Miriana Trevisan, napoletana, 44 anni, un figlio di otto, un viso dai lineamenti che sembrano disegnati al carboncino. Non aveva mai raccontato nulla di quello che le è successo dietro le quinte, nel corso di una carriera iniziata ai tempi del popolarissimo programma televisivo Non è la Rai, nei primi Novanta, tra alti e bassi, lunghe sparizioni, ritorni e un sogno ricorrente: diventare un’attrice di cinema. Oggi, nel clima post Weinstein che si sta respirando anche in Italia, si è fatta coraggio.

Due settimane fa lei ha scritto un articolo sul sito Linkiesta in cui afferma che, sull’onda di questo grande dibattito mondiale sulle molestie, le sono tornati alla mente una serie di episodi. Per esempio?

«Per esempio, appunto, vent’anni fa, andai negli uffici di Giuseppe Tornatore. Era un appuntamento che mi aveva organizzato il mio agente. Non era un provino, ma un primo incontro in vista di un film in lavorazione, La leggenda del pianista sull’Oceano. C’era una segretaria che mi accolse ma poi se ne andò. Rimanemmo soli. Dopo qualche tranquilla chiacchiera sul film, quando ci stavamo salutando, il regista mi chiese di uscire con lui quella sera per andare a mangiare una pizza. Io risposi che avevo già un impegno, lo ringraziai e mi alzai per andarmene. Lui mi segui fino alla porta, mi appoggiò al muro e cominciò a baciarmi collo e orecchie, le mani sul seno, in modo abbastanza aggressivo. Riuscii a sfilarmi e scappai via. Ero entrata sentendomi una principessa, a un passo da un sogno che si realizzava, pensavo “forse farò un film con un regista premio Oscar” e sono uscita sentendomi uno straccio. Non riesco a dimenticarmi il suo sguardo: incantato al mio ingresso, pieno d’odio mentre uscivo. Come se avesse scoperto che il giocattolo erotico aveva la batteria scarica. Mamma, quanto ho pianto».

È consapevole delle accuse che sta muovendo?

«So benissimo che è la mia parola contro la sua».

Era la prima volta che le succedeva una cosa del genere?

«Con qualcuno del mondo del cinema sì. Anni prima avevo fatto un provino con il direttore casting del film Il Postino ed era stato tutto superprofessionale. Non mi presero, ma ero contenta lo stesso di esserci arrivata. Ancora oggi conosco le battute a memoria».

E in televisione?

«Guardi, tutti pensano che a Non è la Rai succedesse chissà che cosa perché era una trasmissione piena di belle ragazze, ma io ci sono sempre stata benissimo. Ho avuto una grande delusione solo quando scoprii che il corso di dizione e recitazione che ci avevano promesso era una bufala. Anche a Striscia la notizia trovai un ambiente gentile e professionale».

Ci fu un momento in cui era molto presente in televisione.

«Sì, ero popolare. In quel periodo, per farle capire il clima, una produttrice e suo marito organizzavano spesso cene invitando noi ragazze della televisione insieme ad altri ospiti che di solito erano uomini facoltosi che, a fine serata, cercavano di accompagnarti a casa e spesso ci provavano. Smisi di andarci. Un giorno venni chiamata per un colloquio a Roma da un pezzo grosso della televisione. Siamo in un piccolo studio, lui mi ripete che sono adatta per il cinema, che conosce Tizio e Caio, che lui mi potrebbe aiutare. Poi cambia discorso e mi domanda come va la mia vita sessuale, che cosa faccio con il mio fidanzato e altre indiscrezioni del genere. Io non rispondo, ma lui esce dalla scrivania, mi si avvicina e cerca di infilarmi la lingua in bocca. Io mi allontano, mi affaccio sul corridoio, incontro una sua collaboratrice, una donna deliziosa che mi dice: “Hai ancora il rossetto, non ti vedremo più”. Ho capito che era fiera di me e al tempo stesso dispiaciuta per me, per il mio futuro».

Che cosa è successo, dopo?

«Da quel momento la mia carriera in tivù è rallentata, nessuno mi ha cacciato, ma nessuno nemmeno mi ha dato opportunità per crescere. Quelle come me, quelle che non ci stavano, venivano bandite da feste, inviti, occasioni di visibilità e pubbliche relazioni. C’era anche un nome per noi».

Quale?

«Figa bianca».

Dal 2004, lei ha lavorato sempre meno in tivù. Come si è mantenuta?

«Ho fatto tante cose, le stesse che faccio ancora: presento convention, serate in piazza e poi dipingo e ho scritto dei libri di favole per bambini. Cerco di tenere viva la mia creatività. Quando è scoppiato il caso Weinstein ho scritto di getto quell’articolo. Il mio compagno, che collabora al sito Linkiesta, mi ha convinto a pubblicarlo».

Una decina d’anni fa ci siamo incontrate sul set di un film in Puglia, nel cast c’era Don Johnson, che io ero venuta a intervistare per Vanity Fair. Il film si intitolava Bastardi. Come ci era finita?

«Avevo fatto un regolarissimo provino con il regista Andres Maldonado. Mi presero e io, per prepararmi al ruolo, che era da co-protagonista, presi un coach per studiare il copione, investendoci tempo e denaro. Peccato che anche quella fu una delusione».

Racconti.

«Il produttore, Massimiliano Caroletti, mi diede il tormento per giorni. Io ero sconvolta dalla sua sfacciataggine anche perché stava per arrivare sul set sua moglie, Eva Henger. Lo rifiutai in tutti i modi. Un bel giorno mi chiamarono per dirmi che il copione era cambiato: avevano tagliato quasi tutte le mie scene».

Weinstein, Julianna Marguiles accusa di molestie il produttore e l’attore Steven Seagal. Proseguono le denunce di abusi all'interno del mondo cinematografico. La polizia di New York apre a un possibile arresto per stupro del produttore, scrive il 4 novembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Un’altra attrice americana denuncia le molestie ricevute da Harvey Weinstein, fondatore della casa di produzione Miramax che adesso, come anticipato dai media americani, ora rischia l’arresto. Ma questa volta la denuncia ha coinvolto anche un’altra importante stella di Hollywood: Steven Seagal. “Entrambi hanno cercato di molestarmi”, ha dichiarato Julianna Marguiles, vincitrice di un Golden Globe e tre Emmy per i suoi ruoli in E.R. – Medici in prima linea e The good wife. L’incontro con Weinstein risale al 1996, quando l’attrice era stata convocata per un provino all’hotel Peninsula. “Mi ha aperto la porta in accappatoio – ha dichiarato la Marguiles – Aveva preparato una tavola apparecchiata per due. Sono scappata e ovviamente non ho avuto la parte”. Simile le circostanze dell’appuntamento con Seagal. L’attrice, all’epoca ventitreenne, era stata invitata in un hotel, sempre per un casting. “Quando sono entrata nella stanza Seagal mi ha fatto vedere la sua pistola. In vita mia non ne avevo mai vista una, mi sono messa a urlare e non so come sono comunque riuscita a uscire indenne da lì, senza essere stata violentata né ferita”. Del produttore finito al centro della bufera ha parlato anche il capo dei detective di New York, Robert Boyce, aprendo ad un possibile arresto per stupro: “Abbiamo conferme della violenza, se fosse ancora in città l’avremmo sicuramente fermato, anche se parliamo di fatti non recenti e dobbiamo raccogliere altre prove”. Intanto, il caso Weinstein si sta allargando sempre di più e sta investendo gli ambienti non solo del cinema ma anche della politica. In Francia, ad esempio, il quotidiano Le Monde ha riportato la denuncia di alcune donne del Front National che hanno denunciato molestie da parte di alcuni membri del partito.

Molestie, l'attrice Margulies ora accusa Weinstein e Seagal. L'attrice americana Julianna Margulies si unisce alla lista di donne che accusano il produttore Harvey Weinstein di molestie, scrive Luisa De Montis, Sabato 4/11/2017, su "Il Giornale". L'attrice americana Julianna Margulies si unisce alla lista di donne che accusano il produttore Harvey Weinstein di molestie. Ma nel suo racconto al programma "Jus Jenny" della Sirius XM la protagonista della fortunata serie The good wife punta il dito anche contro un collega: Steven Seagal. Come riporta Fox News, Margulies, ha affermato che entrambi hanno cercato di molestarla quando era all'inizio della sua carriera dopo essere stata portata nelle rispettive camere d'albergo dalle loro assistenti donne, apparentemente per motivi di lavoro. Invece, "queste donne mi avevano portato nella tana del lupo". Nel caso di Seagal l'attrice, diventata famosa per il ruolo dell'infermiera Hathaway in E.R., aveva 23 anni. Una sua collaboratrice le disse di raggiungerlo nel suo hotel per parlare di una scena e di un'eventuale parte in un film. Ma quando lei arrivò in quella stanza c'era solo lui che "mi fece vedere la sua pistola. In vita mia non ne avevo mai vista una, mi sono messa a urlare e non so come sono comunque riuscita a uscire indenne da lì, senza essere stata violentata né ferita". Il caso Weinstein risale invece al 1996, quando Margulies stava girando la terza stagione del medical drama. L'attrice precisa di aver accettato un incontro con il produttore americano, in una stanza di hotel, per ottenere una parte solo su garanzia da parte della collaboratrice che non sarebbe stata sola con lui. Weinstein "aprì la porta in accappatoio. Potevo vedere dietro di lui candele e una tavola apparecchiata per due. L'ho visto fissare l'assistente furioso, e poi me, ancora più furioso. E mi sbattè la porta in faccia". Margulies, come prevedibile, non ottenne quella parte.

«LA SQUADRA DI WEINSTEIN VOLEVA BLOCCARE LO SCOOP». A.D.P per “il Tempo” del 5 novembre 2017. «La squadra di Weinstein mi ha minacciato, tentando di bloccare il mio articolo». Lo scandalo nello scandalo è scoppiato ieri quando Ronan Farrow, figlio naturale di Woody Allen e Mia Farrow, nonché autore dell'esplosiva inchiesta del «New York Times» che ha inguaiato il fondatore di Mira max, ha raccontato di aver dovuto affrontare un ostacolo severo prima di poter pubblicare gli articoli. La rivelazione è stata fatta dall' ex collaboratore di Hillary Clinton nel corso del «Late Show» di Stephen Colbert mentre Hollywood sembra scossa da un terremoto impossibile da fermare. Sempre ieri Netflix ha annunciato di aver rotto ogni contatto con Kevin Spacey, protagonista (bravissimo) di «House of Cards» ma accusato da tre uomini di averli molestati quando erano adolescenti. Non solo, Netflix ha tolto Spacey dai cartelloni pubblicitari della serie televisiva, lasciando solo Robin Wright. Ad Hollywood pare che tutti sapessero che il premio Oscar per «American Beauty» fosse un predatore sessuale mentre l'attore tace, dopo aver confessato di essere omosessuale ed essersi scusato con il primo dei suoi accusatori. Lo scandalo delle molestie sessuali potrebbe rivelarsi un pozzo senza fondo e mettere nei guai attori e registi di fama. Intanto gli obiettivi sono puntati ancora tutti su Harvey Weinstein, travolto dalla marea vischiosa dell'inchiesta giudiziaria che si preannuncia lunga e tortuosa. La polizia di New York ha annunciato che farà in modo che il produttore non lasci gli Stati Uniti. «Non vogliamo che faccia come Roman Polanki, riuscito a sfuggire alle manette nonostante un'accusa di stupro». Perché secondo gli inquirenti, in mezzo ad una quarantina di denunce, ci sarebbe uno stupro acclarato, quello ai danni di Paz de Huerta, 33 anni, avvenuto nel 2010. La circostanza potrebbe far scattare le manette e di conseguenza spingere Weinstein a fuggire all' estero. «Faremo in modo che ciò non succeda» hanno detto gli inquirenti. Il produttore, fra psicofarmaci e sedute di gruppo sembra essere rimasto l'ombra del mogul che era una volta. Resta da chiedersi solo perché lo scandalo sia esploso ora ed in questi termini.

Gli oltre 75 casi di violenze e molestie sessuali denunciati dopo il tweet di Asia Argento. Il 12 ottobre scorso un tweet dell'attrice ha scatenato una valanga che ora coinvolge due continenti, dal mondo del cinema a quello della politica, scrive il 2 novembre 2017 "AGI". "Piccola farò di te una stella": la vecchia gag diventa denuncia e scrolla dalle fondamenta il mondo dello spettacolo. Ma subito dopo si arriva ai palazzi della politica, alle redazioni dei giornali. È un contagio che si allarga, diventa l'hastag #MeToo su Twitter e dilaga sui social. A Hollywood il re dei produttori, Harvey Weinstein è entrato nella tempesta per un tweet di Asia Argento, ma all'attrice italiana, che quando fu costretta a un rapporto con lui a Cannes aveva 21 anni, se ne sono aggiunte subito altre. Un terremoto che è arrivato fino a coinvolgere il Parlamento inglese, con decine di accuse di molestie sessuali che hanno portato il 1 novembre alle dimissioni del ministro della Difesa britannico Michael Fallon, accusato di molestie sessuali. Ecco tutti i casi denunciati finora:

Asia Argento. Questo è il maiale che ha violentato e molestato centinaia donne, fra cui la sottoscritta. Solo 33 di noi hanno avuto il coraggio di parlare- 12 ottobre 2017.

Giovanna Rei su Facebook ha rivelato di aver incontrato Weinstein quando era poco più che ragazzina, negli anni '90.

Lupita Nyongo, attrice premio Oscar, ha raccontato di aver subito molestie da Weinstein. Anche in questo caso lui la invitò nella sua camera e le offrì un massaggio.

Lena Heade, su Twitter ha raccontato del primo incontro con il produttore, nel 2005, ha descritto "gesti e parole sconvenienti". Qualche anno dopo Lena l'ha rivisto a Los Angeles e in quell'occasione Harvey ha continuato a farle domande sulla sua vita privata prima di invitarla nella sua camera di albergo per mostrarle uno script che considerava perfetto per lei.

Gwyneth Paltrow, allora 22enne, subì le attenzioni di Weinstein nel 1996. Ha raccontato, l'attrice, di essere stata invitata in albergo dal produttore che anche a lei avrebbe chiesto dei massaggi.

Angelina Jolie, si trovò alle prese con il produttore a fine anni Novanta: ha ricevuto da Weinstein la proposta di passare una notte con lui che lei ha respinto.

Ashley Judd, nel 1997, mentre era nel bel mezzo delle riprese di "Il collezionista", Ashley Judd fu invitata da Weinstein nella camera d'albergo. Lui le chiese se preferisse fargli un massaggio o vederlo fare la doccia.

Rose McGowan, aveva 23 anni la prima delle accusatrici famose di Weinstein quando lui la costrinse a un rapporto sessuale contro la sua volontà. L'attrice ha parlato di vero e proprio stupro, non di molestie come invece hanno fatto altre dive.

Mira Sorvino, incontrò Weinstein al Toronto Film Festival. Lui le fece un massaggio e poi cercò di avere un rapporto con lei, che riuscì a scappare.

Judith Godrè ha raccontato di aver subito abusi durante il Festival di Cannes nel 1996. Weinstein dopo una colazione di lavoro le chiese un massaggio, provò a baciarla e le mise le mani sotto il maglione. 

 Rosanna Arquette, nel cast di "Pulp Fiction", ha raccontato che Weinstein cercò di obbligarla a farli un massaggio e a masturbarlo.

Heather Graham, ha raccontato di come Weinstein le promise un ruolo in un film in cambio di prestazioni sessuali.

Kate Beckinsale, nel 1990, quando aveva solo 17 anni, venne invitata nella camera d'albergo da Weinstein che le aprì in accappatoio e le offrì da bere. Lei se ne andò dicendo che il giorno dopo doveva andare a scuola.

Cara Delevingne, che oggi ha 25 anni, sui social ha raccontato che Weinstein le propose un rapporto a tre.

Emma de Caunes, ha parlato di un tentativo di approccio subito da Weinstein nel 2010, nella camera d'albergo di lui. Che si presentò a lui "nudo e visibilmente eccitato".

Lea Seydoux, ha raccontato di un tentativo di aggressione subito nella stanza d'albergo di Weinstein: "Improvvisamente mi saltò addosso e provò a baciarmi. Ho dovuto difendermi. è grande e grosso, ho dovuto fare forza per resistere. Sono uscita dalla sua stanza, completamente disgustata".

Poi ci sono i casi che riguardano altri registi: 

Reese Witherspoon ha detto di essere stata molestata da un regista di cui non ha fatto il nome quando aveva solamente 16 anni. E che la invitarono a tacere altrimenti la sua carriera sarebbe finita.

Bjork sui social ha raccontato di aver subito nel 2000 molestie da parte di Lars von Trier, quando prese parte come attrice e compositrice a "Dancer in the Dark", film Palma d'Oro a Cannes. Von Trier ha respinto le accuse al mittente.

Jennifer Lawrence, ha rivelato che agli inizi della sua carriera fu costretta a mostrarsi nuda davanti a un produttore, accanto ad altre donne più magre per convincerla a perdere peso per un ruolo.

Vanessa Marquez, ha interpretato l'infermiera Wendy Goldman nelle prime tre stagioni di "ER Medici in prima linea". Ha detto di essere stata molestata da uno degli attori del cast, Eriq La Salle, e da uno dei membri del cast della produzione. Ma ha anche accusato George Clooney di aver contribuito a farla licenziare quando decise di parlare: "Mi disse le donne che non stanno al gioco perdono il posto", ha twittato l'attrice. Clooney ha smentito spiegando che non sapeva delle molestie e precisando che all'epoca e non poteva prendere alcuna decisione sul cast.

Fra le vittime ci sono anche uomini:

Anthony Rapp, attore di "Star Trek", sostiene di essere stato molestato da Kevin Spacey quando aveva 14 anni e lui 24. Era il 1986 e Rapp ha raccontato di aver subito pesanti avances sessuali da parte dell'attore che ha poi fatto coming out.

Tony Montana, fu palpeggiato da Kevin Spacey durante una serata a Los Angeles, quando era ubriaco. Ha spiegato di essersi poi sottoposto a una terapia di sei mesi per superare il trauma.

Anna Graham Hunter, quando aveva 17 anni ed era una stagista ha subito molestie e pesanti avances da parte di Dustin Hoffman mentre erano in corso le riprese di "Morte di un commesso viaggiatore". L'attore 80enne si è scusato.

Caterina Scorsone, accusa su Istagram James Toback di molestie sessuali, che il regista ha negato. Ma contro di lui ci sono le dichiarazioni di altre vittime: Selma Blair, Rachel McAdams e Julianne Moore.

Sei donne accusano il regista Brett Ratner.

Lasciando Hollywood, al di qua dall'Atlantico e si entra nei palazzi della politica:

La ministra svedese Margot Wallstrom rivela di aver subito delle molestie durante una cena tra leader a Bruxelles anni fa. Pochi giorni dopo la ministra per le Pari opportunità Asa Regner riferisce di aver subito molestie da un alto funzionario. 

Il teologo e studioso musulmano Tariq Ramadan, svizzero di nascita, viene accusato di violenza sessuale e molestie dalla scrittrice Henda Ayari e da un'altra donna, Christelle (nome di fantasia). Lo studioso ha smentito su facebook ed ha denunciato di essere vittima di "campagna di calunnie".

Un'inchiesta del Sunday times rivela che più di dodici donne, tra cui alcune deputate, hanno denunciato per molestie diversi europarlamentari. Il 25 ottobre l'Europarlamento ha tenuto un dibattito per stigmatizzare tali comportamenti.

Un'attrice, Heater Lind, ha accusato l'ex presidente Usa George H.W. Bush di molestie, in particolare di averla palpata e di aver fatto battute pesanti durante una photo opportunity. Lui, 93enne, si è scusato ma senza negare il fatto, definendolo "un tentativo di umorismo".

Il critico letterario statunitense Leon Wieseltier, importante autore della rivista New Republic, è stato accusato di aver molestato numerose colleghe in redazione e si è scusato di questo.

In Germania due attrici, Uschi Glas, 73 anni, Tina Ruland, 51 anni, e la 59enne presentatrice televisiva Birgit Schrowange, hanno denunciato molestie da parte di attori, registi e produttori. Ignoti però i nomi dei presunti colpevoli.

In Gran Bretagna il governo finisce nella bufera per un dossier in cui ricercatori e ricercatrici parlamentari segnalano gli esponenti dell'esecutivo del Parlamento britannico su cui pesano accuse di molestie. Si tratta di 15 tra ministri e sottosegretari del governo May e di circa 50 parlamentari per lo più conservatori. Tra loro il braccio destro della premier, Damien Green, che respinge le accuse. 

Chi è il regista molestatore italiano? Il parere dei registi più noti. Chi è il regista molestatore italiano? Nuove segnalazioni a Le Iene Show, ai cui microfoni parlano anche alcuni registi sullo scandalo scoppiato dopo il caso Weinstein, scrive Silvana Palazzolo il 5 novembre 2017 su "Il Sussidiario". E' andato in onda il 5 novembre 2017 il servizio di Le Iene Show per raccogliere le testimonianze dei più noti registi italiani riguardo il caso del "Weinstein italiano", un regista molto famoso accusato da diverse attrici e collaboratrici di diversi episodi in cui le stesse sarebbero state vittime di pesanti molestie. Poche però le testimonianze significative, alcuni registi come Nanni Moretti non hanno risposto alle domande, altri come Paolo Sorrentino e Giuseppe Tornatore (recentemente accusato quest'ultimo dalla soubrette e attrice Miriana Trevisan) erano irraggiungibili al telefono. Paolo Virzì si è detto a conoscenza di molestie che riguardano più il mondo della televisione che quello del cinema. Carlo Verdone ha affermato che senza riferimenti certi ci si ritrova nel semplice pettegolezzo, ma ha esortato le vittime a denunciare una situazione che rappresenta "una botta" per il mondo del cinema. Più preciso Gabriele Muccino, che ha affermato di non conoscere registi che hanno direttamente molestato attrici, ma ha raccontato come il sistema del cinema americano abbia una sorta di decalogo per evitare queste situazioni, regole che impediscono ad esempio di svolgere un colloquio con un'attrice con la porta dell'ufficio chiusa, proprio per permettere che ci siano sempre testimoni. Per questo Muccino ha specificato di ritenere impensabile il fatto di svolgere un provino a casa di un regista. Leonardo Pieraccioni ha affermato di non voler ridicolizzare la situazione con un suo parere ironico, ma la testimonianza più interessante è stata quella del giovane regista della saga di "Smetto Quando Voglio", Sidney Sibilia. Un po' imbarazzato, si è detto mortificato riguardo al fatto che qualche collega possa commettere abusi del genere, ma ha dato l'impressione di conoscere "per sentito dire" il nome del regista accusato, che la Iena Dino Giarrusso ha specificato aver girato circa 10 film. Segnale che nell'ambiente il nome incriminato circola già da tempo. (agg. di Fabio Belli)

L'INVITO A RACCONTARE. L'inchiesta de Le Iene Show sul “Weinstein italiano” ha acceso i riflettori sul mondo del cinema italiano. A differenza però di quanto avvenuto negli Stati Uniti per il caso del produttore cinematografico, l'opinione pubblica italiana fa finta di niente di fronte alle notizie sull'esistenza di molestatori seriali. Lo ha affermato la Iena Dino Giarrusso attraverso il suo profilo Facebook: “Per rompere il muro di omertà che protegge questi uomini squallidi, c'è un solo metodo #denunciamotutte”. Prosegue dunque la sua inchiesta sulle molestie sessuali alle donne del mondo dello spettacolo, ma i vari servizi sono importanti non solo per fare luce sulla situazione, ma anche per convincere chi è stato vittima di molestie a denunciare. “È l'unico modo per far finire questo schifo. NON ABBIATE PAURA, perché è proprio la paura che fa forte chi si permette di trattare le donne come oggetti, restando impunito”. E non è un caso se le segnalazioni sono cresciute negli ultimi tempi. Si parlerà anche di questo nella puntata di oggi, domenica 5 novembre, a Le Iene Show. (agg. di Silvana Palazzo)

LE IENE, ALCUNI REGISTI PARLANO DELLO SCANDALO. Prosegue l'inchiesta de Le Iene Show sulle presunte molestie subite da attrici del cinema italiano da parte di registi e produttori. Nella puntata di oggi, domenica 5 novembre, andrà in onda un nuovo servizio di Dino Giarrusso, che con la sua indagine ha aperto il vaso di Pandora. La Iena ha infatti raccolto nuove segnalazioni da parte di donne che sembrano confermare quanto emerso nei servizi precedenti, in particolare riguardo un noto personaggio dello star system cinematografico italiano. In realtà sono diversi i presunti molestatori: Giorgia Ferrero infatti ha parlato di un famoso regista napoletano, Tea Falco di un “noto regista di serie tv in prima serata”. Tre “mister X” la cui identità resta per il momento avvolta nel mistero. L'inviato Dino Giarrusso ha però trattato la vicenda da un punto di vista diverso, quello dei registi: per questo ne ha intervistati diversi per avere una loro opinione sullo scandalo che sta investendo il mondo dello spettacolo nazionale e internazionale. Del caso Weinstein e dei “Weinstein italiani” parleranno tra gli altri Leonardo Pieraccioni, Pif, Carlo Verdone, Giovanni Veronesi, Nanni Moretti.

IL CERCHIO ATTORNO AL “WEINSTEIN ITALIANO” SI STRINGE. Pioggia di segnalazioni a Le Iene Show dopo i servizi di Dino Giarrusso sui “Weinstein italiani”: l'uscita allo scoperto di diverse attrici, più o meno note, ha convinto altre colleghe a parlare e a raccontare la propria storia. Sono ore calde per l'identificazione di questi presunti molestatori, ma ce n'è uno che ha raccolto più accuse di altri: si tratta di un affermato regista e produttore, più che quarantenne, estremamente potente nell'ambito cinematografico. Si tratterebbe di un molestatore seriale, perché avrebbe un preciso schema, oltre che condotte intimidatorie ed esplicitamente sessuali. Il cerchio attorno a quest'orco si sta stringendo inesorabilmente, quindi presto uscirà il nome del “Weinstein italiano”. La lista delle attrici e delle operatrici dello spettacolo molestate dal regista sta crescendo insieme al coraggio di denunciare. Un vero e proprio terremoto sta per scatenarsi nello star system cinematografico italiano.

LE NUOVE SEGNALAZIONI. In vista del servizio di oggi, Le Iene Show hanno già pubblicato sul loro sito ufficiale diversi messaggi ed e-mail ricevute dalle presunte vittime del regista molestatore seriale. C'è ad esempio una 25enne che ha voluto raccontare la sua brutta esperienza: «Vedendo i vostri servizi e ascoltando i racconti delle altre vittime, sono quasi certa che proprio di lui si tratti. Sono tantissime infatti le analogie con la mia brutta esperienza: tutto parte da un provino, poi lui ti contatta, ti invita nel suo loft per darti delle dritte di recitazione... e magari ci scappa anche una palpatina! (...) La cosa che davvero mi ha scosso e che certamente mi ha sfiduciata nel continuare a fare l'attrice è l'insistenza con cui XXXXXXX, nonostante i miei rifiuti, abbia continuato per circa un anno e mezzo a insistere, con messaggi e chiamate, affinché ci vedessimo...». Su WhatsApp invece il messaggio di un'altra donna: «Stesso copione con tutte... ti dà un appuntamento allo "studio" e poi lo studio è casa sua... e poi cerca di metterti le mani addosso... Immaginavo che lo facesse con tutte... Io gli dissi subito che non avevo nessuna intenzione di andare oltre e lui mi disse: "e allora? Che vuoi fare?"».

Molestie, l'accusa di Virzì a Le Iene: "La tv si rivolga a se stessa", scrive Massimo Falcioni lunedì 6 novembre 2017. Stavolta a Le Iene parlano i registi. La vicenda Weinstein ha preso piede anche in Italia con le denunce di alcune attrici rivolte ad un misterioso personaggio del grande schermo. Ma se Dino Giarrusso per settimane ha dato la parola alle presunte vittime di molestie, ora i fari si spostano sulla categoria chiamata in causa, tra interviste non concesse, unanimi condanne e una inaspettata accusa all’universo televisivo.

E’ il caso di Paolo Virzì, che chiede alla iena di indagare piuttosto sul mondo della tv: "Un argomento così importante andrebbe trattato con delicatezza, con rispetto e non trasformarlo in una cosa voyeuristica, perché poi io stesso morbosamente sono stato attratto dal cercare di sapere. Siamo sicuri che questo è il modo giusto? Mi farei delle domande. Nel cinema non avevo mai sentito dire queste cose, ma invece mi risulta che in televisione, nei casting nelle trasmissioni soprattutto di varietà, sia molto più probabile che avvengano comportamenti impropri. Quindi mi sorprende che una trasmissione Mediaset, se è libera, non rivolga a se stessa".

Restando sul fronte toscano, Giovanni Veronesi ribadisce il suo appoggio ad Asia Argento, che diresse alla fine degli anni novanta in Viola bacia tutti. “Ho difeso Asia perché è una mia amica – dice - mi mise al corrente di questa cosa vent’anni fa. E’ la prova che le violenze non si cancellano mai”.

Dura condanna anche da parte di Leonardo Pieraccioni: “Qui non mi sembra una avance da vecchi marpioni. E’ proprio una malattia, una patologia vera e propria”.

Gabriele Muccino fa invece il paragone con l’America, dove è sbarcato per la prima volta nel 2006: "Non so chi sia questa persona e non voglio saperlo, mi dà fastidio l’idea che possa conoscerli o averli frequentati. Non è normale andare a casa del regista a fare un provino. Negli Usa una delle regole era quella di non chiudere l’ufficio quando si incontrava un’attrice. E’ un sistema che già ha sofferto di questo problema. C’è poi anche quell’altro fenomeno, ovvero l’attrice non conosciuta che non ha nulla da perdere e che può inventarsi una storia. C’è anche questa casistica.

Sia Carlo Verdone che Pif invitano le vittime a denunciare le molestie subite e ad uscire allo scoperto. “Questa vicenda porterà molti a darsi una regolata per il futuro- afferma l’attore romano - se confermato è certamente una botta per il cinema. Le ragazze non devono avere paura, bisogna aiutare a rimettere le cose in sesto”. Pierfrancesco Diliberto rincara la dose: “Un messaggio devastante è che se non la dai non lavori, non è così. Il produttore serio ti prende comunque, anche se hai denunciato. E’ chiaro che ti complichi la vita. La libertà ha sempre un prezzo in questo mondo. Vale per la mafia, vale per tutto”.

C’è poi Pupi Avati che parla di certezza dell’esistenza di un fenomeno del genere, ma chiede a Giarrusso di non essere interpellato. “Mi troverei nella condizione di non poter fare nessun nome. Ci sono persone che fanno parte o che hanno fatto parte dell’ambiente in cui vivo e del quale campo. Quindi se mi esime mi fa un grande regalo”.

Luca Miniero, Sidney Sibilia e Massimiliano Bruno confessano di non essere informati in materia, mentre non Nanni Moretti, Fausto Brizzi, Paolo Sorrentino e Giuseppe Tornatore non hanno rilasciato dichiarazioni.

Lo scrittore Signorini: "Sesso per fare carriera, rifiutai la proposta oscena". Quando lei insidia lui: "Una famosa giornalista mi propose di andare a casa sua", scrive Roberta Merlin il 4 novembre 2017 su "Ilrestodelcarlino.it". Lo scandalo partito dal caso di Harvey Weinstein tocca anche il mondo dell’editoria. Mattia Signorini, 37 anni, scrittore rodigino fondatore della scuola di scrittura Palomar e direttore artistico del festival letterario Rovigo Racconta, dalla sua pagina Facebookha denunciato di essere stato vittima di impliciti ricatti, attenzioni particolari in cambio di salti di carriera. Ma stavolta il Weinstein di turno è una nota giornalista italiana, una donna di 30 anni più grande di lui. Lo scenario è quello dei salotti della Milano che conta. È il 2007, l’uscita del primo romanzo Lontano da ogni cosa (Salani) porta il giovane Signorini da Rovigo alla capitale della mondanità. «La mia agente mi ha portato a una festa in un grande appartamento milanese – racconta lo scrittore nel suo sfogo su Facebook –. Voleva far conoscere un po’ di mondo a un ragazzo che veniva dalla provincia. A quella festa c’erano diverse personalità della cultura, qualche personaggio televisivo. Una sorta di Grande Bellezza in salsa nordica». L’incontro: «Distesa sul divano centrale, c’era una giornalista tuttora molto conosciuta che aveva da poco passato la sessantina. La stimavo. Stimavo la sua eleganza e le sue parole. Avrei voluto solo avere l’occasione di parlare con lei. E magari di farle avere il mio romanzo. Se le fosse piaciuto, un suo articolo avrebbe davvero fatto la differenza». Il giovane autore riesce ad avvicinarsi, lei si mostra incuriosita, abbandona i suoi due amici diciottenni e lo invita a sedersi vicino a lei. «Voleva conoscere la trama del mio romanzo, sapere cosa facevo nel resto della mia vita». Affascinante, «non lo posso negare». Ma «ero anche speranzoso di avere una sua recensione». La conversazione finisce. «Un’ora dopo l’ho vista avvicinarsi alla mia agente. Le ha detto qualcosa, poi è venuta verso di me e mi ha dato un bacio sulla guancia». Poi la proposta: «Mi ha sussurrato all’orecchio: ti aspetto a casa mia, così parliamo del tuo libro». L’ho guardata andare via abbracciata ai due diciottenni». «Ho chiesto alla mia agente cosa le avesse detto – prosegue –. Vuole che tu vada da lei, la risposta: ti farà una pagina intera, ma mi ha detto che questa recensione avrà un prezzo». Signorini non accetta la proposta indecente della nota giornalista, vuole farcela da solo. «Da lei non sono andato, non è mai uscita nessuna recensione sulla testata per cui scriveva. La mia agente mi ha detto che qualche copia venduta in più non valeva la bellezza di guardarsi allo specchio e sentirsi puliti. La pensavamo nello stesso modo». 

Mattia Signorini 2 novembre alle ore 21:02. AGGIORNAMENTO: Intorno a questo post c’è stato un bailamme sinceramente esagerato, è rimbalzato qua e là nei giornali senza il mio consenso. Forse non è stato letto bene, o forse l’ho scritto male io e non sono riuscito a trasmettere quello che volevo, o entrambe. È un post che parla di possibilità di scegliere, in casi come quello raccontato dove non c’è stata alcuna coercizione. In quasi ogni mio post racconto una piccola storia da cui traggo qualche conclusione personale, e che condivido con chi passa da questa pagina, come fosse una piccola piazza di buoni conoscenti dove incontrarsi ogni tanto. In questo caso, per chi non ha letto fino in fondo - semplificandola - la conclusione era: Ti fanno una proposta di quel tipo? Puoi dire di no e andartene per la tua strada, o dire di sì senza poi pentirtene dopo. That’s it. I giornali hanno riportato la parola “molestato”, tra l’altro attribuendola a una mia dichiarazione mai fatta. Nel post non ho parlato di molestie e ho rifiutato tutte le interviste. Ho cercato di fermare alcuni articoli dopo che mi avevano telefonato i giornalisti, ma non era in mio potere e non ci sono riuscito. Poi mi sono reso irraggiungibile al telefono proprio per evitare di alimentare questo gioco inutile anche solo rispondendo. Chi mi segue da un po’ su questa pagina sa bene quanto non ami la visibilità gratuita e quanto non faccia parte della mia persona. Prendere un post su facebook che parla di possibilità di scegliere e travisarne il contenuto per creare una notizia è un’operazione piuttosto triste e sleale. Mi dispiace per le vere vittime di violenza, sarebbe più opportuno parlare di loro). Pochi giorni prima che uscisse il mio primo romanzo pubblicato con un editore importante, la mia agente mi ha portato a una festa in un grande appartamento milanese. Voleva far conoscere un po' di mondo a un ragazzo che veniva dalla provincia ed era digiuno di tutto e di tutti. Era il settembre del 2007. A quella festa c'erano diverse personalità della cultura, qualche personaggio televisivo, una testata di gossip che scattava foto. Una sorta di Grande Bellezza in salsa nordica. Attaccato alla parete c'era anche il quadro di un pittore famoso del passato. Non ricordo chi era, è stato troppi anni fa, ma ricordo di aver pensato che dovesse costare come il fatturato annuale di una piccola azienda. Però una cosa me la ricordo bene. Distesa sul divano centrale, c'era una giornalista tuttora molto conosciuta che aveva da poco passato la sessantina. Sono sicuro che molti di voi l'hanno anche vista in televisione più di qualche volta, o di sicuro hanno letto i suoi articoli su una delle principali testate italiane. Anch'io la leggevo. La stimavo. Stimavo la sua eleganza e le sue parole. Avrei voluto solo avere l'occasione di parlare con lei. E magari di farle avere il mio romanzo. Se le fosse piaciuto, un suo articolo avrebbe davvero fatto la differenza. La mia agente la conosceva di vista, e mi ha presentato come un suo nuovo autore. La giornalista ha interrotto il discorso che stava facendo con i due ragazzi diciottenni che aveva al suo fianco (erano venuti con lei? Li aveva trovati lì? Questo non lo so) e mi ha dedicato tutta la sua attenzione. Mi ha detto, prendendomi la mano: «Siediti qui, vicino a me», e ha iniziato a parlarmi facendosi vicina, e facendo sentire me molto importante. Voleva conoscere la trama del mio romanzo, sapere cosa facevo nel resto della mia vita. Ero affascinato da lei, questo non lo posso negare. Ed ero anche speranzoso di avere una sua recensione. Non volevo disturbarla oltre e dopo un quarto d'ora buono l'ho ringraziata per il suo tempo, le ho detto che le avrei fatto mandare il romanzo dall'ufficio stampa e mi sono dedicato a percorrere avanti e indietro il ricco buffet parlando con gente a caso. Un'ora dopo l'ho vista avvicinarsi alla mia agente. Le ha detto qualcosa, poi è venuta verso di me e mi ha dato un bacio sulla guancia. Non era un bacio affettuoso, né un saluto distaccato. Mi ha sussurrato all'orecchio: «Ti aspetto a casa mia, così parliamo del tuo libro». L'ho guardata andare via abbracciata insieme ai due diciottenni. Ho chiesto alla mia agente cosa le avesse detto. Lei mi ha allungato un biglietto da visita: «Vuole che tu vada da lei. Ti farà una pagina intera, ma mi ha detto che questa recensione avrà un prezzo». Mi ricordo molto bene cosa ho risposto: «Dovrebbero recensire un libro per il libro, non per andare a letto con l'autore». La mia agente ha sorriso. Era un sorriso malinconico, come a dire Sì, hai ragione, tutto questo è un po' uno schifo. Da quella giornalista non sono mai andato, e non è mai uscita nessuna recensione sulla testata per cui scriveva. La mia agente mi ha detto che qualche copia venduta in più non valeva la bellezza di guardarsi allo specchio e sentirsi puliti. La pensavamo nello stesso modo. Non mi è mai più capitato qualcosa del genere. Anche se nessuno mi ha accolto in accappatoio e chiesto di fare un massaggio (credo sarebbe successo qualcosa di simile se mi fossi presentato a casa di quella giornalista), allora sono rimasto molto turbato. E sconfortato. E triste. Però è anche vero che in questi dieci anni ho conosciuto tante persone nel mondo dell'editoria, persone belle, e non ho mai pensato che fosse un ambiente sporco. Che ci siano persone sporche in ogni ambiente, quello sì. In questi giorni ho letto tante cose sul mondo del cinema, e anche a me è capitato di conoscere direttamente uomini e donne giovani che per avere un posto in ambienti artistici o dello spettacolo avrebbero fatto qualsiasi cosa. Conosco più di qualcuno che quel qualsiasi cosa l'ha fatto. Anche nella mia piccola città conosco persone che hanno acconsentito a scambi di un certo tipo per ottenere lavori o posizioni sociali migliori. Ma conosco anche tante persone che sono andate avanti con le proprie forze. Con il lavoro che hanno fatto giorno dopo giorno su loro stesse, senza chiedere niente a nessuno. Guadagnando la strada a piccoli passi e con fatica. A volte non guadagnandola affatto. Credo che ogni caso sia diverso dall'altro, e che spingere una persona a concedersi con la promessa di una prospettiva migliore sia abominevole. Credo anche però che a letto con qualcuno non ci si finisca inconsapevolmente. A meno che, ovviamente, non si sia costretti con la forza. Ma quello è un altro discorso.

Molestie sessuali, "è stato Fausto Brizzi": alle Iene dieci attrici fanno il nome del regista, scrive il 12 novembre 2017 "La Repubblica”. In onda il secondo capitolo dell'inchiesta di Dino Giarrusso, alcune ragazze intervistate citano espressamente quello che sarebbe stato l'autore delle violenze. "Non si conoscono fra loro eppure i racconti si somigliano in maniera impressionante". "Il regista è Fausto Brizzi". Le ragazze lo ripetono davanti alle telecamere delle Iene, la puntata in onda questa sera, secondo capitolo dell'inchiesta sulle molestie sessuali. Il nome del 48enne regista romano l'hanno fatto "dieci attrici su trenta che abbiamo intervistato" spiega l'autore del servizio, Dino Giarrusso. "Ci sono anche altri nomi, i personaggi sarebbero molti, noi non vogliamo accanirci su Brizzi ma un terzo delle intervistate parla di lui". In tarda serata, il regista ribadisce la propria linea difensiva in una nota affidata al suo legale Antonio Marino: "In riferimento alla trasmissione Le Iene andata in onda nella serata di oggi, ribadisco di non avere mai avuto rapporti non consenzienti". Il servizio, ampiamente annunciato, va in onda all'indomani delle dichiarazioni del regista. Dopo il tam tam di indiscrezioni e i riferimenti comparsi sui social a proposito delle presunte molestie sessuali che avrebbe esercitato ai danni di alcune attrici ha rotto il silenzio, "mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi" ha dichiarato. Giarrusso manda in onda varie testimonianze, volti coperti e voci contraffatte, eccezion fatta per Clarissa Marchese, Miss Italia 2014, e la modella Alessandra Giulia Bassi, le uniche due persone intervistate dalle Iene che non hanno chiesto la riservatezza. "Queste ragazze non si conoscono fra loro - spiega l'autore dell'inchiesta - eppure tutti i loro racconti si somigliano in maniera impressionante". Le intervistate raccontano tutte di "uno studio che però è anche una casa", "uno studio-abitazione, con una vasca idromassaggio, il soggiorno, la camera da letto" dove le ragazze venivano invitate per fare provini. Non mancano dettagli delle molestie che in certi casi, secondo il racconto delle intervistate, si configurerebbero come vere e proprie violenze. I primi approcci, i tentativi di "fare i massaggi", le insistenze, "il contatto fisico sempre maggiore" e poi "i modi sempre più aggressivi". Secondo alcuni racconti, il regista "si è spogliato completamente nudo" e ha tentato approcci sempre più pesanti. Alcune raccontano di aver "opposto resistenza", un'altra dice di essere stata costretta a un rapporto sentendosi "immobilizzata: non capivo più niente". "Tutte queste attrici sono convinte di aver subito una violenza che lascia il segno" continua Giarrusso, prima di dare di nuovo voce alle presunte vittime, "mi sentivo stuprata", "piangevo", "mi sentivo una puttana". Perché non hanno denunciato? "Non ho avuto il coraggio di dirlo alla mia famiglia - rivela una di loro - l'ho detto solo a mia madre, ma ho pensato: se lui ci denuncia non abbiamo tutti questi soldi per pagare la causa". Un'altra: "Mi vergognavo come una ladra, avevo paura di non essere creduta". Un'altra ancora: "Alcuni addetti ai lavori mi hanno consigliato di non fare azioni legali". "Ragazze, dovete denunciare subito, perché se ci uniamo tutte siamo più forti" dice l'attrice Tea Falco, fra le ragazze che avevano parlato di molestie nel precedente servizio del programma di Italia1. Infine, telefonata al numero di Fausto Brizzi, cellulare spento: "Lo abbiamo cercato in ogni modo - dice Giarrusso - siamo pronti ad ascoltare la versione di Brizzi in ogni momento, ma anche quella di tutte le altre ragazze che sostengono di aver subìto molestie".

Fausto Brizzi, alle Iene le accuse di 10 ragazze: «Ecco come ci ha molestato». Lui disperato: i giorni più duri. Brilli: «Dalle molestie ci si difende». «Un provino o un massaggio per molestarci»: «Le Iene» intervistano una decina di ragazze che fanno il nome del regista, che ha però respinto tutte le accuse, scrive Renato Franco l'11 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dicono che aveva «gli occhi rossi», parlano dei «suoi occhi cattivi», descrivono «gli occhi a palla», ricordano «occhi da pazzo»: è il dettaglio che colpisce di più in questa storia di attrici che raccontano di abusi sessuali e di un regista che smentisce. Se qualcuno aveva ancora qualche dubbio che non fosse Fausto Brizzi «il regista romano ultraquarantenne» accusato da diverse attrici di averle molestate o addirittura violentate, domenica sera il velo è definitivamente caduto. Le Iene hanno mandato in onda un servizio (a firma di Dino Giarrusso) che svela il nome del regista accusato. Mentre dall’altra parte restano le parole che Brizzi ha affidato a un comunicato due giorni fa: «Non ho mai avuto un rapporto non consenziente in vita mia». Il «modus operandi» — raccontano le ragazze — sarebbe sempre lo stesso, una scena seriale: si comincia con l’appuntamento «di lavoro» nel suo loft, un bellissimo open space con librerie piene di fumetti, biliardino, jukebox, home theatre e una jacuzzi nella sala. Un posto da fiaba che fa a pugni con quello che le sue accusatrici dicono che succedesse dentro. Si parte con il «provino», in cui le scene sono sempre o romantiche o passionali. L’alternativa è il massaggio, perché Brizzi si propone come esperto massaggiatore per allentare le tensioni. È il primo modo per cercare di avere un contatto fisico, che prosegue anche senza che le ragazze manifestino l’intenzione di gradire certi atteggiamenti. Finisce con lui che si spoglia, in alcuni casi inizia a masturbarsi, in altri prova ad avere un rapporto sessuale. Sono una decina le aspiranti attrici che hanno raccontato alla trasmissione di Italia 1 lo stesso triste copione, tutte ragazze all’inizio di una carriera cinematografica che avrebbe subito mostrato il suo lato peggiore e inaccettabile. Ricorda una ragazza: «Abbiamo iniziato a improvvisare delle scene e il contatto fisico diventava sempre maggiore. Quando non è riuscito a spogliarmi, ha cercato in tutti i modi di mettere la mia mano sul suo pene. Voleva che io lo masturbassi. Io opponevo resistenza, ma ero paralizzata. Lui alla fine si è masturbato fino a raggiungere l’orgasmo guardandomi negli occhi». Rivela un’altra: «Ha cominciato a spogliarsi, era rimasto in mutande con un’evidente erezione. Ero impaurita e paralizzata, ha cercato di tirarmi giù i pantaloni e mi ha infilato una mano nelle mutande… Poi ho avuto la forza di reagire e gli ho detto di non andare oltre». Racconta un’altra ancora, l’unica ad aver subito un rapporto completo: «Avevo un paio di pantaloni stretti, mi ha tirato giù le mutande e si è aperto un profilattico. Era ingestibile, continuava a bloccarmi con la mano il mento e il collo per tenermi stretta. E io ero lì, è successo tutto in un attimo». In tante vengono colpite dai suoi occhi, definiti a seconda delle testimonianze «rossi», «cattivi», «a palla», «da pazzo». Brizzi fino a ieri ha respinto tutte le accuse, «mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi». Ma ora la sua difesa rischia di diventare ancora più difficile: sembra complicato immaginare che 10 persone si siano inventate una sceneggiatura così dettagliata e unanime.

Fausto Brizzi, dimagrito e disperato per le accuse di molestie. I sospetti. Asia Argento: «Ci quereli pure, tutte». Ma Fausto Brizzi respinge i sospetti: «Mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi». Il suo prossimo film potrebbe uscire senza il suo nome, scrive Renato Franco l'11 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Disperato e dimagrito. È il ritratto di Fausto Brizzi che in poche settimane ha visto sgretolarsi il mondo all’apparenza perfetto in cui si muoveva dopo le allusioni e i sospetti che si sono fatti sempre più fitti intorno al suo nome. Sarebbe lui «il regista romano ultraquarantenne» accusato da diverse attrici (sarebbero una decina) di averle molestate o addirittura violentate. La porta del precipizio si apre il 22 ottobre dopo la puntata delle Iene, quando una ragazza con il volto «blurato» (sfuocato, in gergo televisivo) racconta di un suo provino finito con il regista (di cui non fa il nome) a masturbarsi davanti a lei. Nell’ambiente del cinema molti si dicono sorpresi, no non può essere lui, il regista di Notte prima degli esami (e sequel) e Maschi contro femmine (e sequel), appassionato di supereroi e fumetti (Alan Ford il suo preferito). Certo è che le voci iniziano a circolare, il suo nome viene fatto sempre più insistentemente e le conseguenze non tardano ad arrivare. Il capitolo più doloroso è quello privato. La moglie Claudia Zanella (è attrice anche lei, sono sposati da tre anni e hanno una figlia piccola) lo avrebbe lasciato. Nonostante la smentita dell’avvocato che sostiene che la «presunta crisi matrimoniale» sia destituita «di ogni fondamento», la verità sarebbe invece che la moglie ha abbandonato con la figlia la casa dove abitavano insieme. Gli amici del regista però gli stanno vicino e starebbero cercando di convincere la moglie a fare un passo indietro, a tornare sulla sua decisione, a farsi forza per dargli forza. Brizzi nel frattempo non riuscirebbe a darsi pace, dorme poco e mangia ancora meno, sarebbe dimagrito sensibilmente (c’è chi parla addirittura di dieci chili). Lui comunque respinge tutte le accuse: «Posso solo affermare, con serenità e sin da ora, che mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi. Per questo escludo categoricamente di aver conferito mandato legale per trattare il risarcimento del danno in favore di presunte vittime». Al momento inoltre non risulta ancora nessuna denuncia penale, ci sono solo i filmati (anonimi) delle Iene. Le accuse però sarebbero circostanziate e ci sarebbero una decina di donne pronte ad affermare di aver subito molestie e abusi da lui. Se e quando parleranno è un altro discorso. Il capitolo più immediato è quello pubblico e più strettamente cinematografico. «In via precauzionale, e per evitare strumentalizzazioni, ho sospeso tutte le mie attività lavorative e imprenditoriali» dice il regista che infatti già da qualche giorno ha ceduto la piccola quota (intorno al 5 per cento) che deteneva in Wildside, la società di produzione fondata da Mario Gianani e Lorenzo Mieli. C’è una scadenza urgente però: il 14 dicembre è la data fissata per l’uscita del nuovo film di Brizzi, Poveri ma ricchissimi, sequel di Poveri ma ricchi (fece buonissimi incassi, 7 milioni di euro a cavallo dello scorso Natale), con protagonista la coppia comica De Sica-Brignano. Il film è prodotto da Wildside e Warner Bros che è anche il distributore della pellicola. E Warner al momento sta valutando l’opzione di far uscire Poveri ma ricchissimi senza la firma di Brizzi, come fosse un film senza regia. Del resto il colosso americano dell’intrattenimento seguirebbe la policy che negli Stati Uniti è diventata prassi da quando è scoppiato il caso Weinstein, come è successo per Kevin Spacey sparito dal nuovo film di Ridley Scott. La linea di condotta ormai è quella di eliminare le tracce degli accusati. Che sembra una forma di ipocrisia che non rende nemmeno giustizia alle vittime.

Molestie, Fausto Brizzi: azioni legali per difendermi dalle accuse. Asia Argento: «Allora querelaci tutte». Brizzi minaccia di denunciare tutte le donne che lo hanno accusato. Asia Argento replica: «Allora querelaci tutte». Lo scandalo scoppiato dopo le rivelazioni di alcune attrici che avrebbero provato, scrive Valentina Santarpia l'11 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Diventa un botta e risposta tra il regista Fausto Brizzi e l’attrice Asia Argento, l’ultimo scandalo molestie scoppiato in Italia. Dopo le accuse di violenza piombate sul regista italiano, che attraverso il suo avvocato nega qualsiasi coinvolgimento e promette azioni legali per difendersi, è proprio la protagonista del caso Weinstein a replicare a muso duro: «Querelaci a tutte! Non ci fai paura!». Una difesa a spada tratta delle ragioni sue e di quelle delle anonime donne che avrebbero segnalato molestie subite dal regista. A scatenare l’ira dell’attrice, in particolare, un passaggio della difesa di Brizzi, che dopo aver dichiarato che «mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi», aveva annunciato: «Procederò, pertanto, in ogni opportuna sede nei confronti di chiunque abbia affermato e affermi il contrario».

I pettegolezzi. Erano giorni, dopo un servizio delle Iene in cui venivano intervistate alcune attrici italiane, che circolava il suo nome sui social network, e che i giornali di gossip ventilavano una crisi del suo rapporto coniugale con Claudia Zanella legata proprio alle accuse di molestie che gli stavano piombando addosso. Si era addirittura vociferato di un intervento del suo legale per trattare un risarcimento del danno in favore delle presunte vittime, considerato che il reato di violenza sessuale, se non denunciato, si estingue entro sei mesi. Una circostanza che oggi Brizzi smentisce attraverso il suo legale, Antonio Marino: «Escludo categoricamente di aver conferito mandato legale per trattare il risarcimento del danno in favore di presunte vittime».

Silurati dall’ambiente. Negli Stati Uniti gli attori, produttori e registi coinvolti negli scandali sono stati sospesi o si sono autosospesi in tutte le attività lavorative: Kevin Spacey è stato sostituito da Christopher Plummer nel film già girato, «All the money in the world»; il re di Hollywood, Harvey Weinstein, è stato silurato dai suoi studi dopo le accuse di abusi e molestie sessuali; Louis C.K., il comico che ha ammesso di essersi masturbato davanti alle 5 donne che lo accusavano, ha dovuto annullare la prima del suo ultimo film e cancellare le partecipazioni agli spettacoli previste. E oggi, «in via precauzionale, e per evitare strumentalizzazioni», anche Brizzi, autore di pellicole di grande successo - da «Notte prima degli esami» a «Maschi contro Femmine» - tra cui numerosi «cinepanettoni» di Natale ha «sospeso - spiega - tutte le attività lavorative ed imprenditoriali» e intanto chiede «a tutti il massimo rispetto della privacy della mia famiglia e, in particolare, di mia moglie».

La difesa di Parenti e Brilli: «Impossibile». «Conoscendolo non ci credo», commenta il regista Neri Parenti, ospite de «Il Sabato Italiano», il programma di Rai1 condotto da Eleonora Daniele. «È una cosa schifosa, è semplice, è sotto gli occhi di tutti. Per quello che riguarda invece il fatto specifico, cioè quello di Brizzi - prosegue il regista - io con lui ho lavorato 10 anni come sceneggiatore e lo frequento da 20, quindi io non ci credo a questa cosa» conclude. È «rimasta sbalordita» anche Nancy Brilli. «Non avevo mai sentito una chiacchiera finora. Conosco Brizzi come persona corretta, un bravo regista e produttore. Un amico che si è comportato sempre correttamente», dice Brilli, assicurando di non aver sentito neanche mai parlare male di lui da altre colleghe. «Per quanto mi riguarda, non sono mai stata lusingata - racconta l'attrice - da una mano sulla coscia o da un commento pesante, mi offende e basta. I miei 33 anni di attività dimostrano che si può fare carriera senza accettare compromessi o ricatti di scambi di carne che, non lo nego, avvengono normalmente».

Dario Argento: “Ora mia figlia Asia ha paura del Mossad”, scrive il 12 Novembre 2017 "Il Dubbio".  Il regista interviene dopo lo scandalo: “Ha fatto bene a denunciare le molestie di Weinstein”. “No, non mi ero accorto di niente. E Asia mi ha raccontato delle molestie subite solo poco prima che uscisse la lunga intervista pubblicata dal New Yorker”. Dario Argento è emozionato e la sua voce trema quando racconta a Cristina Parodi la vicenda degli abusi subiti da sua figlia a Hollywood dal potente produttore Harvey Weinstein. “Non avevo capito nulla – racconta Dario Argento – forse ero un cretino, accecato dall’affetto per mia figlia né possiamo immaginare che i maiali esistano solo negli Stati Uniti. Chiaramente anche in Italia ci sono persone che si sono comportate in modo sconveniente, schifoso, più d’uno: lo dico perché lo so, faccio il cinema, ho fatto anche il produttore”. Dario Argento ha raccontato di aver saputo delle violenze subite dalla figlia Asia “solo recentemente: ero a Barcellona, mi ha fatto una lunga telefonata in cui mi ha annunciato l’intervista “. Quanto al regista italiano che l’attrice ha accusato di molestie, “lasciamo stare… non l’ho più incontrato, se lo incontrerò, non finirà come nei western con una scazzottata, ma gli dirò qualcosa, sicuramente”, ha sottolineato. Oggi Asia “ha paura, non esce più di casa per timore degli agenti del Mossad (che sarebbero stati assoldati da Weinstein): questa è gente che spara, che minaccia. Asia teme per la vita sua e dei suoi figli. Ma non si e pentita, anzi è sempre più convinta”.

Asia Argento: "Ho paura del Mossad". Nathania Zevi: "Esci di casa, non aver paura", scrive il 12 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Qualcuno aiuti Asia Argento. Dopo aver denunciato a scoppio ritardatissimo Harvey Weinstein, ora l'attrice ha affermato di non voler uscire di casa poiché teme il Mossad, ovvero i servizi segreti israeliani. Perché mai dovrebbe temerli? Semplice, perché pare che Weinstein, per nascondere le sue malefatte, si sarebbe servito proprio del Mossad. Lo stesso Mossad che, secondo Asia, ora vorrebbe ucciderla. Un delirio duro e puro. Un delirio al quale, tra gli altri, ha risposto Nathania Zevi, ebrea, moglie di David Parenzo. Lo ha fatto su Twitter, con questo indiscutibile cinguettio: Nathania Zevi @Natizevi Molto probabilmente e senza voler togliere importanza all’accaduto #spada avrebbe potuto essere fermato per tanti altri motivi, volendo. 23:18 - 9 nov 2017 · Pescara, Abruzzo

Clarissa Marchese e Alessandra Giulia Bassi, le ragazze che accusano Fausto Brizzi a volto scoperto. Tra le dieci testimonianze raccolte dalle Iene, due non hanno richiesto la riservatezza. Sono Clarissa Marchese, Miss Italia 2014, e la modella Alessandra Giulia Bassi, scrive il 13 novembre 2017 "Il Corriere della Sera". Volti pixelati e voci camuffate, ma l’accusa è chiara: «Il regista è Fausto Brizzi». Dieci delle testimonianze raccolte dalle Iene nell’inchiesta su violenze e abusi nel mondo del cinema italiano chiamano in causa il cineasta romano, che ieri era uscito allo scoperto per difendersi dai sospetti, sostenendo di non aver «mai avuto rapporti non consenzienti». Tra queste dieci testimonianze, però, due persone non hanno chiesto la riservatezza e sono Clarissa Marchese, Miss Italia 2014, e la modella Alessandra Giulia Bassi. Clarissa Marchese è nata a Sciacca, in provincia di Agrigento, e ha 23 anni. Ha vinto il concorso di Miss Italia nel 2014. Dopo la corona al concorso di bellezza ha partecipato anche al talent show culinario di La7 Cuochi e Fiamme e poi al programma Uomini e Donne di Maria De Filippi. Alessandra Giulia Bassi invece è una modella romana. Nella sua pagina instagram in cui pubblica molte sue foto, si definisce amante della musica e vegana.

Ora anche Clarissa Marchese e Alessandra Giulia Bassi accusano Fausto Brizzi di molestie. Le modelle Clarissa Marchese e Alessandra Giulia Bassi hanno accusato il regista Fausto Brizzi di averle molestate sessualmente durante dei provini, scrive Alice Venturelli, Lunedì 13/11/2017 su "Il Giornale".  L'inchiesta sulle violenze e abusi nel mondo del cinema italiano fatta dalle Iene ha fatto emergere il coinvolgimento del regista Fausto Brizzi. Sono dieci le testimonianze raccolte in un video con volti pixelati e voci camuffate. Brizzi è considerato il "Weinstein italiano" e proprio lui ieri si è difeso uscendo allo scoperto e dicendo di non aver mai avuto rapporti non consenzienti. Ma tra queste dieci persone due ragazze non hanno chiesto la riservatezza e sono Clarissa Marchese, Miss Italia 2014, e la modella Alessandra Giulia Bassi. Clarissa, 23enne originaria di Agrigento, ha partecipato anche al talent culinario Cuochi e Fiamme e poi è stata tronista al programma Uomini e Donne di Maria De Filippi. Alessandra Giulia Bassi invece è una modella romana. Nella sua pagina instagram in cui pubblica molte sue foto, si definisce amante della musica e vegana. La Marchese, intervistata a Domenica Live, non ha fatto il nome di Brizzi ma ha raccontato la sua storia: "Era il 2015, dopo che ho vinto Miss Italia. Insieme all’agenzia che mi seguiva, si era pensato di iniziare un percorso come attrice. Un percorso lungo. C’è stata poi la possibilità di fare un provino con un famoso regista italiano di cui si sta parlando in questo periodo. Io non sapevo fosse casa sua. Sapevo di dovermi preparare per questo provino, lui si era offerto di darmi le ultime lezioni per prepararmi al provino. Era il mio primo provino, pensavo fosse un teatro, invece era una casa-ufficio. Ci è stato detto che sarebbe durato diverse ore. Il mio accompagnatore se ne è andato". "Verso la fine, si parla di possibili parti che avrei potuto interpretare, lui mi dice che di solito una ragazza con la mia fisicità viene scelta per fare ruoli di bella e deve essere disposta a fare anche scene un po’ più spinte. Mi dice: se io ti chiedessi di spogliarti completamente nuda davanti a me lo faresti? Lui era molto più grande di me. Io avevo vent’anni, lui circa quarantacinque". Dopo il rifiuto la storia si è ripetuta un'altra volta fino a quando l'ex Miss Italia non si è più presentata alle "lezioni" di recitazione.

Molestie sessuali nel cinema italiano: cosa si sa sul caso Brizzi. Dopo l'inchiesta firmata da "Le Iene" che scenari si aprono e cosa potrebbe succedere nelle prossime settimane, scrive il 13 novembre 2017 Barbara Massaro su Panorama. Un modus operandi seriale, la promessa di contratti di lavoro e il peso che fama, potere e successo avrebbero sulle giovani menti delle aspiranti attrici. Sarebbero questi i tratti comuni alle dieci testimonianze raccolte da la trasmissione Mediaset Le Iene che ieri sera ha mandato in onda un pesante atto d'accusa nei confronti del regista Fausto Brizzi che sarebbe responsabile di decine di casi di molestia sessuale a danni di altrettante attrici e modelle protagoniste di provini non proprio professionali. A firmare l'inchiesta è stato la Iena Dino Giarrusso che, all'indomani della messa in onda, su Facebook scrive: "Felice di aver dato voce a ragazze che mi han raccontato di aver vissuto un inferno, un'esperienza orribile. Dopo che la stampa ha fatto il nome di Fausto Brizzi, ecco alcune delle testimonianze raccolte su di lui, nel servizio appena andato in onda a Le Iene". 

Le premesse. L'inchiesta parte già due settimane fa quando Le Iene mandano in onda un servizio in cui si parla di "Un regista romano ultraquarantenne responsabile di decine di atti di molestia". Viene citato il caso Weinstein e si sostiene che il vaso di Pandora del cinema italiano sia pronto per essere scoperchiato. Giarrusso ha raccolto numerose e-mail, un terzo delle quali dirigevano le accuse di violenze e molestie contro Brizzi. Da qui la scelta di porre il focus del reportage proprio sulla firma di tante commedie di successo. Solo l'ex Miss Italia 2014 Clarissa Marchese e la modella Alessandra Giulia Bassi hanno deciso di parlare a volto scoperto, le altre lo hanno fatto con voce contraffatta e viso oscurato.

Perché le testimoni parlano a viso coperto. Il perché lo spiegano le stesse donne ai microfoni de Le Iene. "La mia agente mi ha consigliato di tenere la bocca chiusa" ha dichiarato una di loro mentre un'altra ha aggiunto: "Non avevamo i soldi per affrontare una causa" oppure "Mi hanno detto che la mia carriera sarebbe finita" per concludere con il più diffuso dei sentimenti: "Mi vergognavo". La presunta strategia d'azione di Brizzi la raccontano sempre le ragazze che - secondo quanto sostengono Le Iene - non si conoscono tra di loro.

Dal massaggio alla molestia. Il regista invitava le aspiranti attrici nel suo studio loft romano dotato anche di "Sauna e idromassaggio in salotto". Poi Brizzi si offriva di fare un massaggio rilassante al collo delle giovani. Già a questo punto diverse ragazze raccontano di aver capito che c'era qualcosa di sbagliato in quello che stava per succedere. Dopo il massaggio il regista avrebbe invitato le donne a provare delle scene iniziando da improvvisazioni proprio con lui. A questo punto tutte le testimoni parlano di "Occhi cattivi", "Espressione da pazzo", "Occhi rossi e vene gonfie sulla fronte". Brizzi, che sarebbe stato non curante del terrore vissuto dalle vittime, avrebbe finito per mettersi nudo masturbandosi davanti alle ragazze terrorizzate. In un caso Brizzi sarebbe arrivato a consumare un rapporto completo con una delle attrici che ha deciso di parlare a Le Iene. La Iena Giarrusso sostiene di aver cercato di contattare invano Brizziatteso per la sua replica. 

La replica di Brizzi. Il regista di Maschi contro femmine e Notte prima degli esami non ha replicato di persona, ma, tramite i suoi legali, ha fatto sapere di "Essere pronto a difendersi nelle sedi più opportune". "Per il momento Brizzi - riportava una nota - ha sospeso ogni attività lavorativa".

Il processo sui social network. E mentre lo scandalo italiano sembra essere solo all'inizio sul web è già iniziata la caccia alle streghe con i consueti processi sommari a vittime e carnefici. In testa alla crociata social Asia Argento, tra le grandi accusatrici del produttore USA Harvey Weinstein che, sul caso Brizzi, dice: "Querelaci a tutte! Non ci fai paura". Il padre di Asia, il regista Dario Argento, a Domenica In ha dichiarato: "Ora Asia ha paura, ma non è pentita". E rispetto ai molestatori ha poi aggiunto: "Stanno insieme a una ragazza e poi gli scatta il cervello, la pazzia del sesso, diventano serial killer del sesso. È una sorta di patologia. Infatti Harvey Weinstein sta in clinica".

Ciò nonostante, ha precisato l'autore di Suspiria e tanti classici dell'horror: "Sono sicuro - riferito a Weinstein - che lui andrà in galera, finirà in prigione. La riabilitazione non è sufficiente". Intanto l'arena social e l'opinione pubblica da bar hanno già emesso la sentenza: "L'aspetto più spaventoso della frase “Fausto Brizzi è il Weinstein italiano” è che in questo scenario le Iene sarebbero il nostro New York Times"; oppure "Facciamo un affare: diamo agli americani Fausto Brizzi e prendiamoci Kevin Spacey". Chiacchiericcio social cui si uniscono voci che la prendono più seriamente come chi sottolinea: "Se avesse commesso queste cose, sarebbe da arrestare immediatamente. Però io non sono giudice, e non faccio processi come si usa in Italia. Aspettiamo", mentre qualcun altro lancia un nuovo sasso rincarando la dose: "Nell'ambiente si sapeva da tempo cosa facesse Fausto Brizzi. C'è stata anche un'omertà spaventosa da parte di chi sapeva".

A difesa di Brizzi. Prendono le difese di Brizzi colleghe quali Nancy Brilli o Cristiana Capotondi che proprio al regista deve fama e successo (L'ha diretta in Notte prima degli esami ed Ex). La Capotondi scrive: "Assisto con dolore alle accuse che stanno rivolgendo in queste ore a Fausto Brizzi. Con me si è sempre comportato da vero gentiluomo. Ti voglio bene signor F". Mentre Nancy Brilli sottolinea "Lo conosco come una persona corretta, un bravo regista e produttore, un amico che si è sempre comportato in modo impeccabile, nessuna si è mai lamentata". E aggiunge: "Se si fa una denuncia deve essere con nome e cognome e circostanziata, altrimenti tutti possono dire male di tutti e non ne abbiamo bisogno". Proprio su questo tema si inscrive il filone dei perplessi, di coloro che si chiedono perché in America attrici dello spessore di Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, ma anche Ashley Judd, Rose McGowan e tante altre hanno il coraggio (anche a tanti anni di distanza) di metterci la faccia e il nome, mentre in Italia la tecnica del gettare il sasso e nascondere la mano va per la maggiore? Questione di codardia, scarsa fiducia nella giustizia o confidenza con un sistema confuso in cui vittime e carnefici spesso si mischiano tra le due trincee dei processi sommari che si consumano tra tv e social network.

Miriana Trevisan: racconto tutto perché le molestie non si ripetano (e per scardinare il potere). Le voci delle attrici che denunciano le molestie subite sono un punto di partenza per abbattere il muro di omertà che le circonda. E per ribaltare finalmente i giochi di potere nel mondo dello spettacolo, scrive Miriana Trevisan il 13 Novembre 2017 su "L’Inkiesta”. Si continua a inquinare una storia che andrebbe presa molto sul serio. Da alcuni giorni mi si attacca prima perché non facevo nomi e non davo volti. Ora, dopo 20 anni, mi sono presa la responsabilità di farli e comunque sono sotto attacco. Continuiamo a fare il gioco delle misure. Sezioniamo il quadro, senza osservarlo nel suo insieme per goderne la bellezza. Il gioco della misura delle molestie è solo un gioco. Ci fa perdere il fuoco sul sistema scorretto a cui diamo potere. Vorrei che imparassimo a sprecare meno tempo nelle critiche e a frenare il nostro istinto all’autodistruzione. Vorrei che imparassimo a non creare paure ma a scioglierle. E se devo diventare una larva che digerisce la plastica e se devo essere studiata nei miei enzimi digestivi va bene: mi mangio la merda purché serva. Perché dovrei dimenticare? Perché quando c’è finalmente attenzione da parte di tutti non devo raccontare gli errori e gli orrori che ho vissuto? Perché permettere a una mentalità sbagliata di non essere sradicata proprio quando l’occasione è propizia? Se fosse così dovremmo cancellare il passato di molte vite che invece insegnano. Se un adolescente sta vivendo una situazione simile alla mia che ho vissuto allora e mi chiedesse se tutto questo è normale, e me lo chiedesse (ed è in ascolto) solo ora, la riposta migliore sarebbe raccontare le proprie storie. Io mi prendo questa responsabilità.

Perché la racconto? Perché non si devono ripetere. Dice la Bellucci che bisogna distinguere le avances dalla violenza e poi dice: “sono felice che le mie figlie crescano in un momento in cui, finalmente, le donne hanno trovato il coraggio di esprimersi e stanno imparando a essere libere». E intanto io ed Asia cerchiamo la libertà mentre lei ci vuole far digerire un mondo scorretto dando il bacio al ranocchio offeso facendolo diventare principe.

Facciamo cosi: io invece di parlare alle mie figlie parlo a tutte le nipoti del mondo, lasciando a lei i confini del perbenismo. Quando mia nipote dopo vent’anni mi chiede di spiegarle com’è il mondo, io non ho intenzione di risponderle “stai attenta lì fuori ci sono gli orchi e dobbiamo imparare a conviverci” o “sarà molto difficile perché è tutto così” o “portati una microcamera perché così tra vent’anni potrai difenderti”; le voglio dire che io mi sono presa la responsabilità di raccontare pubblicamente e tutto ora forse è più limpido, le voglio dire che lei può inseguire i suoi sogni senza paura, che non è sola. Mi piacerebbe risponderle che il mondo del lavoro è diventato più pulito, perché abbiamo capito l’errore che l’omertà ha inferto per anni alle donne. E poi mi piacerebbe raccontarle un’altra storia: potrebbe succedere che il Maestro mi chieda scusa per l’errore e decida di occuparsi di persona e con il suo talento e decida anche lui dopo vent’anni di stare vicino alle donne e di ribaltare tutto. E decida di raccontare quale cultura lo abbia spinto a soffiare sul fuoco dei sogni di una ragazzina. Perché non pensava allora di potermi ferire e scioccare per sempre? Cosa lo aveva spinto, allora vent’anni fa, a tanta superficialità? Perché il potere lo ha reso insensibile, anestetizzato nei confronti di una ragazza? Perché si sentiva in diritto di creare una stortura nel mio percorso? Quanto tutto questo lo ha reso indifferente nei confronti della vittima? Allora i suoi errori sarebbero oro per i nostri nipoti: sarebbe un meraviglioso film da raccontare. Un film che cambia il sistema, che ferma la paura e la dipana. Se hai potere (il potere e il talento che si esprime attraverso un film, un'operazione commerciale o una perfetta operazione chirurgica) sei un maestro nel tuo campo e hai quindi un campo di gioco. Io scelgo di provare ad entrare in quella squadra e ti chiedo di darmi una possibilità. La mia richiesta è semplice. Te lo chiedo con umiltà e dentro ho tutto il mio mondo di sogni e speranze. Quell’attimo per me è carico di emozioni, di possibilità. Mi trovo davanti al Maestro e al talento espresso e alla bellezza dell’arte. Ma in quello stesso attimo il maestro ti risponde “la magia ha un prezzo” “funziona così” “piccola ingenua torna nella realtà”. Passi dalla magia allo scambio merce. Solo che non riguarda la tua capacità ma un pezzo di te, intimo, che affonda le radici nella tua pelle. Per imporre ed entrare in campo devi procurarti una ferita o una cicatrice nascosta. E sei ancora lì e devi scegliere se lui ha un diritto di prelazione. Nessuna delle vocine interiori ti difende, anzi ti dicono, “stai attenta” “funziona così, ti avevo avvertito”. In quell’attimo, che qualcuno in questi giorni descrive con tanta superficialità, lei, chiunque sia e qualunque sia la sua storia, non ha scelta: si confonde e perde il senso della bellezza, dell’ammirazione. Il potere non viene esercitato in modo poco etico da sempre? Beh, quel sempre lo abbiamo cambiato spesso. Ed è mia intenzione farlo. Adesso. Non mi interessa accusare qualcuno ma voglio raccontare che al di là del gioco delle parti (inutile poiché si rivolge solo contri noi stessi) ci può essere bellezza, etica e amore. E la prossima volta che una delle nostre figlie si troverà in questa situazione spero che trovi un vero maestro: il Maestro illumina la via, non getta oscurità. Il Maestro ti dona la consapevolezza, non ti confonde. Facciamo così: continuiamo buttare e abusare tutto quello che non ci sembra utile, invece di riciclare i ricordi e renderli utili. Così ci ritroveremo pieni di isole di plastica e di rabbia e di dolore e di disillusione. Poi ci chiederemo come possiamo risolvere e ripulire tutto ma non lamentiamoci se ci ritroviamo nel piatto la zuppa inquinata. Intanto sappiate che ci sono dei batteri, dei vermi, dei bruchi che hanno imparato a digerirla, la plastica.

Vanya Stone contro Fausto Brizzi: "Si è masturbato davanti a me e alla foto di sua moglie", scrive il 15 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Un'altra denuncia di abuso sessuale contro Fausto Brizzi: a puntare il dito per una presunta molestia commessa due anni fa, in un'intervista al settimanale Grazia, la tatuatrice Vanya Stone. Il racconto della donna è ricco di dettagli: "Un giorno, su Facebook, Fausto Brizzi mi scrive dicendomi che ho un viso interessante e che gli piacerebbe conoscermi per, forse, usarmi in un film. Mi invita nel suo studio, nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Mi trovo in un loft a due piani, lui mi fa salire al secondo dove ci sono una Jacuzzi, una doccia e un letto". Insomma, il 'format' ricalca quello delle altre denunce raccolte da Le Iene. "Io sono perplessa - continua la Stone - ma lui mi spiega che lì, a volte, si ferma a dormire dopo il lavoro. Mi dice che vuole farmi un paio di foto e che mi devo spogliare perché i jeans e la maglietta possono nascondere eventuali difetti. Resto in mutande e reggiseno e lui comincia a toccarmi e a fare apprezzamenti. Io mi sento a disagio, per cui mi rivesto di corsa. A quel punto mi offre un massaggio - lì accanto c'era un lettino da massaggiatore - io rifiuto e lui mi si siede vicino e riprende a toccarmi. Lì accanto vedo la foto di una donna e gli chiedo se quella sia sua moglie. Lui mi dice che non lo è ancora, che si devono sposare due giorni dopo. E poi, all'improvviso, si spoglia e prende a masturbarsi". Dunque, la donna racconta di come sia riuscita a scappare dallo studio: "Sono saltata in piedi e gli ho gridato che era un porco, un pervertito. Lui mi ha afferrata per le braccia cercando di fermarmi, dicendomi che, in fondo, sapeva che piaceva anche a me. Gli ho dato una spinta e sono fuggita giù per le scale". Quando le chiedono perché non abbia denunciato prima, la Stone spiega di averlo sempre fatto ma di non essere mai stata ascoltata: la polizia infatti le rispose che non c'erano prove e per questo non si poteva agire. La denuncia della tatuatrice non è rivolta solo a Brizzi: nell'intervista dice di aver subito molestie anche da parte di un altro regista, di cui conserva ancora i messaggi, ma sceglie di non fare il nome. 

Vanya Stone: "Ho presentato un esposto per molestie contro Brizzi due anni fa, ma non mi hanno creduto". Intervistata dal settimanale Grazia, la tatuatrice ha rivelato di essere stata molestata da Fausto Brizzi: "Ma mi hanno risposto che non c'erano le prove e non si poteva agire", scrive Anna Rossi, Mercoledì 15/11/2017, su "Il Giornale". Il numero di Grazia in edicola questa settimana accoglie la testimonianza della tatuatrice Vanya Stone che due anni fa ha presentato un esposto per molestie contro Fausto Brizzi. All'epoca dei fatti - racconta - le risposero che non c’erano prove e quindi non si poteva agire. Così al magazine diretto da Silvia Grilli, Vanya confida come quel provino si sia trasformato in un abuso. "Sono una tatuatrice - dice - e lavoro spesso per il cinema. Mi piace anche recitare e in passato ho fatto un paio di ruoli. Un giorno, su Facebook, Fausto Brizzimi scrive dicendomi che ho un viso interessante e che gli piacerebbe conoscermi per, forse, usarmi in un film. Mi invita nel suo studio, nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Mi trovo in un loft a due piani, lui mi fa salire al secondo dove ci sono una Jacuzzi, una doccia e un letto. Io sono perplessa ma lui mi spiega che lì, a volte, si ferma a dormire dopo il lavoro. Mi dice che vuole farmi un paio di foto e che mi devo spogliare perché i jeans e la maglietta possono nascondere eventuali difetti. Resto in mutande e reggiseno e lui comincia a toccarmi e a fare apprezzamenti. Io mi sento a disagio, per cui mi rivesto di corsa. A quel punto mi offre un massaggio – lì accanto c’era un lettino da massaggiatore - io rifiuto e lui mi si siede vicino e riprende a toccarmi. Lì accanto vedo la foto di una donna e gli chiedo se quella sia sua moglie. Lui mi dice che non lo è ancora, che si devono sposare due giorni dopo. E poi, all’improvviso, si spoglia e prende a masturbarsi. Io di solito sono una persona che reagisce ma in quel momento era tutto talmente irreale che sono rimasta paralizzata. Mi fissava con occhi che facevano paura. Poi sono riuscita a sbloccarmi: sono saltata in piedi e gli ho gridato che era un porco, un pervertito. Lui mi ha afferrata per le braccia cercando di fermarmi, dicendomi che, in fondo, sapeva che piaceva anche a me. Gli ho dato una spinta e sono fuggita giù per le scale. Appena uscita ho cominciato a piangere. Mi sentivo una stupida, sporca e in colpa. Dopo tre notti insonni, l’ho detto a mia madre e sono andata dai carabinieri a fare un esposto. Ma non è servito. Mi hanno detto che non avevo prove, che non potevano agire. Non so neanche se mi hanno creduto". Nel corso dell'intervista a Grazia, Vanya Stone sottolinea: "Io ho sempre parlato. Solo che nessuno mi ha mai ascoltata. Ho parlato anche su Facebook. E a chi mi diceva 'stai attenta che ti denuncia per diffamazione', rispondevo 'magari. Che lo faccia. Che giuri in un tribunale'. Adesso che altre si fanno avanti, anche la mia parola vale qualcosa. Non è solo Brizzi, sono tanti e bisogna che si sappia. Sono stata molestata anche da un altro regista, ho ancora i suoi messaggi dove mi chiede scusa, come se quello risolvesse tutto. È arrivato il momento di far pagare i colpevoli, non le vittime".

Brizzi, scaricato dalla “Actor’s Planet”. La direttrice artistica Rossella Izzo: «Ha molestato le studentesse». In un’intervista al settimanale «Grazia» Rossella Izzo racconta di aver sospeso la collaborazione del regista con l’Istituto per il suo comportamento con le studentesse. Nuove accuse di molestie per il regista Fausto Brizzi: ora a scendere in campo è la direttrice artistica e docente della scuola «Actor’s Planet» di Roma, accademia di preparazione per giovani attori. In un’intervista al settimanale «Grazia», Rossella Izzo spiega di aver dovuto sospendere la collaborazione del regista con la scuola perché avrebbe molestato le studentesse.

Brizzi allontanato dall’«Actor’s Planet». L’attrice, doppiatrice e produttrice ha raccontato al settimanale «Grazia» che la scuola ha dovuto prendere provvedimenti dopo che alcune studentesse, aspiranti attrici erano state vittima di un comportamento poco appropriato di Brizzi. Izzo spiega che la direzione della scuola ha deciso per l’allontanamento del regista al centro delle accuse di molestie da parte di alcune attrici che lo hanno pubblicamente denunciato in un’intervista a «Le Iene». «Abbiamo allontanato lui e anche altri, alcuni maestri che magari avevano strane idee sono stati allontanati dall’accademia. Una selezione naturale tra uomini più spavaldi e persone irreprensibili e dignitose» ha raccontato Simona Izzo al magazine.

La testimonianza di un’allieva. L’attrice ha riferito di racconti che le sono stati fatti. E nell’articolo di «Grazia» parla anche una giovane, testimone delle presunte molestie. La giovane spiega che a fine corso Brizzi l’aveva invitata nel suo studio per parlare, fare provini, dare consigli. Quindi le avrebbe proposto un massaggio e suggerito di «essere disposta a tutto» per fare carriera. «Non sapevo a che cosa si riferisse, non ha detto nient’altro, a quel punto, però, non mi sentivo neanche tanto a mio agio e ho preferito che l’incontro finisse» ha spiegato al settimanale precisando poi che - in un confronto con Rossella Izzo - la stessa direttrice le avrebbe confidato che non era stata l’unica a cui Brizzi aveva detto quello cose.

Anna Falchi e le molestie sessuali: “Troppe pecorelle, tutt’altro che smarrite. Io ho sempre detto no”, scrive il 15 novembre 2017 "Oggi". Sul caso Fausto Brizzi (che annuncia querele) si pronunciano tutte, ormai. Compresa la protagonista del suo film in uscita, Federica Lucaferri, che non crede alle accuse. Il caso molestie sessuali continua a far discutere. Anna Falchi racconta i suoi dubbi. Svelando anche dell’incontro che ebbe con Harvey Weinstein.

DISTINGUERE - In un’intervista al quotidiano La Verità, tiene anzitutto a precisare una cosa: “Iniziamo con il distinguere tra corteggiamento, molestie, e la vera e propria violenza che può arrivare a quell’atto ripugnante che è lo stupro. A me non è mai capitato, non mi è mai successo di essere sbattuta al muro o comunque “brutalizzata”.” L’attrice ammette che anche con lei c’è stato “chi si è sentito in diritto di allungare le mani, spingendo per arrivare ad altro, cercando di baciarti, lo posso tranquillamente affermare. Sono molestie “ambientali”. Nel senso che in ogni ambiente ci sono le persone perbene e i poco di buono. Ogni donna di spettacolo, a meno che non sia un cesso a rotelle, subisce avances. Ma io sono sempre riuscita a imporre il mio “no, grazie, non m’ interessa””.

GARANTISTA - Quanto al caso Brizzi (FOTO | VIDEO), Anna spiega che sarebbe gravissimo se le accuse fossero confermate: “Dopo di che, sono garantista: non è lui che deve dimostrare la sua innocenza, sono le accuse che devono essere provate”.

ASIA ARGENTO - Sulla vicenda è entrata, com’è noto, anche Asia Argento, che alla notizia che Brizzi si sarebbe tutelato per vie legali, aveva twittato: “Querelaci a tutte”. Anna si mostra in proposito perplessa: “Non capisco lei che c’entri. A meno che non voglia ergersi a paladina di tutte le donne che patiscono soprusi nel mondo”.

TROPPE PECORELLE - E sulla vicenda molestie sessuali che sta coinvolgendo mezzo mondo, vuol essere chiara: “Penso anche che ci siano un bel po’ di “pecorelle” tutt’altro che smarrite. E sanno benissimo quello che vogliono e a quale tipo di compromessi bisogna scendere. Per fortuna ci sono poi tante donne che quel prezzo non l’hanno voluto pagare, preferendo fare una carriera in verticale anziché in orizzontale”.

HARVEY WEINSTEIN - Anna ricorda anche di aver conosciuto Harvey Weinstein al Billionaire nel 2012. Gli mandò una copia del suo film per sapere se fosse interessato a distribuirlo in America, ma a lui non interessava: “Mi ha indirizzato a un’altra casa di distribuzione di un suo amico. Lungi da me l’idea di difenderlo a scatola chiusa, ma con me fu gentile e professionale”.

LA WARNER BROS SCARICA IL REGISTA - La Warner Bros annuncia intanto la conferma dell’uscita di Poveri, ma ricchissimi, l’ultimo film di Brizzi, ma nel contempo fa sapere che “prende molto seriamente ogni accusa di molestia o abuso e si impegna fermamente affinché l’ambiente di lavoro sia un luogo sicuro per tutti i suoi dipendenti e collaboratori. Ha sospeso ogni futura collaborazione con Fausto Brizzi che non verrà associato ad alcuna attività relativa alla promozione e distribuzione del film Poveri ma ricchissimi”.

L’ATTRICE - Al Corriere della Sera proprio l’attrice dell’ultimo film, Federica Lucaferri, 21 anni, parla di Brizzi come “un pezzo di pane” e si dice scioccata dalle accuse: “Quello che conosco io è un uomo gentile, paterno, disponibile e molto a modo”. Non crede alle accuse ma, precisa: “nemmeno posso metterci la mano sul fuoco, non è mica mio fratello”.

IL PROVINO - Quanto al suo provino, ricorda che avvenne negli uffici della Wildside, alle due del pomeriggio, con due addette al casting. Quando incontrò Brizzi nel suo loft-ufficio c’era anche il fidanzato. Ma anche quando rimasero soli la volta successiva, rammenta “è sempre stato professionale, non mi ha mai mancato di rispetto, anzi mi ha fatto un discorsetto serio: non accontentarti, Federica, e ricordati che nel cinema l’unica cosa che non dovrai saper fare alla perfezione è soltanto volare. E infatti mi sono messa a studiare dizione, danza e canto, che sono parecchio stonata”. Edoardo Montolli frontedelblog.it

Salemme: “Brizzi? Mi sembra assurdo, sono sconvolto”. “Lo conosco, è una persona perbene”, scrive l'Ansa il 15 novembre 2017. "La vicenda Brizzi? Io conosco Fausto benissimo e mi sembra tutto talmente assurdo che, mamma mia...questa vicenda mia veramente sconvolto". A parlare è Vincenzo Salemme, che oggi è stato ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ha lavorato molto con Brizzi? "No, ho fatto solo 'Ex', ma lo conosco, è una persona perbene. Sentire quelle cose è stata una cosa sconvolgente".

De Sica: credo a Brizzi. E il nostro film uscirà. L’attore al premio «Radicchio d’Oro». Riconoscimenti a Sammy Basso, Mollica, Altan e al giovane Andrea Zanon, scrive Mauro Pigozzo il 14 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Al suo arrivo, Christian De Sica era entusiasta. «Ogni volta in Veneto è una festa e qui ricevo pure un premio, spero mi diano anche del radicchio». Poi dopo aver confermato l’uscita del suo cinepanettone «Poveri ma ricchissimi» diretto da Fausto Brizzi, il 14 dicembre, ha risposto a chi gli chiedeva degli scandali sessuali. «Se è vero quello che dicono va punito, ma se non è vero devono stare attenti a non dire stupidaggini. Io non ci credo».

Brizzi accusato di molestie sessuali, Lodovica Comello lo difende: "Con me gentile e distaccato". La cantante e attrice sandanielese è intervenuta per difendere il regista con il quale ha lavorato per la prodizione del film "Poveri ma ricchi", scrive il 12 novembre 2017 "Il Messaggero Veneto". «Ho appreso con grande sconcerto dagli articoli apparsi sulle pagine di alcuni quotidiani dell’esistenza di ipotetiche segnalazioni di molestie fatte da persone di cui non viene precisata l’identità». Comincia così la lettera che il regista Fausto Brizzi ha reso pubblica tramite il suo avvocato, Antonio Marino, nella quale smentisce ogni accusa di molestia. Brizzi, regista di film di successo come Notte prima degli esami e Maschi contro femmine ha comunque annunciato che sospenderà il lavoro per un po’. «Posso solo affermare, con serenità e sin da ora - afferma Brizzi - che mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi. Per questo, escludo categoricamente di aver conferito mandato legale per trattare il risarcimento del danno in favore di presunte vittime. Procederò, pertanto, in ogni opportuna sede nei confronti di chiunque abbia affermato e affermi il contrario». «In via precauzionale, e per evitare strumentalizzazioni, ho sospeso tutte le mie attività lavorative ed imprenditoriali». «Chiedo a tutti - scrive ancora Fausto Brizzi - il massimo rispetto della privacy della mia famiglia e, in particolare, di mia moglie». A difendere il regista è l'attrice friulana Lodovica Comello, che ha lavorato con Fausto Brizzi nel film Poveri ma ricchi e anche nel sequel, previsto per Natale (il 14 dicembre sarà nelle sale), Poveri ma ricchissimi, con Christian

De Sica, Enrico Brignano, Lucia Ocone, Anna Mazzamauro, Bebo Storti, Ubaldo Pantani.  Dice la sandanielese Lodo: «Con me è stato sempre gentile, ma distaccato e professionale, non mi ha mai dato modo di pensare ad un atteggiamento inappropriato».

Brizzi e le accuse di molestie, Moccia: «Fausto un orco? Non so. Ma i provini con attrici io non li organizzo a casa». L’imbarazzo della Warner sul film. «Lui un amico. Le donne gli piacciono, però questo vale per tanti», scrive Giovanna Cavalli il 13 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera".

«Lei mi mette in difficoltà, perché io Fausto lo conosco e...»

E l’ha visto in tv il servizio delle Iene?

«Sì certo e mi ha colpito molto. Non credevo che, dopo le indiscrezioni sui giornali, quelle ragazze facessero davvero il suo nome».

L’hanno fatto invece, non una ma dieci.

«Ho sentito e sono rimasto senza parole».

Ora però le ritrovi, sennò che facciamo?

In questa storia di provini & molestie Federico Moccia, 54 anni, regista, sceneggiatore e scrittore, proprio come Brizzi, deve scendere dai suoi rassicuranti tre metri sopra il cielo e non gli piace troppo. «D’istinto le direi che non ci credo, che non può essere, che è assolutamente strabiliante».

Ma poi?

«Poi penso che è incredibile pure immaginare che sia tutta un’invenzione, un complotto».

E quindi?

«Quindi non sta a me giudicare chi mente o chi dice la verità. So solo che umanamente mi dispiace tantissimo per Fausto, intuisco la difficoltà di questo momento che sta attraversando, che sia colpevole o che sia innocente. Una giovane moglie... una bambina piccola che un giorno ritroverà le tracce di questa brutta storia. E in ogni caso, per torto proprio o di altri, c’è una persona che è stata infangata, distrutta, e questo fa tristezza».

Il racconto delle ragazze è molto dettagliato, crudo.

«Io la scena non riesco a immaginarla, anche se è più facile pensare che sia accaduto davvero e sarebbe poco edificante. Magari però si tratta di dieci aspiranti attrici che sono state scartate e che... no, no, basta, qui siamo nella fantascienza, non ci voglio entrare».

Amici, lei e Brizzi?

«L’ho conosciuto ai tempi di Notte prima degli esami, scrissi una recensione sul film che era molto carino. Ci siamo messaggiati qualche volta, incrociati in radio, a feste, cene. Simpatico, gentile. Mai parlato con lui di donne, anche se non ho dubbio che gli piacessero, ma questo vale per tanti».

Le presunte vittime lo descrivono come un orco.

«Completamente diverso dal Fausto che conosco io».

È normale organizzare un provino a due, attrice e regista?

«Bah, ognuno fa a modo suo. Io preferisco lavorare con la produzione, con la mia addetta ai casting che mi fissa gli appuntamenti. Spesso poi non si ha nemmeno necessità di incontrare dal vivo gli interpreti, specie chi ha poche scene, basta un book fotografico o un breve video».

Ha mai selezionato attrici a casa sua?

«Ma no! Al massimo, per conoscere Vanessa Incontrada che recita in Non c’è campo, il mio film appena uscito, sono andato a Bari e l’ho portata fuori a cena. Un’audizione alle 10 di sera è sospetta».

E si usa provare insieme le scene, per capire se assegnare la parte?

«Io mi limito a dare le battute, se manca l’attore: leggo il copione, non recito. Gli altri non so, ognuno decide come meglio crede».

Succede anche il contrario, che sia l’intraprendente provinata a provarci con il regista?

«Da sempre esistono scorciatoie, prese di comune accordo, per ottenere una parte in un film. Come ovunque, non solo nel cinema».

Di avances interessate ne ha ricevute?

«Può capitare».

Qualcuna che si sia mai tolta la maglietta fuori copione?

«No, per fortuna no. La provocazione è più sottile. Una frase buttata lì. Che fai dopo? Andiamo a cena insieme?».

E lei?

«Scelgo di non capire, di non raccogliere, invento un impegno».

Irreprensibile.

«No, non sono affatto irreprensibile e le tentazioni sono umanissime, è che preferisco restare libero e poter scegliere come voglio, senza costrizioni, non solo da quando sono sposato, pure mentre ero single».

Nessuna raccomandata con Moccia?

«Per fare una cortesia alla produzione, al massimo. Questo lavoro è troppo bello per rovinarlo così, la mia vita la tengo separata dal set e lavoro più sereno».

Tanto magari un’attrice incapace in pochi secondi passa inosservata.

«No, no, si nota, si nota».

Le Iene, scandalo Brizzi. Neri Parenti: "Fausto è un amico, ci crederò solo se me lo dirà lui", scrive Martedì 14 Novembre 2017 "Leggo". Fausto Brizzi, il noto regista italiano, è stato accusato di molestie da almeno dieci attrici anche grazie alle inchieste delle Iene. Anche stasera la trasmissione di Italia Uno ha dedicato un servizio allo scandalo abusi sessuali nel mondo dello spettacolo. Stavolta la iena Dino Giarrusso ha ascoltato il parere di attrici e showgirl affermate. Queste le loro dichiarazioni a riguardo.

Alessia Marcuzzi: "Se è successo, Brizzi va punito. C'è una grave patologia che va curata. Le ragazze mi sembravano molto sofferenti, credibili".

Paola Barale: "Weinstein lo appenderei nudo a testa in giù sul red carpet circondato da maiali come lui. Denunciare gli uomini con atteggiamenti da padroni".

Cristiana Capotondi: "Con me Brizzi si è sempre comportato da gentiluomo. I giornali non sono i luoghi preposti per fare giustizia".

Carolina Crescentini: "Tutto ciò fa schifo. Ma non si fanno i provini a casa di un regista".

Isabella Ferrari: "Non mi è mai successo, c'è sempre stata l'avances. Un mondo che non ho mai conosciuto ma per fortuna è venuto fuori. Il coraggio di queste ragazze è una nuova rivoluzione che può portare altre donne a denunciare abusi. E' finita l'epoca 'sì, però'".

L'ultimo a prendere parola è stato il regista Neri Parenti, che in radio ha dichiarato: "Io una di quelle signorine non le prenderò mai nei miei film", riferendosi alle due donne che hanno denunciato a viso scoperto Brizzi, l'ex Miss Italia Clarissa Marchese e la modella Alessandra Giulia Bassi. "C'è stato un equivoco - ha spiegato il regista -, io sono amico di Fausto, non le credo e quindi persone che per me stanno mentendo non le prenderei. Ci crederò solamente quando Fausto me lo dirà. Se succederà gli dirò che è uno stronzo". 

"Brizzi? Non so se sia la verità, ma i provini non si fanno in camera da letto. Dobbiamo stare dalla parte di Asia". Paolo Virzì commenta lo scandalo sessuale che ha travolto il collega Fausto Brizzi e, prima di lui, Harvey Weinstein, scrive il 14/11/2017 "L'huffingtonpost.it" di un articolo ripreso da La Repubblica. Lo scandalo sessuale che ha travolto il cinema americano e italiano è ormai "uno show voyeuristico": ne è convinto il regista Paolo Virzì, che a Repubblica ha commentato la recente vicenda delle accuse di molestie al collega Fausto Brizzi e ha voluto dare qualche consiglio alle giovani attrici. "Intanto rassicurare chi è giovane e vuol fare l'attrice che non si deve rinunciare ai propri sogni. Che la routine professionale è un'altra ed è molto semplice: i provini, gli incontri di lavoro non si fanno a quattrocchi in una camera da letto. Quello che è stato raccontato, verità o messinscena equivoca, non è la norma. Mi stupisce che sia avvenuto. Mi stupisce che, ammesso che sia vero, sia stato proposto proprio così, e mi stupisce altrettanto che sia stato accettato". Il cineasta de Il capitale umano ha poi affermato di sostenere le donne che hanno denunciato le molestie subite, come ad esempio Asia Argento, tra le prime a indicare Harvey Weinstein come uno stupratore e attaccata ferocemente sui social. "Dobbiamo stare con Asia, non possiamo accettare lo sberleffo di certi giornalacci. Il suo racconto, nel suo stile genuino, è del tutto credibile, comprensibile umanamente anche quando denuncia le proprie debolezze di 21enne. Asia non deve sentirsi sola, non deve temere cause degli avvocatoni dei potenti perché saremo sempre tutti con lei". Virzì spera poi che lo scandalo possa servire a creare un mondo sempre più a misura di donna. "Mi hanno colpito le parole di Helen Mirren alla Tulane University: sii femminista, non importa se sei uomo o donna. Là dove le donne vivono condizioni migliori, il vantaggio è per tutti. Tornando al capitolo del dire e fare cose utili: bisogna costruire una cultura in cui certi comportamenti non siano più prevalenti. Moltiplicare i luoghi di lavoro dove il boss maschio dominante diventi qualcosa di obsoleto e di ridicolo".

«Le accuse a Brizzi? Non ci credo. Ma mai dire mai, non è mio fratello». Federica Lucaferri, l’attrice romana che recita nel film in uscita il 14 dicembre, dice che il regista è sempre stato corretto e professionale. «Da questa storia voglio stare fuori», scrive Giovanna Cavalli il 14 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Con me Fausto è sempre stato un pezzo di pane», racconta Federica Lucaferri, 21 anni, attrice romana che insieme con Brizzi ha girato sia Poveri ma ricchi che il sequel, in cui è ancora Tamara, figlia del mozzarellaio arricchito Danilo Tucci da Torresecca (Christian De Sica), pazza di selfie e di social network. La Warner Bros Italia però ha deciso che «Poveri ma ricchissimi» uscirà sì, il 14 dicembre, ma senza il credit del regista, con cui non intende lavorare mai più.

«Loro li capisco, in parte, perché la verità non è stata ancora accertata, però mi dispiace: Fausto ci credeva tanto in questo film, si parlava già del terzo».

Non dopo che dieci ragazze lo hanno accusato di molestie sessuali. Avrà visto il filmato delle «Iene».

«Sì e sono rimasta abbastanza scioccata, quello che conosco io è un uomo gentile, paterno, disponibile e molto a modo».

Crede alle accuse contro di lui?

«Non ci credo. Però nemmeno posso metterci la mano sul fuoco, non è mica mio fratello».

Il suo provino con Brizzi com’è stato?

«Normalissimo. Anzi, al primo — era il 19 luglio del 2016, me lo ricordo benissimo — sono andata negli uffici della Wildside a viale Mazzini».

Di sera?

«Alle due di pomeriggio».

E chi c’era ad aspettarla?

«Due addette al casting».

E il regista?

«L’ho visto una settimana dopo, stavolta nel suo ufficio-loft di San Lorenzo».

Il famoso loft. Sola?

«No. Mi ha accompagnato il mio ragazzo Ludovico. E c’erano altre quattro persone, tra cui l’aiuto regista. Eravamo seduti intorno al tavolo e Fausto mi spiegava com’era il film. Io lo ascoltavo stupita, dubbiosa, non avevo capito che mi aveva già presa. Guarda che Tamara sei tu, mi ha detto e io non ci potevo credere. Più felice di me c’era solo Ludovico che è un fan scatenato di De Sica».

E l’ha vista la Jacuzzi di cui parlano le presunte molestate?

«Boh sì, era in fondo, coperta da un materassino, sembrava un grosso puff o un divanetto, non avevo capito che sotto ci fosse una vasca».

Ci è tornata altre volte.

«Sì, alla prima lettura del copione, sempre con il mio ragazzo, che per passare il tempo sfogliava il libro di Brizzi Ho sposato una vegana e rideva».

E alla seconda lettura?

«Eravamo io e Fausto da soli».

Come si è comportato con lei?

«Benissimo. Abbiamo provato le scene e discusso dei dettagli».

Ha fatto o detto qualcosa di sconveniente?

«No, è sempre stato professionale, non mi ha mai mancato di rispetto, anzi mi ha fatto un discorsetto serio: non accontentarti, Federica, e ricordati che nel cinema l’unica cosa che non dovrai saper fare alla perfezione è soltanto volare. E infatti mi sono messa a studiare dizione, danza e canto, che sono parecchio stonata».

E sul set?

«Per due mesi siamo stati una grande famiglia. Appena c’era una pausa io e Lucia Ocone mangiavamo tutto il cibo di scena e Fausto mi prendeva in giro: ma sei venuta qui solo per abbuffarti gratis?»

Come si riconosce un’audizione seria da una trappola?

«I provini non si fanno a casa del regista e non è lui che ti telefona, ovvio. Ci si affida a un’agenzia, la mia è la Black & White, che prende contatto con il direttore del casting e ti fissa un appuntamento, a cui di solito ci sono anche i tecnici delle riprese e una spalla per le battute. Quando ero più piccola mi portavano i miei genitori».

Tutti corretti, con quello che si sente è fortunata, a quanto pare.

«Un regista mi invitò a prendere un caffè. Non ho accettato. Se vuoi vedere come recito, parla con il mio agente».

Le accusatrici di Brizzi dicono che cambiava faccia, che gli venivano gli occhi rossi da pazzo.

«Io non li ho visti».

Se le avesse messo una mano addosso gli avrebbe dato un ceffone?

«Un ceffone forse no, ma è chiaro che me ne sarei andata. Non prendo scorciatoie nella vita».

Lo ha chiamato in questi giorni?

«Non gli ho telefonato. Non credo che sia colpevole, però mai dire mai. E comunque da questa storia voglio restare fuori».

«Anche io ho subite molestie, anzi di più, e non ho denunciato», scrive il 9 novembre 2017 "Il Corriere della Sera". Ospite di Porta a Porta in onda questa sera su Rai1, Gina Lollobrigida si unisce al coro di denunce, anche se non fa i nomi di chi le ha usato violenza. «La prima volta avevo 19 anni, andavo ancora a scuola - racconta a Bruno Vespa - della seconda meglio non parlare...». La rivelazione choc per l’attrice oggi novantenne arriva con la richiesta di commentare il profluvio di denunce seguite in tutto il mondo allo scoppiare dello scandalo Weinstein: «Un commento su quello che sta accadendo? Credo che avrebbero dovuto denunciare per tempo ma non hanno avuto il coraggio», risponde in prima battuta la Lollo. Che poi a sorpresa aggiunge: «Ma neanch’io l’ho avuto...». Vespa le chiede allora quante persone avrebbe potuto denunciare. «Due - risponde lei - e avrebbero perso entrambe il lavoro. Uno straniero e uno italiano». Sono stati dei molestatori pesanti? «Quando la molestia non è molestia ma è di più...non la puoi eliminare, rimane dentro e condiziona il tuo carattere, le tue azioni sono sempre soggette a questo ricordo», risponde ancora l’attrice. «La prima volta ero innocente non conoscevo l’amore, non conoscevo niente. Quindi era grave. E la persona era molto conosciuta. Avevo 19 anni, andavo ancora a scuola. Della seconda è meglio non parlare...non li ho denunciati per non rivelare una cosa mia…ma erano due cose abbastanza gravi. La seconda volta ero già sposata cominciavo a fare il cinema».

«Ormai siamo arrivati a un delirio fondamentalista», scrive Alessio Buzzelli per “il Tempo” il 9 novembre 2017. Con queste parole Vladimir Luxuria descrive il polverone alzatosi nell' ultimo mese intorno ad alcuni suoi tweet in cui l'artista ed ex -parlamentare aveva criticato, con solide argomentazioni, le posizioni delle tante showgirl e attrici che in questi giorni hanno denunciato- a distanza di anni e dopo lo scoppio del "caso Weinstein - di aver subito molestie da parte di produttori e registi. Una polemica che negli ultimi giorni sembrava essersi placata, almeno finché Luxuria non è tornata sull' argomento con un altro, lapidario, tweet («Attenzione a quelle attricette rifiutate per un ruolo in un film che si vendicano sui registi accusandoli di #molestie»). Un tweet che ha fatto indignare molti, scatenando violente reazioni.

Luxuria, in molti hanno travisato le sue parole. Perché?

«Anche le persone che si sono scagliate contro le mie parole sono vittime. Non vittime di molestie sessuali, ma vittime della banalizzazione e ridicolizzazione di un fenomeno serio e reale come quello degli abusi sessuali e della violenza di genere. Questa gente si sta facendo abbindolare da persone che strumentalizzano questi argomenti per motivi del tutto personali. Una cosa che io, tra l'altro, avevo già immaginato potesse accadere, prima o poi».

Quali sono questi motivi?

«Vendetta e ripicca, per esempio. E qui mi sto riferendo alla questione in generale: io conosco bene il mondo dello spettacolo e so che la tentazione di usare l'argomento delle molestie è forte, magari per coprire i propri fallimenti professionali. Anche perché quando denunci una molestia dopo tanti anni è difficile che il presunto molestatore venga incriminato e di certo non impedisci che costui, subito dopo, possa continuare a fare i propri porci comodi. È inutile».

Quello di farsi pubblicità in un momento di poca visibilità può essere un altro motivo?

«Può essere. Ci sono donne dello spettacolo che, pur di avere un po' di visibilità, farebbero di tutto per un'intervista o una comparsata tv».

Lo «scandalo Weinstein» poteva essere un'occasione per denunciare il perverso meccanismo del mondo dello spettacolo e invece tutto si è ridotto a una sterile polemica partigiana tra chi è d' accordo a prescindere e chi non lo è. Un' occasione persa. È d'accordo?

«Certamente il fenomeno delle molestie esiste ed è molto serio, non solo nello spettacolo. Il problema è che qui qualcuno, per tornaconto personale, ha fatto perdere credibilità all' intera questione, causando danni enormi e offendendo le vittime delle molestie. Io non sono per difendere a prescindere chi denuncia, soprattutto quando la vittima si accompagna e lavora per anni con il proprio presunto carnefice. Perché la cosa più importante, in questi casi, è la credibilità».

Come ha reagito ai commenti, alcuni dei quali violenti e brutali, sotto i suoi post?

«A me interessa esprimere ciò che penso, indipendentemente dalle reazioni che posso suscitare, perché non riesco a restare indifferente davanti a un’ingiustizia. Io penso che molte delle persone che hanno commentato siano in buona fede, solo che non hanno capito la pericolosità di ciò che sta accadendo. La pericolosità cioè di queste denunce tardive e a "pancia piena" legate a un mondo, quello dello spettacolo, in cui le vendette e le invidie sono all'ordine del giorno. È un danno enorme alla battaglia contro le vere molestie e le vere violenze. Così si rischia di equiparare uno stupro a cose che sono poco più che ripicche. Il mio è un grido d' allarme».

Lei ha dichiarato di aver ricevuto proposte indecenti che ha però declinato, rinunciando magari a un lavoro. Quindi si può dire di «no»?

«Io ho ricevuto delle avances, certo, alle quali ho detto di no. Molti però fanno confusione tra avances, cioè corteggiamento, e molestie, che sono due cose ben diverse».

"Con me nessuno ci ha mai provato…Perchè?", Flavia Vento e quel dettaglio sul caso Weinstein.  Flavia Vento, a modo suo, fa tornare alla ribalta il caso Weinstein e con un tweet ha scatenato una bufera sui social. "Nessuno ci ha mai provato con me... Perchè", questo è il messaggio su Twitter che la showgirl ha lanciato sulle accuse di molestie contro Weinstein e ha poi spiegato quel dettaglio con il produttore..., scrive Giuseppe Guarino il 7 novembre 2017 su "Funweek.it". Sono settimane infuocate queste, date le notizie che arrivano da Hollywood. Il caso Weinstein e tutte le sue diramazioni, hanno fatto da leva per tante altre denunce, che coinvolgono anche attori e personaggi dello show business italiano. A tornare sulla questione, in un modo tutto suo, è Flavia Vento. La showgirl ha scritto su Twitter, facendo una provocazione non indifferente che, nel marasma della corsa alla denuncia non manca di far parlare di sé. "Io merito meno rispetto?", Flavia Vento svela quel retroscena su Alfonso Signorini: ecco cosa è successo in passato “Con me nessun regista o produttore ci ha mai provato! – ha twittato Flavia postando una sua foto sul red carpet – Mi chiedo perché!” A chi si è indignato per le parole della showgirl, ha risposto lei stessa in un’intervista al Fatto Quotidiano, precisando il perché di questa pungolante dichiarazione. “Era anzitutto una presa in giro nei confronti di tutte queste che ora si svegliano dopo vent’anni – ha commentato al giornale di Marco Travaglio – Il mondo dello spettacolo non è tutto così”. Nessuno ha mai abusato di lei, racconta Flavia, ma in molti ci hanno provato: “mi facevano capire che se ci fossi stata, mi avrebbero fatto lavorare di più. Però non ci sono mai stati abusi fisici, si sono sempre fermati alla battutina stupida. Purtroppo non ho mai chiesto niente a nessuno, forse sono io a essere fessa”. Infine, ha dichiarato di aver conosciuto anche Harvey Weinstein in persona, raccontando uno strano aneddoto: “L’ho conosciuto a New York, poi ci siamo rivisti a Roma. Era amico di una mia amica. Mi è sempre sembrato una persona normalissima, con me non c’ha mai provato, zero. Siamo pure andati al cinema insieme. In sala era buio e lui stava per cadere rovinosamente dalle scale. Era molto grasso e la scena fu buffa, io e la mia amica ci siamo ammazzate dalle risate per due ore. Comunque, non giustifico affatto quel che ha fatto…” Una semplice provocazione, quella di Flavia Vento, che passa sopra alle accuse con leggerezza ed il suo solito sorriso. Avrà sbagliato ad affrontare così la questione? Voi come la pensate?

Anna Falchi: "Ogni donna di spettacolo subisce avances, a meno che non sia un cesso". La bellissima attrice ha detto la sua sugli scandali che sono esplosi di recente nel mondo dello spettacolo: "Le donne subiscono dalla mattina alla sera pressioni sessuali", scrive Anna Rossi, Mercoledì 8/11/2017, su "Il Giornale". Lo scandalo che ha travolto Harvey Weinstein ha sconvolto tutto il mondo e ogni giorno attrici e modelle dicono la loro su quello che sta accadendo. In generale, tra chi difende il noto produttore cinematografico e chi lo accusa di molestie sessuali, su Weinstein si è abbattuto un vero ciclone. Ma in questo tam tam mediatico ha voluto dire la sua anche Anna Falchi. La bellissima attrice ha dichiarato ai microfoni di Radio Cusano Campus: "Ogni donna di spettacolo subisce avance. Ogni giorno se ne sente una, non se ne può più, detto tra noi. Io posso dire che questo tipo di sistema è sempre esistito". Poi Anna Falchi si è spinta oltre e ha commentato: "Ognuna di noi donne dello spettacolo, a meno che tu non sia un cesso incredibile, ha subito delle avances a volte molto imbarazzanti. Spesso con la scusa dei provini il regista o il produttore qualcosa in più lo fa. Poi sta a te se accettare a meno. Consiglio a tutte le ragazze di non andare a fare gli appuntamenti nelle case o nelle stanze d'albergo dei registi. Altrimenti ti metti nelle condizioni di poter subire delle molestie un pò più infime. C'è da dire che le ragazze giovani possono essere un pò succubi di certe figure e subire il potere delle persone. E certi uomini ne hanno approfittato. Da lì a parlare di stupro però bisogna pesare le parole. Le donne subiscono dalla mattina alla sera pressioni sessuali. In tutti i settori. Magari nel mondo dello spettacolo ci sono più occasioni, ma in ogni campo lavorativo la donna subisce questo".

Fabio Canino accusato di molestie: "Mi fece masturbare davanti a lui". L'attore Paolo Orlandelli: "Non mi ha toccato ma mi sono sentito comunque abusato, allora ero giovane e ingenuo", scrive Marianna Di Piazza, Lunedì 13/11/2017, su "Il Giornale". Anche il giudice di Ballando con le stelle, Fabio Canino, finisce al centro dello scandalo molestie. Ad accusare lo scrittore e personaggio televisivo è l'attore teatrale Paolo Orlandelli. L’uomo ha raccontato un episodio accaduto qualche anno fa. Sembrerebbe che durante un provino per una pubblicità progresso in Norvegia, Orlandelli sia stato invitato a denudarsi per poi masturbarsi di fronte a Canino. "Non mi ha toccato ma mi sono sentito comunque abusato, allora ero giovane e ingenuo - ha scritto l'attore sul suo profilo Facebook - So che molti attori e registi fanno di queste cose che ritengono accettabili poiché non vi è contatto, ma si tratta ugualmente di abusi e vanno denunciati, con nomi e cognomi, altrimenti è perfettamente inutile parlarne".

"Hanno abusato di me in Vaticano. Molestie anche durante la Messa". Un ex chierichetto ha raccontato alle Iene gli abusi sessuali subìte all'interno della sede del preseminario San Pio X, in Vaticano, scrive Alice Venturelli, Lunedì 13/11/2017, su "Il Giornale". Un'inchiesta de Le Iene condotta da Gaetano Pecoraro e andata in onda ieri sera su Italia 1 ha mostrato nuove testimonianze sulla vicenda degli abusi sessuali in Vaticano. Alcuni ex giovani seminaristi e chierichetti di Papa Francesco hanno raccontato le violenze sessuali subìte all'interno della sede del preseminario San Pio X, proprio vicino a piazza San Pietro. Un giovane polacco, Kamil, ha raccontato che ancora adolescente aveva deciso di recarsi in Vaticano ed entrare nel preseminario. Kamil è diventato così testimone di anni di ripetute violenze ai danni del suo compagno di stanza da parte di un giovane seminarista poco più grande di loro, diventato oggi sacerdote. "Avevo paura e quindi restavo impietrito mentre vedevo quello stupro, anche perché lui era il seminarista di cui il rettore si fidava di più. Poi decisi di dire tutto al nostro padre spirituale, perché è tenuto al segreto. Lui decise di fare indagini per conto proprio e alla fine fu rimosso dal suo incarico e trasferito a 600 km di distanza". Secondo Kamil, il presunto aggressore, aveva una posizione di potere all'interno del seminario e anche della basilica di San Pietro: "Non era un normale seminarista perché godeva della massima fiducia del rettore. Era lui che sceglieva cosa facevo io, cosa faceva il mio amico e così via". A questo punto è stato intervistato anche la vittima delle molestie raccontate da Kamil: "Durante la notte, quando non c'era più nessun superiore nei corridoi, entrava nella camera, si infilava nel letto, cominciava a toccare le parti intime. La prima volta avevo 13 anni". "Quella violenza - continua il ragazzo - fu il mio primo approccio al sesso, era qualcosa di orribile e sbagliato ma divenne la normalità, addirittura una volta successe dietro l'altare della Basilica di San Pietro. La paura ti pietrifica, alla fine accetti tutto ma ti senti in colpa". Il ragazzo, oggi 24enne, ha ammesso che gli episodi di violenza si sono verificati per tantissimo tempo: "Ho perso il conto, negli anni. Non è che sia successo una volta o due o tre o dieci. È successo un numero grandissimo di volte". Dopo la prima denuncia di Kamil e le successive indagini del padre spirituale, quest'ultimo fu rimosso da monsignor Enrico Radice, il rettore del preseminario. Kamil, di punto in bianco è stato cacciato dal seminario ritrovandosi solo, senza un tetto, in un paese straniero. Monsignor Radice, invece, si è rifiutato di parlare con 'Le Iene': "Tutto in regola, tutto verificato. Le vostre sono solo calunnie, dite falsità", ha dichiarato.

Non è l'Arena, Lele Mora da Massimo Giletti mette a tacere Luisella Costamagna: "Ad Arcore non c'era prostituzione", scrive il 13 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Si parla di molestie sessuali a Non è l'Arena di domenica 12 novembre 2017, su La7, il nuovo programma di Massimo Giletti e in studio ci sono Lele Mora e Luisella Costamagna. Ad un certo punto la santorina interviene con le solite accuse a Silvio Berlusconi per le cene eleganti: "Ad Arcore c'era prostituzione..." ma l'ex agente dei vip la mette subito a tacere: "Arcore non era una casa di tolleranza perché devono esserci più clienti. E nessuno ha mai condotto alcuna a darla via...".

Emilio Fede: "Abusi sessuali? Ma andate affan..., ho paura anche a prendere l'ascensore con una donna", scrive il 13 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Emilio Fede è intervenuto su Radio Cusano Campus sugli scandali sessuali che stanno travolgendo il mondo dello spettacolo: "Non capisco tutto questo piagnisteo, a me risulta che se tu non la vuoi dare non la dai. Gli stupri sono un'altra cosa. La signora Asia Argento ha fatto il botto, lei, il personaggio, è improvvisamente diventata la paladina di una restaurazione della dignità femminile. Ma la donna ha già la propria dignità. La donna è amata, la donna è vita. Questa storia qui è diventata una rottura". Sul caso di Fausto Brizzi, il regista italiano accusato di molestie: "Detto fra noi, ma non possiamo anche porre un'alternativa? Possiamo sentire gli uomini che sono stati stuprati? Violentati psicologicamente dalle donne? Guardate che esistono!". E ancora: "Io ormai con una donna non prendo nemmeno l'ascensore, ho paura che poi vada dai carabinieri a dire che Fede l'ha palpeggiata e esce l'agenzia che vuole l'ex direttore del Tg4 indagato. Ma andate a fare in culo! Capita più spesso che le donne cerchino di fare sesso con il regista per avere una parte piuttosto che sia il regista a chiedere del sesso alla donna per darle la parte". Emilio Fede ce l'ha anche con Giletti: "Dice che è stato il primo a fare il telegiornale in piedi, ma che cazzo dice! Il primo che ha fatto il telegiornale in piedi sono stato io. Ma piantatela, tutti dicono di essere stati i primi, e chi è il secondo?".

ACCUSE AMBIGUE E TARDIVE. ACCUSE PRETESTUOSE?

LA STAR DI DJANDO DI TARANTINO. Jamie Foxx, molestie sessuali a Hollywood: una donna lo accusa di averla schiaffeggiata col pene, scrive il 21 Giugno 2018 Libero Quotidiano. L'ennesima, clamorosa, denuncia contro un "mostro sacro" di Hollywood. Con il solito, incredibile, ritardo: 16 anni in questo caso. Tanti ne sarebbero passati dalle molestie che nei giorni scorsi una donna ha denunciato di aver subito dall'attore afro-americano Jamie Foxx. Che ai tempi non era ancora la star famosa per "Collateral" con Tom Cruise e "Django" di Quentin Tarantino. La denuncia contro l'attore è stata presentata in una stazione di polizia di Las Vegas e racconta di una festa del 2002 alla quale la "vittima" si trovava in compagnia di un'amica, quando secondo quello che dice la donna, Foxx le avrebbe proposto di fare sesso orale. Lei si sarebbe rifiutata e a quel punto l'attore l'avrebbe "schiaffeggiata con il proprio pene". Foxx ha rispedito le accuse al mittente. Per bocca del suo avvocato ha parlato di accuse “false e inventate, perché semplicemente i fatti raccontati non sono mai accaduti”. Negli Usa la legge che riguarda il tema della molestie sessuali prevede che l’accusa venga depositata entro tre anni dall’accaduto.

Stuprate smemorate, scrive Alessandro Bertirotti l'1 ottobre 2018 su "Il Giornale". È tutta questione di… spontaneità. Eh, sì… carissimi tutti, femmine americane alla Asia Argento. Violentate, traumatizzate che improvvisamente riacquistano la memoria, persino dopo 36 anni. Penso che sia una capacità del tutto statunitense, a questo punto. L’ipotalamo di queste signore, che organizza in tutti gli esseri umani, maschi e femmine del mondo intero, la memoria autobiografica, deve essersi geneticamente e culturalmente modificato. Chissà quale forma originale avranno assunto i contatti sinaptici che determinano, come insegna il Premio Nobel Eric Kandel, la formazione della memoria! Sarebbe davvero interessante farci uno studio scientifico approfondito. Ma, al di là della mia ironia, penso che ovviamente non vi sia, in tutto questo, nulla di scientifico né di vero. Alle soglie di incarichi istituzionali importanti, questi maschi americani sono quasi regolarmente accusati da qualche femmina che si ricorda di aver vissuto a causa di loro un episodio traumatico, influenzando così la carriera politica dei violentatori. Ora, siamo sicuri che tutto questo non sia diabolicamente orchestrato dagli oppositori politici di Trump? In sostanza, con chi se la vogliono prendere? Con un prossimo giudice della Corte Suprema, o tramite lui direttamente con Trump? Mi sembra che le cose siano sempre più chiare, ossia che di fronte a scarse argomentazioni politiche questa opposizione sia come quella italiana, ossia legata a schemi antropologicamente sedimentati che fanno appello a falsa moralità, tanto maschile quanto femminile. Sarebbe l’ora di trovare, e parlo a tutti questi movimenti moralizzatori, veri argomenti etici cui riferirsi e farlo, magari, sempre. Bisognerebbe parlare di cose positive da fare, di buoni comportamenti al di fuori dell’esposizione mediatica riservata ad alcune persone in vista di situazioni politiche eclatanti. La vera politica, quella argomentativa, la si fa nella quotidianità, senza fare appello a presunti stupri occasionalmente pubblicizzati. Ce la faremo a vedere un mondo politico di migliore livello? Lo spero tanto, ma questo andazzo non promette nulla di buono, ovunque.

Kavanaugh, la bomba ad orologeria dell'accusa di molestie, scrive il 18-09-2018 La Nuova Bussola Quotidiana. Giovedì prossimo il Senato dovrà esprimersi sulla nomina del conservatore e pro-life Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. E puntualmente scoppia la bomba ad orologeria dello scandalo sessuale. L'accusa una donna di una molestia che lo studente Brett avrebbe commesso nel 1982. Una storia senza prove e piena di contraddizioni. Giovedì prossimo, alle 13,45, i 21 membri del Senate Committee on the Judiciary voteranno per decidere se Brett M. Kanavaugh sarà il prossimo giudice della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America e domenica 16 settembre, a coronamento di un proditorio assalto condotto per giorni contro di lui dai Democratici, su Kavanaugh è piombata un’accusa di aggressione sessuale vecchia di 36 anni di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Christine Blasey Ford, 51 anni, sposata, madre di due figli, docente di Psicologia clinica nell’Università di Palo Alto in California, afferma che, nell’estate 1982, quando lei aveva 15 anni e lui 17, Kavanaugh e un complice, Mark Judge, entrambi ubriachi, durante una zingarata tra amici, la portarono in una casetta nella contea di Montgomery, nel Maryland, e, mentre Judge guardava, Kavanaugh la gettò sopra un letto cercando maldestramente di strapparle i vestiti e il costume da bagno che portava sotto. Lei cercò di gridare, ma lui le tappò la bocca con una mano. Poi riuscì a divincolarsi da Kavanaugh, salvo che Judge la fermò con una mossa goffa che li fece ruzzolare tutti e tre a terra. Un secondo tentativo di fuga andò meglio e l’allora ragazza riuscì a chiudersi nel bagno, da cui, una volta calmatesi le acque, uscì incolume. Il fattaccio provocò nella ragazza un trauma duraturo. Fu così che, oramai 45enne, 30 anni dopo, nel 2012 decise di sottoporsi a una terapia di coppia assieme al marito, Russell Ford, vuotando finalmente il sacco. Questo è ciò che ha raccontato 36 anni dopo l’accaduto in un’intervista a The Washington Post, pubblicata qualche giorno fa, il 16 settembre. Dell’accusa circolava voce da qualche settimana, ma in forma anonima; è stata la pressione dei media, ha detto la Blasey Ford, a spingerla allo scoperto.

Dunque. Nel 1982 la Blasey Ford subisce un’aggressione sessuale. Fino al 2012 tiene tutto per sé. Poi nel 2012 si confida con un terapeuta in presenza del marito. Il terapeuta prende appunti. Gli stessi appunti che sono finiti nelle mani dell’FBI nell’agosto scorso, FBI che poi li ha trasmessi, con altri materiali, alla Camera e al Senato federali degli Stati Uniti. In quegli appunti c’è scritto che l’aggressione del 1982 fu perpetrata ai danni dell’allora ragazza da quattro ragazzi, non due come la ex ragazza dice oggi, e non ci sono nomi, né quello di Kanavaugh né quello del suo amico Judge. Infatti negli appunti c’è scritto solo che gli aggressori (sempre quattro, mai due) provenivano da una scuola per ragazzi bene della zona. All’epoca Kavanaugh ne frequentava una così, la Georgetown Preparatory School di North Bethesda, in Maryland (mentre la Blasey Ford frequentava la Holton-Arms School di Bethesda), ma è un po’ pochino. E comunque i dati non combaciano. Oggi la Blasey Ford dice che nel 2012 il terapeuta sbagliò a scrivere; andando a memoria, suo marito Russell conferma.

Questo il primo atto. Il secondo narra che il fattaccio accaduto nel 1982 e rivelato nel 2012 rimane solo fra Christine, Russell e il terapeuta fino al luglio 2018. Il 9 luglio 2018 Trump indica in Kavanaugh il successore del dimissionario giudice della Corte Suprema Anthony M. Kennedy, rimandando tutto, come di norma, al Senate Committee on the Judiciary per la ratifica o la bocciatura. È qui che la Blasey Ford prima contatta The Washington Post e poi, a stretto giro, scrive alla deputata Democratica Anna G. Eshoo, eletta nel collegio della California dove la Ford vota, quindi alla sua deputata di riferimento, raccontando tutto e facendo il nome di quel Kavanaugh che negli appunti presi nel 2012 dal terapeuta davanti al marito di lei non c’è. La Eshoo passa quindi la lettera alla senatrice Democratica Dianne Feinstein, che fa parte del Senate Committee on the Judiciary e che notoriamente è la nemica giurata dei conservatori nella magistratura. Famosa è la frase con cui ha cercato di mettere in imbarazzo la cattolica Amy Coney Barrett quando, prima che uscisse il nome di Kanavaugh, sembrava lei a dover sostituire Kennedy alla Corte Suprema: «Dentro di lei il dogma vive con forza, e questo è un problema». La lettera della Blasey Ford porta la data del 30 luglio e inizia con il monito «Confidenziale». Come si saprà poi, arriva anche all’FBI, che con una perizia calligrafica effettuata in agosto accerta che l’autrice è proprio la Blasey Ford. Della lettera si comincia a rumoreggiare.

Atto terzo. Il 4 settembre iniziano le audizioni di Kavanaugh davanti al Senate Committee on the Judiciary e si svolgono senza esclusioni di colpi. Il voto finale di approvazione o bocciatura viene fissato al 20 settembre. Ed ecco che il 16 la Blasey Ford decide di rendere pubblica la propria identità appunto su The Washington Postmentre in contemporanea il sito Internet della CNN pubblica la sua famosa lettera. O quasi. La famosa lettera, infatti, la CNN non l’ha mai vista. Quella che pubblica è la versione emendata dall’FBI che è stata inviata a Camera e Senato, e che alla redazione del quotidiano è stata solo letta venendo poi trascritta. Neanche The Washington Post ha letto la lettera: se l’è fatta analogamente leggere, prendendo nota.

Ovviamente Kavanaugh nega categoricamente tutto, e così fa pure il suo presunto complice Judge, ma l’addebito è un macigno. Mentre su National Review, David French rileva che le accuse contro Kanavaugh sono gravi sì, ma non solide, sulla medesima testata John Fund osserva che, comunque vada, su Kanavaugh resterà sempre l’ombra del sospetto. E proprio questo è il punto. Confermare o confutare il racconto della Blasey Ford è praticamente impossibile. Si tratta di una vicenda troppo remota nel tempo, nei luoghi, nelle circostanze e nei ricordi. Non ha testimoni, e trabocca di contraddizioni e omissis. Dunque rimarrà per sempre nel perimetro tabù di un’accusa mossa da una donna molestata contro la difesa di un maschio che nega. Una donna, peraltro, che – osserva Fund - ha appena fatto sparire dal proprio profilo LinkedIn ogni riferimento alle molte organizzazioni Democratiche a cui è iscritta, ivi compreso i “Friends of Bernie Sanders”. Chi dunque arriccia il naso punta il dito contro la memoria a orologeria della Blasey Ford. Perché, una volta trovato il coraggio di parlare nel 2012, se davvero l’intento è quello d’impedire che un bruto come Kavanaugh faccia danni nei tribunali, la donna non lo ha accusato pubblicamente proprio in quel 2012 quando già da sei anni Kavanaugh era giudice nella Corte d’appello del Distretto di Columbia (la capitale federale Washington), nominatovi nel 2003 da George W. Bush jr., un presidente chiacchierato, scomodo e ingombrante che Kavanaugh aveva già servito lungamente alla Casa Bianca, e si costruiva quella nomea di nemico della legge sull’aborto americano che proprio ora gli viene rinfacciata dai liberal? Quale azione più opportuna se non quella di rivelare che il paladino dell’antiaborto amico di Bush è in realtà un perverso? Del resto la cosa non torna nemmeno alla senatrice Susan Collins, Repubblicana sì, ma liberal e grande avversaria di tipi come Kanavaugh. Dal suo swinging vote, che ha già dato cattiva prova di sé in passato su temi sensibili e princìpi non negoziabili potrebbe anche dipendere, al momento buono, la decisione sullo stesso Kavanaugh. Eppure la Collins dice di essere parecchio sorpresa per il fatto che l’accusa sia stata congelata dalla Blasey Ford e dai Democratici per mesi solo per essere gettata sul tavolo a pochi giorni del voto finale con cui giovedì si esprimerà il Senate Judiciary Committee. Già.

Caso Kavanaugh - Ford: cosa hanno detto in Commissione. Prima del voto per la nomina del nuovo giudice della Corte Suprema i due protagonisti della vicenda molestie sessuali hanno parlato in Senato, scrive Barbara Massaro il 28 settembre 2018 su "Panorama". Lo ha ribadito sotto giuramento Christine Blasey Ford, la donna che ha accusato il giudice Brett Kavanaugh (l'uomo indicato da Donald Trump come successore del dimissionario Anthony M. Kennedy per la Corte Suprema Usa, il più importante organo giuridico degli Stati Uniti) di averla molestata al liceo durante una festa tra ragazzini.

Cosa ha detto la Dottoressa Ford. La Dottoressa Ford ha reso testimonianza davanti alla Commissione Giustizia del Senato che, prima di ratificare o meno la nomina di Kavanaugh, ha voluto ascoltare il racconto della donna. Christine Blasey Ford, con voce spesso rotta dall'emozione, ha preferito leggere una dichiarazione scritta nella quale ha ribadito le accuse a Kavanaugh e all'amico Mark Judge che, ubriachi, a 17 anni, avrebbero cercato di stuprarla. "Pensavo di morire" ha detto Ford riferendosi ai minuti in cui i suoi presunti aguzzini le avrebbero tenuta chiusa la bocca con una mano nel tentativo di violentarla. "Sono qui oggi non perché volevo esserci, sono terrorizzata - ha ammesso la donna davanti ai 21 senatori della Commissione e ha poi aggiunto - Sono qui perché credo sia mia dovere civico dirvi la verità". Ford, docente di psicologia, si è detta certa al 100% che quel ragazzino conosciuto 36 anni fa fosse il giudice Kavanaugh e ha risposto con compostezza sia alle domande dei senatori democratici sia a quelle del procuratore Rachel Mitchell, la donna incaricata dai senatori (tutti uomini) repubblicani di occuparsi del contro interrogatorio. "Sono stata accusata di agire per motivi politici di parte - ha poi detto - ma quelli che lo dicono non mi conoscono. Sono una persona fortemente indipendente e non sono una pedina di nessuno". Ford ha sottolineato il dramma di quella notte (lei aveva solo 15 anni) e come quel tentativo di violenza abbia condizionato il suo futuro in fatto di relazioni di coppia. L'accusatrice di Kavanaugh ha poi ribadito di aver deciso di denunciare il giudice quando il suo nome è stato fatto tra i papabili per la Corte Suprema, prima che la scelta dell'amministrazione Trump cadesse proprio su di lui.

La replica del giudice Kavanaugh. Dopo aver ascoltato le parole di Ford, per la Commissione è stata la volta di sentire la replica di Kavanaugh che ha definito la vicenda frutto di: "Calunnie dell'ultimo minuto". Il giudice ha negato di aver mai conosciuto la Dottoressa Ford asserendo: "Non ho mai conosciuto la dottoressa Ford non sono mai stato a feste o incontri con lei". E poi ha sbottato: "Questo processo ha distrutto la mia famiglia e la mia reputazione, in maniera permanente, costruita da anni di duro lavoro. Le accuse fanno parte di un disegno politico, non sono mai state presentate altre prove. Questo è un circo". Quasi in lacrime ha poi ammesso: "Non ero perfetto al Liceo e neanche i miei comportamenti lo erano, bevevo qualche birra di troppo nel weekend e in retrospettiva, ho detto e fatto cose al liceo che oggi mi imbarazzano: ma non sono mai stato protagonista di aggressione sessuali, non ero un molestatore. Ciò di cui sono stato accusato è molto più grave di una cattivo comportamento giovanile".

La solidarietà di Trump e il voto della commissione. Nonostante lo scandalo che lo ha travolto Kavanaugh ha deciso di non mollare la sua corsa verso la Corte Suprema incassando la solidarietà del Presidente Trump che ha twittato: "Il giudice Kavanaugh ha dimostrato all'America esattamente il perché io l'ho nominato. La sua testimonianza è stata potente, onesta e affascinante.

La strategia dei democratici tesa a distruggere è vergognosa e questo processo è stato una totale vergogna e uno sforzo per rinviare, ostacolare e resistere". Il voto della Commissione è atteso per le prossime ore anche se l'esito è del tutto incerto. Già prima della doppia testimonianza la maggioranza dei repubblicani era di un solo voto. Diversi senatori vicini all'amministrazione Trump si sono detti indecisi e la nomina di Kavanaugh è appesa a un filo anche perché ad accusare il giudice c'è anche una seconda donna, Deborah Ramirez, che sarebbe stata molestata all'università.

Una seconda accusatrice. Anche in questo secondo caso il contesto della molestia sarebbe quello della festa tra ragazzi. Se però Christine Blasey Ford, 51 anni, ha dichiarato di essere stata molestata sessualmente da Kavanaugh nel corso di una party al liceo, la Ramirez sarebbe stata importunata durante una serata a base di alcol e giochi stupidi all'università. L'anno accademico sarebbe il 1983-84 quando la donna, proprio come il compagno Brett, era matricola a Yale. I fatti sono stati raccontati alNew Yorker in un pezzo firmato dal premio Pulitzer Ronan Farrow. Deborah Ramirez ricorda che insieme ad altri compagni stava partecipando a una festa per studenti nel corso della quale, tutti ubriachi, hanno iniziato un gioco seduti in cerchio dove le ragazze a occhi bendati dovevano indovinare cosa veniva loro dato in mano o messo in bocca. A quanto pare, alla Ramirez toccò il membro di Kavanaugh. Da quanto spiegato dalla donna al magazine americano la cosa la sconvolse profondamente essendo lei molto religiosa. "Ricordo di essermi trovata un pene sulla faccia. So che non era ciò che volevo, anche in quel momento di alterazione mentale" ha dichiarato aggiungendo di aver provato "Vergogna e imbarazzo, un senso di umiliazione".

Accuse a orologeria? Il New Yorker sottolinea di aver cercato conferme di quanto detto tra i compagni di Yale, ma di aver trovato solo vaghi riscontri e più di un ex studente ha sottolineato di trovare l'episodio in contraddizione con il carattere disciplinato e schivo di Kavanaugh. Le prime accuse mosse nei confronti del giudice indicato da Trump erano arrivate il 16 settembre quando la Ford aveva concesso una lunga intervista al Washington Post nella quale aveva raccontato quello che le è successo molti anni fa. Kavanaugh insieme al suo amico Mark Judge durante una festicciola tra adolescenti avrebbe costretto Christine a seguirlo in una camera da letto. Lì si sarebbe buttato sul corpo della ragazza tappandole la bocca mentre cercava di abusare di lei insieme all'amico Mark. I due ragazzi sarebbero stati molto ubriachi e la musica estremante alta per coprire gli eventuali urli della ragazza. La goffaggine dei due aspiranti stupratori, però, avrebbe avuto la meglio e tutti e tre sono caduti dal letto. In quel momento Christine sarebbe riuscita a scappare evitando il peggio. La donna ha dichiarato di non averne parlato a lungo per vergogna e di avere raccontato di quel trauma solo in età adulta quando è finita sul lettino dello psicologo durante una terapia di coppia per salvare il suo matrimonio. Secondo quello psicologo e un altro medico consultato in seguito il trauma vissuto da Ford durante la violenza era stato talmente grave da determinare il cattivo sviluppo della sfera emotiva della donna negli anni successivi. Mentre Christine, quindi, cercava di combattere con i demoni del passato la carriera di Brett sembrava inarrestabile arrivando prima a lavorare per l'amministrazione Bush e poi a essere designato per la Corte Suprema.

Perché parlarne solo ora. È stato proprio quando è stato fatto il nome del giudice Kavanaugh come membro del supremo organo giuridico americano che la Ford, così come era la Ramirez, ha deciso di parlare e di rendere pubblico il suo vissuto. La scelta di scrivere la lettera a una parlamentare californiana mantenendo la propria identità segreta è stata dettata dall'imbarazzo che ancora oggi la donna prova. Da inizio estate a oggi, però, il tam tam dell'ombra delle molestie su Kavanaugh (e il suo potenziale risvolto politico) è passata di bocca in bocca tra i democratici per arrivare fino alle orecchie della più importante senatrice democratica nella commissione Giustizia, Dianne Feinstein. Feinstein ha parlato in prima persona e privatamente con Ford consigliando alla donna di uscire allo scoperto per chiedere giustizia. Da qui la scelta di rivelarsi pubblicamente. Oltre alla lettera la donna ha allegato anche i pareri dei medici che l'hanno ascoltata confermando la gravità del trauma subito. Dal canto loro sia il giudice Kavanaugh sia l'amico d'infanzia Mark Judge avevano da subito respinto ogni accusa. Stessa cosa ha fatto Kavanaugh in merito alle accuse di Deborah Ramirez tramite un comunicato pubblicato dal New York Times.

Una dirigente accusa Tavecchio: "Mi ha palpeggiata e molestata". Lui nega tutto. "Si vede che scopi tanto...". Poi le molestie. Una dirigente accusa Tavecchio e lo incastra con video e audio. Oggi la denuncia in procura. Lui nega tutto, scrive Sergio Rame, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Da Opti Pobà alla clamorosa esclusione dell'Italia dai Mondiali 2018, passando per l'introduzione del Var e il ritorno delle quattro squadre italiane dirette in Champions League. I tre anni e qualche mese di presidenza della Figc di Carlo Tavecchio passano alla storia per le riforme, l'ottimo europeo in Francia e la storica mancata qualificazione alla Coppa del Mondo per la prima volta dopo sessant'anni. E, proprio quando cala il sipario sul 74enne ragioniere di Ponte Lambro, dal passato spunta pure un'accusa di molestie sessuali. "L'ho respinto, sono riuscita a divincolarmi... - racconta al Corriere della Sera una dirigente - le molestie che sono stata costretta a subire da Tavecchio sono accadute in tempi recenti". Alla fine Tavecchio ha gettato la spugna lasciando una Federazione nel caos più totale dopo tre anni di gestione non certo facile. Ma, dopo aver provato a risollevare la Figc uscita con le ossa rotta dal fallimentare Mondiale 2014 in Brasile, eccolo di nuovo sotto le luci dei riflettori. Ad accenderli è un articolo pubblicato oggi dal Corriere della Sera in cui Federica Seneghini raccoglie le clamorose confessioni di una dirigente. Le accuse che questa donna muove sono pesantissime: molestie sessuali. "Si tratta di violenze anche morali, psicologiche - spiega - episodi recenti, mica riferiti a vent’anni fa, come è successo per certi attori di Hollywood". I racconti che la dirigente fa al Corriere della Sera sono drammatici. "Ero entrata nel suo ufficio per parlare di calcio, di lavoro - racconta - lui mi ha fatto entrare, mi ha fatta sedere alla sua scrivania, nella sede della Figc, a Roma. Non ho fatto nemmeno in tempo a dire 'Presidente, come sta?' che lui, guardandomi dritta negli occhi, mi ha risposto: 'Ti trovo in forma, si vede che scopi tanto'. E poi: 'Fammi toccare le tette, vieni, dai'. Ero in imbarazzo". Ha provato a dirgli di smettere. "Lui per tutta risposta ha chiuso le tende dello studio, per non correre il rischio di essere visto - continua nel racconto - l'ho respinto, sono riuscita a divincolarmi". Ma questo è solo un episodio. Uno di una lunga serie. "Ho audio e video", assicura. Ieri ha dato mandato al proprio avvocato di presentare una denuncia in procura. "Nelle registrazioni - spiega il legale Michele Cianci - ci sono palpeggiamenti, tentativi di bacio, sempre elegantemente respinti dalla mia assistita". Dopo alcune ore arriva la secca smentita di Tavecchio: "In relazione a quanto riportato da alcuni articoli di stampa, rivendico la mia correttezza e a tutela della mia immagine e della mia onorabilità ho dato mandato ai miei legali di agire in tutte le sedi competenti".

Bennet fa il suo show ma Asia ha già vinto… L’avvocato Gordon Stratto ha distrutto ogni credibilità del ragazzo, almeno per il pubblico italiano, con la frase: «L’importante è che si trovi un accordo e che Argento paghi il mio cliente», scrive Giulia Merlo il 25 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Fare processi sui media è un’arma a doppio taglio e Jimmy Bennett ho ha scoperto nel modo peggiore. Riassunto: Jimmy Bennett è un ex attore bambino di 22 anni e, lo scorso agosto, ha accusato la paladina del # metoo e sua ex mentore cinematografica Asia Argento di averlo violentato in una stanza d’albergo a Los Angeles, quando lui era minorenne. La storia, resa pubblica dallo stesso New York Times che aveva dato voce alle prime donne abusate dal produttore Harvey Weistiein, ha fatto cadere Argento dal suo piedistallo di accusatrice, trasformandola in accusata. Successivamente, è stato reso pubblico che il compagno di Asia, lo chef Anthony Burdain (morto suicida in giugno) stava pagando il silenzio di Bennett. All’inizio la posizione dell’attrice italiana è stata confusa (anche in seguito alla pubblicazione di sms compromettenti che sembravano avvalorare la tesi di Bennett), ora invece Argento smentisce categoricamente la ricostruzione di Bennett, ha sospeso ogni pagamento e reso pubblico il fatto che il ragazzo sia sul lastrico e abbia fatto causa ai genitori che hanno sperperato i suoi soldi. Domenica sera, in diretta sulla tv italiana e in esclusiva mondiale, Bennett ha deciso di raccontare «la sua verità», come ha spiegato Massimo Giletti che lo ha intervistato per il suo programma Non è l’arena, su La7. Peccato che ad andare in scena sia stata una catastrofe comunicativa. E a distruggere la credibilità del racconto di Bennett è stato il suo avvocato, presente in studio e seduto accanto a lui, quando ha detto che «l’importante è che si trovi un accordo e che Asia paghi al mio cliente 3 milioni e 200 mila euro». In sintesi, l’intervista è stata la dimostrazione di cosa non fare nella gestione di un caso che ha già raggiunto le proporzioni mediatiche di uno scandalo di media grandezza su scala globale. Jimmy Bennett si è presentato a raccontare la sua storia in una trasmissione di cui non parla la lingua: il risultato è stato una traduzione simultanea smangiucchiata, poco chiara e per nulla empatica. L’avvocato seduto a suo fianco, al quale Jimmy guardava spaesato ogni volta che non capiva le domande allusive di Giletti, ha fatto il resto. La diretta, poi, ha dato il colpo di grazia: ogni esitazione, ogni incomprensione sulla domanda posta, ogni grattata di capelli bianco- rosati, è stata inclementemente data in pasto agli spettatori. La frase dell’avvocato sul risarcimento ha chiuso – almeno per il pubblico italiano (che su Twitter ha commentato passo per passo l’intervista) – ogni ragionevole dubbio sull’attendibilità del racconto. Se l’avvocato Gordon Sattro avesse detto la stessa fase in una televisione americana, infatti, l’effetto sarebbe stato opposto. In America, il principio del risarcimento del danno attraverso un accordo economico tra le parti, anche in caso di alcuni tipi di reati, è parte integrante del sistema giuridico. Ristorare la vittima è, per il sistema di common law, una sorta di ammissione di colpa che soddisfa chi il torto l’ha subito e fa salvo dal processo chi l’ha commesso. Per questo, la frase di Sattro serviva a spiegare che Bennett, in caso di risarcimento, si sarebbe dichiarato soddisfatto davanti agli inquirenti che attualmente indagano sul caso. In Italia, invece, la stessa frase – per di più pronunciata da un avvocato e dopo il resoconto a dir poco farraginoso (più per colpa della traduzione simultanea che di Bennett) – è suonata come una sorta di minaccia d’estorsione ai danni di Argento. Non a caso, al termine dell’intervista, lo stesso Giletti si è lasciato sfuggire il commento su come «voler dire la propria verità è un conto, ma poi chiedere tre milioni di euro…». La vera domanda, l’unica che andava fatta a Bennett, è per quale ragione abbia scelto il suicidio mediatico in una televisione per lui straniera, di cui nè lui nè il suo avvocato hanno dimostrato di conoscere lingua, linguaggio e regole. Alla fine, anche il ragazzo si è reso conto dell’errore e si è lamentato ormai tardivamente del tono dell’intervista, del fatto che lo studio fosse tappezzato di gigantografie sorridenti di Asia Argento e del fatto che «io pensavo di venire qui a raccontare la mia storia, non voglio accusare nessuno. Invece sta succedendo altro». Quell’altro, sono state le domande incalzanti di Giletti che gli ha chiesto «tecnicamente» come è possibile che un uomo venga violentato da una donna, inarcando le sopracciglia quando Bennett ha spiegato che si sentiva in sudditanza psicologica nei confronti di Argento perchè, poco prima di fargli le avances, aveva vagheggiato della possibilità di scritturarlo per un film in Italia. Anche in questo caso, purtroppo, Bennett ha scelto il paese sbagliato dove sostenere che un uomo possa essere violentato: ieri, la stampa americana si è molto indignata dell’applauso fragoroso del pubblico alla chiosa di Giletti, che ha spiegato come personalmente ritenga molto improbabile che sia possibile per un uomo avere un rapporto sessuale completo non consenziente. La frittata mediatica, però, era già stata servita. Risultato: il ragazzo, almeno per il pubblico italiano, è passato da vittima a millantatore di rapporti sessuali, pronto a estorcere ad Argento più di tre milioni di dollari, calcolati sulla base del suo reddito non realizzato in seguito al trauma causato dalla violenza ( il solito avvocato Sattro ha spiegato limpidamente che la richiesta di risarcimento era stata calcolata sui guadagni di Bennett prima dell’incontro intimo con Argento, che poi si sono interrotti). Purtroppo, poi, gli scivoloni mediatici non passano mai impuniti. Argento, consigliata da un vecchio volpone dei media come l’avvocato delle star, Mark Heller, racconta «la sua verità» – per dirla con Giletti – alla televisione web americanaDailyMail in una doppia puntata in onda ieri e oggi. Una doppia puntata registrata (dunque depurata di pause e sporcature), senza avvocati presenti, resa in inglese a una emittente americana cui Asia concede anche la prima esclusiva sul suo rapporto con il defunto Burdain, che in America era un volto notissimo. E la sua linea è chiara: confermare che non c’è stato alcun rapporto sessuale con Bennett (che le ha fatto già il favore non richiesto di questo autosabotaggio) e generare empatia con il pubblico, perchè la fase 2 del # metoo prevede di spiegare come «anche chi ha degli scheletri nell’armadio rimane una vittima» ( come ha scritto Heller nel primo comunicato ufficiale sulla vicenda). A prescindere da qualsiasi verità processuale, che stabilirà un giudice in California se mai la vicenda arriverà davanti a una corte, la verità mediatica invece è stata scritta, e non in favore di Bennett.

Vittime Weinstein, Bruzzone: “Accuse ambigue e tardive. Differenti violenza e ricatto sessuale”. Intervista dell’11 ottobre 2017 pubblicata sul sito di Roberta Bruzzone. Si aggiungono nuove presunte vittime all’esercito delle star americane e non, che avrebbero denunciato di aver subito molestie sessuali da parte del produttore statunitense Harvey Weinstein. Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Asia Argento e tante altre riferiscono, a distanza di anni dai fatti, di essere state vittime delle perversioni sessuali dell’uomo, che però tramite i suoi legali ha minacciato querele contro il giornale che ha scatenato lo scandalo, pubblicando i racconti dei presunti abusi. Weinstein ha ammesso di aver abusato di alcune donne chiedendo anche scusa per le sofferenze provocate loro, ma ha definito fasulle molte delle testimonianze pubblicate. Intelligonews ne ha parlato con la criminologo Roberta Bruzzone.

Accuse lanciate a distanza di vent’anni da quando gli abusi sarebbero avvenuti: quanto sono riscontrabili ai fini dell’accertamento della colpevolezza?

“Non credo che molte delle accuse contro Weinstein mosse da attrici famose potranno concretizzarsi in un capo di imputazione perché, pur non conoscendo a fondo la legislazione americana, dubito si possa procedere a così tanti anni dai fatti. Bisognerà poi capire anche l’attendibilità di queste accuse e mi pare che riscontri oggettivi, in molti casi, non ci siano. Lo scenario è molto ambiguo perché se è vero che siamo in presenza di un uomo di grande potere, è altrettanto vero che ad accusarlo sono donne che hanno poi avuto la possibilità di lavorare con lui. Questo è uno scenario da chiarire e dipanare”.

Molti evidenziano l’oggettiva difficoltà di poter delimitare un confine fra violenza e rapporto consenziente. E’ d’accordo?

“Il fatto che queste persone denuncino le presunte violenze subite a distanza di anni dopo che non lavorano più con lui, rende tutto molto più complesso. L’ estorsione sessuale, ossia l’obbligo di sottostare ad un rapporto che non si vuole per poter lavorare e avere speranze di successo, resta uno scenario agghiacciante, ma è anche vero che molte donne cedono a questo tipo di ricatto per trarre benefici. C’è una netta differenza anche fra violenza sessuale in senso stretto e ricatto sessuale”.

Alcune hanno denunciato di avergli dovuto praticare sesso orale. Ma quanto si può effettivamente subire il sesso orale? Può essere considerato alla stregua di una violenza sessuale?

“Qualunque atto sessuale può configurare una molestia, anche il sesso orale. Quindi se queste persone sono state costrette a subire o a praticare un rapporto contro la loro volontà la molestia sessuale c’è in ogni caso, non si discute. Resta da capire come detto se c’è stata violenza sessuale o ricatto sessuale e si è ceduto su questo; in secondo luogo bisognerà capire se in base alla legge americana questi reati sono ancora perseguibili o caduti in prescrizione. E poi la cosa più importante è capire perché queste affermate attrici non hanno denunciato le molestie all’epoca dei fatti, impedendo magari che anche altre potessero restare vittime di molestie”.

C’è chi fa notare infine come fra le attrici che hanno denunciato le molestie, alcune non erano proprio delle povere ragazze in cerca di fortuna e pronte a tutto per ottenerla, ma avevano alle spalle genitori già affermati nel mondo del cinema e dello spettacolo. Insomma, perché hanno ceduto pur sapendo che i mezzi per raggiungere il successo non le sarebbero mancati?

“Essere figli d’arte non mette al riparo dal subire ricatti sessuali o violenze. Anzi, forse proprio il desiderio di fare carriera senza il supporto dei genitori ma puntando soltanto sulle proprie qualità, potrebbe averle esposte ancora di più a certi rischi. Piuttosto mi chiedo perché avendo tutti i mezzi e le possibilità per non veder pregiudicata la loro carriera artistica, non abbiano denunciato i ricatti sessuali quando era giusto farlo, cioè subito. Per carità, sempre meglio tardi che mai ma oggi le loro accuse rischiano di non avere largo seguito o servire a molto”. Inserito il 11 ottobre 2017 Da Roberta Bruzzone in Collaborazioni, Intelligonews.

«Così Cristiano Ronaldo mi ha violentata»: parla la ragazza che accusa Cr7. La vicenda risale al 2009 e si chiuse con una transazione tra le parti. Oggi la presunta vittima Kathryn Mayorga denuncia l'accordo e racconta nei dettagli quella notte. Tocca al tribunale del Nevada decidere se riaprire il caso, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 28 settembre 2018 su "L'Espresso". È un fantasma del passato. Una storia che insegue Cristiano Ronaldo da quasi dieci anni, da quel 12 giugno del 2009 in cui conobbe Kathryn Mayorga, una ragazza americana che all’epoca aveva 25 anni. I due si incontrarono in un night club di Las Vegas, dove la superstar del pallone, appena ceduto dal Manchester United al Real Madrid, era in vacanza con suo cugino e il cognato. Kathryn Mayonga sostiene di essere stata violentata quella stessa sera da Ronaldo, nella stanza d’albergo del calciatore. Le accuse non sono nuove. Pochi mesi dopo la presunta violenza carnale, le due parti raggiunsero un accordo. Ronaldo ha pagato 375 mila dollari in cambio dell’impegno di Kathryn Mayonga a non divulgare quanto accaduto. Ebbene, nelle settimane scorse, la stessa Mayonga ha deciso di parlare con i reporter di Der Spiegel, che dedica un lungo articolo alla vicenda nel numero in vendita da domani e sul sito internet del magazine tedesco. Leslie Mark Stovall, l’avvocato che difende la giovane americana, sostiene che la precedente intesa sarebbe nulla perché la controparte ha approfitto delle condizioni di particolare fragilità psicologica della sua assistita. Stovall ha quindi fatto ricorso al tribunale del Nevada per ottenere che la transazione del 2009 venga dichiarata invalida. Il racconto dello stupro raccolto dai cronisti di Der Spiegel è crudo e dettagliato. Kathryn Mayonga descrive l’assalto di Ronaldo prima in bagno e poi in camera da letto, dove dice di essere stata trascinata e quindi violentata. Nei mesi scorsi i giornalisti del settimanale tedesco hanno cercato di contattare Ronaldo per avere la sua versione dei fatti. Il calciatore, attraverso i suoi legali, ha però respinto tutte le richieste. La posizione ufficiale del calciatore ora in forze alla Juventus è che la vicenda si è chiusa con l’accordo del 2009. Tra i documenti depositati nella precedente vertenza legale ce n’è però almeno uno che secondo l’avvocato americano potrebbe di molto indebolire la posizione di Ronaldo. In una e-mail inviata al suo legale portoghese, il calciatore dichiara che la ragazza non urlò per chiedere aiuto, ma disse «No» più volte quando venne attaccata sessualmente, quindi avrebbe negato senza ombra di dubbio il suo consenso al rapporto sessuale. Nell’America più che mai in preda all’onda lunga del movimento #metoo, in cui proprio in questi giorni anche un aspirante giudice della Corta Suprema è sotto accusa per stupro, adesso tocca al tribunale del Nevada decidere se riaprire il caso. Intanto, nelle settimane scorse, Kathryn Mayonga è stata più volte sentita dalla polizia.

Cristiano Ronaldo ha pagato 375mila dollari una donna che lo accusava di averla stuprata. Una giovane americana dice di essere stata violentata nel 2009 in un hotel di Las Vegas dal campione del Real Madrid. Il quale, tramite i suoi avvocati, l'ha convinta a tacere in cambio di soldi. Una storia finora segreta. Che adesso, grazie a Football Leaks, può essere raccontata, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 14 aprile 2017 su "L'Espresso". Cristiano Ronaldo ha pagato 375 mila dollari a una donna americana che lo ha accusato di averla stuprata. Nell'accordo tra i due, la donna ha acconsentito a mantenere il silenzio totale sulla vicenda. La violenza sessuale sarebbe avvenuta la mattina del 13 giugno 2009 negli Usa, all'interno della suite di un lussuoso hotel di Las Vegas dove il quattro volte Pallone d'oro era ospite in quei giorni. La notizia emerge da alcuni documenti che la piattaforma di whistleblowers “Football Leaks” ha messo a disposizione di Der Spiegel. Il settimanale tedesco fa parte - insieme a L'Espresso, unico membro italiano - del network giornalistico European Investigative Collaborations (EIC), che nei mesi scorsi ha pubblicato una serie di articoli d'inchiesta sul mondo del calcio. L'identità della donna che ha ricevuto i 375 mila dollari da Ronaldo è nota a Der Spiegel, il quale ha scelto però di non rivelarla pubblicamente. Secondo i documenti in possesso del giornale tedesco, il campione del Real Madrid e la sua accusatrice hanno raggiunto un accordo extragiudiziale - tecnicamente chiamato “Settlement Memorialization” - il 12 gennaio 2010 davanti a un mediatore dello Stato del Nevada. L'accordo porta la firma di Carlos Osório de Castro, l'avvocato portoghese che per molti anni ha rappresentato il capitano della nazionale lusitana. Nel documento Ronaldo è identificato con l'abbreviazione di “Mr. D”, mentre la presunta vittima di stupro con la sigla “Ms. C”. La donna, che aveva circa 25 anni all'epoca dei fatti contestati, davanti all'avvocato del calciatore ha acconsentito a ritirare tutte le accuse di reato nei suoi confronti e a rivelargli i nomi di tutte le persone a cui aveva raccontato l'accaduto. In più, si è impegnata a certificare la «cancellazione e distruzione di tutto il materiale, elettronico o cartaceo, generato o ricevuto in relazione all'evento». Un altro elemento che emerge dall'accordo tra le parti letto da Der Spiegel è una lettera scritta dalla donna e indirizzata alla stella del calcio mondiale. Nella missiva, lunga sei pagine, la donna descrive nel dettaglio la presunta violenza sessuale e le lesioni che dice di aver subito. Lo stesso 13 giugno del 2009 la giovane americana dice di aver sporto denuncia alla polizia. Questo emerge anche dalle registrazioni delle telefonate al Dipartimento della Polizia Metropolitana di Las Vegas. In quella conversazione telefonica, tuttavia, non viene nominato il presunto stupratore: l'accusatrice si riferisce a lui definendolo “una figura pubblica”, “un atleta”. Poco dopo una volante della polizia arriva a casa della giovane. Secondo uno dei poliziotti presenti, la presunta vittima ha espresso la volontà di sottoporsi al “Rape kit”, un esame speciale per le vittime di stupri. Le lesioni riportate sono state registrate e fotografate. Der Spiegel ha chiesto un commento sulla vicenda a Ronaldo. Il bomber portoghese ha dato mandato di rispondere al suo avvocato tedesco, Johannes Kreile, il quale ha fatto sapere: «Le accuse sottintese dalle vostre domande devono essere respinte con la massima forza in quanto sbagliate», spiegando poi che il suo cliente avrebbe «agito contro una ricostruzione falsa dei fatti e ogni violazione dei suoi diritti personali». Il legale ha inoltre intimato a Der Spiegel di «astenersi dal riportare la vicenda complessiva». L'avvocato portoghese Carlos Osório de Castro, che ha firmato l'accordo con la donna per conto di Ronaldo, ha risposto invece alle domande del settimanale tedesco spiegando che la prassi del suo studio è quella di non commentare pubblicamente vicende che riguardano i propri clienti, invitando al contempo a non trarre conclusioni dalla scelta di non voler commentare la vicenda.

Cristiano Ronaldo rompe il silenzio sull’accusa di stupro: “Lei vuole solo farsi pubblicità, diventare famosa grazie a me”. Cr7 ha parlato delle accuse di Kathryn Mayorga subito dopo il match disputato ieri sera contro il Napoli, scrive Giuseppe Candela il 30 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Cristiano Ronaldo rompe il silenzio e risponde alle accuse di stupro di Kathryn Mayorga: “Quello che hanno detto oggi sono falsità. Fake news”, ha commentato nel corso di una diretta Instagram dopo la gara Juventus-Napoli. La ragazza americana era uscita allo scoperto, dopo che il caso era già esploso lo scorso anno, con un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel dove confermava la violenta aggressione avvenuta, stando ai suoi racconti, a Las Vegas a giugno 2009: “Improvvisamente mi è stato addosso. Dopo si mise in ginocchio e disse: al 99 per cento sono un bravo ragazzo, non so cosa succede al restante uno per cento.” “Lei vuole solo farsi pubblicità sfruttando il mio nome, vuole diventare famosa grazie a me. È una normale conseguenza del mio lavoro”, ha aggiunto CR7 rassicurando ulteriormente i tifosi bianconeri: “Sono un uomo felice e va tutto bene”. Il settimanale tedesco aveva parlato di un accordo tra le parti di 375 mila euro per evitare la denuncia e la diffusione della notizia ma l’avvocato della Mayorga ora ha presentato una nuova denuncia in Nevada per contestare quell’accordo perché “la controparte ha approfittato delle condizioni di particolare fragilità psicologica”. L’avvocato del fuoriclasse portoghese, Christian Schertz, attraverso un comunicato aveva attaccato il Der Spiegel per un “reportage palesemente illegale” denunciando “l’inammissibile intrusione nella privacy di Cristiano” con la vicenda che avrà nuovi strascichi ovviamente in tribunale. La ragazza americana che accusa Ronaldo tramite il suo avvocato aveva fatto sapere di aver presentato ai giudici un documento che conterrebbe l’ammissione del calciatore con la donna che avrebbe detto “più volte no e di fermarsi”. Ronaldo si mostra sereno fuori dal campo ma anche sul terreno di gioco, proprio ieri contro il Napoli ha disputato una delle sue migliori partite in Serie A.

Ronaldo accusato di stupro nel 2009: ecco cosa sappiamo. Le tappe della vicenda che coinvolge il fuoriclasse della Juventus. Inchiesta riaperta a Las Vegas, la difesa di CR7 e i documenti pubblicati, scrive su Panorama Giovanni Capuano il 10 ottobre 2018. Cristiano Ronaldo è accusato di stupro da una donna americana, oggi 34enne, che nell'estate del 2009 - secondo la sua accusa - sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza di un hotel di Las Vegas dove il portoghese si trovava in vacanza. La vicenda è emersa per il lavoro del settimanale tedesco Der Spiegel che ha analizzato per un anno alcuni documenti ottenuti attraverso il sito Football Leaks compreso un accordo riservato stipulato nel 2009 con la donna per non rivelare l'accaduto dietro pagamento di 375.000 dollari. Ad accusare Ronaldo è Kathryn Malorga, all'epoca modella di 25 anni che ha accettato di raccontare la vicenda allo Spiegel confermando quando ricostruito dai giornalisti tedeschi sulla base dei documenti. L'attaccante portoghese ha respinto tutte le accuse con un comunicato: "Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese. Aspetterò con serenità l'esito di qualsiasi tipo di indagine perché la mia coscienza è pulita". La polizia di Las Vegas ha confermato di aver riaperto un'indagine per presunto stupro relativo ad accadimenti del 2008, epoca in cui furono condotti degli esami medici su una donna. Nello stato del Nevada, dove si trova Las Vegas, non esiste prescrizione per il reato di stupro.

La ricostruzione (presunta) dei fatti. Secondo quanto raccontato da Kathryn Malorga, che all'epoca lavorava come modella ed era ingaggiata da locali di Las vegas per fingersi cliente e attirare altri clienti all'interno dei locali, lo stupro sarebbe avvenuto il 12 giugno 2009 nella suite del Palms Casino Resort di Las Vegas in cui Ronaldo si trovava in vacanza. Il calciatore, allora in procinto di trasferirsi al Real Madrid e già star del calcio mondiale con la maglia del Manchester United - con la quale aveva già conquistato una Champions League, un Mondiale per club, tre Premier League e il Pallone d'Oro 2008 -, avrebbe conosciuto la ragazza all'interno del Rain, locale per Vip e l'avrebbe poi invitata a proseguire la serata con una festa privata nella sua suite. Qui, sempre secondo l'accusatrice, avrebbe assalito la sua vittima costringendola a un rapporto anale della durata di qualche minuto malgrado la donna gli chiedesse ripetutamente di fermarsi. Kathryn non denunciò subito Ronaldo, ma dopo qualche ora parlò alla polizia dello stupro avvenuto e fu sottoposta in ospedale a un test per verificare il suo racconto. Quel giorno, secondo la ricostruzione dei fatti fornita da Der Spiegel, la donna si limitò a indicare in un "personaggio pubblico" e "atleta" l'autore della violenza. Un video pubblicato dal quotidiano inglese The Sun e che ha fatto il giro del mondo in poche ore ritrae Ronaldo e la ragazza insieme nel locale quella sera. I due ballano, si abbracciano e chiacchierano in mezzo ad altre decine di persone.

L'accordo extra giudiziale. La versione fornita dalla modella è respinta con forza da Ronaldo e dai suoi avvocati. Nel 2017, però, lo Spiegel ha ottenuto attraverso Football Leaks documenti attestanti un accordo privato risalente ai mesi successivi al presunto stupro nel quale Kathryn Mayorga si impegnava a non parlare mai di quanto accaduto ricevendo in cambio un pagamento di 375.000 dollari. La stampa portoghese ha scritto che a fare pressioni su Ronaldo perché giungesse a un accordo sarebbe stato il Real Madrid, nuovo club dell'attaccante, preoccupato che la vicenda potesse screditare la società e mettere in difficoltà CR7 nel suo sbarco a Madrid. Secondo la ricostruzione fatta leggendo le carte, la trattativa per arrivare all'accordo durò mesi e produsse un documento con undici clausole di riservatezza (12 gennaio 2010) nelle quali Kathryn si impegnava a non parlare dell'episodio con nessuno, nemmeno in famiglia o nel corso di un'eventuale terapia psicologica, e a non denunciare penalmente Ronaldo che, da parte sua, aveva fornito i risultati di un test HIV negativo perché il rapporto sarebbe stato non protetto. In caso di rottura dell'accordo, secondo le carte, ci sarebbero state conseguenze finanziarie per la donna che lo aveva sottoscritto. Nel database hackerato di Football Leaks, i giornalisti tedeschi hanno anche rinvenuto un carteggio tra il calciatore e i suoi legali nel quale Ronaldo, rispondendo a precisa domanda, ammetterebbe che la ragazza avrebbe detto "No" diverse volte e di essere stato brusco ("Non gentile") fino a scusarsi alla fine. Una versione mutata nel tempo. CR7, infatti, sostiene in seguito che il rapporto sessuale fu consenziente. Kathryn Malorga ha spiegato di aver deciso di denunciare oggi Ronaldo perché allora temeva il caos che sarebbe seguito a una sua denuncia e perchè sotto choc: un trauma superato solo con l'ausilio di supporti psicologici. Secondo Der Spiegel all'epoca non era in condizioni fisiche e mentali per firmare quell'accordo che ora viene impugnato e che fu sottoscritto su suggerimento di un avvocato non esperto di questioni legate alla violenza sessuale. La donna sarebbe stata convinta a parlare anche dalla minor paura determinata dallo sviluppo del movimento #metoo. Ronaldo si è affidato a David Chesnoff, considerato l'avvocato delle celebrità a Las Vegas, il numero uno in situazioni di questo genere. In passato si sono rivolti a lui anche Paris Hilton, Leonardo Di Caprio, David Copperfield, Mike Tyson, Shaquille O'Neal, Andre Agassi e la famiglia di Michael Jackson.

Il giallo delle prove e l'indagine. Ad aggiungere mistero al mistero, la denuncia fatta sempre a Der Spiegel da parte di Leslie Mark Stovall, avvocato della donna. La testimonianza del 2009 della sua assistita e il materiale portato a prova della violenza (biancheria intima e vestiti indossati quella notte dalla modella) sarebbero stati smarriti dalla polizia di Las Vegas e non sarebbero più a disposizione per una nuova valutazione. La polizia di Las Vegas ha smentito questa circostanza con un intervento del suo portavoce lo scorso 9 ottobre e ha confermato che Ronaldo potrebbe essere sentito "come persona informata dei fatti non essendo al momento indagato". Un atto che potrebbe accadere anche in video conferenza oppure con domande e risposte via mail. Difficile al momento immaginare un viaggio negli Stati Uniti per il confronto. Nelle carte pubblicate dal settimanale tedesco anche l'attività compiuta dai legali di Ronaldo all'epoca dei fatti per schedare tutti i comportamenti di Kathryn Malorga: dal voto per il partito Democratico alle contravvenzioni per divieto di sosta fino al numero di bicchieri di vino bevuti. Un'autentica schedatura commissionata a detective privati.

Ci sono altre donne che denunciano? Il Daily Mail ha raccontato di una seconda donna, dall'identità ancora sconosciuta, che avrebbe contattato l'avvocato Stovall - difensore di Kathryn Mayorga - per raccontare di essere stata vittima di un episodio simile da parte di Cristiano Ronaldo. Il legale ha spiegato di aver girato la segnalazione alla polizia di Las Vegas per gli opportuni approfondimenti. Non è escluso al momento che possa trattarsi della persona che nel 2005 a Londra denunciò il calciatore (all'epoca al Manchester United) in una vicenda che non ebbe alcun seguito dopo che Cristiano si presentò spontaneamente a Scotland Yard per rilasciare alcune dichiarazioni giudicate sufficienti dalla polizia inglese per giustificare l'accaduto. L'inchiesta non proseguì. Il tabloid The Sun ha, invece, fatto il nome di Karima El Marhoug, più nota come Ruby Rubacuori, salita agli onori delle cronache per la vicenda del bunga bunga di Berlusconi. Ronaldo avrebbe pagato 4.000 dollari per fare sesso con lei, all'epoca diciassettenne. Non è chiaro se accusi il giocatore di stupro o la sua vicenda sia stata semplicemente tirata fuori in un momento in cui l'attenzione è molto alta. Coinvolgimento smentito dalla stessa ragazza in un messaggio al suo avvocato e che in ogni caso farebbe riferimento a una vicenda sui cui gli investigatori, già nel 2010, non trovarono alcun riscontro per un racconto pieno di contraddizioni.

Le ricadute commerciali della denuncia. La riapertura dell'indagine da parte della polizia di Las Vegas e l'eco delle notizie in giro per il mondo hanno allarmato alcuni dei marchi multinazionali che hanno legato il proprio brand all'immagine di Cristiano Ronaldo. Lo scorso 4 ottobre due colossi come Nike ed EA Sports si sono detti "profondamente preoccupati" della situazione. Nike, che ha scelto CR7 come testimonial a vita al pari di Michael Jordan e LeBron James, ha inviato ad Associated Press una dichiarazione: "Siamo profondamente preoccupati per le accuse inquietanti e continueremo a monitorare da vicino la situazione". EA Sports, che produce Fifa 19 che ha in copertina proprio Ronaldo, ha espresso una posizione simile. Secondo Associated Press anche Save The Children sta valutando la situazione per verificare l'opportunità di proseguire nel rapporto con il calciatore portoghese perché le accuse, qualora dimostrate, renderebbero incompatibile la sua immagine con la missione dell'associazione. La Juventus si è schierata in difesa del suo campione con un messaggio su Twitter del 4 ottobre. 

Cristiano Ronaldo accusato di stupro da Kathryn Mayorga. L'avvocato: "Documenti manipolati!". Cristiano Ronaldo accusato di stupro da Kathryn Mayorga. Estradizione in Usa per l'attaccante della Juventus? "Non è imputato", rivela la Polizia di Las Vegas, scrive il 10 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario". L'avvocato statunitense Peter S. Christiansen, che difenderà Cristiano Ronaldo dalle accese di violenza sessuale avanzate da Kathryn Mayorga, ha emesso un duro comunicato tramite la società del procuratore di CR7, la Gestifute. Christiansen respinge tutte le accuse e parla di una grave montatura, con inquinamento delle prove, nei confronti del suo assistito. Questol il testo del comunicato: "I documenti riguardanti il presunto stupro di Cristiano Ronaldo? Pure invenzioni. Cristiano Ronaldo respinge con forza tutte le accuse in questa azione civile, in coerenza con ciò che ha fatto negli ultimi 9 anni. I documenti che contengono le presunte dichiarazioni di Ronaldo e che sono stati riprodotti dai media sono pure invenzioni. Nel 2015 dozzine di entità (compresi gli studi legali) in diverse parti d’Europa sono state attaccate e i loro dati elettronici rubati da un criminale informatico. Questo hacker ha provato a vendere tali informazioni, e i mezzi di comunicazione hanno finito per pubblicare in modo irresponsabile alcuni dei documenti rubati, parti significative dei quali sono state alterate e/o completamente inventate. Cristiano Ronaldo non nega che accettò di firmare un accordo, però le ragioni che lo hanno portato a farlo, come minimo, sono state distorte. Questo accordo non rappresenta in nessun modo un'ammissione di colpa. Ancora una volta, a scanso di equivoci, la posizione di Cristiano Ronaldo è sempre stata, e continua ad esserlo, che ciò che è successo nel 2009 a Las Vegas è stato del tutto consensuale. Ronaldo si limitò a seguire il consiglio dei suoi consulenti per porre fine alle accuse nei suoi confronti e per questo ha proceduto alla firma di un accordo che ora l'altra parte, la modella Kathryn Mayorga, non ha rispettato. Cristiano Ronaldo ha chiesto ai suoi avvocati negli Stati Uniti e in Europa che si occupino di tutti gli aspetti legali e confida che la verità prevalga." (agg. di Fabio Belli)

IL REAL SPINSE CR7 A PAGARE KATHRYN? Arrivano interessanti aggiornamenti dal Portogallo sul Sexygate che coinvolge l’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo, accusato di stupro da Kathryn Mayorga e da altre tre donne. Secondo quanto riporta il quotidiano lusitano Correio de Manha, ci sarebbe il Real Madrid dietro il patto di riservatezza stipulato nove anni fa da CR7 e dall’americana, con il portoghese che versò 375 mla dollari nelle casse dell’hostess. Secondo il giornale locale, l’attaccante sarebbe stato contrario a corrispondere i 375 mila dollari, con i Blancos che avrebbero spinto il calciatore a pagare l’indennizzo per il timore che la società venisse screditata. E emergono particolari anche sulla strategia difensiva del fuoriclasse di Funchal: lui e la modella tornarono in discoteca dopo il rapporto sessuale, rimanendovi per molte ore. Viene così smontata l’accusa di violenza sessuale, secondo i legali del centravanti bianconero. (Aggiornamento di Massimo Balsamo)

CRISTIANO RONALDO ACCUSATO DI STUPRO. Cristiano Ronaldo accusato di stupro: "Non è imputato”, questo il commento della polizia di Las Vegas riportato da Tuttosport. L’attaccante della Juventus è al centro della bufera dopo le pesanti accuse della modella americana Kathryn Mayorga, che ha affermato di essere stata violentata nel 2007 a Las Vegas dal portoghese. Nelle ultime ore altre tre donne hanno puntato il dito contro CR7 e emergono indiscrezioni contrastanti: Il Mattino riporta il possibile rischio estradizione negli Usa per l’ex Real Madrid, volato in Portogallo per incontrare i suoi legali. Il quotidiano evidenzia che la modella vorrebbe un milione di euro, con Cristiano Ronaldo che ha deciso di affidare la sua difesa all’avvocato Chesnoff, che difende anche il produttore americano Harvey Weinstein.

"LE PROVE NON SONO SPARITE". Come vi abbiamo raccontato, il portavoce della polizia di Las Vegas Jacinto Rivera ha confermato ai microfoni del Correio de Mana che “le prove non sono scomparse, sono le stesse raccolte nel 2009 e sono ancora in nostro possesso. Smentite le voci circolate nella giornata di ieri, con Cristiano Ronaldo che sarà sentito dalle forze dell’ordine americane: “Non è stata ancora definita la data, quando si verifica un crimine dobbiamo prima ascoltare la versione della storia dell’accusato e successivamente cercare di ricostruire ciò che è realmente accaduto”. Dopo la Juventus, il mister Massimiliano Allegri, il premier del Portogallo e il ct Fernando Santos, anche i tifosi della Vecchia Signora si sono schierati al fianco del numero 7 più famoso al mondo: Ronaldo è sereno ed è convinto della sua innocenza, ma l’inchiesta sul presunto stupro dopo le accuse di Kathryn Mayorga sta avendo pesanti ripercussioni anche dal punto di vista economico…

Cristiano Ronaldo: ''Il Real Madrid lo convinse a pagare la Mayorga''. Importanti indiscrezioni arrivano dal Portogallo, sarebbe stato il Real Madrid, preoccupato di tutelare la propria immagine a caldeggiare l'accordo tra Cristiano Ronaldo e Katryn Mayorga, scrive Antonio Prisco, Mercoledì 10/10/2018, su "Il Giornale". Ci sarebbe il Real Madrid, dietro l'accordo tra Cristiano Ronaldo e Katryn Mayorga e il pagamento dell'indennizzo di 375 mila dollari. Arrivano nuovi particolari di grande interesse sul caso Ronaldo dalle pagine del quotidiano portoghese Correio de Manha. Sarebbe stato infatti il Real Madrid a convincere il calciatore a stipulare l'accordo con l'ex modella americana Katryn Mayorga. Il giornale ricostruisce la strategia degli avvocati del calciatore, che sarebbero appunto intenzionati a chiamare in causa il club madrileno, reo di aver messo pressione al calciatore per trovare un accordo con la donna e pagarle un indennizzo. All'epoca dei fatti la società spagnola aveva effettuato un grande investimento con l'acquisto del campione portoghese ed era fortemente preoccupata di ripercussioni a livello di immagine, che la vita privata di Ronaldo, già sotto i riflettori in quel periodo per la storia con Paris Hilton, avrebbe potuto provocare. Tutto questo aveva portato gli avvocati del club e quelli di Ronaldo a concordare una strategia comune, che portò alla firma dell'accordo nel 2010 con la Mayorga, contro la volontà di Ronaldo che si era sempre professato innocente. Emergono delle divergenze anche tra la tesi difensiva del portoghese e quanto rivelato dai legali della Mayorga. Questi ultimi sostengono che la loro assistita lasciò la suite dell’Hotel Palms Palace dove ebbero luogo i fatti poco dopo il presunto stupro, mentre secondo quelli di Ronaldo, dopo aver consumato il rapporto sessuale lui e la modella tornarono alla discoteca Rain e passarono insieme altre ore della notte. Altra novità importante Cristiano Ronaldo avrebbe scelto di non affidarsi più all'avvocato delle star, David Chesnoff, ma si sarebbe rivolto a Peter Christiansen, un altro penalista di Las Vegas. Il fuoriclasse portoghese intende quindi tutelarsi al massimo in attesa di altre novità su questo caso sempre più intricato e scottante.

Cristiano Ronaldo e le accuse di stupro, il caso esploso per un clamoroso "no" della Juventus? Scrive il 10 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". È la domanda che si pongono tutti da quando Cristiano Ronaldo è stato accusato di stupro: perché Kathryn Mayorga ha aspettato nove anni per denunciare il fatto pubblicamente? A dare una risposta al quesito è il quotidiano portoghese Correio da Manha, ripreso da Dagospia. Secondo quanto scoperto, dietro all'accordo di riservatezza firmato dall'attaccante bianconero e la Mayorga ci sarebbe la società calcistica del Real Madrid. La squadra spagnola, per evitare le ripercussioni negative che avrebbe provocato l'uscita dello scandalo sull'immagine del club, avrebbe deciso di pagare i 375mila dollari per il silenzio della modella. Dopo nove anni, con la cessione del campione dal Real Madrid alla Juventus, sarebbe venuto meno un contraente del patto, il Real, appunto. Così i legali della donna avrebbero bussato alla porta del club di Torino, in cerca di un nuovo accordo e di nuovi soldi. Ma la Juve avrebbe rifiutato di versare altro denaro, così gli avvocati della Mayorga avrebbero rivelato la vicenda. Sempre su Dago si legge che la differenza di vedute sulla questione sarebbe all'origine della fine del rapporto tra Beppe Marotta e il club. 

Cristiano Ronaldo: perché rischia il processo 9 anni dopo i fatti. Dalla raccolta delle prove alla prescrizione, le differenze del procedimento giudiziario tra Stati Uniti e Italia, scrive Giusi Fasano il 10 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Cristiano Ronaldo e il presunto stupro: le differenze giudiziarie fra Italia e Usa.

1 Come avviene la ricerca e la valutazione delle prove? Tecnicamente le prove vengono raccolte allo stesso modo (nel caso di Cr7 dovrebbe essere il vestito di Kathryn Mayorga). Ma c’è una differenza fondamentale. Per loro esiste la teoria dei «frutti dell’albero avvelenato». Significa che se c’è una irregolarità nella ricerca di una prova, a cascata tutte le attività investigative legate a quella prova diventano inutilizzabili, anche se l’irregolarità è di poco rilievo. Esempio: se sequestro 10 chili di cocaina ma nel farlo commetto una irregolarità, negli Usa quella prova — la cocaina — diventa il frutto avvelenato dell’albero e avvelena anche tutti gli altri (testimoni, filmati, intercettazioni...). Da noi invece conta la sostanza, cioè: ai fini del procedimento penale non è buono l’albero (cioè la perquisizione «avvelenata» dall’irregolarità), ma lo è il primo frutto (la droga) e gli altri a seguire (testimonianze, filmati, intercettazioni).

2 A chi tocca il giudizio se si arriva a un processo per stupro? Negli Stati Uniti i verdetti li decidono i giudici popolari, cioè dei semplici cittadini. Il giudice ha il compito di regolare il dibattimento, ma il peso della decisione grava sulla giuria popolare. Da noi il giudizio per una violenza sessuale tocca a un tribunale composto da soli tecnici, cioè dai giudici.

3 Davanti a una incriminazione per stupro scatterebbe l’estradizione? In Italia sono permessi anche i processi in contumacia, negli Stati Uniti si deve garantire la presenza dell’imputato al processo. Tutto ciò che avviene prima di finire davanti alla giuria popolare, viene invece valutato in una udienza filtro (evidence) per la quale potrebbe non essere necessaria la presenza dell’imputato.

4 A quasi dieci anni dai fatti non c’è il rischio della prescrizione? In Nevada, cioè lo Stato del presunto stupro, la possibile azione penale per una violenza può avvenire fino a vent’anni dai fatti. In Italia la violenza sessuale è perseguibile a querela, entro sei mesi dai fatti. Negli Usa, inoltre, le giurie non devono scrivere nessuna motivazione delle loro sentenze e non esistono i nostri tre gradi di giudizio: solo un verdetto e una possibile valutazione della procedura simile alla nostra Cassazione.

5 Se la presunta vittima firma un accordo privato per un risarcimento, poi non può più firmare una querela? In Italia se firmi un accordo privato manifesti quella che il codice definisce «volontà contraria» alla querela. Ma entro sei mesi potresti ripensarci e avviare lo stesso un’azione penale nel corso della quale sarebbe valutato l’accordo già firmato. Nel caso di Ronaldo gli avvocati di Mayorga vorrebbero dimostrare che la ragazza all’epoca fu manipolata e per questo accettò condizioni sfavorevoli. Al di là dell’accordo, il processo penale sarebbe possibile se si riuscisse a dimostrare che si è trattato di stupro. (Ci ha aiutato nelle risposte l’avvocato Davide Steccanella, penalista esperto di diritto internazionale)

Luca Fazzo per il Giornale il 10 ottobre 2018. Prigioniero in patria, senza poter varcare le frontiere né per una partita né per una vacanza: per Cristiano Ronaldo, finito nella bufera per le accuse di stupro lanciate contro di lui per una notte di sesso del 2009, ormai c' è chi evoca questo scenario. Se dalla magistratura del Nevada, che ha riaperto le indagini su quanto accaduto al Palms Resort di Las Vegas tra CR7 e la splendida Kathryn Mayorga, dovesse spiccare un ordine di cattura contro di lui, l'unico posto dove l'asso della Juventus potrebbe sentirsi al sicuro è il Portogallo, che quasi sicuramente rifiuterebbe l'estradizione. Certo, anche altri paesi europei hanno su questi episodi la mano meno pesante della giustizia Usa: basti pensare al regista Roman Polanski, esule in Francia per sfuggire alla condanna per stupro. A evocare lo scenario è il tabloid britannico Mirror, che quantifica in dieci anni di carcere la condanna cui l'asso bianconero potrebbe andare incontro in Nevada. Un buon motivo per ipotizzare che Cristiano Ronaldo, nel caso venisse convocato per un interrogatorio, scelga di farsi sentire per videoconferenza, senza rimettere piede sul suolo americano divenuto improvvisamente scottante. Un portavoce della polizia locale, peraltro, ieri ha smentito che le prove acquisite durante le prime indagini siano sparite. Tra queste, si dice ci siano le mutande di Kathryn, che recherebbero tracce inequivocabili delle lesioni rettali seguite al rapporto. CR7 ormai ammette il rapporto completo con la ragazza, ma nei verbali nega di essere responsabile delle lesioni, che sarebbero state causate successivamente da una terza persona. Nella stanza dell'albergo di Las Vegas si sarebbe insomma consumata una specie di orgia, con la ragazza passata di mano in mano. Consensualmente, dice il calciatore. Contro la mia volontà, dice Kahtlyn. «Un ragazzo normale, tranquillo, semplice, con me è stato un vero gentiluomo», dice intanto Raffaella Fico, ex di Mario Balotelli, che ieri - giusto per dare un'idea del clima pirotecnico che si respira intorno alla vicenda - si auto-indica come fidanzata per undici mesi dell'indagato. E rispunta persino il verbale di Kharima el Mahroug, alias Ruby: una notte di sesso, poi quattromila euro lasciati sul comodino col biglietto: «Spero di non trovarti quando ritorno». C'era folla, sul materasso del campione. L'unica notizia positiva per il neoacquisto bianconero, che oggi sarà regolarmente a Torino per la ripresa degli allenamenti, è che l'impatto dello scandalo sul fronte economico sempre attenuarsi: EA Sports, il colosso dei videogame che aveva frettolosamente rimosso la sua foto dall' homepage ieri è tornato a pubblicarla; e il gruppo alberghiero Pestana, socio in investimenti in tutto il mondo, ha ribadito la sua fiducia in CR7. Ma fino a quando?

"Ronaldo? Accuse inventate. E i documenti sono stati manipolati". L’avvocato del portoghese, Peter Christiansen, contrattacca: “È in atto una campagna diffamatoria, sono state manipolate le prove”, scrive il il 10 ottobre 2018 Gazzetta.it. Caso Ronaldo, parte il contrattacco del portoghese. L’avvocato di CR7, Peter Christiansen, ha emesso un comunicato comparso sulla Gestifute MEDIA (società del procuratore di CR7 Jorge Mendes) con cui risponde con decisione alle accuse di stupro piovute nelle scorse settimane sul neo juventino: "Campagna diffamatoria intenzionale basata su documenti digitali che sono stati rubati e senza dubbio manipolati". L’avvocato si riferisce in particolare alla presunta testimonianza dello stesso Ronaldo che ammetterebbe come Kathryn Mayorga lo avesse più volte invitato a fermarsi durante il rapporto avuto in un hotel di Las Vegas nel 2009: “Dal 2015 ad oggi dozzine di studi legali in varie parti d’Europa sono stati attaccati e i loro documenti elettronici sono stati rubati da un hacker - fa sapere Christiansen nella nota -. Questo hacker ha provato a vendere tali informazioni e c’è chi, in maniera irresponsabile, ha finito col pubblicare alcuni di questi documenti rubati di cui alcune parte significative sono state alterate o completamente inventate. A scanso di equivoci, la posizione di Cristiano Ronaldo continua a essere quella di sempre, quello che è accaduto nel 2009 a Las Vegas era un rapporto consensuale”. Christiansen ha voluto precisare come mai nel 2010 si sia arrivati ad un accordo economico con Kathryn Mayorga: “Lontano da qualsiasi ammissione di colpa o di qualsiasi secondo fine, il signor Ronaldo è stato consigliato di risolvere privatamente le accuse contro di lui al fine di evitare le inevitabili tentativi che sono ora in corso per distruggere una reputazione che è stato costruito su un duro lavoro, atletismo e onore. Quell’accordo, quindi, non è una confessione di colpevolezza ma semplicemente ha seguito il consiglio dei suoi legali per mettere fine alle oltraggiose accuse fatte contro di lui”. Ha poi aggiunto che solitamente i personaggi pubblici vengono presi di mira per poter estorcere denaro, evitando il clamore mediatico: “Ora si ritrova coinvolto nel tipo di contenzioso che è fin troppo comune in America. Mentre Ronaldo è abituato a essere oggetto di attenzione da parte della stampa che va di pari passo con l’essere famoso, è assolutamente deplorevole che qualsiasi media sostenga o faccia avanzare una campagna di diffamazione così elaborata e deliberata basata su documenti digitali rubati e facilmente manipolabili”.

Juventus, avv. Ronaldo rivela: “Rapporto consensuale. Ecco perchè Cristiano ha firmato l’accordo…”. L’avvocato di Cristiano Ronaldo, Peter Christiansen, per la prima volta, si esprime sul caso che ha coinvolto il suo assistito, scrive il 10 ottobre 2018 Mediagol. Peter Christiansen, per la prima volta, si esprime sul caso riguardante Cristiano Ronaldo. Il legale del centravanti portoghese, incaricato di difendere il suo assistito dalle accuse di stupro rivoltegli dall’ex modella americana Kathryn Mayorga, ha spiegato attraverso un comunicato su quali basi si fonda la questione giudiziaria: “Sono stato assunto per rappresentare Cristiano Ronaldo dopo una recente azione civile basata su eventi presumibilmente accaduti nel 2009, e che è culminata con la firma di un accordo, in base al quale le parti hanno rinunciato a qualsiasi altro diritto. In caso di violazione di questo accordo dall’altra parte, come nel caso delle accuse incendiarie che si verificano nei giorni successivi, Cristiano Ronaldo è stato costretto a rompere il silenzio, dal momento che l’accordo autorizza una reazione proporzionale in caso di violazione della controparte”. L’avvocato difensore, inoltre, si è espresso a proposito della pubblicazione su alcuni tabloid di alcuni stralci della documentazione attestante l’accordo tra le due parti, attraverso cui la vicenda è stata insabbiata nove anni fa, e ha ribadito la posizione di Cristiano Ronaldo: “Dal 2015 decine di entità (tra cui studi legali) di diverse parti d’Europa sono state attaccate da un hacker e i loro dati sono stati rubati da un criminale informatico. Costui ha poi cercato di vendere tali informazioni e qualche media irresponsabile ha finito per pubblicare dei documenti rubati di cui parti significative erano state alterate o completamente create. Ancora una volta, a scanso di equivoci, ripeto: la posizione di Cristiano Ronaldo è sempre state e continua ad essere che quello che è successo nel 2009 a Las Vegas è stato totalmente consensuale. Cristiano non nega poi di aver accettato di stipulare un accordo, ma le ragioni che l’hanno spinto a farlo vanno chiarite: quell’accordo non fu un’ammissione di colpevolezza. Accadde semplicemente che Cristiano Ronaldo seguì il consiglio dei suoi avvocati per mettere fine alle accuse oltraggiose contro di lui. L’altra parte, la modella Kathryn Mayorga, però non ha rispettato l’accordo e Cristiano Ronaldo ha chiesto ai suoi avvocati negli Stati Uniti e in Europa di occuparsi di tutti gli aspetti legali e confida che la verità prevarrà”.

Cristiano Ronaldo accusato di stupro, Giampiero Mughini: "Non è violenza", la tesi che scatena l'inferno, scrive il 10 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano Tv". Quello di Cristiano Ronaldo "non è uno stupro ma un rapporto sessuale non consenziente". Ha scatenato l'inferno questo commento di Giampiero Mughini durante la trasmissione Tiki taka, su Italia Uno. Tanto che il giornalista ha scritto al sito Dagospia per spiegare meglio quello che intendeva dire. Intanto i fatti riportati sul Der Spiegel: "Un ragazzo (famosissimo) e una ragazza attraente che un po' si lusingano a vicenda", "lei gli dà il suo numero di telefono. Lui telefona poco dopo a invitarla nella sua stanza d'albergo i due non sono affatto soli". "Non so esattamente se la ragazza accetti di spogliarsi e di entrare in una vasca da idromassaggio, mi pare di sì", racconta Mughini. "Succede, è lo stesso Ronaldo ad ammetterlo, che a lui venga una voglia fuori controllo di un rapporto anale che la ragazza rifiuta. E’ mia profonda opinione che giunti a questo punto il no della ragazza sia sacro". Ma Ronaldo, come ammetterà lui stesso, dice "che s'è trattato di un rapporto brusco, sbrigativo, e di cui lui chiede scusa. E' esattamente uno stupro? Forse sì, ma se questo è uno stupro, allora come definite i casi di ragazze che vengono acciuffate per strada mentre tornano a casa di notte, scaraventate in un portone, trattate con violenza in ogni e minimo gesto di quel rito sessuale, e minacciate e picchiate e lasciate lì come di un oggetto che è servito a quello scopo e a null'altro?". Insomma, conclude Mughini, "c'è stata una colpa maschile. Tanto è vero che quella colpa, riconosciuta da Ronaldo, è stata pagata con un bel mucchietto di dollari".

Da Dagoreport il 10 Ottobre 2018. Perché il sexy scandalo di CR7 è scoppiato dopo ben 9 anni? Secondo quanto rivelato dal quotidiano portoghese ‘’Correio da Manha’’, c’era il Real Madrid dietro il “l’accordo di riservatezza” siglato nel 2009 da Cristiano Ronaldo con Kathryn Mayorga, la modella americana che accusa il portoghese di stupro. Fu la società di Florentino Perez, temendo le ripercussioni negative sull’immagine della squadra e sul suo fuoriclasse, a versare i 375mila dollari previsti dal patto, in barba a CR7 che proclamava la sua innocenza. Nove anni dopo, con la cessione alla Juve è cambiato l’interlocutore: venuto meno “il contraente” Real i legali della donna hanno bussato alla porta del club bianconero. Al rifiuto, si presume, della Juve e del calciatore di versare altri denari, gli avvocati della Mayorga hanno ricicciato la storia della violenza anale (ammessa con tanto di scuse dal giocatore nella transazione). La divergenza sull’ “uso” di Cristiano Ronaldo sarebbe anche all’origine della fine del rapporto tra Marotta e la Juventus. Il piano di Andrea Agnelli di lanciare con CR7 un’operazione di marketing globale sul marchio Juve avrebbe incontrato più di una perplessità da parte dell’Ad bianconero. Secondo Marotta sarebbe stato un investimento troppo oneroso sulle spalle di un 33enne.

Da corrieredellosport.it il 10 Ottobre 2018. Ci sarebbe il Real Madrid dietro il patto di riservatezza siglato nove anni fa da Cristiano Ronaldo con Kathryn Mayorga, la modella americana che lo accusa di stupro. Lo sostiene il quotidiano portoghese Correio da Manha, che riporta un ampio resoconto sull'incontro a Lisbona tra il giocatore e i suoi legali. Per il giornale lusitano l'attaccante - affermando la sua innocenza - sarebbe stato contrario a corrispondere alla modella i 375mila dollari previsti dal patto di riservatezza. Il club spagnolo, sempre secondo il quotidiano, avrebbe invece spinto per pagare l'indennizzo per il timore che la società potesse essere screditata. Correio da Manha ritorna anche sulla presunta violenza sostenendo che dopo il rapporto sessuale, Ronaldo e la modella tornarono in discoteca e vi rimasero ancora per alcune ore. Questi particolari farebbero parte della strategia dei legali per smontare le accuse nei confronti del giocatore.

Da Oggi il 10 Ottobre 2018. Il destino di Cristiano Ronaldo è nelle mani di due donne. Una è, ovviamente, Kathryn Mayorga, l'ex insegnante e modella che lo accusa di averla violentata nel 2009 a Las Vegas. L'altra è il giudice che si pronuncerà sul caso. Lo rivela il settimanale OGGI in edicola da giovedì 11 ottobre. Il giudice si chiama Adriana Escobar, è stata rieletta nel 2015 con il 70 per cento dei voti (negli Stati Uniti quella di giudice è una carica elettiva) e appartiene alla 14esima sezione della Clark County Disctrict Court, a Las Vegas. Per CR7, non è una buona notizia: la statistica e l’esperienza insegnano che, specie in America, quando una donna giudica una causa in cui il convenuto è una celebrità maschile e la (presunta) vittima una ragazza della middle class locale, tende a essere piuttosto severa. OGGI racconta poi tutti i retroscena della vicenda, compreso il coinvolgimento di Ruby Rubacuori.

Da La Zanzara – Radio 24 il 10 Ottobre 2018. “Perché Ronaldo gioca ancora nella Juventus mentre Asia Argento è fuori da X Factor? Brizzi è stato criminalizzato e poi assolto. Sono contro l’ipocrisia”. Lo dice Red Ronnie a La Zanzara su Radio 24. “Ronaldo per me deve continuare a giocare – dice - come Asia Argento avrebbe dovuto continuare a fare X Factor. Asia improvvisamente da salvatrice della patria diventa il mostro. X Factor ha già le puntate registrate e le manda in onda. Quindi quando lei è un mostro, X Factor manda in onda le puntate. Quindi va bene mandare in onda un mostro che hanno già registrato, ma non dopo. Che poi tutti ci rendiamo conto che lei non c’entra niente, oppure se c’entra è stata una roba veramente ridicola”. “Ormai siamo alla follia – dice Red Ronnie – se pensate che il mio amico Simon le Bon è stato accusato da una ragazza adesso che 20 anni fa in un negozio di dischi dove firmava degli autografi le ha toccato il sedere e dopo 20 anni lei ha ancora il trauma. Su Cristiano dico che una ragazza che va in albergo con lui non è che crede di andare a bersi una tisana. Questa è la prima cosa. La seconda cosa è che poi dopo ci ripensa però salta fuori adesso, dieci anni dopo un accordo. Adesso è di moda, tutte vogliono avere un po’ di notorietà”. “I carnivori – dice ancora Red Ronnie - sono più aggressivi dei vegani, non più violenti, è diverso. Potrebbe esistere un vegano stupratore? Ma certo, per esempio c’è un nazivegano che è stato accusato di stalking e di aver picchiato la sua ragazza. Ed era orgoglioso di essere un nazivegano. Ma di solito i vegani sono più tranquilli. Io l’ho visto sulla mia pelle. Smettere di mangiare carne ti fa vedere più lontano. Vedi più chiaro, sei molto più rilassato. Le deviazioni che uno ha sono indipendenti da ciò che uno mangia. I vegani comunque sono meno aggressivi, io sono meno aggressivo. Ero molto più aggressivo quando mangiavo carne”. Sui vaccini questo governo ti ha deluso?: “No, perché un conto sono le intenzioni un conto quando arrivi nella sala dei comandi e ci sono accordi scritti che devi rispettare. Burioni? Lui è diventato una star, io ho dovuto pagare 20mila euro di avvocati, che non ho. Mi dovrebbe ringraziare”. Ma non puoi metterti sullo stesso piano di uno scienziato: “Lui si mise a ridere in faccia a un genitore che era collegato con un figlio autistico, diventato per colpa anche dei vaccini. E mi scese giù la catena. Io mi occupo di vaccini e ne so molto di più di quello che potete immaginare. Sono amico della scienziata cubana Concepcion Campa che ha inventato il vaccino contro la meningite dei bambini”. Poi torna su Ronaldo: “Agli juventini che mi stanno insultando dico che uno scudetto degli anni novanta lo devono a me perché feci un tour con la squadra che creò a formare lo spogliatoio. Lo disse Vialli e Lippi mi voleva sempre alle presentazioni e altre iniziative della società. L’ex della Juve Romi Gay mi voleva sempre e persero una finale di Champions perché non andai. Avevo un lavoro già programmato, fecero di tutto per farmi arrivare alla partita”.

Da corrieredellosport.it il 10 Ottobre 2018. "Sono stata fidanzata 11 mesi con Cristiano Ronaldo, ai tempi giocava con il Manchester United. Sono stati 11 mesi d'amore". Così Raffaella Fico, ex compagna del portoghese che oggi è stata ospite di "Un Giorno da Pecora" Rai Radio1. "Quando succede una cosa del genere (si riferisce al caso dei presunti abusi) la si apprende sempre con stupore - ha detto - Ronaldo è un ragazzo normale, tranquillo, semplice, con me è stato un vero gentiluomo. A casa come si comportava? Si allenava anche a casa, faceva gli addominali. Li faceva dopo cena. Guardava un film, si rilassava e faceva gli addominali, ne avrà fatti 4 o 5 serie da 20".

Da dagospia.com del 22/02/2011.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22/02/2011 Adesso che Sanremo è finito, si scopre che un paio di settimane fa, alla vigilia dei preparativi per il Festival presentato insieme a Belén Rodriguez con Gianni Morandi, la showgirl e attrice Elisabetta Canalis è stata interrogata a Milano come testimone dal pm Ilda Boccassini nell\'ambito dell\'inchiesta sui rapporti tra Silvio Berlusconi e la (allora) 17enne marocchina Karima «Ruby» el Mahroug. La deposizione, che fonti concordi collocano non in tribunale ma in Questura intorno alle 8 di sera, è stata molto breve e ha riguardato il compagno della Canalis, l\'attore americano George Clooney. Come era emerso nell'ottobre scorso, Ruby nei suoi primi interrogatori aveva indicato anche Clooney e Canalis tra i presenti nel 2010 a una delle feste di Arcore. Già all'epoca questa era apparsa una delle tante claudicanti circostanze nelle affermazioni dell\'allora minorenne, posto che Clooney era noto avesse incontrato il premier ma in epoca precedente e per chiedere aiuti per la causa umanitaria del Darfur di cui era testimonial. In effetti, anche nella sua deposizione al pm Boccassini Elisabetta Canalis ha radicalmente escluso di aver mai cenato insieme al compagno in alcuna delle molte case di Berlusconi, e tantomeno ad Arcore nel 2010.

Francesco Perugini per "Libero" il 22/02/2011. Ruby Rubacuori racconta balle: abbiamo le prove. Non lo ha detto finora il lungo lavoro investigativo dei procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Pietro Forno, che insieme con il pm Antonio Sangermano hanno invece basato tutto il procedimento contro Silvio Berlusconi proprio sulle parole della 18enne marocchina. Vogliamo dimostrarvelo noi di "Libero", partendo dalle ultime clamorose rivelazioni pubblicate dai segugi di "Repubblica". Giuseppe D'Avanzo, Pietro Colaprico ed Emilio Randacio sabato scorso hanno svelato il contenuto dei verbali delle dichiarazioni rese da Kharima el Marhoug nelle varie audizioni con i magistrati di Milano. Tra le pagine della storia personale della marocchina, c'era anche il racconto di una fugace relazione con Cristiano Ronaldo. Un amore nato e consumato, nonostante il portoghese fosse a conoscenza della minore età della ragazza. «È un racconto non verificabile», è stato il commento filtrato ieri dal Palazzo di Giustizia milanese, dopo le polemiche da parte di alcuni giornali per la mancata incriminazione del giocatore. Tutto il contrario rispetto alla "prova evidente" dei rapporti sessuali tra Berlusconi e Ruby (sempre negati dalla ragazza), grazie alla quale i pm milanesi hanno ottenuto il rito immediato per le accuse di prostituzione minorile e concussione a carico del premier. Dato che la Procura non si è premurata di verificare il flirt tra Ruby e Ronaldo, vogliamo darvi noi di "Libero" le prove delle bugie della 18enne escort. Partiamo dal primo incontro tra i due spiriti bollenti: «Era il 29 dicembre 2009. Ero all\'Hollywood e sono stata fermata da Ronaldo. Mi ha fatto dei complimenti e ci siamo scambiati il numero di cellulare», racconta la ragazza. Un incontro da favola, così bello che la ragazza ne ricorda la data esatta a mesi di distanza. Quei giorni, però, sono importanti anche per Ronaldo. Arrivato a Madrid per 94 milioni di euro e subito bloccato da un infortunio alla caviglia, CR deve riscattarsi.

Cristiano Ronaldo Da L'Espresso il 22/02/2011.

Il 28 dicembre Ronaldo fa un servizio fotografico per Marca e nel pomeriggio riprende gli allenamenti a Valdebebas dopo le vacanze di Natale. Il 29 mattina l\'attaccante è ancora in campo così come il 30, il giorno successivo al presunto incontro con Ruby. Cristiano appare ubriaco? È stanco per la scappatella notturna in Italia? No, anzi. Si presenta alle 10.30 puntuale e così pieno d\'energia da scavalcare con un balzo da cestista il compagno Marcelo. Niente a che vedere con l'Adriano delle notti milanesi. «Ci siamo rivisti varie volte al ristorante. Circa tre settimane dopo, abbiamo deciso di fare l'amore e ci siamo incontrati in un hotel lussuoso. Al mattino non l'ho ritrovato più. Sul comodino c'era un biglietto e 4.000 euro», ricorda ancora la marocchina. In quel periodo non c'è traccia di Ronaldo a Milano, ma andiamo avanti. «L'ho rivisto due settimane dopo al "The Club". Era in un privè. Ho preso un bicchiere di champagne e gliel'ho tirato in faccia. Poi, gli ho buttato addosso le banconote da 500», rivendica la ragazza. Una scena avvenuta davanti a tutti i clienti della serata, ma rimasta segreta finora. Inverosimile. Tanto più che dal locale milanese - come dall'Hollywood - fanno sapere di non aver mai ospitato Cristiano Ronaldo. Ce n'è abbastanza per smentire il racconto di Ruby, la super testimone del processo contro Berlusconi. E va bene che i magistrati sono occupati nelle indagini su Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora (la chiusura è prevista entro questa settimana), ma almeno i "pm a mezzo stampa" potevano fare una piccola verifica.

Flavio Pompetti per il Messaggero il 10 Ottobre 2018. «Quello che accade a Las Vegas resta a Las Vegas», recita un vecchio adagio coniato per pubblicizzare la mecca degli eccessi. L'inchiesta riaperta dalla polizia cittadina contro Cristiano Ronaldo ha già infranto fragorosamente questa promessa, e la notizia sta rimbalzando sulla stampa di tutto il mondo. Dappertutto, tranne che all'interno dell'ovattato mondo del calcio professionistico. Il semplice odore di questa accusa ha distrutto la carriera di decine di star dello spettacolo, dal potente produttore Harvey Wenstein in poi, di dirigenti dei media e dell'entertainment negli Usa e altrove, ma non sembra riuscire a penetrare la coltre di omertà che si è stretta intorno a CR7 e al regno miliardario di affari che lo circonda. Lo scandalo che lo riguarda è scoppiato lo scorso aprile sulle pagine dello Speigel e da allora sappiamo che, anche se Ronaldo rigetta l'accusa di aver stuprato la giovane Kathryn Mayorga a Las Vegas in una notte di festeggiamenti presso il Palms Hotel, c'è la sua firma su un contratto da 375mila dollari che avrebbe dovuto chiudere la bocca della donna per sempre. Eppure da quella data il giocatore ha concluso un contratto miliardario per passare dal Real Madrid alla Juventus, e il suo nome è stato proposto a più voci per l'ennesimo pallone d'oro che dovrebbe premiare oltre all'atleta, i valori etici ai quali si ispira la Fifa. Se il mondo del calcio tace, la polizia statunitense è però all'opera. Gli inquirenti hanno riaperto il fascicolo depositato otto anni fa dalla donna. Lo hanno fatto su istigazione dei legali della stessa presunta vittima, a dispetto dell'accordo extragiudiziale che lei stessa aveva firmato dietro un pagamento di 375.000 dollari. Questi ultimi hanno promosso un'azione civile nella quale impugnano il contratto per coercizione e frode, abuso di una persona debole, estorsione e cospirazione. La loro tesi è che Mayorga è stata isolata dalla sua famiglia durante il negoziato, e che ha dovuto affrontare un intero team di esperti legali mentre era ancora in condizioni di shock per quanto le era accaduto. La denuncia riguarda l'applicazione o meno delle severe penalità che il contratto prevedeva contro la donna in caso di divulgazione in pubblico. La seconda denuncia, quella penale, è la più pesante. Si basa sulla denuncia che Katrhyn Mayorga aveva fatto il giorno dopo il presunto accaduto, accompagnata da un test medico che documenta la sodomia violenta subita. Se il fascicolo finirà in tribunale e Ronaldo sarà ritenuto colpevole, rischia una condanna che può estendersi fino all'ergastolo, con la scarcerazione prevista non prima di 15 anni di detenzione. Il clima generale, non c'è bisogno di ricordarlo, non è favorevole a chi ha commesso il reato, e la notorietà dell'accusato giocherebbe sicuramente a suo sfavore. Ma anche prima che abbiano inizio gli eventuali processi, resta l'alto rischio di un danno economico per il giocatore e per la sua squadra, come si è visto dal trattamento che la Borsa ha riservato al titolo della Juventus negli ultimi giorni. Intanto a Las Vegas Leslie Stoval, l'avvocato che ha avviato un'azione civile contro CR7, ha affermato: «Altre tre donne, oltre a Kathryn Mayorga, accusano Ronaldo». E secondo il Sun spunta perfino Karima El Mahroug, cioè Ruby: Ronaldo avrebbe pagato 4mila euro per stare con lei quando aveva 17 anni. Ma non è chiaro se anche Ruby sia tra le donne di cui parla Stoval. «Siamo profondamente preoccupati» ha detto la Nike, che è legata a Ronaldo da un contratto da un miliardo di dollari. L'azienda dell'Oregon in passato ha tagliato i contatti con atleti del calibro del pugile Manny Paquiao e del ciclista Lance Armstrong in seguito agli scandali (violenza sessuale e droga rispettivamente) che li avevano coinvolti. Il secondo partner commerciale di Ronaldo, la EA Sports, ha scritto: «Monitoriamo la situazione, e ci aspettiamo che gli atleti a noi legati si comportino in conformità con i valori della nostra società».

Da gazzetta.it il 10 Ottobre 2018. Nelle indiscrezioni pubblicate dalla stampa inglese sulle presunte nuove accuse a Cristiano Ronaldo è finito anche il nome di Karima El Mahrough, la "Ruby" che entrò nell'inchiesta che coinvolse l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (totalmente assolto dall'accusa di avere avuto rapporti sessuali con la ragazza quando non era ancora maggiorenne). Oggi il Corriere della Sera riporta la testimonianza fornita dalla stessa ragazza, allora diciassettenne, il 22 luglio del 2010 davanti al procuratore aggiunto di Milano, Pietro Forno, e a un'ispettrice di polizia. Quel giorno, Ruby mescola fatti veri e riscontrati dagli investigatori ad altri di cui non è stata trovata prova e che gli inquirenti hanno ritenuto pure invenzioni. Racconti giudicati non attendibili come l'incontro con Cristiano Ronaldo in una discoteca di Milano, l'Hollywood. "Non mi sono mai prostituita né ho mai accettato rapporti sessuali a pagamento; ho avuto rapporti sessuali con ragazzi che mi piacevano. L’unica volta che sono stata pagata per un rapporto sessuale è nella circostanza in cui ho avuto un rapporto con il calciatore Cristiano Ronaldo che ho conosciuto il 29 gennaio del 2009", dice Karima secondo la ricostruzione del Corriere. In un racconto che va avanti tra varie contraddizioni, Ruby sostiene di essere andata nel locale per conoscere il calciatore, di essere stata agganciata da lui, ma di non avergli rivelato la sua età (17 anni). Dopo essersi scambiati i numeri di telefono, i due si sarebbero rivisti a distanza di qualche giorno per una cena. Poi sarebbero finiti nella camera del portoghese in un famoso hotel della città. Il mattino seguente, racconta la ragazza, il giocatore sarebbe andato via senza svegliarla lasciandole quattromila euro in contanti un biglietto sul comodino in cui scriveva: "Spero di non trovarti quando torno". Ruby sostiene di avere incontrato di nuovo Ronaldo in un'altra discoteca, di avergli rovesciato un bicchiere di champagne in testa, poi lanciato in faccia le banconote da 500 euro. Ronaldo infine si sarebbe scusato. Nessuna delle circostanze descritte dalla ragazza ha trovato riscontri, per questo gli investigatori hanno ritenuto il racconto pura fantasia. Convinzioni rafforzate da un'intercettazione nella quale lei stessa sostiene di essersi inventata tutto. La vicenda poi è stata smentita dalla stessa Karima in tribunale a Milano nel 2013, sentita in aula come testimone in un altro processo. "Sono sconvolta. Ancora una volta vedo il mio nome strumentalizzato per altri fini". Sono le parole scritte da Karima in un sms inviato questa mattina al suo legale Paola Boccardi. Ruby smentisce quanto riportato sul suo conto dai media nell'ambito delle accuse mosse dagli Usa al campione della Juventus e si riferisce all'articolo del tabloid inglese The Sun nel quale viene fatto anche il nome della El Mahrough, che in dichiarazioni di anni fa ai pm italiani aveva detto di aver conosciuto e aver avuto rapporti a pagamento col giocatore portoghese. Una vicenda poi smentita dalla stessa Karima. Per l'avvocato, "si tratta di fake news. Certamente Karima negli ultimi anni non ha fatto alcuna dichiarazione che riguarda Ronaldo. L'unica cosa che vien da pensare leggendo le notizie dei media è che facciano riferimento alle dichiarazioni da lei fatte da diciassettenne in merito alle quali ha già reso smentita nel corso della sua testimonianza dibattimentale tre anni fa".

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2018. Kathryn Mayorga, ma (forse) non solo. «Sono stato contattato da una donna che sostiene di aver ricevuto lo stesso trattamento da Cristiano Ronaldo» dice nei microfoni dei media americani Leslie Stoval e il vocione dell'avvocato della donna che sostiene di essere stata stuprata da CR7 nella suite 57306 del Palms Place Hotel di Las Vegas la notte del 13 giugno 2009 rimbomba in tutto il mondo. «Ma non è tutto - aggiunge -. Voglio parlare con le ex fidanzate del calciatore, le ragazze che lo conoscono intimamente: sarebbero preziose per capire la sua condotta. Andrò in Inghilterra, se serve». La lista di compagne note non è breve. Kim Kardashian, Paris Hilton, Gemma Atkinson, Irina Shayk per rimanere alle più celebri. Ma al di là di un proposito che potrebbe restare una boutade, l'uscita di Stoval dà un'idea della potenziale portata di un'altra ondata #metoo, se le accuse fossero confermate. Sarebbe la prima nel calcio. La seconda donna, per ora, non ha nome né cognome: le sue generalità sono state comunicate da Stoval alla polizia di Las Vegas, che ha riaperto un cold case del 2009 che si pensava seppellito per sempre dall' accordo extragiudiziale da 375 mila dollari tra Ronaldo e la Mayorga, riemerso nelle pieghe del Football Leaks e pubblicato ieri dallo Spiegel mentre il bomber più famoso del mondo incassava l' appoggio di Antonio Costa, primo ministro del Portogallo: «Non è sufficiente essere accusati per diventare colpevoli. Se c' è qualcosa di cui abbiamo prova, è che Ronaldo è un grande professionista». Della scrittura privata siglata il 12 gennaio 2010 dall' avvocato Osorio de Castro in nome di Ronaldo (il team di legali gli aveva dato il nome in codice «Topher» perché non apparisse), colpisce la brevità: due paginette per transare una vicenda delicata e complessa, della quale le parti, Cristiano (Mr. D) e la Mayorga (Ms. P) , forniscono una ricostruzione dei fatti diametralmente opposta. 11 punti, per non parlarne mai più. La donna infatti si impegna a far cadere qualsiasi azione penale e civile nei confronti del portoghese, promettendo di mantenere il silenzio e di farlo mantenere a tutti coloro che fossero a conoscenza dei fatti (ad esempio i genitori, le prime persone a cui la Mayorga si rivolse nella notte del presunto stupro), fornendone alla controparte una lista. CR7 in cambio produce il suo test negativo dell'Hiv: il «brusco e sbrigativo» rapporto al Palms Place Hotel non era stato protetto. L' accordo all' epoca venne giudicato favorevolissimo dai legali del giocatore, che nel 2010 era già una stella planetaria del calcio mondiale, attaccante con la camiseta blanca numero 9 del Real Madrid e con la maglia rossa numero 7 del Portogallo. «Dato il tipo di accusa della querelante - scrive l' avvocato Stoval nella denuncia civile presentata il 24 settembre scorso al tribunale distrettuale di Clark County, Nevada, l' atto che ha riaperto un caso già chiuso -, Topher (Cristiano Ronaldo, ndr) ha ottenuto un accordo incredibilmente favorevole: rischiava il processo e la prigione, con il catastrofico effetto collaterale di non poter più entrare negli Stati Uniti e il devastante impatto sulla sua reputazione, vita privata, immagine pubblica, contratti e opportunità professionali». In questi giorni incandescenti di scandalo, Cristiano Ronaldo, che non è stato convocato dal c.t. del Portogallo Santos per le partite della Nations League, è in vacanza: tre giorni di riposo, concessi a lui e a tutta la Juventus dall' allenatore Allegri per la sosta del campionato. Salterà anche Italia-Portogallo, il 17 novembre a San Siro. Nessuna dietrologia. Era stato già deciso.

Da sport.tiscali.it l'8 Ottobre 2018. Non si placa la bufera mediatica su Cristiano Ronaldo. Il gol splendido contro l'Udinese nell'anticipo di sabato non ha fatto calare l'attenzione dei sulle accuse di presunta violenza sessuale subita da Kathryn Mayorga nel 2009. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, l'avvocato della donna sarebbe stato contattato da un'altra donna che sostiene di essere stata vittima di CR7. Stovall avrebbe girato queste informazioni alla polizia di Las Vegas che ha riaperto il caso dopo la denuncia civile presentata il 27 settembre 2018 Mayorga.

Nuove accuse contro CR7, ma ci sono dei dubbi. Ma chi è la nuova accusatrice di Cristiano Ronaldo? Si tratta di una ragazza inglese che avrebbe avuto un rapporto sessuale non consensuale nell'ottobre del 2005. Il fantasista portoghese allora giocava nel Manchester United. Ma ci sono dubbi sulla ricostruzione della seconda presunta vittima. Secondo quanto riporta The Sun, un tassista scagionerebbe il fantasista della Juve. E' l'uomo che riportò a casa la ragazza dopo la serata che lei aveva trascorso in compagnia di Cristiano Ronaldo in un hotel a Marylebone, nel centro di Londra. "Era felicissima dopo aver lasciato la stanza d’albergo. Disse che Ronaldo era stato fantastico ed era così eccitata che mi rivelò di voler chiamare suo figlio proprio Ronaldo", ha riferito il tassista. "Quando qualche giorno dopo ho sentito che la ragazza voleva denunciarlo sono rimasto scioccato - ha aggiunto l'autista -. La ragazza continuava a ripetere che Ronaldo era ‘fantastico e in forma'".

Sparite alcune prove. Ma l'avvocato di Mayorga ha fatto anche altre rivelazioni. Le prove sul presunto stupro sarebbero andate perse. Secondo quanto dichiarato a Der Spiegel da Leslie Mark Stovall, la polizia non avrebbe più il vestito e la biancheria intima che la donna indossava la sera del presunto stupro.

Un team per "controllare" Mayorga. Sempre Der Spiegel rivela anche che Mayorga fu controllata dagli uomini di CR7. Dopo le accuse della ragazza, l'avvocato Carlos Osorio de Castro mise insieme un team per evitare danni all'immagine del campione portoghese. Un gruppo formato da un detective privato, due avvocati portoghesi, due studi legali (lo Schilling di Londra e il Lavely & Singer in California), il noto avvocato di Las Vegas, Richard Wright, e un medico legale. Questo gruppo avrebbe dovuto raccogliere informazioni su Mayorga.

La difesa del primo ministro del Portogallo. Intanto, in difesa dell'idolo nazionale, è sceso in campo il primo ministro del Portogallo, Antonio Costa. Le accuse contro CR7 al momento sono prive di riscontri sufficienti, è il pensiero di Costa. In un'intervista televisiva rilasciata dall'isola di Lanzarote, il primo ministro ha rivendicato "la presunzione d'innocenza", per l'attaccante della Juve. "Non è sufficiente essere accusati per diventare colpevoli", afferma Costa aggiungendo che "se c'è qualcosa di cui abbiamo la prova è che (Ronaldo) è uno straordinario professionista, uno straordinario calciatore e qualcuno che ha dato prestigio al Portogallo". "Di certo - conclude il premier - tutti ci auguriamo che nulla possa macchiare questo curriculum". Un curriculum che invece l'avvocato della presunta vittima considera già macchiato: evocando dagli Usa - come scrive ancora il Sun - anche l'esistenza di una possibile seconda accusatrice per ora anonima disposta, pare, a venire alla luce.

Marco Letizia per corriere.it l'8 Ottobre 2018. Cristiano Ronaldo sarà processato? Dopo la riapertura delle indagini da parte della polizia di Las Vegas sul presunto stupro commesso dal fuoriclasse portoghese la notte del 13 giugno del 2009 in una stanza del Palms Hotel ai danni dell’allora 25enne Kathryn Mayorga, c’è una possibilità che si arrivi ad un dibattimento. Una possibilità data dal fatto che il recente inasprimento della normativa relativa allo stupro (la pena prevista attualmente oscilla dalla condanna all’ergastolo con la possibilità di liberazione sulla parola dopo 15 anni alla condanna all’ergastolo senza condizionale) ha portato la prescrizione da 4 a 20 anni. Per questa ragione è stato possibile riaprire le indagini. «Ci vorrà del tempo prima di concludere le indagini, poi trasmetteremo il fascicolo al procuratore e toccherà a lui stabilire se ci sono prove sufficienti per un’incriminazione ad andare a processo» spiega un portavoce della polizia di Las Vegas alla Gazzetta dello Sport. Secondo quanto rivela il quotidiano sportivo ci potrebbero volere mesi prima della chiusura delle indagini. Sicuramente Cristiano Ronaldo sarà sentito, ma probabilmente per videoconferenza o con risposte via mail alle domande. Intanto la Gazzetta rivela che allegato all’accordo siglato tra Cr7 e la Mayorga, pubblicato dallo Spiegel e poi anche dal Corriere della Sera, ci sarebbe stata anche una lettera di 6 pagine che la ragazza avrebbe scritto a Ronaldo nel 2010 in cui si dichiarava pentita di aver preso i famosi 375.000 dollari in cambio della promessa del silenzio sul fatto. «Mi piacerebbe raccontare al mondo chi sei davvero» avrebbe detto la Mayorga. Una domanda che a questo punto si fanno in molti.

Chirico: "Sexygate di Ronaldo? Parliamo di cose serie...", scrive Marcello Chirico, per Calciomercato.com su ilbianconero.com il 09/10/18. "A proposito di sexygate, Ronaldo turbato e Juventus preoccupata. Ottava vittoria consecutiva della squadra di Allegri, e primato in classifica confermato a +6. Score personale del portoghese a Udine: ha tirato complessivamente 7 volte, 3 nello specchio, in una di queste ha fatto pure gol (e un superlativo Scuffet gli ha miracolosamente negato la doppietta); ha giocato 55 palloni e nell'87% dei casi ha azzeccato il passaggio (ne ha persi solo 11). Niente male per uno sceso in campo tormentato dalle notizie provenienti dagli States, e rilanciate alla grande dai media italiani, non vi pare? Notizie che, altrettanto, avrebbero dovuto disturbare la settimana bianconera, incidendo sulla prestazione della squadra, invece... Alla Dacia Arena è andato tutto al contrario di come in tanti si sarebbero immaginato (e avrebbero sperato). Parliamoci chiaro, su certi temi non si scherza: gli stupri, così come ogni altro tipo di violenza sessuale commesso sulle donne, sono atti abominevoli. Purché siano episodi seri, non storielle buone solo per giornaletti scandalistici. Gli stupri veri sono quelli patiti in Iraq da Nadia Murad, o quelli subiti dalle donne congolesi curate poi dal dottor Mukuwege. Roba seria, infatti entrambi sono stati insigniti del premio Nobel. Quello raccontato dalla modella americana Kathryn Mayorga, è altra cosa, anche se adesso in Italia molti finti bacchettoni e pasionarie dell'ultim'ora si sono già schierati dalla sua parte, "indipendentemente dalla squadra che si tifa". Si, venitecelo a raccontare. L'episodio - una sodomizzazione imposta con la forza, nella versione della Mayorga - risale al 2009.Circola in rete pure un video di quella notte brava trascorsa da Ronaldo in un locale di Las Vegas e, dalle immagini, la signorina in questione non sembrerebbe proprio disdegnare la compagnia del macho portoghese. Ciò che accadde dopo, nella suite di un Hotel, lo sanno però solo i 2 interessati. Per evitare un casino mediatico, Ronaldo preferi' chiudere la questione accordandosi con la Mayorga, firmandole un assegno di 370 mila dollari. Una donna che subisce una violenza sessuale pretende giustizia, vuole vedere il suo violentatore in galera, non chiede dei soldi. La Mayorga ha dichiarato recentemente di essersi pentita per aver incassato quella paccata di soldi...9 anni dopo...mah! Di questa avventura piccante non ne parlò nessuno fino ad aprile dello scorso anno, quando Der Spiegel - venuto in possesso, grazie a Wikileaks, delle carte riguardanti questo caso - lo risparò fuori, ma con scarso successo. In America scoppia poi il caso del giudice Kavanaugh, accusato di aver stuprato in adolescenza una ragazzina di 15 anni, che oggi ne ha 50 ed ha deposto contro di lui. Da lì è partito il movimento femminile #metoo in appoggio a Christine Ford, e i legali della Mayorga - a mio parere - hanno sfruttato la scia per risollevare il polverone e, magari, tirare su un altro po' di dollari. Der Spiegel gli sta facendo da grancassa, sostenendo che le prove sul caso sono sparite. Per la Polizia di Las Vegas, invece, le prove non ci sono e basta. Domanda: perchè la Ford se n'è uscita fuori dopo quasi 40 anni con sta storia di stupro? Perchè la Mayorga ha ritirato fuori la vicenda della sodomizzazione dopo 9 anni? Risposta: per danneggiare l'avversario. Politico o sportivo che sia. Nel primo caso, cercare di stoppare la nomina del repubblicano Kavanaugh alla presidenza della Corte Suprema, con l'appoggio del partito democratico. Nel secondo caso, rovinare l'immagine di Ronaldo e fargli perdere contratti pubblicitari. Discorso che coinvolge anche la Juventus, la quale ha acquistato CR7 non solo per rinforzare la squadra ma anche sfruttarlo col marketing ed aumentare il fatturato. Cosa che, magari, a qualcuno in Europa potrebbe dare fastidio. In Italia non ne parliamo nemmeno. Quando è riscoppiato il caso, la EASport (l'azienda che produce il videogioco Fifa) ha tolto dal proprio sito l'immagine di Ronaldo. Due giorni dopo l'ha rimessa, ma pochi lo sanno. Le borse europee da giorni chiudono tutte in negativo, compresa Piazza Affari a Milano. Perdono i titoli di Stato, perdono i titoli bancari, perde ovviamente pure quello della Juventus, eppure ci continuano a dire per colpa del sexygate di Ronaldo. Parliamo di cose serie, dai". 

Der Spiegel, nuove accuse a Ronaldo: "Caso Mayorga, ecco tutte le prove", scrive il 30 novembre 2018 Calcio Mercato. Il Der Spiegel, che di recente aveva accusato Cristiano Ronaldo nella vicenda del presunto stupro alla modella Kathryn Mayorga, pubblica oggi una nuova documentazione sulla vicenda, che risale all'anno 2009 a Las Vegas. Di seguito riportiamo una sintesi delle nuove accuse della testata tedesca, così come tradotta da ilbianconero.com. "DER SPIEGEL è in possesso di questo documento e di centinaia di documenti aggiuntivi, la maggior parte dei quali proviene dalle informazioni sulla Football Leaks. Questi dimostrano come una squadra di avvocati è riuscita a mettere a tacere Kathryn Mayorga nove anni fa. Alla fine di settembre, l'ex modella di Las Vegas ha reso pubbliche le proprie accuse. Nelle conversazioni con DER SPIEGEL, ha riferito la sua versione di ciò che è accaduto nel 2009 e di quanto gravemente l'incidente l'abbia traumatizzata. Ha detto di non essere mai stata in grado di andare oltre l'evento e trovare la pace. Inoltre, Mayorga ha intentato un'azione civile contro l'attaccante della Juventus. Il suo nuovo avvocato crede che l'accordo di non divulgazione da lei firmato tanti anni fa non sia giuridicamente vincolante e afferma che Mayorga non era stata legalmente competente al momento in cui è stato firmato. Il team legale di Ronaldo ha costantemente cercato di impedire qualsiasi copertura mediatica relativa al caso. Più di recente, uno dei suoi avvocati dei media ha chiesto un'ingiunzione preliminare contro DER SPIEGEL - ma senza successo. Ora sono emersi nuovi dettagli. Mostrano quale degli avvocati di Ronaldo in quel momento ha creato o rivisto quale documento, quando sono state apportate tali modifiche e a chi è stato inviato il documento. Questi documenti potrebbero essere decisivi per l'indagine della polizia in corso perché indicano come Ronaldo apparentemente visto quella notte a Las Vegas. Il documento chiave sembra essere un questionario di 27 pagine che è stato sviluppato dagli avvocati di Ronaldo per avere un'idea di ciò che è avvenuto nelle prime ore del mattino del 13 giugno 2009, nell'Hotel Palms Place di Las Vegas. Circa un mese dopo quella notte, l'avvocato londinese di Ronaldo Simon Smith ricevette un messaggio che una donna negli Stati Uniti aveva accusato Ronaldo di stupro. Quasi immediatamente, un team legale altamente professionale è stato riunito attorno alla superstar, che si era appena trasferito dal Manchester United al Real Madrid per una somma record di 94 milioni di euro. [...] Oltre a Smith a Londra, il team legale comprendeva anche lo studio legale Lavely & Singer a Los Angeles, l'avvocato difensore Richard Wright a Las Vegas e l'avvocato Carlos Osório de Castro a Porto. Quest'ultimo è uno dei consulenti più vicini a Ronaldo ed è incaricato di negoziare i contratti del giocatore. Il 3 agosto 2009, l'avvocato della California Jay Lavely ha preparato un PDF di 41 pagine con il titolo: "Domande per il cliente". [...] Alle 10:21 del giorno successivo, il 4 agosto 2009, Osório de Castro scrisse a un confidente di Ronaldo: "Quando arriva il CR negli Stati Uniti? Com'è organizzato per domani? Ho bisogno di 2 (!) ore con lui a fornire risposte alle dozzine di domande degli avvocati americani sulla giovane donna. Ulteriori messaggi chiariscono che il cognato di Ronaldo e suo cugino, entrambi con Ronaldo a Las Vegas, dovevano essere interrogati da un collega dello studio legale di Osório de Castro. [...] Lo scambio è solo una delle molte indicazioni che il questionario allegato non può essere stato un documento falsificato. Cortez ha citato formulazioni che fanno parte delle risposte di Ronaldo. Tradotto liberamente, "bola de cuspo" significa saliva, mentre "toca-me ao bicho" significa: "Ha toccato il mio uccello". Trascorsero tre mesi, durante i quali gli avvocati di Ronaldo cercarono di raggiungere un accordo extragiudiziale con Kathryn Mayorga. Il tempo era essenziale, perché solo poche ore dopo l'incidente, la giovane donna era andata alla polizia e le sue ferite erano state documentate, ma non era ancora uscita con il nome del presunto colpevole.  Aveva paura di farlo, dice lei. Alle 1:55 pm il 24 dicembre 2009, Osório de Castro ha inviato un documento con il titolo "TQuestionsv2 ITA.doc". I destinatari erano Jay Lavely, una collega di Lavely e i due avvocati Rendeiro e Cortez. A prima vista, l'allegato sembra essere il questionario di settembre. Ronaldo è identificato come "X", mentre Mayorga viene indicato come "Ms. C." Anche le domande sono le stesse. Ma le risposte di Ronaldo non sono nemmeno vicine allo stesso, come dimostra un confronto diretto tra le due versioni. Domanda: "Che cosa è stato detto da te e cosa è stato detto dalla signora C? (Questo è particolarmente importante se si dice qualcosa sul sesso o qualcosa del genere)" Nella versione di settembre, X dice: "Ha detto che non era corretto fare sesso, dal momento che si sono appena incontrati ('Meglio no, è la prima volta.') Ma anche così, ha afferrato il mio uccello". Nella versione di dicembre, tuttavia, la risposta di X era semplicemente: "M'ha afferrato il mio pene". Domanda: "Descrivi in ​​dettaglio cosa è successo a partire dal primo contatto fisico che hai avuto con la signora C nell'altra stanza e descrivi la sequenza di eventi riguardo a qualsiasi contatto fisico e coinvolgendo qualsiasi abbraccio, carezza, bacio o andare da una posizione posizionarsi su un letto, o sul pavimento o ovunque si sia verificato". Nella versione di settembre, X risponde: "L'ho scopata da un lato, lei si è resa disponibile, era sdraiata su un fianco, a letto, e io l'ho presa da dietro, è stata dura, non abbiamo cambiato posizione per 7 minuti. Ha detto che non voleva, ma si è resa disponibile. Tutto il tempo è stato duro, l'ho girata su un fianco, ed è stato veloce. Forse ha avuto dei lividi quando l'ho afferrata. ...) Non voleva "darmelo", mi ha buttato fuori. Non so più esattamente cosa ha detto. Ma lei continuava a dire di no. 'Non farlo' - 'Io non sono come gli altri'. Mi sono scusato in seguito". Una parte del seguente passaggio è scritta in terza persona, che è forse una compito dell'avvocato di Ronaldo, che ha scritto le risposte per lui: "Non hanno usato il preservativo, non hanno parlato di preservativi, non è venuto dentro di lei, ha tirato fuori il suo cazzo prima, sono venuto su lei e sulla coperta, non c'era lubrificante, ho usato la saliva. Non sa se ha avuto un orgasmo. "Nella versione di dicembre, X dice: "Era sdraiata sul letto, io sono andato da dietro, non abbiamo cambiato posizione, sono stati 5/7 minuti, è stato duro, non si lamentava, non gridava, non ha chiesto aiuto o qualcosa del genere. Non abbiamo usato i preservativi. Non sono venuto dentro. Vengo "su di lei" (non "in lei") e nelle coperte. Non c'era lubrificazione artificiale, ho usato della saliva, non so se ha avuto o meno un orgasmo ". Domanda: "La signora C ha mai alzato la voce, goduto o urlato?" Settembre: "Ha detto di no e si ferma diverse volte." Dicembre: "No." [...] Domanda: "La signora C ha detto qualcosa dopo aver avuto rapporti sessuali?" Settembre: "Dopo, lei disse: 'Stronzo, mi hai costretto, idiota, non sono come gli altri'. Ho detto, 'Mi dispiace.' " Dicembre: "No." Secondo la precedente bozza del questionario, Ronaldo conferma gli elementi chiave della versione degli eventi di Mayorga: "Ha detto di no diverse volte. E si è scusato dopo". Ci sono, tuttavia, anche discrepanze tra questa versione e la storia di Mayorga, come ad esempio sulla domanda se lei lo ha fatto con la sua mano. Lui dice di sì. Lei dice di no. Parla anche di preliminari in bagno. Perché Ronaldo avrebbe ammesso ai suoi avvocati che Kathryn Mayorga aveva detto "no" e "fermarsi" più volte? Una possibile spiegazione: per essere in grado di sviluppare la migliore strategia di difesa possibile per un cliente, un avvocato deve avere la visione più chiara possibile di ciò che è accaduto. [...] In risposta a una richiesta di commento inviata da DER SPIEGEL alla ricerca di una spiegazione delle differenze significative tra i due documenti, gli avvocati portoghesi di Ronaldo hanno anche risposto sostenendo che "parti significative" erano "alterate e / o completamente inventate". Sembra che gli avvocati portoghesi non abbiano inoltrato la versione di settembre del questionario ai loro colleghi negli Stati Uniti, il che non significa necessariamente che il team legale degli Stati Uniti non fosse a conoscenza di cosa ci fosse dentro. C'erano, dopo tutto, frequenti teleconferenze e incontri faccia a faccia. In una e-mail successiva a Osório de Castro, Lavely si riferì a una discussione che aveva avuto con l'avvocato difensore di Las Vegas, Richard Wright. Secondo quell'e-mail, Wright aveva detto "che potrebbe essere fino a 50/50 possibilità" se Ronaldo fosse perseguito. E: "Sembrava certamente che Rick fosse preoccupato anche in base a ciò che il cliente stesso aveva descritto riguardo a ciò che accadeva tra lui e la signora P in camera da letto." [...] Il team legale di Ronaldo ha avuto infine un successo. Dopo difficili negoziati, hanno raggiunto un accordo con Kathryn Mayorga con un accordo extragiudiziale nel gennaio 2010. ShHa ricevuto $ 375.000 per tacere e ha smesso di collaborare con la polizia. L'inchiesta è stata chiusa. Ma poi è successo qualcosa di inaspettato: quasi nove anni dopo, Ronaldo ei suoi avvocati si sono nuovamente confrontati con il caso. E non solo per l'azione civile intentata da Mayorga, che può essere esaminata presso il Tribunale di Clark nel Nevada. Da allora è stata più volte intervistata dalla polizia, che ha riaperto le indagini. Il caso non rientra nella prescrizione. Gli abiti di Mayorga, in deposito dal 2009, sono stati esaminati da allora. La polizia ha anche intervistato testimoni. I pubblici ministeri possono prendere una decisione su come procedere nelle prossime settimane. E Ronaldo? All'inizio, non sembrava essere terribilmente infastidito da tutta la faccenda. Il 28 settembre ha pubblicato un video live su Instagram che lo mostrava sdraiato in una maglietta bianca: "Fake, false news", dice nel video. "Sono un uomo felice e tutto bene." I commenti da allora, tuttavia, sono sembrati un po' più riflessivi. In un'intervista alla rivista francese France Football, Ronaldo ha dichiarato: "Naturalmente questa storia ha un effetto sulla mia vita: ho un compagno, quattro figli, una madre anziana, sorelle, un fratello, una famiglia che sono molto vicino Per non parlare della mia reputazione, che è esemplare: per i miei compagni di squadra, la mia famiglia, i fan che mi sostengono, questa storia non è irrilevante ". Gli avvocati di Ronaldo hanno ripetutamente minacciato azioni legali contro DER SPIEGEL. Eppure, prima di ogni storia, DER SPIEGEL ha dato a Cristiano Ronaldo ampia opportunità di commentare, chiarire le cose, smentire le accuse o esporle come false. Ronaldo non ha mai approfittato di questa opportunità. Invece, DER SPIEGEL ha ricevuto solo messaggi dal suo team legale. Come quello dell'avvocato di Berlino Christian Schertz, che vorrebbe anche vietare a DER SPIEGEL di citare dalle sue e-mail.

Ronaldo, un impero da 100 milioni di euro: ecco i suoi sponsor. Il fuoriclasse portoghese è una multinazionale dell'immagine. Contratti a vita e partnership in tutto il mondo: è il terzo atleta per guadagni, scrive Giovanni Capuano il 5 ottobre 2018 su "Panorama". Cristiano Ronaldo è terzo nella classifica degli atleti più pagati al mondo stilata da Forbes nel giugno 2018. Davanti a lui solo il pugile statunitense Floyd Mayweather e Leo Messi, l'altro gigante del calcio attuale. Una stagione di CR7, secondo le stime, vale oltre 91 milioni di euro di cui una buona metà derivante non dal suo ingaggio (monstre) con il club d'appartenenza ma dai proventi che ricava da accordi commerciali e partnership legati alla sua immagine. Quando scende in campo, insomma, gioca una multinazionale della comunicazione e dell'entertaiment prima ancora che un meraviglioso calciatore, capace di conquistare per cinque volte il Pallone d'Oro e di alzare altrettante volte al cielo la Champions League. Ronaldo è molto più di uno degli attaccanti più forti e prolifici di sempre: è il testimonial perfetto per brand internazionali che sfruttano il suo indice di penetrazione nella massa e l'alto gradimento trasversale che tocca punte altissime anche tra chi non è appassionato di calcio. Per dare un parametro, basti pensare che nel 2014 Repucom ha indicato il suo Celebrity DBI (misurazione di come vengono percepiti i personaggi famosi in giro per il mondo) assegnandogli un 83,9% come indice di conoscenza presso la popolazione mondiale. Lo conoscono tutti e tutti gli riconoscono il ruolo di trend-setter, ovvero di personaggio in grado di dettare comportamenti, abitudini e acquisti presso mercati da miliardi di potenziali consumatori.

Il legame a vita con Nike. La sua immagine è talmente dominante che Nike ha scelto di legarsi a vita al marchio CR7 garantendo al portoghese un vitalizio da 24 milioni di euro all'anno. Un trattamento fin qui riservato solo a due monumenti del basket Nba come Michael Jordan e LeBron James con il primo che ancora oggi, a quindici anni dall'ultima partita, continua a rappresentare una delle colonne del business della multinazionale dell'abbigliamento sportivo. Nike ha compiuto il suo passo nel 2016, impegnandosi in un'operazione che facilmente potrà superare il miliardo di euro immaginando per Ronaldo una serena vecchiaia anche dopo il ritiro dai campi di gioco. Un miliardo di euro di vitalizio: non essendo folli gli esperti di marketing Nike bisogna immaginare che abbiano valutato come vantaggioso per l'azienda legarsi per sempre a un atleta che per definizione ha una vita agonistica a scadenza.

La galassia di sponsor di Ronaldo. Non c'è solo Nike, ovviamente. Ronaldo presta la sua (costosissima) immagine a una variegata galassia di marchi non necessariamente legati al mondo dello sport. La rivista Forbes indica come principali gli accordi con Herbalife (alimentazione sportiva) ed EA Sports (l'azienda che produce il videogioco Fifa che nell'edizione 2019 ha proprio CR7 come uomo immagine). Il suo sbarco in Italia è coinciso con la collaborazione da brand ambassador con la piattaforma di streaming DAZN che ha acquisito parte dei diritti tv della Serie A e che è attiva in Germania, Austria, Giappone e Canada. Ancor più recente (autunno 2018) l'accordo tra la CR7 Underwear e Yamamay che ha riempito le città di cartelloni del portoghese in... mutande. E poi la lunga serie di marchi che si sono alternati (e si alternano) in questi anni, dalla farmaceutica ai prodotti per la cura del corpo (Shampoo Clear, Soccerade), istituti di credito o servizi finanziari (Banca Espirito Santo e Xtrade), elettronica (Samsuing), trasporti (Emirates), telecomunicazioni (Alice), betting online (PokerStars e Smaash Entertaiment) e così via.

Ronaldo sui social. Tutto si fonda sulla rete che ha reso Ronaldo un personaggio seguito da quasi 340 milioni di persone sulle piattaforme social. Una fan base sterminata, perfettamente suddivisa tra Instagram (142 milioni), Facebook (122 milioni) e Twitter (72 milioni) che gli consente di essere il veicolo perfetto per un prodotto o una campagna. Nei mesi del passaggio dal Real Madrid alla Juventus la società britannica Hopper HQ ha stimato che ogni post pubblicato da CR7 su Instagram gli faccia guadagnare 750mila dollari. Solo Kylie Jenner e Selena Gomez hanno performance superiori. Una montagna di denaro che lo arricchisce e rende felici anche le aziende che investono su di lui. Che i suoi messaggi abbiano risonanza maggiore rispetto a quello degli stessi marchi che pubblicizza è la regola. Anche la Juventus ha imparato ad apprezzarlo in poche settimane.

Quanto guadagna Ronaldo? L’invidia di non essere CR7, critiche assurde sulla vita del portoghese: orologi, auto di lusso, moda, vino e gatto da 3000 euro, scrive Stefano Vitetta il 22.11.18 su calcioweb.eu. Quanto guadagna Ronaldo, nelle ultime ore sono arrivare critiche folli nei confronti del calciatore della Juventus per spese considerate eccessive. Quanto guadagna Ronaldo? L’invidia di non essere Cristiano Ronaldo. Negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la notizia riguardante il calciatore della Juventus che avrebbe speso 31 mila euro di vino a Londra in 15 minuti: 20mila per il Richebourg Grand Cru, il più costoso al mondo, e altri 11mila per il Pomerol Petrus del 1982. Sono arrivate critiche sui social, “spese folli” si legge sul web e “mancanza di rispetto per le persone povere”, commenti inutili da parte di persone invidiose e che avrebbe voluto essere al posto del fuoriclasse portoghese. Cristiano Ronaldo dopo il gol contro il Milan ha voluto festeggiare in grande stile il compleanno della figlia Alana Martina, due giorni a Londra tra lusso e relax, vacanza che solo uno come Cristiano Ronaldo può permettersi.

Quanto guadagna Ronaldo? Il patrimonio del fuoriclasse portoghese. L’ingaggio annuo (con un contratto di 4 anni) per Cr7 alla Juve è di 31 milioni di euro l’anno. Quindi Cristiano Ronaldo guadagnerà:

31.000.000 di euro l’anno

2.583.333 euro al mese

86.111 euro al giorno

3.587 euro l’ora

60 euro al minuto

1 euro al secondo

Più volte soprannominato il Paperone del calcio, Cristiano Ronaldo vanta un patrimonio da capogiro. Cifre mostruose, ma è bene ricordare che la Juventus è un’azienda privata quotata in borsa, e che evidentemente Cristiano Ronaldo vale ancora di più di queste cifre. La Juventus, ha già incassato grazie a Cr7 molti più soldi rispetto a quelli del suo stipendio. E la classifica la potremo fare tra un anno, quando in base a risultati sportivi, merchandising e sponsorizzazioni la Juve potrebbe scoprire di aver incassato il triplo, forse il quadruplo, dei soldi che ha versato al fenomeno portoghese. Un campo in cui è indiscusso testimonial e in cui si cimenta spesso è la moda. Un bel mondo in cui investire secondo il portoghese che ha da tempo creato una linea di intimo a suo nome: ‘CR7 Underwear‘. Più recentemente il ricco calciatore ha anche lanciato una collezione di scarpe disegnate da lui stesso. Il suo stile rispecchia poi il suo amore sconfinato per la moda. I suoi look cool fanno il giro del mondo proprio come la sua nota ossessione per gli orologi di cui ne possiede 50 esemplari. Un lusso sconfinato quello nel quale vive il calciatore, che si nota anche dalle case in cui ha vissuto. L’esempio più lampante è stato la sua grande villa valutata 10 milioni di euro a “La Finca”, ossia l’esclusivo quartiere residenziale progettato da Joaquin Torres, l’architetto delle stars. Un’abitazione a due piani da 5000 metri quadrati con elicottero privato a Terras de Bouro e un appartamento nel pieno centro di Lisbona a Avenida de la Libertad valutato 2 milioni di euro, sono poi le altre proprietà immobiliari possedute dal campione. Più recentemente gli investimenti di Cristiano Ronaldo si sono espansi con l’apertura di una stupenda discoteca nell’Algarve, posto frequentato da famosi dj. Il lato più nascosto e nobile, infine, degli affari di Cristiano Ronaldo riguarda poi la beneficenza.

Cristiano Ronaldo e le polemiche sull’orologio, la giusta osservazione di Maurizio Costanzo. Il fuoriclasse portoghese Cristiano Ronaldo si è presentato in conferenza stampa con un orologio di diamanti dal valore di 2 milioni di euro, l’attaccante è stato al centro di chiacchiere che possiamo considerare da bar. È giusto che CR7 sfoggi così la sua ricchezza? È giusto che un calciatore della sua levatura dia quest’esempio? Certo che sì ed a rispondere a questi quesiti è intervenuto anche Maurizio Costanzo. Il presentatore Mediaset ha replicato alle accuse contro il portoghese della Juventus sul settimanale ‘Nuovo Tv’. “Non si può pretendere che Cristiano Ronaldo si senti in colpa perché è ricco: lui quei soldi se li è guadagnati. Quindi perché non dovrebbe spenderli come meglio crede? – ha dichiarato giustamente Maurizio Costanzo – Se questo giocatore pensa che un orologio ricoperto di diamanti sia un valore, se lo compra e fa bene. Non vedo nessuno scandalo in questo. Anche perché non spetta certo a Ronaldo occuparsi della dignità dei lavoratori o di chi non ha sufficienti capacità economiche”.

Quanto guadagna Ronaldo? Tutte le auto del portoghese. Il portoghese pazzo anche delle auto di lusso ecco la pazzesca collezione. Nel parco auto di Ronaldo troviamo numerose Audi, a partire dall’imponente SUV Q7, passando per le ben più sportive RS7 Sportback e R8 Spider. Cristiano è anche un grande fan delle Ferrari, il suo garage ospita infatti una rara 612 GTO e una F12 tdf, il pallone d’oro possiede anche una Maserati GranCabrio, una Lamborghini Aventador e una Maserati MC12 prodotta solo in 20 esemplari. Tra le auto più costose acquistate dal calciatore troviamo invece una opulenta Rolls-Royce Phantom c/c da 475mila euro, una Bugatti Veyron e una Bugatti Chiron.

Cristiano Ronaldo, tutte le donne del portoghese. Tanti sono i flirt a Ronaldo attribuiti, ma poche sono invece le relazioni ufficiali. Una su tutte quella con Irina Shayk iniziata bene e finita malissimo, tra tradimenti e bugie. Tra le italiane le sue presunte fiamme portano invece il nome di Raffaella Fico e Cristina Buccino. Tante sono anche gli amori stranieri di Cristiano, quasi tutti con modelle ed attrici finite tra le braccia del calciatore. L’unica sportiva rimasta affascinata dal sex appeal del calciatore pare essere stata la tennista Maria Sharapova. Tra le tante donne ai piedi di Ronaldo, si sono diffuse anche tante voci sulla sua presunta omosessualità, che non è mai stata confermata dal calciatore, ma che è stata tante volte insinuata da stampa e gossip. Adesso è fidanzato con Georgina Rodriguez e continuano a circolare voci su un imminente matrimonio.

Cristiano Ronaldo ed il costosissimo anello per Georgina Rodriguez. Si avvicinano sempre di più le nozze per Cristiano Ronaldo e la compagna, la modella spagnola Georgina Rodriguez. Secondo quanto riportato dal quotidiano portoghese “Correio da Manha”, l’attaccante della Juventus ha già programmato il ‘sì’. In questi giorni proprio durante la vacanza a Londra sono stati fotografati due anelli all’anulare dei futuri sposini i quali si sarebbero scambiati la promessa di nozze. Sul suo profilo Instagram la compagna di CR7 ha mostrato con orgoglio in una foto l’anello tempestato di pietre preziose. Un altro regalo costosissimo da parte del fuoriclasse portoghese che non sembra badare a spese.

Cristiano Ronaldo ed il gatto da 3000 euro. Cristiano Ronaldo e Georgina Rodriguez hanno accolto un paio di giorni fa in casa un nuovo componente: CR7 è arrivato infatti uno strano gatto, la compagna di CR7 ha presentato infatti sui social il nuovo gatto adottato dalla famiglia Ronaldo. Il nuovo animale domestico del portoghese ha colpito i follower della compagna del calciatore perchè esteticamente particolare, è infatti un gatto Sphynx, razza caratterizzata per la mancanza di pelo e per il costo esorbitante. Il gatto di CR7 infatti, secondo i meglio informati, potrebbe essere costato al calciatore dai 1.500€ ai 3.000€. Oltre agli immancabili sfarzi della vita del portoghese, anche gli animali domestici dell’attaccante risultano essere di… lusso.

Nella sua carriera ha vestito le maglie di Sporting Lisbona, Manchester United, Real Madrid e Juventus, vincendo una Supercoppa portoghese (2002), tre campionati inglesi (2007, 2008 e 2009), una Coppa d’Inghilterra (2004), due Coppe di Lega inglesi (2006 e 2009), due Supercoppe inglesi (2007 e 2008), due campionati spagnoli (2012 e 2017), due Coppe del Re (2011 e 2014), due Supercoppe spagnole (2012 e 2017), cinque UEFA Champions League (2008, 2014, 2016, 2017 e 2018), due Supercoppe UEFA (2014 e 2017) e quattro Mondiali per club (2008, 2014, 2016 e 2017). Con la nazionale portoghese ha partecipato a quattro Mondiali (2006, 2010, 2014 e 2018), a quattro Europei (2004, 2008, 2012 e 2016) – vincendo quello del 2016, primo titolo ottenuto dal Portogallo – e a una Confederations Cup (2017).  È comparso ininterrottamente nella classifica del Pallone d’oro dal 2004, vincendolo per cinque volte (nel 2008, 2013, 2014, 2016 e 2017), record condiviso con Lionel Messi. È stato insignito anche dei premi FIFA World Player of the Year nel 2008, UEFA Men’s Player of the Year nel 2014, 2016 e 2017 e Best FIFA Men’s Player nel 2016 e 2017.

L’esultanza di Ronaldo è diventata ormai famosissima, classico salto verso il cielo per poi atterrare a gambe divaricate, braccia larghe mentre urla “sìììììììì”, gesto ormai imitato da grandi e piccini anche allo stadio si alza un urlo impressionante che ha sorpreso lo stesso calciatore, un pò come successo dopo la standing ovation dopo la prodezza allo Stadium in rovesciata con la maglia del Real Madrid. Ma non solo, Cr7 esulta anche mostrando gli addominali. “La mia fidanzata (Georgina Rodriguez) – rivelò nel corso della trasmissione di El Chiringuito Tv – mi dice che sono un figo. E allora lo faccio”.

Cristiano Ronaldo, i trionfi in Nazionale. Nel 2016 diventa Campione d’Europa con la maglia del Portogallo, segna una doppietta nella partita contro l’Ungheria (3-3), contribuisce al raggiungimento della finale propiziando il gol decisivo di Ricardo Quaresma agli ottavi contro la Croazia (vinti 0-1 dopo i supplementari), segnando il primo tiro di rigore della serie contro la Polonia ai quarti (dopo che la partita si era conclusa 1-1) e aprendo le marcature nella semifinale contro il Galles (2-0).  Convocato per la Confederations Cup 2017 decide con un gol la seconda sfida, contro la Russia (1-0), e apre le marcature nella terza sfida del girone, contro la Nuova Zelanda. Convocato per il campionato del mondo 2018 in Russia – durante le cui qualificazioni ha messo a segno 15 reti, una in meno del capocannoniere Robert Lewandowski –, realizza una tripletta nella partita d’esordio con la Spagna (3-3), diventando il quarto giocatore a segnare in quattro edizioni diverse della Coppa del Mondo e il più anziano a segnare tre gol in una partita della manifestazione. Il Portogallo si qualifica per gli ottavi di finale, dove viene eliminato dall’Uruguay con il risultato di 2-1. Decide di prendersi una pausa dalla nazionale.

Stupro Ronaldo, l’accusa al calciatore. Nei giorni mesi, hanno suscitato scalpore le accuse di stupro indirizzate a Cristiano Ronaldo dall’americana Kathryn Mayorga, donna conosciuta dal fuoriclasse nel 2009 a Las Vegas. Il calciatore bianconero si è difeso via Twitter in merito alla questione: “Respingo fermamente le accuse che mi sono state mosse. Lo stupro è un crimine abominevole che va contro tutto quello che sono e in cui credo. Voglio che il mio nome sia cancellato da questa storia, mi rifiuto di alimentare ulteriormente questo spettacolo mediatico iniziato da chi vuole farsi pubblicità a mie spese. La mia coscienza è cristallina, aspetterò in totale serenità i risultati delle indagini”.

Altre rivelazioni a France Football. L’età che avanza non spaventa CR7: “Dicono che ho il fisico di un giocatore di 23 anni? Stanno un po’ esagerando. Se mi sento così? Sì, nella testa sì. Ed è la testa che comanda tutto! L’età è nella testa. Quello sono io e posso essere sempre al top, avere lo steso piacere di fare quello che faccio ed essere felice. So che un giorno finirà, tra quattro, cinque, sei anni… Lo stato mentale fa e farà la differenza. Io sono motivato e mi gusto il presente. Io non sono così! Sono solo un atleta diverso, ma un giorno mi fermerò. Mi piacerebbe stare vicino ai miei bambini. Cristiano jr può diventare il nuovo Cristiano? Non voglio anticipare il futuro. Se sento che il mio corpo non risponde più come prima? Da un certo punto di vista, sì. Poi però quando guardiamo le statistiche, mi rendo conto che continuo a giocare in modo incredibile. Le cifre non mentono mai e sono buone. Continuo a divertirmi. Quindi non mi faccio nessuna domanda”. “I rivali? Gli stessi di sempre, anche se non so se Messi sarà sul podio questa volta. Diciamo, quindi, Salah, Modric, Griezmann, Varane, Mbappé, e i francesi in generale perché che sono campioni del mondo. Ma voglio vedere tra 10 anni se tutti questi giocatori saranno ancora al top come me e Messi. Sempre sul podio, per dieci anni… Fine di un regno? Qualcuno vorrebbe fosse la fine di un’epoca, ma non è così. Io sono e sarà sempre lì e me lo merito, parlano per me le mie partite. In campo non penso mai al Pallone d’Oro, solo dopo che vinci la Champions League puoi dire a te stesso che hai possibilità, ma sono cose che avvengono naturalmente. La mia unica ossessione nel calcio è l’autenticità. Penso di meritare il Pallone d’Oro e lavoro duramente per far sì che accada. So cosa sto facendo e lo sapete tutti. Ma so anche cosa fanno gli altri, i meriti che hanno, e ho molto rispetto per loro”.

Cristiano Ronaldo e le sue rivelazioni sulla vita privata: “il caso Mayorga, l’età che avanza e tanto altro, vi dico tutto”, scrive il 30/10/18 Francesco Gregorace su sportfair.it. Cristiano Ronaldo si è aperto in una lunga intervista nella quale ha analizzato il momento della sua carriera e della vita privata col caso di stupro che lo tormenta. Cristiano Ronaldo è stato protagonista di una lunga intervista a France Football, nella quale non ha esitato a rispondere anche a qualche domanda un po’ scomoda come quella sul caso di stupro del quale si sta facendo un gran parlare. Il fenomeno portoghese, in merito alla questione Mayorga, ha rivelato: “Se le accuse per stupro influiranno? Non ho intenzione di schivare la domanda, né di mentire. Questa storia interferisce ovviamente nella mia vita: ho una compagna, quattro bambini, una madre, sorelle, un fratello e una famiglia cui sono molto vicino. Senza parlare poi della mia reputazione, che è quella di qualcuno da cui prendere esempio. Per i miei compagni di squadra, per i miei fan, per la mia famiglia, questa cosa non è irrilevante. Io nella mia testa sono sereno, so che uomo e professionista sono. Immaginate però cosa possa rappresentare sentirsi dire che sei uno stupratore. So chi sono e cosa ho fatto, la verità verrà fuori. E le persone che oggi criticano, espongono la mia vita sotto i riflettori e la rendono un circo, vedremo se quel giorno metteranno il mio nome sulla prima pagina dei loro giornali per dire che sono innocente. La mia famiglia e i miei amici sanno chi sono io, ma è comunque imbarazzante. Ho dato spiegazioni alla mia compagna, mentre mio figlio, Cristiano jr, è troppo piccolo per comprendere. Il colpo maggiore è per mia madre e per le mie sorelle. Sono sbalordite e allo stesso tempo molto arrabbiate, questa è la prima volta che le vedo in questo stato. Sono io che devo calmarle, quando logicamente dovrebbe essere il contrario. Soprattutto mia madre, lei è inconsolabile. Le ho parlato a lungo e le ho detto: “Mamma, lo sai che persona hai in casa? Sai come mi hai cresciuto, l’educazione e l’amore che mi hai dato”. È per lei che subisco peggio l’opinione pubblica. Ci sono persone che mi amano e altre che mi odiano, questo non mi importa, ma quando tutto questo sarà finito voglio vedere cosa diranno queste persone. Accenderò la TV, so di essere uno dei più famosi su questo pianeta, so anche che vendo e tutto ciò che si dice male su di me è più ripreso e messo in luce rispetto al bene. Molte persone, specialmente in TV, me l’hanno spiegato. Allora incasso e resto calmo, ma dentro di me resta tutto”. Tutta l’attenzione che c’è attorno a CR7, potrebbe essere considerata scomoda da una persona qualunque, non da Cristiano: “Se preferirei essere un anonimo Cristiano Aveiro? No, per niente. Non solo l’anonimato non mi manca, ma non sarebbe possibile, quindi non ci penso. E poi non voglio essere una persona normale, sono orgoglioso della mia vita, di quello che sono e di cosa ho fatto. La mia vita non è difficile rispetto a quella di coloro che lavorano come matti e non hanno soldi per pagare le bollette e mantenere bambini che soffrono. Sono sicuramente un uomo privilegiato e felice, ma non voglio essere danneggiato ingiustamente”. L’ossessione per il Pallone d’Oro, a detta di Ronaldo, non c’è affatto: “L’ho detto mille volte, vincere il sesto Pallone d’Oro non è un’ossessione. Non mi faccio la domanda, so già nel profondo del mio cuore, di essere uno dei migliori della storia. Poi cerco che vorrei vincerlo! Sarebbe una bugia dire il contrario. Lavoro per questo, per fare gol e vincere le partite, ma senza ossessioni. Penso di meritare il Pallone d’Oro e lavoro duramente per far sì che accada. So cosa sto facendo e lo sapete tutti. Ma so anche cosa fanno gli altri, i meriti che hanno, e ho molto rispetto per loro. Se non vinco il Pallone d’Oro dormo lo stesso perché so quanto valgo. I rivali? Gli stessi di sempre, anche se non so se Messi sarà sul podio questa volta. Diciamo, quindi, Salah, Modric, Griezmann, Varane, Mbappé, e i francesi in generale perché che sono campioni del mondo. Ma voglio vedere tra 10 anni se tutti questi giocatori saranno ancora al top come me e Messi. Sempre sul podio, per dieci anni… Fine di un regno? Qualcuno vorrebbe fosse la fine di un’epoca, ma non è così. Io sono e sarà sempre lì e me lo merito, parlano per me le mie partite. In campo non penso mai al Pallone d’Oro, solo dopo che vinci la Champions League puoi dire a te stesso che hai possibilità, ma sono cose che avvengono naturalmente. La mia unica ossessione nel calcio è l’autenticità”. L’età che avanza non spaventa CR7: “Dicono che ho il fisico di un giocatore di 23 anni? Stanno un po’ esagerando. Se mi sento così? Sì, nella testa sì. Ed è la testa che comanda tutto! L’età è nella testa. Quello sono io e posso essere sempre al top, avere lo steso piacere di fare quello che faccio ed essere felice. So che un giorno finirà, tra quattro, cinque, sei anni… Lo stato mentale fa e farà la differenza. Io sono motivato e mi gusto il presente. Io non sono così! Sono solo un atleta diverso, ma un giorno mi fermerò. Mi piacerebbe stare vicino ai miei bambini. Cristiano jr può diventare il nuovo Cristiano? Non voglio anticipare il futuro. Se sento che il mio corpo non risponde più come prima? Da un certo punto di vista, sì. Poi però quando guardiamo le statistiche, mi rendo conto che continuo a giocare in modo incredibile. Le cifre non mentono mai e sono buone. Continuo a divertirmi. Quindi non mi faccio nessuna domanda”.

Cristiano Ronaldo sposa Georgina Rodriguez, scrive dr. apocalypse venerdì 16 novembre 2018 su gossipblog.it. Nozze in arrivo per Cristiano Ronaldo e Georgina Rodriguez? Cristiano Ronaldo sarebbe pronto a giurare amore eterno a Georgina Rodriguez. Accusato di stupro dall'ex modella Kathryn Mayorga, l'asso portoghese della Juventus avrebbe chiesto la mano all'amata compagna, come riportato dalla solitamente informata stampa di casa. «Cristiano ha già chiesto a Gio di sposarlo e il matrimonio si farà. Soltanto poche persone conoscono i dettagli». «Tutto quello che si sa al momento è che Gio ha già provato alcuni abiti da sposa». Questo è quel che ha spifferato una fonte al tabloid Correio da Manha, con i due piccioncini scappati dall'Italia causa pausa nazionali per staccare e volare a Londra. Qui, dicono i bene informati, Georgina e Cristiano avrebbero provato anelli Cartier da mille e una notte. Proprio la Rodriguez, su Instagram, ne avrebbe ostentato uno, durante una 'storia'. Insieme da quasi 3 anni, i due hanno avuto una figlia Alana Martina, la 4° di Ronaldo dopo i primi tre avuti tramite gestazione per altri. Da parte della coppia, per ora, non sono arrivate conferme nè smentite.

Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. La fidanzata di Cristiano Ronaldo, scrive sabato 1 dicembre 2018 Antonella Cariello su Termometro Politico. Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. Chi è la danzata di Ronaldo Scopriamo chi è la danzata, madre dei bambini (e forse futura moglie!) dell’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo. Lei è Georgina Rodriguez, modella originaria della città di Jaca, nella comunità di Aragona, ha un prolo Instagram seguito da almeno 7 milioni di follower e si è meritata anche una copertina su Women’s Health di tutto rispetto. Sarà davvero così breve il passo all’altare con Ronaldo? Georgina Rodriguez: quando è nata, peso, altezza e carriera Georgina è nata a gennaio del 1994. Ha 24 anni, 9 in meno del suo ragazzo (e molto probabilmente futuro consorte) Cristiano Ronaldo. È alta 1 metro e 68 e pesa poco meno di 60 chili. Pur essendo un personaggio pubblico, il suo prolo Instagram appare a prima vista tutt’altro che “artefatto” e innaturale ma anzi, scorrere la sua galleria è quasi quella di una ragazza comune, corredata da qualche scatto in collaborazione con brand di cui è testimonial e foto che la immortalano come tifosa allo stadi, sugli spalti. Georgina ha studiato danza in Inghilterra, paese dove ha vissuto n da ragazza, acquisendo grande padronanza della lingua inglese. A Bristol, la città che l’ha ospitata, è stata contemporaneamente cameriera e modella. L’incontro con il capitano della nazionale portoghese è avvenuto grazie al suo lavoro, che le ha assicurato l’invito ad un evento Dolce e Gabbana a Madrid, nel 2018. Dopo il party, i due piccioncini sono stati paparazzati insieme a Disneyland Paris e da lì la relazione è stata resa ormai uciale. A novembre 2017 Georgina Rodriguez e Cristiano Ronaldo sono diventati genitori, lei per la prima volta: è nata infatti la piccola Alana Martina. Ma il calciatore aveva già altri tre gli, nati da una madre surrogata: si tratta di due gemelli, Eva Maria e Mateo, pressappoco coetanei di Alana Martina, nati però nel mese di giugno, e il primogenito che porta il nome del papà, Cristiano Ronaldo Junior, che è nato nel 2010. Georgina è diventata quindi madre a tempo pieno, prendendosi cura di tutti loro.

Georgina e Cristiano Rondaldo: matrimonio in arrivo? Di recente, la coppia è volata a Londra a festeggiare il primo compleanno di Alana Martina. In questa occasione, secondo il quotidiano Correio da Manha, l’ex super campione del Real Madrid avrebbe proposto alla sua lei di sposarlo: riesce confermato dalle foto di Instagram che avrebbe ricevuto in risposta un bel “sì”, come dimostra l’anello che avvolge il dito della modella portoghese. Inoltre, ulteriori conferme delle nozze in programma ci giungono dalla rivista “Gente”, che mostra la coppia paparazzata all’uscita dalla chiesa torinese Gran Madre di Dio il 17 novembre. Sarà questo il santuario designato dalla coppia per la celebrazione?

Ronaldo col baffo rosso per violenza donne scatena ironia social. “Ma siamo su scherzi a parte o è vero”? Scrive sport.virgilio.it il 25-11-2018. C’era da aspettarselo. Nella giornata in cui il calcio è sceso in campo contro la violenza sulle donne era prevedibile che sarebbe stato preso di mira Cristiano Ronaldo. Anche il portoghese aveva un baffo rosso sulla guancia come segno di protesta e per invitare alla solidarietà e alla sensibilità nei confronti delle donne in occasione della gara contro la Spal. Quel segno sulla sua guancia, in verità, ha resistito solo un tempo. Quarantacinque minuti di solidarietà alle donne vittime di violenza, poi il portoghese lo ha lavato via nell’intervallo, magari – come scrive il Giornale - perchè non previsto nella cura maniacale del suo corpo che non prevede tatuaggi. Certo faceva effetto quel baffo rosso sul volto di chi è chiamato in qualche modo a rispondere per una accusa di stupro inoltrata dalla signora Kathryn Mayorga. Lui si è già difeso ritenendo lo stupro un crimine abominevole, ma intanto il retro pensiero insinua il dubbio che la vicenda gli stia facendo perdere premi in serie, l’ultimo secondo indiscrezioni il pallone d’oro dei record. Lui si consola facendo la cosa che gli riesce meglio: segnare.

LE CRITICHE – Ma parecchi utenti hanno stigmatizzato l’episodio sui social. C’è chi scrive: “ammiro il professionista #Ronaldo ma il baffo rosso sullo zigomo con un’accusa di stupro sulle spalle, magari, lo poteva evitare”. O ancora: “Ma sul serio #Ronaldo è andato in campo col segno rosso in volto?”. La mette sul ridere qualcun altro: “Ma #Ronaldo con il segno rosso in faccia che era, una puntata di Scherzi a Parte?” ma c’è anche chi va giù duro nel commentare: “ha un segno rosso sul volto per aderire alla giornata contro la violenza sulle donne. È come vedere Hitler alla marcia della pace… #patetico#ipocrita#JuveSpal”.

 UN SALVACONDOTTO PER BERTOLUCCI.

“Ultimo Tango a Parigi” è il capolavoro sovversivo di Bertolucci (e se pensate al burro, non avete capito nulla), scrive il 27 novembre 2018 L’Inkiesta. La scena della sodomizzazione, per molti motivi, ha occultato la vera carica scandalosa del film di Bertolucci. Che sta in un modo inedito di trattare la sessualità maschile. E nel modo provocatorio di parlare della (sempre sacra) famiglia. Domenica scorsa Cristiano Ronaldo è sceso in campo con uno sbaffo di rossetto rosso sulla guancia, in segno di omaggio alla Giornata contro la violenza sulle donne. Si tratta dello stesso Ronaldo indagato per lo stupro di una ragazza nel 2009. Nella fattispecie, dicono le carte, una penetrazione anale non consensuale, e senza nemmeno un filo di burro, probabilmente introvabile nei frigobar degli alberghi salutisti e vegan-friendly di Las Vegas. Ma a quanto pare quella effrazione sessuale se la sono dimenticata in molti, a cominciare da Ronaldo, che non solo continua a giocare e a segnare, venerato ed esaltato dalla squadra e dai fan, ma si sente autorizzato a solidarizzare pubblicamente con le vittime di stupro, che è un po’ «come vedere Hitler a una marcia per la pace», ha osservato qualcuno su Twitter. Invece una sodomizzazione simulata, quella di Ultimo tango a Parigi - con una Maria Schneider vestita e un Marlon Brando altrettanto vestito – nessuno è riuscito a levarsela dalla testa dopo quasi cinquant’anni, anche se ne ha solo sentito parlare. Tanto che ieri in nessun servizio sulla morte di Bernardo Bertolucci è mancato un riferimento, un box, una rievocazione della famosa scena che ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere sia il burro che Bertolucci. È come se tutta la carriera e la filmografia del maestro di Parma girassero intorno a quell’Ultimo tango, come satelliti in un sistema solare. Difficile stabilire se Mercurio è Il conformista, Marte Strategia del ragno, Saturno l’Ultimo imperatore e Giove Novecento, ma sul Sole non ci sono dubbi: è il film del 1972, la pellicola italiana più vista di tutti i tempi, bruciata e risorta, censurata e dissequestrata, maledetta e venerata, Ultimo tango a Parigi. E il nucleo centrale di questo sole di celluloide, da cui emanano ancora radiazioni termonucleari (e che, più materialmente, assicurò a Bertolucci la credibilità e le risorse finanziarie per i successivi filmoni da Oscar) sono quei pochi minuti a partire da quando Paul dice a Jeanne «portami il burro, voglio farti un discorso sulla famiglia» e lei lo guarda sorpresa. Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Sorpresa genuina, perché nel copione di Maria Schneider c’era l’aggressione sessuale, ma non nessuna traccia del burro. Oggi sappiamo che era una variazione escogitata a colazione da Brando e subito approvata da Bertolucci: un accordo segreto, tutto al maschile, fra il primattore e il regista, all’insaputa della giovanissima attrice, per estorcerle un’espressione realmente scioccata e umiliata. «Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio», ha rivelato qualche anno fa Bertolucci, ammettendo di sentirsi in colpa verso Schneider, morta di tumore a 58 anni. Parole che, un anno prima di #MeToo hanno scatenato l’ira di molte star di Hollywood, da Chris Evans a Jessica Chastain. Qui da noi, tutti zitti. Forse perché crediamo che in fondo l’arte giustifichi certi machiavellici espedienti e crediamo ancora all’aneddoto di De Sica che infila di nascosto i mozziconi di sigaretta in tasca al piccolo Enzo Staiola, il bimbo di Ladri di biciclette, per poi mortificarlo e farlo piangere con sufficiente realismo. Fake news smentita dallo stesso Staiola, oggi 79enne: «A quei tempi tutti andavano per cicche, figuriamoci se mi vergognavo. Ti mettevano delle gocce negli occhi e dopo due minuti piangevi.») È da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto. Ma la potenza termonucleare di quella scena è proprio nella faccia autenticamente umiliata e spaventata di Schneider mentre subisce la violenza di Brando, e intanto è costretta a ripetere una preghiera antifamilista che oggi suona sacrilega come e più di allora: «Santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini, dove i bambini vengono torturati finché non dicono la prima bugia, la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo.» Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Ed è un peccato che la sequenza del burro sia così detonante, perché copre la forza eversiva di altri momenti del film. Paul che chiede a Jeanne di penetrarlo a sua volta con le dita. Paul che le dice con dolcezza «non è la maniglia della porta,» quando lei gli manipola meccanicamente genitali. Paul e l’amante della moglie defunta, che rievocano la morta indossando le sue vestaglie. Ultimo tango, per quanto pensato e girato con metodi prevaricatori e sessisti, annunciava una possibile rivoluzione sessuale al maschile. Il divo più carismatico e macho della sua epoca dava voce e volto a una virilità fragile, sgualcita, traumatizzata, che si interrogava su se stessa, che rideva amaramente dei feticci patriarcali, e si faceva schifo da sé nella propria violenza. Quell’intuizione del giovane Bertolucci sembra caduta nel vuoto: troppo scandalosa e difficile da accettare per i maschi, e non c’è burro che possa renderla meno scomoda e urticante. Eppure è da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto.

È morto Bernardo Bertolucci, l'ultimo grande maestro del Novecento. Il regista aveva 77 anni. Ha attraversato la storia del cinema mondiale con capolavori come "Novecento" e "Ultimo tango". "L'ultimo imperatore" ha vinto nove Oscar, compreso miglior regia e sceneggiatura, scrive Irene Bignardi il 26 novembre 2018 su "La Repubblica". Se non fosse davvero esistito, il personaggio Bernardo Bertolucci – poeta, documentarista, regista, produttore, polemista, autore per eccellenza del cinema italiano, star del cinema internazionale - prima o poi, questo personaggio più grande che natura l’avrebbe inventato qualcuno, per raccontare, in maniera romanzesca ed esemplare, quello che ha attraversato il cinema nella seconda metà del secolo scorso, dallo sperimentalismo al cinema d’autore, dalla cinefilia alla grandeur, dai low budget alle mega produzioni, dal provincialismo alla visione internazionale. Il regista di capolavori come Novecento, Ultimo tango a Parigi, Il té nel deserto, Piccolo Buddha e L'ultimo imperatore, il film da nove Oscar, è morto questa mattina alle 7 nella sua casa di Trastevere, a Roma, circondato dall'affetto della moglie Clare Peploe. Malato da tempo, costretto su una sedia a rotelle, aveva 77 anni. La camera ardente sarà allestita martedì 27 novembre, dalle ore 10 alle 19, in Campidoglio, Sala della Protomoteca. Lo comunica la famiglia, che ringrazia il Comune di Roma per la disponibilità. In data da definire seguirà una cerimonia di commemorazione aperta al pubblico, di cui verrà data comunicazione a breve.

Il figlio del poeta e la natia Parma. Bernardo Bertolucci, in queste avventure e capovolgimenti era sempre lì, da protagonista o da testimone del secolo. Così italiano e così internazionale. Così sofisticato e così nazional-popolare. Così letterario e così visuale. E non si può non restare stupefatti di fronte a una vicenda umana e a una carriera cinematografica che si sono aperte nell'Appennino di Casarola di Parma, la casa di famiglia dei Bertolucci, e hanno percorso le strade del mondo per viaggiare sempre, però, nello Zeitgeist, nello spirito del tempo, quello spirito che Bernardo, con antenne da vero artista, ha saputo identificare, interpretare, raccontare. Della favola, a tratti amara, sempre avventurosa che è stata la vita di Bernardo Bertolucci, ricordiamo l’inizio veramente da favola. Quando il bel ragazzo ventenne, figlio di un grande poeta come Attilio Bertolucci, amico di Pier Paolo Pasolini, amato da Moravia, vicino a Elsa Morante, a Cesare Garboli, a Enzo Siciliano, a Dacia Maraini, vince a vent’anni il Premio Viareggio per la poesia con Il cerca del mistero. Da questo laboratorio culturale – in cui a tempo debito si muoveranno anche la sua bella moglie inglese Clare Peploe e il fratello più giovane di Bernardo, Giuseppe -, dalla tradizione letteraria e musicale della sua natia Parma, discendono, oltre all’amore di Bernardo Bertolucci per i testi letterari, il gusto per il melodramma, l’amore per le scene madri, l’approccio mitico e popolare, la tendenza postmoderna a costruire con materiali preesistenti – quelli che, direbbe Violeta Parra, formano il suo canto. E quindi, su una filmografia di sedici film, a realizzare ben cinque film di origine schiettamente letteraria pur restando un autore straordinariamente visivo.

L'incontro con PPP e la nascita della Nouvelle Vague italiana. È un percorso cinematografico affascinante. Bernardo lavora come assistente di Pasolini, gira documentari, affronta il primo film, La commare secca, su un'idea di PPP e con atmosfere tipicamente pasoliniane. Poi un secondo, Prima della rivoluzione, nel 1964, una riscrittura a chiave di La Certosa di Parma, che diventa il suo manifesto cinematografico, annuncia il suo lato cinefilo ("Non si può vivere senza Rossellini" è la citazione imperdibile) e lo promuove autore e cantore della borghesia di fronte ai cambiamenti drastici che segnano gli anni ’60. E se inizialmente il film viene accolto con freddezza dal pubblico e dalla critica italiana (ma, a Venezia, c’è chi gli consiglia di tornare a fare il poeta), e giusto un po’ meglio dai francesi, in compenso Pauline Kael, la dea della critica americana, assieme a un gruppo di "miracolosamente talentuosi ragazzi francesi" celebra anche Bernardo Bertolucci e il suo film, "stravagantemente bello per i suoi eccessi", dove si racconta la bellezza della vita "prima" della rivoluzione. Alberto Moravia, in una sua accesa recensione, equivocherà e parlerà di "dopo" la rivoluzione, reinterpretando il film secondo l'equivoco. Poco importa. Quello che conta è che dalla cinefilia e dalla poesia è nata una stella, a cui si affiancherà, un anno dopo, a costituire il nucleo della Nouvelle Vague italiana, Marco Bellocchio con l'eversivo I pugni in tasca.

Tra il '68 e Ultimo Tango. Nel fatidico '68 Bertolucci gira un film tipicamente sessantottino, Partner. Poi nel 1970, per la Rai, quello che all’epoca colpì tutti come un piccolo, sofisticato gioiello, Strategia del ragno, ispirato a Borges. Per darci nel 1970, ancora, quello che resta forse il suo film più compiuto, maturo, personale, Il conformista, che trasforma ed è al tempo stesso fedele al testo di Moravia. Un film che se non riuscì all'epoca a farsi amare dal pubblico italiano, di nuovo venne amato dalla Kael, che lo definì "un'esperienza sontuosa, emotivamente piena"- e che a tutt’oggi di Bertolucci resta il film più riuscito, concluso, coerente. Ma il fenomeno internazionale B.B. esplode con Ultimo tango a Parigi, e la complessa vicenda giudiziaria/ censoria che seguì, e che rende difficile giudicare il film fuori dal suo contesto di scandalo. Uno scandalo paragonato dalla solita Kael allo shock culturale prodotto da Le sacre du printemps. E il fatto che Bernardo Bertolucci ogni tanto sia ritornato sulle sue responsabilità (o meglio sarebbe dire sulla sua irresponsabilità) nell’imporre scene e atmosfere brutali a Maria Schneider, non fa che rinnovare negli anni lo shock prodotto a suo tempo e a rendere più difficile un giudizio. Che all’epoca a taluni è sembrato semplice: intense le scene in interni, con un superbo Marlon Brando invecchiato e dolente, imbarazzanti le parti con Schneider e Leaud, appassionante (nonché discutibile) il tema della trasgressione e del sesso come unico valore.

I nove Oscar de "L'ultimo imperatore". La storia delle vicende giudiziarie di Ultimo tango è un romanzo in se stesso, un po' grottesco un po' horror, tra condanne alla perdita dei diritti civili e roghi medievali di pellicola. Ma è la storia che ha creato la fama internazionale di B. B. e che gli consente nel 1976, sempre sensibile agli umori del tempo e ad anni di cultura di sinistra dominante, di girare Novecento, un’epica grandiosa e “hollywoodiana”, piena di grandi nomi del cinema nostro e internazionale, che racconta cinquant’anni di storia padana, a tratti potente e commovente, a tratti retorica e manieristica, sempre audace per le dimensioni e le ambizioni. Dopo la ricezione tiepida, nel 1979, di La luna, che racconta l’ambiguo e difficile rapporto , ai confini dell’incesto , di una madre e di suo figlio adolescente, dopo La tragedia di un uomo ridicolo ( 1981), una storia di avidità provinciale e rapimenti, che conquista a Tognazzi un premio a Cannes ma ha un risposta modesta dalle sale, nel 1987 Bertolucci conquista a sorpresa nove Oscar con un film veramente epocale, un trionfo di diplomazia e creatività, di gusto scenografico italiano e di abilità narrativa, L'ultimo imperatore, un grande successo a livello mondiale che apre le porte del mondo cinese e consacra Bernardo Bertolucci come un grande regista internazionale.

L'ultimo Bertolucci dal Té nel deserto a Io e te. Tornato in Italia dopo un lungo periodo a Londra, sua seconda patria, Bertolucci, con Io ballo da sola, da un racconto di Susan Minot, esalta la bellezza del Chiantishire e il piacere di vivere "dopo" la rivoluzione. Con Il té nel deserto (1990) riscopre l'opera di Paul Bowles e il mondo tragico ed elegante degli “expat”. Quindi si muove, nel 1993, verso il Nepal, per raccontare la storia di Piccolo Buddha e aprire alle culture orientali. Nel 1996, tornato a Roma, dirige tutto in interni la storia di un'ossessione amorosa, L’assedio. Mentre nel 2003 ritorna all’amato, mitico '68 con la storia di tre ragazzi che intrecciano scoperte erotiche, politica e cinefilia in The Dreamers, un film di scoperto voyeurismo e di scoperta nostalgia che per molti versi riconduce alle atmosfere di Ultimo tango. Ma la malattia che da anni lo assedia, sta avendo il sopravvento. Bertolucci non riesce a "montare" il suo Gesualdo da Venosa, un film a cui pensa da tempo. Gli restano le storie intime e private, e gira, praticamente sotto casa, un intenso incontro scontro tra fratello e sorella in Io e te (2012), dal romanzo di Niccolò Ammaniti. È la fine della bella favola. Ma Bernardo Bertolucci, il ragazzo poeta, il regista, la star, il premio Oscar, se ne va lasciando un segno che resta.

Bertolucci, comunista e grande intellettuale che seppe raccontare il Novecento, scrive il 26 novembre 2018 su Rifondazione.it. «Con Bertolucci – ha dichiarato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – l’Italia perde un grande artista e intellettuale internazional-popolare che ha saputo raccontare il fascismo, la Resistenza, il movimento operaio e contadino, il comunismo, il Sessantotto, il desiderio di cambiare il mondo e la vita, la trasgressione dei valori tradizionali, le altre culture, le rivoluzioni, la grande storia e la vita quotidiana. Fu capace di conquistare con le bandiere rosse Hollywood e di ispirare il nuovo cinema cinese. Noi vogliamo ricordarlo come compagno che non rinunciò mai a dirsi comunista nè mai rinnegò il sogno che ha attraversato il Novecento».

Sesso e rivoluzione. In memoria di Bertolucci, scrive il 27-11-2018 La Nuova Bussola Quotidiana. Bernardo Bertolucci rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Ha sempre caratterizzato le sue pellicole con due ingredienti essenziali: sesso e rivoluzione. Dall'elefantiaco Novecento, sino al suo penultimo film The Dreamers è questa la sua firma. Ma il mondo lo ricorda soprattutto per l'erotico Ultimo Tango a Parigi. «Nel ‘64 con Prima della rivoluzione mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo». Così diceva Bernardo Bertolucci in un’intervista al Quotidiano.net del 6 maggio scorso. Come Fabrizio De André nell’album Storia di un impiegato, rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Se De André era anarchico, Bertolucci era comunista, sempre stato. Può essere, questo, il vecchio vizio dei cineasti italiani, che l’attore Gérard Depardieu chiamava «tutti comunisti con le case», intendendo per case le ville sfarzose di quelli che sarebbe più preciso chiamare radical chic. Sesso & rivoluzione, la cifra stilistica di molti suoi film, fino al penultimo, The Dreamers, dove i protagonisti giocano al dottore in una Parigi sconvolta dal maggio sessantottardo. Nell’elefantiaco Novecento si comincia con un vecchio Burt Lancaster che fa il padrone della terra e un altrettanto vecchio Stirling Hayden (i più anziani lo ricorderanno come Johnny Guitar insieme a Joan Crawford) che fa un suo lavorante: il primo offre di brindare alla nascita del suo nipotino e il secondo si rifiuta per odio di classe. La scena successiva vede il padrone fare avances esplicite con una ragazzina figlia di suoi dipendenti. Poiché la piccola lo ridicolizza maliziosamente, ecco che il padrone si impicca: la vita senza sesso non vale la pena di essere vissuta, grettezza padronale. Più avanti, il ricco Robert De Niro (che non a caso diventerà fascista) e il povero Gérard Depardieu sono nudi sul letto della squillo Stefania Casini, un rapporto a tre mostrato tutto esplicitamente. Il chilometrico film è un peana alle prime lotte operaie dell’Italia novecentesca. Su diciassette film al suo attivo, il più notevole era senz’altro L’ultimo imperatore, che infatti fu premiato con ben nove Oscar. Ma il regista è passato alla storia del cinema soprattutto per il famigerato Ultimo tango a Parigi, che gli costò anche una condanna per oltraggio al pudore e che fu per qualche anno sequestrato, cosa che, al solito, indusse quelli a cui era sfuggito a correre nelle sale per vederlo. La scena della sodomia al burro divenne così popolare che, ai ricevimenti di matrimonio, invalse l’uso (di pessimo gusto) di regalare panetti di burro infiocchettati agli sposini. L’attrice, l’allora diciannovenne Maria Schneider, figlia dell’attore francese Daniel Gélin (quello che, vestito da arabo, viene pugnalato a morte all’inizio dell’hitchkockiano L’uomo che sapeva troppo), dichiarò in seguito di essere rimasta segnata negativamente e per sempre da quel film, nel quale appariva senza veli. E’ morta nel 2011 a cinquantotto anni senza aver lavorato a più niente di significativo. Per Marlon Brando, invece, quel film fu un insperato rilancio di carriera, fino a quel momento malinconicamente declinante. Infatti, prima di lui Bertolucci aveva pensato a Jean-Paul Belmondo e Jean-Louis Trintignant. Questi due rifiutarono uno dopo l’altro e il regista ripiegò su Brando. Bertolucci, comunista nel cuore (esordì come aiuto regista di Pasolini), prese la tessera del Pci nel 1969, ma, disse in un’intervista al Giornale.it, «si è andata via via scolorendo… Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui». Infatti vennero i film Un tè nel deserto e Piccolo Buddha. Nel 2007 ricevette il Leone d’Oro alla carriera a Venezia, lo stesso a Cannes, Palma d’Oro. L’anno seguente, una stella a lui intestata venne posta nella Walk of Fame di Hollywood Boulevard a Los Angeles. Una vita ricca di soddisfazioni, la sua. Ma, diciamolo, è triste restare nell’immaginario collettivo per un tango al burro.

Bertolucci, quando il Pci non capì Novecento, scrive Mario Lavia il 26 novembre 2018 su Democratica. I vecchi capi non accettavano la durezza che Bertolucci raccontò a proposito della Resistenza dei contadini. Ai comunisti Novecento non piacque. In particolare, non piacque ai vecchi capi del Pci. Giorgio Amendola, che in quegli anni conduceva una personale ricerca storica che inevitabilmente si intrecciava con la sua biografia, bollò negativamente il capolavoro di Bertolucci in una fortunata trasmissione di allora, Ring. Anche Giancarlo Pajetta, allo stesso modo, rifiutò la lettura bertolucciana di quello che poi si chiamò secolo breve. Il Pci, in quegli anni, era durissimamente impegnato a ricostruire un racconto tutto evolutiva della vicenda italiana, al riparo da orrori e nefandezze o anche solo da spiriti primitivi di vendetta. La lettura della storia italiana era un susseguirsi di avanzamenti e conquiste, tassello decisivo dell’accreditamento del Pci come partito nazionale di governo. L’antifascismo, nel racconto dei comunisti italiani, era non solo una pagina gloriosa, di riscatto morale e avanzamento politico, ma anche una elegia eroica, affratellante e profondamente umana, ai limiti della redenzione cristiana. Non potevano perciò sopportare, i grandi capi antifascisti, che ne venisse fornita una rappresentazione elegiaca sì ma cruda, eroica ma tragica, persino crudele come quella che Bernardo Bertolucci, comunista fuori dagli schemi comunisti, aveva dato con l’epica di Novecento, uscito nelle sale proprio nel 1976, l’anno della legittimazione del Pci come partito di governo. Probabile che Bertolucci vi rimase male. Per lui il Pci era quello che era per milioni di italiani: un padre, o una madre. Una scuola, o una chiesa. Il “grande albero sotto cui ripararsi”, come scrisse il nume di Bernardo, Pier Paolo Pasolini. Amendola, Pajetta… Come dire i maestri di politica. E meno male che Togliatti era morto da anni, lui Novecento lo avrebbe stroncato, un film così fuori dagli schemi propagandistico-zdanoviani cui era legato. Quando mai – avrebbe detto il Migliore – i contadini hanno processato gli agrari, dove mai il popolo fece a pezzi il vecchio fascista (Donald Sutherland), com’è possibile che un ragazzo antifascista (Gerard Depardieu) fosse amico di un rampollo dei ricchi (Robert De Niro)? La Resistenza non era stata questo! E invece Bertolucci, nel quadro magnifico della resistenza morale e della Resistenza politica, queste cose ce l’aveva messe. Aveva ragione, sul piano storico. Soprattutto, su quello letterario e poetico (l’influenza del padre, il grande poeta Attilio): perché l’epos del Novecento non sarebbe stato tale se non fosse stato – anche – un groviglio di passioni e contraddizioni e se il soggetto italiano per antonomasia, i contadini, non fossero stati portatori di una “cultura” ferina e passioni primitive, come ben aveva visto, ancora una volta, Pasolini. Ma c’è da dire infine che il mondo comunista non era solo quello dei vecchi capi. Dietro di loro veniva avanti una nuova generazione che la Resistenza l’aveva sentita raccontare o letta sui libri, giovani che amavano Pasolini, Bertolucci, Godard più che Rossellini e De Sica. Ha raccontato Walter Veltroni: “Ho ancora in mente la proiezione con Amendola e Pajetta. Appena terminata ci fu una discussione molto dura, soprattutto Pajetta espresse un giudizio negativo, le cose che a lui non erano piaciute erano proprio quelle per cui noi avevamo amato il film. E cioè il fatto che mescolasse la dichiarazione di fede politica con l’ispirazione poetica, la struttura del romanzo popolare con l’allegoria, con il melodramma…Pajetta contestava il modo in cui il film raccontava la Liberazione, diceva che i fatti non erano andati esattamente così”.  Forse, nel Pci, Pietro Ingrao, grande cinéphile, era il più sensibile al nuovo racconto cinematografico. Anche su questo terreno ci fu una lotta culturale e politica che si intrecciava con quella più grande della modernizzazione del Pci. Bernardo Bertolucci anche in questo senso rappresentò una svolta innovativa e un nuovo modo di pensare la storia italiana.

Cinema, morto il regista Bernardo Bertolucci. È scomparso oggi Bernardo Bertolucci, regista di Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, scrive Francesco Curridori, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". L’ultimo dei grandi maestri del nostro cinema, Bernardo Bertolucci, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, ci ha lasciati per sempre. Di lui ci resteranno dei capolavori come Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore.

L’infanzia, l’amicizia con Pasolini e l’esordio al cinema. Bernardo, figlio del poeta e critico letterario Attilio Bertolucci, nasce nel 1941 vicino a Parma, a pochi chilometri dalla casa dove abitò Giuseppe Verdi ma, all’età di 12 anni, si trasferisce con la famiglia a Roma. Del padre ricorda che, appena tornato dal vedere un film, chiamava il giornale e dettava allo stenografo la sua recensione per telefono “senza averla scritta prima. Dopo se la faceva rileggere e cambiava al massimo due parole”. A soli 15 anni gira i suoi primi cortometraggi con una 16 mm presa in prestito: La teleferica, storia di tre bambini che si perdono nella foresta, e Morte di un maiale, ambientato all’interno di un mattatoio. A Roma si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne (che lascerà ben presto) e nel 1962 vince il Premio Viareggio Opera Prima per il libro in versi In cerca del mistero ma il primo amore resta il cinema. In questi anni Bertolucci vive in via Carini, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Qui conosce un suo vicino di casa molto importante, Pier Paolo Pasolini, che lo introduce nel mondo della settima arte scegliendolo come assistente alla regia per la sua prima opera, Accattone. L’anno successivo è Bertolucci a dirigere il suo primo film, La commare secca, da un soggetto di Pasolini. Del 1964 è Prima della rivoluzione che anticipa chiaramente il ’68 e dove il protagonista è un giovane borghese iscritto al Partito comunista che si invaghisce di sua zia. Nel 1967 sarà chiamato da Sergio Leone come autore del capolavoro C’era una volta il west, mentre sei anni più tardi girerà Il conformista tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia con protagonista Jean-Louis Trintignant. Bertolucci, con questo film, vince il suo primo David di Donatello e riceve la prima nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

I primi successi, Ultimo tango a Parigi e Novecento. Il primo vero grande successo arriva nel 1972 con Ultimo tango a Parigi per la scena in cui Marlon Brando usa il burro per favorire una penetrazione anale in Maria Schneider. Bertolucci, a tal proposito, dopo la morte dell’attrice, rivelò: “L’idea è venuta a me e a Brando mentre facevamo colazione, seduti sulla moquette. A un certo punto lui ha cominciato a spalmare il burro su una baguette, subito ci siamo dati un’occhiata complice. Abbiamo deciso di non dire niente a Maria per avere una reazione più realistica, non di attrice ma di giovane donna. Lei piange, urla, si sente ferita. E in qualche modo è stata ferita perché non le avevo detto che ci sarebbe stata la scena di sodomia e questa ferita è stata utile al film”. Ma poi aggiunse: “La sua morte è arrivata prima che potessi riabbracciarla e chiederle scusa”. Il film ottiene un enorme successo al botteghino e viene premiato con un David di Donatello, un Nastro d’argento e una nomination all’Oscar, ma entra subito nel mirino della censura. Nel 1976 la magistratura ordina la distruzione della pellicola che solo nel 1987 riceve la riabilitazione. Un altro suo grande capolavoro è Novecento, un film con Robert De Niro, Stefania Sandrelli e Gerard Depardieu, in cui Bertolucci racconta la storia di una famiglia dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna fino alla Liberazione. “Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. Paese Sera, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare”, ricorderà in seguito Bertolucci che ringrazierà soltanto Walter Veltroni, all’epoca leader della Fgci, per averlo sostenuto. “Da allora, - dirà con rammarico - la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l’estremismo filocinese dell’estrema sinistra, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del Manifesto, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui”.

L’Ultimo Imperatore, l’apice del successo. Nel 1988 Bertolucci gira L’Ultimo Imperatore, un kolossal girato in Cina che ottiene un enorme riscontro sia di pubblico sia di critica. I premi vinti sono numerosissimi, soprattutto agli Oscar con 9 nomination ricevute e 9 statuette portate a casa, tra cui quelli come miglior regia e miglior sceneggiatura. Poi ci sono 9 David di Donatello, 4 Golden Globe, 4 Nastri d’Argento e 3 premi Bafta. Il film nasce per il grande amore per l’Oriente che Bertolucci scopre negli anni ’80 dopo aver girato vari Paesi come la Thailandia, il Giappone e la Cina. “Tempo dopo - racconterà in una delle sue tante interviste - il produttore Franco Giovalè mi diede da leggere il libro Da imperatore a cittadino, autobiografia presunta dell’ultimo imperatore cinese. Io avevo appena riletto La condizione umana di Malraux che si svolge nella Shangai del ’27. Con questi due progetti volai nell’84 in Cina: primo impatto con la città proibita, e da lì innamoramento assoluto". "Negli anni ’80 – aggiungerà - avevo deciso di allontanarmi da un’Italia che mi sembrava iniziasse a essere molto corrotta. La Cina è stata un altrove in cui ho amato perdermi, e subito dopo venne l’altrove del Sahara di Il tè nel deserto (1990 ndr), e l’altrove del buddismo e dell’India di Piccolo Buddha (1993). Questi tre film sono legati dal bisogno di evadere dalla realtà del mio paese che in quel momento non mi piaceva”.

Gli ultimi anni di vita. Prima dei gravi problemi di salute che lo costringeranno a passare gli ultimi anni della sua vita in sedia gira Io ballo da sola e L’assedio. Nel 2000, infatti, subisce una serie di interventi per un’ernia del disco e trascorre un intero anno a letto ma, alla fine, riesce a superare la grave depressione che lo aveva assalito. “Ho imparato ad accettare questa mia nuova condizione. Da allora è diventato tutto più facile. E ho ripreso a fare film. E ho capito che fare film è la sola terapia”, disse dopo aver girato The Dreamers (2003) e Io e te (2012). Bertolucci, nel 2014, gira un documentario a Trastevere per testimoniare come sia difficile per un disabile girare in una Capitale come Roma. "Questa - dice - è una città segnata come unfriendly per i portatori di handicap. Lo sanno tutti, tranne il Comune. Ma non mi meraviglio, fa parte della nostra cultura, non siamo storicamente attenti al mondo di chi non è autosufficiente, non ci sono leggi di garanzia, noi preferiamo una sorta di manutenzione per i disabili, che è una via d'uscita mediocre". Gli ultimi premi arrivano nel 2007 quando, a Venezia, riceve un super Leone d’oro, mentre nel 2011, a Cannes, gli viene consegnata la Palma d’oro alla carriera. Dal 2008 una “stella d’oro” "brilla" sul marciapiede delle star, la Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard di Los Angeles.

Il regista di provincia che vinse nove Oscar. Era forse il maggior talento visivo del cinema europeo. Quando lasciò il maoismo, arrivò il successo mondiale, scrive Claudio Siniscalchi, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Alla morte di Luchino Visconti, avvenuta nel 1976, un solo regista italiano poteva raccoglierne l'eredità: Bernardo Bertolucci. Certo si trattava di un figlio illegittimo. Ma comunque figlio, almeno per quattro ragioni: la polemica antiborghese, la raffinatezza estetica, la cultura aristocratica, il dichiararsi di sinistra. Di fatto dal 1943, anno di esordio con Ossessione, questo era stato Visconti: un antiborghese, un esteta, un aristocratico e un intellettuale di sinistra. Bertolucci, nato a Parma nel 1941, figlio del poeta Attilio, esordisce nella regia cinematografia all'ombra di Pier Paolo Pasolini con La comare secca (1962). Ma non è un tardo neorealista. Si muove nella cultura del proprio tempo. L'ispirazione non va a cercarla nelle borgate romane, ma nella Parigi della Nouvelle Vague, in particolare nella nervosa insofferenza del rivoluzionario Jean-Luc Godard. Anche per Bernardo un movimento di macchina è un affare dalle implicazioni morali. L'uscita di Prima della rivoluzione (1964) anticipa i tempi: il Sessantotto è alle porte, e Bertolucci ne incarna l'essenza intellettuale e cinematografica. Odia la borghesia, come Visconti, quella borghesia di cui sono stati entrambi figli minori, in quanto aristocratici. Occorre uccidere il padre. Ed ecco Partner (1968). La morte del Padre in tutti i sensi. Bertolucci segue ancora Godard. Come lui si è perfino infatuato del maoismo parigino. Bernardo è un esteta. Marx, Mao, la lotta di classe, la rivoluzione culturale. Va tutto bene. Però è roba che invecchia con rapidità. Ferraglia pesante. Bertolucci avverte l'esigenza di una svolta: il Sessantotto è stato uno sconquasso totale. Ma non sul piano politico. Sotto le lenzuola. Prende congedo dal «Mao pensiero» con un'opera di grande bellezza visiva e fascino inquietante: Il conformista (1970), tratto da un controverso romanzo di Moravia. Il vero punto di svolta della carriera di Bertolucci. Sullo sfondo c'è la Parigi livida dei tardi anni Trenta, all'epoca dell'assassinio dei fratelli Rosselli. Il senso della morte aleggia pesante, accanto a quello della dissoluzione sessuale. Bisogna un po' morire per poter rinascere. È il senso del film successivo, Strategia del ragno (1970). Un racconto di Borges sull'intreccio di finzione e realtà, eroismo e tradimento. E poi la sua terra. Romagnola, parmigiana. Spira ancora il vento della Resistenza. Ma è un refolo. E trasporta odori poco rassicuranti. Occorre ripartire. Destinazione Parigi. Lì Bertolucci sta per diventare il più noto regista italiano e una celebrità internazionale. Ha fra le mani una storia drammatica e incandescente. E un immenso attore: Marlon Brando. Gli serve solo una giovane attrice capace di mettere assieme attrazione fisica e ingenuità. La scova in Maria Schneider. Nasce Ultimo tango a Parigi (1972). È una bomba. Macché! È un'esplosione nucleare. Il film rompe ogni argine. Al botteghino tracima. La magistratura al soldo della Democrazia cristiana pensa alla ghigliottina. Anzi, un bel falò. Dopo che l'hanno visto tutti, ma proprio tutti, esce la bolla di scomunica. Mai più pubbliche proiezioni e negativo al rogo. Come se un film si potesse far sparire, bruciando il negativo italiano. E quello francese? E quello americano? Scemenza colossale. Ultimo tango a Parigi evidenzia la morte: del cinema di ieri e di oggi, della famiglia, del matrimonio, dei sentimenti, della coppia, dell'erotismo, dell'intimità. Lo sguardo di Bertolucci è angosciante, oscuro. La decadenza ci sta azzannando la giugulare. Ma nessuno lo capisce. Lo ritraggono come un pornografo. In realtà è un artista aristocratico e decadente, al quale non sfuggono i segni inquietanti dei tempi. Li cattura nella Parigi capitale della decadenza occidentale, quarant'anni in anticipo rispetto ai romanzi di Michel Houellebecq. Dopo essere stato Nietzsche, ponendosi «al di là del bene e del male», Bertolucci decide di diventare Spengler. Nasce così l'«opera totale», il fiume di immagini di Novecento (1976). Trecento sontuosi minuti con un solo drammatico limite: l'ideologia marxista. La rivoluzione si inceppa nella vuota retorica del fascismo male totale, nel fascismo degenerazione del capitalismo, nel fascismo pagato dagli agrari con la pelliccia per bastonare i contadini, nel fascismo vigliacco che non sa trovare la dignità della morte. Novecento però fuga ogni dubbio: Bertolucci è il regista esteticamente più dotato della sua generazione. Ma come proseguire? Ci prova con il piccolo La luna (1979) e con l'altrettanto piccolo Tragedia di un uomo ridicolo (1981). Poi capisce. Vira a Oriente e realizza il mastodontico L'ultimo imperatore (1987). Il figlio del poeta di Parma, l'amico del poeta dei ragazzi di vita, l'allievo di Godard stupisce tutti. E chi l'ha detto che un regista italiano non sappia misurarsi con Hollywood? Bertolucci dimostra che si può. Nove Oscar. Meglio ripeterlo: nove statuette dorate. L'ultimo imperatore è Il gattopardo di Visconti nell'poca della globalizzazione, quando ancora di globalizzazione non parlava nessuno. Cosa fare ancora? Niente. Il resto della filmografia di Bernardo Bertolucci è un riempitivo di lusso: il trascurabile Il tè nel deserto (1990), il più trascurabile Piccolo Buddha (1993), i più trascurabili ancora Io ballo da sola (1996) e L'assedio (1998). Un po' di freschezza sprizza nell'apertura de I sognatori (2003), rivisitazione del Sessantotto. Poi solo stanchezza, che si trascina in Io e te (2012). In conclusione si può affermare che in Bertolucci si riflette al meglio l'avventura italiana del secondo Novecento. Per diventare veramente grande - il più grande di tutti - Bertolucci avrebbe dovuto liberarsi dell'ossequio alla cultura dominante (fardello che neppure Visconti è stato capace di gettare alle ortiche). Dopo L'ultimo imperatore avrebbe dovuto girare di nuovo Novecento, senza bandiere rosse, senza vinti e vincitori, senza superiorità morali. Ma è un dettaglio. Bernardo Bertolucci è stato il maggior talento visivo del cinema europeo tardo novecentesco.

Bertolucci, l’ultimo tango si è spento. È morto ieri il grande regista Bernardo Bertolucci, aveva 77 anni e ha scritto tra le più belle pagine di cinema del 900. Con lui se ne va anche un’epoca fatta da grandi personaggi, grandi idee, grandi passioni, scrive Angela Azzaro il 27 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il Novecento non solo lo ha raccontato in uno dei più bei film della storia del cinema italiano, ma lo ha rappresentato, incarnato, vissuto, reso cinema. Bernardo Bertolucci, morto ieri all’età di 77 anni dopo una lunga malattia, era questo, è stato questo. E’ questo: lo spirito del Novecento, le sue spinte al cambiamento, le sue rivoluzioni, i suoi protagonisti e la sua immensa, soprattutto se guardata col senno dell’oggi, cultura, sensibilità, conoscenza. Sì, con Bertolucci si ha la sensazione che si chiuda in maniera definitiva, categorica, triste, la storia di un secolo che ha portato grandi trasformazioni, in cui si credeva, ci si credeva davvero, che la cultura potesse cambiare il destino della società e dei singoli. La sua vita è un film. Nato a Parma nel 1941, il padre è il famoso poeta Attilio, la cui passione per i versi contagia entrambi i figli, Giuseppe e Bernardo, anche quest’ultimo infatti esordisce con un libro di poesie. A vent’anni si reca a Parigi, la Nouvelle vague è appena esplosa e si fa contagiare da quel fervore che attraverso le immagini anticipa l’incedere del movimento studentesco. Godard, Truffaut, Chabrol lo dicono prima, lo dicono con forza: basta col cinema di papà, basta con la tradizione, vogliono la rivoluzione. Bertolucci li osserva, si fa contagiare. La sua strada è segnata. Ma, come tutta la sua carriera, la via non è lineare: è contorta, un su e giù continuo, uno sperimentare nella contraddizione. Il suo esordio avviene infatti nel segno di una sorta di “padre nobile”, anche se un padre speciale, unico: Pier Paolo Pasolini. Amico del padre, abitano nello stesso palazzo e Ppp lo sceglie per fare da assistente al suo primo film, L’accattone. Racconta Bernardo: «Gli dissi che non avevo mai fatto l’assistente e lui mi rispose che anche lui non aveva mai fatto il regista». Subito dopo c’è la prima volta dietro la macchina da presa: da un progetto sempre di Pasolini gira La Commare secca (1962), ma è con Prima della rivoluzione che dà il via, in maniera decisa, alla sua poetica in cui è centrale l’attenzione per la borghesia, i suoi compromessi, i suoi tabù, le sue speranze, le sue ipocrisie. Seguono Partner (1968), Strategia del ragno ( da Borges) e Il Conformista ( 1970) dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Prima di andare avanti con il racconto incredibile della sua carriera, fermiamoci un momento. Pensiamo a questo scorcio di secolo e di relazioni. Ci sono il papà Attilio, Pasolini, Moravia, Laura Morante, Laura Betti. E’ tutto un frullare di idee, passioni, contagi. Il cinema, più che mai, si trova al centro della sperimentazione di nuovi linguaggi. Ci sono Antonioni, Fellini, Bellocchio, i Taviani, Cavani, Ferreri. Ognuno con la sua poetica, ma con una caratteristica che li accomuna: la stessa temperie, la stessa voglia di usare lo schermo o la pagina di un libro per uscirne. Non è neorealismo, anzi è il suo superamento, è l’attenzione spostata sui soggetti, sulla dimensione umana e sociale, sull’urgenza di mettere in discussione tutto. La sera si va a cena insieme e si discute, si litiga. Nasce in questo contesto di rotture L’ultimo tango a Parigi. Il film esce nel 1972 ed è un successo. Con Marlon Brando, Maria Schneider, Jean Pierre Léaud, Massimo Girotti, è ambientato a Parigi ed è famoso e discusso ancora oggi per le scene di sesso. Il film viene censurato e sequestrato nel 1976, Bertolucci viene condannato per offesa al comune senso del pudore. Tornato nelle sale nel 1986, il film è diventato un caso dopo le accuse, confermate dallo stesso regista, di Maria Schneider. L’attrice ha infatti accusato Bertolucci e Brando di averla tenuta all’oscuro della scena di sesso più clamorosa e di aver subito per questo una violenza. Da quel momento l’opinione pubblica si è divisa: c’è chi considera il regista colpevole e L’ultimo tango a Parigi un brutto film e chi invece tende a separare i due piani. Il film più trasgressivo e per alcuni versi libertario del regista è diventato, secondo molti, l’emblema della violenza sulle donne, di un cinema sessista oggi travolto dalla battaglia del movimento # metoo. Ma è difficile per chi conosce e ama il cinema di Bertolucci chiuderlo nel ruolo di maschilista. Nel suo cinema c’è il cambiamento e in quel cambiamento anche i mutati rapporti uomo donna. Questa polemica arriva dopo. In quegli anni, anche se L’Ultimo tango a Parigi è stato censurato, Bertolucci è nel suo momento d’oro. Nel 1976 esce nella sale Novecento, un grande affresco che va dai primi anni di inizio secolo alla seconda guerra mondiale. Il cast è spettacolare. Ci sono Robert De Niro, Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda e gli italiani Stefania Sandrelli, Alida Valli, Laura Betti, Romolo Valli e Francesca Bertini. Due amici nascono lo stesso giorno: uno è figlio dei ricchi proprietari, l’altro è figlio illegittimo di una contadina. La loro amicizia fa da sfondo alla Storia: nel film ci sono la prima guerra mondiale, l’ascesa del fascismo, la seconda guerra mondiale, la lotta partigiana. Ma tutto questo è raccontato sempre attraverso lo sguardo dei protagonisti, attraverso la lotta degli ultimi. E’ famoso l’utilizzo, nei titoli di coda, del dipinto Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Prima di arrivare ai grandi successi da Oscar, vale la pena ricordare il film La Luna (1979) che racconta in maniera delicata ma coraggiosa un rapporto incestuoso madre figlio. Segue La tragedia di un uomo ridicolo (1981) con Ugo Tognazzi e nel 1987 arriva finalmente L’ultimo imperatore, un grande successo internazionale che gli fa vincere ben 9 premi Oscar, tra cui quello come miglior film e migliore regia. E’ l’unico regista italiano ad aver vinto questo riconoscimento. E’la fase delle grandi produzioni internazionali, film molto ben costruiti ma che perdono, nella loro perfezione, quella carica poetica tipica del cinema di Bertolucci. Nel 1990 esce Il tè nel deserto da un romanzo di Paul Bowles, nel 1993 Il piccolo Buddha con Keneau Reeves. La carica umana e linguistica degli inizi ritorna in parte nell’ultima fase con Io ballo da sola, L’assedio, The Dreamers – I sognatori, Io e te, l’ultimo film realizzato e uscito nel 2012. Sono anni di riconoscimenti (nel 2007 vince il Leone d’oro alla carriera, nel 2011 la Palma d’oro a Cannes sempre alla carriera), di incontri con gli studenti, di amarezze per le polemiche sull’Ultimo tango a Parigi. Anni di malattia e di vita appartata, di interviste, forse di tanti, troppi ricordi. Oggi che è andato via, ne restano tanti anche a noi, spettatori e spettatrici del suo cinema, ricordi legati ai suoi bellissimi film, alle discussioni e alle passioni che il cinema prima suscitava e oggi forse non suscita più. E’ la nostalgia per un cinema che rendeva vivo il sogno più bello, quello di chi credeva nella rivoluzione.

Urge salvacondotto per Bernardo Bertolucci, scrive Camillo Langone il 6 Dicembre 2016 su "Il Foglio". Papa Paolo III, grande mecenate e per giunta, prima di salire sul soglio di Pietro, vescovo di Parma, tu che concedesti un salvacondotto al pluriomicida Cellini dicendo che “gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere obbligati alle leggi”, aiutami a far ottenere analogo documento al nostro geniale concittadino Bernardo Bertolucci che, senza avere mai ucciso, ha forzato Maria Schneider sul set di “Ultimo tango a Parigi”. Suo padre, il poeta Attilio, era chiamato “il divino egoista”. E divinamente fu egoista il figlio su quel set epocale, quando in combutta con Marlon Brando escogitò un uso anomalo del burro senza avvisare l’attrice. (Io lo dico sempre ai miei eccellenti pittori: siate egoisti! Mettete la vostra arte davanti a ogni altro pensiero. Oppure segnalatemi il nome di un eminente artista che abbia dato priorità a mogli, figli, consuetudini, leggi…). Eccitate da nuove rivelazioni, dopo 44 anni le iene femministe si sono avventate sul vecchio regista esigendo censura e galera: Papa Paolo, il salvacondotto urge!

Ultimo Tango a Parigi – Bertolucci, Brando e l’uso improprio di Maria Schneider, scrive su Donne di Fatto il 20 settembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano" Lorella Zanardo, Autrice e blogger. “Sodomizzami!” implorava una fantastica Mariangela Melato ad un selvaggio e perplesso Giancarlo Giannini che sicuramente avrebbe gradito l’invito se avesse compreso il significato di quel termine. Il film di Lina Wertmueller “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” proponeva il naufragio su un’isola deserta di una ricca e viziata milanese con il mozzo della sua barca. E scoppiava la passione. Entrambi consenzienti si godevano l’isola deserta liberando i propri corpi. Beati loro. Negli ultimi giorni si è molto discusso intorno ad un’intervista rilasciata dal regista Bertolucci in cui racconta come la famosa scena in “L’Ultimo Tango a Parigi”, in cui Brando sodomizza Maria Schneider aiutandosi con un po’ di semplice burro che scatenò le fantasie italiche, non sarebbe stata concordata prima con l’attrice, tanto che questa serbò rancore al regista per tutta la sua breve vita. Marina Terragni ne ha fatto un post molto dibattuto, anche Loredana Lipperini ne ha scritto. Sulla rete trovate diverse opinioni. Il punto che mi pare importante discutere in modo divulgativo è se l’arte può giustificare la violenza. Un critico d’arte che conosco mi ha risposto infastidito “Sì, certo, l’arte giustifica tutto o quasi. Se Bertolucci avesse avvisato l’allora ventenne Schneider dell’intenzione di trasformare una scena che prevedeva un amplesso con una scena di sodomia, questa forse si sarebbe rifiutata o avrebbe “recitato”. Invece, attraverso il pianto dovuto alla sorpresa dell’attrice, abbiamo ottenuto un capolavoro”. Ah. Ma è proprio così? Non vorrei ci lanciassimo qui in una lapidazione del regista per la sua mancanza di totale di rispetto verso una persona. Credo questo sia evidente. Ma mi lascia basita la dichiarazione di Bertolucci che non considera che le attrici recitano, e che compito di un regista è dirigerle. Se così non fosse il cinema avrebbe seminato morti e feriti da decenni. Una guerra: meglio se ammazzi veramente, è più credibile. Un’amputazione in un film horror? Pure. E così via. Il mitico Actors’ Studio di New York si basa sul metodo Strasberg, un lungo training praticato da mostri sacri come Pacino, che prevede di sviluppare la capacità fisica mentale ed emotiva di far rivivere sullo schermo il personaggio che si sta interpretando. Non dunque rappresentarlo bensì “viverlo”. Funziona se si è bravi. E la storia del cinema è ricca di esempi di attori che “rivivono” in scena la vita di personaggi e storie reali. Anna Magnani è assolutamente credibile e giganteggia nel monologo L’Amore di Cocteau, ma non per forza per risultare credibile la scena di Anna doveva prevedere che lei realmente fosse state abbandonata dall’amante. A volte può accadere che un’attrice utilizzi la sua esperienza personale a scopi artistici, ma non è la norma. E dunque il problema è un altro. Bertolucci con molta probabilità, aveva scelto la giovanissima Schneider in base al suo aspetto fisico, e non alle sue doti artistiche, e dunque non riteneva che la giovane donna potesse “interpretare con verità” ciò che invece lui riteneva indispensabile. Che fare? La soluzione deve essere parsa facile sia al regista che a Brando: sorprendere Maria, non avvisandola delle loro intenzioni ed ottenendo così ciò che entrambi volevano. E’ dunque evidente come Schneider sia stata usata con violenza e senza rispetto. Però, è bene specificare, non in nome dell’arte. Per pigrizia forse. Per non dovere impiegare tempo a spiegare ciò che si voleva ottenere. Per noncuranza. Tutte motivazioni inaccettabili.

Non solo Bertolucci, da Hitchcock a Kubrick a von Trier: quando la crudeltà dei registi diventa arte. Il tira e molla etico attorno ad Ultimo tango a Parigi ricrea una sorta di atmosfera torbida sul set di quello che divenne comunque il secondo film più visto nella storia del cinema italiano con 15.632.773 spettatori; quando invece in fatto a crudeltà da set, nel dietro le quinte oltre la pellicola montata, possiamo annoverare ben altri “casi”, scrive Davide Turrini l'8 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “È consolante e desolante che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo”. Bernardo Bertolucci è tornato a parlare della scena di sesso, con burro, di Ultimo tango a Parigi qualche giorno fa. A far correre in rete alcuni tweet indignati di giovani e celebri star hollywoodiane – la regista Ava DuVernay, le attrici Anna Kendrick, Jessica Chastain e la protagonista di Westworld, Evan Rachel Wood – è stato un articolo di Elle dove si è recuperato un video del 2013 in cui il regista italiano raccontava la sequenza incriminata. Lui e Marlon Brando si erano accordati per girare la scena esplicita di sesso anale adoperando qualcosa che non era previsto in sceneggiatura: un panetto di burro. “Volevo che Maria sentisse la rabbia e l’umiliazione di quella scena”, racconta il maestro parmigiano nel video, “per questo non le ho detto cosa stava succedendo perché volevo la sua reazione da ragazza, non da attrice”. Il caso è montato online con la Chastain che parla di “violenza sessuale di un 48enne su una 19enne”; e una collega, Jenna Fischer chiede perfino il “rogo” per Ultimo tango a Parigi (ciò che peraltro avvenne il 29 gennaio ’76 su sentenza della Cassazione ndr). Bertolucci è intervenuto nelle scorse ore affermando: “Forse non sono stato chiaro. Ho deciso insieme a Marlon Brando, di non informare Maria che avremmo usato del burro. Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio. L’equivoco nasce qui. Qualcuno ha pensato, e pensa, che Maria non fosse stata informata della violenza su di lei. Falso! Maria sapeva tutto perché aveva letto la sceneggiatura, dove era tutto descritto. L’unica novità era l’idea del burro. È quello che, come ho saputo molti anni dopo, offese Maria, non la violenza che subisce nella scena e che era prevista nella sceneggiatura del film”.

Durante le riprese di Dancer in the dark nell’autunno 1999, dopo una recitazione martellante sequenze su sequenze, dodici ore al giorno, tutti i giorni per mesi, la cantante islandese Bjork non ne poté talmente più della presenza invasiva, frastornante, totalitaria di Von Trier, tanto da definirlo “un pornografo emozionale”, che all’improvviso senza dir nulla scomparve dal set. Alcuni emissari della produzione danese la ritrovarono dopo quattro giorni, ma fu necessario un contratto scritto con ciò che Lars poteva fare e cosa no per continuare le riprese del film. Soprattutto, e questo l’ha raccontato Bjork dopo qualche anno, Von Trier e i suoi non si potevano più permettere di ritoccare il tema del film, Selmasongs, composto dalla cantante. Von Trier accettò e il set si concluse. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2000.

La “verità estatica” cercata negli esterni, spazi realistici dei suoi film, da Werner Herzog è concetto noto. I limiti di questa titanica espressività sono riassunti nel blocco centrale di Fitzcarraldo (1982), quando centinaia di veri indios vennero ingaggiati per trasportare un’enorme nave, senza effetti speciali e mettendo a repentaglio la loro vita, oltre un’alta collina che collegava due fiumi. Si racconta che il crudele Werner fece costruire tre navi, di cui una da decine di tonnellate per farle valicare realmente l’imponente collina trascinata dalle comparse, grazie ad un argano progettato da un ingegnere francese che però prevedeva una pendenza solo di 20 gradi, e non di 40 come avvenne in realtà. La sequenza in cui la nave scivola sulle traversine di legno arrabattate sul set è vera. Alcune fonti dell’epoca parlano di due morti tra le comparse, ma di verificato ci sono soltanto, o comunque, diverse decine di feriti. Anche il rapporto tra Herzog e l’amato/odiato Klaus Kinskirivela l’intima crudeltà del regista tedesco nel portare all’esasperazione il realismo recitativo dei propri attori. Se Herzog fece rimanere per ore e giorni Kinski su una zattera in balia delle correnti in Aguirre furore di Dio (1972), le reazioni isteriche e folli di Kinski non si fecero attendere, come del resto era già successo in Fitzcarraldo. Reazioni talmente eclatanti che un manipolo di indios peruviani, comparse in Aguirre, si offrirono al regista per uccidere Kinski. Herzog ci pensò a lungo, almeno raccontano i suoi biografi, ma rispose di no. 

Questa notizia non è mai stata smentita dai diretti interessati, quindi la prendiamo per vera. Tippi Hedren oggi 86enne, attivista animalista, madre di Melanie Griffith, fu corteggiata apertamente da Alfred Hitchcock prima e durante l’inizio delle riprese de Gli Uccelli (1963). Il maestro del brivido era letteralmente “cotto” della Hedren, ma lei non si voleva concedere. Nella sua recente biografia l’attrice ha parlato di avances ripetute sulla limousine di Hitch, in qualche angolo buio del set, tentativi di baci e palpeggiamenti. Quando il regista capì che non ci sarebbe stato nulla da fare, scatenò l’inferno sottoponendo l’allora 33enne affascinante star ad un trattamento da denuncia culminato nella sequenza in cui la donna viene assalita in casa, davanti e dentro la camera da letto, da verissimi e beccuti uccelli, per ben cinque giorni di set. Risultato: una settimana di stop a curare una ferita profonda vicino all’occhio procurata da un terribile corvaccio.

La maniacalità kubrickiana per girare ogni scena è storia del cinema. Tantissimi i ciak per ogni singola inquadratura, spesso per un’intera giornata. Vittima illustre del perfezionismo di Kubrick fu sicuramente Shelley Duvall sul set di Shining (1980). Partiamo dalla durata monstre delle riprese in Inghilterra di un anno, con nove mesi di set filati per la Duvall e giornate intere a recitare le sequenze di pianto, fino alla celebre sequenza del colpo inferto a Jack Nicholson con la mazza da baseball. Ebbene documentaristi e biografi segnalano che quell’inquadratura venne ripetuta 127 volte. “Le recensioni del film, anche dopo anni, parlano solo della meticolosità e del lavoro di Kubrick, mai una volta che segnalavano il lavoro che ho fatto, nessuna parlava di me”, spiegò l’attrice che tornata negli Stati Uniti si curò per un forte esaurimento nervoso. 

Addio a Bernardo Bertolucci: le 3 colonne sonore cult dei suoi film. Da Ennio Morricone a Ryuichi Sakamoto, al leggendario sax di Gato Barbieri in Ultimo tango a Parigi, scrive Gianni Poglio il 26 novembre 2018 su "Panorama". Hanno avuto un ruolo importante, a volte fondamentale, le musiche scelte da Bernardo Bertolucci come commento musicale dei suoi film. Scorrendo la filmografia del grande regista ne abbiamo selezionate tre che sono passate alla storia. Della musica e del cinema. 

Ultimo tango a Parigi - 1972. Un match perfetto con le atmosfere della pellicola, il commento sonoro ideale per l'immaginario erotico messo in scena da Marlon Brando e Romy Schneider. Autore delle musiche fu il geniale sassofonista di origini argentine Gato Barbieri che per il tema principale della soundtrack ricevette una nomination ai Grammy Award. 

L'ultimo Imperatore - 1987. Un capolavoro premiato con il Premio Oscar nel 1988. Frutto di una straordinaria ed ispirata sintonia tra musica ed immagini. Per realizzare l'album vennero coinvolti tre geni della musica contemporanea: David Byrne (leader dei Talking Heads), il musicista giapponese Ryiuchi Sakamoto e il compositore cinese Cong Su. 

Novecento - 1976. Un film straordinario e una colonna sonora eccezionale. Un commento sonoro intesnso ed altamente cinematico realizzato da Ennio Morricone. Tra le perle, il suono avvolgente degli archi nei sei minuti di Apertura della caccia e le suggestioni sinfoniche che caratterizzano Tema di Ada.

Bertolucci, Michael Douglas e le contraddizioni del #MeToo. Alcune scene di sesso di "Ultimo tango a Parigi" forse non potrebbero essere fatte oggi. Ecco l'effetto boomerang del movimento femminista, scrive Simona Santoni il 29 novembre 2018 su "Panorama". Ultimo tango a Parigi è uno dei film più trasgressivi, amati e discussi di Bernardo Bertolucci, il regista di Parma e del mondo morto il 26 novembre. Storia di amplessi e seduzione tra sconosciuti, ma anche di libertà sessuale, la sua data di uscita è il 1972 e fu un successo: a tuttoggi è il film italiano più visto di tutti i tempi in Italia. È anche l'unico film italiano condannato al rogo, nel 1976 (furono salvate alcune copie conservate presso la Cineteca Nazionale). La riabilitazione dalla censura giunse nel 1987. Eppure, probabilmente oggi, 2018, nell'epoca del #MeToo, Ultimo tango a Parigi non potrebbe essere girato, così com’è. La prevaricazione fisica di Marlon Brando, quarantottenne e bolso, su Maria Schneider, diciannovenne di beltà ingenua, la famosa scena in cui le pratica la sodomia aiutandosi col burro, alzerebbe flutti di proteste sulla scia del movimento di matrice femminista, come già in parte è stato, con Bertolucci accusato di cinema maschilista, lesivo della dignità della donna. Non a caso l'associazione italiana Non una di meno, che riunisce diverse realtà femminili, invece di compiangere Bertolucci in questi giorni omaggia Maria Schneider. Su Twitter scrive: "Complicità tra maschi, sopraffazione fisica e psicologica, abuso di potere... la storia della scena di Ultimo tango a Parigi è quella di uno stupro. Oggi ricordiamo #MariaSchneider che rimase per sempre segnata da quella violenza. #BernardoBertolucci". Maria Schneider, infatti, trent'anni dopo l'uscita di Ultimo tango a Parigi in un'intervista accusò pesantemente sia Brando che Bertolucci: dichiarò di essersi sentita umiliata e abusata in quella sequenza, soprattutto per il particolare del burro di cui non era a conoscenza. Sulla sceneggiatura c'era tutto il resto, ma non la presenza del burro da usare come lubrificatore, che le sembrò svilente e la ferì indelebilmente (il sesso sul set fu ovviamente fittizio; ma a mortificarla fu quel particolare aggiunto al momento del ciak, che Bertolucci le omise perché voleva che avesse una reazione stupita e spontanea sul set). Bertolucci successivamente si scusò con Maria Schneider, anche se ammise che lo avrebbe rifatto: l'amore per l'arte sopra tutto?

Le accuse contro Michael Douglas. Nella scia di contraddizioni che si porta dietro il #MeToo c'è finita anche Catherine Zeta Jones. Suo marito Michael Douglas è stato accusato di molestie da una sua ex assistente, molestie risalenti a circa trent'anni fa, quando l'attore era all'apice del suo sex appeal e della popolarità: nel 1989, secondo l'assistente, si sarebbe masturbato davanti alla donna. Poi le accuse sono svaporate, ma la famiglia Douglas-Jones ha vissuto mesi critici. Al Times l'attrice gallese ora ha riportato tutta l'angoscia vissuta: "Io e i miei figli siamo stati devastati da quelle accuse. Ed ero spaccata in due su dove fosse la mia morale assoluta", ha raccontato. "Questa donna è emersa dal nulla e ha accusato mio marito. Ho avuto una conversazione molto aperta con lui, con i ragazzi nella stessa stanza, e gli ho chiesto se si rendeva conto se qualcos'altro poteva venire fuori…"

Ed ecco l'affondo al #MeToo: "(Michael) ci ha detto che non c'era nessuna storia e che il tempo avrebbe chiarito tutto. Così è stato. Nulla ha confermato le accuse. E per ogni accusa che non ha conferma, il movimento torna indietro di 20 anni".

Il boomerang del #MeToo. Sorto in seguito al vaso di Pandora aperto dalle denunce di molestie contro il potente produttore cinematografico Harvey Weinstein, il movimento #MeToo (traduzione: Anche io) prende il nome dall’hashtag usato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke. Premiato dal Time come "Persona dell'anno 2017", il movimento unisce le "silence breakers", le donne che hanno rotto il silenzio e denunciato le molestie subite negli anni sul posto di lavoro. Nel tempo però ha assunto sfumature contraddittorie. Si sono susseguite innumerevoli denunce, testimonianze difficili da fare, riportate a giornali e tv, ma spesso alcun accertamento in tribunale. Probabilmente è anche difficile dimostrare l'accadimento di fatti avvenuti per lo più molti anni prima. Intanto nel febbraio scorso Jill Messick, ex produttrice della Miramax che aveva lavorato nella società di Weinstein, si è suicidata: secondo i famigliari a spingerla al gesto estremo sono state le accuse di Rose McGowan (l'ex amica di Asia Argento paladina del #MeToo) di non essere stata solidale con le donne molestate e la conseguente gogna della stampa. Anche l'attore svedese Benny Fredriksson, ex capo del centro artistico Kulturhuset Stadsteatern di Stoccolma, a marzo si è suicidato dopo le accuse - alcune anonime - di molestie verso molte attrici; nessuna indagine ha provato la sua colpevolezza. La stessa Asia Argento, insieme alla McGowan voce forte del movimento, ha vissuto sulla sua pelle il boomerang del #MeToo: da presunta molestata è diventata presunta molestatrice. E ora si è sfilata dal gruppo femminista. Il rispetto delle donne, come degli uomini, della dignità umana in genere, va prima di tutto. E proprio in tal senso va anche il garantismo, che non dovrebbe essere calpestato. Lo si deve anche e proprio alla causa stessa delle donne veramente molestate, oltraggiate e schiacciate da un sistema di potere spesso in pantaloni. 

MOLESTIE E MOLESTIE…

Grammy Awards, star e rose bianche contro le molestie. La 60esima edizione degli Oscar della musica caratterizzata dal movimento per i diritti delle donne, contro le molestie e la discriminazione, scrive Marianna Di Piazza, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale".  Sul bavero della giacca, legata al polso come un braccialetto, oppure portata in mano. Le star della musca internazonale, da Lady Gaga a Kelly Clarkson a Reba McIntyre, si sono presentate sul red carpet della 60esima edizione Grammy Awards con una rosa bianca in segno di solidarietà ai movimenti #Metoo e #TimesUp che protestano contro le molestie sessuali e le disuguaglianze di genere. "Scegliamo la rosa bianca perchè storicamente è sinonimo di speranza, pace, simpatia e resistenza", recita la lettera scritta dall'organizzazione Voices in Entertainment per spiegare il gesto. "Il mondo ascolta, indossa una rosa bianca". Le donne sono state al centro della serata degli Oscar della musica. Numerose le riflessioni e gli interventi musicali contro le molestie. Momento toccante l'esibizione di Kesha che insieme a Cindy Lauper e Rihanna ha cantato Praying. Lei stessa sta portando avanti una battaglia legale contro il produttore Dr Luke per molestie. Anche il mondo della musica ha voluto quindi mobilitarsi, seguendo l'esempio delle star del cinema e della televisione che ai Golden Globe Awards avevano scelto di indossare abiti neri per mostrare il loro sostegno al movimento.

Diresti lo stesso se fosse un uomo? Foglioline, cosciometri e misoginia. Il linguaggio della politica italiana è sempre più lontano dalla parità, scrive Denise Pardo il 26 dicembre 2017 su “L’Espresso”. Foglioline, cosciometri e misoginia. Il linguaggio della politica italiana è sempre più lontano dalla parità A dicembre l'atmosfera politica nei confronti del mondo femminile non offre grandi soddisfazioni nonostante il clima natalizio annunciato peraltro non da pastori e cornamuse ma dai cinepanettoni. Sarà colpa di Putln e di terribili generali iraniani come Soleimani insuffiatori contro i costumi delle donne occidentali (questa è una tipica fake news). Ma uno dopo l'altro emergono segnali di vario genere, non solo poco acconci al clima santo e giulivo della festività ma bisognosi al più presto di una richiamata femminile alle armi. Magari chiedendo consiglio alla ministra della Difesa Roberta Pinotti, donna di polso e di sostanza, per rimettere a posto le cose cioè i maschi felloni. E soprattutto, questo ahinoi è il dato più dolente, le consorelle fedifraghe perché distratte, speriamo non indifferenti. Non c'è stato, infatti, neanche uno straccio di appello trasversale di solidarietà e indignazione da parte di compagne e avversarie dopo che, ai primi di dicembre, Giulia Sandra Savino deputata di Forza Italia e coordinatrice del partito in Friuli ha attaccato Debora Serracchiani governatrice della sua regione per il fatto che «una donna senza figli difficilmente può capire quali sono le necessità delle famiglie». Savino è stata assoldata dagli ayatollah? Con un post su Facebook dal titolo "Donne contro le donne, a proposito della perdita della dignità". Serracchiani ha reagito all'attacco, un colpo basso legato a una sfera privata, forse dolorosa oltre che estranea alla vita pubblica sottolineando che «una simile accusa non sarebbe mai stata rivolta a un uomo». Il post è stato condiviso da un migliaio di "amici" e da poche, lodevoli compagne di partito (Malpezzi, Grim, De Monte, Cremaschi) «mortificate e ferite dalla cavernicola Savino». Il biasimo politico non è stato a temperatura ambiente ovvero incandescente, ma piuttosto tiepido e così l'ayatollah Savino non ha chiesto scusa, non ha detto di essere stata fraintesa come da copione, ma ha fatto spallucce senza problemi. Anche il femminismo dev'essere già in campagna elettorale. Qualche giorno, e scoppia il caso delle tre "foglioline" nel simbolo di "Liberi e Uguali" presentato a "Che tempo che fa" di Fabio Fazio. È lui a usare la parola incriminata (percepita più come residuale segno della presenza femminile che come una E artistica) e il leader e presidente del Senato Pietro Grasso, non proprio dotato di X factor tv, si lancia in una spiegazione a cavallo tra parità di genere e botanica. Oltretutto un arretramento, in termini di giardinaggio la donna era un fiorellino. Sui social soprattutto si scatena una mini bufera, più sull'equivoco - segnalato come fake news- di chi ha pronunciato la famigerata parola. Alla fine tutti credono alla buona fede del nuovo partito («le donne come elemento fondante della nostra formazione politica») fondato infatti da rappresentanti del mondo femminile come Bersani, Speranza, Civati, Fratoianni e D'Alema. Giusto Il tempo di tirare Il flato, e sul "Fatto Quotidiano" di Marco Travaglio appare una vignetta sessista sul "cosciometro" di Maria Elena Boschi sulla graticola per Banca Etruria (a indicare le difficoltà della ministra sono le lunghezze della gonna che va sempre più su). La prima a indignarsi, e a ragion veduta, è Giovanna Melandri con un tweet di fuoco. Ma, fatto salvo il diritto di satira, ancora una volta, la politica della differenza si riduce a argomenti che non sarebbero mai utilizzati per un uomo (e non perché i maschi non portano le gonne). Il discorso è atavico e si sperava almeno avviato. In America donne coraggiose hanno sconfitto il produttore onnipotente Weinstein. All'Eliseo al fianco del presidente Macron è arrivata Brigitte un quarto di secolo più grande di lui che riceve capi di Stato in jeans e ha fatto un falò di qualsiasi tabù sessista. Germania e Regno Unito tra Cancelliera, regina e primo ministro (Theresa May fu attaccata come Serracchiani per non aver figli da una rivale in corsa per la leadership e ne fece polpette) sono un faro di speranza. Speriamo che la pausa festiva porti consiglio. Buon Natale foglioline e fogliolini.

Così l'Onu copre lo scandalo degli stupri nel Palazzo di Vetro. L'organizzazione si batte contro le violenze nel mondo ma non tutela le vittime interne, scrive Gaia Cesare, Sabato 20/01/2018, su "Il Giornale". Sono i paladini della parità di genere nel mondo, perseguono i crimini più efferati in giro per il pianeta - e gli stupri di massa sono in cima all'agenda - ma poi licenziano le presunte vittime di violenze sessuali, minacciano chi denuncia di essere stata molestata e lasciano che alcuni dei propri dipendenti-predatori agiscano indisturbati per evitare di mettere in cattiva luce l'organizzazione. Un'inchiesta del britannico Guardian rompe il muro di ipocrisia e omertà che vige all'interno delle Nazioni Unite, l'organizzazione che annovera fra i cinque obiettivi globali da raggiungere entro il 2030 proprio «l'uguaglianza di genere». Una parità che al suo interno sembra essere lontana, a giudicare dalle testimonianze raccolte dal quotidiano inglese. I numeri («dozzine» di persone intervistate in dieci Paesi nel mondo) non sono rilevanti in termini di quantità per un'organizzazione che conta migliaia di dipendenti ma il contenuto delle denunce più gravi sciocca per i metodi minacciosi e l'omertà di cui le vittime raccontano. Tra le 15 che hanno deciso di rompere il muro del silenzio - dietro anonimato perché le regole Onu così impongono ma soprattutto per paura di ritorsioni - non ci sono solo donne molestate ma anche dipendenti stuprate. E oggi rassegnate alla triste constatazione che «non c'è modo di avere giustizia». L'affermazione choc arriva proprio da una delle tre dipendente che hanno deciso di parlare e che ha denunciato di essere stata violentata da un senior, un componente paludato e di esperienza dello staff Onu. La donna racconta di aver trascorso diversi mesi in ospedale anche a causa del trauma subìto. E non è difficile capire perché: nonostante avesse denunciato, fornito referti medici e testimonianze a supporto del suo racconto, l'Onu ha stabilito con un'inchiesta interna che non ci fossero gli estremi per sostenere le sue accuse, per poi toglierle il posto di lavoro. «Se racconti, la tua carriera è finita, specie se sei una consulente» (cioè un contratto a tempo determinato, ndr), riferisce una collega che ha cercato di ottenere giustizia dopo essere stata molestata. Tutto il contrario di quello che ufficialmente promette il segretario generale dell'organizzazione, Antonio Guterres, che ha parlato di «tolleranza zero» contro gli abusi sessuali. In realtà, lo spaccato emerso dalle testimonianze è sconcertante. Quasi tutte raccontano di essere state apertamente scoraggiate a formalizzare le denunce da colleghi o dagli ombudsman, gli esperti giuridici preposti alla buona amministrazione dell'organizzazione e alla tutela dagli abusi. Uno di loro ha spiegato chiaramente che non avrebbe sollevato il caso perché minacciato dai «senior» dell'Onu. A questo si aggiungono indagini mai aperte oppure svolte in maniera volutamente superficiale, senza che venissero ascoltati testimoni cruciali, trascrizioni piene di errori e informazioni riservate che sono diventate pubbliche. Con la peggiore aggravante: i presunti predatori restano al proprio posto, le vittime che denunciano lo perdono. Un precedente eclatante c'è: nonostante le prove schiaccianti su abusi sessuali ai danni di migliaia di bambini, compiuti dai caschi blu ad Haiti, le Nazioni Unite non hanno fatto scattare alcun arresto.

Molestie sessuali: quell’essere uomini che ogni tanto imbarazza (e fa rabbia), scrive Mario De Maglie il 30 ottobre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Era una figa da paura, non potevo smettere di guardarla, poi si è girata e mi ha detto: “Ma che cazzo vuoi?”, le avrei dato due schiaffi a quella scema, ma tu guarda che modo di reagire! Ascoltavo questo, all’incirca un anno fa, dalla bocca di un mio amico (di amici sessisti, come tutti, sono aihmè ben fornito). Conosco, il più delle volte, chi frequento e non sempre entro in battaglie che so già di perdere in partenza. A volte, una certa sensibilità si possiede, si può affinare, migliorare, può permettere un confronto tra idee anche molto diverse, altre volte si parte da zero ed era quello il caso. Avrei lasciato perdere, se non ci fosse stato quel “le avrei dato due schiaffi”. La triste espressione cominciò a bombardarmi la testa, non potevo stare zitto. Respirai, mi accorsi di essere arrabbiato, ma volevo che la rabbia mi servisse a qualcosa, non volevo attaccare, volevo provare a mettere in discussione le certezze del mio amico, senza che lui sentisse di doversi mettere sulla difensiva. Provai ad ipotizzare con lui la possibilità che quella donna fosse stata guardata da occhi vogliosi di uomini carichi di pensieri invadenti, talvolta di parole, tutto il giorno e che probabilmente non fosse la prima volta che le accadeva. Una frequente ed ostentata ricerca di intimità a cui veniva sottoposta da gente che non ne aveva alcun diritto. Questa situazione può essere ragionevolmente fastidiosa in strada pubblica ed in pieno giorno, sicuramente ansiogena in altri contesti meno sicuri. Concessi e mi concessi anche il beneficio del dubbio che quel tipo di risposta, da parte della donna, fosse stata aggressiva, ma, se l’espressione “figa da paura” trapelava dallo sguardo incriminato, qualcosa mi lasciò supporre di sì, la reazione  poteva comunque considerarsi legittima, potevano esserne cambiate la modalità forse, ma il contenuto del messaggio sarebbe stato identico e chiaro: “lasciami stare, mi dà fastidio come mi guardi” (“come mi guardi”, non necessariamente “che mi guardi”, c’è differenza). Cercai di non perdermi nei dettagli, ma di restare sul contenuto e provare a sviluppare nel mio amico una visione più empatica o comunque meno ristretta al suo punto di vista, senza polemiche o sorta di rimproveri. Cosa può significare, per una donna in strada, lo sguardo di un uomo sconosciuto? Niente, sapevo già di perdere e trovai conferma. Facevo i conti con il maschio ferito, quello rifiutato, la volpe che non arriva all’uva e quindi la considera non più buona. La reazione improvvisa della ragazza lo spiazzò e lo zittì, ma ebbe poi tutto il tempo per costruirsi una spiegazione dell’accaduto che non minacciasse troppo la sua idea di uomo: la ragazza era una stronzetta che se la tirava, manco ce l’avesse solo lei (permettetemi di utilizzare un linguaggio che “renda onore” al concetto). Il mio amico si arrabbiò con me perché non stavo dalla sua parte, non stavo capendo realmente, ero “prevenuto” a causa del mio lavoro, la maleducazione è maleducazione, non capiva a cosa mi convenisse negarlo. Cedetti, chiusi il discorso. Vorrei dire che mi passò anche la rabbia, ma in realtà aumentò. Consapevole della mia impotenza, in quella specifica situazione, provai ad accettare che il mondo non si può cambiare tutto e subito. Mi si dirà: “Cambia almeno gli amici!” Ne dovrei cambiare troppi purtroppo e non perché veda il sessismo ovunque, ma perché, se non è comunque ovunque, di certo non lesina la sua presenza. Preferisco rimanere nelle relazioni e cambiare quel che posso cambiare, ho descritto una situazione come tante, ma non come tutte, in alcune intervenire o uscire fuori da determinate dinamiche può produrre effetti insperati. Perché scrivo questo a distanza di un anno? Perché il ricordo del mio amico mi è tornato prepotentemente a galla guardando il video di sensibilizzazione contro le molestie in strada del gruppo Hollaback in cui una ragazza gira per New York da sola per qualche ora, mentre il suo compagno, davanti a lei, munito di microfoni e telecamera, registra gli sguardi ed i pesanti commenti degli uomini, ogni tanto accompagnati da inquietanti pedinamenti fianco a fianco. Una ragazza normale, vestita con semplice jeans e maglietta neri, niente che possa attirare l’attenzione particolarmente su di lei, eppure c’è da non credere a quel che si vede e si sente in pieno giorno in una città come New York (il nostro Occidente che tanto rimarca l’emancipazione della donna rispetto ad altre culture). Quei commenti, lo ammetto, mi hanno fatto vergognare, per un attimo, di essere uomo, poi però ho pensato che non siamo tutti così, io non voglio esserlo e conosco tanti uomini che non vogliono esserlo, allora divento anche orgoglioso di quello che faccio o che quantomeno provo a fare perché la libertà di noi uomini non si può che esprimere attraverso la libertà delle donne.

Allarme molestie c’è Sgarbi in tv. Non solo aggressioni sessuali. Gli stalker agiscono in ogni campo. Come i cuochi che insultano ristoratori e casalinghe, scrive il 5 novembre 2017 Michele Serra su “L’Espresso”. La piaga delle molestie è molto più estesa e profonda di quanto emerge dal caso Weinstein. Perché non ci sono solo le molestie sessuali. Quelle sono la punta dell’iceberg. In quasi tutti i campi della vita sociale i molestatori agiscono indisturbati, spesso senza che nessuno abbia il coraggio di denunciarli e di fermarli. Il caso Sinistra Dopo un secolo di liti sanguinarie e drammatiche scissioni, l’uomo e la donna di sinistra finalmente potrebbero godersi una mediocre deriva e vivacchiare in un riposante stato di rassegnazione, grazie alla totale ininfluenza della loro parte politica. Ma i loro leader, senza tregua, continuano a inseguirsi con il piccone, come ai tempi di Stalin e Trotzky, a promuovere scissioni, a pronunciare solenni abiure e infocati anatemi. La vita, a sinistra, sarebbe molto tranquilla, tutti nelle Case del Popolo a giocare a ramino e bere un buon bicchiere. Ma ecco che, da un angolino, salgono improvvise grida e minacce: sono gli anziani leader e i giovani bulli che si contendono la scena rovesciando sedie, rompendo bottiglie, travolgendo bambini. Molestie politiche che le vittime subiscono facendo finta di niente e continuando a giocare a ramino anche nel giorno delle elezioni. Il caso Food Il cuoco: una figura simpatica e un tempo familiare, con le macchie di sugo sul grembiule e il buffo cappello sulla testa. Come il pompiere, il mugnaio, la sarta, il gondoliere. Nessuno poteva immaginare che il cuoco sarebbe diventato un’ossessione nazionale, e una delle principali fonti di molestie gravi. Si va dal maniaco che rompe le balle, da anni, sulla cottura in forno a sessanta gradi per quaranta ore, costringendo molte brave persone a rimanere in casa due giorni di seguito per cucinare un pollo, con pesante incremento degli indici di assenteismo. Al pazzo che entra a sorpresa, accompagnato da una troupe televisiva, in un tranquillo ristorantino, insultando il gestore perché le padelle non sono di carbonio ossigenato e sua figlia perché serve ai tavoli con lo smalto sbagliato sulle unghie. Al sadico che sputa per terra gli involtini del concorrente perché mancano di salvia. Impressionante la complicità delle vittime, nessuna delle quali, fino ad oggi, ha mai detto al suo chef aguzzino «lo sa dove deve metterselo, l’involtino?». Il caso Sgarbi «Sembrava tranquillo. Una persona normale. Ero seduto accanto a lui e mai e poi mai avrei potuto immaginare quello che sarebbe accaduto». Così raccontano Piero, Francesca, Roberto, Caterina (sono nomi di comodo) e centinaia di altri ospiti di talk show che preferiscono mantenere l’anonimato, perché l’umiliazione è ancora troppo forte. Ministri, soubrette, scrittrici, campioni dello sport: Sgarbi non fa eccezione, colpisce alla cieca, chi c’è c’è. Senza preavviso, a un tratto comincia a urlare come un ossesso, con gli occhi fuori dalle orbite e un sinistro aerosol di sputacchi che invade lo studio televisivo. Esperienza tremenda per gli ospiti in studio, per il conduttore, per i cameramen, ma anche per le gente a casa, specialmente i bambini. Come è tipico delle vittime di molestie, molti si sentono colpevoli: «Perché avevo accettato di partecipare a un talk show? Mi sentivo sporco anche io…». Gli psicologhi, in casi come questo, tendono a confermare il paziente nel suo senso di colpa. Come per gli autovelox, sono in vendita macchinette che rivelano la presenza di Sgarbi lungo i palinsesti, ma basta un attimo di distrazione per incappare in un suo primo piano mentre urla a perdifiato. Il caso Berlusconi Anni di governo catastrofico, Mediaset con i palinsesti fermi al 1987, il Milan svenduto a una società di scatole cinesi l’ultima delle quali ha sede a Caserta, una fedina penale lunga chilometri e due matrimoni fallimentari alle spalle: eppure Berlusconi, ormai da trent’anni, appare sorridendo in televisione, nelle piazze, nei supermercati, ovunque, proponendosi come l’uomo ideale per le italiane e gli italiani. Il lifting, che ormai lo ha lignificato come la Marionetta Assassina nei film dell’orrore, lo rende ancora più sinistro. Molestatore seriale, con le tipiche turbe del caso (esibizionismo, ego ipertrofico, spiritosaggini a raffica), ha sempre contato soprattutto sulla inconsistenza psichica delle sue vittime, e per questo ha buone probabilità di rivincere le elezioni.

Capra in rapido avvicinamento. Non ritengo nessuno indegno della mia ira. Serra lo sa, ma temeva di esserne escluso, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 9/11/2017, su "Il Giornale". Sicuro che non l'avrei letto, nella sua scomoda e impervia Amaca sopra la testata di Repubblica, Michele Serra, il Severgnini della sinistra radical-chic, uscendo dal suo torpore, mi ha risposto su L'Espresso, morbosamente attratto da me, nella sua insulsa rubrichetta di «satira preventiva» (e per ciò stesso inefficace): «Allarme molestie: c'è Sgarbi in tv». È tenero, non graffia. Prende le distanze, con saggezza, definendo i miei interventi televisivi «un'esperienza tremenda per gli ospiti in studio, per i conduttori, per i cameraman, ma anche per la gente a casa, specialmente i bambini». Preoccupato. Protettivo. Preventivo. Neanche si immagina, lui così soporifero, addormentato nella sua remota Amaca, quanto si divertano i bambini con me. Mi fermano per strada, mi sorridono, con i loro compiacenti genitori, e mi chiedono di fare il cattivo, di urlare: «Capra!». Un rapporto di famigliarità, di curiosità, quasi affettivo. Si ride, si scherza. Quello che a lui non è consentito, nella sua boriosa serietà. Non sa cosa si perde, nel suo triste anonimato, mentre sta lassù lassù. Presto lo tireranno giù. Ma sappia che io non lo dimentico. Non ritengo nessuno indegno della mia ira. Serra lo sa, ma temeva di esserne escluso, di essere dimenticato, di passare inosservato: «Sgarbi non fa eccezione, colpisce alla cieca, chi c'è c'è. Senza preavviso, a un tratto comincia a urlare come un ossesso, con gli occhi fuori dalle orbite...». Tranquillo, arrivo! 

MOLESTIA O CALUNNIA? MOLESTIA O ESIBIZIONISMO?

Molestie, l'accusa di Uma Thurman: "Weinstein aggredì anche me", scrive "La Repubblica" il 3 febbraio 2018. Dopo lo sfogo nel novembre scorso, l'attrice racconta nei particolari la sua esperienza personale. E coinvolge anche Tarantino, che sul set di 'Kill Bill' l'ha costretta a una scena pericolosa: su un'auto andò a sbattere contro un albero. Il produttore nega e si dichiara pronto a far causa. Quando è scoppiato lo scandalo sulle molestie sessuali a Hollywood, Uma Thurman si è limitata a uno sfogo su Twitter in cui augurava una "lenta agonia" a Harvey Weinstein. Sempre lo scorso novembre, da un red carpet, ha parlato nuovamente del produttore, ormai caduto in disgrazia, dicendo solo "Non meriti neanche un proiettile", e aggiungendo poi: "Sono troppo arrabbiata per commentare, lo farò quando mi sarò calmata". Ora, dopo aver minacciato una "vendetta fredda", l'attrice di Pulp Fiction e dei due Kill Bill ha confidato le sue esperienze alla columnist Maureen Dowd del New York Times coinvolgendo, in una spirale di aggressioni e minacce, non solo l'ex boss di Miramax, ma anche Quentin Tarantino di cui è stata la musa e che l'ha resa famosa. Il regista rifiuta di commentare le parole dell'attrice. Harvey Weinstein invece nega ogni accusa e attraverso il suo legale fa sapere che sta considerando di querelare Uma Thurman per le dichiarazioni rilasciate al quotidiano. "I complicati sentimenti che ho su Harvey riflettono quanto mi sento in colpa per le donne aggredite dopo di me", ha detto la 47enne diva. "Io sono una delle ragioni per cui una ragazza entrava nella sua stanza da sola, proprio come me". Completa dell'accappatoio bianco "canonico" di tanti altri casi venuti in luce da quando, in ottobre, il New York Times e il New Yorker hanno messo Weinstein sotto inchiesta per decine di molestie e stupri, l'esperienza di Uma con il produttore ricalca un copione ormai tristemente noto in cui l'attrice coinvolge la sua ex agenzia Caa, "complice del comportamento predatorio di Weinstein". Nel 1994 al Savoy di Londra, poco dopo la "prima" di Pulp Fiction, Weinstein "mi sbattè sul letto. Cercò di spingersi dentro di me e di calarsi i pantaloni. Non mi violentò, ma era come se fossi stata un animale che cercava di liberarsi", ha raccontato. Sempre al Savoy, qualche giorno dopo, il secondo episodio. Dopo aver ricevuto un mazzo di "volgari" rose gialle e pressanti richieste delle assistenti del produttore di discutere con lui altri progetti, Uma era andata all'appuntamento accompagnata da una amica. L'attrice non ha memoria di quanto accaduto, ma l'amica, Ilona Herman, che l'aspettava nella lobby per un tempo che "sembrava un'eternità", ha raccontato che Uma uscì dall'ascensore "scarmigliata, sconvolta, con lo sguardo perso nel vuoto". A casa, quando fu di nuovo in grado di parlare, disse che Weinstein "l'aveva minacciata di deragliare la sua carriera". L'animosità di Harvey contro Uma infettò anche il rapporto con Quentin Tarantino: dal racconto della diva il regista mise a rischio anche la sua vita sul set. Durante le riprese di Kill Bill in Messico, Quentin costrinse Uma, malgrado le sue obiezioni, a guidare una Karmann Ghia pur sapendo che era un catorcio: l'auto andò a sbattere contro un albero provocandole durature lesioni alle gambe e una commozione cerebrale. "Devi andare a 60 chilometri all'ora o i capelli non voleranno come si deve e ti farò ripetere la scena. Ma quell'auto era una cassa da morto. Il sedile non era avvitato e la strada era sterrata e tutta curve", ha raccontato Thurman, che solo di recente ha ottenuto da Tarantino il video dell'incidente e lo ha consegnato alla polizia. Il legale del produttore, Ben Brafman, nega ogni accusa nei confronti del suo assistito. Brafman riferisce che è a conoscenza dell'incontro "imbarazzante" nell'hotel di Londra, ma nega ci sia stata un'aggressione sessuale nei confronti di Uma Thurman. Il legale dice che Weinstein è "sbalordito e rattristato" dalle parole dell'attrice e sottolinea poi che non si spiega perché abbia aspettato 25 anni per denunciare l'episodio.

Uma Thurman su Weinstein: “Aggredì anche me”. E di Tarantino dice: “Mise a rischio la mia vita sul set di Kill Bill”. L'attrice sul New York Times rompe il silenzio sul produttore hollywoodiano finito al centro del caso molestie. Nella suite di un albergo di Londra, dice, "mi ha sbattuta giù. Ha provato a lanciarsi su di me e a mettersi nudo". Infine il capitolo Tarantino: per l'interprete di Pulp fiction, la conseguente animosità nei rapporti fra lei e Weinstein ebbe un riflesso nel rapporto con il regista, scrive Il Fatto Quotidiano il 4 febbraio 2018. Anche Uma Thurman è stata aggredita da Harvey Weinstein. In una lunga intervista rilasciata al New York Times l’attrice rivela le molestie subite dal produttore hollywoodiano e spiega che la tensione scaturita fra lei e Weinstein intaccò anche il rapporto con Quentin Tarantino. L’aggressione avvenne dopo l’uscita di Pulp Fiction del 1994 e poco prima delle riprese di Kill Bill: Vol. 1, poi uscito nel 2003, che Tarantino diresse e che fu prodotto da Miramax, allora guidata da Weinstein. Dopo un appuntamento di lavoro avuto a Parigi in una camera d’albergo, il produttore ora travolto dallo scandalo molestie invitò l’attrice in una suite del Savoy hotel di Londra. Thurman racconta che nella capitale francese, quando discutevano di una sceneggiatura, a un certo punto Weinstein era venuto fuori in accappatoio: “Non mi sono sentita minacciata”, dice l’attrice, che riferisce di aver pensato a lui come a uno “zio eccentrico”; l’aveva poi invitata a seguirlo fino a una sauna, dove però la star di Kill bill era completamente vestita e gli disse che la situazione era “ridicola”, prima che lui andasse via. Fu nel successivo incontro nell’albergo di Londra che avvenne il primo “attacco”: “Mi ha sbattuta giù. Ha provato a lanciarsi su di me e a mettersi nudo. Ha fatto ogni tipo di cose sgradevoli. Ma in realtà non mi violentò. Era come se fossi un animale che provava a sfuggire via, come una lucertola”, ricorda Uma Thurman. Racconta poi che il giorno dopo, nella casa in cui alloggiava a Fulham con l’amica Ilona Herman, che successivamente lavorò con lei in Kill Bill, le fu recapitato quello che definisce “un volgare mazzo di rose” gialle. “Aprii il biglietto come se fosse un pannolino sporco e diceva solo ‘Hai dei grandi istinti'”. Poi arrivarono le insistenti chiamate delle assistenti di Weinstein per un nuovo incontro. L’attrice chiese di fare l’incontro di lavoro nel bar del Savoy e portò con sé l’amica, ma in qualche modo dice che le assistenti riuscirono a convincerla a salire su. Herman racconta al Nyt che, quando l’ascensore tornò giù, Thurman era “scompigliata” e “totalmente fuori controllo”; poi le riferì che Weinstein l’aveva minacciata di far deragliare la sua carriera. Il quotidiano newyorkese riporta il commento affidato da Weinstein a un portavoce: “Il signor Weinstein riconosce di avere fatto delle avance alla signora Thurman dopo avere mal interpretato il suo comportamento a Parigi. Si è immediatamente scusato”, recita la nota. Infine il capitolo Tarantino: per l’attrice, la conseguente animosità nei rapporti fra lei e Weinstein ebbe un riflesso nel rapporto con il regista. E Uma Thurman accusa Tarantino di avere messo a rischio la sua vita sul set di Kill Bill in Messico, pressandola a suo dire contro le sue obiezioni a guidare un’auto che non era in buone condizioni e che andò poi a sbattere contro una palma, incidente in cui l’attrice rimase ferita. Thurman riferisce di essere riuscita solo da poco il video di quell’incidente, che il New York Times pubblica. “Il sentimento complesso che ho su Weinstein deriva da quanto male mi sento per tutte le donne che sono state attaccate dopo di me”, afferma Thurman. “Io sono una delle ragioni per cui una giovane donna ha potuto entrare nella sua stanza sola, come io ho fatto”. A ottobre a Broadway l’attrice aveva detto che avrebbe commentato lo scandalo Weinstein quando si sarebbe sentita meno arrabbiata. Poi il Giorno del ringraziamento, il 23 novembre, aveva scritto su Instagram degli auguri aggiungendo: “Tranne che a te Harvey, e a tutti i tuoi perfidi cospiratori – sono contenta che tutto stia procedendo lentamente – non ti meriti un proiettile. Stay tuned!”.

Rose McGowan, la "martire" di cui il femminismo non sentiva il bisogno. L'attrice a caccia di fama pubblica una biografia infarcita di aneddoti incoerenti che vorrebbero stigmatizzare il sessismo di Hollywood. E in tv, tra le lacrime, supplica il pubblico di considerarla una vittima, scrive Manuel Peruzzo l'1 Febbraio 2018 su “Il Foglio”. Rose McGowan ha sempre saputo che sarebbe stata famosa. Nel recente memoir “Brave” lo ammette in un paragrafo in cui racconta l’infanzia tra i Bambini di Dio, una setta internazionale con una sede anche a Certaldo (Firenze) nata negli anni Settanta da un ciarlatano, David Berg, che professava il sesso come salvezza. A questo punto sappiamo che: passava le giornate in una comune, condividendo gli spazi con tanti bambini e donne con i peli sulle gambe le quali idolatravano gli uomini; andava in gita a Roma facendo elemosina in sandali francescani per poi ottenere cibo; veniva spesso picchiata. Un giorno gli adulti sghignazzano a tavola e solo a fine pasto le raccontano che le hanno servito il suo agnellino, l’unico amico che aveva. Il padre porterà via lei e i suoi fratelli di lì quando Berg inizierà a incitare alla pedofilia. Quel che sembra un brutto film di Lars Von Trier è il ricordo di aneddoti sconnessi per arrivare al punto: sono sopravvissuta a una setta e sono finita per essere imprigionata in un’altra, Hollywood. Nella quarta di copertina, McGowan è presentata come una scrittrice, una regista, un’artista musicale, ex attrice, imprenditrice e femminista/attivista gola profonda. Manca madre dei draghi e c’è tutto, ma nessuno di questi motivi è quello per cui è vagamente famosa: aver interpretato una strega, Paige Matthews, quando Shannen Doherty ha lasciato Charmed (Streghe). Nel libro racconta di quanto fosse un martirio dover memorizzare le battute, e di come Aaron Spelling e i produttori la guardassero come un’aliena: forse perché per sua stessa ammissione non aveva mai fatto televisione, non conosceva la serie, era reduce da alcuni film per adolescenti negli anni Novanta. Anche se lei crede fosse per la discrasia tra un corpo incredibilmente sexy e un modo di esprimersi che non lo era. "Brave", definito come crudo, onesto e commovente memoir/manifesto, è pieno di incoerenze. Racconta di un’infanzia d’abusi ma ci tiene a restituirci una Toscana da cartolina, tra fienili ulivi e spaghetti; di una adolescenza passata a difendersi per poi essere Pollyanna a Hollywood; di tagliarsi i capelli per non compiacere i canoni estetici imposti alle donne ma tenendo le protesi al seno e i cerotti anti-occhiaia; si racconta come una vittima della sessualizzazione ma tutti la ricordiamo per il nude-look agli Mtv VMA, col fidanzato Marilyn Manson: a quel tempo era “coraggiosa” per aver mostrato il culo “per divertimento”, come rivela a Roseanne Barr, ma oggi scrive che era una sfida a Hollywood, la quale sarà pure “lastricata di corpi di donne”, ma è dove Rose McGowan ha cercato d’entrare per una vita. Il modello intellettuale esibito è Frances Farmer, l’attrice problematica che subì la psichiatria degli anni in cui si credeva nell’elettroshock; i suoi modelli occulti sono: il soldato Jane, Marilyn Monroe e Pippicalzelunghe. Non c’è una sola frase in tutto “Brave” che sia d’aiuto all’emancipazione femminile. È la tendenza, sempre più viva negli ultimi anni, a considerare le nostre vite estremamente interessanti anche quando non lo sono. La genesi travagliata del libro raccontata nella prefazione, una via di mezzo tra il Codice Da Vinci di Dan Brown e 24, con le spie israeliane che la perseguitano per strapparle il prezioso manoscritto e tentare di ucciderla, sembra ancora più lunare considerato quello che effettivamente dice: cose che si possono leggere ovunque, e che hanno detto altre donne prima di lei. Mancano riferimenti intellettuali e politici solidi, sostituiti ovunque dalla propria autobiografia: se vi chiedete se il pugno nelle foto sia più omaggio ai Black Panther o più socialismo ve lo diciamo noi: nessuno dei due. McGowan sostiene che il padre le ha raccontato di essere nata con il pugno alzato, chissà che dolori per la madre. Rose McGowan crede che la sua figura sia così nota che non perde tempo a contestualizzarla, così la si vede piangere e citare Weinstein senza che si capisca mai bene perché (spoiler: le ha fatto sesso orale non consenziente). “Citizen Rose” va in onda su E!, il canale delle biografie hollywoodiane (e già che l’attivismo si faccia sul canale in cui vanno in onda le Kardashian, suo idolo polemico nel libro, è ironico). È una docu-serie in cinque episodi molto ben pagata. Tolte le parti in cui McGowan piange o parla di sé non rimangono che i titoli di coda. La si vede parlare a un convegno #MeToo e sostenere il proprio hashtag #RoseArmy, l’esercito immaginario, dire di avere le spine, promuovere il proprio memoir, terminare l'arringa con: “Sono Rose McGowan, e sono come voi”. Tuttavia l'unica scena in cui è più autenticamente felice è quando l'edicolante la vede sul New York Times e lei lo abbraccia tra le lacrime: un riconoscimento. Il dubbio è che McGowan abbia più bisogno di una buona terapia che di fare da leader a un movimento civile. La puntata pilota si conclude con l'incontro con altre donne sconosciute identificate nel sottopancia, con l'uomo che le ha molestate: se c'è un'immagine simbolica più rappresentativa del fallimento dell'empowerment è questa. Persino Asia Argento cerca di dirle "non sei una vittima, sei vittoriosa", ma lei risponde tra le lacrime di tenerci a esserlo. Ha sempre voluto essere famosa, non leviamole l'unico motivo che le è rimasto per esserlo.

ROSE MCGOWAN: "IO SONO L'ARCHITETTO DELLE ACCUSE CONTRO HARVEY WEINSTEIN". L'attrice, impegnata nella promozione del suo memoir, respinge le dichiarazioni del produttore lanciando un nuovo attacco, scrive Valentina D'Amico l'1 febbraio 2018 su "movieplayer.it". Dopo essere apparsa a Good Morning America e The View per promuovere il suo memoir, Brave, Rose McGowan ha fatto tappa al The Late Show di Stephen Colbert per parlare delle accuse contro Harvey Weinstein. La McGowan, vestita di arancione, ha parlato del libro in cui racconta nei dettagli l'assalto sessuale di Weinstein e della nuova serie E! Citizen Rose. "Questo era il soprannome che mi aveva dato mio padre" così l'attrice ha motivato il titolo del memoir. Quando Colbert ha chiesto a Rose McGowan di parlare della sua infanzia in una setta, decisione presa dal padre, lei ha risposto: "Credeva che fosse una buona alternativa alla merda in cui viviamo tutti, e forse aveva ragione. L'attrice ha poi aggiunto di essere "l'architetto delle accuse contro Weinstein e del movimento #MeToo". Pochi giorni fa Harvey Weinstein, tramite il suo legale, ha smentito pubblicamente la ricostruzione della violenza sessuale raccontata dalla McGowan nel suo memoir citando due testimonianze. Weinstein ha allegato al comunicato con cui ricusa la narrazione dell'attrice le email dell'allora manger Jill Messick e di Ben Affleck, avvertiti immediatamente - a detta della McGowan - della violenza. A novembre Ben Affleck aveva commentato pubblicamente specificando di sostenere la collega, ma l'email inviata a Weinstein a luglio contraddice le sue dichiarazioni. La risposta di Rose McGowan non si è certo fatta attendere. "Mr. Weinstein ha usato il suo potere per violare Rose in tutti i modi, anche utilizzando tattiche di spionaggio per coprire i propri crimini. Questo è un affronto non solo a Rose, ma alle centinaia di donne che hanno raccontato le loro vicende di molestie, abusi sessuali e violenza perpetrate da Mr. Weinstein. Questo è un sessismo patetico, triste e fuori moda di nascondere la verità ovvia e questa violenza psicologica non sarà più tollerata. L'uso delle email di Jill Messick e Ben Affleck dimostra che Weinstein tentava già da tempo di influenzare potenziali testimoni". Molto meno diplomatica la reazione dell'attrice su Twitter.

Harvey Weinstein, molestie sessuali. Smentite le accuse di Sandeep Rehal: "Risponderemo nelle sedi appropriate". Harvey Weinstein: Sandeep Rehal, ex dipendente del produttore cinematografico, ha raccontato i lavori degradanti che era costretta a svolgere e le molestie subite, scrive il 31 gennaio 2018 Dario D'Angelo su "Il Sussidiario". Non c'è limite alle accuse contro Harvey Weinstein, che negli ultimi giorni ha visto aggiungersi al coro delle sue vittime anche la ex dipendente Sandeep Rehal: la donna ha raccontato in modo pericolosamente dettagliato le pratiche alle quali era costretta dal 2013 al 2015, periodo nel quale collaborava all'interno degli uffici newyorkesi della 'The Weinstein Company'. Nella sua denuncia, la Rehal chiama in causa ben 15 capi di accusa contro il suo ex datore di lavoro tra i quali la raccolta di preservativi usati e la raccolta della lista delle conoscenze di Weinstein, alla quale doveva aggiungere un asterisco nel caso di partner sessuali. Parole che gettano nuovamente fango sul produttore cinematografico che dallo scorso novembre, mese nel quale è scoppiato lo scandalo molestie, è stato accusato da decide di donne di stupro, violenza e molto altro. Di fronte alle nuove dichiarazioni, però, la portavoce Holly Baird ha messo ancora una volta le cose in chiaro: "Risponderemo nelle sedi appropriate dimostrando che queste ‘prove’ non sono vere". (Agg. di Dorigo Annalisa)

L'ACCUSA DI ANNE HECHE. I problemi di Harvey Weinstein continuano ad aumentare, oltre all'ultima uscita dell'assistente, c'è stata infatti l'accusa dell'attrice Anne Heche. L'attrice ha infatti svelato di essere stata licenziata da un progetto riguardante la Miramax dopo essersi rifiutata di avere un rapporto orale con il produttore. L'attrice ha sostenuto di non aver avuto nessun rapporto sessuale con Weinstein riuscendo ad uscire dalla stanza prima che ci fosse alcun tipo di contatto fisico. La non denuncia è avvenuta per la paura di eventuali ripercussioni e per la capacità di Weinstein nel minacciare le vittime. Paure che hanno bloccate parecchie presunte vittime del produttore che vede la sua posizione sempre più precaria viste le accuse che aumentano con il tempo. Ultima quella della sua assistente, vedremo come finirà questa situazione.

La nuova smentita del produttore. Emergono altri dettagli legati alla denuncia di Sandeep Rehal nei confronti di Harvey Weinstein. Se negli ultimi mesi, l'uomo è stato al centro di una serie quasi infinita di scandali e accuse, la sua storia ha dato il via a numerose altre accuse che sono emerse nel corso delle settimane successive. Tra queste, le parole di Sandeep, ex dipendente del produttore americano, racchiuse in circa 11 pagine di deposizioni. La donna ha raccontato che, oltre a pratiche comuni come l'aiuto con la posta elettronica e lo shopping, era costretta ad altre mansioni decisamente non ordinarie, nel corso dei due anni di lavoro con l'uomo, dal 2013 al 2015. Oltre alle già citate questioni del divano (che doveva essere pulito dallo sperma del suo capo) e alla scorta di Caverject, medicinale per le disfunzioni erettili, era costretta anche a scrivere ed inviare mail mentre il suo datore di lavoro era senza abiti, accanto a lui, in ufficio. I legali dell'uomo smentiscono queste accuse e dichiarano: "Le prove mostreranno che queste affermazioni, per soldi, sono nel regno di un film di fantascienza". Ma, nel frattempo, la Miramax sta pensando a cambiare nome della società, proprio per prendere più possibile distanza dall'associazione, ormai tossica, con il nome di Weinstein. (Agg. Alberto Graziola)

LE ACCUSE DELL'EX DIPENDENTE. Non c'era bisogno di Sandeep Rehal, ex dipendente di Harvey Weinstein, per venire a conoscenza del fatto che il produttore accusato di molestie da decine di donne fosse una specie di mostro. Ma dopo la sua denuncia c'è un motivo in più - se le accuse verranno confermate - per stigmatizzare l'atteggiamento di questo molestatore seriale. Stando al racconto della 30enne di origini californiane, inserita dal 2013 al 2015 nell’organigramma degli uffici newyorchesi della The Weinstein Company, Weinstein l'avrebbe costretta a svolgere delle mansioni a dir poco degradanti. L'elenco comprende la pulizia del divano dallo sperma, la raccolta dei preservativi utilizzati dal produttore, la gestione della fornitura di farmaci iniettabili per la disfunzione erettile (Caverject) e il mantenimento della rubrica - con tanto di asterischi - per prendere nota delle sue partner sessuali. Ma purtroppo c'è di più: la Rehal avrebbe anche subito diversi palpeggiamenti oltre che essere stata destinataria di un linguaggio a dir poco scurrile. Insomma, un vero e proprio incubo nella tana dell'orco.

LA DENUNCIA. La legale della Rehal, Genie Harrison, nel ricordare che la sua cliente si è dovuta licenziare nel 2015 dalla Weinstein Company e che da quel momento soffre di una grave forma di "stress emotivo", ha dichiarato: "Dire che il comportamento di Weinstein nei confronti della mia assistita fosse dannoso, osceno, umiliante e offensivo è un eufemismo". D'altra parte c'è da registrare la replica dello staff di Weinstein. La portavoce Holly Baird, ha infatti smentito categoricamente tutte le accuse: "Risponderemo nelle sedi appropriate dimostrando che queste ‘prove’ non sono vere", ha detto. Nel tritacarne sono finiti anche Robert, fratello di Harvey Weinstein e il responsabile del settore risorse umane della TWC, Frank Gil. A detta della dipendente, la regolare frequentazione di quegli uffici da parte dei due gli ha fatto meritare nella denuncia il ruolo di co-imputati. In attesa di conferme il sentimento che ha il sopravvento è il disgusto.

Scandalo Weinstein: per la prima volta parla il produttore. Accusato da decine di attrici di molestie sessuali Harvey Weinstein si proclama innocente e dice: "Erano consenzienti", scrive Barbara Massaro il 31 gennaio 2018. Nonostante siano più di 80 le donne che hanno denunciato l'ex produttore cinematografico Harvey Weinstein accusandolo di averle molestate se non violentate il diretto interessato minimizza e, dopo mesi passati lontano dal mondo dello spettacolo, ha rotto il silenzio.

Il comunicato di Weinstein. Lo ha fatto tramite il suo avvocato Ben Brafman con un comunicato che coinvolge direttamente Rose McGowan la donna che ha mosso la prima tessera del mosaico intessuto da Weinstein in più di 20 anni di carriera e che ha permesso alle altre di uscire allo scoperto superando vergogna e pudore. "Generalmente Harvey Weinstein e il suo avvocato hanno evitato di criticare pubblicamente le donne che lo hanno accusato di molestie sessuali nonostante le prove che dimostreranno la falsità di tali accuse - si legge nel comunicato - Guardare la performance di Rose McGowan mentre promuove il suo nuovo libro, però, ha reso impossibile rimanere in silenzio mentre cerca di infangare il signor Weinstein con una grande bugia, negata non solo da Weinstein stesso, ma anche da due testimoni come la manager della signorina McGowan di quel tempo, al quale aveva raccontato l’accaduto nel 1997 come atto consensuale che ora descrive come stupro, e l’attore Ben Affleck, al quale la signorina ha detto di aver raccontato l’accaduto il giorno dopo il suo avvenimento".

"Brave". Il libro cui si riferisce Weinstein s'intitola Brave ed è stato scritto da Rose McGowen e appena pubblicato negli States. Il testo racconta, a 20 anni dai fatti, di come Weinstein abbia abusato di Rose e della sua ingenuità durante la fase promozionale della pellicola Going all the way costringendola a subire il suo modus operandi fatto di ricatti e potere. Il New York Times ha pubblicato uno stralcio del libro che narra di come nel 1997, quando Rose aveva solo 23 anni, Weinstein abusò di lei in una vasca idromassaggio. La McGowen racconta di come abbia accettato la violenza "Perché lui finisse presto" e di come, attraverso le lacrime, abbia visto Weinstein gemere e poi lasciarla sola nella vasca. Sempre nello stralcio pubblicato da New York Times si scopre che subito dopo la violenza Rose avrebbe confessato al collega Ben Affleck la dinamica dei fatti e lui avrebbe commentato dicendo: "Maledizione, gli avevo detto di smettere".

La tesi di Weinstein. Secondo Weinstein, invece, Affleck sarebbe un testimone a favore della difesa. Nel comunicato, citando le parole del Premio Oscar, si legge: "Quando ci siamo incontrati il giorno dopo, mi ha raccontato del loro accordo e che durante il loro incontro quella notte lei è andata nella vasca da bagno insieme al signor Weinstein" E poi avrebbe aggiunto: "È stata molto chiara nel descrivere l'ingresso nella vasca come qualcosa che aveva fatto consensualmente ma che col senno di poi era qualcosa di cui si era pentita". Ben Affleck avrebbe difeso il produttore anche in una recente email inviata lo scorso luglio: "Non mi ha mai detto o non ho mai capito che era stata aggredita da qualcuno. Qualsiasi dichiarazione che dice il contrario è falsa. Non ho conoscenza di quello che Rose ha fatto o dice di aver fatto". Rose McGowan non ha preso bene le dichiarazioni di Weinstein e, via Twitter, ha commentato: "Maledetto perdente, brucerai all'inferno".

Sharon Stone: «Le molestie? A 60 anni ho visto di tutto». L'attrice alla domanda inevitabile sul caso Weinstein risponde con una risata. Lunga e spontanea. E poi torna nel 2001, al suo anno più buio scrive il 17 gennaio 2018 Stefania Saltalamacchia su " Vanity fair". Ridere, a volte, è la miglior risposta. E la prima reazione di Sharon Stone, 60 anni il prossimo 10 marzo, alla domanda che da un paio di mesi sembra inevitabile a Hollywood e dintorni è stata questa: una risata, lunga – più di 10 secondi – e spontanea. «Non so come chiederglielo in modo non rude, ma si è mai trovata in una situazione spiacevole?», ha chiesto all’attrice Lee Cowan diCBS Sunday.  E la star di Basic Instinct è scoppiata a ridere. «È una risata isterica, pensa che la stia prendendo in giro o che altro?», la replica del conduttore. Sharon si è fatta più seria: «Sono in questo business da 40 anni… Ha idea di come fosse l’ambiente 40 anni fa? Inoltre, sono arrivata a Hollywood da un paesino sconosciuto della Pennsylvania. Con quest’aspetto e senza alcuna protezione». E ancora, lapidaria: «Ho visto di tutto». Per questo l’attrice, mamma di tre figli (Quinn Kelly, Laird Vonne e Roan Joseph, adottati rispettivamente nel 2000, nel 2005 e nel 2006), oggi sta dalla parte di #MeToo e ha scelto un abito nero agli ultimi Golden Globe per dimostrare il suo sostegno al movimento #TimesUp, che ha già raccolto 13 milioni di dollari per un fondo legale a sostegno delle vittime di molestie sessuali sul posto di lavoro. Stone, inoltre, ha ricordato il suo periodo più difficile: l’emorragia celebrale che l’ha colpita nell’autunno 2001. Quando è rimasta per nove giorni tra la vita e la morte: «C’era solo il 5 per cento di probabilità che riuscissi a sopravvivere, la mia vita era stata annientata». Dopo, la star, ha dovuto «imparare di nuovo tutto». E a Hollywood, ha aggiunto, si è sentita discriminata: «I ruoli da interpretare si sono prosciugati. Nessuno era interessato a una persona a pezzi. Ero sola». Eppure non solo è sopravvissuta a tutto ciò, ma ne è uscita più forte. E oggi? «Mi dedico a tempo pieno a fare la mamma single e a rimettere ordine nella mia vita».

Molestie, Brigitte Bardot: «Le attrici fanno le civette per ottenere la parte». L’ex attrice 83enne in una intervista si scaglia contro l’ondata di denunce «Ipocrite», scrive il 18 gennaio 2018 "Il Corriere della Sera". Anche Brigitte Bardot prende posizione riguardo le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo dopo lo scandalo Weinstein. E come Catherine Deneuve, anche l’ex attrice farà discutere per i giudizi tranchant riguardo le molteplici denunce degli ultimi mesi, denunce che definisce «ipocrite, ridicole e senza interesse». Intervistata dalla rivista Paris Match, in edicola oggi, B.B., 83 anni, ci è andata giù dura affermando che: «Ci sono molte attrici che fanno le civette con i produttori per strappare un ruolo. Poi vengono a raccontare di essere state molestate e tutto questo finisce per nuocere loro». Brigitte Bardot ha spiegato di non essere «mai stata vittima di molestie sessuali» e che anzi trovava «Affascinante che mi dicessero che ero bella o che avevo un bel sederino...questo tipo di complimenti sono piacevoli». Affermazioni che sicuramente non piaceranno alle promotrici della campagna mediatica #metoo lanciata per denunciare le molestie.

Molestie sessuali? “Da donna dico che anche noi possiamo sbagliare…”, scrive Adelaide Tronco, presidente provinciale ENDAS, Associazione nazionale di promozione social, il 5 novembre 2017 su "Il Sud On Line". Non posso esimermi da un commento su quanto sta avvenendo in merito alle denunce per molestie sessuali rivolte da decine di donne contro Harvey Weinstein, Kevin Spacey, James Toback, Brett Ratner ed ora anche Dustin Hoffman. Un inarrestabile tsunami, una valanga che cresce man mano che travolge vite e carriere. Libero subito il campo dagli equivoci e dico che chi subisce violenza fa bene a denunciare…ovvio… è giusto che chi abusa in qualsiasi modo della vita o del corpo di un’altra persona debba essere punito severamente…sicuro! Ma detto ciò non è altrettanto giusto riflettere un po’ sul contesto? È così politicamente scorretto interrogarsi sulle “vittime”, chiedersi il perché di una denuncia avvenuta dopo tanti anni, dopo carriere ben avviate che magari hanno tratto anche beneficio dall’episodio oggi denunciato con tanto sdegno? Credo che il mondo femminile sia ormai maturo, così maturo da poter ammettere che a volte anche noi donne sbagliamo. Sbagliamo, anche in buona fede, a inviare messaggi confusi, sbagliamo nel ritenere che possiamo tutto…in qualsiasi circostanza. È ovvio che in nessun caso si possa essere autorizzato o giustificato a fare del male, ma perché riteniamo di buon senso dire che è quantomeno sconclusionato camminare di notte nei vicoli bui di una qualsiasi metropoli sventolando una borsa o lasciare l’auto senza antifurto mentre non ci è consentito dire che alla stessa ora e nello stesso vicolo è sconsiderato, inopportuno e pericoloso girare non adeguatamente vestite o ubriacarsi ad una festa tra sconosciuti? Mi chiedo perché alcune donne, tra cui anch’io che da giovane frequentavo gli ambienti politici costituiti quasi esclusivamente da uomini – era prima ancora delle quote rosa – non hanno avuto alcun problema? Certo qualche battuta, qualche avance, qualche approccio più o meno elegante c’è stato, ma niente che non si potesse risolvere, contenere, respingere…niente che abbia voluto catalogare tra le “molestie sessuali” dando a tali episodi l’eventuale colpa di una interruzione della carriera politica. Da sola ho scelto come portare avanti la mia carriera e se scegliere un percorso più lungo e difficile ma nel rispetto di me stessa e dei miei principi. Sono sicura che l’autonomia delle donne…anche quella di pensiero…sia sufficientemente matura da poterci porre una domanda…Se un vecchio libidinoso che approfitta di una giovane donna si chiama porco e stupratore…come si chiama chi, pensando che la propria carriera possa essere danneggiata, prima asseconda quel porco per poi denunciarlo quando la carriera è ben al sicuro?

Accuse di molestie, Trump: "Bugiarde, le denuncio tutte". Le donne che accusano Trump di essere state molestate salgono a quota undici. Il candidato repubblicano risponde stizzito: "È tutto inventato, tutto falso. Le porterò in tribunale", scrive Raffaello Binelli, Lunedì 24/10/2016, su "Il Giornale". La lista delle donne che accusano Donald Trump di molestie tocca quota undici, l'ultima è una pornostar.

L'ultima accusatrice. Il candidato repubblicano reagisce con stizza. In un comizio a Gettysburg (Pennsylvania), dove lancia il piano per i primi 100 giorni di governo, la risposta di Trump alle sue accusatrici è durissima: "Sono tutte bugiarde, vengono fuori solo adesso per danneggiare la mia campagna. È tutto inventato, tutto falso. Queste cose non sono mai accadute. Farò causa a ognuna di loro, quando le elezioni saranno finite". L'elenco di queste donne è lungo: Jessica Leeds (manager), Natasha Stoynoff (giornalista People), Karena Virginia (istruttrice yoga), Rachel Crooks (ex receptionist alla Trump Tower). Poi altre donne, tra modelle, partecipanti a concorsi di bellezza e aspiranti attrici: Kristin Anderson, Cathy Heller, Temple Taggart McDowell, Mindy McGillivray, Rachel Crooks, Jill Harth, Summer Zervos. Infine Jessica Drake, attrice di film hard. Quest'ultima si è presentata in conferenza stampa (guarda le foto) a fianco dell'avvocato Gloria Allred, nota esperta di discriminazione che ha già affiancato alcune altre accusatrici del tycoon. La Drake ha raccontato che Trump insistette in modi inappropriati per fare sesso con lei, 10 anni fa, quando lo incontrò a un torneo di golf, a Lake Tahoe nel 2006. Il tycoon le offrì anche 10mila dollari per andare a letto con lui e l'uso del suo jet privato per raggiungerlo, proposte che la donna rifiutò. Secondo l'attrice, Trump "palpeggiò" lei e un'altra donna, baciandole inoltre senza il loro consenso.

Lo staff di Trump: "Siamo indietro ma non è finita". La responsabile della campagna di Trump, Kellyanne Conway, dice che "la sfida non è finita. Molti nei media dicono che è finita. Per l'ennesima volta, mettono da parte Trump", che attualmente è "indietro" rispetto alla Clinton. Poi ha sottolineato i vantaggi di cui gode l'ex segretaria di Stato, come l'appoggio attivo della first lady Michelle Obama e del vice presidente Joe Biden. La Conway ha annunciato che Trump investirà più denaro negli Stati che considera chiave per vincere, tra cui Florida, Ohio, Iowa, North Carolina e Nevada: "Non rinunceremo, sappiamo che possiamo ancora vincere".

Clinton: "Non rispondo più a Trump". Hillary Clinton, parlando dello sfidante a bordo dell'aereo su cui si sposta per la sua campagna elettorale anticipa che non intende più rispondere a Trump: "Ho discusso con lui per quattro ore e mezza", ora "non penso neppure più a rispondergli", mi concentrerò sui contenuti.

Dieci professioniste svelano le false accuse femminili, scrive il 29 novembre 2009 Stefano Serpellini su "L'Eco di Bergamo". Il testo dell'articolo: «I maltrattamenti in famiglia stanno diventando un'arma di ritorsione per i contenziosi civili durante le separazioni», avverte Carmen Pugliese, pm del pool della Procura specializzato in reati sessuali e familiari, scorrendo i dati che vedono questo tipo di violenza aumentare in maniera significativa. Nella Bergamasca si è passati dai 278 casi del 2006 ai 306 del 2007, fino ai 382 del 2008, in pratica più di una denuncia al giorno. E se è vero che si riscontra una sempre più diffusa propensione da parte di padri e mariti ad alzare le mani, è altrettanto appurato che molte volte le versioni fornite dalle presunte vittime (quasi sempre donne) sono gonfiate ad arte. «Solo in due casi su 10 si tratta di maltrattamenti veri - analizza il pm Pugliese -. Il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione. "Se non mi concedi tot benefici, io ti denuncio", è la minaccia che fanno alcune mogli. Tanto che, una volta ottenuto quello che volevano, tornano in Procura a chiedere di ritirare la denuncia. Non sanno che nel frattempo noi abbiamo speso tempo ed energie per indagare. L'impressione è che alcune mogli tendano a usare pm e polizia giudiziaria come strumento per perseguire i propri interessi economici in fase di separazione». Poche, in percentuale, le inchieste che sfociano in condanna. «Molte volte - rivela il pm Pugliese - siamo noi stessi a chiedere l'archiviazione. In altri casi, invece, si arriva a un processo dove la presunta vittima ridimensiona il proprio racconto. È successo anche che qualche ex moglie sia finita indagata per calunnia». Sono per lo più italiane (mogli di italiani e anche di stranieri) le presunte vittime che si rivolgono alla Procura. Più limitata, invece, la percentuale dei genitori (il più delle volte anziani) presi a botte dai figli. Anche papà e mamme tendono a minimizzare i fatti dopo la denuncia, ma in questo caso lo fanno per amore e non per denaro. Carmen Pugliese una tiratina d'orecchi la riserva anche alle associazioni che operano a tutela delle donne: «Non fanno l'operazione di filtro che dovrebbero fare: incitano le assistite a denunciare, ma poi si disinteressano del percorso giudiziario, di verificare come finirà la vicenda. Mi sembra una difesa indiscriminata della tutela della donna che viene a denunciare i maltrattamenti, senza mettere in conto che questa donna potrebbe sempre cambiare versione». Ovvio che molte volte le violenze si verificano davvero e in modo pesante: «Da noi arrivano donne col volto tumefatto e in alcuni casi contro i mariti emettiamo misure cautelari». Ma talvolta a patire le conseguenze di denunce enfatizzate sono uomini che cascano dalle nuvole. Come quel bergamasco denunciato dalla ex moglie dell'Est che s'era rifugiata in una comunità protetta. Lei lo aveva dipinto come una sorta di persecutore, lui si presentò in Procura a raccontare che il rapporto non era poi così compromesso: i due continuavano a vedersi ogni fine settimana e per provarlo l'ex marito esibì le ricevute del motel. Soldi richiesti e rapporti coniugali deteriorati, soprattutto in tempi di recessione, sono l'impasto che spesso porta davanti a un giudice. Lo si può leggere nelle statistiche dei reati consumati nella Bergamasca nel 2008, alla voce del mancato versamento di alimenti fra coppie separate. Un numero passato dai 278 casi denunciati nel 2006 ai 292 del 2007 per giungere ai 315 dello scorso anno. «E chiaro che separarsi comporta difficoltà economiche - osserva il procuratore Addano Galizzi -. Se poi in famiglia lavora solo il marito, versare gli alimenti alla moglie separata e ai figli diventa un problema quando scatta la cassa integrazione o addirittura il licenziamento, soprattutto in questi periodi di crisi economica diffusa». A volte sono gli inquirenti stessi a mettersi la mano sul cuore: «Se - confessa il pm Pugliese - un ex marito per uno o due mesi non versa gli alimenti e mi documenta che ha perso l'impiego o parte significativa del reddito, io per la denuncia chiedo l'archiviazione».

Jacqueline Monica Magi (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia) su "Criminologia" il 29 gennaio 2009. Onestà intellettuale vuole che oltre a parlare delle violenze atroci subite da tante donne, oltre le violenze quotidiane subite fra le mura domestiche si parli anche dei casi di “false” violenze o meglio di “false” denunce di violenza subita. Potrebbe sembrare incredibile che si possa accusare qualcuno che si sa innocente di un delitto turpe quale quello di violenza sessuale, in particolare quando è perpetrata su un bambino, eppure succede e neanche troppo raramente, secondo la mia opinione. Inutile dire che per l’esperienza fatta le false denunce provengono quasi nella totalità da donne, spesso madri che in tal modo tentano di allontanare gli ex mariti dai figli o peggio credono di vendicarsi di non si sa quali torti subiti durante il matrimonio, senza non solo e non tanto capire che una falsa denuncia è un reato ma soprattutto che in tal modo rovinano in primo luogo la vita dei propri figli, negandogli il padre e distruggendo la possibilità di fare giustizia per i casi di vere violenze. Il reato di violenza sessuale infatti non è sempre di facile prova, non essendo sempre disponibili prove oggettive sia perché non sempre una violenza sessuale lascia tracce, sia perché non sempre la denuncia avviene in tempo utile per raccogliere questo tipo di prove (prove oggettive si intendono tracce di sperma, di peli pubici e tracce organiche in genere). Quando la violenza è avvenuta senza penetrazione o senza eiaculazione o tempo prima della denuncia spesso si dispone della parola della vittima contro quella del denunciato, specie nei casi in cui il soggetto è un bambino. Fortunatamente la moderna scienza psicologica ci fornisce elementi di valutazione tali da capire quando una vittima dice la verità, quando è credibile, quando la completezza della sua condotta dimostra l’essere avvenuto un trauma, a sostegno delle affermazioni delle vittime o delle proclamazioni di innocenza degli indagati-imputati. Inutile dire che la presenza di false denunce aumenta la possibilità per gli indagati-imputati di dichiararsi vittime di un complotto, minando un assetto probatorio, come ora spiegato, di per sé fragile. Fortunatamente nella mia esperienza i casi di false denunce sono anche quelli che hanno un alto tasso di richieste di archiviazione da parte della Procura, anzi devo dire che ho sempre visto scoperti questi casi di false denunce, ma ciò non diminuisce la responsabilità di chi le compie, anche considerato che i tempi comunque lunghi delle indagini non sono semplici da passare per gli indagati innocenti. Voglio raccontare una storia di false denunce. Questa storia è stata modificata nei nomi per evitare che si riconoscano i soggetti e comunque appartiene ad una realtà non toscana, appresa non da esperienza diretta. Anna è una ragazza dall’aspetto angelico e dolce, ma incarna come nessuna il detto “l’acqua cheta rompe i ponti”. In realtà dietro al suo aspetto dolce si nasconde una furbetta che verrà infine incastrata solo dalla sua ignoranza dei meccanismi processuali. Anna è sposata ad un professionista serio e lavora solo part-time da un amico del marito che fa l’avvocato. Il suo tallone d’Achille sono gli uomini, le piacciono e molto e non tanto i noiosi amici del marito e di famiglia, rispettabili e ingessati, quanto i tipi alla Marlon Brando in Fronte del Porto. Sfortunatamente nello studio in cui lavora ha modo di conoscere alcuni soggetti, clienti dell’avvocato appunto, che hanno caratteristiche che ad Anna piacciono molto. Scherza con loro, con alcuni flirta ma talvolta non si limita a flirtare. Sfortunatamente un giorno un “gioco” troppo spinto viene scoperto da un’altra impiegata dello studio: qual è il lampo di genio di Anna? Sostenere che il bello e ombroso cliente la stava violentando. L’accusa pare sostenibile: l’impiegata, l’avvocato, il marito si stringono intorno ad Anna spingendola a querelare, ovviamente in buona fede, credendo ad Anna, essendoci al momento solo la parola di lei contro quella di lui, un pluripregiudicato. Anna cede ai consigli e sporge querela, preoccupata più di far reggere la sua messinscena che della sorte del suo ormai ex-amante. Questi, incredulo, si rivolge a vari avvocati che gli consigliano il patteggiamento finché ne incontra uno che si mette a svolgere indagini difensive, cercando di trovare riscontri a quanto sostenuto dal querelato, ovvero che fra lui e Anna c’era una relazione che durava già da un anno al momento della “presunta” violenza sessuale. L’avvocato in effetti trova vari riscontri alla tesi del denunciato, primo fra tutti gli sms che Anna aveva mandato allo stesso e che lui, romanticamente, conservava, nonché le innumerevoli chiamate giornaliere fra i cellulari dei due protagonisti, che non si potevano giustificare se non con una relazione adulterina, non potendosi pensare ad altro tipo di amicizia di una donna con un soggetto simile. Al processo l’avvocato giocò bene le sue carte e dopo aver interrogato Anna sui suoi rapporti con l’imputato, che essa disse limitarsi alla conoscenza dovuta alla frequentazione dello stesso allo studio, le chiese conto delle telefonate e degli sms, minando completamente la credibilità della stessa, in modo da ingenerare un dubbio tale da far assolvere l’imputato. Superfluo ribadire quanto il comportamento di Anna abbia creato precedenti che possono danneggiare le vittime vere, quelle che la violenza la subiscono ma non hanno prove, quelle che si sentono aggredire in dibattimento da chi si fa forte dell’esistenza delle false denunce e cerca di sostenere che le violenze sessuali non si possono provare in quanto le vittime non sono credibili. Questo tipo di difesa, particolarmente odiosa per chi prima subisce la violenza sessuale e poi si vede costretta a subire una vera e propria “tortura” psicologica al dibattimento (come se la prova di resistenza psicologica al dibattimento possa costituire prova dei fatti, assunto mutuato de plano dalla Santa Inquisizione, evidentemente non del tutto sopita), è la difesa principe di chi è accusato di pedofilia, che ha gioco facile considerando che la giovane età della vittima la pone in una effettiva situazione di inferiorità psicologica già di partenza, situazione di inferiorità poi portata all’eccesso da certi sistemi di interrogatorio. Criminologia.it. Articolo pubblicato in rete il 24/1/2006.

Il Secolo XIX, Il Sole 24 ore del 25 novembre 2009. «Bene ha fatto il legislatore a colmare un vuoto che penalizzava le vittime, tuttavia la norma sullo stalking resta generica e incompleta. E, soprattutto, appaiono difficilmente inquadrabili le condotte che configurano il reato. Senza contare i limiti procedurali: fatta eccezione per alcune fattispecie riconducibili a specifiche aggravanti, l’azione penale può essere avviata solo su querela di parte». A parlare è il pm Barbara Bresci, titolare del maggior numero di fascicoli per stalking aperti dalla Procura di Sanremo Pubblico ministero a Sanremo dal luglio del 2006, la dottoressa Barbara Bresci è il magistrato che dall’introduzione del nuovo reato nel nostro ordinamento (febbraio 2009), ha aperto il più alto numero di fascicoli per stalking. «Eviterei di personalizzare. Meglio illustrare l’argomento attraverso le statistiche che registra complessivamente la Procura di Sanremo,. Statistiche che dicono che dall’applicazione della legge, ovvero negli ultimi otto mesi, sono stati avviati più di sessanta procedimenti, con una media di due denunce a settimana. Non ho idea se si tratti o meno di un record, certo è che i casi sono molti e impegnano in modo crescente i nostri uffici e la polizia giudiziaria». In cosa consiste la «genericità» della norma? «Significa che le procure sono costrette a interpretare la legge, con il rischio di concedere troppo spazio alla discrezionalità. Mi spiego. Il legislatore stabilisce che i presupposti che configurano il reato di stalking sono sostanzialmente tre, ovvero che la presunta vittima, a seguito di pressioni, persecuzioni, minacce, violenze e quant’altro, viva una condizione di ansia, abbia timore per la propria incolumità e che a causa delle condotte dello “stalker” venga costretta a modificare le sue abitudini di vita e di relazione. Inoltre, la legge parla di condotte reiterate, senza fornire parametri di riferimento precisi e omogenei. In questo modo diventa difficile inquadrare lo stalking e diversificare il reato rispetto alle singole contestazioni di molestie e maltrattamenti in famiglia. Per non parlare, poi, dei rischi di strumentalizzazione della giustizia penale, che aumentano in maniera proporzionale all’incremento dei fascicoli per stalking». Vuole dire che molte vittime non sono tali? «Spiace constatarlo, ma è così. Sempre più spesso si ricorre alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento. Non sono rari i casi che, a controversia sanata, le querele vengano rimesse, con buona pace per le risorse professionali ed economiche investite dagli inquirenti allo scopo di istruire i fascicoli e raccogliere gli elementi probatori a carico degli indagati». Ciò non significa che la legge sia sbagliata, o meglio che siano sbagliati i valori che l’hanno ispirata. «Naturalmente no. Lo ripeto c’era e c’è un grande bisogno di norme a tutela delle donne. Significa però che occorre modificare la legge sullo stalking e integrarla, fornendo alle procure strumenti interpretativi più univoci ed efficaci. Aggiungerei anche un altro suggerimento. Quello di introdurre la procedibilità d’ufficio. In questo modo si creerebbero le condizioni per favorire una pre-selezione delle denunce. Insomma, una sorta di deterrente nei confronti di chi intende strumentalizzare lo stalking. Inoltre si eviterebbe che sua durante la fase istruttoria che addirittura al dibattimento, le vittime, su pressione dell’imputato, rimettano la querela». Capita spesso? «Purtroppo sì. Anche in casi molto gravi, che in precedenza avevano portato all’emissione di una misura cautelare. Per ovvi motivi di riservatezza non posso entrare nel merito dei singoli episodi, ma ancora di recente mi è stato comunicato dal difensore e dalla parte civile che una coppia ha espresso la volontà di tornare insieme dopo che, durante l’indagine, avevamo accertato episodi gravissimi a carico dell’uomo». In questi casi si può procedere per calunnia? «Solo quando le accuse della vittima si dimostrato totalmente infondate. Ma quando lo stalking è reale, supportato da inequivocabili riscontri probatori, non si può fare altro che prendere atto della volontà manifestata dai due soggetti e archiviare il procedimento». E’ altrettanto vero che cominciano a fare statistica anche le prime condanne. «Sì, ma la legge sullo stalking è molto recente e nella maggior parte dei casi i procedimenti sono ancora in fase istruttoria. Occorrerà ancora un po’ di tempo prima che si vada a regime. Solo allora potremo avere un quadro più attendibile. Posso dire, però, che l’eccessiva discrezionalità della norma ha conseguenza negative anche in sede di giudizio. Non sono rari i casi in cui è stato riqualificato il capo d’imputazione o che il giudice abbia derubricato lo stalking». In ultimo, capitolo intercettazioni. Sono possibili per lo stalking? «Lo sono, ma solo a determinate condizioni. Cioè quando si prospettano delle aggravanti, in particolare quando il reato è commesso ai danni di una minore, di una disabile o di una donna in gravidanza. Oppure quando le condotte dell’indagato sfocino in conclamate e reiterate forme di violenza fisica o sessuale. Ma anche qui la norma è generica: come si quantifica la condotta reiterata. Forse che una donna debba essere massacrata di botte più di una volta per essere considerata vittima di stalking?».

L’accusa di violenza sessuale è il modo più facile per estromettere a lungo tempo il padre dalla vita dei figli. La donna non solo si libera del partner come coniuge ma anche come padre, facendolo uscire definitivamente dalla sua vita. Maria Carolina Palma, CTU c/o Trib. Palermo – L’Opinione, 13 aprile 2009

…le false accuse di maltrattamenti, percosse, abusi sessuali e violenze di vario genere - le querele costruite al solo scopo di eliminare l’ex marito dalla vita dei figli - oscillano nelle procure italiane da un minimo del 70 ad un massimo del 95%…Sara Pezzuolo, Psicologa – Ass. Naz. Familiaristi Italiani, Firenze, 29 aprile 2010.

Se ci sono i minori in ballo, si mettono in atto dinamiche crudeli: le donne avanzano false denunce di maltrattamenti o molestie sui figli a scapito del coniuge, per togliere a quest'ultimo la patria potestà. Cristina Nicolini, avvocato – RSM, 4 febbraio 2010.

…credo che la tendenza stia crescendo [...] ad adottare questi sotterfugi sono tutte donne: se la separazione è in corso, non ci sono strumenti prima dell'udienza per allontanare uno dei due genitori da casa. L'ordine di allontanamento giunge solo in caso di violenza fisica, ed ecco perché arrivano le denunce verso i mariti, per la maggior parte dei casi inventate. Clara Cirillo, presidente AGI (Associazione Giuriste Italiane), 4 febbraio 2010.

Queste accuse (violenze, percosse, abusi sessuali, NDA) a volte hanno un fondamento di verità, a volte però sono la proiezione e l’attribuzione all’altro coniuge di proprie fantasie o paure, percepite come reali, altre volte sono invece una accusa consapevolmente espressa, anche se non vera, utilizzata per colpire, aggredire e danneggiare l’ex marito. Marina Monti 24 febbraio 2010.

Tanto per cambiare, il “vizietto” nostrano di approfittare della legge, quando c’è, proprio non vuole morire. E, tra un reato di stalking e l’altro, spesso se ne configura un terzo, legato al mero interesse economico della presunta vittima di molestie. Non è un caso che spesso si ricorra alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento. Valentina Noseda, giornalista e consulente RAI – 2 marzo 2010.

…una ricerca che sto pubblicando con il Prof. Giovanni Camerini della Cattedra di NPI a Modena, relativa ad una casistica di 60 denunce di abuso sessuale all'interno di separazioni conflittuali, porta ai seguenti risultati: 3 casi di condanna, i rimanenti 57 esitati in archiviazione, proscioglimento in istruttoria o assoluzione perché il fatto non sussiste. Sarebbe utile indagare sulle conseguenze, non solo per gli adulti ma per gli stessi bambini, di questi coinvolgimenti in denunce infondate. Occorre più ricerca sull’uso strumentale delle denunce di abusi, oltre ad un’inchiesta sul modus operandi dei centri che le favoriscono…Benedetta Priscitelli, neuropsichiatria infantile, Modena.

Le donne che mentono creano un danno alle vere vittime di violenza, scrive Eretica il 14 settembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Alcune persone hanno tentato di dirci che ci sono donne che usano le “false accuse” per vendicarsi dei loro ex fidanzati o mariti. Chi parla di questo fenomeno lo associa alla controversa questione dell’affido condiviso che ha reso un po’ più difficile alle donne allontanarsi, cambiare Stato o città, con figli appresso, senza tenere conto del diritto dei bambini di vedere anche il padre. Discutevo ora con una ragazza che mi raccontava di una tizia che dopo aver saputo che il suo ex l’aveva tradita per molto tempo con un’altra donna ha presentato denuncia di stalking e lui si è ritrovato con la vita rovinata, tra spese legali, fine dei progetti e senza prospettive se non il carcere o un futuro pieno di debiti. Una condanna in quel caso pesa dai quattro ai sei anni di prigione. Questo per dire che bisogna pensarci bene quando, sulla spinta della rabbia del momento, si denuncia una persona che non ha commesso alcun reato, perché le denunce vanno avanti e anche se i denunciati vengono assolti comunque vivono anni di supplizio tra giudici e avvocati ai quali non importa molto qual è il tempo limite che una persona può vivere in stato di forte disagio prima di spegnersi, deprimersi, perdere il lavoro, smettere di vivere e a volte suicidarsi. Non ho alcuna simpatia nei confronti di chi fa violenza su una donna o su un bambino. Chi subisce questa violenza ha il sacrosanto diritto di difendersi, se preferiscono, con gli strumenti che le istituzioni offrono. D’altro canto va detto che a volte gli uomini diventano vittime di violenza e evitano di denunciare perché perfino gli avvocati suggeriscono che tanto sarà inutile e gli costerà solo tempo e denaro. La prima volta che mi hanno parlato di donne che inventavano accuse per vendicarsi degli ex io ho reagito come avrebbe reagito chiunque tra voi. Ho sputato rivendicazioni e ho preteso delle scuse. Ho ricordato che sono troppe le donne che subiscono violenza che non vengono credute e che chi divulgava notizie su donne che mentivano in sede di denuncia istigava odio e creava un danno alle donne. Tutte le donne. Ora ascolto, cerco di capire, ho letto tanto in proposito, scindendo le rivendicazioni reali dai pretestuosi attacchi di misogini incalliti, e mi pare doveroso sospendere il giudizio. Spogliarsi dell’armatura della femminista che difende le donne prima di tutto e per cominciare a guardare e a vedere cose che mi rifiutavo di accettare. Non sono gli uomini che denunciano il fenomeno delle “false accuse” (a meno che non mentano e non si servano di questo dato per delegittimare tutte le donne) a creare un danno alle donne; sono le donne che mentono a creare un danno enorme a tutte quelle che a causa di certe orribili menzogne non saranno credute pur avendo subito una violenza. Tra quelle che hanno mentito potrebbe esserci la ex moglie dell’uomo che è stato condannato a scontare 9 anni di galera, per abuso sui propri figli. Molti anni dopo la data dell’accusa, gli stessi figli, ora adulti, confessano di aver inventato tutto perché così, dicono, voleva la madre. L’avvocato dell’uomo condannato dice che questo è un elemento nuovo che serve a rimettere in discussione la sentenza. Ma al di là di quel che succederà, sicuramente non in tempi brevi, per effetto dell’iter giudiziario, quel che mi chiedo è chi restituirà a quest’uomo gli anni di vita perduti, la sua reputazione, il lavoro, le sue possibilità, il rapporto con i figli, la vita affettiva. Se quel che dicono i figli è vero chi potrà mai restituirgli la serenità che a loro sarebbe stata dovuta senza imporgli di raccontare balle sul padre. Quanto c’è voluto a questi due figli per recuperare distacco, autonomia, dalla madre, per poi dire la loro verità sapendo di scontentarla? E come ha fatto questa donna a mentire e a far mentire i figli per allontanare l’uomo dai bambini? Sa questa donna che a causa sua, qualora una donna dovesse denunciare di aver subito una violenza da parte di un ex marito, potrebbe non essere presa sul serio? Distruggere la vita di una persona non è un’opzione valida, perché ha un costo altissimo, e non lo è neppure riempire la testa dei figli di menzogne per porre fine a trafile lente per la separazione e gli affidi. Di credere alle donne in quanto donne e di vedere l’uomo sempre bugiardo e violento non se ne parla. Esistono donne che ricevono garanzia di assoluzione da qualunque torto intendano infliggere a qualcuno. Quante sono le donne che si barricano dietro al pretesto dell’alto numero di donne vittime di femminicidio e di stupro per non assumersi la responsabilità della propria bugia? Quanti sono gli uomini che vivono anni difficili per effetto dello stesso comportamento da parte delle loro ex? Chiudere gli occhi e fare finta che il problema non esista a partire dalla delegittimazione di chi ne parla (maschilisti brutti, sporchi e cattivi) non serve a niente. Questi uomini non parlano di questi argomenti perché sono tutti cattivissimi. Forse ne parlano perché evidentemente stanno subendo processi kafkiani per reati che non hanno commesso. Allora serve dire agli uomini violenti che non usino come alibi queste vicende per dire che la violenza sulle donne e sui bambini non esiste. Esiste la violenza sulle donne, fenomeno grave, diffuso in tutto il mondo e dai numeri sconcertanti. Esiste la violenza sui bambini che non dovranno mai sentirsi in colpa per aver detto la verità. Serve dire alle donne bugiarde che non usino come alibi la lotta contro la violenza sulle donne per assumere lo status di vittime dello stesso fenomeno anche se non lo sono. Che non usino i bambini come arma per sconfiggere i loro ex. La separazione non è mai indolore e si può vivere in modo civile se si tiene conto del fatto che i figli hanno diritto a non perdere i loro punti di riferimento genitoriale. Se una donna vuole i figli tutti per sé, vuole essere facilitata perché vuole portarli altrove, lontano dal padre, e questo padre diventa ostacolo per quel progetto, non si può e non si deve abusare dei bambini per indurli a odiare il loro padre. Tutto questo va discusso e non può essere un tabù. Sono forse meno femminista se responsabilmente mi pongo questo problema?

Calunnie femministe contro papà separati e bambini: la denuncia arriva in Senato, scrive il 15 aprile 2012 il Corrispondente su "Centri anti violenza". Il fenomeno delle calunnie pedo-femministe per appropriarsi di bambini costituisce una tale emergenza sociale che anche GenioDonna, testata giornalistica centrata sulle pari opportunità, rompe il velo e denuncia: «il cosiddetto nazifemminismo quello che non disdegna nemmeno le false accuse di abusi, su se stesse e sui minori, per distruggere l’ex marito». Intanto, la denuncia arriva anche in Senato: lo Stato italiano ed il suo sistema giudiziario, quando inseguono calunnie processando papà innocenti, diventano di fatto collusi con pedo-calunniatrici colpevoli di gravi abusi sull’infanzia quali l’alienazione genitoriale.  Questo il documento: «Gli studi sulle problematiche della separazione denunciano, da circa 16 anni, un uso strumentale della carta bollata: l’utilizzo della denuncia per violenza di varia natura, pianificata per raggiungere obiettivi diversi da quelli dichiarati. Può essere un’arma di ricatto per ottenere vantaggi economici, uno strumento per allontanare il “nemico” dai figli con accuse costruite ad arte, una rivalsa per il piacere di vedere l’ex in rovina. Quale che sia lo scopo occulto, è ben lontano dall’essere una reale tutela per l’incolumità di chi denuncia. Anche se non esiste una concreta situazione di rischio, è utile costruirla: garantisce risultati certi, da 30 anni, invariabilmente. Gli approfondimenti sulle false accuse in ambito separativo dicono che il soggetto abusante, nella maggior parte dei casi, non esiste affatto. Oggi, dopo lunghi anni di silenzio, il fenomeno ha ormai raggiunto proporzioni talmente macroscopiche da non essere più sottovalutabili; sul riconoscimento dell’emergenza convergono operatori di diverse aree coinvolte: Polizia, Magistratura, Avvocatura, Neuropsichiatria, Psicologia, Criminologia. Una doverosa precisazione: nessuno ha intenzione di sottovalutare la gravità delle ignobili violenze fisiche e sessuali delle quali sono vittime le donne. Quando sono vere. Chi invece le inventa e le utilizza in tribunale per scopi diversi da quelli dichiarati, non nuoce solo ai figli e all’ex coniuge: la falsa denuncia insulta in primis chi una violenza l’ha subita davvero. Mille vittime di stupri e/o percosse non possono essere messe sullo stesso piano della persona che si morde le labbra e corre in ospedale a denunciare l’ignaro ed incolpevole ex partner. Magari con l’avallo di avvocati e servizi sociali conniventi, che hanno costruito un muro di indifferenza sul dramma sociale delle false accuse. Il muro di indifferenza si sta incrinando, per rispetto delle vittime innocenti – adulti e minori coinvolti senza motivo – ma anche delle donne che una violenza l’hanno subita davvero. Estratti:

«I maltrattamenti in famiglia stanno diventando un’arma di ritorsione per i contenziosi civili durante le separazioni…», «…è appurato che le versioni fornite dalle presunte vittime sono gonfiate ad arte. Solo in 2 casi su 10 si tratta di maltrattamenti veri, il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione…». «una tiratina d’orecchi ai centri antiviolenza, che istigano a denunciare senza fare la dovuta azione di filtro, ma poi si disinteressano di come va a finire…». Carmen Pugliese, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Bergamo – inaugurazione anno giudiziario 2009, previa autorizzazione del Proc.Gen Addano Galizi, 29/1/2009.

«Sempre più spesso si ricorre alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento…». Barbara Bresci, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Sanremo – Il Secolo XIX, 25/11/2009.

«Onestà intellettuale vuole che (…) si parli anche dei casi di “false” violenze o meglio di “false” denunce di violenza subita…».., «Inutile dire che per l’esperienza fatta le false denunce provengono quasi nella totalità da donne, spesso madri che in tal modo tentano di allontanare gli ex mariti dai figli…». Jacqueline Monica Magi, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Pistoia – il Sole 24 Ore, 25/10/2009.

«L’accusa di violenza sessuale è il modo più facile per estromettere il padre dalla vita dei figli. La donna non solo si libera del partner come coniuge ma anche come padre, facendolo uscire definitivamente dalla sua vita….», «La legge attuale non garantisce né il padre, né il minore. Per quanto riguarda il bambino (…) quando si rivela la falsa accusa, che di solito è fatta su istigazione della madre, la situazione si rivolta proprio contro di lui…». Maria Carolina Palma, CTU c/o Trib. di Palermo – Avvenire, 13/4/2009.

“Uno dei miti diffusi nella nostra società è che la violenza domestica è qualcosa che gli uomini fanno alle donne […] Le donne istigano la maggior parte delle violenze in ambiente domestico e costruiscono false accuse””. Rossana Alfieri, pedagogista clinica.

“Tematiche spesso ignorate e sottaciute….il concetto di violenza di genere viene inteso come indissolubilmente legato alla vittima femminile, ma la realtà è diversa… …A fronte della violenza cieca, diretta dell’uomo, esiste una violenza subdola, fredda, vendicativa, tipica della donna…L’utilizzo emergente delle false accuse in caso di separazione è solo uno degli aspetti…. Chiara Camerani – docente di Criminologia, Università de L’Aquila.

“Se ci sono i minori in ballo, si mettono in atto dinamiche crudeli: le donne costruiscono false denunce di maltrattamenti o molestie sui figli a scapito del coniuge, per togliere a quest’ultimo la patria potestà”. Cristina Nicolini – avvocato matrimonialista.

“credo che la tendenza stia crescendo: questo è sintomo di un disagio della mancanza di un punto d’ascolto. […] Ad adottare questi sotterfugi sono sempre le donne: se la separazione è in corso, non ci sono strumenti prima dell’udienza per allontanare uno dei due genitori da casa. L’ordine di allontanamento giunge solo in caso di violenza fisica, ed ecco perché arrivano le denunce verso i mariti, per la maggior parte dei casi inventate”. Clara Cirillo – Presidente AGI (Associazione Giuristi Italiani) 4 feb 2010.

“…le false accuse di maltrattamenti, percosse, abusi sessuali e violenze di vario genere su donne adulte e figli minori – le querele costruite al solo scopo di eliminare l’ex marito dalla vita dei figli – oscillano nelle procure italiane da un minimo del 70 ad un massimo del 95%…” Sara Pezzuolo, Psicologa giuridica – Convegno ANFI (Associazione Nazionale Familiaristi Italiani) Firenze, 29 aprile 2010.

“…il “vizietto” nostrano di approfittare della legge, quando c’è, proprio non vuole morire. E, spesso si configura un reato, legato al mero interesse (economico) della presunta vittima di molestie. Non è un caso che spesso si ricorra alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento”. Valentina Noseda – giornalista, consulente RAI.

“…una ricerca pubblicata dal Prof. Giovanni Camerini della Cattedra di NPI a Modena, relativa ad una casistica di 60 denunce di abuso sessuale all’interno di separazioni conflittuali, porta ai seguenti risultati: 3 casi di condanna, i rimanenti 57 esitati in archiviazione, proscioglimento in istruttoria o assoluzione perché il fatto non sussiste. Sarebbe utile indagare sulle conseguenze, non solo per gli adulti ma per gli stessi bambini, di questi coinvolgimenti in denunce infondate. Occorre più ricerca sull’uso strumentale delle denuncie di abusi, oltre ad un’inchiesta sul modus operandi dei centri che le favoriscono…”

Benedetta Priscitelli, neuropsichiatria infantile, Modena. «… false denunce generate nel contesto delle controversie legali della separazione. È quest’ultimo l’ambito nel quale viene evidenziata la maggiore incidenza (…)in letteratura l’accento è stato posto sulle ripercussioni per il minore abusato che non viene creduto, ma anche nel caso di una falsa denuncia ritenuta fondata il bambino è destinato a subire un trauma.(…) non solo rimane intrappolato nella spirale dell’iter processuale, ma è avviato a percorsi terapeutici per vittime di abuso (…) invasivi e potenzialmente iatrogeni». Jolanda Stevani, Psicologa Forense, CTU c/o Trib. Di Roma – Psicologia Contemporanea, nov. 2010, pp 18-23.

“(…) sebbene siano utili in caso di abusi reali e non costruiti, è necessario sollecitare uncontrollo sui centri antiviolenza (…)…Studiando le numerose vicende giudiziarie dei padri privati ingiustamente del ruolo genitoriale, (ferma restando la necessità della tutela dei minori in caso di abusi e/o disagi acclarati e non solo millantati), da donna e madre, prima ancora che da avvocato, esprimo la mia solidarietà. Sottolineo però l’esigenza, alla luce delle ingerenze economiche (sovvenzioni pubbliche) comuni a tutti i casi che stanno emergendo, di promuovere una raccolta firme da inoltrare alle Autorità competenti al fine di fare emergere la reale dimensione sociale del problema – che sembra essere esteso su tutto il territorio nazionale – e sollecitare un intervento qualificato che miri al controllo sulle gestioni di questi centri antiviolenza, sulle competenze e professionalità coinvolte e, soprattutto, che sfoci in una più attenta normativa sui limiti dei loro poteri di azione. Mi sembra, infatti, che allo stato, non sia garantita una giusta perequazione tra l’esigenza di tutela dei minori in presunto stato di disagio ed il diritto del genitore privato del suo ruolo di contestare legittimamente i provvedimenti, troppo spesso assunti inaudita altera parte”. Daniela Piccione – Avvocato, Delegato Regionale Sicilia Familiaristi Italiani, 31 10 2009.

“…a fronte di una separazione coniugale, sono sempre più frequenti accuse di abusi/maltrattamenti del tutto strumentali, finalizzate ad arrecare forte danno all’ex partner; la letteratura parla persino di “Sindrome da accuse sessuali in divorzio”. In questi casi la rottura passa attraverso la più totale distruttività nei confronti dell’altro, attraverso accuse gravissime che sconvolgono l’esistenza del soggetto minore coinvolto e del genitore ingiustamente accusato. Il fenomeno è in crescita esponenziale soprattutto in assenza di modelli strategici atti ad arginarlo nonostante siano stati stilati protocolli finalizzati ad una corretta valutazione sia della testimonianza del minore, sia del contesto di riferimento. La mia tesi è che si assista comunque alla negazione del diritto al giusto processo nei confronti di indagati e di imputati coinvolti; infatti spesso l’esito è un processo di tipo “verificazionista”: “di abuso si parla e l’abuso si deve trovare”. Chi è chiamato a giudicare viene condizionato da quella che personalmente chiamo “Sindrome di Stoccolma per procura”, secondo la quale, in presenza di prassi devianti, si preferisce evitare un trauma psicologico alle vittime presunte causandone uno altrettante grave che consiste nel ritenere aprioristicamente verosimile l’accusa, emettendo ordini di protezione dalla persona falsamente accusata. Le ideologie sacrificano nel loro nome il diritto alla difesa. Si attribuisce a chi denuncia un credito riconducibile al pregiudizio, sacrificando integralmente il diritto di difesa degli indagati a causa della non riconosciuta necessità di rispettare, specie nella fase iniziale delle indagini, canoni scientifici, linee guida e protocolli riconosciuti a livello nazionale ed internazionale. L’abuso dell’abuso/maltrattamento rappresenta una prassi dalla quale è molto difficile difendersi. Credo che le intenzioni dei magistrati e degli operatori coinvolti nelle valutazioni debbano essere quelle di tutelare il minore affinché non subisca ulteriori e inutili traumi, ma anche di garantire l’adulto che, in questi casi, è stato accusato falsamente di un reato infamante. Inoltre, credo che una ulteriore garanzia debba essere posta nei confronti del legame genitoriale che viene strumentalmente ed ingiustamente reciso per lunghissimo tempo”. Loretta Ubaldi – Pedagogista Forense, Specializzata in Diritto del Minore, Esperta gestione e risoluzione dei conflitti (ADR), Consulente dei Tribunali di Roma.

“(…) molti genitori sono mostruosamente orgogliosi, consapevoli di usare i propri figli per teatrini macabri e nel proprio esclusivo interesse (…) falsi abusi, falsi maltrattamenti, false corruzioni a danno dei figli, per togliere di mezzo l’altro genitore, ritenendolo rottamabile con mezzi disonesti e rapidi (…)” Annamaria Bernardini De Pace – avvocato. Divorzi difficili e menzogne – Quei padri-mostri costruiti a tavolino – Il Giornale, 27 giugno 2011

Polizia Moderna – organo ufficiale della Polizia di Stato giugno/luglio 2011

“(…) si registra una epidemia di denunce nei confronti di ex mariti e padri degeneri accusati, fra l’altro, di maltrattamenti ed abusi sessuali sui loro stessi figli. Alcune di queste accuse sono purtroppo fondate come recenti e terribili fatti di cronaca confermano, ma la maggior parte di esse, spesso le più infamanti, si dimostrano, dopo un iter doloroso e certamente non breve, false o inattendibili. Le denunce “false” costituiscono un’ampia gamma di resoconti non corrispondenti alla verità/realtà dei fatti che vanno dalle dichiarazioni menzognere sostenute dalla precisa volontà e finalità di danneggiare l’ex marito-padre, alle dichiarazioni erronee a causa di una interpretazione distorta  (…)”

Inoltre in alcuni casi emerge un’operazione di lobbyng antimaschile a prescindere dalla fondatezza o meno delle accuse formulate; alcuni centri antiviolenza pubblicizzano apertamente la propensione del proprio pool legale ad aggirare la legge. Sul sito differenzadonna.it, nello spazio “Assistenza Legale” si legge: “…le nostre legali intervengono a favore della donna solo nei casi di separazione decisa per violenza agita nei confronti della donna stessa e dei bambini. Professioniste molto motivate, sempre al corrente delle ultime leggi, molto valide nel sottolinearne le novità negative e trovare il modo di aggirarle…” Vale a dire: con l’affido condiviso i figli non sono più proprietà esclusiva di un genitore? E’ una novità negativa, quindi urge studiare una strategia per aggirarla. L’unico criterio di esclusione del coniuge è la pericolosità dovuta alla violenza. Ergo: se la violenza c’è si denuncia, se non c’è si trova il modo di costruirla. Le operatrici del Diritto – tutte di genere femminile – testimoniano come tale strategia venga messa in atto in percentuali che oscillano, a seconda delle Procure, tra il 70 ed il 95%.» Fonte Senato.it .

MOLESTIE O PROSTITUZIONE?

 "Carriere sempre decise a letto". Gli italiani credono alle denunce. Sondaggio Ipr: per il 65% sono sistemi fisiologici in certi ambienti, scrive Antonio Noto il 5 novembre 2017 su "Quotidiano.net". Dopo le dichiarazioni di molte attrici vittime di molestie sessuali da parte del produttore cinematografico Harvey Weinstein, si è aperta una voragine e dalle denunce partite dal mondo dello spettacolo si sta passando ad accuse che coinvolgono molti leader politici. Prima alcuni componenti del governo britannico, ora retroscena piccanti che coinvolgono anche leader austriaci, francesi e addirittura alcuni componenti dell’Onu. Tutti accusati da donne di aver subito molestie o vere e proprie violenze, seppure molti anni fa. La percezione degli italiani rispetto a questi avvenimenti è varia, non c’è un «pensiero unico», ma il giudizio è modellato su due diverse categorie di pensiero: da una parte queste accuse vengono definite verosimili, anche se non risulta chiaro il motivo per cui vengono fuori dopo decenni. Dall’altra parte, però, poiché a essere messi finora sotto accusa sono il mondo dello spettacolo e della politica, e poiché nell’immaginario collettivo da sempre si pensa che i favori sessuali siano stati alla base di alcune carriere in questi settori, ecco che queste stesse storie assumono una connotazione diversa, cioè da verosimili si trasformano in «certamente vere». L’aspetto paradossale e poco edificante è però che questa opinione non nasce da una sorta di vicinanza alle donne vittime di molestie, bensì è solo il frutto di un basso livello di fiducia maturato negli anni sia nei confronti della politica che del mondo dello spettacolo. Infatti, a prescindere dagli ultimi scandali che sono stati resi pubblici, storicamente il giudizio degli italiani sul mondo dello spettacolo e della politica non è mai stato edificante, anzi è opinione comune che alcune carriere siano state agevolate da favori sessuali. Certo, una cosa è essere consenzienti, anche se eticamente contestabile, un’altra è essere vittima di abusi. Però con queste storie, con queste continue denunce che arrivano dopo molti anni, nella percezione degli italiani è come se si fosse avvalorata la tesi di fondo, cioè che spettacolo e politica sono settori corrotti. È per questo che forse non si è alzata una forte indignazione popolare per fatti che, indiscutibilmente, sono di elevata gravità. Pertanto il metro di giudizio che gli italiani si sono formati è più attinente a quello che è l’immaginario storico dei due settori coinvolti che non ai singoli accadimenti. L’interpretazione di questo fenomeno nasce dal fatto che il 62% degli italiani pensa che queste violenze denunciate pubblicamente siano realmente accadute, anche se il 54% non condivide che siano state denunciate solo in maniera pubblica con così tanto ritardo e non alle autorità giudiziarie a suo tempo. Ma il dato che spiega maggiormente il clima di opinione in atto è che il 65% ritiene che, sia nel mondo dello spettacolo che in quello della politica, queste sono pratiche utilizzate da sempre, e quindi quello che è venuto alla luce adesso non rappresenta alcuna novità. Non solo. Poiché al mondo dello spettacolo e a quello della politica non viene riconosciuta molta eticità, ecco che il 58% dei genitori suggerisce alle proprie figlie di non entrare nel settore dello spettacolo, come il 53% raccomanda di stare lontani dalla politica. 

"Dietro ogni donna c’è una prostituta". Raffaele Morelli ha parlato del caso Weinstein a Le Iene il 5 novembre 2017, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 6 novembre 2017. "Dietro ogni donna c’è una prostituta". Nei giorni scorsi lo psichiatra Raffaele Morelli [VIDEO] aveva espresso questo concetto durante un’intervista radiofonica sul #caso Harvey Weinstein. Sulla questione sono tornate #Le Iene con l’inviato #Matteo Viviani che ha deciso di approfondire il discorso intervistando lo psicoterapeuta milanese. "Questo produttore non è uno stupratore ma un uomo che esercita la sua azione di dominio come modalità relazionale". Il sessantanovenne ha spiegato che fare l’amore è l’unico modo che il cervello ha per realizzare se stesso. "Quest'uomo non godeva ma voleva dominare e umiliare. In questo caso non è previsto l’innamoramento". Morelli ha sottolineato che una persona del genere vuole soltanto che la donna ceda alle sue richieste. Per lo psichiatra Weinstein è una persona profondamente triste. "L’ha mai visto ridere, guardi le donne che gli stanno vicino hanno il gelo negli occhi". Il professionista ha rimarcato che un personaggio simile vive un enorme disagio interiore.

"Molte attrici ritenevano di condurre le danze". Lo psicoterapeuta si è poi soffermato sulle vittime del produttore americano. "Molte donne ritenevano di condurre le danze, magari fingendo un orgasmo. Poi si sono trovate di fronte ad un uomo che non è uno stupratore ma un dominatore che incalza con meccanismi che non conosci". Raffaele Morelli ha precisato che i produttori sono persone molto acute ed abili nel cogliere le debolezze degli altri. "Se dovessimo portare in tribunale la violenza psicologica andrebbe alla sbarra il 90% del paese. Quante volte si dice un sì ad un capo invece di un no. Può capitare anche ad un uomo di essere accondiscendente di fronte a delle cose che non si condividono per nulla’. Per Morelli le ragazze che hanno ceduto alle avance di un uomo potente senza avere la forza di reagire non possono essere definite vittime di violenza sessuale. ‘Una persona che si è prostituita per il successo dopo anni si sente sporca. In ogni donna è presente il fatto di poter usare la seduzione per ottenere un vantaggio".

"La donna santa non esiste". Lo scrittore ha precisato che i vantaggi non devono essere necessariamente economici: "In alcuni casi possono essere anche affettivi". Lo psichiatra ha spiegato che l’essere umano fin dagli albori 'semina' l’idea che l’affettività sia legata ad un vantaggio. "A 21 anni sei dentro una psicologia sognante ed in questo stato sei più facilmente preda dell’uomo dominatore. In questo caso bisogna sapere che qualsiasi successo si voglia raggiungere deve basarsi sulle proprie capacità". Il professionista milanese ha sottolineato che Weinstein dovrebbe andare da un terapeuta bravo per imparare a riconoscere il suo lato malvagio e distruttivo. Morelli ha evidenziato che si fa bene a parlare di queste vicende: "Solo così si fanno capire i rischi che si corrono'. Per lo psicoterapeuta la donna santa non esiste: ‘Se esiste è una grave malattia". Per il sessantanovenne molte delle attrici che stanno parlando del loro passato sono esibizioniste. Le affermazioni di Morelli hanno diviso il web con reazione di sdegno e pesanti critiche nei confronti del noto psichiatra.

Di uomini come Weinstein ce ne sono milioni e le donne che lo accusano potevano scegliere. Le attrici hanno accettato il compromesso (ingiusto ma vecchio quanto il mondo) e per avere un privilegio – perché di questo si tratta – hanno deciso di sottostare al ricatto. Mentre l’attrice si piegava al turpe baratto, se lo chiedeva o no quante sue colleghe stava “sorpassando” in quel momento? Io credo proprio di sì, scrive Luigi Carletti il 21 ottobre 2017 su "Tiscali". Se potessi fare una domanda alle donne di cinema che hanno denunciato Harvey Weinstein, chiederei semplicemente se il produttore americano le ha costrette con la forza o con minacce fisiche a sottostare ai suoi desideri sessuali. Perché se è così, Weinstein è chiaramente un bruto e come tale deve essere trattato. Ma se invece – come sembra – Weinstein le ha messe davanti all’alternativa: film e carriera da una parte (e quindi a letto insieme), niente film e niente soldi/gloria dall’altra (se niente sesso insieme), be’ allora la cosa è un po’ diversa: perché, scusate, bastava alzarsi, sfanculare ben bene il produttore-ricattatore e magari denunciarlo pure. Questo, semplicemente per dire che il problema non è solo Weinstein, perché di uomini come Weinstein ce ne sono milioni: nel cinema, nell’editoria, nella politica e nelle aziende (pubbliche e private) di mezzo mondo. Ma di che ci stupiamo? Possibile che l’ipocrisia possa arrivare a questo punto? Se Weinstein è stato un corsaro dei letti, è perché le sue “vittime” glielo hanno permesso. O, per meglio dire, hanno accettato il compromesso (ingiusto ma vecchio quanto il mondo) e per avere un privilegio – perché di questo si tratta – hanno deciso (deciso, sissignore) di sottostare al ricatto. Mentre l’attrice si piegava al turpe baratto, se lo chiedeva o no quante sue colleghe stava “sorpassando” in quel momento? Io credo proprio di sì. Il mondo è spesso ingiusto e Weinstein rappresenta quanto di peggio un uomo (ma anche una donna) possano mettere in pratica per placare i propri desideri calpestando il più elementare diritto di una persona a vedere riconosciute le proprie qualità non in virtù di uno scambio improprio ma in virtù di criteri meritocratici e valutativi onesti. Ma il mondo è spesso ingiusto perché siamo noi a renderlo tale accettando patti che si dovrebbero rifiutare. Questo succede in moltissimi campi e con infinite modalità. Che cosa fa la differenza? La posta in palio, per esempio. Per salvare la vita di un figlio o di una persona cara, chiunque di noi probabilmente accetterebbe qualsiasi scambio. Per aiutare il prossimo, c’è chi ha dato la vita e non a caso li definiamo eroi. Ma per fare carriera, avere successo (e quindi fama, soldi ecc. ecc.), magari fregando altri più bravi e meritevoli di noi, fino a dove possiamo spingerci? Le attrici che adesso puntano il dito, hanno ragione nel dire che non dovrebbe funzionare così. Ma se funziona così, se quello era un “sistema”, è perché loro – per prime – hanno avallato quello schifosissimo metodo ben sapendo che in quel modo avrebbero vinto la concorrenza di altre attrici che magari – dicendo no – erano state private di un’opportunità o di un diritto.

Da “mostro”, mister Weinstein rischia di diventare la vittima sacrificale di un movimento di opinione che adesso lo farà a pezzi, perché in questo mondo accelerato dalle palpitazioni digitali immediate, tutto si centrifuga secondo dinamiche isteriche e difficilmente soggette alla riflessione. Tutto deve essere etichettato attraverso parole semplici, da femminicidio a ricatto sessuale e via dicendo. Ma un po’ di serietà non guasterebbe perché chiunque di noi abbia lavorato in ambienti fortemente competitivi (per esempio l’editoria e i media) sa benissimo che ci sono carriere costruite con il consenso del Weinstein di turno. A una collega in grande ascesa con cui avevo una certa confidenza, un giorno dissi: capisco tutto, ma come fai a sopportare una cosa simile? E lei mi rispose: trovi che sia molto brutto? Alla fine lui per me è un tipo. Ecco, appunto. Tipo Weinstein. 

Caso Weinstein: le donne e la cultura di Cassandra. Lo scandalo che ha travolto il famoso produttore di Hollywood impone una riflessione sulle responsabilità dei comportamenti, scrive Elisabetta de Dominis il 20 Ottobre 2017 su "La Voce di New York". La nostra cultura parte dal concetto che la donna sia debole e vada sistemata e protetta. È una cultura assistenziale, quindi piuttosto comoda per le donne, anche se impone di ‘passare per i letti’ di un marito indesiderato ma generoso, di un datore di lavoro maiale ma benefattore, di vari disgustosi utenti disposti però a pagare il servizio. Tutto sommato gli uomini pagano e le donne incassano. La spiegazione del caso Weinstein è semplice, basta non essere ipocriti. Bisogna aver il coraggio di ammettere che la nostra è una cultura della prostituzione. La nostra a livello ecumenico, perché domina il mondo e accomuna il musulmano al cristiano. La cultura della prostituzione non è solo maschilista ma anche femminile: viene imposta dall’uomo ma viene utilizzata, per convenienza, dalla donna, che si prostituisce in molti modi. Per matrimonio, nell’ambiente di lavoro, oltre che per strada o nei bordelli. È una cultura escatologica, nel senso che riguarda i destini finali dell’umanità, i cui esiti – se diventeremo tutti musulmani – non saranno raggiunti nemmeno in paradiso, dovendo le donne continuare a prostituirsi per fare felice l’uomo. Però rimarranno tutte giovani e belle. Forse le attrici di Hollywood potrebbero prendere in considerazione questo vantaggio eterno. Se invece diverremo tutti cattolici, non è ancora chiaro cosa avverrà nel giorno del giudizio e se la Madonna potrà mettere una buona parola per quante si sono prostituite per il proprio tornaconto. La nostra cultura parte dal concetto che la donna sia debole e vada sistemata e protetta. Il che non mi sembra tutta farina del sacco maschile. È una cultura assistenziale, quindi piuttosto comoda per le donne, anche se impone di passare per i letti di un marito indesiderato ma generoso, di un datore di lavoro maiale ma benefattore, di vari disgustosi utenti disposti però a pagare il servizio. Tutto sommato gli uomini pagano e le donne incassano: sicurezza, lavoro, soldi. Ovvio non tutte le donne e non tutti gli uomini. Perché non c’è limite al peggio: ci sono anche gli uomini che promettono di pagare e poi non pagano, magari raccontano che sono innamorati, promettono mari e monti, ottengono il corpo e pure l’anima della donna e poi fanno lo stesso con un’altra e un’altra ancora. Anch’essi sono mariti, datori di lavoro, uomini che sfruttano le donne. Le quali non possono nemmeno rivolgersi al giudice perché non hanno pezze d’appoggio che dimostrino il rilascio della prestazione. Spesso invece si rivolgono allo psichiatra o allo psicanalista perché hanno la vita rovinata: si sono innamorate di un farabutto che le ha imbrogliate. Tutto sommato le attrici di Hollywood che hanno denunciato Weinstein, sono state doppiamente fortunate: hanno ottenuto un lavoro vendendo il loro corpo e sono diventate pure famose. Che dopo vent’anni denuncino di esser state costrette, mentre avevano stipulato un contratto verbale di prostituzione avendo ottenuto la contropartita economica, non fa che attestare la loro malafede. Hanno venduto la propria coscienza, perché quando vendi il corpo vendi anche l’anima. La loro sciocca confessione non gliela farà riacquisire. Poi ci sono le gattemorte: donne che si sono fatte crescere il pelo sullo stomaco e hanno affilato le unghie tenendole nascoste; insomma si sono fatte furbe. Fanno finta di starci, ottengono quello che vogliono leccando, poi non la danno. Sono della stessa pasta degli uomini che promettono senza mantenere, anzi sono proprio quelle che li fregano. In Italia sono ai posti di comando e ovviamente trattano le altre donne come gli uomini di cui sopra. Spesso non sono molto qualificate, colte o intelligenti, nemmeno belle, e ci si chiede come siano arrivate dove sono arrivate: con il raggiro, appunto. Il raggiro è la qualità che la donna ha più sviluppato nei secoli, non solo per opporsi alla forza maschile ma per ottenere quello che vuole. Apollo perse la testa per la principessa troiana Cassandra: per concedersi lei gli chiese in cambio il dono del vaticinio. Lui glielo conferì, ma poi lei gli si rifiutò. Il dio la punì facendo in modo che non sarebbe mai stata creduta. Cassandra visse nella disperazione pronosticando inutilmente la caduta di Troia. Un’altra volta Apollo si innamorò della sacerdotessa Sibilla. Lei gli chiese l’immortalità. Lui gliela concesse, tuttavia lei non gli si concesse più. Si era dimenticata di chiedere anche l’eterna giovinezza e divenne vecchissima e inguardabile, invocando invano la morte. Ma avevano imbrogliato un dio non un ometto della loro stessa risma. Oggi invece le gattemorte la fanno franca, salvo però ammalarsi dentro, perché prima o poi la coscienza affiora e ti tormenta la vita. Se guardo indietro negli anni, potrei scrivere un libro sulle proposte maschili che ho rifiutato: da un professore universitario per un esame, da un regista per un film, da un fotografo per una pubblicità, da un giornalista per un’assunzione… Ma chi mi ha davvero nuociuto è stato un direttore di banca che mi ha ritirato un piccolo fido dicendomi: “Perché dovrei aiutarti? Non sei nemmeno venuta a letto con me…” Ne pago ancora le conseguenze. Non ho rimpianti né rimorsi, sono in pace con me stessa ma, come moltissime donne, ho scelto di percorrere la vita attraverso la via più dura. Eppure, per me, l’unica possibile.

Elisabetta de Dominis: Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

Pupi Avati: “Weinstein uomo sgradevole, ma non giustifico le donne che cercano scorciatoie”. Il regista italiano racconta la sua testimonianza sul produttore americano al centro dello scandalo per molestie, con un aneddoto personale: una donna gli offrì la figlia minorenne sul set del suo primo film, scrive il 19 ottobre 2017 Valeria Morini su "Fan Page". Non si arresta il dibattito sul caso di Harvey Weinstein, il produttore americano accusato da decine di donne (tra cui la nostra Asia Argento) di molestie e abusi sessuali. A offrire la sua testimonianza sull'argomento è anche Pupi Avati, ospite oggi nel programma di Rai Radio1 "Un Giorno da Pecora", condotto da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Il regista conosce personalmente Weinstein e lo definisce una persona "sgradevole" accusandolo di arroganza. Al contempo, però, l'autore bolognese di "Regalo di Natale", "La casa delle finestre che ridono" e "Gli amici del bar Margherita" si mostra ancora più critico nei confronti delle aspiranti attrici/showgirl che cedono alle avance. Le ragazze che si candidano ad avere una scorciatoia, una frequentazione che vada oltre la cena, non è vero che non hanno scelta. Io giustifico più un ladro che va a rubare perché ha fame di una ragazza che vuole fare la valletta e si rende disponibile. Nelle scuole di recitazione insegno sempre che solo con le scorciatoie, senza talento, non si va lontano.

Pupi Avati su Weinstein. Avati non è d'accordo sulla crociata anti-Weinstein, tutta concentrata tutta sul fondatore di Miramax: "Secondo me no non è giusto fare i nomi, tirare in ballo solo Weinstein quando avrebbero potuto fare almeno 25 nomi. Soprattutto da parte di tutte quelle persone che a Hollywood sapevano". Al contempo, però, il giudizio sul produttore è spietato: Weinstein somiglia, anche lombrosianamente, allo stereotipo del produttore di una volta. L'ho conosciuto, anche se meno di quanto lo conosca mio fratello (il produttore Antonio Avati, ndr): è una persona totalmente sgradevole, sia nell'aspetto che nei modi di fare, uno che è arrivato al successo e te lo fa pesare. Poi che le ragazze abbiano in qualche modo aderito a quelle che erano le sue offerte, a quegli scambi poco nobili, e se ne siano ‘ricordate' in ritardo, è una cosa ricorrente, e non solo nel cinema e a Weinstein. Succede molto anche in tv secondo me. L'esplosione di alcune star è stata spesso dovuta al fatto che ci siano state delle affettività. Nel cinema italiano? Succedeva di più in passato.

L'aneddoto: le avance da una minorenne sul set. Avati ha quindi raccontato di un fastidioso inconveniente accaduto sul set del primo film ("Balsamus, l'uomo di Satana" del 1970), quando una donna gli propose di avere rapporti intimi con la figlia giovanissima: Nel primo film che ho fatto vennero una madre con una figlia minorenne, e il genitore non ebbe alcun imbarazzo a farmi capire che la figlia era disponibile. Passavo dall'essere meno attraente di Bologna al uno dei più attraenti, grazie al mio ruolo! Risposi che con me non era il caso, anche perché mi ero sposato di recente. Qualunque cosa mi sia accaduta dopo, non è mai accaduta in cambio di un ruolo.

Pupi Avati su Berlusconi e Loro. Avati ha infine commentato la recente reazione di Silvio Berlusconi al film sulla vita attualmente in lavorazione, "Loro" di Paolo Sorrentino. L'ex premier ha definito la pellicola "un'aggressione politica contro di lui". Non la pensa così il regista bolognese: "In genere queste cose a Berlusconi hanno giovato. Credo ne abbia molto bisogno".

Mario Adinolfi: “Asia Argento? Non è violenza ma prostituzione d’alto bordo”, scrive Blitz Quotidiano il 20 ottobre 2017.  Weinstein. Mario Adinolfi: “Asia Argento? Non è violenza ma prostituzione d’alto bordo”. Il caso Weinstein, nella declinazione italiana per il coinvolgimento di Asia Argento, è diventato ormai un tormentone. Non passa giorno che attori, opinionisti, politici, vip e semi-vip non si sentano in dovere di dire la loro, sulle molestie in genere, contro Asia Argento di preferenza. Alla trasmissione radiofonica La Zanzara hanno chiesto un parere a Mario Adinolfi, sicuri di ottenere un titolo, una provocazione. Accontentati: la vittima della violenza è diventata praticamente una prostituta. Facebook gli ha oscurato il profilo. “Ho parlato di prostituzione di alto bordo. E lo ripeto. Per me la storia di Asia Argento e Weinstein non è violenza ma prostituzione. Vi faccio un esempio. Sulla strada che da Roma porta a Ostia ci sono delle signorine che sono in una condizione opprimente e danno i loro favori sessuali in cambio di qualche vantaggio. Nella prostituzione la donna non ha piacere di subire le attenzioni di chiunque, ma la violenza e lo stupro sono altra cosa”. Lo dice il super cattolico Mario Adinolfi a La Zanzara su Radio 24. “Nella violenza – dice Adinolfi – manca la contropartita, è un atto violento. Quella di Asia Argento è una vicenda oggettivamente di prostituzione, c’è un sistema complesso che produce una serie di benefici per persone che si sono concesse a Weinstein. Il sistema hollywoodiano, una vera e propria Sodoma, costruisce una condizione per cui le beneficiate del rapporto con Weinstein hanno un’importante contropartita di natura economica e di carriera”. “Asia Argento – dice ancora – avrebbe potuto fare come la sua collega italiana cui Weinstein aveva offerto il ruolo di protagonista in Chocolat. Si chiama Giovanna Rei, ma non la conosciamo. È sconosciuta al grande pubblico perché ha detto di no a Weinstein, difendendo così la sua dignità e quella delle altre donne di spettacolo. Il no si dice nel momento in cui c’è il potente. Il no si dice ai potenti. In faccia ad un potente. Adesso che Weinstein è un cane nella polvere è facile. La Argento ha detto testualmente alla Berlinguer che Weinstein prima era il primo produttore di Hollywood oggi è il duecentesimo, non conta più nulla”. “Alla procura di Los Angeles – dice ancora Adinolfi – non ci sono denunce. Fare di Asia Argento un’eroina è un errore, non è assolutamente un’eroina. Se si vuole scegliere una donna rappresentante della dignità femminile, forse è meglio andare a cercare una donna che prende 1000 euro al mese ed ha dimostrato dignità denunciando il suo datore di lavoro”. Sei a favore o contro al legalizzazione della droga?: “Contro, anche ad uso terapeutico, è un modo per introdurre quella per divertimento. L’alcol? Fosse per me proibirei anche quello. La Cannabis continuo a preferire sia illegale averla. Io sono contrario a sostanze alcoliche e stupefacenti che alterino la consapevolezza delle persone”. E la prostituzione?: “L’unica possibilità di limitare la prostituzione è multare i clienti. Mi dispiace che il corpo della donna sia utilizzato in maniera vile dal maschio prepotente. L’uomo che va a puttane lo considero un essere spregevole. Bisogna fare una pulizia a tappeto”. E’ giusto incentivare i ragazzi a usare il preservativo?: “No, io non uso preservativi, sono contrario, va insegnata a scuola la sessualità responsabile. Meglio evitare rapporti sessuali se non si ha piena coscienza. Sono contrario alla dittatura del condom. L’ho usato credo due volte da ragazzino”. Poi i conduttori prendono una bilancia e mettono Adinolfi alla prova del peso: “Ecco, è la prima volta che lo faccio dopo anni. Sono a 170 chili”. Riesci a fare sesso?: “Sì, assolutamente sì. E non ci tengo a dimagrire”.

"Sesso per fare carriera? Non è uno stupro ma solo prostituzione". L'avvocato contro le violenze sulle donne: "Sfruttare i ruoli maschili è una scorciatoia", scrive Luca Fazzo, Mercoledì 18/10/2017, su "Il Giornale". Un confine sottile, ma netto: da una parte c'è lo stupro, dall'altro la prostituzione. A segnare la frontiera? «La libertà di scelta». Così dice Giulia Bongiorno, avvocato di grandi processi, da anni impegnata insieme a Michelle Hunzicker in Doppia Difesa, la onlus che tutela le donne vittime di violenza.

Andare a letto col produttore per fare un film significa venire stuprate?

«Mettiamo una cosa in chiaro: se una donna mossa da ambizioni di carriera sceglie, mossa da questa ambizioni, di accettare quello che chiede l'uomo anche se non ne ha particolarmente voglia, siamo di fronte alla ricerca di scorciatoie, non a una violenza carnale. Non basta il fatto che ci sia un divario di ruolo sociale o di funzioni a rendere illegale qualunque rapporto sessuale, non possiamo dire automaticamente che se l'uomo è potente allora la donna è vittima. Se è lei che vuole sfruttare la posizione dell'uomo siamo di fronte quasi a una forma di prostituzione».

Quindi Asia Argento e le altre hanno torto a lamentarsi?

«Non hanno affatto torto, fanno benissimo. Perché quello che è mancato loro, ed è una assenza decisiva, è la possibilità di scegliere, di dire di no. Se non c'è libertà reale di autodeterminazione allora sì che c'è violenza, esattamente come nei casi di sopraffazione fisica. A me non sta simpatica la Argento, ho sempre trovato le sue provocazioni forme di trasgressione fine a se stessa più che di arte. Ma oggi viene messa in croce e non creduta solo per il personaggio che è, e questo è inaccettabile».

Ma di questi episodi ci sono di solito solo due testimoni: la presunta vittima e il presunto colpevole. Perché dovremmo credere sempre alla prima e mai al secondo?

«Vede, io faccio l'avvocato e mi occupo di fatti. Anche in questi casi, sono i fatti a dover guidare la valutazione. La donna che ha il rapporto col potente ne approfitta o lo subisce? Questa è la domanda decisiva. Nel caso dell'Argento c'è un fatto inequivocabile, che è il fax che è stato reso noto proprio dal Giornale, in cui già nel 1997 la ragazza manifestava tutto il suo disgusto per le pretese dell'uomo. Il fax è la dimostrazione che se la Argento avesse avuto libertà di scelta, non sarebbe mai finita a letto con Weinstein».

E allora perché aspettare, lei come tutte le altre, vent'anni a denunciare?

«Il fatto che abbia subito e non denunciato non mi stupisce affatto, perché lui era un uomo potente e perchè all'epoca nessuna vittima denunciava. Stiamo parlando di vent'anni fa, e il clima era quello: non si denunciava per vergogna e perché si temeva di non essere credute. Ancora dieci anni fa, quando con Michelle abbiamo fondato la nostra onlus, la stragrande maggioranza delle donne che subivano violenza sceglieva di tacere, perché si vergognavano, e perché erano convinte che denunciando avrebbero danneggiato soprattutto se stesse. Questo accadeva e accade in tutti gli ambiti sociali, compresa Hollywood. Oggi Asia Argento denunciando Weinstein denuncia anche una propria debolezza. Anche questo credo che debba essere apprezzato».

Taci, donna ipocrita! Scrive Barbara di su “Il Giornale" l'11 ottobre 2017. Il corpo è tuo e ci fai quel che ti pare. Non ti giudico né se lo vendi né se lo regali, sono affari tuoi e non ti faccio la morale, ma fammi il favore di tacere e di non fare la morale agli altri, ipocrita che non sei altro. La prostituzione è il mestiere più antico del mondo, ma almeno le meretrici hanno la dignità di non insegnare alle altre il buon costume e tanto meno si sognano di chiamare stupro un libero scambio tra soldi e prestazioni sessuali. Se ti sei piegata, in senso letterale, ai voleri di un produttore cinematografico per ottenere in cambio la parte in un film, non chiamarlo stupro perché sempre di libero scambio si tratta. Ed ora, dopo aver raggiunto fama e soldi grazie a quelle performance, magari non troppo artistiche, non ci venire a dire che ti hanno costretta per non rovinarti la carriera. Perché sei tu che hai rovinato la carriera a tante aspiranti attrici, magari più brave di te, ma che non hanno voluto sottomettersi al sistema. Eh sì, io non nego che la Jolie o la Paltrow siano brave e bellissime, anzi sono meravigliose e probabilmente avrebbero ottenuto comunque il meritato successo, ma non sopporto l’ipocrisia di chi solo oggi finge di essersi svegliata dall’incubo e di aver finalmente trovato il coraggio di denunciare Weinstein, uno dei principali produttori di Hollywood. Guarda caso ora si scopre l’acqua calda, lo sapevano tutti, ma hanno taciuto perché troppo potente e troppo ingenti i suoi finanziamenti ai Clinton, che di molestie sessuali se ne intendono. E che dire di Asia Argento che si sarebbe fatta stuprare per 5 anni per non rovinarsi la carriera? Mi dovrebbe far compassione, poverina? È dalla notte dei tempi che le donne s’offrono, ma non soffrono. Suvvia! È da quando è nato il cinema che i produttori e i registi fanno i casting a letto. Per favore! E ora improvvisamente mi fate le santarelline. E invece siete solo delle ipocrite, perché siete sempre in prima fila per i diritti delle donne, vi riempite la bocca di slogan contro il sessismo, sfilate per la parità di genere, accorrete in massa alle manifestazioni contro gli uomini politici che non vi aggradano, rilasciate interviste a nastro per tacciarli di sfruttamento del corpo femminile, quando le principali nemiche delle donne siete proprio voi. Siete voi che alimentate il sistema sessista, siete voi che fate emarginare le donne che non accettano compromessi sessuali per far carriera, siete voi che non permettete la parità di genere, perché se voi non aveste ceduto, se nessuna di voi avesse acconsentito, avreste costretto il sistema a far far carriera solo alle donne meritevoli. Quando in un’azienda avanza di grado la donna che avanza meglio nel letto del capo, la colpa non è solo del capo, ma di quella che scavalca le colleghe più brave di lei non per meriti professionali, ma per prostituzione pura e semplice. Vi vantate di essere libere, emancipate e fate bene a fare del vostro corpo quel che vi pare e piace, ma abbiate almeno la compiacenza di risparmiarci la vostra ipocrita morale. Tacete per tutte le donne che per colpa vostra non otterranno il successo che meritano.

Battiato: “Dissi troie in Parlamento e mi cacciarono, ma il tempo è galantuomo”. Il 26 marzo scorso durante un'audizione al Parlamento europeo l'allora assessore al Turismo della Regione Sicilia parlò di "prostitute disposte a tutto nella politica italiana". Il governatore Crocetta chiese e ottenne le dimissioni sostituendolo con la sua segretaria particolare. Ora, dopo lo scandalo a base di escort e regalie - il cosiddetto "sistema Giacchetto - il cantautore si prende una rivincita: "Bastava saper aspettare", scrive Malcom Pagani il 20 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano". Arresti, furti di denaro pubblico e donne barattate, sostiene Battiato: “Come cammelli in un suk”. Dalla stretta grondaia dell’“illustre e onorata società”, l’ex assessore al Turismo della giunta Crocetta in Sicilia è evaso con un paio d’ali. Il foglio di via, una frase pronunciata a Bruxelles a marzo e ritagliata a margine di un lungo ragionamento sui percorsi culturali: “Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa, dovrebbero aprire un casino”. La puntuale riprovazione ipocrita dell’intero arco costituzionale, governatore in testa, la controfirma all’espulsione. Ora che in meno di 90 giorni il decreto Battiato è diventato legge e nell’isola i finanzieri scardinano la trasversale impalcatura di escort e regalìe, l’asceta di Milo non si aspetta scuse terrene: “Questo Paese è una barzelletta, Il tempo è stato galantuomo, ma sei onesto e dici la verità non c’è smentita possibile. A poco a poco cadono le maschere. Dopo i 30 anni ognuno ha la faccia che si merita e la farina, come si dice, va in crusca”.

È andata in crusca, in effetti.

«Avevano deciso di farmi fuori ben prima di Bruxelles. Ma non importa. È una storia chiusa. Come dicono i francesi: “Je m’en fous, ça ne me dérange pas”. Al potere piace travestire i sudditi da idioti, ma gli italiani non sono scemi. Hanno già visto tutto, compreso ogni cosa. Non le nascondo che da allora non posso più andare in giro. Il musicista Battiato è passato in terz’ordine, mi fanno dei complimenti che non ho mai avuto in vita mia».

Nel cacciarla dalla Regione, destra, sinistra e centro dissero che ce l’aveva con le donne. Boldrini, Grasso, Fornero, mezzo parlamentino siciliano. Santanchè, anche: “Ignoranza becera senza confini”.

«L’elegantissima cantrice del “lui ci vuole tutte in orizzontale, ma io non gliela do”? Donna di rara finezza, sì. Mi hanno accusato di misogìnia, ma l’hanno fatto in evidente malafede. Io non ce l’ho con le prostitute. Non riconosco proprio il genere come categoria. Per me maschile, femminile e animale nuotano nello stesso insieme. Qui il fatto grave e inaccettabile è che le escort vanno in Parlamento, diventano politici e usano i soldi con cui paghiamo le tasse. Ma ripeto, le ragazze non hanno colpe. I frustrati che le vendono al mercato, invece sì. Sono dappertutto, è incredibile, come il cacio sui maccheroni. A Bruxelles parlai anche di Lusi. Non c’è uno che l’abbia scritto. Tutti a sparare sul dito, mentre indicavo la luna. Domina l’ipocrisia. Non sarebbe più facile dichiarare che la tassa occulta per le escort è una specie di Imu aggiuntiva? In fondo, nell’interpretazione di questi signori, la donna è solo una merce di scambio».

L’idea del mercimonio è antichissima.

«Ricorda Bandiera bianca? “Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro”. Finché in Parlamento rimarranno 100 deputati funzionali al mantenimento dello status quo, non gireremo pagina. Prenda il governo Letta. Fa venire il dubbio che gli ultimi 20 anni di barricate siano stati una finzione. Che se certi uccellini non avessero avvisato al momento giusto Berlusconi, anche gli Scilipoti e i Razzi non avrebbero avuto un loro ruolo».

Se Berlusconi viene interdetto, il Pdl lascerà il Parlamento.

«Oggi ho sentito distrattamente uno scemo che lo sosteneva. Robe da matti. Farse terribili. Forza, andate via. Magari lo facessero davvero».

Lei rifarebbe l’assessore?

«Non lo volevo fare neanche prima. Dissi “vengo a patto che non debba dialogare con i politici e possa confrontarmi con le intelligenze”. Crocetta insistette. È finita come è finita. Diciamo che lui non era il rivoluzionario che mi aspettavo e io ero quello che sono sempre stato».

Si dice si sia pentito e abbia provato a organizzare una carrambata pacificatoria a uso e consumo delle telecamere.

«E questo come l’ha saputo? Lui continua a dire con un certo coraggio a chiunque, alle Iene l’ultima volta, 10 giorni fa, che i nostri rapporti sono splendidi e ci sentiamo spessissimo. Non ci parliamo da mesi».

Antidoti all’orrore?

«Seguire la propria coscienza. Sono un fan di Jack Sarfatti, uno studioso che la mette al centro della sua ricerca. Che ce ne facciamo di una fisica quantistica che ignora l’amore e il cervello? Se non sei in grado di individuare i pensieri di un uomo, è meglio che tu faccia il geometra».

Dell’uomo nuovo del suo ultimo disco però non c’è ancora traccia.

«Ma è pieno di gente in gamba, consapevole. Giorni fa ero a Roma, avrò preso il taxi 20 volte. Non c’è stato conducente che non mi abbia rivelato il desiderio di buttare Alemanno nel Tevere. Ovviamente è una metafora, non vorrei che l’ex sindaco si risentisse. (Sorride)»

E il caos dei grillini?

«Li ho incontrati. Entusiasti, volevano devolverci i loro stipendi, mi sono piaciuti. Ma, purtroppo, mi pare stia franando tutto perché i lupi romani, felici, approfittano dell’ingenuità naïf per sbranarne le ragioni». Da Il Fatto Quotidiano del 20 giugno 2013

Basta con Weinstein! Godetevi il sesso e i suoi problemi con “Big Mouth”. La serie animata Netflix, racconta la pubertà vissuta dagli adolescenti in modo esilarante e politicamente scorretto. Che sollievo vederci restituire il sesso nella sua selvatica, odiosa e meravigliosa indomabilità, senza premesse e censure, scrive Simonetta Sciandivasci il 21 Ottobre 2017 su L’Inkiesta.  Educazione sessuale, quoi faire? Chi lo sa cosa sia più giusto, tra modello latino (tesoro, il fratellino l'ha portato la cicogna), modello inglese (dal 2019, correrà obbligo in tutte le scuole del Regno, pubbliche e private, di impartire lezioni su cosa significhi essere in una coppia, come si fa l'amore, come si costruisce una relazione "sana ed equilibrata"), modello università della vita (il genitore omette l'esistenza di una sfera sessuale, tanto prima o poi i suoi figli incontreranno qualcuno che glielo dirà, no?), modello Psycho (amore, il sesso è roba per delinquenti che abbandonano le loro madri).

In Italia, il problema non si pone abbastanza ma si dovrebbe porre: negli ultimi anni sono aumentate le malattie sessualmente trasmissibili (un dato impensabile: nel 2014, sono stati diagnosticati 3695 nuovi casi di AIDS); è stato rilevato che i bambini accedono ai siti porno, in media, dagli otto anni in su; le ragazze (diciamo pure ragazzine) madri sono in aumento (e mica solo in Italia: Nick Hornby, nel 2007, ci aveva scritto un romanzo young adult, si chiamava Tutto per una ragazza ed era pure bellissimo); non esiste un accordo sull'opportunità o meno di parlare di gender nelle scuole (l'episodio cult è quello del sindaco di Venezia, Brugnaro, che dieci giorni dopo la sua elezione, due anni fa, ritirò dalle scuole i libri che sfioravano l'argomento); la cronaca è piena di litigi furibondi tra sindaci, insegnanti, genitori che non trovano una linea comune su come e se parlare di sesso a scuola (a febbraio scorso fecero discutere - e anche un po' sorridere - il vescovo sardo che minacciò di revocare l'idoneità di insegnamento al professore che aveva osato parlare in classe di come si viene al mondo e il "corso sull'affettività" denunciato da un insegnante come "ingerenza inammissibile nella vita dei nostri figli").

"Comunque alla scuola media statale hanno iniziato un piano di educazione sessuale: sembra impossibile, eppure è vero ed è voluto dal Ministero! Non ci credete? Andate e vedete, hanno già stanziato due miliardi per comperare i cavoli": così cantava Francesco Guccini, nella sua Talking sul sesso. Era il 1973 e non sembra cambiato molto da allora. Anzi, probabilmente le cose sono anche peggiorate e non tanto a scuola, tra i ragazzi, ma nel mondo adulto, dove il sesso è inibito non solo dalla forza coercitiva e consolidata del tabù, ma dall'idea che sia quasi sempre uno strumento di sopraffazione, che quindi lo si possa e lo si debba educare e domare, forse a causa di una distorsione di due processi che avrebbero dovuto corroborare la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e, invece, se non hanno contribuito, neanche hanno ostacolato che si trasformasse in una specie di controriforma di cui vediamo il paradosso: la sessualizzazione (è una parola orribile, avete ragione: appunto) di tutto e l'idea che al sesso e ai suoi impulsi concorrano soprattutto fattori culturali, che sia possibile sciogliere il legame tra sesso e istinto, che si debba - come si deve - distinguere tra attributi sessuali e istituti (molto dibattuta, soprattutto nella riflessione intorno a utero in affitto/gestazione per altri/maternità surrogata, è la distinzione tra maternità e istituto della maternità e tra maternità e gravidanza).

E poi, c'è il vasto mondo oltre il cisgender: un numero elevato di differenze sessuali che reclamano, con insistenza crescente, il proprio specifico. Insomma, un gran casino davanti al quale gli adulti si ritirano o spaventati o sonnecchiando, mentre ai bambini si tenta di chiudere gli occhi (modello università della vita). L'implosione che ne consegue è uno dei tratti del nostro rapporto con il sesso meglio rappresentati in Big Mouth, serie Netflix di cui è interessante quanto poco si parli, sebbene sia esilarante, scritta magnificamente e politicamente scorretta - contiene, cioè, tutti gli ingredienti che a moltissimi altri prodotti hanno garantito la venerazione - e dura pure poco, 20/25 minuti a episodio, non è mica invalidante come Game of Thrones.

Inizia così: liceo americano, ultimi banchi, due ragazzi assistono, oscillando tra perplessità e disgusto, alla lezione di educazione sessuale sulla composizione dell'utero. Alla prima pronuncia della parola "vagina", a uno di loro appare il Mostro degli Ormoni, un pelosissimo diavolo erotomane che sbava su tutto, trova erogene pure le lavagne e le tube di Falloppio ("Falloppio, che parola gustosa!"). Il ragazzino, imbarazzatissimo, lo supplica di andare via, ma quello niente, non se ne va a meno che non gli sia data soddisfazione. Come? Il ragazzo deve per forza masturbarsi: "dai, andiamo in bagno, dai dai dai".

Obbedisce? Certo, naturalmente. Appunto: naturalmente. Sullo sfondo, tra i primi banchi, una ragazza dice: "come mai, in tutti questi video, la pubertà per ragazzi è tipo il miracolo dell'eiaculazione e noi ragazze siamo solo un gomitolo di tubi doloranti?". "Che schifo!", sussurra qualcuno, dietro di lei, che risponde "Già! Per questo ci serve la parità di retribuzione!". Si vede che sono gli Stati Uniti, no? Ricordate adolescenti femministe o nevrotiche in una qualche serie italiana recente? Ma sono gli Stati Uniti anche perché interviene il fico della classe e dice: "Secondo mio padre, prendendo il congedo di maternità, avete già la parità di retribuzione". Riposta: "Ma tuo padre è uno stronzo di avvocato per chi guida in stato di ebbrezza".

Sono gli Stati Uniti a cui siamo stati preparati dai Simpson e restano sullo sfondo. La serie racconta la scoperta del sesso tra gli adolescenti e, meglio, il modo in cui il sesso s'impossessa della vita degli adolescenti, la strappa dal controllo familiare (ambientale?), ne maciulla la volontà e la lancia nella tempesta ormonale senza un accidenti di bagnino, di boa, di bracciolo. Mentre acceleriamo il nostro invecchiamento costringendoci ad abolire la natura, per sostituirla con la cultura, Big Mouth la ristruttura e rappresenta, in vigorosa forza e salute, sotto forma di spiritelli, uno maschio e uno femmina, sboccati, gaudenti, viveur, costantemente nudi (il maschio ha sempre con sé il "pisello ebreo", diciamo di scorta, con tanto di kippah e occhiali da vista), scattanti, ricattatori, infantili, bizzosi, lunatici, iniqui, anarchici, sensuali, sensualissimi, mal consigliati e mal consiglieri ("tua madre è in declino, tu sei un fiore, smetti di chiamarla mamma e cacciala via!"; "di' al tuo amico di mandare alla sua fidanzatina una foto del suo cazzo: le ragazze lo adorano, soprattutto quando sbuca fuori dal contesto!").

Che sollievo vederci restituire il sesso nella sua selvatica, odiosa e meravigliosa indomabilità, senza premesse, senza avvertimenti, senza "attenzione questo potrebbe urtarvi, questo non è adatto a voi se siete troppo sensibili, tutto quello che state per vedere è frutto di pura fantasia", vederlo soggiogare e manipolare il momento in cui una femmina e un maschio diventano un uomo e una donna e capire che forse non c’è pericolo, né nel lasciare gli adolescenti in balìa del tumulto ormonale, né nel ribadire la netta differenza tra maschile e femminile.

Che sollievo ricordarci che c'è stato un tempo della nostra vita in cui abbiamo trovato sensuali persino i pomodori, le sedie, i cuscini (se donne: abbiamo avuto a che fare con coetanei che trovavano sensuali persino i pomodori, le sedie, i cuscini). E che ce ne vergognavamo ed era terribile e non volevamo l'erezione, le mestruazioni, l'orgasmo, le polluzioni, i peli, le tette, il sudore.

La scoperta del piacere femminile è raccontata divinamente e, insieme ai suoi sensi di colpa - la secchiona al suo primo bacio: "Oddio, perdonami, non avrei mai dovuto spingerti addosso il mio monte di Venere!” -, alle sue inversioni, alle sue timidezze, stupisce e terrorizza sia le femmine che i maschi. C'è un episodio in cui tutte le ragazze del liceo impazziscono per un libro, "La rocca di Gibilterra", un romanzo rosa-storico sulle travagliate pene d'amore di un eroe latino, Gustavo. I maschietti non capiscono perché le femmine lo amino tanto e sospirino, in estasi, quando lo leggono, finché una ragazza spiega loro "quello che eccita le ragazze è che Gustavo e la sua donna non possono fare sesso!".

E i genitori? Mamma e papà progressisti, felici, in pace con il sesso tanto da sembrare continuamente in procinto di farlo anche durante la cena, manuali dell'educazione sessuale viventi e parlanti che, concordi su tutto, dicono frasi come "tesoro, se sei gay è anche meglio, parlacene liberamente" o "tua madre non solo ha partorito voi tre senza epidurale, ma ha anche fatto questa meravigliosa cena", hanno un figlio imbranato, che trema davanti alle donne. Il ragazzino che, per primo, conosce i tormenti della pubertà e ha l'onore di essere selezionato dal Mostro degli Ormoni come suo primo cliente, ha una mamma che tenta di insegnargli come si fanno i bambini servendosi di una banana e di un preservativo e un padre che la interrompe e urla "quando vorrà sapere qualcosa, farà bene a tenere la bocca chiusa!".

Poiché la settimana #Weinstein è stata quella che è stata, qualche esagerazione ha suggerito che gli uomini sono mostri e che il sesso piace solo a loro, se possiamo, disintossichiamoci con "Big Mouth". Magari il passo successivo potrebbe essere un impegno sensato per trovare la maniera migliore di fare educazione sessuale distinguendola dall’igiene mentale.

Adolescenti a scuola di sesso. Solo sul web. L'educazione sessuale non esiste. Né in classe né in famiglia. E i ragazzi fanno da sé. Su Internet: tra chat, webcam e siti per adulti, scrive Caterina Bonvicini l'11 ottobre 2016 su "L'Espresso". I ragazzi hanno solo bisogno di essere ascoltati. Subito parlano a valanga, se qualcuno si interessa al loro mondo, difficilissimo. Capita il caso di cronaca e ci mettiamo sull’attenti: una diciassettenne, a Rimini, viene fatta ubriacare, viene violentata nel bagno di un locale e l’amica, invece di difenderla, fa un video. A noi sembra un crimine, invece è la loro quotidianità. A Palermo, raccontano dei sedicenni, girava la satira di un tutorial: come avere rapporti orali con due ragazze contemporaneamente. Il video, diffuso su Whatsapp, ha raggiunto persino i genitori degli interessati in Cina. «E questo ha scatenato un effetto domino», spiegano: «Dopo tutti si sentivano autorizzati a spedire in giro foto delle loro ex nude». E quali conseguenze ci sono state per le due ragazze? «Nessuna», rispondono: «Una si è fidanzata e l’altra continua a fare queste cose». Il sexting è la normalità.

LEZIONI A LUCI ROSSE. Non a caso Snapchat è un social molto usato dai ragazzi (tanto che Instagram adesso cerca di copiare la formula). Alcuni scelgono addirittura Telegram, come i jihadisti, perché sfugge alla polizia postale. A forza di ripetere che la memoria in Rete è eterna, ormai si fidano di più dell’effimero, della foto che dopo ventiquattro ore scompare. Se qualcuno fa lo screen e salva la tua immagine, ti arriva una notifica e questo basta a rassicurarli. Il problema è che quando un rapporto finisce, la foto resta in mano a una persona magari molto arrabbiata. «A una mia amica è capitato», racconta una sedicenne: «Aveva un ragazzo ma si faceva delle foto nuda e le mandava a un altro, che un giorno le ha postate tutte su Facebook, taggando il fidanzato ufficiale». Ancora più insidiosi sono i siti di incontri. Se si parla un po’ con i ragazzi, si scopre che vanno forte i rapporti virtuali con sconosciuti. «Pericolosissimi», commenta Sabrynex, diciassettenne diventata famosa su Wattpad (che ora pubblica per Rizzoli): «Perché spesso gli incontri vengono registrati». E racconta che sono focolai di prostituzione: «Ci sono ragazze disposte a spogliarsi davanti a una webcam in cambio di una ricarica telefonica». Spiega che questo succede perché c’è «un grande scollamento fra la vita reale e quella virtuale». I suoi coetanei magari sono timidi e impacciati nei rapporti reali, ma online si trasformano. «Dallo schermo ti senti protetto», dice. Usano Lovoo, Chatroulette, Omegle, dove non ti devi nemmeno registrare (una chat anonima fra due persone, You e Stranger), e persino Tinder. «In sostanza hai davanti solo dei genitali», spiega un sedicenne: «Non vedi neanche le facce. Molte ragazze entrano per curiosità, oscurando la webcam. Almeno all’inizio». Insomma la generazione YouPorn, che impara tutto quello che c’è da imparare dalla Rete, a un certo punto non si accontenta più di guardare. Ci mettono un attimo a diventare loro gli attori. E tutto è organizzato perché possano farlo. «Si guarda YouPorn solo in prima e seconda media», spiega un quattordicenne: «Poi è considerato superato». Il primo video glielo ha fatto vedere una compagna di classe («le ragazze sono le più spigliate e anche le più sboccate») e descrive la sessualizzazione precoce delle coetanee. «Cominciano con i rapporti orali intorno ai dodici e tredici anni», racconta: «Poi intorno ai quindici passano ai rapporti completi». Insomma, l’educazione poco sentimentale - perché il sesso è vissuto a parte, sempre a distanza dal sentimento - per loro è un fai da te selvaggio, un passaparola fra amici davanti a uno smartphone.

LA SCUOLA CHE NON C'E'. Del resto, la scuola su questo fronte li ha completamente abbandonati. L’educazione sessuale è obbligatoria in tutti i paesi Ue tranne Bulgaria, Cipro, Polonia, Romania e Italia. In Svezia si insegna dal 1955. Da noi, invece, si fanno proposte di legge per introdurre la materia nelle scuole dal 1975, ma vengono tutte puntualmente bocciate. Leggendo studi internazionali sul tema in riviste specializzate, ci si accorge che i risultati delle ricerche fatte attraverso focus group sono tutti molto simili. Il problema è globale. E la risposta alla domanda «Da dove trai le tue informazioni in materia sessuale?» è uguale dappertutto. «Su Internet», rispondono i giovanissimi. Gli studi sottolineano anche la lucidità dei campioni, perché i ragazzi non negano che il loro rapporto con il sesso sia condizionato da questa formazione. Il loro immaginario ormai ha l’imprinting di YouPorn: ragazze magrissime con un petto enorme, maschi con genitali immensi, tutti rigorosamente depilati, orgasmi dimostrativi, rapporti anali obbligatori. C’è molta frustrazione davanti a questi modelli, e tanta ansia da prestazione. E qui, studi scientifici e voci di ragazzi concordano. Te lo dicono anche loro, candidamente. Quella è fiction, non saremo mai così. Intanto però la fiction agisce, fondando un immaginario collettivo. Persino le fanfiction, genere letterario di moda fra le adolescenti, in cui una ragazzina immagina la sua storia d’amore con un personaggio famoso, uno youtuber o il cantante preferito, sono pornografiche. Veri e propri sogni erotici in pubblico. «Internet non va demonizzato, è solo uno strumento che bisogna saper utilizzare. Gli adolescenti non sono maturi da un punto di vista neurologico, sono portati all’agire e solo dopo a riflettere, quando le conseguenze sono ormai incontrollabili», spiega Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dello sviluppo alla Cattolica di Milano, che ha organizzato diversi focus group nelle scuole italiane. E racconta che questa autoeducazione selvaggia ha portato a un aumento non tanto delle gravidanze indesiderate, quanto della richiesta della pillola del giorno dopo e soprattutto a un incremento delle malattie sessualmente trasmissibili.

ORFANI DIGITALI. Se la scuola non se ne occupa, allora tocca ai genitori. Lo spiega bene il libro di Alberto Pellai, ricercatore del dipartimento di scienze biomediche alla Statale di Milano, “Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di Internet” (De Agostini). Parla di undicenni dipendenti da YouPorn, di ragazzine ricattate da adescatori online, di sexting e altre pericolose abitudini dei nativi digitali. «La scoperta di materiale pornografico in rete avviene entro la terza media nel 70 per cento dei casi», spiega Pellai: «Il problema è la distanza fra quello che fanno i ragazzi e la percezione che ne hanno i genitori. Il 60 per cento è convinto che il proprio figlio non guarderebbe mai un video su YouPorn. Invece. Durante l’adolescenza, i genitori conservano un presidio sulla vita reale dei loro figli ma non su quella virtuale. Tanti nostri figli sono orfani nella loro vita online». Naturalmente il rischio pedofilia è aumentato. Non basta più accertarsi che i ragazzi non frequentino persone sbagliate, ormai in Rete possono essere avvicinati da chiunque, nella loro stanza, a un passo dai genitori. «In una ricerca di Save the Children», racconta Pellai, «il 50 per cento degli adulti dichiara di avere avuto contatti online con un minorenne sconosciuto. Nella vita reale abbiamo dei codici di protezione che agiscono in automatico, ma nella vita virtuale ci comportiamo tutti come adolescenti, perdiamo il senso del confine. Perché nell’online è fortemente sollecitata la parte emotiva dell’individuo, che sta nell’amigdala e nell’ippocampo, che è la parte del cervello più sviluppata negli adolescenti, appunto. La parte cognitiva, invece, la parte dei lobi frontali, nei ragazzi è ancora un cantiere aperto. Per questo fanno le cose senza pensare alle conseguenze e sono tanto vulnerabili. Insomma, un genitore deve diventare il lobo frontale di suo figlio, se vuole proteggerlo».

LE (NUOVE) PAROLE PER DIRLO. Nadia Tempest, vlogger di culto fra gli adolescenti, ha ventinove anni, non è una nativa digitale, ma conosce a fondo il suo pubblico. E nota tante cose. Per esempio che sulla sessualità sanno tutto, ma che l’informazione vera manca. «Il ciclo mestruale per loro è ancora un tabù», dice: «Non ne parlano nemmeno con i genitori. Allora mi sono inventata un nome per sdoganarlo: lo chiamo Fausto. C’è progresso a livello di spigliatezza ma regresso nelle conoscenze. Un paradosso». Spiega che il sexting è così diffuso perché le ragazze si fidano delle chat private, senza capire quanto sono pericolose. «Le chat private ti fanno sentire al sicuro. I ragazzi usano tutto in privato: chat di Whatsapp o di Facebook, direct di Instagram. E pensano che sia davvero privato quello che invece privato non è. La delusione è dietro l’angolo», dice. E quando lei racconta del primo ragazzo che l’ha lasciata, le rispondono: «Ti ha mollata perché non avevi fatto l’amore con lui». Lo considerano un dovere sociale. E YouTube? In realtà, si scopre che è il canale più controllato di tutti, e dunque il più casto e il meno frequentato per scoprire il sesso: un po’ per tutte le sponsorizzazioni, un po’ per la politica del marchio. Di sesso sulla piattaforma web si tende a non parlare; e non lo fanno neanche i vlogger più seguiti, investiti di autorità e di responsabilità. Al massimo, come ha fatto Cleo Toms (vlogger da 16 milioni di seguaci), si prestano come testimonial per una campagna correttissima sulla contraccezione. La Rete trasgressiva, in cui i ragazzi si tuffano senza esitare, e dove nascono immaginari e linguaggi, è altrove. Come spiegano i ragazzi. Perché è la lingua a creare i miti, anche i più terribili. Per esempio, il mito delle Duemila. «Sei una Duemila», dicono. Significa: «Sei una puttana». La società si è evoluta in modo troppo eccitato, loro hanno cercato una sintesi, come potevano. E le sintesi hanno una loro irrevocabile crudeltà. I quattordicenni hanno alzato la soglia, destinata a salire sempre: «Sei una Duemiladue», dicono. Se sei nata nell’anno sbagliato e sei una ragazza seria, per farti un complimento, ti spostano nel millennio precedente: «Ma tu sei un Novantanove mancato, dai». Grazie. Povere Duemila, che mondo complicato hanno intorno.

Il porno 2.0? Vietato toccarsi. Si chatta, si regalano virtualmente parti del corpo mentre ci si incontra meno. E riappare trionfante la masturbazione, che dal '68 si credeva in declino. Diminuisce il contatto reale tra i sessi, che da sempre e in tante forme ha nutrito la società, scrive Luigi Zoja il 13 novembre 2017 su "L'Espresso". In natura è il corpo femminile che assicura la sopravvivenza dei gruppi. Questo corpo interessa i maschi per più di un motivo. Secondo diverse ricostruzioni, i maschi avrebbero preso il dominio nelle società sia per assicurarsene il possesso, sia per controllare che le gravidanze fossero opera loro e non di uno straniero di passaggio. Dal maschio con la clava che, negli stereotipi, trascina per i capelli la femmina, alla libertà sessuale di oggi tutto sembra cambiato. Eppure, sotto i cambiamenti, possiamo rintracciare ciò che non varia.

L. è un liceale del ceto medio di una media città europea. Essendo “normale”, è anche bravo col computer, attratto dal corpo femminile e studiare lo annoia. Come rimedio scarica da Internet foto di ragazze poco vestite. Le inserisce nel suo Instagram Account, chiamandole officialhotgirls. Fa lo stesso con un suo Facebook Account battezzandole Scandinavian Girls: poi lo utilizza per far conoscere officialhotgirls e viceversa. Sorpresa: dopo una decina di giorni ha già 5.000 followers. (Io non ho mai avuto Facebook, Instagram, Twitter, ma ho cercato – come mi hanno detto che deve avvenire – di essere invidioso di chi ha tanti followers. Non so se ci sono riuscito, ma trovo la vicenda molto interessante). Poiché i followers di L. leggevano in Internet che il loro numero era in crescita, le ragazze sono state colte da una tentazione: quelle che a loro volta avevano una pagina web hanno cominciato a inviargli delle loro foto provocanti chiedendogli di pubblicarle, in modo da generare un circolo virtuoso che aumentasse la popolarità dei loro siti personali, quindi i loro followers. L. pubblicava le migliori: così, oltre a quelli delle ragazze, crescevano di centinaia alla settimana anche i suoi followers.

Tutta la piramide – L. al vertice, poi l’harem di corpi pubblicati, più sotto i followers sia di lui che delle ragazze – stava sprofondando in quell’immaginario dove esisti quando di te esiste una immagine pubblica. Secondo un best seller americano (C. Hedges The Empire of Illusion) è il definitivo allontanamento dai riferimenti reali - politici o intellettuali - sostituiti dal culto delle celebrities (create per nutrire la fantasia). Il passo seguente è il ritiro dei giovani dagli incontri reali, rimpiazzato dai contatti per smartphone (o computer: descritto in iGen di J. Twenge, purtroppo anch’esso non tradotto). In pochi anni gli incontri fra gli adolescenti americani si sono ridotti del 40%: intendiamoci, non è solo un male, in questo modo sono crollati anche il loro abuso di sostanze, gli incidenti stradali, le gravidanze indesiderate. L’ultimo fatto ci riporta alla sessualità e a L. Anche fotografi professionisti cominciarono a chiedergli di pubblicare le loro “modelle”. Insieme al successo arrivava però qualche rischio: quali erano minorenni? Le identità erano falsificate o rubate? Come verifica d’identità L. cominciò a chiedere che, a lui privatamente, mandassero anche un’altra foto: sulla tanta pelle scoperta, dovevano scrivere a mano un messaggio per lui.

Superati i 45.000 followers, L. cominciò a programmare un viaggio fra le ragazze sparse su tutti i continenti. Non facile, erano ormai 750: ma quanti diciottenni avrebbero resistito? Per preparare il terreno, chiese se avrebbe potuto fare altre foto di persona: gli offrirono cose che omettiamo perché state leggendo un settimanale serio. Le complicazioni incontrarono una soluzione semplice. Essendo L. normale aveva una ragazza, a sua volta normale: che, stanca di dover rovistare tra seni e glutei virtuali per scovare il fidanzato reale, gli comunicò che lo lasciava. Contagiato da un attacco di normalità, L. ha interrotto l’onnipotente crescita dell’eros virtuale, ha superato la maturità e pensa a cosa farà da grande. Tiene però le sue pagine – congelate, ma pubbliche - come salvadanaio virtuale. Un giorno potrebbe aprire una attività di qualunque tipo: le decine di migliaia di followers e le foto gli offrirebbero una partenza che altri ventenni neppure si sognano.

Osservando la repressione sessuale di fine Ottocento, Freud ci ha insegnato che, se la coscienza si sbilancia in modo innaturale, la psiche inconscia si sposterà in direzione opposta per ritrovare l’equilibrio: esso si ristabilisce, ma in modo nevrotico. Jung ha aggiunto che la nevrosi riguarda non solo gli individui ma il collettivo. Nei secoli in cui l’identità femminile era troppo repressa, nacquero le leggende sulle streghe: essa continuava ad esistere, ma nell’inconscio collettivo, che la rigurgitava in forma malata. Pure la nostra epoca è nevrotica. Nel XXI secolo anche il garbato porno-soft di L. rappresenta una forma di arcaico maschilismo e quasi di razzismo: le sue foto provengono da ogni continente ma raffigurano ragazze bianche. Hanno il corpo, non la mente. Solo una ha un libro: ma si è addormentata, lasciandolo cadere su certe parti. Suggerisce di sollevarlo, non per vedere cosa legge ma cosa c’è sotto.

Anche se è un oggetto, come nella tradizione repressiva, questa libertà del corpo femminile suscita in altre parti del mondo un radicale rifiuto. I combattenti dell’Isis considerano noi occidentali irrimediabilmente perversi e lottano perché quel corpo sia completamente controllato dagli uomini, sia del tutto nascosto alla vista, e addirittura si possa comprare o vendere. L’Islam e certe sue versioni fondamentaliste esistono da secoli: però le sue attività perverse sono esplose con la globalizzazione e con l’uso universale di Internet. La loro rappresentanza più cospicua non viene da paesi islamici, ma da minoranze musulmane europee frustrate, che nella crudeltà e nella morte cercano una rivincita preferibile alla docilità e alla vita. L’Isis sogna un califfato scomparso da secoli, ma - come i nostri adolescenti - non può far a meno di una presenza quotidiana nel web. In questo, i suoi sono ragazzi “normali” come i nostri. Il suo porno, però, si affida a Thanatos (le decapitazioni online) anziché a Eros. I nostri contenuti web sono da loro proibiti: il porno-soft occidentale rappresenta l’inconscio collettivo del fondamentalismo islamico. Ma contemporaneamente la loro violenza rappresenta il nostro: il colonialismo e le guerre mondiali dimostrano che gli europei non sono meno violenti. Insomma, proprio perché è senza limiti Internet si alimenta delle diverse patologie collettive: purtroppo le “contiene” ma non le controlla. Non esistono soluzioni vicine all’opposizione tra Occidente e Islam fondamentalista. Sarebbe comunque frettoloso convincersi che noi siamo sulla retta via, mentre loro inventano la retromarcia della storia. Stiamo soltanto attraversando un periodo in cui disponiamo di maggior ricchezza e cultura, mentre dispieghiamo meno violenza: ma non è detto che sia per sempre. L’esempio del nostro rapporto con l’Eros ci mostra come certe marce, che qualcuno credeva definitive, possono diventare retromarce. I dati - per ora frammentari - ci dicono che, per la prima volta dopo Freud, gli incontri sessuali tra i giovani stanno crollando. Si chatta, si regalano virtualmente parti del corpo: ma per Internet, mentre ci si incontra meno. Le adolescenti si offrono, ma mediante lo smartphone. I maschi coetanei gradiscono, ma sempre virtualmente. Riappare trionfante la masturbazione, che dal 68 si credeva in declino. Diminuisce il contatto reale tra i sessi, che da sempre e in tante forme ha nutrito la società.

Sesso e carriera, Lory Del Santo: "Sono stata con chi mi ha aiutato, per gratitudine". La showgirl non si è mai concessa per un ruolo in tv o in un film, ma confessa di essere stata "generosa" con chi l'ha favorita nella sua carriera, scrive il 20 marzo 2017 "Today". E' un mondo difficile quello dello spettacolo, e non è un segreto che molte aspiranti showgirl sono disposte a tutto pur di emergere. Non sempre però concedersi a qualcuno di importante significa avere la carriera assicurata, parola di Lory Del Santo, che in un'intervista a Il Giorno ha assicurato di non essere mai scesa a compromessi per lavorare. "Molte donne pensano che in questo modo si faccia carriera più velocemente - ha spiegato - Secondo me è una cosa da valutare caso per caso, bisogna vedere se ci sono i termini. Per me non è stato così. Mi è capitato solo una volta con un regista televisivo, ero vestita con short molto succinti e lui mi ha fatto sedere sulle sue ginocchia. La cosa non mi è piaciuta e me ne sono andata, perché ho capito che non avrebbe fatto la differenza".  Non condanna un certo tipo di compromesso Lory Del Santo, ma invita a fare attenzione: "Bisogna capire se ti può davvero essere utile, perché magari acconsenti e non ne ricevi niente. Occorre essere brave a intuire se è davvero l'occasione giusta per avere un programma o una parte in un film. In quel caso lo avrei fatto, lo farei anche adesso ma ormai è troppo tardi, non c'è nessuno interessato. Al limite in un paio di occasioni sono stata con chi mi aveva favorito, ma solo dopo, come una forma di ringraziamento".

Federica Brocchetti. L’assistente in nero dell’Onorevole Mario Caruso che sfida il Parlamento. Federica Brocchetti, chi è l'assistente in nero dell'Onorevole Mario caruso che oggi sfida il Parlamento mettendoci la faccia. Le sue denunce a volto scoperto, scrive Emanuela Longo l'11 ottobre 2017 su "Il Sussidiario". Federica Brocchetti è uscita allo scoperto mettendoci non solo nome ed il cognome ma anche la faccia. E' lei la coraggiosa assistente dell'Onorevole Mario Caruso, al centro della bufera dopo i servizi de Le Iene Show, nell'ambito di una vicenda che la stessa Presidente della Camera ha definito nei giorni scorsi "vergognosa e imbarazzante". Dopo il precedente servizio della passata settimana nel corso della trasmissione di Italia 1, in cui la giovane - che per un anno e mezzo ha lavorato a nero, senza un contratto ma dotata di badge, come portaborse dell'Onorevole Caruso - aveva dato la sua testimonianza ma solo di spalle, questa volta ha deciso di andare fino in fondo. A volto scoperto, alle telecamere della medesima trasmissione, ha spiegato chi è e come mai ha deciso di denunciare un fatto gravissimo avvenuto in Parlamento: "Io sono stata l'assistente parlamentare per un anno e mezzo dell'onorevole Caruso. Durante questo anno e mezzo ho lavorato per lui senza avere un contratto e senza percepire nessuna forma di pagamento". La vera chicca denunciata dalla ragazza, è che ad essere segnato come assistente del Parlamentare era Fabrizio Rossi, figlio del Sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, il quale pur non presentandosi mai in ufficio percepiva ugualmente uno stipendio. Non solo le denunce in riferimento al contratto in nero, ma anche quelle sulle presunte avances: Federica Brocchetti ha realizzato un documento esclusivo nel quale ha dimostrato quanto accadeva tra le mura del Parlamento tra l'onorevole Caruso ed un proprio collaboratore. Il parlamentare ha anche spiegato alla ragazza come mai il figlio del Sottosegretario venisse pagato pur non andando mai in ufficio, ovvero per via di una "cortesia" che Caruso avrebbe fatto a Rossi. E sulle proposte particolari, Federica ha raccontato quanto avvenuto in un ristorante di Piazza Cavour: "Durante questa cena inizia a dirmi che aveva un interesse nei miei confronti e che se fossi andata a letto con lui mi avrebbe messo a capo di una segreteria e che mi avrebbe fatto questo contratto". La giovane ha rifiutato la proposta ma qualche notte dopo proprio l'onorevole le avrebbe mandato un sms che lasciava intendere le intenzioni di un differente rapporto tra loro. Sul caso è intervenuta la Boldrini, specificando però che le responsabilità non sarebbero dell'istituzione Camera. Il tesserino, a Federica però le sarebbe stato rilasciato proprio dalla Camera dei Deputati su richiesta dell'onorevole Caruso nonostante non avesse alcun contratto. Dall'inizio dello scandalo il parlamentare non l'avrebbe più cercata né chiesto scusa ma tramite terze persone le avrebbe anzi detto di non presentarsi più in ufficio.

Care donne, ai potenti basta saper dire un «no». Il pentimento postumo? Peggiore della scelta di finire in un letto importante pensando solo alla carriera, scrive Annalisa Chirico, Giovedì 12/10/2017, su "Il Giornale". Di tipi à la Weinstein è pieno il mondo. Man mano che si allunga la lista delle denuncianti contro il produttore di Hollywood, Harvey Weinstein, emerge la scomoda verità: a codesti esemplari di vil maschio si può sempre dire «no, grazie». La scelta opposta, quella di dire «sì» cedendo a lusinghe e capricci del potente di turno, consente talvolta di cogliere frutti immediati, al prezzo di qualche rimorso oltremodo tardivo. I Weinstein esistono in ogni mestiere e ad ogni latitudine, sono uomini perennemente infoiati, chiamarli «maiali» rischierebbe di offendere il suino incolpevole, patologicamente allupati ti blandiscono, ti toccano mentre versano il vino, ti parlano a un palmo dal naso, ti inondano di messaggi e inviti. Se ti distrai un istante, te li ritrovi seminudi nel letto. Non serve essere donne navigate per riconoscerli, avvertirne il puzzo e allontanarli. Non è un caso che Angelina Jolie, per citarne una, abbia raccontato al New York Times le avance indesiderate ricevute nel 1998: «Ho avuto una brutta esperienza con Harvey Weinstein in gioventù e, come risultato, ho scelto di non lavorare più con lui, mettendo in guardia le altre quando lo facevano». Lui ci ha provato, lei lo ha respinto. Sono cose che succedono nel puzzle degli incastri possibili, l'economista Richard Thaler ha vinto il premio Nobel enfatizzando il potere del «nudging», della spinta gentile, del colpetto che incentiva e persuade senza bisogno di coercizione. Quelli à la Weinstein non sono stupratori aggressivi che ti sbattono al muro e ti immobilizzano. Sono molestatori subliminali, usano il personale carisma, la posizione di potere, la ricchezza sfavillante per ammaliare la preda, per circuirla fino a persuaderla al rapporto sessuale. Il giochino riesce quando le ragazze si lasciano convincere, in tal caso non respingono le avance, non girano i tacchi, non si divincolano sdegnate. In altre parole, ci stanno. Nessun giudizio morale da queste parti: ogni donna decide liberamente come usare il proprio corpo, a quale scopo, e la carriera può essere un ottimo obiettivo. Da che mondo è mondo, le donne vanno a letto con gli uomini e per le ragioni più disparate, non sempre perché rapite dall'invincibile sentimento di eterno amore. «Ero una ragazzina, avevo firmato, ero pietrificata», ha dichiarato Gwyneth Paltrow, pure lei vittima dell'assedio di Weinstein che, al termine di un incontro di lavoro, le propose una sessione di massaggi nella sala accanto. La Paltrow rifiutò e, tornata a casa, confidò l'episodio all'allora fidanzato Brad Pitt. Il quale non gradì e affrontò il produttore. Non risulta che la promettente Gwyneth sia stata perciò tagliata fuori da Hollywood. A conferma che si può sempre dire di no. Se invece si decide di dire sì, sarebbe meglio coglierne i vantaggi senza gridare al trauma con effetto ritardato. Asia Argento è una di quelle che ha detto sì, anche davanti a lei, all'epoca ventunenne, il monotono Weinstein si presentò in accappatoio pronto per il massaggio. Al New Yorker la Argento ha raccontato di aver ricevuto in quel caso del sesso orale, di aver evitato denunce per non compromettere la carriera, di aver proseguito con lui una relazione nel corso dei successivi cinque anni, andandoci anche a letto, sempre in modo consensuale. Addirittura Weinstein le avrebbe presentato sua madre, e in un momento di difficoltà economica si sarebbe offerto di pagare una tata per la figlia di lei. Questo è un caso limite in cui la denuncia via stampa, posticipata di due decenni, rischia di remare a favore del predatore minando invece la credibilità della presunta vittima. Se tutto è stupro, nulla lo è davvero.

L'ipocrisia del "Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico, scrive il 19/05/2014 Simona Bonfante, Giornalista, blogger, su "L'Huffingtonpost.it". Mai credere al Tizio che racconta di come la tal persona sia arrivata al successo solo perché passata dal letto di un Caio importante. Alle persone piace spettegolare, compiacersi del fatto che, se quello ha fatto carriera mentre lui no, è perché ha usato la più ovvia delle scorciatoie - e l'auto-compiacimento non viene meno anche se completamente privo del conforto di elementi probatori. Nel gioco sociale del chi-si-è-scopato-chi-per-arrivare-al-potere si arruola chiunque manifesti più autostima che talento, e può avere qualunque ruolo, costui: il capufficio, la conduttrice tv, il personaggio politico venuto dal nulla. Con il suo "Siamo tutti puttane" Annalisa Chirico sdogana il tema, dando sfogo ad un dibattito pubblico sul puttanismo come condizione più o meno universale dell'essere; ed ad un altro dibattito, al primo speculare - un dibattito clandestino, non necessariamente edificante, gossipparo appunto - su chi si sia scopata lei per arrivare lì. Il coté pubblico della discussione sul puttanismo, va detto, non è tra i più appassionanti e coinvolge per lo più una categoria socio-anagrafica precisa, gli ex sessantottini - attualmente divisi in rimasti tali, e divenuti anti - del cui moralismo ipocrita e della cui doppiezza tra morale pubblica e privata, esiste in realtà già tutta una sterminata letteratura che spazia dalla politica al costume - di cui oltretutto sono ormai addirittura gli stessi protagonisti a farsi autori. È stato il moralissimo Scalfari, per dire, a raccontare il bigamismo crudele cui ha sottoposto per una vita le sue due rispettabilissime signore, non appunto la fatica editoriale della nostra. La Chirico dunque non scopre l'acqua calda, né aggiunge elementi probatori al velleitarismo moralizzatore delle se-non-ora-quandiste. Ci dice quanto quelle siano ipocrite - cosa acclarata - ma non ci fa vedere cosa sia la non-ipocrisia. Dice "noi" siamo tutti puttane, lasciandoci inferire che lo sia anche lei. Non ci dice tuttavia se e in che modo lei stessa si sia prostituita - col proprio corpo o la propria mente - per arrivare ad essere una frequentatrice di salotti tv dopo esser partita, come tanti, da un blog - un blog addirittura radicale, nel senso di pannelliano. Figuriamoci la popolarità! Questa omissione, oltre a nutrire il cazzeggio gossipparo, rende l'autrice ipocrita al pari dei suoi avversari, perché a farci puttani sono scelte personali precise, non generiche condizioni dell'essere, o particolari appartenenze culturali. Si può cioè scegliere eccome anche di non essere puttani. Se non si vuole essere ipocriti al pari dei moralisti di cui si denuncia l'ipocrisia, quindi, non basta collezionare citazioni colte da Wikipedia, farci su un libello e dedurre che puttani siamo tutti. Bisogna partire da sé. Dire "io sono puttana/o" - se lo si è stati davvero - ed argomentare, circostanziare, far arrivare al cuore del puttanismo. Fare i nomi dei personaggi importanti a cui ci si è prostituiti ottenendone vantaggi - rassegnandosi al fatto che questo potrebbe creare imbarazzi nei salotti per bene, che proprio la popolarità ci ha invece adesso abituati a frequentare. Alludere senza provare è ipocrisia. Toh, gossip - e il gossip lo avevamo già. Essere così anti-ipocriti da raccontare di sé avrebbe permesso al dibattito sul puttanismo di andare oltre la inevitabile curiosità su quali lenzuola possano eventualmente essere risultate decisive alla carriera dell'autrice, e mostrare piuttosto come la moralità - che i sinistri riconducono ad una proiezione virginale di sé - si misuri invece proprio sulla capacità di spogliarsi delle ipocrisie coperte dall'anonimato, dall'astrazione, e vestirsi piuttosto di verità, anche quelle meno convenienti per chi come mestiere ha scelto di operare, non di letto, ma di intelletto, ponendosi oltretutto l'ambizione non di contrapporre luoghi comuni a luoghi comuni ma di scardinare il giochetto intellettualmente vile per cui cattiveria, corruzione morale, pavidità - ipocrisia, appunto - appartengono al dirimpettaio, sempre e solo all'altro da sé.

Annalisa Chirico, “Non avrei mai scritto Siamo tutte puttane se non avessi seguito le udienze del processo Ruby, scrive il 4 agosto 2014 “Libreriamo”. Stasera al Festival Capalbio Libri 2014 Annalisa Chirico presenta il suo ultimo libro “Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto”. Un titolo indubbiamente esplicito e volutamente d’impatto ma che assume tutt’altro significato se viene letto alla luce di certi accadimenti politico-sociali che per mesi hanno monopolizzato l’informazione italiana. Edito da Marsilio, il libro ha già scatenato parecchio dibattito, soprattutto tra gli esponenti “bacchettoni” della sinistra italiana. Annalisa Chirico, giornalista e blogger, ha lavorato anche al Parlamento europeo conducendo campagne a favore della libertà di scelta, contro gli eccessi del sistema giudiziario e carcerario, per un femminismo libertario e moderno. Noi l’abbiamo intervistata e le abbiamo chiesto di parlarci del suo libro.

Di cosa parla “Siamo tutti puttane”?

«Il mio libro è un grido di rivolta contro la dittatura in Italia del politicamente corretto, è un pamphlet anti-moralista che da una parte rivendica il sacrosanto diritto di ciascuno di farsi strada nella vita come meglio può, nel rispetto ovviamente della legge ma usando tutte le risorse a disposizione e dall’altra parte propone un femminismo pluralista che rifiuta il modello di donna “angelo del focolare”, madre e moglie perfetta. Il vero femminismo deve lottare affinché sia riconosciuta la libertà di ciascuna donna di essere quello che vuole e parte dall’idea che tutti quanti siamo appunto Angeli e Demoni, non esiste la purezza angelicata; non c’è solo la donna apollinea ma anche quella dionisiaca, che usa abilmente e spregiudicatamente il proprio corpo, il proprio desiderio sessuale e rivendica il fatto naturale di essere donna e di avere un ventre».

Tu ti definisci una “femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione”. Cosa rispondi alle femministe che invece sono contro la mercificazione della donna?

«Non esiste nessuna mercificazione della donna né del suo corpo perché se uno vendesse il proprio corpo saremmo nell’ambito della schiavitù, cosa che è vietata nel nostro Paese. Al massimo esiste la vendita di servizi (sessuali, nell’ambito della prostituzione) o nell’ambito della pubblicità, dell’arte, del cinema (vendita della propria immagine). La donna non è mercificata ma anzi ha la libera facoltà di usare il proprio corpo. Io ribalto il paradigma di queste femministe che io chiamo “Taleban-femministe”. Non c’è nessuno che mercifica le donne o fa di loro degli oggetti, le donne sono dei soggetti attivi, artefici assolute del proprio Destino; anzi ci troviamo all’interno di un paradosso poiché sono proprio i discorsi di certe femministe che hanno trasformato le donne in oggetti. Giunti a questo punto devo fare una precisazione importante: c’è da distinguere tra la prostituzione libera e volontaria, che esiste, e il racket della prostituzione, un fenomeno criminale da combattere, che in Italia è reato. La prostituzione pro libera e pro volontaria invece esiste e a questo devono arrendersi tutte le varie santone del comune senso del pudore, del Sacro Canone Femminile».

Ho letto che hai seguito il processo Ruby da cronista. Questa vicenda ha influito nella stesura del tuo libro?

«All’Università mi occupo di studi di genere ma non avrei mai scritto questo libro se non avessi seguito le udienze del processo Ruby dove sostanzialmente si è tenuto un processo alla Morale, al comune senso del pudore. Per certi versi non sembrava di essere a Milano ma a Kabul ai tempi dei Talebani. Un processo in cui delle donne, una trentina di ragazze, chiamate lì in qualità di testimoni, sono state interrogate, vivisezionate nella loro vita privata e privatissima, nella loro vita sessuale, nelle loro passioni private. I trenini e i merletti di una festa sono diventati oggetto di dibattimento e di istruttoria. A tal proposito devo dire due cose: la prima è che i tribunali devono occuparsi di reati, non di peccati, poiché dei peccati ciascuno risponde alla propria coscienza; e la seconda è che l’assoluzione di Berlusconi in secondo grado senza una nuova istruttoria, al di là delle motivazioni che leggeremo, ci dice una cosa chiara, cioè che le prove per cui Berlusconi era stato condannato a 7 anni in primo grado sono state completamente falcidiate in secondo grado, ritenute cioè non attendibili, non sussistenti. Che poi è quello che io scrivo nel libro: in quel processo non c’erano le prove, Berlusconi non è un santo, quelle ragazze non sono morigerate di Dio e non credo che vadano tutte le domeniche a Messa».

Ultima domanda. Progetti per il futuro? Cosa ti aspetti dopo Capalbio?

«Veramente andrò in vacanza. Anzi ti direi che dopo Cabalbio spero di gustare una buona cena con le persone che verranno a presentare il libro con me».

LA PROVOCAZIONE DI “LIBÉRATION”: UNA PROSTITUTA SPESSO COSTA MENO DI UNA DONNA DA CONQUISTARE, MA LA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI PREFERISCE COMUNQUE PERDERE SOLDI PER RIMORCHIARE, ANCHE SOLO PER UNA NOTTE. COME SI SPIEGA QUESTA SCELTA?

TUTTE LE DONNE SI FANNO PAGARE PER IL SESSO, SOLO CHE CON LE PUTTANE SI PATTUISCE UNA SOMMA MENTRE CON LE ALTRE IL DENARO E’ INVISIBILE, HA LA FORMA DI REGALO, E LA SFIDA ECCITA DI PIU’ L’UOMO, CHE ALLA FINE SPENDE MOLTO DI PIU’. DUNQUE, CHI È PIÙ PUTTANA? LA DONNA CHE VUOLE FARE UN BUON COLPO O CHI ESIGE CENE, DIAMANTI E VIAGGI?

Da Dagospia del 23 novembre 2016. Agnès Giard per “Libération”. Una prostituta spesso costa meno di una donna da conquistare, ma la maggior parte degli uomini preferisce comunque perdere soldi per rimorchiare, anche solo per una notte. Come si spiega questa scelta? Nel 1980 l’antropologa Paola Tabet affermò che la parola “prostituta” non significa nulla perché indica una categoria di donne a parte: quelle che si fanno pagare per il sesso. Il problema è che tutte le donne sono disponibili a contrattare in cambio di un valore-prestigio o di un regalo, secondo lei. Nella maggior parte delle società, se non tutte, la donna è un oggetto di scambio, al pari di beni mobili o immobili. Spingendosi oltre, la Tabet sostiene che, tra le prostitute, quella più indipendente - cioè che si gestisce da sola - trasgredisce le regole sociali. Queste regole vogliono che il compenso ricevuto per il sesso, vada ai genitori, ai fratelli, al pappone. Invece, scandalo: questa prostituta si comporta da donna libera? Sarà questa la ragione per cui viene stigmatizzata? La sociologa francese Catherine Deschamp, nel 2011 ha pubblicato un libro intitolato: “Sesso e denaro: due mostri sacri?”, in cui raccoglie i risultati di un’inchiesta parallela sulla prostituzione nelle vie di Parigi e sui riti di seduzione nei bar. In entrambi i casi, i soldi circolano. Le donne che si fanno offrire da bere flirtano più o meno consapevolmente con il fantasma della prostituzione, ma c’è una differenza enorme: non sono tenute ad andare a letto con gli uomini. Ed è per questa ragione che gli uomini le trovano più affascinanti. Paradossalmente, quando i soldi sono troppo visibili, la relazione perde il suo prezzo. Il denaro deve sparire affinché la relazione uomo-donna abbia un valore. Dice la Deschamps: «I meccanismi del desiderio implicano un regalo ambiguo, tipo un bicchiere al bar, che non dà alcun impegno. Un bicchiere che verrà ritenuto pura cortesia, nel caso in cui il desiderio non è reciproco, o che può introdurre al sesso. I confini restano sfocati e permettono di salvare la faccia». Le apparenze sono salve. Se la donna accetta di andare a letto, in cambio di tanti bicchieri offerti, potrà sempre dire che è stata “soggiogata”. E’ quello che si chiama il potere della seduzione. Al contrario della prostituzione, il denaro esiste ma senza che debba essere conteggiato o richiesto, senza assicurare il colpo sicuro del rapporto sessuale. Chiunque faccia un intervento che renda visibile le modalità dello scambio è un intruso, significa fine della seduzione. Il denaro può essere il motore del desiderio, ma non va detto. E’ una forma di ipocrisia? La stessa Catherine Deschamps è combattuta: è perfettamente cosciente che “il sentimento di amoralità”, necessario alla nascita del desiderio, implica una forma di flirt con il fantasma della puttana. Quando due sconosciuti si incontrano in un bar giocano con questo fantasma e creano le condizioni ideali per un incontro eccitante e trasgressivo. Ma attenzione, bisogna che la donna faccia finta di resistere, seguendo i codici sociali in vigore. Una preda troppo facile da conquistare ha meno valore. Il concetto lo riassunse con ironia Nietzsche, nel 1883, e prima ancora Stendhal, nel 1833: «Si vende, chi non si è donato». Ispirandosi a queste citazioni, la Deschamps fa la sua ipotesi: la stigmatizzazione che colpisce le prostitute non è la stessa che colpisce le donne che si concedono facilmente? Quanto tutto va velocemente, l’uomo non è che un cliente. L’illusione è svanita. Lui preferisce la donna che lo fa aspettare e che non parla di soldi, perché lei, almeno, gli dà l’idea di essere irresistibilmente seducente. Per lei, lui si prodiga più del previsto. Allora la prostituta è discriminata perché riceve una somma pattuita per concedersi all’istante? Quando una donna da sedurre è pagata per vie intermediarie, è più valorizzata? In questo senso, il prezzo e il valore non sono sinonimi. Le somme dispensate dagli uomini nei bar per sedurre, se non sono conosciute in anticipo, spesso sono superiori a quelle che spenderebbero per assicurarsi una donna da marciapiede. Anche i più poveri, per fare colpo, ordinano una bottiglia di champagne, per mostrare valore e rendersi interessanti. Paola Tabet vede un sistema dove il “generoso donatore” e “la donna riconoscente” diventano la sordida manifestazione della disuguaglianza fra i sessi: le donne sono facilmente corruttibili perché sottomesse al potere del denaro. E’ possibile creare uno scambio senza che ci sia un regalo? Fare un dono senza creare un debito? Sembra che il debito sia la conditio sine qua non per un legame affettivo fra gli esseri umani. La mentalità non cambia. Per la gente il sesso per il sesso non è affatto femminile. Essere persone serie, significa non giocare con il sesso. Ne hanno diritto solo gli uomini. Le donne devono avere un progetto coniugale, cercare il tizio con il quale creare una coppia. Per farlo, tutti i mezzi vanno bene, soprattutto mostrare la scollatura ma fare finta di non avere voglia di sesso, avere l’aria distratta e distante, rifiutare la prima sera ma lanciare promesse allusive, così per l’uomo diventa una sfida. E’ il loro capitale erotico, da far fruttare. Alla fine, chi è più puttana? La donna che vuole fare un buon colpo o quella che per scopare esige fiori, cene, diamanti e viaggi?

MOLESTIE ED IPOCRISIA.

Molestie sessuali e violenze sulle donne: tutti gli accusati famosi. Lo scandalo Weinstein ha innescato una reazione a catena di denunce, anche in Italia. Ecco i casi principali nello spettacolo e nella politica, scrive il 7 gennaio 2018 Matteo Politanò su Panorama.

Gennaio 2018 - Il regista canadese Paul Haggis viene denunciato da quattro donne per stupro e violenza. Lui si difende: "calunnie" - 7 gennaio 2018.

Dicembre 2017 - Jason Mojica è stato licenziato da Vice dopo lo scandalo molestie che ha travolto il colosso digitale dell'informazione - 26 dicembre 2017.

Dicembre 2017 - Lo chef Mario Batali è stato accusato di molestie sessuali da quattro donne - 13 dicembre 2017.

Dicembre 2017 - Il noto ristoratore americano Ken Friedman è stato accusato di molestie sessuali dalle sue ex dipendenti - 13 dicembre 2017.

Dicembre 2017 - Il calciatore argentino Jonathan Fabbro è stato accusato di abusi sessuali su una bimba di 11 anni - 5 dicembre 2017.

Dicembre 2017 - Il direttore d'orchestra James Levine è stato accusato di molestie su un ragazzo per fatti accaduti dal 1985 al 1993 - 4 dicembre 2017.

Novembre 2017 - Sono decine le donne che accusano il presidente Donald Trump di molestie. Il "The Guardian" le ha raccolte tutte in un articolo ma la Casa Bianca nega: "Mentono" - 30 novembre 2017.

Novembre 2017 - Il sindaco di Mantova Mattia Palazzi è stato accusato di aver chiesto favori sessuali in cambio di fondi pubblici - 29 novembre 2017.

Novembre 2017 - L'ex attaccante del Milan Robinho è stato condannato a 9 anni di carcere per una violenza sessuale di gruppo avvenuta a Milano nel 2013 - 23 novembre 2017.

Novembre 2017 - Larry Nassar, ex medico della nazionale americana di ginnastica artistica, ha ammesso in tribunale di aver abusato di 7 ragazze - 23 novembre 2017.

Novembre 2017 - Charlie Rose, storico giornalista americano, è stato sospeso dalla Cbs per le presunte molestie ad otto donne avvenute tra il 1990 e il 2011 - 22 novembre 2017.

Novembre 2017 - John Lasseter, numero uno di Pixar, ha preso sei mesi di aspettativa dopo le accuse di "abbracci indesiderati" da alcuni suoi collaboratori - 22 novembre 2017.

Novembre 2017 - Carlo Tavecchio, ex presidente della Figc, viene accusato di molestie da una dirigente sportiva al Corriere della Sera: "Ho prove audio e video".

Novembre 2017 - Steven Seagal è stato accusato di molestie da diverse attrici - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - L'attore Richard Dreyfuss, protagonista di "Incontri ravvicinati del terzo tipo", è stato accusato di molestie dalla scrittrice Jessica Teich - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - Ed Westwick, protagonista del telefilm Gossip Girl, è stato accusato di stupro da un'attrice - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - Nel ciclone è finito anche John Travolta, accusato di molestie da tre massaggiatori. Lui si difende: "Cercano pubblicità" - 17 novembre 2017.

Il regista Fausto Brizzi è stato accusato di molestie da diverse attrici - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - Sylvester Stallone è stato accusato di abuso per un fatto risalente al 1986 - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - Il senatore democratico Al Franken è stato accusato di molestie dall'ex attrice Leeann Tweeden. A dicembre ha dato le dimissioni dal Senato - 17 novembre 2017.

Novembre 2017 - Il candidato al governo dell'Alabama Roy Moore è stato accusato di molestie da diverse donne per fatti accaduti tra gli anni '70 e '80 - 17 novembre 2017.

Ottobre 2017 - Lo scandalo molestie ha colpito anche il governo britannico. Il sottosegretario al commercio estero Mark Garnier è stato denunciato dalla sua segretaria innescando una lunga serie di deunce "hot" - 17 novembre 2017.

Ottobre 2017 - Il regista James Toback è stato accusato di molestie da oltre 200 attrici tra cui anche Julienne Moore - 17 novembre 2017.

Kevin Spacey è stato espulso dall'Academy dopo le numerose accuse di violenza sessuale - 17 novembre 2017.

Ottobre 2017 - Lo scandalo che coinvolge il produttore Harvey Weinstein crea un terremoto mondiale: le denunce di violenze diventano centinaia - 17 novembre 2017.

Il vaso di Pandora delle violenze sessuali e dell'abuso di potere si è aperto scatenando il panico nel mondo del cinema, dello sport e della politica. Il caso di Harvey Weinstein, l’ex boss della Miramax accusato di molestie e stupri da decine di donne, è stato solo il primo di una lunga serie di denunce a tanti nomi noti. Ecco tutti i casi e le accuse che considerano le voci dei testimoni ma partono da un dovere: la presunzione d'innocenza di ogni personaggio coinvolto fino a che la giustizia non emetterà i suoi verdetti. 

Ottobre 2017 -Il 6 ottobre 2017 il New York Times pubblica un'inchiesta e accusa Weinstein di molestie sessuali ai danni di alcune attricidi Hollywood, tra le quali Ashley Judd e Rose McGowan. Lo scandalo si estende a macchia d'olio fino alla denuncia dell'attrice Paz de la Huerta che sostiene di essere stata stuprata due volte dal produttore nel 2010. In seguito alle accuse Weinstein viene espulso dall'Academy Award e il presidente francese Emmanuel Macron avvia l'iter per ritirargli la Legion d'onore, conferitagli in Francia nel 2012 dall'ex capo di Stato Nicolas Sarkozy. A dicembre 2017 arriva la clamorosa confessione di Salma Hayek che racconta al New York Times: "Harvey Weinstein è stato anche il mio mostro". L'attrice rivela le minacce e le molestie del produttore che aveva boicottato il film "Frida" dopo i continui rifiuti della stella messicana alle sue avances sessuali.

Kevin Spacey. Ottobre 2017 - Nell'ottobre del 2017 l'attore protagonista de I soliti sospetti dichiara la propria omosessualità dopo la denuncia dell'attore Anthony Rapp che accusa Spacey di averlo molestato quando aveva 14 anni. Pochi giorni dopo otto membri della troupe di House of Cards, dichiarano di aver a loro volta subito molestie da Spacey. A loro si aggiungono altre denunce riferite al periodo in cui era direttore artistico dell’Old Vic Theatre di Londra. L'attore annuncia di aver interrotto la sua carriera per farsi curare. 

Mark Garnier. Ottobre 2017 - Lo scandalo ha colpito anche il governo britannico di Theresa May. Una serie di denunce sulle molestie a Westminster si è innescata dopo le accuse al sottosegretario al Commercio estero, Mark Garnier. L'uomo, 53 anni e tre figli, è stato citato dalla sua segretaria per i particolari scabrosi del loro rapporto professionale. Un terremoto che ha coinvolto in poco tempo molti altri componenti del governo portando alle dimissioni del braccio destro della May, l'ormai ex ministro della Difesa britannico Michael Fallon.

Steven Seagal. Novembre 2017 - Accuse di molestie anche per Steven Seagal, nel mirino di due attrici, Julianna Margulies e Portia De Rossi. Quest'ultima racconta su Twitter: "La mia ultima audizione per un film di Steven Seagal si svolse nel suo ufficio. Mi disse quanto fosse importante avere chimica sullo schermo e dopo essersi seduto accanto a me si tirò giù la zip dei pantaloni. Io scappai via".

Richard Dreyfuss. Novembre 2017 - Il protagonista di film cult come Incontri ravvicinati del terzo tipo e Lo Squalo è stato accusato di aver molestato la scrittrice Jessica Teich. Era l'anno 1987, lei venne convocata dall’attore premio Oscar che si sarebbe spogliato chiedendo un rapporto orale. 

Ed Westwick. Novembre 2017 - Accusa di stupro per il protagonista di Gossip Girl, Ed Westwick. Con un lungo post su Facebook l'attrice Kristina Cohen ha raccontato di essere stata violentata dal collega: "Mi ha stuprata, ero terrorizzata e paralizzata, non riuscivo a muovermi". Anche le attrici Aurèlie Wynn e Rachel Eck denunciano di aver ricevuto molestie sessuali da Westwick e la BBC cancella Ordeal by Innocence, adattamento del romanzo di Agatha Christie che lo vede come protagonista. 

James Toback. Ottobre 2017 -Tra i casi più eclatanti quello che riguarda il regista e sceneggiatore di Hollywood che è stato accusato di molestie e violenze da oltre 200 attrici tra cui anche Julienne Moore. Secondo la denuncia del Los Angeles Times Toback adescava ventenni con la promessa di farle entrare nel mondo del cinema. Le sue audizioni sarebbero state in realtà scuse per veri e propri abusi sessuali, accuse pesanti che il regista rigetta in toto.

John Travolta. Novembre 2017 - La stella di Grease è stata accusata di molestie da un massaggiatore. Il fatto risalirebbe al 2000 nell’hotel La Quinta di Palm Springs, nello Stato americano della California. Secondo le accuse Travolta avrebbe palpeggiato e tentato di avere un rapporto sessuale con un impiegato della Spa, all'epoca 21enne. Non è la prima volta che l'attore viene accusato di molestie: cinque anni prima due massaggiatori denunciarono di aver ricevuto un'offerta di 12 mila dollari per un rapporto e di essere stati aggrediti dopo il rifiuto. John Travolta si è sempre difeso gridando al complotto organizzato per ottenere visibilità mediatica.

Fausto Brizzi. Novembre 2017 - Il regista romano che ha diretto Notte prima degli esami viene accusato di molestie e violenze da diverse attrici intervistate dalla trasmissione Le Iene. Il regista respinge le accuse ma la Warner Bros sospende ogni collaborazione con il regista e lo cancella dalla promozione del film Poveri ma ricchissimi in uscita il 14 dicembre 2017. Il regista nega tutto e dichiara: "Mai e poi mai nella mia vita ho avuto rapporti non consenzienti o condivisi". 

Sylvester Stallone. Novembre 2017 - L'icona del cinema americano viene accusata dal giornale britannico Daily Mail che riporta una denuncia riferita ad un fatto del 1986. Il protagonista di Rocky viene accusato di aver costretto una 16enne (che non è stata resa nota) ad un rapporto a tre con la sua guardia del corpo dell'epoca, Michael De Luca. I due avrebbero successivamente minacciato la vittima per convincerla a non parlare. Stallone nega però tutto l'accaduto attraverso la sua portavoce Michelle Bega: "È una storia ridicola e categoricamente falsa".

Al Franken. Novembre 2017 - Nel tornado è finito anche il senatore democratico Usa Al Franken, accusato dall'attrice Leeann Tweeden che ha dichiarato di essere stata palpeggiata e baciata senza consenso. L'episodio risalirebbe al 2006. A dicembre il senatore ha rassegnato le sue dimissioni: "Questa scelta non è per me ma per il popolo del Minnesota".

Roy Moore. Novembre 2017 - Il candidato repubblicano per l'Alabama Roy Moore è stato accusato da diverse ragazze di molestie fra gli anni '70 e '80. Una delle vittime all'epoca dei fatti avrebbe avuto 14 anni, ipotesi che hanno scatenato una tempesta sul politico. Il caso è diventato di dominio pubblico dopo un’inchiesta del Washington Post pubblicata giovedì 9 novembre 2017 e scritta dalle giornaliste Stephanie McCrummen, Beth Reinhard e Alice Crites. Moore, che rigetta le accuse, ha fatto sapere di non volersi ritirare dalla sua candidatura a Governatore, dichiarazioni che hanno messo in imbarazzo tutto il partito Repubblicano. 

Carlo Tavecchio. Novembre 2017 - Nel ciclone è finito anche Carlo Tavecchio, presidente dimissionario della Figc, accusato da una dirigente sportiva che si è confidata al Corriere della Sera. “È successo di recente, ho anche delle prove audio e video, ho subito molestie e anche danni morali come è successo per certi attori di Hollywood". La presunta vittima ha preferito restare anonima e ha dato mandato al suo avvocato di presentare denuncia alla Procura della Repubblica.

Charlie Rose. Novembre 2017 - Nel calderone è finito anche un pezzo del giornalismo Usa, Charlie Rose, volto della Cbs che è stato prima sospeso e poi licenziato dopo lo scandalo che lo ha travolto. Otto donne lo hanno accusato di molestie tra il 1990 e il 2011, denunce che il giornalista ha commentato così: "Mi scuso profondamente per il mio comportamento inappropriato. Ho mancato di sensibilità a volte e accetto la mia responsabilità per questo, anche se non tutte le accuse sono corrette".

John Lasseter. Novembre 2017 - Nei guai anche il capo della Pixar John Lasseter, deus ex machina di film come Toy Story, Frozen e Inside Out e considerato un "Walt Disney moderno" (è anche direttore dei Walt Disney Studios). L'Hollywood reporter ha raccontato come la sceneggiatrice e attrice Rashida Jone e il suo socio di scrittura Will McCormack abbiano lasciato a causa degli "abbracci indesiderati" di Lasseter. L'accusato ha chiesto scusa per i suoi comportamenti e ha preso sei mesi di aspettativa: "Non è mai facile affrontare i propri errori, ma è l'unico modo per trarne una lezione. È stato portato alla mia attenzione che ho mancato di rispetto e ho messo qualcuno a disagio. Non era mai stata la mia intenzione".

Larry Nassar. Novembre 2017 - L’ex medico della nazionale americana di ginnastica artistica Larry Nassar ha ammesso in tribunale di aver abusato sessualmente di sette ragazzine. Nei suoi confronti gravavano accuse pesantissime, quelle di oltre 125 ragazze che hanno raccontato di aver subito negli anni violenze e molestie. Secondo i termini del suo accordo con i procuratori del Michigan Nassar ha accettato di essere condannato a una pena compresa tra i 25 e i 40 anni.

Robinho. Novembre 2017 - L'ex calciatore del Milan è stato condannato a 9 anni di carcere dalla nona sezione del tribunale di Milano. Il brasiliano è stato giudicato colpevole di violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza albanese avvenuta in una discoteca di Milano il 22 gennaio 2013.

Mattia Palazzi. Novembre 2017 - Il giovane sindaco di Mantova e del Partito Democratico Mattia Palazzi viene accusato di aver chiesto favori sessuali in cambio di fondi pubblici. Il primo cittadino avrebbe inviato sms a sfondo sessuale a danno della vicepresidente di un'associazione culturale. Palazzi è stato indagato per concussione continuata, secondo l'accusa della procura mantovana avrebbe chiesto alla donna favori sessuali in cambio di contributi comunali da erogare all'associazione.

Donald Trump. Novembre 2017 - Sono decine anche le donne che hanno accusato Donald Trump. Un articolo del The Guardian ha raccolto tutte le denunce contro il presidente americano, testimonianze su anni su molestie, vessazioni e palpeggiamenti. La portavoce di Trump, Sarah Sanders, ha dichiarato che "queste donne mentono" ma la lista si aggiorna giorno dopo giorno e imbarazza sempre più la Casa Bianca.

James Levine. Dicembre 2017 - Il Metropolitan Opera di New York ha aperto un’indagine interna su James Levine, uno dei direttori d'orchestra più apprezzatti degli Stati Uniti e guida del Met per 40 anni. Levine, ora 74enne, è stato accusato da un uomo che dichiara di aver subito violenze negli anni '80 e '90, quando era ancora adolescente. Le violenze di Levine sul giovane sarebbero iniziate in Illinois nel 1985 e continuate fino al 1993, una vicenda denunciata alla polizia nel 2016.  

Jonathan Fabbro. Dicembre 2017 - Il centrocampista argentino Jonathan Fabbro, fidanzato con la famosa tifosa paraguaiana Larissa Riquelme, è nei guai per le pesanti accuse di abuso sessuale su una bimba di 11 anni. Secondo gli inquirenti a carico dell'atleta ci sarebbero prove pesanti: le perizie mediche sulla bambina e alcune note audio di Whatsapp recuperate dal telefono della piccola. In Messico, dove Fabbro gioca attualmente, è stato emesso un ordine d’arresto con richiesta d’estradizione.

Mario Batali. Dicembre 2017 - Il popolare chef Mario Batali, socio di Joe Bastianich, è stato accusato di molestie sessuali da quattro donne. Gli abusi si sarebbero protratti per oltre due decenni e l'accusato ha preso un periodo di aspettativa dal lavoro scusandosi pubblicamente con le vittime: "Ho maltrattato e ferito. Gran parte dei comportamenti descritti corrisponde ai modi in cui ho agito. Mi prendo la piena responsabilità e sono profondamente dispiaciuto per ogni dolore, umiliazione o disagio causato ai miei pari, ai dipendenti, ai clienti, agli amici e alla mia famiglia".

Ken Friedman. Dicembre 2017 - Un articolo del New York Times riporta la testimonianza di una decina di donne che avrebbero subito molestie dal noto ristoratore Ken Friedman, proprietario del ristorante "Spotted Pig". Gli abusi verso le ex dipendenti si sarebbero verificati proprio nel suo locale, ribattezzato "la stanza dello stupro". Friedman non ha negato: "Sono consapevole di avere un comportamento fastidioso, maleducato e francamente sbagliato. Mi scuso pubblicamente per le mie azioni ".

Scandalo Vice. Dicembre 2017 - Un'inchiesta del New York Times ha rivelato come almeno 20 donne, tra i 20 e i 30 anni, avrebbero subito molestie lavorando a Vice, una delle testate digitali internazionali più lette al mondo. Tra accusati anche il presidente della società Andrew Creighton e Jason Mojica, quest'ultimo licenziato dopo la denuncia di alcune donne tre cui Martina Veltroni, figlia dell'ex segretario del Pd ed ex dipendente di Vice.

Paul Haggis. Gennaio 2018 - Quattro donne hanno accusato di stupro e aggressione sessuale il regista canadese Paul Haggis, premio Oscar nel 2006 per Crash. La 31enne Haleigh Breest sostiene di essere stata stuprata dal regista nel 2013 a New York e l'Associated Press ha raccolto altre tre denunce in forma anonima. Haggis ha presentato una contro-denuncia nei confronti della Breest accusandola di diffamazione nel tentativo di ottenere denaro e popolarità. 

Molestie, #MeToo colpisce il numero uno del network Cbs: Les Moonves si dimette da ceo. Il board dell'emittente radiotelevisiva statunitense ha annunciato che l'addio del top manager ha effetto immediato. Come parte dell'accordo il gruppo ha detto che donerà 20 milioni di dollari a una o più organizzazioni che sostengono l'uguaglianza delle donne sul posto di lavoro, scrive il 10 settembre 2018 "La Repubblica". È uno degli uomini più potenti della tv americana, Les Moonves, 68 anni, si è dimesso da ceo della Cbs, travolto dallo scandalo delle molestie sessuali. Il passo indietro di Moonves arriva nel giorno in cui altre sei donne, dalle colonne del New Yorker, hanno denunciato abusi sessuali da parte del top manager. Ad accusarlo sul New Yorker, tra le altre, sono l'attrice e scrittrice Illeana Douglas, ex di Martin Scorsese, la sceneggiatrice Janet Jones e la produttrice Christine Peters. In totale, almeno una decina di donne lo accusano di averle aggredite sessualmente e di aver messo in atto rappresaglie sulle loro carriere per non aver accettato le sue avance. In una nota il Ceo riconosce di aver avuto comportamenti inopportuni in passato, ma nega intimidazioni o ritorsioni. Inoltre ha ammesso alcuni degli incontri con le donne che lo accusano ma sempre parlando di rapporti consensuali. Secondo Ronan Farrow, autore dell’articolo del New Yorker (che in passato aveva rivelato gli abusi del produttore re di Hollywood Harvey Weinstein sulle attrici di Hollywood con una serie di articoli che gli sono valsi anche il Pulitzer), almeno 30 persone hanno confermato che Moonves aveva creato un ambiente di lavoro tossico. Moonves era alla guida della Cbs Corporation da 15 anni e dopo la caduta di Weinstein è forse la vittima più illustre e potente a cadere sotto i colpi del movimento #metoo. Il board della Cbs ha annunciato che l'addio di Moonves ha effetto immediato. Come parte dell'accordo il gruppo ha detto che donerà 20 milioni di dollari a una o più organizzazioni che sostengono l'uguaglianza delle donne sul posto di lavoro. La donazione sarà dedotta dalla liquidazione di Moonves. Liquidazione che il top manager non riceverà fino a che non si saranno concluse tutte le indagini sul suo conto.

Accuse di molestie contro il numero uno della Cbs: si dimette Les Moonves, scrive "La Stampa" il 10/09/2018. Les Moonves, presidente e amministratore delegato della Cbs Corporation, ha rassegnato le sue dimissioni in seguito alla pubblicazione di nuove accuse di violenza sessuale e molestie contro di lui. In una dichiarazione, il consiglio di amministrazione del gigante dei media americano ha detto che la partenza di Moonves ha «effetto immediato» e che lui e la Cbs avrebbero donato 20 milioni di dollari alle organizzazioni che sostengono il movimento #MeToo contro le molestie sessuali. La donazione sarà dedotta dalla liquidazione del top manager e dipenderà dai risultati di un’indagine indipendente e dalla successiva valutazione della commissione. Moonves è entrato a far parte della Cbs nel 1995 come responsabile del settore intrattenimento, per poi diventare Ceo dell’emittente nel 2006. La Cbs aveva iniziato a indagare sul 68enne a luglio, dopo che il New Yorker aveva pubblicato le accuse di cattiva condotta sessuale avanzate da sei donne contro di lui. Ieri, la rivista ha riportato ulteriori accuse di aggressione e molestie contro di lui da parte di altre sei donne, alcune delle quali hanno anche affermato che ha usato la sua posizione per danneggiare le loro carriere quando hanno rifiutato le sue avance. Moonves ha negato le «accuse spaventose» dell’articolo, ma ha riconosciuto tre degli incontri. «Ciò che è vero è che ho avuto rapporti consensuali con tre donne circa 25 anni fa, prima che arrivassi alla Cbs», ha detto in una dichiarazione riportata dal New Yorker. «Non ho mai usato la mia posizione per ostacolare il progresso o la carriera di queste donne. Nei miei 40 anni di lavoro, non ho mai sentito parlare di accuse così spaventose», ha aggiunto.

Usa. Corte suprema, bufera sul giudice scelto da Trump, scrive lunedì 17 settembre 2018 Avvenire. Una donna lo accusa di avere tentato di stuprarla negli anni del liceo. Membri della commissione giustizia del Senato chiedono di rinviare il voto sulla conferma, tra loro anche un repubblicano. Bufera sul giudice scelto da Donald Trump per la Corte suprema, Brett Kavanaugh. I democratici chiedono di rinviare il voto sulla conferma della nomina dopo che una professoressa dell'università di Palo Alto, Christine Blasey Ford, è venuta allo scoperto rivelando al Washington Post di essere lei la donna che Kavanaugh avrebbe aggredito sessualmente negli anni '80. Inizialmente l'insegnante aveva lanciato le accuse in una lettera confidenziale inviata alla senatrice Dianne Feinstein, membro della commissione giustizia che si è occupata dell'audizione del giudice. Adesso, invece, ha deciso di uscire dall'anonimato e raccontare tutto al Washington Post, spiegando che sentiva che la sua «responsabilità civica» fosse «superiore all'angoscia e al terrore di ritorsioni» dopo che molti dettagli sono venuti fuori sui media la scorsa settimana. Le prime rivelazioni erano filtrate sul New Yorker: si riferiva di una donna che aveva denunciato che, quando frequentava il liceo di Bethesda alla periferia di Washington nei primi anni '80, Kavanaugh avrebbe provato ad aggredirla sessualmente durante una festa, tenendola bloccata con la forza finché lei era riuscita a liberarsi. Il candidato alla Corte suprema, che oggi ha 53 anni, in una dichiarazione diffusa venerdì aveva smentito con queste parole: «Contesto in modo categorico e senza equivoci questa accusa. Non ho fatto questo, né al liceo né in nessun altro momento». Christine Blasey Ford, democratica, oggi 51enne e che vive nel nord della California, al Washington Post ha affidato con l'intervista una ricostruzione dettagliata. Ha raccontato che un'estate dei primi anni '80 Kavanaugh e un amico, entrambi completamente ubriachi, l'avevano portata in una camera da letto a una festa di adolescenti in una casa nella contea di Montgomery, poco fuori Washington. Kavanaugh l'avrebbe bloccata su un letto mentre l'amico stava a guardare e poi l'avrebbe palpeggiata mentre provava a toglierle il costume da bagno intero e gli abiti che indossava sopra. Sempre secondo il racconto di Ford, quando lei provò a gridare per chiedere aiuto Kavanaugh le mise la mano sulla bocca: «Pensavo che mi avrebbe potuto involontariamente uccidere». Ma alla fine la donna dice di essere riuscita a scappare quando un altro compagno di classe di Kavanaugh nella sua prestigiosa scuola privata, Mark Judge, saltò su di loro; tutti e tre caddero e lei fuggì dalla stanza. Prima andò a chiudersi in un bagno e poi lasciò la casa. La professoressa universitaria spiega di non avere raccontato nulla a nessuno dell'aggressione fino al 2012, quando l'episodio venne fuori durante una seduta di terapia di coppia con il marito. Gli appunti del terapeuta di allora, visionati dal Post, non citano Kavanaugh per nome, ma fanno riferimento alle accuse, parlando di un'aggressione da parte di studenti «di una scuola elitaria maschile» per ragazzi che sono diventati «altamente rispettati e membri di alto rango della società a Washington». Gli appunti di una seduta successiva, un anno dopo, definiscono l'aggressione un «tentativo di stupro». A questo punto sono numerosi i membri della commissione giustizia del Senato Usa che chiedono di far slittare il voto sulla nomina. Fra loro c'è anche il repubblicano Jeff Flake, voce critica nei confronti di Trump, il quale ha detto al Washington Post che a suo parere prima «deve essere ascoltata» la donna. Il voto in commissione è attualmente fissato per il 20 settembre, mentre il voto finale in plenaria si dovrebbe tenere poco dopo. Nella commissione ci sono 11 repubblicani e 10 democratici, quindi la posizione di Flake è fondamentale. Quanto al voto in aula, in Senato i repubblicani hanno una maggioranza stretta di 51 contro 49. In campo democratico Chuck Schumer, leader dei Dem al Senato, ha chiesto al presidente repubblicano della commissione di rinviare il voto in modo da indagare sulle accuse avanzate contro Kavanaugh. «Per troppo tempo quando le donne hanno fatto accuse gravi di abusi sono state ignorate. Ciò non può avvenire in questo caso», ha tuonato Schumer, aggiungendo che «affrettarsi a votare adesso sarebbe un insulto alle donne americane e all'integrità della Corte suprema». Come lui la pensano anche Dick Durbin e Dianne Feinstein. Il caso Kavanaugh ricorda le accuse di abusi emerse a carico di Clarence Thomas quando fu scelto per la Corte suprema. Anita Hill testimoniò davanti a una commissione del Senato Usa nel 1991 dicendo che Thomas le aveva fatto ripetutamente pressioni per uscire insieme, le aveva raccontato «esplicitamente della sua abilità sessuale» e aveva aggiunto che i suoi tentativi di parlare con lei di sesso o di film porno l'avevano messa «estremamente a disagio». Nonostante le accuse, la nomina di Thomas fu confermata dal Senato per 52 voti contro 48, e il giudice è ancora in servizio.

Usa, Kavanaugh giura: "Sarò giudice corretto e imparziale". Il giudice è ufficialmente membro della Corte suprema. Trump lo ringrazia e gli chiede scusa per gli "attacchi inventati" dei suoi oppositori, scrive il 9 ottobre 2018 "La Repubblica". La vittoria di Donald Trump è finalmente ufficiale: Brett Kavanaugh, il giudice ultraconservatore voluto dal presidente alla Corte suprema degli Stati Uniti e confermato dal Senato nei giorni scorsi ha prestato il giuramento ed è ora, a tutti gli effetti, un membro della più alta corte statunitense. La cerimonia è stata aperta dal discorso del presidente, che prima ha accusato i democratici di aver alimentato una "campagna di distruzione personale" nei confronti del giudice, poi si è scusato "in nome della nazione" con Kavanaugh e con la sua famiglia "per le terribili sofferenze che siete stati costretti a patire". Nonostante la testimonianza davanti alla Commissione giustizia del Senato di Christine Blasey Ford, la prima delle tre donne ad accusare Kavanaugh di molestie sessuali, Trump ha giudicato le accuse "totalmente inventate e fabbricate a tavolino: una vera disgrazia. Kavanaugh è stato provato innocente".  Poi è stato il turno di Kavanaugh, che ha assicurato di voler svolgere il proprio lavoro con diligenza e correttezza e ha definito l'Alta corte "un'istituzione non politica né di parte". Tornando sulle lunghe vicissitudini che ne hanno contrassegnato la conferma, il giudice ha dichiarato: "il processo di conferma al Senato è stato duro ed emozionante, ma ora è finito, e il mio obiettivo è essere il miglior giudice possibile". Fatto il giuramento per Kavanaugh è già tempo di mettersi a lavoro. Nella mattinata americana, infatti, siederà per la prima volta con i suoi otto colleghi della Suprema corte per assistere ad un'audizione di due ore. Intanto, Politico riporta che il vice presidente di Facebook per la public policy, Joel Kaplan, ha organizzato la festa con cui Kavanaugh ha festeggiato la sua conferma. I due, amici da tempo, hanno lavorato insieme alla Casa Bianca per George W. Bush. Il social network, dato il malcontento manifestato dai suoi lavoratori, ha dovuto sottolineare che non può controllare il tempo libero dei propri dipendenti.

Robert Redford: «Non mi sento più americano». L'attore deluso dai leader del suo paese invita gli americani ad essere migliori dei loro politici, scrive il 9 ottobre 2018 tio.ch. Robert Redford non si sente più americano. In una dichiarazione pubblicata sul sito del Sundance Institute, l'attore ha detto che per la prima volta si sente fuori luogo nel suo Paese. «Per la prima volta mi sento fuori posto nel Paese in cui sono nato e che ho amato per tutta la mia vita», ha scritto. «Per settimane ho guardato con tristezza mentre i nostri funzionari pubblici ci hanno deluso, orientandosi verso bigottismo e cattiveria come normali strumenti del mestiere», ha aggiunto, esortando gli americani ad «essere migliori dei nostri politici». «Come possiamo aspettarci che la prossima generazione si faccia avanti per servire il paese - si è chiesto ancora Redford -, che sia interessata alla vita pubblica e che aspiri a farsi coinvolgere quando tutto ciò che mostriamo è come attaccarci e distruggerci a vicenda?». L'attore non ha fatto riferimento ad eventi o a personaggi politici specifici, ma la sua dichiarazione è stata pubblicata venerdì, durante l'accesa battaglia sulla nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema.

Il movimento MeToo e la coscienza di Brett Kavanaugh. Lettera di Mariagrazia Gazzato su Italians Corriere della sera il 10 ottobre 2018. Le denunce di molestie, soprusi, stupri, violenza, da parte delle donne nei confronti di uomini di potere, trovano sempre muri altissimi, ma qualche volta lasciano il segno. Come nel caso del movimento MeToo che compie un anno. Ma in generale le donne che denunciano sono viste come delle povere pazze, ricattatrici, strumenti in mano all’opposizione politica e via così. E non hanno mai prove sufficienti da portare. Soprattutto se i fatti sono lontani nel tempo. D’accordo, ci vogliono prove certe per condannare qualcuno, vero! E a nulla sono servite le proteste delle donne (ma anche uomini) a Washington, davanti alla Corte Suprema ed al Senato, dove sono state arrestate 300 persone. Il prossimo giudice di Corte Suprema americana, Brett Kavanaugh, però, nonostante la sua conferma deve sapere che ogni volta che appoggerà le terga su quella sedia, deve sentire friggere la “parte” come fosse seduto sulle fiamme dell’inferno, e sarà un bel problema. Perché il giudice Kavanaugh, per come si è comportato, pare avere rispetto solo per il suo “signor c…”, cosi lo chiama Jack Lemmon nel film” Prigioniero della seconda strada”. Ma ogni volta che lo sentirà infiammarsi non potrà non pensare: “Brett, lo hai portato a casa, sei stato bravo, ma lo sai benissimo a che prezzo, e se hai la coscienza che dici di avere, ogni mattina, guardandoti allo specchio, non puoi non vedercelo riflesso”. Le donne che hanno con coraggio strappato quel velo che copre l’ipocrisia del potere, ora non devono perdere la speranza che le cose possano cambiare. Christine Ford (la psicologa che ha denunciato un tentativo di stupro da parte del giudice quando erano entrambi studenti), per ora ha perso la sua battaglia, ma sono sicura che in cuor suo si sente vincitrice. L’uomo di potere che ha accusato di violenza non se la passerà liscia nonostante sia stato confermato al suo posto. Dovrà mostrare la “faccia” tutti i giorni, e non sarà un’impresa facile.

Kavanaugh: ironia Trump, flop dimostranti, non saranno pagati. "Non hanno ottenuto i loro assegni", scrive il 9 Ottobre 2018 lagazzettadelmezzogiorno.it. Donald Trump continua a mettere nel mirino i manifestanti che protestano contro la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla corte suprema, che nei giorni scorsi aveva accusato di essere pagati dal finanziare George Soros ed altri. "I prezzolati manifestanti di Washington ora sono pronti a protestare veramente perchè non hanno ottenuto i loro assegni. In altre parole, non sono stati pagati! Le persone che urlavano al Congresso, e fuori, erano fin troppo ovvi, meno professionali di quanto previsto da quelli che pagano (o non pagano) il conto!", ha ironizzato su Twitter.

“Femministe anti-Trump pagate da Soros”. Lo ammette anche il Wall Street Journal, scrive Valerio Benedetti il 9 ottobre 2018 su ilprimatonazionale.it. Quando Salvini ha attaccato George Soros sullo spread, la stampa globalista si è stracciata le vesti sperticandosi in un’accorata apologia del «buon filantropo», senza contare le accuse di complottismo e antisemitismo fioccate sul ministro dell’Interno. Eppure, anche Mario Monti ha ammesso di recente di essere stato contattato dallo speculatore nel 2011, il quale gli consigliava di rivolgersi alla Troika per sistemare i conti italiani. Ma c’è di più, molto di più: è addirittura il Wall Street Journal a puntare il dito contro Soros e le sue ingerenze nella politica, in questo caso americana. Secondo la giornalista liberal Asra Nomani, ex firma del prestigioso quotidiano newyorchese, le proteste femministe anti-Trump sarebbero finanziate proprio dal ricco magnate di origini ungheresi. Le manifestazioni di protesta hanno raggiunto il loro apice pochi giorni fa, davanti al Campidoglio, dove il Congresso ha confermato la nomina alla Corte Suprema – fortemente voluta da Trump – del giudice Brett Kavanaugh, accusato di molestie sessuali. Il presidente degli Stati Uniti, commentando il fatto, ha parlato di «una folla inferocita di sinistra» composta da «manifestanti professionisti pagati da Soros e altri». Il punto è che anche il Wall Street Journal non può che confermare il dato. Come ci tiene a precisare la giornalista Nomani, «io sono una femminista liberal, le cui opinioni sull’aborto e sul matrimonio tra persone dello stesso sesso sono in linea con quelle del Partito Democratico. Eppure, mentre molti manifestanti non sono pagati per il loro impegno, le proteste al Campidoglio di sabato sono state organizzate da gruppi di cui il signor Soros è un importante finanziatore». La Nomani, infatti, sin dal 2016 ha seguito la formazione e lo sviluppo della cosiddetta «resistenza» contro Donald Trump. Ebbene, «almeno 20 dei più grandi gruppi che hanno guidato le proteste anti-Kavanaugh di sabato sono stati beneficiari della Open Society [la fondazione di Soros, ndr]». E ancora: «Sabato ho anche analizzato la stampa raffinata sui cartelli che i manifestanti hanno sventolato in segno di sfida al Campidoglio e all’Alta corte. Provengono da una lista di gruppi di interesse democratico che hanno ricevuto milioni dal signor Soros: l’Unione americana per le libertà civili, la on Civil and Human Rights, Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America, il Centro per la democrazia popolare, Human Rights Campaign». Senza contare, poi, MoveOn.org e Rethink Media, tutti finanziati a piene mani da Soros. La giornalista, dopo aver snocciolato tutti questi dati, conclude così: «La mia ricostruzione, in realtà, è un segreto di Pulcinella, che i giornalisti tendono però a non rivelare. Molti (inclusa me) simpatizzano infatti con le cause liberal dei campioni della Open Society. Alcuni sono stati addirittura soci pagati o beneficiari della fondazione di Soros». Ma non ditelo a Repubblica o all’Espresso.

Usa, Bloomberg si unisce ai democratici: primo passo verso la corsa alla Casa Bianca. L'ex sindaco di New York e magnate dei media esce ufficialmente allo scoperto, dopo aver finanziato la campagna dei dem per le elezioni di mid-term. Più vicina la candidatura contro Trump, scrive il 10 ottobre 2018 Repubblica. L'ex sindaco di New York Michael Bloomberg ha annunciato oggi ufficialmente che si unirà al partito democratico per le prossime elezioni di mid-term, il test decisivo di rinnovo del Congresso previsto per il 6 novembre prossimo. Per il magnate dell'editoria si tratta di un passo formale importante verso una possibile, e più volte ventilata, candidatura alla presidenza nel 2020 contro Donald Trump. Finora l'ex sindaco, 76 anni, aveva sempre corso in politica come indipendente, da quando aveva abbandonato l'affiliazione ai repubblicani nel 2007. "Oggi mi sono di nuovo registrato presso il partito democratico - ne sono stato un membro per gran parte della mia vita - perché abbiamo bisogno che i democratici ci diano quelle garanzie di controllo ed equilibrio di cui la nostra nazione ha disperato bisogno".

Le elezioni di midterm Usa nelle mani delle donne. Per i sondaggi la vittoria democratica dipende dall'elettorato femminile. Che per il 63% sta con i dem. Dopo la vittoria di Trump e il caso Kavanaugh, il coinvolgimento rosa è alle stelle, scrive letteradonna.it il 10 ottobre 2018. Con le elezioni di midterm che si avvicinano, ci sono buone notizie per i democratici. E arrivano dalle donne. Secondo un sondaggio del 10 ottobre della Cnn, gli elettori che sostengono di preferire i dem ai repubblicani sono il 54% contro il 41%. Una preferenza ampiamente influenzata dal genere: mentre gli uomini sono egualmente divisi tra il partito dell'asinello e quello dell'elefantino, il 63% delle donne intervistate ha dichiarato che voterà per il primo. Mentre solo il 33% sceglie il partito che Donald Trump ha ormai completamente conquistato. Un'eventuale vittoria dei democratici alle elezioni di metà mandato, dunque, passerà con tutta probabilità dalle donne. Che rispetto alle elezioni presidenziali del 2016 sono anche molto più coinvolte rispetto agli uomini. Un chiaro effetto della battaglia sul giudice Brett Kavanaugh, accusato di molestie sessuali e ciononostante confermato alla Corte suprema, che ha tenuto gli americani attaccati alle televisioni nelle ultime settimane. A quanto risulta dai sondaggi, l'indignazione delle sostenitrici dem di Christine Blasey Ford, la donna che ha testimoniato contro Kavanaugh, ha superato la soddisfazione delle repubblicane nel vedere il giudice scagionato. Inoltre, un numero record di candidate si è presentato quest'anno (256, 197 dem e 59 repubblicane) e anche le donatrici non sono mai state così generose come in questa tornata. Per un sondaggio del non-partisan Center for Responsive Politics, le donne in questa tornata hanno contribuito al 31% del finanziamento totale dei candidati alla Camera, la percentuale più alta di sempre. Nelle elezioni di midterm del 2014, per esempio, la percentuale era del 27%. Il gentil sesso è sempre stato più schierato verso l'asinello, ma la vittoria di Trump nel 2016 ha aumentato considerevolmente il numero di sostenitrici e il coinvolgimento. Se il partito di Hillary Clinton, Barack Obama e Joe Biden vuole capitalizzare questa marea, deve iniziare a considerare il mondo femminile non come un tema da usare a corrente alterna, ma come un pilastro delle proprie politiche. Bloomberg è proprietario di Bloomberg lp, di cui fa parte Bloomberg News. Venne eletto sindaco di New York come repubblicano nel 2001 e rieletto nel 2005. Nel 2007 si sganciò dai partiti e vinse di nuovo nel 2009 come indipendente. Fu quasi sul punto di candidarsi alla presidenziali nel 2016 ma poi finì per appoggiare Hillary Clinton, che venne poi sconfitta dal repubblicano Donald Trump. A settembre anticipò al New York Times che, ritenendo che solo il candidato di uno dei due grandi partiti possa vincere le elezioni, se avesse deciso di scendere in campo lo avrebbe fatto come democratico. Già nel corso dell'anno elettorale Bloomberg ha speso almeno 80 milioni di dollari per sostenere la campagna elettorale democratica, e dal suo entourage è emerso che - dopo la controversia per la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema - Bloomberg intende investire altri 20 milioni di dollari per aiutare i democratici a conquistare la maggioranza in Senato.

Melania Trump su #MeToo: "Chi accusa di molestie deve mostrare le prove", scrive Maria Teresa Moschillo l'11 ottobre 2018 su foxlife.it. La First Lady Melania Trump ha dichiarato di sostenere le vittime di molestie e il movimento #MeToo. Tuttavia, ha tenuto a precisare che per essere credibili occorre presentare prove concrete e tangibili quando si accusa qualcuno di un crimine sessuale. Lo scandalo Weinstein risale, ormai, a più di un anno fa. In seguito alle tantissime accuse di molestie sessuali e violenza mosse al noto produttore cinematografico, le donne di Hollywood (e non solo) hanno dato vita al movimento #MeToo, finalizzato a tutelare e sostenere le vittime di abusi in ogni ambiente lavorativo, nell'intera società. Le cose stanno lentamente cambiando - le vittime non hanno più paura di denunciare e di farsi avanti - ma, di certo, la strada da fare è ancora molto lunga. Molto spesso, infatti, chi accusa di violenza sessuale - specialmente se a distanza di tempo dai fatti - viene guardato con sospetto e, in alcuni casi, addirittura reputato inaffidabile. Lo dimostra il recente caso di Christine Blasey Ford, psicologa che ha accusato Brett Kavanaugh, giudice della Corte Suprema supportato dal Presidente Donald Trump, di aver abusato di lei quando i due erano solo studenti. La donna è stata sbeffeggiata per la sua denuncia tardiva - anche dallo stesso Presidente - e tacciata di essere in cattiva fede. A sostegno di Christine Blasey Ford si sono mosse tantissime celebrità, tra cui Emily Ratajkowski e Amy Schumer che sono state addirittura arrestate nel corso di un corteo di protesta contro la presenza di Kavanaugh alla Corte Suprema. A distanza di alcuni giorni dall'accaduto, ABC News ha divulgato alcune dichiarazioni della First Lady Melania Trump su #MeToo. Intervistata dal giornalista Tom Llamas durante un viaggio ufficiale in Kenya, la moglie di Donald Trump ha risposto a diverse domande circa lo spinoso tema delle molestie sessuali. L'ex modella si dice a favore delle vittime, ma tiene a precisare che occorre che queste presentino delle prove reali e concrete delle violenze subite. "Io sostengo le donne che hanno bisogno di essere ascoltate. Dobbiamo sostenerle, ma bisogna sostenere anche gli uomini non solo le donne", ha dichiarato Melania sottolineando il proprio punto di vista: C'è bisogno di prove schiaccianti, se accusi qualcuno per qualcosa devi mostrare le prove. Il corrispondente di ABC News ha fatto notare alla First Lady che le sue parole tradiscono, in un certo senso, scarsa solidarietà femminile. A questa osservazione ha reagito dicendo: Sto con le donne, ma non puoi dire a qualcuno che ti ha violentato o che ti è fatto quello o quell'altro senza prove. A volte i media vanno fin troppo lontano e presentano le storie in modo scorretto. Donald Trump è stato accusato di molestie sessuali da svariate donne nel corso degli anni, ma ha sempre categoricamente negato di aver avuto comportamenti inopportuni. La politica aggressiva del Presidente e la sua immagine non propriamente limpida non stanno di certo aiutando Melania nel suo ruolo di First Lady. La signora Trump ha espresso il proprio disappunto in merito, svelando che molte associazioni e organizzazioni benefiche si sono rifiutate di collaborare con lei: È triste vedere che le organizzazioni e le fondazioni con cui voglio avere a che fare scelgono di non avvalersi del mio aiuto. Sento che scelgono la politica invece di aiutare gli altri.

Giampiero De Chiara per Libero Quotidiano il 9 Ottobre 2018. «Il #metoo? Un mucchio di stronzate. Conosco queste persone, so che sono codardi e deboli e finché tutto sembra bello in apparenza, per loro è sufficiente. Non sono campioni, non difendono cause. Per me sono solo perdenti». Non sono parole di Harvey Weinstein e neanche Kevin Spacey o, per rimanere in ambito nostrano, quelle di Fausto Brizzi. È Rose McGowan, una delle prime paladine di questa corrente di pensiero, a demolire la campagna Usa contro le molestie nel mondo di Hollywood. In una intervista, in parte ritrattata, l'attrice di Scream, al tabloid inglese Sunday Times, attacca le sue "colleghe" che con lei hanno fatto parte di questa «battaglia civile». «Sono delle perdenti perché hanno denunciato le molestie solo per cavalcare l'onda dello scandalo, senza poi fare concretamente nulla a supporto del movimento femminile». Un colpo di scena che ha del clamoroso. Un caso di doppiezza dell'essere umano che, a voler rimanere in ambito cinematografico, ricorda una scena di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, sulla guerra in Vietnam. In una memorabile scena un colonnello dei marine chiede spiegazioni ad un suo soldato sul perché sull' elmetto abbia scritto "Nato per uccidere" e porti poi sull' uniforme un distintivo di pace. La risposta è lapidaria: «Volevo soltanto fare riferimento all' ambiguità dell'uomo una teoria junghiana, signore...». La replica dell'ufficiale, la potete immaginare... Rose McGowan, tra le prime a denunciare di aver subìto violenza da parte di Weinstein, sembra essersi comportata proprio come quel marine. Nell' intervista, infatti, fa a pezzi un anno di dibattito, screditando così lo stesso movimento da lei creato. Amica di Asia Argento, con cui ha recentemente litigato anche via social per poi chiederle scusa, dopo le accuse di Jimmy Bennet contro l'attrice italiana non risparmia nessuno nel suo anacronistico j' accuse. «Conosco queste persone, ti sorridono fin quando fa comodo a loro». L' attacco prosegue poi al sistema cinematografico Usa: «Hollywood è solo apparentemente liberal. In realtà è tutto finto, compreso il movimento». Pensieri e parole che fanno venire in mente Donald Trump, che tempo si era scagliato proprio contro i finti liberal della Mecca del Cinema. La McGowan è d'accordo con Donald e dà ragione anche a quelli che la pensano come lui: «Odiano Hollywood per essere il ritrovo dei finti liberali e hanno ragione al cento per cento». Infine, nell' intervista al quotidiano inglese, rivela anche che non reciterà più e che l'industria cinematografica va boicottata «per fare in modo che il punto di vista delle donne non debba più essere filtrato attraverso uno sguardo maschile». Non contenta, si scaglia contro Meryl Streep («è letteralmente impossibile che non fosse a conoscenza del comportamento di Weinstein») e Hillary Clinton («vorrei riprendermi indietro gli anni in cui ho appoggiato la sua candidatura alle presidenziali»). Poche ore dopo questa intervista, l'attrice ha smentito quanto detto con un paio di tweet, chiarendo che la sua invettiva era riferita al mondo di Hollywood in generale e non al movimento da lei stessa fondato. Una conferma che Jung, sull' ambiguità dell'essere umano, aveva proprio ragione.

Da ilmessaggero.it 2018-09-20.  Nba, conferma di casi di molestie sessuali e abusi nei Mavericks. La Nba ha confermato che le denunce note a febbraio per abusi sul lavoro e le molestie sessuali nei Dallas Mavericks, una delle franchigie più importanti della Nba, erano vere, a seguito di......La Nba ha confermato che le denunce note a febbraio per abusi sul lavoro e le molestie sessuali nei Dallas Mavericks, una delle franchigie più importanti della Nba, erano vere, a seguito di un'indagine che è durata sette mesi. L'Nba ha spiegato che il rapporto consegnato da investigatori e avvocati indipendenti ha corroborato l'ipotesi di «numerosi casi di molestie sessuali e altri comportamenti scorretti all'interno dell'organizzazione per un periodo di oltre 20 anni». Oltre 215 testimonianze di dipendenti attuali e passati, oltre 1,6 milioni di documenti, sono stati utilizzati dagli investigatori per stabilire la cattiva condotta di diversi ex dirigenti. «L'ex Presidente e Ceo Terdema Ussery (che ha lasciato l'incarico di circa tre anni fa) ha avuto un comportamento inappropriato nei confronti di 15 dipendenti, che erano stanche di commenti inappropriati e carezza non consentite», ha spiegato il documento. Il proprietario dei «Mavs», Mark Cuban, ha preso provvedimenti e assunto diverse donne in posizioni importanti negli ultimi mesi. Cynthia Marshall è stata nominata direttore esecutivo della franchigia, una posizione da cui ha promosso il miglioramento della cultura del lavoro in team. Inoltre Cuban ha accettato di donare 10 milioni di dollari alle associazioni e organizzazioni che difendono le donne e si battono contro la violenza domestica e la disuguaglianza di genere...

Ipocrisia e interesse personale nella guerra alle molestie sessuali. La tempesta di fuoco è iniziata con le accuse contro Harvey Weinstein e la cinica abdicazione alla responsabilità morale, scrive Grace Russo Bullaro il 2 Dicembre 2017 su "La Voce di New York". Come la proverbiale chiazza di petrolio che, alla fine, inghiotte ogni cosa sul suo cammino, le accuse di molestie si sono ora diffuse, praticamente, a tutti i segmenti della società. Mentre Hollywood getta gli accusati in pasto ai lupi nel frenetico tentativo di salvare il proprio profitto e Washington di salvare le proprie poltrone al Congresso e in Senato, chi difende la verità e la libertà di espressione quando non è politicamente corretta? Di tanto in tanto, nella nostra società, giunge uno scandalo che incapsula e mette a nudo i nostri tratti umani più vergognosi. La recente ondata di accuse di molestie sessuali contro figure di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport e della politica ha prodotto questo e altro. Da una parte, quelli che condannano automaticamente e, dall’altra, quelli che automaticamente difendono gli accusati. Queste posizioni, poi, non nascono dall’analisi dei fatti a disposizione, ma piuttosto dalla giustificazione di qualunque ideologia adottata in precedenza. Tutti hanno “un’agenda” per spingere ciò che va oltre i semplici fatti, ma l’ipocrisia, l’avidità, l’interesse e la tirannia del politicamente corretto giocano il loro ruolo. La tempesta di fuoco, che è iniziata con le accuse rivolte al produttore e fondatore di Miramax, Harvey Weinstein, non dovrebbero essere una novità. I “casting sul divano” sono stati un simbolo della decadenza morale di Hollywood da quando l’industria del cinema si è trasferita dalla sua casa originaria, in New Jersey, nei primi del ‘900. Apparentemente, il cliché trae le sue origini nel teatro di New York. La ballerina Agnes de Mille, infatti, aveva riportato questa dichiarazione: “Se non vai a letto con loro non hai la parte”. Riferendosi ai fratelli Shubert, noti produttori di Broadway attivi tra gli anni Venti e gli anni Trenta, de Mille arrivò addirittura ad accusarli di operare un bordello sfidando il tentativo di metterla a tacere, aggiunse, senza timore, “Lasciate che mi facciano causa”. Hollywood e i “casting sul divano” sono virtualmente sinonimi, eppure, quelli di Hollywood che sono rimasti volontariamente ciechi e sordi, vorrebbero farci pensare che Weinstein rappresenti un’aberrazione disgraziata piuttosto che la norma. Quelli che dichiarano che non avevano idea che questi abusi e crimini fossero stati commessi non hanno però poi perso tempo a salire sul carro della denuncia e di puntare il dito. Allo stesso tempo è diventato sempre più chiaro che questi fatti erano una sorta di “segreto pubblico”. Lo sceneggiatore Scott Rosenberg, a lungo socio della Miramax, la casa di produzione di Weinstein, ha dichiarato che “Non c’era niente di segreto sulla vorace rapacità di Weinstein, come un orco bramoso uscito da una storia dei fratelli Grimm”. Rosenberg è soltanto uno dei tanti che è venuto allo scoperto e ha denunciato ciò che può essere descritto come il lungo insabbiamento di Hollywood a protezione degli aggressori, proprio come Weinsten. Che è solo uno dei tanti “scoperti” come criminali. A Hollywood c’è stato il tentativo di dissociarsi da questi criminali. In una mossa senza precedenti, hanno persino cancellato da un film, che era già stato girato ed era pronto per la distribuzione, Kevin Spacey. Per non parlare del fatto che Netflix ha eliminato il suo “House of Cards” e che dozzine di persone hanno visto i loro contratti annullarsi a causa di accuse contro di loro. Sarebbe futile consultare la lista completa, il punto è chiaro e l’elenco degli accusati cresce anche mentre scrivo. Il personaggio televisivo Charlie Rose è stato licenziato dalla PBS e dalla CBS, dopo una carriera rispettabile di 23 anni. La cosa importante, nell’industria dell’intrattenimento, è di non alienare alcuna prospettiva del pubblico che potrebbe boicottare un film o un attore. La perdita di entrate è un potente motivatore per fare ciò che pubblicamente è ritenuto e percepito come la cosa giusta. Come la proverbiale chiazza di petrolio che, alla fine, inghiotte ogni cosa sul suo cammino, le accuse di molestie si sono ora diffuse, praticamente, a tutti i segmenti della società. Il giudice Roy Moore, candidato del partito Repubblicano per il Senato nelle imminenti elezioni speciali che si terranno in Alabama il 12 dicembre, è un buon caso da considerare. Accusato da quasi 12 donne di molestie sessuali da anni, si è dimostrato provocatorio e ha continuato a dichiarare la sua innocenza, indipendentemente dalle prove schiaccianti addotte contro di lui. Prove così convincenti da indurre i legislatori repubblicani di più alto livello, come Mitch McConnell, a chiedere che si ritirasse dalla competizione. La complessità degli sviluppi, poi, fa girare la testa. Quando il senatore Democratico Al Franken era stato accusato di aver palpeggiato Leann Tweeden, una ex modella e ospite radiofonica con cui Franken aveva condiviso un viaggio in Afghanistan quando era ancora un comico, prima della sua elezione al Senato, Donald Trump l’aveva condannato molto rapidamente. Questo nonostante il fatto che lui fosse rimasto in silenzio sulle accuse contro Moore, dicendo, con una certa ipocrisia, che quello non era il luogo adatto per una sua opinione sull’accaduto e che gli elettori l’avrebbero fatto con il loro voto. Abbiamo assunto che Trump avesse scelto il silenzio sulle accuse di Moore per interesse personale, forse per paura che venissero riprese le accuse rivolte contro di lui, a più livelli, quando disse il famigerato “prendile per la figa”, uscito su alcuni nastri durante la campagna presidenziale. Ma ora si può osservare che il silenzio fosse mirato a mantenere i propri interessi politici partigiani. Nell’ultimo sbalorditivo sviluppo, Trump ha appoggiato Moore. Nel suo caratteristico stile inarticolato e buffone, Trump ha dichiarato: “Lui (Moore, ndr) lo nega. Lo nega. Tutte le cose che sono successe nelle ultime 48 ore. Lui ha totalmente negato tutto. Ha detto che quelle cose non sono accadute. Insomma, dobbiamo considerarlo”. Trump, non solo mette in chiaro che finché l’uomo lo nega la sua parola deve prevalere su qualsiasi numero di accuse formulate dalle donne, ma sembra suggerire che la negazione sia la prova della sua innocenza. Perciò, persone come Franken, che hanno ammesso un comportamento sbagliato e si sono scusati, devono essere puniti, ma quelli che negano sfacciatamente la loro colpevolezza (come Trump stesso ha fatto nel caso della sua infame registrazione) e continuano a farlo, possono andare avanti tranquillamente. Questa cinica abdicazione della responsabilità morale è anche un espediente politico, perché la vera ragione convincente per l’appoggio di Moore da parte di Trump è facilmente deducibile dalla sua dichiarazione: “Non abbiamo bisogno di persone liberali qui, di un Democratico, di Jones. Ho dato un’occhiata alle sue posizioni politiche: Jones è debole sul crimine e sull’immigrazione illegale ed è debole sui diritti dei veterani…Posso dire che non abbiamo bisogno di qualcuno che non sia duro con il crimine, che non sia positivo al confine, che non sia positivo per i militari e per il Secondo Emendamento”. Avrebbe potuto aggiungere che il dominio del Partito Repubblicano è seriamente in pericolo e che non possono permettersi di perdere nemmeno un posto nella Camera dei Rappresentanti o in Senato. Così, mentre sua figlia Ivanka, in una registrazione, diceva “C’è un posto speciale, all’inferno, per le persone che depredano i bambini”, Trump doveva fomentare la base repubblicana e assicurarsi che Moore vincesse a tutti i costi. Ivanka dovrebbe capire che non sarà Moore ad andare all’inferno, ma i principi morali e l’integrità. Mentre Hollywood getta l’imputato in pasto ai lupi in un frenetico tentativo di salvare se stessa e la sua linea di fondo e Washington di salvare le proprie poltrone al Congresso e in Senato, la nuova fondazione “Rose Army”, il cui motto è “lottiamo per la verità”, chiede un sostegno univoco in nome della giustizia, della parità e della moralità. Così, come sempre più persone si sono unite nel movimento #Metoo, la “Rose Army” fa pressione per mettere in riga e condannare gli accusati. Oggi, non c’è nessuno di abbastanza anziano o venerabile da ricevere un lasciapassare gratuito (pensiamo all’ex Presidente George H. Bush). A questo punto, nessuno degli imputati ha avuto alcun tipo di “ascolto” o un processo che possa determinare la loro colpevolezza o la loro innocenza, ma nel clima attuale, essere accusati sembra sufficiente per “renderlo vero”. Tutte le parti adottano la posizione di convenienza che farà avanzare i loro interessi, qualsiasi essi siano. Finanziari, politici o idealistici. Leann Tweeden, così come la “Rose Army”, dice che vorrebbe “lasciare ai propri figli un mondo migliore”. Donald Trump vuole che il partito Repubblicano domini. Hollywood vuole il suo profitto. Ma chi difende la verità e il diritto a esprimere la propria opinione quando non è politicamente corretta? (Traduzione di Giovanna Pavesi)

Dalle scollature al lutto. È di moda il nero ipocrisia. Ai Golden Globe star castigate dopo le edizioni osé. Dov'è la coerenza? Scrive Annalisa Chirico, Lunedì 08/01/2018, su "Il Giornale".  Al Beverly Hilton Hotel di Los Angeles è andata in scena una marcia funebre di nero addobbata. In occasione della 75esima cerimonia di premiazione dei Golden Globe, i più importanti premi americani per il cinema e le serie tv (anticamera degli Oscar), la gran parata di star e starlette registi, attori e aspiranti qualcosa si tinge di total black. A tener banco, ancor prima delle pellicole in gara, è la «lunga notte delle donne in nero» per dire che no, nessuna molestia sessuale passerà più impunita. Lo scorso primo gennaio, in una lettera sul New York Times, si annuncia la nascita di un'associazione dal nome «Time's up» (il tempo è scaduto), promossa da trecento donne contro gli abusi nel mondo dello spettacolo. Così, la «lunga notte» che da sempre ci fa sognare per il tripudio di spacchi e pizzi, tutti pezzi unici di haute couture, esibiti da donne bellissime e irraggiungibili, si trasforma nell'ennesimo episodio di una estenuante crociata contro il porco-orco. E dire che noi, umili spettatori, ci saremmo accontentati dello show, alternanza di lievità e suspense, un'arte in cui il talento americano è impareggiabile. Invece eccovi servita l'ennesima performance pedagogica, con tanto di tailleur scuri e spille «time's up», sguardi contriti e toni solenni. Nella scontata paternale contro l'abuso si cimentano le stesse donne e gli stessi uomini che non si perdevano un party di Harvey Weinstein, sgomitavano per avere una parte nei film da lui prodotti e, fino alla scorsa edizione, il tappeto rosso lo calcavano al suo fianco, spesso in abiti succinti, sempre a favore di telecamera, sorrisi e abbracci, eppure i vizietti del chiacchieratissimo produttore, infoiato permanente, erano ben noti. L'associazione Time's up ha già raccolto 15 milioni di dollari per l'assistenza legale a chi voglia farsi avanti e denunciare, gli americani hanno nel dna la cultura dell'obolo, la donazione privata per una causa giusta com'è quella di fornire sostegno economico a chi, ritenendosi vittima di molestie, intenda rivolgersi a un tribunale. Quel che invece inquina il dibattito, ed è destinato a incidere sul rapporto tra i sessi, è l'ossessione moraleggiante di chi cavalca la «caccia al porco» attraverso l'indiscriminata colpevolizzazione del genere maschile in quanto tale. «Da quest'anno ha annunciato Vanessa Friedman, direttrice delle pagine di moda del Nyt smetteremo di mettere le donne in competizione in base agli abiti sfoggiati sui red carpet». Addio alle classifiche delle attrici meglio (e peggio) vestite. Ma perché mai? Nell'apoteosi del politicamente corretto la donna, vittima sempre e comunque, può riscattarsi attraverso la castigazione del corpo. Come se, contro i Weinstein di tutto il mondo, noi donne dovessimo reagire coprendoci le cosce sotto una tunica nera. Se proprio si fosse voluta inscenare la protesta dei vestiti nel primo grosso evento di Hollywood dopo l'esplosione del caso Weinstein, Eva Longoria, Emma Stone, Maryl Streep e il gineceo di vendicatrici della femminilità violata avrebbero fatto meglio a esortare le colleghe a indossare i colori più sgargianti, a mostrarsi più seducenti che mai. E se proprio si optava per il monocromo, la scelta poteva ricadere sul bianco, luce, purezza, innocenza, verginità. Ma forse per qualcuna sarebbe stato un «richiamo» imbarazzante.

Deneuve, lezione alle donne: "Gli uomini liberi di provarci". Svolta della Deneuve: «Basta, la galanteria non è un'aggressione», scrive Marta Bravi, Mercoledì 10/01/2018, su "Il Giornale". Difendono il diritto degli uomini a corteggiare e il diritto, o meglio la libertà autentica delle donne, a rispedire al mittente le avance ricevute. Arriva dalla laica e libertaria Francia l'appello a sollevare il velo di Maya del nuovo puritanesimo made in Usa che ha scatenato una vera e propria caccia alle streghe, dopo lo scandalo del caso Weinstein. «Lo stupro è un crimine, ma tentare di sedurre qualcuno, anche ostinatamente o in maniera maldestra, non lo è, come la galanteria non è un'aggressione machista», si legge nella lettera aperta pubblicata da le Monde, cui hanno aderito scrittrici, artiste e accademiche. Capofila Catherine Deneuve che pur lodando «una legittima presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, in particolare in ambito professionale», mette in guardia contro le insidie di una liberazione solo apparente. Una liberazione solo superficiale della parola, che addita le donne «che rifiutano di conformarsi come traditrici e complici», ma anche una illusoria liberazione sessuale che altro non fa che prestare il fianco agli interessi «degli estremisti religiosi - scrivono le firmatarie - dei peggiori reazionari e di quelli che credono che le donne siano esseri umani a parte, bambini con il volto adulto, che pretendono di essere protette». Ecco allora che donne quanto mai amate, corteggiate, invidiate lanciano un appello che al di là del buon senso, smaschera quello che i provocanti abiti neri della cerimonia dei Golden Globe nascono in tutta la loro ipocrisia. «Come donne, non ci riconosciamo in questo femminismo che, al di là della denuncia degli abusi di potere, prende il volto di un odio per gli uomini e la sessualità». L'immagine delle dive di Hollywood che sfoggiano maliziose scollature e spacchi vertiginosi sul red carpet della premiazione, optando semplicemente per il nero, rimanda esattamente a questa forma di femminismo distorto. Libertà equivale dunque anche a libertà di farsi avanti, di corteggiare e, perché no?, di implorare un bacio che verrà liberamente e apertamente accettato o rifiutato (fatto salvo, ça va sans dire, l'abuso di potere). Senza che questo implichi medioevali cacce alle streghe o odio di genere.

Molestie, Catherine Deneuve: «Lo stupro è un crimine ma difendiamo la libertà di importunare». La lettera a «Le Monde» dell’attrice e di altre donne francesi: «Lo stupro è un crimine, ma il corteggiamento insistente o maldestro non è un delitto», scrive Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, il 9 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «Difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale», è il titolo molto significativo della lettera aperta pubblicata da «Le Monde». Scritto da cinque donne — la critica d’arte e scrittrice Catherine Millet, la psicanalista Sarah Chiche, l’attrice Catherine Robbe-Grillet e le giornaliste Peggy Sastre e Abnousse Shalmani — e firmato da un altro centinaio, tra le quali la più celebre è Catherine Deneuve, il testo denuncia un «nuovo puritanesimo» e sostiene che «lo stupro è un crimine, ma il corteggiamento insistente o maldestro non è un delitto, né la galanteria un’aggressione maschilista». La star del cinema aveva già espresso perplessità sullo scandalo Weinstein e sul movimento #balancetonporc («denuncia il tuo maiale»), versione francese dell’anglosassone #metoo, nell’ottobre scorso: «Lo trovo terribile. È una forma di sollievo? Ha una qualche utilità? E risolverà forse il problema?». Adesso Deneuve mette il peso della sua celebrità e del suo prestigio al servizio di una presa di posizione più meditata, che ha provocato immediatamente reazioni e polemiche. Le ha risposto subito l’ex ministra Ségolène Royal: «Peccato che la nostra grande Catherine Deneuve sottoscriva questo testo costernante. Tutti i pensieri di noi che abbiamo a cuore la libertà delle donne vanno alle vittime della violenza sessuale, schiacciate dalla paura di parlarne». L’intervento denuncia gli eccessi del dopo-Weinstein: «C’è stata una legittima e necessaria presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, in particolare nell’ambito professionale, dove certi uomini abusano del loro potere. Ma la liberazione della parola diventa oggi il suo contrario: bisogna parlare come si deve, tacere quel che infastidisce, e le donne che si rifiutano di piegarsi a queste ingiunzioni sono giudicate traditrici, o complici!». Rispetto all’Italia, in Francia finora di questa posizione si è parlato meno. Il dibattito pubblico si è concentrato a lungo sulle accuse di violenza sessuale all’intellettuale musulmano Tariq Ramadan, con opposti schieramenti che si sono rinfacciati a vicenda cecità filo-musulmana o islamofobia. Il testo pubblicato ieri riprende dubbi e argomentazioni già note, ma con un rigore e una determinazione che segnano una svolta nella vicenda. «Il puritanesimo usa gli argomenti della protezione delle donne e della loro emancipazione per meglio incatenarle a uno status di eterne vittime, di poverette dominate da demoni fallocrati, come ai bei tempi della caccia alle streghe», si legge sul quotidiano francese. Il testo denuncia la trasformazione del femminismo in «odio degli uomini» e lamenta un’«ondata purificatrice»: «la confessione pubblica e l’incursione di procuratori autoproclamati nella sfera privata installano un clima da società totalitaria». L’intento di fondo è separare la violenza dagli approcci sessuali, per quanto spinti o inopportuni, perché «la pulsione sessuale è per sua natura offensiva e selvaggia». E ancora: «Una donna può pretendere che il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, e non sentirsi traumatizzata per sempre perché qualcuno si è strusciato contro di lei in metrò». Alcune donne si dicono indignate, altre stanno aggiungendo la loro firma.

Deneuve e le altre, ecco la fronda anti #MeToo per la libertà di essere importunate. Lettera aperta dell’attrice e altre cento donne al Monde: contro il neo puritanesimo e la caccia alle streghe che annulla la libertà sessuale, scrive il 10 Gennaio 2018 “Il Foglio”. Non tutto il Weinstein viene per nuocere. Mentre a Hollywood le donne si vestono a lutto in occasione dei Golden Globes, in Francia a scuotere il dibattito è una lettera aperta al quotidiano Monde “contro il neopuritanesimo”, a cui ha aderito Catherine Deneuve insieme ad altre cento scrittrici, artiste e accademiche francesi. Dopo il caso Weinstein, si legge, si è aperta una caccia alle streghe contro gli uomini, che danneggia la libertà sessuale. “Lo stupro è un crimine, ma tentare di sedurre qualcuno, anche ostinatamente o in maniera maldestra, non lo è, come la galanteria non è un’aggressione machista”. Un attacco che stride con la vulgata dominante del #MeToo, che sembra ormai trasformare la seduzione in molestia, gli approcci galanti in paura di essere tacciati di machismo: “Lasciate gli uomini liberi di importunarci”, dicono le firmatarie, quegli uomini che in questi mesi “sono stati puniti sommariamente, costretti alle dimissioni solo per avere toccato un ginocchio o avere cercato di rubare un bacio, parlato di argomenti intimi durante cene di lavoro o avere inviato messaggi a connotazione sessuale a donne per cui l’attrazione non era reciproca”. La presa di posizione di Deneuve ha fatto scatenare l’ira - ça va sans dire - di Asia Argento. L’attrice, diventata uno dei simboli dello scandalo che ha imbarazzato lo star system americano, ha criticato su Twitter la lettera. “Catherine Deneuve e altre donne francesi raccontano al mondo come la loro misoginia interiorizzata le abbia lobotomizzate fino al punto di non ritorno". Sempre su Twitter, Argento si è rivolta a Marlene Schiappa, segretario di stato francese con delega alle pari opportunità, che le ha risposto: "Non sono a conoscenza di un uomo che sia stato licenziato per "aver toccato il ginocchio di una donna" inavvertitamente in Francia come descritto qui, ma se esiste, presentamelo". Al di là delle critiche, feroci e prevedibili, in molte hanno deciso di parlare a sostegno dell’opinione espressa dalla lettera della Deneuve, ringraziandola per avere rotto il silenzio di tutte coloro che non si sentono molestate ma, anzi, lusingate dalla seduzione, dalla galanteria degli uomini che vogliono provarci. Tra loro spicca, se non altro, la presa di posizione di Samantha Geimer, una delle grandi accusatrici di Roman Polanski, che ammise di averla stuprata nel 1977. "Sono d'accordo con la signora Deneuve. Le donne hanno bisogno di uguaglianza, rispetto e libertà sessuale, otteniamo ciò sostenendo noi stesse e noi stessi. Non chiedendo agli altri di proteggerci e definire cosa è 'permesso' alle donne", scrive Geimer. Perché, come dichiarano le firmatarie dell’appello, il femminismo non è odiare gli uomini e la sessualità, né istituire un tribunale che somigli a un macello al quale “inviare i maiali”, che servirebbe soltanto a fare gli interessi dei nemici. Per difendere la libertà sessuale è essenziale non confondere il porco e l'orco, essere liberi “di sedurre e importunare”. Insomma, in una parola, di rimorchiare.

Catherine Deneuve: "Lasciamo agli uomini la libertà di importunarci", scrive il 9 gennaio 2018 "La Repubblica". L'attrice tra le cento firmatarie di una lettera controcorrente pubblicata su 'Le Monde' in cui si condanna la caccia alle streghe scaturita dopo lo scandalo a Hollywood: "Lo stupro è un crimine. Ma tentare di sedurre qualcuno in maniera insistente o maldestra non è un reato, né la galanteria è un'aggressione del maschio". "Difendiamo la libertà di importunarci". Catherine Deneuve è tra le cento firmatarie di una lettera aperta pubblicata su Le Monde in cui si contesta quello che viene definito un "nuovo puritanesimo" emerso dopo il caso Weinstein. "Lo stupro è un crimine. Ma tentare di sedurre qualcuno, anche in maniera insistente o maldestra, non è un reato, né la galanteria è un'aggressione del maschio" scrivono le donne del collettivo, condannando la "caccia alle streghe" che è seguita allo scandalo a Hollywood e che minaccia la libertà sessuale. Femminismo non significa "odiare gli uomini e la sessualità", proclamano in una "tribuna" pubblicata dal quotidiano le firmatarie dell'appello, tra cui la giornalista Elisabeth Levy, le scrittrici Catherine Millet e Catherine Robbe-Grillet, l'attrice Ingrid Caven (ex moglie del regista Rainer Werner Fassbinder), l'editrice Joelle Losfeld. Tutte d'accordo sul fatto che le iniziative come #MeToo abbiano contribuito a "liberare la parola" insieme a una "legittima presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, in particolare in ambito professionale". Ma sono tutte altrettanto decise nel condannare che #MeToo abbia "comportato, sulla stampa e sui social network, una campagna di delazioni e accuse pubbliche di individui che, senza che si lasci loro la possibilità di rispondere o di difendersi, vengono messi esattamente sullo stesso piano di violentatori. Questa giustizia sbrigativa - continuano le donne nella loro denuncia - ha già fatto le sue vittime, uomini puniti nell'esercizio del loro lavoro, costretti a dimettersi, avendo avuto come unico torto quello di aver toccato un ginocchio, tentato di strappare un bacio, o aver parlato di cose intime in una cena di lavoro, o aver inviato messaggi a connotazione sessuale a una donna che non era egualmente attirata sessualmente". Un attacco al femminile in difesa della libertà sessuale per la quale, ricordano, è "essenziale la libertà di sedurre e importunare". Da qui, la convinzione che "questa febbre di inviare i 'maiali' al macello, lungi dall'aiutare le donne a rafforzarsi, serve in realtà gli interessi dei nemici della libertà sessuale, degli estremisti religiosi, dei peggiori reazionari e di quelli che credono che le donne siano esseri umani a parte, bambini con il volto adulto, che pretendono di essere protette". La battaglia delle cento donne si concentra sulla distinzione netta fra la "violenza sessuale", che è "un crimine", e il "rimorchio" che "non è neppure un reato": "Noi difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale", siamo "abbastanza mature per ammettere che la pulsione sessuale è per sua natura offensiva e selvaggia, ma siamo anche sufficientemente accorte per non confondere il corteggiamento maldestro con l'aggressione sessuale". Le firmatarie gridano il loro desiderio di "non riconoscersi in questo femminismo che, al di là della denuncia degli abusi di potere, assume il volto dell'odio verso gli uomini e la sessualità". Niente a che vedere con le battaglie giuste e sacrosante, ma la confusione si ritorce contro le stesse vittime: "La donna, oggi, può vigilare affinché il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, ma non sentirsi traumatizzata per tutta la vita se qualcuno le si struscia contro nella metropolitana".

Deneuve e la lettera a "Le Monde": reazioni sui social e la furia delle femministe, scrive il 10 gennaio 2018 "La Repubblica". La lettera firmata da cento donne contro la "caccia alle streghe" seguita al caso Weinstein scatena le reazioni su Twitter tra qualche consenso e feroci critiche, come quella di Asia Argento e Caroline De Haas. La lettera aperta pubblicata da Le Monde scuote i social e gli utenti si dividono. Catherine Deneuve è tra le cento firmatarie del testo che condanna la "caccia alle streghe" seguita al caso Weinstein. Uno scandalo che ha coinvolto volti e star a Hollywood ma che ha avuto ripercussioni in tutto il mondo, anche in Italia con il caso Brizzi. Deneuve si unisce alla voce controcorrente rispetto al movimento #MeToo, nato in difesa delle vittime di abusi e violenze sessuali e che ha in Asia Argento la sua 'pasionaria', e sottoscrive che "lo stupro è un crimine, ma tentare di sedurre qualcuno in maniera insistente o maldestra non è un reato, né la galanteria è un'aggressione del maschio". Dichiarazioni che hanno scatenato reazioni e commenti sui social dove accanto alle feroci critiche di chi sostiene che l'attrice francese sia solo una snob viziata e provocatrice, in molti (anche tante donne) si dicono invece d'accordo contro quello che definiscono il "nuovo puritanesimo". Nella lettera si legge anche che gli uomini sono stati puniti sommariamente, "costretti a dimettersi avendo avuto come unico torto quello di aver toccato un ginocchio, tentato di strappare un bacio, o aver parlato di cose intime in una cena di lavoro, o aver inviato messaggi a connotazione sessuale a una donna che non era egualmente attirata sessualmente". Ed è proprio Asia Argento una delle prime a commentare con sdegno che "Catherine Deneuve e altre donne francesi raccontano al mondo come la loro misoginia interiorizzata le abbia lobotomizzate fino al punto di non ritorno". L'attrice italiana si rivolge quindi a Marlène Schiappa, segretario di Stato dell'eguaglianza tra gli uomini e le donne (omologo al ministro delle Pari opportunità italiano) chiedendole cosa pensa di questo "articolo deplorevole", e lei risponde su Twitter: "Non sono a conoscenza di un uomo che sia stato licenziato per 'aver toccato il ginocchio di una donna' inavvertitamente in Francia come descritto nella lettera, ma se esiste, presentamelo". Sui social è in particolare Catherine Deneuve a essere presa di mira e definita "pollastrella". È stato creato l'hashtag "#denuncialafalsafemminista, è stato scritto "se volete molestare sessualmente, violentare, toccare i seni, il sedere, di Catherine Deneuve, andate pure, a priori non dovrebbe darle fastidio". Ma a capeggiare la rivolta femminista è la militante francese Caroline De Haas, che ha raccolto una trentina di firme per denunciare l'iniziativa delle cento donne. Intervistata da France Info, De Haas ha detto fra l'altro: "Le firmatarie della tribuna su Le Monde sono per la maggior parte delle recidive in materia di difesa di pedocriminali o di apologia dello stupro". "Questa tribuna - si legge nel testo delle femministe - sembra un po' quel collega fastidioso, quello zio noioso che non capisce quello che sta succedendo. Appena si fa un passo avanti nell'eguaglianza, anche se di mezzo millimetro, delle anime pure ci mettono subito in guardia sul fatto che rischiamo di cadere nell'eccesso. Ma nell'eccesso ci siamo in pieno, in Francia ogni giorno centinaia di migliaia di donne sono vittime di molestie, decine di migliaia di violenze, centinaia di stupri. Ogni giorno. La caricatura è questa". Insomma, "i maiali e i loro alleati/e si preoccupano - concludono le femministe - e fanno bene. Il loro vecchio mondo sta per scomparire. Lentamente, troppo lentamente, ma inesorabilmente. Qualche reminiscenza polverosa non cambierà niente, anche se pubblicata su Le Monde". Tra i vari commenti su Twitter, a sostegno delle cento donne, c'è anche quello di Samantha Geimer, la donna che il regista Roman Polanski ha ammesso di aver stuprato nel 1977 quando aveva 13 anni: "Sono d'accordo con la signora Deneuve. Le donne hanno bisogno di uguaglianza, rispetto e libertà sessuale, otteniamo ciò sostenendo noi stesse e noi stessi" scrive su Twitter, "non chiedendo agli altri di proteggerci e definire cosa sia 'permesso' alle donne".

Rivolta femminista contro la lettera della Deneuve. Nella tribuna pubblicata da Le Monde si difende la "libertà di importunare" - Decine le firme raccolte per denunciare l'iniziativa: "È apologia dello stupro", scrive il 10 gennaio 2018 "Il Corriere del Ticino". Dopo la tribuna di ieri su Le Monde, in cui Catherine Deneuve e un centinaio di artiste e intellettuali hanno difeso la "libertà di importunare" attaccando il femminismo che porta "all'odio degli uomini e della sessualità", le risposte - durissime - non si sono fatte attendere. Nella lettera pubblicata ieri - dal titolo significativo "Difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale" - si denuncia un "nuovo puritanesimo" e si sostiene che "lo stupro è un crimine, ma il corteggiamento insistente o maldestro non è un delitto, né la galanteria un'aggressione maschilista". Le autrici sono cinque donne: la critica d'arte e scrittrice Catherine Millet, la psicanalista Sarah Chiche, l'attrice Catherine Robbe-Grillet e le giornaliste Peggy Sastre e Abnousse Shalmani. A capeggiare la rivolta femminista contro questa lettera è la militante Caroline De Haas, che ha raccolto una trentina di firme per denunciare l'iniziativa di Deneuve & C. La De Haas, intervistata da France Info, ha detto fra l'altro: "Le firmatarie della tribuna su Le Monde sono per la maggior parte delle recidive in materia di difesa di pedocriminali o di apologia dello stupro". "Questa tribuna - si legge nel testo delle femministe - sembra un po' quel collega fastidioso, quello zio noioso che non capiscono quello che sta succedendo. Appena si fa un passo avanti nell'eguaglianza, anche se di mezzo millimetro, delle anime pure ci mettono subito in guardia sul fatto che rischiamo di cadere nell'eccesso. Ma nell'eccesso ci siamo in pieno, in Francia ogni giorno centinaia di migliaia di donne sono vittime di molestie, decine di migliaia di violenze, centinaia di stupri. Ogni giorno. La caricatura è questa". Insomma, "i maiali e i loro alleati/e si preoccupano - concludono le femministe - e fanno bene. Il loro vecchio mondo sta per scomparire. Lentamente, troppo lentamente, ma inesorabilmente. Qualche reminiscenza polverosa non cambierà niente, anche se pubblicata su Le Monde. Su Twitter e altri social network, poi, le firmatarie della tribuna e in particolare Catherine Deneuve sono state prese di mira. È stato creato l'hashtag "#denuncialafalsafemminista", è stato scritto "se volete molestare sessualmente, violentare, toccare i seni, il sedere di Catherine Deneuve, andate pure, a priori non dovrebbe darle fastidio". L'attrice compagna di Marcello Mastroianni, interprete per Truffaut e Bunuel, viene definita, fra l'altro, "pollastrella". Già ieri le aveva risposto l'ex ministra Ségolène Royal su Twitter: "Peccato che la nostra grande Catherine Deneuve sottoscriva questo testo costernante. Tutti i pensieri di noi che abbiamo a cuore la libertà delle donne vanno alle vittime della violenza sessuale, schiacciate dalla paura di parlarne".

Deneuve, Millet e le altre: «Difendiamo la libertà di importunare le donne». Un appello firmato da 100 donne del mondo dell’arte e della cultura per il diritto alle avance. Elisabeth Lévy, direttrice di Causeur: “Basta con la caccia al maschio. Per ottenere giustizia stiamo stravolgendo le regole più elementari della giustizia, scrive Marina Valensise il 10 Gennaio 2018 su "L’Inkiesta". Le francesi sono stufe. Non ne possono più dell’ondata di delazioni che ha travolto i media, dopo il caso Weinstein. Tutto è iniziato con l’hashhtag #balancetonporc, lanciato un paio di mesi fa su tweet da una giornalista puritana francese ma residente negli Stati Uniti. Il suo tweet giro di pochi minuti è stato rituittato decine di migliaia di volte, sino a produrre 715 mila messaggi nello stesso stile. Sandra Muller forse preoccupata per l’incredibile successo della sua campagna di delazione universale, ha avuto l’innocenza di spiegare com’è nato il suo tweet. “Ero al festival di Cannes, quando un direttore di fotografia mi ha detto, “Hai dei bei seni. Sei il mio tipo di donna. Ti farò godere per tutta la notte”. Di fronte a un’affermazione ritenuta così “stupefacente, patetica e presuntuosa”, la giornalista ha deciso di fornire il nome del suo “aggressore verbale”, per dare l’esempio e per porre fine a comportamenti simili. Peccato che “l’aggressione” sia avvenuta molto tempo fa e che la “presunta vittima” abbia ritenuto di far passare ben quattro anni prima di denunciare il poveretto suo ammiratore, il quale si è visto immediatamente licenziare e ha perso il suo lavoro, oltreché il suo onore. Ma quando è troppo è troppo. Tra un tentativo di rimorchiare usando un’espressione infelice o salace di maschia volgarità e la violenza sessuale di uno stupro ce ne corre. Certo è sempre un’aggressione, ma la violenza nel primo caso non c’è, e anzi il poveretto, presunto aggressore, aveva tutt’altre intenzioni, poiché sognava solo di fare godere la donna dalle belle tette. Così adesso a scendere in campo in difesa della libertà di importunare, pilastro della libertà sessuale, sono centro donne, che hanno sottoscritto un appello pubblicato su Le Monde “In nome di un presunto bene generale, il puritanismo usa l’argomento della protezione delle donne e della loro emancipazione, per incatenarlo a uno status di eterne vittime, di poverette in balia di demoni fallocrati, come all’epoca della caccia alle streghe”. Fra le firmatarie dell’appello ci sono grandi attrici senza complessi, come Catherine Deneuve, libertine fiere di esserlo come la critica d’arte Catherine Millet, che fece scalpore rivelando la lista completa dei suoi amanti, e persino una libera battitrice delle idee anticonformiste come Elisabeth Lévy, la direttrice di Causeur, una delle riviste più intelligenti e politicamente scorrette oggi in circolazione. “Siamo al delirio. Le donne molestate? Vogliamo scherzare? Durante una serata allegra in cui si è alzato un poco il gomito, un tizio vede una donna, le fa un complimento salace, dicendole T’as des gros nibards, je vais te faire jouir. E l’altra che fa? Invece di rispondergli Invece tu celo devi avere proprio piccolo”, dopo quattro anni vuole farci credere che è rimasta traumatizzata finché non ha trovato il coraggio di parlare”, osserva divertita Elisabeth Lévy. Ma la cosa più scandalosa, secondo la direttrice di Causeur, è la reazione del povero tizio, che su Le Monde ha avuto diritto di replica. “Anziché denunciare la stronza e ammettere pubblicamente che per colpa sua è rimasto senza lavoro, si profonde in una serie di scuse”. C’è qualcosa che non va, dunque, se si è perso il senso delle proporzioni, se in nome della delazione universale si fa di tutt’erba un fascio. Qualcosa si è rotto nel gioco della seduzione. Finita la galanteria, che dall’epoca dell’Illuminismo fonda in Francia il potere delle donne, finito il piacere del corteggiamento a fondo perduto, del libero apprezzamento reciproco e del rigoglio dei sensi che avvicina i sessi, sino a farli intrecciare a piacere nella ricerca della reciproca soddisfazione. Dopo un secolo di femminismo, la storia di rapporti tra gli uomini e le donne è finita in una fase nuova, una fase nera, lugubre, puritana, segnata dal ricatto e dalla stigma sociale, dove il libertino viene assimilato ex officio al porco, e l’unica risorsa in mano all’ultimo seduttore superstite è la richiesta in carta bollata per ottenere il permesso di una paroletta salace, di una palpatina, di un’effusione fuori programma. “Ma il fatto grave è la caccia all’uomo” insiste Elisabeth Lévy. “Per ottenere giustizia stiamo stravolgendo le regole più elementari della giustizia. L’habeas corpus, inventato dai liberali inglesi secoli fa, vuol dire che se uno viene accusato lo si porta davanti a giudice perché possa rispondere alle accuse e dunque difendersi. Noi invece con #balancetonporc oggi denunciamo il porco con una valanga di tweet, e domani il porco perde il lavoro e passa direttamente alla gogna, senza potersi difendere. E chi si rifiuta di piegarsi a questo modo di reagire, viene accusata di tradimento, di complicità con il presunto porco. In un paese come il nostro dove si parla in continuazione di libertà e di eguaglianza è una REGRESSIONE. E adesso spunta fuori anche la pretesa di censurare le opere d’arte del passato, perché razziste, lascive, antifemministe”. Da qui l’urgenza di reagire, di fare qualcosa, di prendere coscienza del fenomeno in cui stiamo scivolando, magari solo un appello su Le Monde, firmato da cento donne, cento personalità del mondo dell’arte e della cultura, “tutte però ultracinquantenni” osserva Elisabeth Lévy “Perché le ventenni ormai sono perse: sono tutte puritane”.

Molestie, Berlusconi: "Catherine Deneuve ha detto cose sante". "L'importante è che la corte rimanga nell'eleganza": il leader di Forza Italia si schiera con l'attrice francese che aveva detto "lasciamo agli uomini la libertà di importunarci", scrive l'11 gennaio 2018 "La Repubblica". "Catherine Deneuve ha detto cose sante". A dirlo è Silvio Berlusconi, ospite di Porta a porta, che ha così commentato la lettera appello dell'attrice francese a proposito dello scandalo molestie nella quale dice: "Lasciamo agli uomini la libertà di importunarci". "È naturale - ha aggiunto Berlusconi - che le donne siano contente che un uomo faccia loro la corte. Io non sono molto pratico perché sono sempre le donne a farmi la corte. L'importante è che la corte rimanga nell'eleganza". Deneuve è stata tra le cento firmatarie di una lettera aperta pubblicata su Le Monde in cui si contesta quello che viene definito un "nuovo puritanesimo" emerso dopo il caso Weinstein. "Lo stupro è un crimine. Ma tentare di sedurre qualcuno, anche in maniera insistente o maldestra, non è un reato, né la galanteria è un'aggressione del maschio" scrivono le donne del collettivo, condannando la "caccia alle streghe" che è seguita allo scandalo a Hollywood e che minaccia la libertà sessuale. E dello stesso avviso, oggi, è anche Carlo Verdone. "È stata certamente una giusta lezione data ai maschi che hanno prevaricato e molestato tantissime donne, ma adesso basta! La lezione l'abbiamo imparata, nulla sarà più come prima, e meno male, ma finisca questa caccia alle streghe e questa massa di denunce in tv piuttosto che da polizia e carabinieri, e anche decenni dopo i fatti. Riprendiamoci i rapporti tra uomo e donna e i giochi di seduzione che non hanno tempo". "Io credo davvero che i rapporti tra uomo e donna oggi sono e saranno diversi, anche per via di quanto accaduto - ha aggiunto Verdone - e anche che chi continuerà a fare il cretino dovrà essere denunciato e messo da parte. Ma per favore, le schermaglie tra uomo e donna, anche pesanti talvolta, ci sono sempre state e sempre ci saranno, qualcuno ne dubita?".

Asia Argento: "Le molestie sessuali sono tutta colpa di Berlusconi", scrive il 20 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". E ti pareva che anche il caso delle molestie sessuali (da Hollywood a Cinecittà) non fossero colpa di Silvio Berlusconi. Il nome del Cavaliere l'ha tirato fuori Asia Argento, che in una intervista al The Guardian ha parlato degli abusi subìti dal produttore cinematografico Harvey Weinstein e della polemica che si è scatenata in Italia dopo la sua quantomeno tardiva denuncia. La Argento se l'è quindi presa con la cultura "machista" italiana alimentata "da anni di berlusconismo": "Siamo stati così lobotomizzati dall'oggettivazione delle donne che noi, come donne, non sappiamo nemmeno che siamo state molestate e trattate nel modo sbagliato". In Francia, rincara l'attrice che conferma di voler lasciare l'Italia la prossima estate, "la gente mi ha fermato per la strada per ringraziarmi, in Italia mi guardavano male, nessuno a dirmi brava. La mia non è paranoia: non so se dover camminare a testa alta o nascondere la testa in un foulard". Ma adesso "le coscienze si stanno svegliando. Ogni volta che uno di questi maiali cade, è una medaglia d'onore. Altri porci verranno fuori". Quello che vede ora l'attrice "ricorda una frana dove basta una prima pietra perché si crei uno smottamento. E così si crea un altro ambiente, uno in cui le donne possono lavorare e vivere senza avere paura degli uomini. Ora, sono sicura, sono gli uomini ad avere molta paura di noi, e prima di fare qualcosa ci penseranno dieci volte".

Silvio Berlusconi e le molestie sessuali, Laura Boldrini: "Inaccettabile buttarla sempre a tarallucci e vino", scrive il 12 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". "Non si può buttarla a tarallucci e vino, facendo finta che sia un argomento su cui ridere. Quando si parla di situazioni nelle quali c'è un esercizio di potere di un uomo su una donna, che passa per il ricatto sessuale, è una cosa gravissima. La vicenda molestie non è una cosa da sdoganare". A Circo massimo a Radio Capital Laura Boldrini, presidente della Camera ed esponente di Liberi e Uguali, cala il carico da 90 contro Silvio Berlusconi, reduce dall'intervista da Bruno Vespa a Porta a porta: "Il corteggiamento - ha detto Boldrini parlando della lettera della Deneuve - è ben gradito quando corrisposto, ma qui parliamo di molestie. Vuol dire che non lavori se non mi concedi ciò che voglio. Questa è una cosa gravissima. Mischiare le due cose è mistificare un problema serio e non è accettabile".

Weinstein rovinato dalle molestie sessuali e dal divorzio: quanti soldi dovrà dare alla ex moglie Georgina Chapman, scrive il 12 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Carriera rovinata e conto prosciugato. Il sexgate è costato carissimo al produttore cinematografico Harvey Weinstein, che ha raggiunto un accordo di divorzio con la moglie Georgina Chapman. Secondo quanto anticipato dall'autorevole sito di gossip americano Tmz, l'intesa riguarda sia i beni, sia la custodia dei due figli, di 7 e 4 anni. La base è un accordo pre-matrimoniale, anche se questo accordo non viene ricalcato in modo totale, scrive Tmz, secondo cui nessuna delle due parti ha ancora presentato richiesta di divorzio ma un'istanza arriverà presto adesso che l'accordo è stato raggiunto. Stando al New York Post, l'accordo pre-matrimoniale prevede che Weinstein debba pagare a Chapman 300mila dollari per ogni anno di matrimonio, mentre dopo i 10 anni di matrimonio - che la coppia ha da poco superato - la cifra sale a 400mila dollari. Chapman, 41 anni, ha annunciato che avrebbe lasciato Weinstein, 65 anni, a ottobre scorso, dopo che il produttore di Hollywood è stato travolto dallo scandalo molestie sessuali. Secondo fonti citate dal New York Post, l'accordo sarebbe stato raggiunto alla fine del 2017 e la custodia dei figli sarebbe affidata a Chapman.

Weinstein aggredito. L'assalitore: "Per quello che ha fatto alle donne". In un ristorante in Arizona un giovane ha cercato di prendere a pugni il produttore accusato di molestie, scrive il 10 gennaio 2018 "La Repubblica". Harvey Weinstein è stato aggredito in un ristorante di Scottsdale, in Arizona, dove stava cenando in compagnia di un "coach" del centro di riabilitazione di cui da mesi è in cura. "Sei un pezzo di m...per quel che hai fatto a quelle donne", ha detto un giovane cliente che, evidentemente alticcio, ha affrontato il produttore cercando di prenderlo a pugni. I colpi non sono andati a segno, ma Weinstein ha perso l'equilibrio e per poco non è caduto. Una persona che aveva filmato l'episodio sul cellulare ha chiesto a Weinstein se volesse denunciare l'accaduto, ma l'ex capo di Miramax ha rifiutato e ha lasciato il locale. Settantadue ore dopo la protesta delle "donne in nero" alla premiazione dei Golden Globe, torna protagonista sui media l'uomo da cui è partito lo scandalo delle molestie e delle violenze che ha sconvolto Hollywood. L'aggressione è avvenuta dopo che Weinstein aveva finito di cenare nel locale Elements. Un ragazzo di mome Steve si è inizialmente avvicinato all'ex re Mida degli studios chiedendogli di scattare una foto. Il giovane ha raccontato che Weisntein era scontroso e ha risposto di no. Quando poi i due sono usciti quasi contemporaneamente c'è stata l'aggressione. Steve ha ammesso che aveva "bevuto un  po' troppo" e per questo aveva chiesto a un amico di girare il video, cosa che che Weinstein e l'accompagnatore, si vede nelle immagini, cercano di impedire, meno preoccupati dei ceffoni e degli insulti del giovane che del fatto che qualcuno stesse filmando la scena. Weinstein, che legalmente è stato aggredito, non ha chiamato la polizia limitandosi a uscire dal locale. E finora non ha denunciato il giovane.

Deneuve e altre 100: «Giusto ribellarsi ma no a questa gogna», scrive il 10 gennaio 2018 "Il Dubbio". Cento donne francesi, con in testa Catherine Deneuve, hanno scritto una lettera a Le Monde in cui prendono le distanze non dalle denunce delle molestie, ma dalla retorica che le sta accompagnando. «Lo stupro è un reato. Ma non lo è fare la corte in maniera insistente o imbarazzante, né tantomeno la galanteria è un’aggressione machista. A seguito del caso Weinstein ha avuto luogo una legittima presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, in particolare in ambito professionale, dove alcuni uomini abusano del loro potere. Era necessario. Ma questa liberazione della parola ci si è ritorta contro: ci viene intimato di parlare chiaramente, di zittire chi ci infastidisce, e quelle che si rifiutano di piegarsi a tali ingiunzioni sono viste come traditrici, o complici!

Bene, la caratteristica del puritanesimo sta proprio nel prendere in prestito, in nome di un pretesto qualunque, gli argomenti della protezione delle donne e della loro emancipazione per meglio vincolarle a uno status di eterne vittime, di “povere piccole cose” soggette all’influenza di demoni fallocrati, come ai buon vecchi tempi della stregoneria. Di fatto, # metoo ha portato nella stampa e nei suoi canali social una campagna fatta di delazioni e gogna pubblica contro individui che, senza alcuna possibilità di replicare e difendersi, sono messi esattamente sullo stesso piano di molestatori. E questa giustizia sommaria ha già le sue vittime, uomini interdetti nell’esercizio della loro professione, costretti alle dimissioni, per nessuna colpa se non quella di aver toccato un ginocchio, aver tentato di rubare un bacio, o ancora per discorsi “intimi” durante una cena professionale, o dei messaggi a sfondo sessuale a una donna che non ricambiava. Questa malattia di spedire i maiali al macello, lontana dall’aiutare le donne ad emanciparsi, fa in realtà gli interessi dei nemici della libertà sessuale, degli estremisti religiosi, dei peggiori reazionari e di coloro che pensano che le donne, in nome di una concezione sostanziale del bene e della morale vittoriana che l’accompagna, siano degli esseri “a parte”, dei bambini col volto di adulti, che implorano di essere protetti. Gli uomini sono esortati a fare mea culpa e a scovare al fondo della loro coscienza retrospettiva un comportamento “inappropriato” compiuto forse dieci, venti o trent’anni prima, di cui dovrebbero pentirsi. La confessione pubblica, l’incursione di procuratori autoproclamati nella sfera privata: ecco come ci si ritrova in un clima da regime totalitario. La moda dell’inquisizione non sembra conoscere alcun limite. Ora si censura un nudo di Egon Schiele su un manifesto, ora si contesta un ritratto in un quadro di Balthus perché rappresenterebbe apologia di pedofilia, nella confusione tra l’uomo e l’opera. Si chiede l’interdizione di una retrospettiva su Roman Polanski alla Cinémathèque e si ottiene il rinvio di quella consacrata a Jean-Claude Brisseau. Un universitario ha giudicato il film Blow- up di Michelangelo Antonioni «misogino». Alla luce di questo revisionismo, John Ford e persino Nicolas Poussin (Il ratto delle sabine) rischiano grosso. Siamo al punto che alcuni editori ci chiedono di rendere i nostri personaggi maschili meno “sessisti”, di parlare di sessualità e amore con mille limiti o ancora di garantire che “i traumi subiti dai personaggi femminili” siano resi più evidenti! Al limite del ridicolo, un progetto di legge in Svezia, vuole imporre l’obbligo di un consenso esplicitamente notificato per i rap- porti sessuali. Ancora qualche sforzo e due adulti che vorranno dormire insieme dovranno spuntare preventivamente attraverso una app del telefono un documento in cui le “pratiche” accettate e rifiutate saranno debitamente elencante. Il filosofo Ruwen Ogien difendeva una certa libertà di offendere, indispensabile alla creazione artistica. Allo stesso modo, noi difendiamo una libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale. Siamo oggigiorno sufficientemente avvertite per ammettere che la pulsione sessuale è per sua natura offensiva e selvaggia, ma siamo altrettanto sufficientemente sveglie per non confondere il flirt imbarazzante con la molestia sessuale. Soprattutto, siamo coscienti che l’essere umano non è monolitico: una donna può, nella stessa giornata, dirigere una squadra di professionisti e godere dell’essere l’oggetto sessuale di un uomo, senza per questo essere una “puttana”, né una vile complice del patriarcato. Quella donna può provvedere a che la sua retribuzione sia pari a quella di un uomo, ma non traumatizzarsi per uno “strusciatore” sulla metro, seppure lo si considera come un reato. Può senz’altro considerarlo come l’espressione di una grande miseria sessuale, vederlo come un “non-avvenimento”. In quanto donne, non ci riconosciamo in quel femminismo che, al di là della denuncia degli abusi di potere, prende l’aspetto di un odio verso gli uomini e la sessualità. Pensiamo che la libertà di dire “no” a una proposta sessuale non può esistere senza la libertà stessa di importunare. E noi pensiamo che bisognerebbe saper rispondere a questa libertà di importunare invece di chiudersi nel ruolo della preda. Per quelle di noi che hanno deciso di avere dei bambini, pensiamo che sia più giudizioso crescere le nostre figlie in modo che siano sufficientemente informate e coscienti per poter vivere pienamente la loro vita senza lasciarsi intimidire o colpevolizzarsi. I casi che possono colpire il corpo di una donna non riguardano necessariamente la sua dignità e non devono, per duri che siano talvolta, fare necessariamente di lei una vittima eterna. Perché non siamo riducibili al nostro corpo. La nostra libertà interiore è inviolabile. E questa libertà che abbiamo a cuore non la possiamo inseguire senza assumercene rischi e responsabilità».

Tutti porci. Ma proprio tutti tutti? Scrive Nino Spirlì su "Il Giornale" Giovedì 11 gennaio 2018. Ho sempre saputo dove stessi andando. Sia che mi dirigessi, giovanissimo impiegato modello, verso la stanza al piano delle decisioni del ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, sia che mi perdessi nel fumo mefitico di mille sigarette di una sala prove a teatro. O che mi imbellettassi per una cena aristofracica della Roma mignotta e padrona. O, ancora, che mi imbalsamassi con profumi d’oriente per espormi alle morbidezze di quel marpione o questa sciacalla che tenevano più a quei sedici/diciotto centimetri di intelligenza bassa che ospito nelle braghe, piuttosto che alla nobiltà dei miei sentimenti. Ho sempre condotto questa macchina di carne e intelligenza con volontà, lucidità, acutezza. Non mi sono mai pentito di nessuna scelta fatta. Di nessuna tranvata presa sul grugno. Di nessun patimento procurato a me stesso. Così come non mi sono mai vergognato di alcun risultato ottenuto. Di nessun compromesso controfirmato. Di nessuna agevolazione cercata e, a volte, ottenuta. Lo facciamo tutti: sia chi lo ammette e lo dichiara serenamente e con grande autoironia, sia chi se lo tiene stretto nelle viscere, fra merda quotidiana e bolle d’aria fetida. Sì, stitica di onestà, una pletora di falsi santi sta guadagnando prime pagine come fosse maturato il tempo dei 144.000 unti del Signore. Donne e uomini che, a distanza di venti o trent’anni, si ricordano di quel giorno in cui un amico, un collega, un boss, un regista o un medico ha schiaffato loro la mano sudaticcia e golosa sulla chiappa, sul pacco, sulla patonza, come se non ci fosse un domani. Con spifferi di bava alla bocca come se il peggiore e più infernale dei ghibli avesse abbandonato il deserto per ficcarsi in una camera sigillata al resto del mondo… Ricordano, oggi, l’orrore di quel tempo lontano, più di quanto non sappiano cosa ci fosse, stamattina, sul tavolino della colazione. Sentono ancora il fiato d’aglio azzannare, poro dopo poro, la loro carne angelica, ingenua, ignara. Addebitano a questo o quel porco di ogni tempo tutte le sconfitte successive a “quell’assalto all’arma eretta”. E schiaffano nel sottoscala, nel retrobottega, o, peggio, in un pozzo senza fondo, la propria incapacità. La possibilità che i mille e mille “grazie, le faremo sapere” siano stati giustificati più da una loro sciapità personale, che dalla cattiveria altrui. Mi indigno, oggi come sempre, non solo di questa falsa ingenuità, ma anche della “complice complicità” di chi fa finta di scandalizzarsi solo per poter partecipare alla saga della finta verginità. Mignotte e mignotti di tutti i tempi – di alcuni dei quali potrei raccontare faville da Salon Kitty – che concionano sulla propria condotta irreprensibile davanti alle propostacce di questo o quel maiale di potere! Fasulli come un soldo su cui sia stampato “Terzo secolo A.C.”, scaricano, apparendo su ogni tipo di Media, carriolate di letame su veri e propri mostri sacri dell’arte, su santi uomini di fede, su onestissimi amministratori, impastandoli con quella teppaglia che, negli stessi ambiti, ha procurato ululati di vero dolore a vittime silenziose, se non già morte. Tutti porci, dunque? Carnefici e finte vittime? Gli operatori della comunicazione dovrebbero saper fare la tara a certe mitragliate di letame. Verificare prima che qualcuno, magari più debole di altri, si armi di vergogna e si scaraventi in un inferno che non lo aspettava e che non gli competeva.

Preferisco sopportare un colpevole vivo piuttosto che piangere un innocente morto. Pensiamoci un po’ su… Prima che qualche altro mitomane egocentrico crocifigga un nuovo Gesucristo… Nota: è di queste ore una gravissima accusa a Franco Zeffirelli, 94 anni di Arte ed Eleganza che il mondo intero ci invidia.

L'accusa di Johnathon Schaech: "Franco Zeffirelli ha abusato di me". L'attore ha scritto un articolo-confessione in cui parla della sua esperienza con Zeffirelli, esperienza tenuta segreta per 25 anni, scrive Aurora Vigne, Giovedì 11/01/2018, su "Il Giornale". Ennesima denuncia choc nel mondo del cinema. Questa volta a parlare è Johnathon Schaech, attore americano protagonista nel 1993 di "Storia di una capinera" di Franco Zeffirelli. Come riporta il sito americano People, il 48enne ha dichiarato di essere stato vittima di molestie da parte del regista durante le riprese del film. L'attore ha scritto un articolo-confessione in cui parla della sua esperienza con Zeffirelli, esperienza tenuta segreta per 25 anni. "Dopo più di sei audizioni mi portarono a Cinecittà e mi dissero che il ruolo era mio. Franco mi ripeteva che ero bello e meraviglioso, mi raccontava storie incredibili e quello che dovevo fare per essere un vero artista. All’epoca lui aveva settant’anni, io ne avevo 22 anni e pensavo di sapere esattamente chi fossi. Ma in realtà non sapevo nulla. Quando Franco portò me e gli altri attori a Roma, ci condusse in posti in cui nessuno poteva andare. Siamo stati nei luoghi più incredibili d’Italia e io mi sono sentito davvero fortunato, in quel momento. Però quando Franco beveva diventava molto aggressivo e violento. Non solo con me, ma anche con alcune attrici". Poi l'attore continua e parla delle avance da parte del regista che avvenivano in particolare durante la notte. "Quasi ogni giorno Franco mi diceva: “Ho bisogno di stare con te”. Spesso a tarda notte veniva a bussare alla porta della mia camera, ma io non aprivo mai. Lui però insisteva. Io non avevo un agente, nessuno con cui parlare o che potesse proteggermi. Franco stava diventando sempre più aggressivo, era arrivato al punto di criticarmi per qualsiasi cosa facessi. Non gli andava bene nulla". Ma non solo avance. Zeffirelli, che oggi ha 94 anni ed è tra i registi italiani più famosi al mondo, avrebbe costretto Schaech ad avere un rapporto orale. "Ha tentato di farmi sesso orale. Io non ho fatto niente. Sono rimasto disteso sul letto. Non ho pensato di doverlo fare per la mia carriera, ma credevo invece che fosse una sorta di rito di passaggio, come se fossi obbligato. Ero vulnerabile. Non ho urlato. Non l’ho fermato e mi ci sono voluti 25 anni per capire come mai non ci sono riuscito. È come se io mi trovassi altrove in quel momento, come se avessi abbandonato il mio corpo. Quando Franco capì che non avrebbe ottenuto da me ciò che desiderava, se ne andò. Non ha mai più provato a toccarmi. Quell’esperienza mi ha distrutto. Non sapevo perché fosse successo. Ho seppellito questa storia per oltre 20 anni. Mi ha causato problemi di alcol e droghe, dipendenze sessuali."

Molestie: Schaech accusa Zeffirelli. Il figlio replica: "È una vendetta". L'attore che interpretò "Storia di una capinera" afferma di essere stato molestato dal regista in una camera d'albergo, scrive Rai News il 12 gennaio 2018. L'attore statunitense Johnathon Schaech (classe 1969) recentemente visto nelle serie tv Quantico e Legends of Tomorrow, ha accusato il regista Franco Zeffirelli (classe 1923) di averlo molestato durante le riprese del film Storia di una capinera (1994). All'epoca l'attore aveva 23 anni e quello fu il suo film d'esordio. Il figlio adottivo del regista italiano Pippo Corsi   Zeffirelli, respinge le accuse e afferma che si tratta di una vendetta dell'attore. Schaech, sulla rivista People, descrive come "una notte" in "un hotel in Sicilia" Zeffirelli, che "era riuscito a ottenere una chiave", entrato nella sua camera "ha messo le sue mani in posti che non avrei potuto nemmeno immaginare e ha fatto cose di cui non sono fiero". "Ero vulnerabile. Non ho urlato e gridato. Non l'ho fermato fisicamente e mi ci sono voluti 25 anni per capire il perché", afferma ancora l'attore. "Il sig. Schaech, che all'epoca aveva 23 anni, era stato scelto fra tanti candidati per il ruolo di Nino, nel film Storia di una Capinera. Le asserzioni sugli abusi non sono vere - scrive Pippo Corsi Zeffirelli - Registi hanno stili diversi e quando hanno a che fare con attori senza esperienze, a volte, sono più esigenti e più pressanti". "Zeffirelli - prosegue il figlio adottivo del regista - diede al signor Schaech la sua prima chance nonostante Johnathon all'epoca soffrisse di una ostruzione alla gola che rendeva il suo parlare difficile. Per questa ragione, alla fine delle riprese, Zeffirelli decise di far doppiare il personaggio interpretato da Schaech da un attore inglese e la cosa lo mandò su tutte le furie. Quindi le accuse che oggi avanza il signor Johnathon Schaech hanno il sapore di un fumus persecutionis, ma anche di una vera e propria vendetta". "Negli ultimi anni sono stato occasionalmente a contatto con il signor Schaech via Whatsapp - prosegue Pippo Corsi Zeffirelli - lui mi metteva al corrente dei cambiamenti della sua vita e talvolta io mi complimentavo per l'evoluzione della sua carriera. Il tutto sempre con grande cordialità e senza che trapelasse mai traccia del disagio psicologico che il signor Schaech oggi afferma di aver vissuto". "Poi all'inizio di dicembre scorso ho ricevuto una sua telefonata - racconta ancora Pippo Corsi Zeffirelli, sempre riferendosi a Schaech - nella quale mi chiedeva notizie sulla salute del Maestro; dopo averlo ragguagliato in merito, chiuse la telefonata raccomandandomi porgergli i suoi saluti. Circa una settimana dopo questa telefonata ho ricevuto un'email da parte della testata americana People Magazine con la quale mi venivano anticipate le accuse di Johnathon".  "Oggi, leggendo l'articolo pubblicato, mi sembra che addirittura abbia voluto scrivere un romanzo. Sono stupito che il signor Schaech abbia atteso così tanto tempo e scelto proprio questo momento per muovere le sue accuse, ora che il Maestro, a causa delle sue condizioni di   salute, non può più difendersi. A parer mio, quindi, si tratta di una   chiara vendetta nei confronti di Franco Zeffirelli, con la speranza di ottenere quella notorietà che all'inizio il signor Schaech pensava di ottenere, ma che la sua carriera di attore non gli ha mai procurato", conclude il figlio adottivo del regista.

Catherine Deneuve: il volto della Controrivoluzione, scrive l'11 gennaio 2018 Federica Bianchi su “L’Espresso". La lettera scritta da Catherine Deneuve e altre sue colleghe su “Le Monde” due giorni fa apre ufficialmente la stagione della Controrivoluzione mondiale (salvo in Italia dove la rivoluzione notoriamente non ha attecchito) contro il #metoo e le sue conseguenze sociali. Deneuve definisce le donne che hanno denunciato le molestie sessuali come strumento di scambio di opportunità lavorative come “vittimiste” incapaci di difendersi da sole. Non affronta la questione chiave della cattiva abitudine di dare per scontato che la donna per far carriera si debba concedere più o meno fisicamente a un uomo. Ma difende la libertà del maschio di esercitare il suo potere di seduzione anche quando non gradito in nome di una meglio non definita “maschitudine”. Come se la violenza fosse una componente normale della dinamica sessuale e non invece una sua aberrazione. A dimostrazione di quanto poco l'attrice francese abbia capito il senso di quella rivoluzione, parla di atteggiamento puritano. E infatti confonde la lotta per le pari opportunità tra uomini e donne nella realizzazione della vita professionale (in termini di carriera e salario) che è al centro della rivoluzione del 2017 molto più del sesso con una specie di Inquisizione sessuale che limita l'espressività genitale dell'uomo. Non capendo minimamente che la molestia sessuale in situazioni di squilibrio gerarchico impedisce il classico schiaffo in faccia e altera le regole della normale competizione professionale. Ora mi rendo conto che la signora abbia troppo successo, troppi soldi e troppi anni per cogliere i cambiamenti della società in cui vive. Ma è imperdonabile che si faccia strumentalizzare da chi non ha nessun interesse a vedere cambiate le regole del gioco. Tanti uomini e molte donne. La Controrivoluzione non può essere subita passivamente. A fare le vittime e a offrire il fianco agli estremisti religiosi o ai moralisti (come scrive Deneuve) non sono le donne che hanno condotto la rivoluzione di #metoo ma coloro che a chiedere un confronto professionale ad armi pari non ci pensano nemmeno. Lottare è faticoso. Andare a letto molto meno. Confrontarsi solo sul piano delle capacità professionali vuol dire toccare con mano le proprie carenze in termini di preparazione e personalità. Ottenere posizioni flirtando, invece, non mette in discussione la sfera del valore e dell'identità personale. Per tanti versi è più facile lasciare le cose come stanno. A patto di accettare che, almeno di facciata, la donna resterà sempre in una posizione subordinata. Che la misura del suo valore non sarà il salario (che continuerà a rimanere ingiustamente inferiore) ma la capacità di risposta ai bisogni maschili a tutto tondo: di volta in volta accettando, rifiutando, flirtando, arrendendosi, ricattando. Capisco Deneuve, le donne come lei e gli uomini che oggi lodano la sua denuncia. Ma sono loro i moralisti in ritardo con la Storia che cambia. Non le milioni di donne che sono stufe di stare “dietro” a un uomo. Che non sono lusingate da chi allunga le mani o lancia un fischio al passaggio ma da chi ne ammira l'operato. E che sono troppo brave per sprecare la maggior parte delle loro capacità intellettuali a capire come ottenere quello che vogliono da un uomo anziché prenderselo da sole. Sono loro le donne del nostro domani. E noi piuttosto che difendere gli uomini di ieri dovremmo cominciare ad attrezzare quelli di domani. Partendo dai nostri figli. Nella rivoluzione #metoo in ballo non c'è solo e non tanto la molestia con la M maiuscola, declinata in tante modalità diverse quante sono le città in cui avviene. Ma soprattutto la nozione che sia sempre e comunque l'uomo a tenere la donna sotto lo scacco dei suoi desideri. Sessuali e non solo. Infine, un ultimo punto. Non prendiamoci in giro. Un uomo che seduce in modo inappropriato non è imbranato: è disgustoso. L'irruenza è accettabile quando consensuale davvero. Sarebbe meglio che anziché incensare questi atteggiamenti le firmatarie di quella sfortunata lettera cominciassero a insegnare a figli e nipoti che nessuno ha diritto di imporre i propri desiderata su un altro o su un’altra. Nemmeno per scherzo. E sarebbe già un buon punto da cui partire per ridefinire i rapporti uomo-donna.

Sesso, aumentano in tutto il mondo le donne che frequentano siti porno: in calo le italiane, scrive l'11 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". La convinzione che a guardare i video porno online ci siano solo gli uomini viene spazzata via dalle ultime statistiche diffuse da Pornhub, tra i principali siti di filmati per adulti nel mondo, e xHamster, altro canale molto popolare nel mondo del porno online. Nel 2017 le donne che hanno visitato siti di filmati per adulti sono cresciute del 2,4%. La crescita più alta c'è stata in Sudafrica con il 23% in più, seguita un po' a sorpresa all'Arabia Saudita, dove le donne interessate ai porno sono cresciute dell'11%. Quasi tutte, circa il 71%, guarda i siti dai propri smartphone, magari lontano da occhi indiscreti in casa. E mentre in tutto il pianeta aumentano gli utenti di sesso femminile sui siti porno, le italiane sembrano esserne già stufe. Rispetto al 2016, su Pornhub le donne italiane si sono fatte vedere molto meno, registrando dati in calo del 7%.

Quando le molestie le fanno le donne, scrive il 20/11/2017 Laura Tecce su "Il Giornale". Sulla violenza di genere è attivo un pregiudizio che negli ultimi anni i mass media hanno amplificato, cioè che la violenza sia esercitata esclusivamente dagli uomini sulle donne e non viceversa. Esiste una sorta di tesi precostituita che di fatto ha avallato il luogo comune, spesso alimentato da dati statistici falsati e letture del fenomeno unilaterali. Ciò ha portato il tema degli episodi di violenza esercitati dalle donne sugli uomini a cadere inevitabilmente nella spirale del silenzio. A rompere gli argini, provando a fare chiarezza sul tema, è la saggista Barbara Benedettelli che, con il suo 50 sfumature di violenza. Femminicidio e maschicidio in Italia (Cairo editore) in libreria dal 9 novembre, torna su un argomento a lei caro: la violenza domestica in tutte le sue sfaccettature, restituendo dignità e diritti per le vittime, che siano di sesso maschile o femminile.

Barbara, partiamo dal termine “femminicidio”, un neologismo molto in voga negli ultimi anni e, soprattutto, molto “notiziabile”. A differenza di “maschicidio”, che raramente sentiamo nominare.

«Stiamo perdendo un po’ di vista il senso reale del termine femminicidio, il mio libro inizia con un excursus storico per capire da dove nasce, perché nasce e soprattutto coglierne il significato, sia criminologico che politico-sociale. Ormai ogni omicidio di una donna viene catalogato come femminicidio: anche la signora anziana che viene uccisa durante una rapina da tre balordi rientra nei dati del femminicidio, con tutte le implicazioni a livello di percezione che ciò comporta. Il rischio è che questo termine perda la sua reale connotazione, cioè quella della violenza domestica e delle dinamiche di “affetti malati” che si possono verificare all’interno di un contesto familiare. Di cui, beninteso, non sono vittime solo le donne, sono più spesso vittime le donne. Ma sono anche carnefici: quando sono le donne ad uccidere, lo fanno più spesso nell’ambito delle relazioni affettive. Purtroppo esiste una mistificazione dei dati, a volte vengono inseriti nel computo dei cosiddetti femminicidi anche bambine, quindi femmine, uccise dalle loro stesse madri. Un paradosso, e sicuramente controproducente ai fini di quella che dovrebbe essere la prevenzione. La propaganda mediatica che viene fatta da talune associazioni di donne è del tutto fuorviante. Pensiamo alla Convenzione di Istanbul [a Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ndr] o alle legge 119 del 2013 contro la violenza di genere: sono state pubblicizzate come iniziative contro il femminicidio ma in realtà non è esattamente così, addirittura nel preambolo della Convenzione di Instanbul si afferma testualmente che anche gli uomini possono essere vittime della violenza domestica».

A proposito di associazionismo femminile, le femministe considerano il femminicidio «figlio» del sessismo e della cultura maschilista che non accetta l’emancipazione sia in ambito privato che lavorativo. Non è una spiegazione un po’ riduttiva?

«Le spiegazioni degli atti violenza sono sempre molteplici e comunque esiste una reciprocità che deve essere sempre presa in considerazione. Dati, fatti e testimonianze dimostrano che i ruoli possono essere invertiti: ci sono donne carnefici che compiono atti di violenza contro gli uomini con vessazioni sistematiche, accoltellamenti, attacchi con l’acido, mattarelli, armi da fuoco. Nel senso comune lo fanno quasi sempre per difendersi, ma non è sempre questa la spiegazione, o perlomeno lo è in una piccola percentuale. La maggior parte ha le stesse identiche motivazioni dell’uomo e spesso, nel momento in cui è una donna ad essere violenta nella coppia e l’uomo si ribella, essendo più forte la uccide. Esistono pochissimi centri di ascolto per gli uomini vessati o che vogliono denunciare episodi di violenza fisica e psicologica e quelli che esistono vengono osteggiati. E a chiedere che ci siano strutture di questo tipo è la stessa Convenzione di Istanbul, in cui viene spesso usata la parola ‘coniuge’, ‘partner’, non solo ‘donna’».

Come spieghi il fatto che alcuni temi di forte impatto sociale, come appunto il fatto che anche le donne possano uccidere o essere violente, siano ancora argomenti tabù o che comune vengono trattati quasi sottotraccia?

«Piano piano si sta manifestando un cambiamento e una presa di coscienza; molto lentamente, ma sta avvenendo. Questo assunto per cui la donna è sempre vittima e l’uomo sempre carnefice non solo è una palese negazione della realtà, ma è uno stereotipo che va a cristallizzare proprio quello che si vorrebbe distruggere: il concetto di patriarcato. Considerare il ‘maschio’ come un nemico a prescindere avalla proprio questa visione manichea delle donne contro gli uomini. Finché non ci sarà uno scambio proficuo di idee, di visione del mondo, una volontà di entrare nella vita dell’altro, non ci potrà essere una vera parità. Nel mio libro lo scrivo a chiare lettere: siamo due legioni in guerra. Cominciamo a superare gli stereotipi e le idee precostituite, altrimenti questa battaglia continuerà ad alimentarsi».

Nel tuo libro ti poni degli interrogativi sul fatto che la reciprocità della violenza, cioè delle femmine verso i maschi, spesso venga taciuta. Perché questo silenzio sul lato malvagio del femminile?

«Indubbiamente esiste un condizionamento dell’opinione pubblica tale per cui siamo portati a considerare amore malato e violento solo quello degli uomini nei confronti delle donne, che può sfociare, appunto, nel femminicidio. Quando ho iniziato ad indagare il fenomeno inverso, il maschicidio, grazie ad un articolo che ho scritto per Il Giornale e poi in un pamphlet [“Il Maschicidio Silenzioso. Perché l’amore violento è reciproco e le donne non sono solo vittime”, per la Collana “Fuori dal Coro”, Il Giornale, uscito a marzo 2017, ndr] mi sono resa conto dell’altra faccia della medaglia. E del fatto che, se le donne continuano a morire in media nello stesso numero ogni anno nonostante la grande attenzione mediatica riservata al fenomeno del femminicidio, evidentemente stiamo sbagliando qualcosa nell’approccio. Ho deciso dunque di guardare la realtà cercando di essere scevra da pregiudizi e da una visione stereotipata di un fenomeno che non può essere unilaterale».

La chiave di lettura che proponi in 50 sfumature di violenza è la considerazione che gli uomini meriterebbero in quanto vittime. Perché questo tema viene così poco affrontato ed esplorato, anche da autori uomini?

«L’uomo ha più difficoltà a fare introspezione e ad esternare con le parole, quindi magari agisce d’istinto. Però attenzione, gli uomini sono figli delle donne, nella prefazione del libro la psicologa Maria Rita Parsi spiega questo meccanismo: l’uomo cresce con un modello di riferimento femminile, la mamma, la nonna, le maestre. In un’indagine Istat del 2006 è emerso un dato molto significativo, cioè che gli uomini che sono maggiormente violenti con le compagne hanno assistito durante l’infanzia alla violenza tra i genitori nel 30% dei casi, l’hanno subita dal padre nel 34,8% e la hanno subito dalla madre nel 42,4%. Continuando a negare la complessità e la bivalenza del fenomeno non agiamo sulla prevenzione e soprattutto sulle possibili soluzioni. Esistono centri per i “maltrattanti” uomini. Per fare in modo che essa comprendano la gravità delle loro azioni e possano curarsi, ma sarebbe auspicabile anche che venissero aperti dei centri per le “maltrattanti” donne. Se noi non riconosciamo le sfumature, gli intrecci nella violenza, noi quella violenza non la potremmo mai sconfiggere. Oggi il vero problema nelle dinamiche di coppia e all’interno delle famiglie è l’analfabetismo emotivo, che è maschile e femminile. Il tema della violenza domestica è trasversale, meritano giustizia e tutela le donne ma anche gli uomini e i bambini».

Rashida Manjoo che all’interno dell’Onu presiede il CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) ha affermato che “femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni”. Ma è così?

«Il termine “femmicidio” è stato coniato dalla criminologa statunitense Diana Russell che gli aveva dato una connotazione criminologica, è stata poi l’antropologa messicana da Maria Marcela Lagarde a parlare di “femminicidio” e a dargli una connotazione culturale e un’implicazione politico-sociale. Quello che dice la Manjoo può appunto valere in Messico o in Arabia dove le donne vivono sicuramente all’interno di una situazione sociale e culturale drammatica, e soprattutto non tutelata dalla legge; ma non in Italia. In 50 sfumature di violenza affermo che il patriarcato nel nostro Paese è ‘in coma’, ci sono ancora echi generazionali ma non si può parlare di cultura del patriarcato perché una cultura per essere tale deve essere rinforzata e legittimata dalle leggi dello Stato e oggi nel nostro Paese non esistono più leggi che privilegiano l’uomo rispetto alla donna».

Per concludere, un tema di grande attualità. Dopo che è scoppiato il caso Weinstein, in tutto il mondo – compreso il nostro Paese – si stanno moltiplicano accuse più o meno provate, di molestie, violenze e addirittura stupri. Stiamo assistendo ad una caccia all’orco?

«Assolutamente sì. Ben vengano le denunce sociali e tutto ciò che può contribuire a scardinare un sistema malato, ma non si può prescindere dal fatto che anche un maschio può essere fragile e può avere le sue debolezze; anche le donne spesso esercitano la capacità di seduzione come una forma di potere sull’uomo. Gli stessi uomini possono sentirsi oggetto, possono sentirsi a disagio di fronte ad avances indesiderate. E’ molto radicata la convinzione che l’uomo si senta sempre lusingato dal ricevere attenzioni femminili, nel libro riporto invece molte testimonianze che provano il contrario. Io stessa ho dovuto rimettere in discussione il mio modo di pensare agli uomini e al concetto di ‘virilità’. Dovremmo sfatare il mito secondo cui le donne siano tutte puritane o soggetti passivi mentre gli uomini siano sempre ‘in cerca’. Ritorniamo dunque al pregiudizio della donna sempre vittima e dell’uomo sempre carnefice: non solo non è così ma occorre sottolineare che le donne che utilizzano il corpo e la seduzione erotica come arma per ottenere vantaggi agiscono innanzitutto a scapito delle altre donne che non vogliono cedere ai compromessi. Se non iniziamo a denunciare anche questo risvolto della medaglia, questo sistema è destinato ad autoalimentarsi».

Filippo Facci: Il femminismo peloso, scrive il 3 Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". Caro papà, sono contento che tu sia morto, anni fa, prima che certe tue profezie si avverassero. Non c' è ragione che tu vedessi certi spettacoli. Tra le cose meno serie, sin da quando ero bambino, ricordo questa sulle femministe: "Vedrai, un giorno vorranno i peli sulle gambe". Ecco, non hai fatto in tempo a vedere il mondo che si capovolgeva: da una parte ragazzetti sempre che vanno dall' estetista a depilarsi la schiena, le gambe, le braccia, le ascelle, il petto, le orecchie, le nocche, il culo e persino il pene, che resta lì come un lombrico; dall' altra, ci siamo: è spuntata un'artista-testimonial di Adidas che si chiama Arvida Bystrom, ha 25 anni ed è stata scelta come "icona di domani". E' bionda, è caruccia e, leggo, "ha fatto della non depilazione una bandiera e proprio per questo è stata selezionata dal brand sportivo per la nuova linea pubblicitaria". Lei lo fa perché combatte "i pregiudizi di genere", e perché - ha detto in uno spot, dove esibisce polpacci pelosi - "penso che il femminismo sia un concetto culturale, chiunque può essere femminile, e forse la società ha paura di questo". Ha ragione: io ho una paura fottuta, per esempio. Ho paura di ritrovarmi, sul più bello, una donna coi pelazzi di un terzino, un terzino vero, uno dei tuoi tempi. Ci siamo arrivati, papà. Troveremo sterpaglie dove le donne si depilano sin dalla preistoria, mentre, dove eravamo abituati a trovare il pelo, solo rasature lisce come una pista di atterraggio.

Ornella Muti: «Non so se amerò mai più, ma ho imparato a meditare». L’attrice: «Per un amico ho rinunciato a un film di 007. Non ho paura di invecchiare, non ha senso. Gli esordi sono stati un incubo: sono stata amata da registi cinici e vivevo come a Disneyword», scrive Candida Morvillo il 6 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Fuori dal set, bisogna chiamarla Francesca, che è il nome all’anagrafe, cognome Rivelli. Ornella Muti è il suo doppio, un’altra storia, una vita di cento e più film che si sovrappone alla vita e a volte la illumina, altre la confonde. Le chiedi com’era quattordicenne sul suo primo set, quello de «La moglie più bella» di Damiano Damiani, anno 1969. Sospira: «Che devo dire? Per me è stato un incubo: sono stata amata da registi cinici, secchi... Dino Risi, Marco Ferreri, Mario Monicelli, e io vivevo come a Disneyworld, capivo poco, non sapevo niente, non ero nessuno».

Che intende con «vivere a Disneyworld»?

«Credere che la vita è bella e tutti sono buoni, che non è possibile che ti dicono una cosa e ne vogliono fare un’altra. Che esiste la famiglia perfetta… Ci fanno soffocare e lavorare per qualcosa che non esiste. Ma se vivi nel mondo delle fate, poi la vita ti ripresenta la stessa lezione finché non la impari».

Qual è la sua lezione?

«Che non devo distrarmi. Tutti siamo altamente distratti dal pensiero di come vivere, di come fai crescere i figli, di come arrivare alla vecchiaia e dai pensieri e dalle notizie, dai social. Viviamo con un dialogo costante nella testa… La mente non riposa mai. Per questo, ho imparato a meditare. Medito e riconosco quanta polvere c’è in giro».

E quanto medita?

«Tutti i giorni, ma non quanto vorrei. È un periodo in cui sono un po’ confusa».

Confusa perché?

«Quando si rompe un vaso, devi raccogliere i cocci, pulire, stare attento che nessuno si faccia male e tutto questo non ti fa capire perché il vaso è caduto, cosa hai sbagliato».

Che vaso si è rotto?

«A me, si è rotto un po’ tutto. Avevo progettato una cosa che non c’è. Lui non c’è, io non sono più a Roma, ma da quest’estate vivo fra Mosca e la campagna piemontese, mia madre non sta come vorrei che stesse, tutte le cose sono cambiate».

Il «lui» con cui è finita dopo quasi dieci anni è il suo compagno francese Fabrice Kerhervé. Com’è ritrovarsi sola, a 62 anni?

«Non lo so, va bene così. Anche io ho fatto tanta confusione, tanta energia a rincorrere cose, quante ce ne raccontiamo di storie».

Le manca, ora, un amore?

«No e non so se ne avrò mai un altro. Prima devo capire: cos’è l’amore? Quello dei film non esiste. Allora, perché mettersi di nuovo a fare la schiava mentale, a essere il tappetino di un uomo? Non parlo di maschilismo e femminismo, ma del fatto che io, come donna che ama, amo i miei tre figli, i miei tre nipoti, i miei amici e mi piace dare e vederli felici. Pensi come posso confondere un uomo. Arrivo io che voglio dare e però sono piena di buchi neri».

Ha amato troppo?

«Ho amato, non mi son capita, ho sbagliato. Ora, voglio che l’obiettivo sia l’amore per me stessa, voglio alzarmi dal letto e fregarmene se ho le rughe, anche se poi me le voglio togliere e me le tolgo. Anche se poi mi dicono “fai la totale e però ti sei tolta le rughe”. Basta… ».

Che ha significato essere un sex symbol, tornare a casa ed essere compagna o moglie?

«Non ho mai creduto nel mio sexy-simbolismo. Ho vissuto con passione. Poi, esagero nel voler fare la fiaba, non mi godo i momenti di bellezza e mi stupisce sempre che due persone si amano alla follia e il giorno dopo si odiano. Quello che voglio adesso è non aver paura. Siamo pieni di paure, e perdo il lavoro e perdo l’amore...».

Le sue paure specifiche?

«Di non capire me stessa, di smettere d’imparare. Bisogna avere tanta forza. Le tentazioni sono dappertutto. Ogni scusa è buona per mangiare e ingrassare quel chilo. Tutto così».

Ha paura d’invecchiare?

«Ma no. Con quale concetto mi fa questa domanda? È una cosa che a me capita e a lei no? Quello che mi sta chiedendo è: ha paura di non essere più di plastica? Di non essere più l’offuscamento mentale che gli uomini hanno quando vedono una ragazza carina? Se è questo che chiede, le rispondo: devo aver paura solo se non affronto la vita con forza. Questo è importante, se no, a 21 anni, devi cominciare ad accendere ceri e piangere».

A 21 anni, lei aveva già fatto film di grande femminismo, la «Moglie più bella» che rifiuta il matrimonio riparatore, «L’ultima donna» con Gérard Depardieu accusato di fallocrazia che si evira, «Romanzo Popolare» di Monicelli in cui è una moglie adultera.

«Non capivo bene cosa rappresentavo. Chiamiamolo femminismo, ma era agli albori e io non credo nei movimenti né nella politica».

Che pensa dello scandalo Weinstein?

«Che giochiamo a essere sorpresi, ma ci prendiamo per i fondelli. È tutto così terra terra. Sei una donna, sei minimamente carina, ti vuoi mettere più carina ed ecco: stai attirando l’attenzione, è colpa tua. Io questa cosa ce l’avevo inculcata da piccola, sono sempre vissuta con un’attenzione su come mi muovevo, che passi facevo, e come e con chi e lo sguardo degli uomini, gli apprezzamenti».

Nel lavoro com’è stato?

«Ci hanno provato in tanti, ma non posso dire che erano abusi e violenze. Ho avuto occhi e non occhi addosso, uomini che mi hanno tormentata, però mi sono districata e quella mi è sempre sembrata una normalità per noi femmine».

Quanto è stato difficile decidere di tenere una figlia a 19 anni e non dire chi era il padre?

«Fu un piccolo calvario: “ragazza madre” era una cosa che non si poteva sentire, ma non potevo pensare di abortire per fare l’attrice».

Fare l’attrice era quello che voleva?

«All’inizio, no. Ma mamma lavorava, mia sorella lavorava, papà era morto. Non ho scelto, fu un caso, l’ho fatto, dovevo fare bene, dovevo sorridere, dovevo essere bella, dovevo».

Corteggiatori famosi? Alain Delon?

«Nel caso, non me ne accorsi, essendo presa da cose importantissime, come l’amicizia: ho dato e do tutto per gli amici».

Ugo Tognazzi?

«È stato appunto un grande amico, mi ha voluto bene come una sorella, mi ha protetto come un fratello».

Protetto da cosa?

«Per dire, stavamo girando “Primo Amore”, ebbi una crisi, sicuramente per un uomo, e solo lui se ne accorse e disse a Risi “mandala a casa”. In scena, mi aiutava, non ha mai abusato di essere un potere maschile dell’epoca».

Che significava, all’epoca, abusare del potere maschile?

«Tante cose, tante durezze».

È vero che sul set lei e Ferreri vi parlavate per interposta persona?

«Sul primo film sì. Non sopportava le fragilità, ma la verità è che voleva svegliarti per farti capire che stavi perdendo tempo».

Ferreri ha detto che era l’unica attrice di cui il pubblico poteva sentire l’odore.

«Che stupidaggine… Come si fa a sentire l’odore attraverso uno schermo?».

Chi era il regista che la picchiava con fascine di legno sulle ginocchia per farla piangere?

«Damiani».

Oggi sarebbe da denuncia.

«Oggi sì». Ride. «All’epoca, mia madre osò chiedere che stava a fare e lui la guardò come per dire “voi dovete essere grati del fatto che questa ragazza lavori”».

Adriano Celentano che rivela a distanza di trent’anni che foste amanti, è qualcosa che ha vissuto come una forma di violenza?

«Non violenza, ma peggio, no peggio no… Scriva che trovo grave questa presuntuosità maschile. Se lo decidono loro, devi stare zitta. Se lo decidono loro, possono raccontarlo».

Come vive l’esuberanza di sua figlia Naike, che sta nuda sui social, fa sempre scandalo?

«Condividiamo l’idea che non esista “il modo giusto” di vivere. Naike è avanti perché si rende conto della stupidità di quelli che neanche leggono, ma pretendono di giudicare».

Una cosa che ha imparato tardi e che vorrebbe che i suoi figli imparassero prima?

«Che, se sei consapevole di te stesso, fai meno errori. E a sbagliare di testa propria».

Perché rifiutò «007» con Roger Moore?

«Volevo che i costumi li facesse un mio amico costumista e io se voglio bene, farò qualsiasi cosa per un amico, anche rinunciare a 007».

Sarà in «Notti Magiche» di Paolo Virzì, in «Wine to love» di Domenico Fortunato, fino a quando reciterà?

«A me il lavoro piace tanto, ma non voglio che sia un’imposizione per gli altri né un bisogno di vita per me. Non voglio soffrire e pensare: sono vecchia. Mi piacerebbe essere diretta da Emanuele Crialese, ma anche non mi va più di sognare».

«Molestie anche nel nuoto». Federica Pellegrini denuncia e rivela: «Vado a Tokyo 2020». La campionessa veneziana: bisogna denunciare ogni abuso senza esitazione, scrive Dimitri Canello il 2 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Le molestie, sì, ci sono anche nel mondo del nuoto. E non vengono a galla soltanto perché non riguardano spesso e volentieri atlete famose e perché le interessate magari rinunciano alla denuncia. A sostenerlo è Federica Pellegrini, che si spende in prima persona per sensibilizzare le atlete più giovani, allargando il discorso e invitando a maneggiare con cura anche selfie e fotografie che circolano nel mondo virtuale a velocità supersonica. E che possono fare danni difficilmente riparabili: «Posso confermare che le molestie ci sono anche nel nuoto – ha spiegato la campionessa veneziana – non diventano casi eclatanti perché non riguardano atlete famose, ma ciò non significa assolutamente che siano più tollerabili. Anzi, spero che chi venga coinvolto da situazioni di questo tipo denunci subito ogni episodio senza alcun topo di esitazione». Poi ecco l’appello relativo alle foto: «Non mandate vostre foto in giro – ammonisce - perché non serve a niente. Il vero amore lo troverete tra 20 anni e non vi sceglierà per una foto ignuda. Per favore, smettete questo circolo vizioso». Pellegrini fa anche un bilancio del 2017, l’anno che l’ha consegnata ancora una volta agli onori delle cronache sportive per l’ennesimo titolo mondiale, ottenuto quando in molti ne avevano pronosticato l’oblio ormai definitivo e permanente. Ma proprio dal calore di chi la segue, tifa e la sostiene, è arrivata la molla per tornare in alto: «Il 2017 mi ha emozionato – spiega la campionessa veneziana - regalandomi il titolo di campionessa del mondo. Dalla delusione e rabbia per il quarto posto alle Olimpiadi di Rio de Janeiro la gente non mi ha più mollato fino a Budapest 2017. Ho percepito un calore incredibile. Ho trovato l’oro che mi mancava. E ora sono serena». Ai microfoni di Skysport Pellegrini manifesta la sua soddisfazione per un anno sulla cresta dell’onda e per una chiusura di sipario della propria carriera in linea con lo straordinario talento che ancora non sembra dietro l’angolo: «Volevo che il mio ultimo ricordo nel nuoto fosse da vincitrice - ha chiuso la sua lunga confessione con l’emittente satellitare - del resto non capita a tutti gli atleti questa fortuna. Un esempio più vicino a me è Gigi Buffon, che purtroppo ha chiuso con la Nazionale senza la qualificazione per il Mondiale. Poi ho deciso di continuare fino a Tokyo 202o, perché voglio levarmi qualche sfizio. Gareggerò nei 100 stile, ho sempre avuto il pallino della velocità e voglio provarci fino in fondo».

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Giuseppe Cruciani: “Toh, i porcelloni stanno a sinistra”. (Giuseppe Cruciani per Libero Quotidiano del 12 novembre 2017) – Al netto delle accuse contro Fausto Brizzi (regista renzianissimo, più volte alla Leopolda, creatore del camper delle primarie 2012), sta crollando in queste settimane tutto quel muro di ipocrisia che ha sempre accompagnato l’ambiente de sinistra del cinema italiano e americano. Per intenderci: si viene a scoprire che gli stessi che accusavano prima Berlusconi e adesso Trump di essere due sessisti, maschilisti, porci, maiali e quant’ altro, erano i primi a usare il loro potere per toccare il culo (se non peggio) alle attrici o aspiranti tali, ovviamente senza il loro consenso. Prendiamo l’America. Fino all’ altro ieri la Hollywood democratica e perbene si apprestava all’ impiccagione in pubblica piazza di Donaldone, dipinto come un animale affamato di sesso, uno che adora afferrare le donne direttamente dalla patonza. Per aver detto, in un’intervista di vent’ anni prima rispolverata ad hoc, che si sarebbe volentieri schienato Lady Diana, Trump è stato trattato come una specie di maniaco. Poi si viene a scoprire che il mondo cinematografaro americano è pieno di sepolcri imbiancati, in alcuni casi di arrapati seriali e probabili pedofili, e le stelle democratiche lo sapevano e non dicevano niente. Ma anche l’Italia non è da meno. Dove sono le associazioni tipo “Se non ora quando”, le femministe organizzate, i registi sempre pronti alla mobilitazione, i vari Virzì e Comencini? Dove sono i Moretti in piazza, gli Zagrebelsky e le dieci domande di Repubblica? Come mai non abbiamo sentito gli attori impegnati, da sempre abituati agli appelli e alle campagne buoniste e progressiste in diversa dei diritti? Non si vedono, stanno tutti zitti e coperti. Avete notato qualche presa di posizione forte di quel mondo, una ribellione, un agitarsi dell’indignazione? No, se ne parla poco e sempre sottovoce, anche con un po’ di vergogna. Eppure quando si trattava di fare il mazzo all’ uomo di Arcore che (secondo loro) disprezzava il genere femminile col suo harem (mai un’accusa di molestia, però) erano tutti lì, pronti a puntare il fucile. Bastava una mezza intervista, un’intercettazione, una spifferata di qualche procura, una Minetti sculettante, per inchiodare e ridacchiare su quel porcello di Silvio. Da un mese Dino Giarrusso de Le Iene (uno che prima di arrivare in tv nel programma di Parenti ha lavorato nel mondo del cinema e conosce bene i suoli polli) conduce un’inchiesta sulla porcilaia di produttori e registi di casa nostra (altre rivelazioni sono attese nelle prossime ore) e cosa è successo? Nulla. Si fosse trattato del Berlusca possiamo immaginare le conseguenze. Da noi funziona così: se uno del giro viene accusato scatta la corsa a difenderlo, parte la solidarietà dei colleghi, come nel caso di Tornatore. In una conversazione su Facebook, Ludovica Rampoldi, moglie del produttore di Paolo Sorrentino, nonchè sceneggiatrice di Gomorra e altre serie, scrive: «Come se non fossimo, tutti, persone orribili». A cosa si riferisce? Agli scandali sessuali di casa nostra? A Weinstein?  Probabilmente sì. A rispondergli Umberto Contarello, sceneggiatore della Grande Bellezza: «E per questo sublimi». A cosa si riferiscono? Agli scandali sessuali di casa nostra? A Weinstein? Probabilmente sì. Lo stesso Contarello sostiene: «Non esiste possibilità per tracciare confini nella sanguinaria guerra di sesso e potere, di libido del corpo e libido del potere, se non la violenza fisica non concordata. In tutti gli altri casi tra adulti nulla è mai nettamente distinguibile… Il gioco del sesso è sempre gioco di potere pertanto basato sull’ ambiguità, che comporta l’illecito dell’usurpazione e quello della astuta accondiscendenza. Ma non si ritratta nulla, mai, di questo gioco, pena la fine del gioco». D’accordo, ma non sentite puzza di autoassoluzione?

Boldrini, Mogherini e Bonino: finte femministe sottomesse. L'Iran soffoca la rivolta delle ragazze che si tolgono il velo contro la dittatura e le nostre politiche si inchinano all'islam, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Ci sono donne che in queste ore in Iran si tolgono il velo e si fanno arrestare, rischiando la condanna a morte, per liberare il proprio corpo dalle imposizioni di una legge crudele, la sharia, e da una religione arcaica e violenta, l'Islam, che nega loro anche i più elementari diritti. E ci sono donne europee che nonostante siano libere, messe alla prova hanno scelto di stare dalla parte di quegli uomini oppressori rendendo omaggio a quella legge e a quella religione. E dire che parliamo di donne, le nostre, che si riempiono la bocca, e ci riempiono le orecchie, con accuse sdegnate contro il presunto sessismo dilagante dell'Occidente marcio e corrotto, che non passa giorno senza che pontifichino in qualche convegno o dibattito. Le nostre femministe infatti non hanno esitato a sottomettersi alla legge del velo: Laura Boldrini durante la visita alla comunità islamica romana, la ministra degli Esteri della Comunità Europea Federica Mogherini ed Emma Bonino nel corso dei loro incontri in Iran con le autorità di Teheran. Italiane sottomesse, a differenza di Angela Merkel e della premier inglese Theresa May che in occasioni analoghe si sono rifiutate di coprire il capo. Stessa cosa che ha fatto nei giorni scorsi l'ucraina Anna Muzychuk, campionessa mondiale di scacchi: si è rifiutata di gareggiare in Arabia indossando il velo per non sentirsi una «sottospecie umana». Laura Boldrini invece corre ovunque la chiamino, perché lei è «libera e uguale», come il suo nuovo partito. Certo, libera di essere uguale a chi in queste ore arresta le donne velate e le accusa di «crimini contro Allah», il più sessista degli dei. Facile indignarsi contro produttori e registi mascalzoncelli e difendere attricette più o meno consenzienti e comunque beneficiate. Le eroine di Teheran tocca difenderle noi brutti maschilisti, perché alla Boldrini, alla Bonino e alla Mogherini mancano gli attributi, e soprattutto la credibilità. Sottomessi si nasce, dalle nostre parti non al velo ma alla stupidità di non vedere il dolore, la violenza e l'umiliazione sulle facce di quelle donne, facce che anche se nascoste parlano. Eccome se parlano, basterebbe ascoltarle e comportarsi di conseguenza.

"Quella donna in Iran è rivoluzionaria La Boldrini? Femminista di facciata". La patron di Miss Italia: «La ragazza del velo è già un'icona, la presidente della Camera fa demagogia: bocciò il mio concorso», scrive Nino Materi, Sabato 06/01/2018, su "Il Giornale". Patrizia Mirigliani - che sta a «Miss Italia» come Leo Messi sta al tiki taka del Barcellona - ha con Laura Boldrini un vecchio conto in sospeso. Il (pardon, «la») presidente della Camera dei deputati, all'indomani della sua elezione (marzo 2013), non trovò infatti nulla di meglio che sparare a zero sul concorso di bellezza più amato dagli italiani, reo - a parere della Boldrini - di proporre un modello di «donna nuda e muta». La Rai aveva appena disdetto il contratto con la società della Mirigliani, costringendola a traslocare il concorso su La7. La Boldrini fu prontissima a infierire pubblicamente, rilasciando dure dichiarazioni contro il concorso organizzato dal 1959 al 2002 dal «patriarca» Enzo Mirigliani che poi, dal 2003, cederà il posto alla figlia Patrizia nel 2003.

Signora Mirigliani, la Boldrini si ritiene una paladina dell'emancipazione femminile. Lei è d'accoro?

«No».

Motivo?

«Il suo è solo un femminismo di facciata. Che non va alla sostanza dei problemi, mantenendosi demagogicamente in superficie».

Ma non è che lei ce l'ha con la presidente della Camera solo perché si è schierata contro «Miss Italia»?

«La Boldrini, con la sua campagna anti-concorso di bellezza, non ha danneggiato solo me e tutte le persone che lavorano nell'indotto di Miss Italia, ma tutte le donne».

In che senso?

«La presidente della Camera non ha compreso infatti un elemento basilare del nostro concorso: e cioè che, attraverso una gara di bellezza, si possono veicolare messaggi sociali di enorme importanza».

A cosa si riferisce?

«Miss Italia, ad esempio, ha fatto per la lotta all'anoressia più dei bla bla di tanti politicanti come la Boldrini; idem per le campagne contro la violenza sulle donne e le discriminazioni sul luogo di lavoro».

A proposito di dignità femminile, la Boldrini nella sua visita ufficiale alla grande Moschea di Roma non si è ribellata al diktat del capo velato. Un suo «no», in tal senso, avrebbe davvero potuto rappresentare una rivoluzione.

«E invece la rivoluzione la sta facendo una semplice ragazza iraniana che, rinunciando al velo durante una manifestazione nella capitale, è diventata un'icona della protesta contro il governo di Teheran».

Una protesta di enorme valore simbolico, che la Boldrini non ha mai avuto il coraggio di fare.

«No, lei preferisce concentrarsi sulla battaglia lessicale delle desinenze al femminile e sulla condanna pregiudiziale dei concorsi di bellezza. Per me è stata una delusione enorme ...».

Si aspettava di più dalla Boldini?

«Quando fu eletta presidente della Camera, mi fece piacere. Pensavo che avrebbe fatto tanto per le donne, invece si è mostrata succube di pregiudizi e luoghi comuni».

A cosa si riferisce?

«Al fatto di credere che la bellezza sia un valore contrapposto all'intelligenza, alle capacità, al talento. Ma lo sa, la Boldrini, che Miss America è una scienziata? Ma lo sa che decine di nostre ragazze si sono affermate con successo in tantissimi ambiti lavorativi, e non mi riferisco solo al settore dello spettacolo».

Lei, dopo le polemiche del 2013, ha più volte invitato la Boldrini a «Miss Italia».

«L'ho fatto perché lei parla di una realtà che evidentemente non conosce. Venire a trovarci le aprirebbe gli occhi. Noi saremo sempre qui, ad aspettarla...».

Perfino l'ex presidente americano, Obama, ha, in passato, ha incontrato Miss Israele.

«Obama ha dimostrato di essere un grande statista. Capendo che un percorso di pace può passare anche da un concorso di bellezza. La nostra presidente della Camera impari da lui».

Kwatar Barghout, la marocchina contro Boldrini e Mogherini: "Sottomesse all'islam", scrive il 7 Gennaio 2018 Eliana Giusto su "Libero Quotidiano”. «Laura Boldrini, Federica Mogherini, Emma Bonino… Mai sentito dire che stanno dalla parte delle donne che pagano col sangue o con la propria libertà la lotta contro l’obbligo del velo nei Paesi islamici. Sono femministe a intermittenza, femministe solo se conviene, progressiste di comodo». Kawtar Barghout, 26 anni, da 24 in Italia, padovana, musulmana, rappresentante dell’associazione Stop Radicalizzazione, non sopporta quello che definisce «il buonismo ipocrita» e si batte per «i veri valori laici, liberali e democratici». E non le manda a dire a nessuno: «In Iran dove la protesta è sociale la questione del velo è molto sentita, e da tempo. Su Facebook ci sono diversi gruppi di donne che lottano contro questa imposizione. Prima del caso della ragazza arrestata per essersi scoperta il capo durante la manifestazione ce ne sono stati altri. Parliamo di giovani arrestate per aver fatto feste private, in casa, senza il velo, in presenza di uomini. Eppure per loro le politiche italiane non si sono espresse. Neanche una parola di solidarietà, di sdegno. Peggio, sono loro le prime, quando vanno nei Paesi islamici, a sottomettersi e a coprirsi il capo...».

Non sono obbligate a farlo?

«No. Le rappresentanti istituzionali non devono indossare il velo per forza. Theresa May, per esempio non lo ha fatto. Le nostre politiche italiane sì. E così facendo hanno mandato un messaggio sbagliato. Hanno dimostrato non solo che l’Occidente è molle ma anche una mancanza di rispetto per le donne che sono morte per abolire l’obbligo del velo. Hanno svilito tutto quello che hanno fatto donne comuni. Hanno calpestato il sangue che hanno versato. E non solo. Forse non lo sanno ma vengono anche prese in giro nei Paesi islamici quando si coprono il capo. Giravano foto di Federica Mogherini col velo con le scritte Povera scema. Oltre ad essere offensive non sono credibili».

Cosa devono fare quindi le europee e le italiane per aiutare le donne che vivono nei Paesi islamici?

«Il primo gesto è proprio questo. Rifiutarsi di indossare il velo e parlare dei veri problemi delle donne delle comunità musulmane. Infibulazione, spose bambine, diritti violati. Devono dire chiaramente che queste cose non si fanno, non possono accettarle nascondendosi dietro la falsa scusa che questa è la cultura islamica, perché non è così».

Quindi è sbagliato anche togliere i presepi dalle scuole e sostituire Gesù con Perù per non offendere i figli degli immigrati come successo a una recita di Natale in un istituto italiano?

«È da manicomio non fare il presepe o non cantare la canzoncina di Gesù. Io sono cresciuta in Italia, a Padova, e quando ero bambina facevo le recite di Natale in chiesa. Nessuno si è mai offeso o ha creato problemi. Né la mia famiglia né tantomeno gli insegnanti. Gesù è un profeta per l’islam, mio nonno si chiamava Gesù. Questa sottomissione è molto grave. Noi siamo in terra cristiana e ci adeguiamo a quelle che sono le tradizioni e i valori del Paese in cui viviamo. Un cristiano non ha mai imposto ai musulmani di non fare il ramadan. E se uno non vuole che il figlio faccia la recita di Natale, non la faccia. Non può rimetterci tutta la classe per un singolo. Mi sembra un discorso lineare, democratico. Ma molte maestre non hanno spina dorsale. La politica in primis non ce l’ha».

Un buonismo controproducente per i musulmani?

«Sì. Il problema è che queste politiche alla Boldrini il danno lo fanno prima di tutto ai musulmani che verranno sempre più visti e legati all’estremismo. Invece ci vuole fermezza. Negli anni Ottanta non ci si poneva il problema di offendere gli stranieri, nessuno si è mai lamentato e le cose hanno sempre funzionate bene. Questo buonismo imperante della sinistra non porterà a nulla di positivo. Anzi, non farà che peggiorare la situazione. Alimenterà la rabbia, il pregiudizio. Questi casi di cronaca verranno interpretati dalla gente come continue provocazioni. E monterà la rabbia, il razzismo. Così avanzeranno le ultradestre. Perché la gente si infuria».

Insomma, otterranno l’effetto contrario... Cosa ne pensa dello Ius soli?

«Sono assolutamente contraria».

Ci spiega perché?

«Si va a togliere la premialità della cittadinanza italiana che invece deve essere meritata. Tu, straniero, devi soddisfare dei requisiti. Io amo la Costituzione, mi sento italiana ma non può e non deve esistere l’automatismo, nasci qui, sei italiano. Anche perché non possiamo ignorare il grave problema del terrorismo islamico. Il ministero dell’Interno e le forze dell’ordine con le leggi attuali possono cacciare gli estremisti, con lo Ius soli si toglie la possibilità di espellere. Prendiamo il caso mostruoso dello stupro di Rimini, con lo Ius soli ce li saremmo dovuti tenere in Italia (i genitori dei due minorenni marocchini coinvolti sono stati espulsi dopo che il Tribunale di Ancona ha disposto il divieto di rinnovare loro il permesso di soggiorno, ndr). Insomma, la legge per diventare italiani c’è già. Ottieni la cittadinanza dopo aver compiuto i diciotto anni. Non ci vuole molto. A Padova dopo tre o quattro mesi riesci ad averla. Nelle città come Milano, Roma o Torino ci vuole più tempo ma non è colpa della legge. Sono i tempi dell’iter burocratico, il numero più alto di richieste. A casa mia tutti hanno ottenuto la cittadinanza con la legge vigente. E comunque vorrei sottolineare che non c’è bisogno di avere la cittadinanza per usufruire dei servizi, dai mezzi pubblici, agli ospedali, alle scuole…».

Ma le comunità islamiche in Italia lo vogliono lo Ius soli o no?

«L’hanno chiesto quattro gatti. E per lo più è una richiesta che viene dagli immigrati che sono arrivati da poco in Italia, che vogliono ottenere tutto e subito».

Secondo lei allora perché il centrosinistra insiste tanto?

«Per ottenere quei voti. È un nuovo bacino elettorale, sfruttano il malcontento di una parte degli immigrati per avere il loro consenso».

Lei per chi voterà?

«Da ragazzina ero di sinistra. Ma la sinistra ora ha tradito i suoi valori. Prima pensava al bene di tutti, ora solo a quello di alcune nicchie. Non mi riconosco più in questo centrosinistra. Ora sono sposata, lavoro, mi sto laureando in Giurisprudenza, ho un mutuo da pagare. Sono diventata pragmatica. Voterò chi mi convince con il suo programma».

Ha mai pensato di fare politica?

«Tanti sostenitori me lo chiedono ma al momento mi interessa semplicemente la battaglia contro lo Ius soli. Una battaglia a onore del vero. Basta bugie. Gli italiani sono contrari a questa proposta. Sarebbe sbagliato buttare sale sulla ferita. E girarla sul razzismo è un errore. I politici devono saper dire: è arrivato il momento di fermarsi. Quando monta la rabbia e lo scontento bisogna fare un passo indietro».

Sei mai stata minacciata?

«Sì, continuamente. Anche di morte. E a sinistra nessuna si è mai stracciata le vesti per me, per la libertà di pensiero. Dove sono le paladine dei diritti, della libertà di espressione? Dove sono finite le femministe?».

Torniamo al discorso di prima...

«Evidentemente lo sono solo per convenienza…».

L’ipocrisia dei liberal anti Trump che marciavano per le donne, scrive il 31 ottobre 2017 Eugenia Forte su Gli Occhi della Guerra de "Il Giornale". Ora la Hollywood liberal tace. Zitta zitta, nella sua ipocrisia. Quanti sapevano delle malefatte di Harvey Weinstein mentre si schieravano contro i siparietti sessisti del futuro presidente Donald Trump? Mistero. Ma la verità, forse, è che quella Hollywood che ha alzato la voce contro il tycoon l’ha fatto più per attaccare il candidato repubblicano che per difendere le donne. L’ultimo a finire nel vortice del Weinsteingate è l’amatissimo protagonista di House of Cards, come ha rivelato ha rivelato Anthony Rapp, star della serie tv Star Trek Discovery: “Sono stato molestato sessualmente da Kevin Spacey quando avevo 14 anni e lui ne aveva 24″. L’attore premio Oscar che interpreta Frank Underwood ha risposto all’accusa attraverso un tweet: “Se è andata come dice lui, allora mi scuso”. Spacey, dopo alcune righe, ha rivelato anche di essere omosessuale. L’attore si è poi scusato. E fin qui tutto bene. Ma diciamo la verità: il suo coming out, forse inevitabile a questo punto, è stato anche un modo per spostare l’attenzione. E in un certo senso ci è riuscito, se pensiamo al fatto che molte testate hanno deciso di titolare proprio sul suo coming out. Come la Reuters: “L’attore Kevin Spacey dichiara di essere gay”. Stesso epic fail ipocrita per Abc News e The Daily Beast. Tutte e tre le testate hanno poi corretto il titolo, naturalmente.  Ma in ogni caso lo scivolone fa pensare. E fa pensare soprattutto alle parole del presidente Trump, quando disse, esagerando: “I media sono nemici del popolo”. Ora Netflix ha deciso di chiudere la serie House of Cards dopo la sesta stagione. Una delle prime conseguenze dopo le accuse rivolte a Spacey. In fondo, però, gli è andata bene se pensiamo che per 30 anni è stato graziato dal silenzio di Hollywood. E come tanti altri, del resto. La lista delle vittime del super produttore cinematografico continua ad allungarsi. Secondo quanto dichiarato da Asia Argento, sarebbero almeno 82 le donne che hanno subito molestie da parte di Weinstein. Il problema, oltre alle molestie stesse, è il ritardo nel riportare le accuse. E soprattutto il silenzio. Sharon Waxman, un’ex giornalista del New York Times, ha denunciato che gli abusi di Weinstein furono messi a tacere già 13 anni fa, quando lei condusse per il New York Times un’inchiesta che venne poi affossata dallo stesso produttore che, guarda caso, è anche un grande inserzionista del grande giornale liberal. Coinvolto nelle indagini della giornalista anche Fabrizio Lombardo, allora a capo della filiale italiana di Miramax. Per lui neanche un anno di lavoro, ma uno stipendio di 400mila dollari: “Non aveva un’esperienza cinematografica e il suo vero lavoro era quello di curare, tra le altre cose, le necessità femminili di Weinstein”, ha affermato la giornalista del Nyt. L’ormai ex colosso di Hollywood è inoltre un cospicuo finanziatore dei democratici, nonché amico degli Obama e dei Clinton. L’ex candidata democratica ha aspettato cinque giorni dallo scoppio dello scandalo prima di dichiarare che avrebbe “restituito” i soldi di Weinstein, dandoli in beneficenza (si tratterebbe di un milione e mezzo di dollari). Michelle Obama, invece, attiva sostenitrice dei diritti delle donne, non ha fatto sentire più di tanto la sua voce. Si è limitata a un “siamo disgustati”. E, d’altronde, tempo fa aveva definito il produttore “un buono amico”. Un amico così fidato da accettare uno stage per Malia, la figlia maggiore degli Obama, alla The Weinstein Co., prima di iniziare il semestre ad Harvard. L’ipocrisia è latente in varie sfaccettature di questa storia. Ma soprattutto lo è per quelle donne di Hollywood che hanno alzato la voce durante la Women’s march contro Trump e sono rimaste in silenzio per tutti questi anni riguardo alle molestie sessuali. Tra loro non poteva mancare Meryl Streep. L’attrice – che ha fatto diversi film con Weinstein – aveva dichiarato di essere “sconvolta” dalla notizia “disgustosa” a carico del produttore. Nella stessa dichiarazione ne aveva approfittato per lodare “le donne coraggiose che hanno sollevato le loro voci per parlare dell’abuso”, chiamandole “eroine”.  Ma come chiamiamo chi ha taciuto per anni? Una cosa è certa: a Hollywood anche chi resta in silenzio è colpevole. Stesso discorso per Matt Damon e Russel Crowe, accusato dalla Waxman di aver insabbiato la sua inchiesta su Weinstein. Damon ha sempre usato parole molto dure contro il presidente americano, come quando disse a Sky Tg24: “Trump non sta facendo nulla per l’ambiente. Sta solo distruggendo quello che ha fatto Obama, pensa solo all’economia e a incrementare il lavoro. Che si può fare? Aspettare solo che se ne vada”. E pure Crowe, che aveva preso in giro Trump quando il tycoon aveva detto di “prender le donne per la f…”, è stato in silenzio davanti alle molestie di Weinstein. E la lista potrebbe allungarsi all’infinito. Il problema di Hollywood non riguarda solamente le molestie sessuali. È molto più profondo ed è stato descritto lucidamente in un articolo de Il Giornale del 2014: la pedofilia. Un problema denunciato da pochi avvocati coraggiosi, come Matt Valentinas, produttore del film e fondatore di The Courage to Act Foundation: “La pedofilia è il più grande problema di Hollywood, è ovunque. Spero che questo film aiuti altre vittime di abusi a condividere le loro esperienze. E che l’industria del cinema faccia pulizia”. Ma sono in pochi a parlarne. La maggior parte degli attori è occupata ad insultare Trump. 

Hollywood è sempre la Mecca. Sì, ma dei peggiori pedofili. Amy Berg gira An Open Secret sui (presunti) abusi sessuali ai minori sul set e dintorni, scrive Cinzia Romani, Giovedì 04/12/2014, su "Il Giornale". È il segreto di Pulcinella: a Hollywood molti parecchi produttori, talent scout e manager sono predatori sessuali di adolescenti maschi molto carini. E il più delle volte, la fanno franca. Continuando a esercitare, indisturbati, il loro mestiere di pedofili nello showbiz, con la complicità delle famiglie dei tanti ragazzini attraenti, spinti a cercare notorietà e ricchezza. Nella maggior parte dei casi, i teen ager dal viso d'angelo trovano entrambe, dopo qualche passaggio sul «sofà del produttore», oggetto iconico presente in Hollywood Babylon , libro di Kenneth Anger del 1959. Oggi, però, il quadro appare diverso: dopo lo sdoganamento dell'omosessualità, è arrivato quello della pedofilia. Un atteggiamento normalizzato, stando alla regista Amy Berg, nel 2006 premio Oscar al miglior documentario, Deliver Us from Evil , dove denunciava gli abusi sessuali anella Santa Romana Chiesa, focalizzando l'inchiesta sul prete cattolico Oliver O'Grady, che dal 1970 al 1990 abusò di numerosi bambini californiani. La regista ora torna alla carica col documentario An Open Secret, che analizza certi casi di abusi sessuali ai danni di minori, all'interno dell'industria cinematografica hollywoodiana. Finora, c'erano stati solo pettegolezzi sui media, ma da quando lo scottante docufilm è stato mostrato al festival di New York, questo tema delicato è tornato alla ribalta. Anche perché, nel frattempo, il regista di X-Men, Bryan Singer, è stato accusato di molestie da Michael Egan, oggi trentenne, sedicenne però all'epoca delle violenze di cui riferisce nel film della Berg. Davanti alla cinepresa, la vittima-testimone spiattella il modus operandi di Singer, cineasta famoso; dell'ex-presidente della BBC Garth Ancier, dell'ex-presidente della Disney Tv David Neumann e del produttore di Broadway Gary Goddard. Gente importante, l'élite di Beverly Hills. Un cerchio magico del quale fanno parte anche Chad Shackley e Brick Price, fondatori del network d'intrattenimento digitale DEN e il 60enne Michael Harrah, capo dello «Screen Actors Guild's Young Performers Comittee», dunque portavoce delle vittime dei pedofili. Personaggi che vengono intervistati dalla Berg, mentre si difendono con un preciso grado di cinismo: è difficile produrre prove che li inchiodino e i ragazzini erano consenzienti, affermano. Tutto comincia con i parties in piscina, tra Los Angeles e le Hawaii, nei primi '90. Praticamente baccanali moderni, le cui foto vengono postate in Rete di continuo. Poi ci sono le testimonianze di alcuni attori, ex-bambini prodigio, che raccontano apertamente ogni sgradevole approccio sotto la cintura, quand'erano novellini, facendo intravedere la perversa simbiosi tra la ricerca di fama e l'abuso sessuale. L'avvocato Matt Valentinas, produttore del film e fondatore di The Courage to Act Foundation, parla chiaro su Hollywood Reporter: «La pedofilia è il più grande problema di Hollywood, è ovunque. Spero che questo film aiuti altre vittime di abusi a condividere le loro esperienze. E che l'industria del cinema faccia pulizia». Intanto, nessun distributore è disposto a veicolare An Open Secret: un muro di silenzio si alza intorno al film. Tanti i nomi famosi passati per quelle amare esperienze e smuovere le acque potrebbe danneggiarli.

E sull'ipocrisia del politicamente corretto. Che non nasce oggi. Un apologo sulle molestie dalle nostre parti, scrive Serena Gana Cavallo su Italiaoggi.it Numero 265 pag. 12 del 10/11/2017. Questa storia delle molestie sessuali a giovani o meno giovani «quasi vergini», in ambienti di lavoro come spettacolo e politica (notoriamente alieni da sesso e carrierismo) sta ormai scivolando nella pochade, svilendo la drammatica esperienza delle donne, dei trans, degli uomini e dei giovanissimi di entrambi i sessi, che hanno subito reale violenza e le cui vittime spesso, almeno per la penosa non giustizia italiana, non hanno (per l'appunto) giustizia per intervenuta ultradecennale prescrizione. Nel contempo, la tanto celebrata rivoluzione sessuale, che consentiva alle donne di praticare o non praticare (a loro libera scelta) apertamente rapporti sessuali (che avevano sempre praticato senza pubblicizzarli) senza esser messe all'indice di una società ancora alquanto ottocentescamente ipocrita, sembra svanire nello scandalo retroattivo che percorre, come un inarrestabile fremito, una società di ben superiore ipocrisia che ha eletto a codice morale il politicamente corretto. Nel giornalismo non si parla, in genere, dei fatti propri, per cui mi scuso se ricorro a una storia che considero un apologo esemplare per più compiute riflessioni. Molti anni fa un uomo molto potente (non è stato l'unico) e anche piuttosto attraente, causalmente a capo dell'organizzazione in cui lavoravo, durante un comune viaggio di lavoro bussò la sera alla porta della mia stanza di albergo, con una richiesta tanto inequivocabile quanto terribilmente e goffamente offensiva. Riuscii solo ad esalare un «noooo», per cui fui punita con un vistoso «non saluto» durato almeno un anno (gli incontri di lavoro erano frequenti) e, senz'altro, con la perdita di una possibile rapidissima ottima carriera.

La parte significativa della storia non è però questa. Raccontai la vicenda, ridendo, ad un paio di intimissimi amici e tutto finì lì, ma tempo dopo allacciai un rapporto con un collega che mi raccontò che una donna, anch'essa funzionaria della medesima organizzazione, gli aveva detto «Sta attento! È una che parla». Era una antesignana dell'ipocriticamente corretto che domina i nostri giorni.

Abusi sessuali: "Molestiamo la società dell'ipocrisia", scrive Silvana Maniscalco, Presidentessa di Donna Ceteris, il 24 novembre 2017 su "donnaceteris.org". La sollevazione mediatica a cui stiamo assistendo in queste settimane riguardo l’orda di molestie sessuali consumate dietro i riflettori dello star system mondiale, fa emergere nella sua fulgida pienezza l’etimologia di una parola determinante per capire quanto sta accadendo; una parola che fin dall’antica civiltà greca, passando per il monologo seicentesco di Moliere, enuclea in sé tutto il moralismo – non dunque la morale – che permea l’involucro della società borghese: ipocrisia. Sappiamo certamente che spezzare i meccanismi dei cicloni mediatici diventa sempre più impossibile, e di certo non è questa la battaglia da combattere: la società dello scandalo vive e si alimenta di una domanda economica e culturale che mette lo scandalo al centro di tutto. Il punto, allora, è un altro, e ha a che fare con la necessità di costruire coscienza e consapevolezza, civica e civile.

LA SOCIETÀ DEL DIRE. L’informazione, i linguaggi social, perfino la pubblicità sono, oggi, gli esecutori quotidiani di questo perverso meccanismo di ipocrisia collettiva. Il bisogno di dovere dire sempre qualcosa (la società del dire) - dirla a tutti e a tutti i costi - il bisogno di esserci, di allinearsi, di uniformarsi; il bisogno di un titolo da scrollare, da modificare minuto dopo minuto, da rendere virale, rappresenta la ragione per cui la maggior parte delle testate giornalistiche contemporanee – anche quelle più autorevoli e referenziate – si legano ad una logica di aggiornamenti ininterrotti, non più di contenuti reali, ricercati o approfonditi. Prevale, insomma, la costruzione di flussi comunicativi basati sulla quantità non più sulla qualità. Tutto questo, allora, diventa il collo d’imbuto che conduce all’esasperazione di una notizia, alla distorsione dei dati, al vero che diventa falso, e viceversa. Ci ritroviamo in questo modo dentro un’arena dominata da una bolgia incontrollata, dove il popolo (sedotto da sirene qualunquiste e pavidi infingimenti) urla ed incita al di più, al processo, alla condanna. Sempre e comunque. Senza se e senza ma.

COS'È VIOLENZA? Siamo tutti contro le molestie e i ricatti a sfondo sessuale, su questo non si discute. Tuttavia, alcune domande, in questi giorni di denuncia e autodenunce a getto continuo, bisogna porsele. Ad esempio: ci sarà pure una gradazione fra la molestia che rasenta la violenza e le normali tecniche della seduzione? A ritroso, forse, ci saremmo dovuti indignare di tanti artisti del passato – pittori, scrittori, poeti, scultori – che invece oggi ammiriamo nonostante la loro vita sia puntinata di episodi equivoci di molestie. Che facciamo allora? Vogliamo cancellare il loro nome dalla storia come oggi sta accadendo con Kevin Spacey e Harvey Weinstein? Ecco, il punto è questo: tutto è violenza, tutto è abuso, tutto è tabù. C’è una elementarità binaria del pensiero, c’è il dominio della superfice, l’abito e le sue pieghe che prevalgono sul corpo; quasi come fosse in atto un vero e proprio regresso del pensiero. C’è, ancor più, l’esigenza di appiattire o far scomparire ogni diversità, e quindi anche ogni rapporto di potere, che non è mai unidirezionale, ma comporta sempre l’esistenza di due poli.

IL PENSIERO UNICO. E veniamo così all’altro aspetto centrale: perché i media occidentali, quelli che dovrebbero rappresentare la coscienza critica dell’opinione pubblica, una palestra di pluralismo e di critica, hanno completamente abdicato al proprio compito, scegliendo la comodità del conformismo e del “pensiero unico”? Non ci sono risposte certe, però va detto che tutto quello che sta accadendo oggi poteva essere una buona occasione per parlare del rapporto di genere, della relazione fra corpo e potere, per riportare al centro del dibattito il tema delle parti opportunità nel lavoro, nelle imprese, negli ambiti accademici. E invece siamo qui, a dover inseguire il ciclone passeggero di chiacchiere da bar, di denunce strumentali che diventano un palcoscenico provvisorio per ragazze che ambiscono alla notorietà mediatica davanti a un pubblico di lettori, di spettatori, di cittadini imbalsamati sempre più dall’unguento dell’ipocrisia. La salvezza, in fondo, non è poi così vicina.

Ipocrisie tartufesche sui porconi di potere, scrive il 25 Ottobre 2017 Giuliano Ferrara su "Tempi". Woody Allen ha descritto con candore la situazione. I maschi vivono grandi difficoltà. Non sanno bene dove mettere le mani in senso esistenziale, altro che intraprendenza sotto le gonne. Woody Allen intervistato dalla Bbc dice di temere, e ha poi subito precisato e quasi ritrattato confermando indirettamente i suoi timori, che la faccenda di Harvey Weinstein possa trasformarsi in una caccia alle streghe. Stavano per fare una strega anche del «comic genius», come lo aveva definito Harvey quando gli produsse due o tre film perché Allen era in difficoltà per le sue surreali storie di famiglia e di amorini con la figlia adottiva della moglie, Mia Farrow, di cui il brillante geniaccio Ron, figlio del regista e scopritore dell’acqua calda delle molestie, porta il nome per odio verso il padre. In effetti quell’uomo è diventato un orco in men che non si dica, corpo e fisionomia del viso ormai parlano chiaro da tutti gli schermi tv, nelle foto sui giornali, e quanto imbarazzanti per la totalità delle star che gli sono state al fianco nei tempi belli in cui tutto si sapeva e lui in quanto porcone notorio era oggetto di deliziose battute durante la cerimonia degli Oscar, dalla quale ora è escluso a vita, ovviamente, per non parlare della Legion d’onore (e quando uno arriva a meritare un’onorificenza bisogna dire che merita anche di perderla, tanto è grottesca l’idea stessa di “onorificenza”). Nello scandalo, per le modalità della comunicazione cosiddetta, per la frastornante stupidità di tante reazioni al femminile, per le accuse di silenzio e omertà che coinvolgono i testimoni potenziali maschili della malefatta, si brucia la figura del maschio. Quella del prete è già stata sistemata dalle campagne sulla pedofilia nel clero, ora è sacerdozio universale, ogni maschio è un orco, «ogni donna ama un fascista» (Sylvia Plath) e tutti i maschi sono dei predatori, esseri inqualificabili se non per l’abusiva titolarità che rivendicano sotto sotto a maltrattare e vessare il famoso “corpo delle donne”, cioè l’astrazione ideologica più risibile che mai abbia definito una realtà carnale ordinaria e a suo modo straordinaria. Una volta era Eva che tentava Adamo, con conseguenze notorie nel peccato originale, e ne è venuta fuori la visione stereotipa della donna che è sopravvissuta per millenni, e ancora vivacchia nelle culture non evolute. Ora è Adamo che sforza Eva, non ne rispetta la dignità, e si comporta da mostro incontinente.

Mescolanza di bene e male. Tutto questo è ovviamente falso, una falsificazione illusionistica. I maschi vivono un tempo di grandi difficoltà. Devono aiutarsi con delle medicine di nuovo conio per farselo venire duro. Non sanno bene che fare e dove mettere le mani in senso esistenziale, altro che intraprendenza sotto le gonne. Il porcone di potere, o profittatore sessuale, è sempre esistito ed esisterà sempre, anche senza la Legion d’onore, ma sul maschio intimidito, irrisolto, che è vittima e complice della rivoluzione riproduttiva, che è aggiogato, magari anche volentieri, come rifugio, a un’ambigua gay culture, cala ora la nube plumbea dell’orco cui lo scandalo Weinstein lo riduce. Nessuno come Woody Allen poteva esprimere con maggiore candore questa situazione da lettino dello psicanalista, altro che sofà del produttore. In tutto il suo lavoro di scrittore di cinema trionfa un tenero amore per le donne, e un fondo di paura lo insidia, con l’aiuto dell’introspezione e dell’autodannazione tipica dell’umorismo ebraico. Che Weinstein gli sia andato incontro, lui, l’orco, quando Allen andò fuori di balcone, “Bananas!” come titolò il New York Post dopo la rivelazione della sua tresca (poi compassato matrimonio) con la figlia adottiva coreana di Mia Farrow, è un segno della mescolanza di bene e di male che perfino una facciaccia e un corpaccio come quello del gran molestatore non possono annullare. Le regole della seduzione femminile e della galanteria maschile sono saltate, e che cosa non è saltato delle regole di vita associata in questi anni, Deo gratias? Questo però non significa che i maschi debbano subire il trattamento crudele che le porcate di Harvey Weinstein gli riverberano contro. C’è un tesoro di amore protettivo, di passione autentica, di piacere e di ricerca del piacere dell’altro, che in mille, in milioni, in trilioni di vite maschili ormai è costretto a nascondersi sotto il segno della rispettabilità. Da ipocrisie tartufesche del genere non si ricava altro che una brutta commedia, roba da Oscar e da Legion d’onore.

Cinema, molestie e violenze: parliamone senza ipocrisie, scrive Antonella Gramigna, Giovedì 16 Novembre 2017 su "stamptoscana.it". E’ il tempo di parlare senza veli né falsi pudori, né ipocrisia, o tanto meno mancanza di rispetto, dei fatti che riguardano le donne - attrici molestate dai vari big del mondo dello spettacolo, che ormai conosciamo tutti. Non se ne può davvero più. Il livello raggiunto ha davvero dell’incredibile. Cosa è successo? A distanza di anni e dopo la denuncia pubblica partita da Asia Argento, a cui sono seguite anche altre sue colleghe, anche in Italia diverse attrici, hanno prontamente preso la palla al balzo ed hanno deciso di raccontare violenze che avrebbero subite anni prima. Io le definirei “presunte”, perché salvo prove certe, che sembrano non esserci, ciò che da giorni si ascolta sono racconti personali basati unicamente su proprio sfogo, talvolta facendo nomi esplicitamente, altre volte con allusioni. Mi chiedo quale sia il significato, per meglio dire il “movente” vero di questi outing un tantino tardivi, perdonatemi, per non parlare poi di un hashtag (“quella volta che”) che al contrario di evocare la gravità che l’argomento richiede, pare il titolo di una Soap. Tra poco, il 25 Novembre prossimo, guarda caso sarà celebrata la giornata contro la violenza, e pare cadere a fagiolo, come si usa dire, la questione in oggetto, che ormai tocca pure noi italiani. Oggi, improvvisamente un’attrice affermata decide di vuotare il sacco, facendo così sollecito e tappeto rosso a molte altre donne (sempre dello stesso mondo), perché? Non che sia sbagliato denunciare, anzi, è sempre giusto accendere luci sulla violenza, ma c’è più di qualcosa che non quadra. Perché accettare di subire molestie e atti sessuali veri e propri e non rinunciare invece alla carriera, con dei costi sicuramente, ma che non sono paragonabili a quelli che definire le peggiori delle offese che una donna possa subire, possono essere. E c’è da chiedersi anche se è violenza quella subita da chi, dopo il primo episodio, ammesso lo abbia davvero subito non volendo, come si legge in giro, decide di continuare ad avere comunque rapporti consenzienti col proprio usurpatore. Sempre per paura di uno eventuale stop alla carriera? Non vi è comunque corresponsabilità, accettazione e (scusate la schiettezza) mancanza di rispetto nei confronti di tante donne che, invece, la violenza l’hanno subita feroce, dolorosa e talvolta mortale, in cambio solo del nulla o peggio per poter sopravvivere? Il tema della violenza mi vede impegnata socialmente e politicamente da anni. Ho conosciuto per questo ed attraverso testimonianze di medici, una tra queste Vittoria Doretti, madre del Codice Rosa, diverse situazioni vissute che hanno messo in luce quanto coraggio occorra a queste donne, quando decidono “finalmente” di denunciare, prendendo coscienza, perché supportate adeguatamente da servizi, percorsi psicologici e sanitari con professionisti capaci, che devono reagire contro le loro paure, i loro sensi di colpa, per proteggere se stesse ed i propri figli. La legge, lo sappiamo bene, esclude il reato di violenza quando l’offesa viene limitata alla sola molestia, e non vi sia nell’atto l’aggressione materiale alla propria intimità fisica, che è cosa diversa. E poi c’è la prescrizione dopo del tempo. In molti dei casi denunciati dalle attrici si parla di molestie, più che di stupri. Piano con i termini, hanno un peso enorme. Possiamo anche ricordare al mondo intero che da sempre la “mano” morta sui bus, al cinema, o sul posto di lavoro, per non parlare delle proposte del capo azienda per fare carriera, sia sempre esistita. È stato mai denunciato? No, non è violenza. Sono altre le azioni da fare. Si dice no, ci si alza, ed al massimo con un bel cinque dita sul viso, si esce. Si decide di non vendersi, di non regalare il Nostro corpo ed il Nostro sesso (appositamente maiuscolo) a nessuno, se non per volontà propria. É coraggio quello dimostrato da queste donne, che dopo anni denunciano ben sapendo che i reati (se veramente commessi) non possono essere più perseguiti? Nel frattempo però ci si permette di distruggere persone, uomini di famiglia, rapporti importanti, sulla base di racconti e supposizioni, senza prove se non la coralità che riguarda più i riflettori di un red carpet, piuttosto che un’azione di vera e sana liberazione intima. Ed intanto sono iniziati i “processi” mediatici sia nei talk show che sui giornali, che non hanno prescrizione di tempi, quelli no, non li hanno. Processi ovviamente senza possibilità di contraddittorio, né garanzie alcune per gli accusati, né tutele per le loro famiglie. Cui Prodest? Riflettiamo, seriamente. Almeno questo dobbiamo farlo.

Molestie sessuali: confini della violenza e casi condannabili. L'articolo 609-bis punisce chi costringe a «compiere o subire atti». Serve contatto fisico sulle zone erogene. E ricorre spesso il "consenso viziato" per timore dell'autorità. Tutte le situazioni in cui si può denunciare, scrive Carlo Terzano il 7 gennaio 2018 su "Lettera 43". Molestie sessuali, ovvero uno dei temi dominanti su quotidiani e telegiornali, dal caso Weinstein in giù. A casi eclatanti, prova di una società ancora profondamente retrograda e maschilista, talvolta, soprattutto in Italia, se ne aggiungono altri meno gravi, eppure penalmente rilevanti. REATI NON CHIARI. Non è sempre chiaro, a livello giuridico, il confine tra semplice avance e violenza sessuale. Può dunque capitare di inciampare in un reato senza esserne consapevoli. Per questo, con l'aiuto di un avvocato, cerchiamo di individuare quando un atteggiamento lecito cade nell'illecito.

1. Cosa dice l'articolo 609-bis: costrizione a «compiere o subire atti sessuali». Si parte, anzitutto, dall'enunciazione della fattispecie penale. Secondo l'articolo 609-bis del codice penale, commette il reato di violenza sessuale «chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali». PENE DAI 5 AI 10 ANNI. La cornice edittale va da 5 a 10 anni, con una pena diminuita in misura non eccedente i due terzi per i casi di minore gravità. Sempre l'art. 609-bis prevede altre due ipotesi: «Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». È assurdo che nella stessa fattispecie siano ricompresi atti molto gravi per la psiche delle vittime come la penetrazione genitale o anale e una meno devastante “pacca sul sedere”.

2. Il problema: lo stesso reato prevede casi troppo diversi tra loro. L'avvocato Flavio Tovani spiega a Lettera43.it: «È assurdo che nella stessa fattispecie, sia pure prevedendo un'attenuante a effetto speciale per i casi di minore gravità, siano ricompresi atti oggettivamente molto gravi come la penetrazione genitale o anale, o anche il rapporto orale, che possono alterare gravemente o compromettere la salute psichica di chi subisce il reato, e atti riprovevoli ma che sicuramente non hanno lo stesso effetto devastante sulla vittima, come può essere una “pacca sul sedere”». IPOTESI DI SPACCHETTAMENTO. Per il legale, la soluzione migliore sarebbe quella di “spacchettare” il 609-bis prevedendo «da un lato lo stupro, dall'altro i vari toccamenti lascivi».

3. Mostruosità interpretative della norma: eiaculare sui vestiti di una donna non è reato. Chiarito che il dettato normativo getta in un unico calderone comportamenti molto diversi in termini di gravità dell'offesa nei riguardi della vittima, appare ovvio che, negli anni, la giurisprudenza abbia prodotto sentenze originali. PROVVEDIMENTO BIZZARRO A TORINO. «Dato che la categoria degli “atti sessuali” è assai vasta, non è tipizzata. Si decide caso per caso. Sappiamo solo che ricomprende qualsiasi “contatto” che coinvolga la sfera sessuale del destinatario», illustra l'avvocato Tovani. «Questo però può comportare a sentenze quantomeno bizzarre: è recente un provvedimento del gip di Torino secondo il quale eiaculare sui vestiti di una donna non è violenza sessuale perché manca il contatto fisico». Ci sono sentenze che hanno considerato violenza accarezzare le spalle e le ascelle verso il seno, sotto la maglietta, o il solo tocco del polso della vittima.

4. I capisaldi: serve «contatto fisico» sulle «zone erogene». Nella confusione interpretativa generata dalla vaghezza del dettato penale, due soli sembrano essere i capisaldi normativi cui i giudici possono aggrapparsi: la necessità di un «contatto fisico» che riguardi le «zone erogene» della vittima. La stessa definizione di zona erogena, però, non è codificata, e viene lasciata alla libera interpretazione dei tribunali: «Ovviamente vi rientrano gli organi sessuali primari», specifica il legale, «tuttavia la situazione si complica quando siamo di fronte a casi che coinvolgono altre parti del corpo. Per esempio, anche un bacio sul collo o sulla guancia, se indesiderato, può essere considerato violenza sessuale, con le conseguenze penali già illustrate. In altri casi, è stato considerato zona erogena il ginocchio della vittima». MANCA IL BILANCIAMENTO. «C'è una sentenza», continua l'avvocato Tovani, «che ha considerato violenza sessuale accarezzare le spalle e le ascelle verso il seno, sotto la maglietta, altre che hanno punito il solo tocco del polso della vittima». Insomma, non sembra esserci bilanciamento nell'ottica punitiva. Anche un bacio sul collo o sulla guancia, se indesiderato, può essere considerato violenza sessuale.

5. Il “consenso viziato”: quando la vittima non rifiuta per timore dell'autorità. Ricorre assai spesso, come testimoniato dalla cronaca, il caso del “consenso viziato”: la vittima presta il proprio consenso al rapporto, ma i giudici non lo ritengono pieno e consapevole. «Sussiste», illustra l'avvocato, «ogni volta che c'è uno stato di inferiorità del partner: un palese stato di ubriachezza, una persona con problemi di handicap psichico, una minaccia di un male ingiusto approfittando della propria autorità». SE IL CAPO CI PROVA È VIOLENZA. In tale ottica sono a rischio i rapporti sul luogo di lavoro, con i propri subordinati: «La giurisprudenza ha chiarito che nel concetto di autorità rientra anche quella derivante da rapporti privati. Dunque, il capo può "provarci" con il sottoposto, ma se il sottoposto è indotto a "starci" solo per il rischio di perdere il lavoro in caso di rifiuto, il reato di violenza sessuale è integrato». Il vincolo di coniugio necessita del consenso del partner: il marito con la moglie che ha sempre "mal di testa" non potrà costringerla ad avere rapporti.

6. Anche tra coniugi può esserci reato: non si può obbligare al sesso. C'è poi un altro dettaglio non di poco conto da tenere in considerazione e che espone alla possibilità di commettere il reato di violenza sessuale persino tra coniugi: il consenso, oltre che pieno e consapevole, reso al partner da un soggetto capace di intendere e volere, deve perdurare lungo tutta la durata del rapporto: «Se viene meno, il rapporto deve cessare», avverte il legale.

IL RIFIUTO PUÒ GIUSTIFICARE LA SEPARAZIONE. Non tutti sanno che «il vincolo di coniugio non esclude la necessità di avere il consenso del partner: in pratica, il marito con la moglie che ha sempre "mal di testa" non potrà costringerla ad avere rapporti. Però il perdurare del rifiuto potrà giustificare l'addebito della separazione».

7. Quando a essere violentato è lui: in Italia proiezione di 3,8 milioni di casi. «Naturalmente», conclude l'avvocato Tovani, «questo vale anche a parti inverse, anche se i casi, perlomeno quelli oggetto di denuncia-querela di uomini vittime di violenza sessuale, sono rarissimi». Ed è proprio così: le querele da parte dei maschi sono davvero poche, eppure non si esclude che talvolta la vittima possa essere lui. L'8,6% AMMETTE LO STUPRO. Il solo studio realizzato in Italia risale al 2012 a opera di Pasquale Giuseppe Macrì, docente di medicina legale presso l’Università di Siena. Fu condotto su 1.058 volontari maschi di età compresa tra 18 e 70 anni e rivelò che 91 soggetti (l'8,6% del campione) furono di fatto stuprati dalla propria partner. MOLESTIE DALLE COLLEGHE. In 394 dissero di avere avuto rapporti pur non avendone voglia solo per evitare di litigare con la propria compagna, 106 confessarono di essere stati forzati ad attività sessuali degradanti. Esistono anche “Weinstein in gonnella”: 232 intervistati dichiararono di essere stati molestati nelle proprie zone erogene da estranee (per esempio colleghe). INTERRUZIONI MORTIFICANTI. Ma, sotto le lenzuola, la violenza subita con maggiore frequenza da un uomo sembra essere molto diversa da quella dell'art. 609-bis: il 48,7% dei casi riguarda proprio il rapporto intimo avviato ma poi interrotto dalla partner senza motivi comprensibili. I compilatori, pur riconoscendo alla donna la libertà di interrompere il rapporto sessuale in qualsiasi momento, riferiscono di rimanerne mortificati, umiliati, depressi. Il 30,5% si è invece sentito deriso per un difetto sessuale o una prestazione non ottimale. «Ne deriva», si legge nel rapporto, «che, in proiezione, oltre 3,8 milioni di uomini avrebbero subito almeno una violenza sessuale». In caso di accusa, magari ingiusta, difendersi può essere complicato: anche la sola testimonianza della persona offesa, se credibile e non contraddittoria, è sufficiente.

8. Passione sì, ma nel rispetto del partner: atti sgraditi facilmente condannabili. Insomma, stante la previsione normativa tutt'altro che precisa, il consiglio dell'avvocato Tovani per evitare di incorrere in spiacevoli conseguenze è quello di usare sempre il buon senso: «Direi di trovare il difficile equilibrio fra la passione del momento e la necessità di essere sicuri di non porre in essere comportamenti sgraditi al partner». DI SOLITO NIENTE TESTIMONI. Anche perché «in caso di accusa di molestia sessuale, magari ingiusta, difendersi può essere complicato: siccome si tratta di un reato che, in genere, non viene compiuto in presenza di testimoni, anche la sola testimonianza della persona offesa, se credibile e non contraddittoria, può essere sufficiente perché sia formulata una sentenza di condanna».

Secondo voi questa è una molestia? Le risposte di un magistrato, scrive Elena Tebano su "Il Corriere della Sera”. Avete risposto al sondaggio sulle molestie? Abbiamo posto le stesse domande a Fabio Roja, magistrato esperto nel contrasto alla violenza di genere e presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano. Ecco come ha risposto

1) Reggio Calabria, ore 11 del mattino. Maddalena, 35 anni, segretaria, bussa alla porta del notaio Piero Pieri, 55. Lui è seduto alla scrivania, sta fumando una sigaretta. Lei si avvicina e gli porge un fascicolo che ha appena fotocopiato. Lui le dice «grazie» e le appoggia una mano sul ginocchio.

«Toccare le zone definite erogene (cioè sessualmente stimolanti, ndr) come il ginocchio con un gesto repentino costituisce una violenza sessuale – spiega Roja – perché la persona che ne è vittima non ha tempo di esprimere il suo consenso».

2) Roma, maggio, ore 11 di notte. Una giovane turista americana, nella capitale per una vacanza di qualche giorno, rientra in hotel verso le due del mattino. Seduto nella hall, come ogni notte, c’è il portiere. Che, appena la vede, le fa una battuta, qualche complimento, prova a scherzare. Poi le dà la chiave della camera e la segue in corridoio. E poi in ascensore dove le si avvicina e le accarezza i capelli. Lei si scosta, riesce a liberarsi, entra in camera e lo lascia fuori dalla stanza.

«Per quanto possa essere fastidioso non costituisce reato: di fronte al dissenso di lei lui si ritrae e i capelli non sono considerati zona erogena, quindi toccarli non è di per sé una violenza».

3) Roma, nella redazione di un importante studio pubblicitario. È lunedì mattina e il clima è goliardico, scherzoso, come ogni giorno. Quando la neoassunta Lucia arriva in ufficio, i colleghi si girano tutti a guardarla. È bellissima. «Posso sedermi qui?», chiede indicando un posto libero. «Le donne belle come te possono sedersi dove vogliono», dice l’art director, con un sorriso, ad alta voce, davanti a tutti. Lucia fa una smorfia, sembra non gradire. E lui: «Sto scherzando, eh!».

«Non è un atto penalmente rilevante».

4) Lei ha 29 anni, è una giovane dirigente medico a tempo determinato di un’azienda ospedaliera milanese. Dopo una relazione con un collega di poco più giovane, ora è single. In ospedale lo sanno tutti. Anche il primario del suo ex, che un giorno la incontra per le scale e le dice: «Mi dispiace che vi siate lasciati, soprattutto perché non ti vedo più in reparto». E poi: «Che dobbiamo fare con il tuo concorso? Ci devo pensare io? Che ne dici se andiamo a pranzo assieme e ne discutiamo?». Lei accetta. Vanno a pranzo insieme. Ma quando è il momento del caffè lui le chiede di fare sesso. Lei è in difficoltà. Sa benissimo che, se rifiuta, il concorso non lo passerà mai. Quindi accetta. E vince.

«Qui siamo di fronte a un comportamento limite: il fatto è penalmente irrilevante se, come sembra in questo caso, la donna non ha diritto a quel posto di lavoro. Certo – riflette Roja –, il comportamento della donna è stato influenzato e rimane il giudizio morale, ma non è possibile sanzionare l’azione di lui. Ben diverso sarebbe stato se lui le avesse fatto un colloquio di lavoro diretto: in quel caso si tratterebbe allora di violenza sessuale».

5) Roma, Cinecittà, maggio. Lei ha 23 anni, è al suo primo giorno di stage in una importante casa di produzione tv. Lui è un attore affermato. Quando lei entra nel suo camerino per la prima volta, lui le chiede di sedersi. Poi inizia a spogliarsi. E inizia a masturbarsi. La ragazza rimane impietrita, non riesce a muoversi. Lui non le dice niente, non prova a toccarla. Quando tutto finisce, le dice che può uscire.

«Da un punto di vista giuridico è un’ingiuria, cioè – spiega il magistrato – un’offesa al decoro di una persona presente. Un tempo era un reato, ora l’ingiuria è stata depenalizzata». Costituisce cioè un illecito civile (ma non penale): chi se ne rende colpevole è obbligato a risarcire i danni alla persona offesa e a pagare una sanzione in denaro.

6) Milano, nella redazione di un importante programma tv di una rete televisiva nazionale. Lei ha 32 anni è una redattrice. Lui ha 57 anni ed è il direttore di testata. I due non hanno rapporti diretti ma lui ogni volta che la incontra in ascensore, in corridoio o al bar aziendale la guarda negli occhi, le sorride e le dice «ciao stellina». Lei ricambia con «Buongiorno direttore». Nient’altro, da mesi.

«Questo tipo di comportamento può costituire un illecito civile, e non penale, se comprende una forma di insinuazione sessuale che mette la donna a disagio: in quel caso diventa mobbing a sfondo sessuale». Se invece la componente sessuale manca il comportamento, per quanto spiacevole, non è sanzionabile neppure in sede civile.

7) Roma, in un ufficio postale del centro. Maria, impiegata di primo livello, assunta a tempo indeterminato da diversi anni, ha appena fotocopiato un intero fascicolo per il suo capo. Glielo porta nella sua stanza e glielo appoggia sul tavolo. Lui quando la vede si alza, le dice «grazie, sei un tesoro» e le dà un bacio sulla guancia.

«In questo caso bisogna valutare il contesto: se c’è un rapporto di amicizia il bacio ha una valenza sentimentale e non costituisce una molestia», dice Roja. Se invece, come avviene di solito sul posto di lavoro, «non c’è confidenza tra le due persone coinvolte, il bacio ha una connotazione sessuale e diventa una violenza, anche se (come nel caso del ginocchio) viene considerata di minore gravità e quindi prevede una pena diminuita fino a due terzi».

8) Un ragazzo e una ragazza si conoscono in palestra. Hanno 24 anni entrambi e sono single. Un giorno lui la invita a cena. Lei accetta. E verso fine serata, mentre si incamminano verso casa, a piedi, lui le mette una mano sul sedere e prova a baciarla. Lei si scansa. Gli dice: «No’. Poi si salutano e ognuno va a casa sua.

«In una situazione simile non c’è niente di penalmente rilevante: è un’avance perché – spiega il magistrato – lui si è fermato al momento giusto, cioè non appena la donna ha lasciato percepire il suo dissenso».

9) Maria e Piero sono sposati da cinque anni. È la sera del loro anniversario e lui torna a casa con una bottiglia di spumante. Cenano in cucina e poi vanno a sdraiarsi sul divano davanti alla tv come tutte le sere. Lui inizia ad accarezzarle le gambe. Lei lo bacia. Ma quando lui prova a fare sesso lei rifiuta. «Sono stanca», dice. «Stasera non mi va». Lui però insiste. Lei rifiuta ancora. Lui non accetta il «no» e la costringe a un rapporto completo.

«Qui si tratta senza alcun dubbio – specifica Roja – di violenza sessuale».

10) Napoli, nella redazione di una piccola tv locale. Maria, redattrice ordinaria, sta scrivendo una storia di cronaca nera per il web. Quando arriva il capo lei si gira, lo guarda, e gli dice: «Ma sai che hai proprio un bel sedere?»

«In questo caso ci troviamo davanti a complimento sgarbato che però —conclude il magistrato – non è rilevante sul piano penale».

David Copperfield accusato di violenze su modella adolescente. David Copperfield al centro di pesanti accuse di violenza su una modella adolescente, Brittney Lewis: i fatti risalirebbero al 1988, quando la giovane aveva solo 17 anni, scrive Maria Rizzo, Giovedì 25/01/2018, su "Il Giornale". David Copperfield è stato accusato di aver drogato e violentato una modella adolescente alla fine degli anni '80, quando la ragazza, Brittney Lewis, aveva solo 17 anni. La denuncia è apparsa sulle pagine di The Wrap, subito dopo un tweet del noto illusionista dedicato al movimento #MeToo, in cui ha dichiarato di essere stato "falsamente accusato" in passato. Brittney, oggi quarantasettenne, ha raccontato di aver conosciuto Copperfield ad Atami, in Giappone, nel settembre del 1988, mentre il mago lavorava come giudice in una competizione tra modelle: dopo essersi scambiati i numeri di telefono, la giovane avrebbe acconsentito di andare con lui in California, con il permesso della nonna. L'ex modella ha detto di aver alloggiato nello stesso hotel del suo presunto aggressore - sebbene la testimonianza non sia al momento verificabile - in due stanze contigue. Dopo uno spettacolo, la coppia avrebbe bevuto un drink: secondo quanto riportato, Copperfield avrebbe versato nella bevanda una sostanza stupefacente che, al rientro in albergo, avrebbe provocato alla ragazza la completa perdita dei sensi. Lewis afferma di non ricordare nulla di quella notte, fatta eccezione per l'alito cattivo dell'illusionista e un atteggiamento davvero strano il mattino successivo: l'uomo l'avrebbe costretta a scrivere e firmare una lettera per escludere eventuali responsabilità del mago per quanto accaduto la sera prima. L'ex modella sostiene di essersi fatta avanti in passato, quando Lacey Carroll accusò Copperfield di violenza sessuale sulla sua isola privata, ma le sue parole sarebbero cadute nel vuoto. Commentando le nuove accuse su Twitter, David Copperfield si è difeso citando il movimento #MeToo: "mentre sopravvivo a un'altra tempesta, voglio che il movimento continui a prosperare. Ascoltate sempre e considerate tutto con attenzione, ma per il bene di tutti, non affrettatevi a giudicare".

Washington Post: «Woody Allen? Un misogino ossessionato dalle ragazzine», scrive il 5 gennaio 2018 Monica Coviello su "Vanity Fair". Richard Morgan, giornalista freelance di New York, ha letto gli appunti – in 56 scatole - che il regista ha donato alla Princeton University, e ne ha condiviso parte del contenuto sul Washington Post. Ha letto decenni di appunti privati di Woody Allen. Cinquantasei scatole – donate alla Princeton University – piene di «riflessioni misogine e lascive». Così le ha definite Richard Morgan, uno scrittore freelance di New York, che ha raccontato sul Washington Post quello che ha scoperto nei «Woody Papers». «Allen, molto semplicemente, rivela ripetutamente la sua misoginia. Lui, che è stato nominato per 24 Oscar, non ha mai avuto bisogno di altre idee per i suoi film, oltre a quella dell’uomo lascivo e della sua bella conquista: è un concetto attorno al quale ha girato film a Parigi, Roma, Barcellona, ​​Manhattan, su giornalismo, viaggi nel tempo, rivoluzione comunista, omicidio, romanzi, cena del Ringraziamento, Hollywood e molto altro. Perché su quell’idea ha fondato la sua carriera». Le sue sceneggiature – spiega Morgan – sono spesso «freudiane» e caratterizzate dalla sua presenza (o di quella di qualche suo “avatar”) e aderiscono quasi religiosamente a una formula: una relazione sull’orlo del fallimento è gettata nel caos da un’estranea irresistibile, quasi sempre una giovane donna. «A volte, questo schema produce capolavori, come Match Point. Spesso no. Ellen Page, che nel 2012 ha recitato in To Rome With Love, ha detto che lavorare con Allen è stato “il più grande rimorso della mia carriera”». Negli appunti, Allen ha confermato «un’ossessione insistente e vivida per giovani donne e ragazze». In un racconto breve (By Destiny Denied: Incident at Entwhistle’s) c’è il personaggio maschile «ricco, istruito, rispettato», che vive con una donna indiana di 21 anni. Prima, con una correzione, Allen la fa diventare diciottenne, poi la «raddoppia», trasformandola in due diciottenni. C’è poi la sedicenne descritta come «una bionda sexy appariscente in un abito da sera rosso fuoco fiammeggiante con un lungo spacco sul fianco». C’è una ragazza di 17 anni in un’altra storia breve, Consider Kaplan, in cui il vicino di casa 53enne si innamora di lei mentre condividono l’ascensore. C’è la studentessa del college femminile di Rainy Day che «non dovrebbe avere più di 20 o 21 anni, ma suona meglio 18 – o addirittura 17 – ma 18 è meglio». Uno dei personaggi maschili di Allen, nella sceneggiatura di una storia del New Yorker del 1977 intitolata The Kugelmass Episode, è un 45enne affascinato dalle studentesse del City College di New York. A margine, accanto al dialogo di questo personaggio, Allen ha scritto (poi ha cancellato): «C’est moi». Il suo addetto stampa, Leslee Dart, non ha risposto alle diverse richieste di commento. Solitario per natura, Allen, sul caso Weinstein, alla BBC ha parlato di «un’atmosfera da caccia alle streghe, dove ogni tizio in un ufficio che strizza l’occhio a una donna improvvisamente deve chiamare un avvocato». In una bozza di My Apology, una storia breve: «Tra tutti gli uomini famosi che siano mai vissuti, quello che mi sarebbe piaciuto di più era Socrate. Non solo perché era un grande pensatore, perché anche a me è stato riconosciuto di avere avuto alcune intuizioni ragionevolmente profonde, anche se le mie invariabilmente ruotano intorno a diciottenni e cameriere da cocktail». E ancora: «Sono deluso dalla scienza. È vero che ha sconfitto molte malattie, ha scandagliato il codice genetico e ha persino mandato esseri umani sulla Luna. Eppure, quando un uomo di ottant’anni si trova in una stanza con due cameriere di diciotto, non succede nulla». In una falsa intervista, ha scritto anche di un’attrice reale, Janet Margolin (morta nel 1993), che ha avuto un ruolo in Annie Hall e Take the Money and Run: «Occasionalmente sono stato costretto a fare l’amore con lei per ottenere una performance decente. Ho fatto quello che dovevo, ma in modo professionale». E sull’ex modella e socialite spagnola Nati Abascal, che ha lavorato con Allen in Il dittatore dello stato libero di Bananas: «Mentre discutevamo dello spettacolo, ho allungato la mano verso la sua coscia, ma lei mi ha bloccato. Ho tirato fuori dalla tasca il contratto, che abbiamo firmato, ma non prima di averle parlato dell’obbligo sessuale che faceva parte del lavoro di ogni attrice che ha lavorato con me».

Colin Firth e tutte le star che rifiuteranno di lavorare con Woody Allen in futuro, scrive Federica Lucia il 21 gennaio 2018 su "Mondofox.it". Le star del cinema prendono posizione nel periodo più nero della storia di Hollywood. Questa volta tocca al regista di Celebrity. Non c’è pace nel firmamento di Hollywood, e dopo i casi Weinstein e Spacey ecco ritornare in auge un vecchio caso che sembrava ormai accantonato. Sull’onda di denunce e accuse, licenziamenti e cambi di ruolo attoriali, tocca ora a Woody Allen subire il processo mediatico e hollywoodiano. L’attore Colin Firth è solo l’ultimo di un lungo elenco di attori e attrici che hanno abbandonato la nave del regista newyorkese manifestando la ferma volontà di non voler più lavorare con Woody Allen o, addirittura, di essersi pentiti di averlo fatto in passato. Colin Firth, che ha recitato sotto la guida di Allen nel 2014 in Magic in the Moonlight, ha dichiarato al Guardian: Non lavorerò mai più con Woody Allen. La spia della saga dei Kingsman non è nuova a queste prese di posizione nette in favore delle presunte vittime di violenza. Nella bufera che investì Harvey Weinstein lo scorso anno vi era anche un’altra dichiarazione di Firth, il quale definì il magnate di Hollywood un uomo spaventoso, lodando il coraggio delle donne che lo avevano denunciato a gran voce. Questa volta le dure parole del fidanzato di Bridget Jones arrivano dopo l’ennesima denuncia pubblica da parte di Dylan Farrow, la figliastra del regista.

La vicenda del 1992. Dylan Farrow, figlia adottiva di Woody Allen e Mia Farrow, nel 1992 dichiarò di essere stata abusata sessualmente dal patrigno. All’epoca la Farrow aveva 7 anni e, dopo lunghe indagini e controversie legali, non venne creduta e le accuse decaddero.

Dylan e Mia Farrow, madre e figlia contro Woody Allen. A distanza di 25 anni la Farrow è tornata a parlare di quel 1992, domandandosi come mai, dopo aver punito duramente Weinstein e Spacey, Hollywood abbia risparmiato proprio Woody Allen. Ed è proprio grazie o a causa delle vicende che hanno preceduto la sua dichiarazione che, questa volta, la sua versione inizia a sembrare più credibile agli occhi di molti addetti ai lavori. Colin Firth è infatti l’ultimo di una lunga serie di attrici e attori che hanno espresso vicinanza a Dylan Farrow o che hanno fermamente condannato il regista di Io e Annie dichiarando di non voler più lavorare con lui in futuro.

Gli attori che non prenderanno parte ai film di Allen. Una delle tante star ad aver dichiarato di non voler più lavorare con il regista newyorkese è stata Ellen Page, che in un post su Facebook ha dichiarato che recitare in To Rome With Love sotto la direzione di Woody Allen è stato l’errore più grande della sua vita. Un’altra attrice pentita di aver preso parte alla stessa pellicola della Page è Greta Gerwig, che al New York Times ha dichiarato di non voler più lavorare con Woody Allen. Se avessi saputo allora quello che so adesso, non avrei recitato nel film. Non ho più lavorato per lui e non lavorerò più per lui. I due pezzi di Dylan Farrow mi hanno fatto capire che ho aumentato il dolore di un’altra donna. Mira Sorvino, entrata nel vortice delle accuse mosse ad Harvey Weinstein, ha rincarato la dose anche nei confronti di Woody Allen. L’attrice ha infatti scritto una lettera aperta indirizzata a Dylan Farrow in cui si scusa per aver recitato in La Dea dell’Amore. Nella lunga lista di pentimenti e risentimenti figurano anche Griffin Newman, Rebecca Hall e Timothée Chalamet, tutti protagonisti in A Rainy Day in New York, l’ultima opera del regista di Harry a Pezzi.

Griffin Newman, in un tweet si è tolto un peso in modo inequivocabile: Ho lavorato al prossimo film di Woody Allen. Credo sia colpevole. Stesse considerazioni per Rebecca Hall (che in passato ha lavorato con Allen in Vicky Cristina Barcelona), che ha deciso di donare il suo stipendio a Time’s Up (altra associazione che ha sposato la causa). Gli stessi toni dei suoi colleghi sono stati utilizzati da Timothée Chalametin un post su Instagram. L’attore di Lady Bird dichiara che, mentre “obblighi contrattuali” gli impedivano di parlare liberamente della sua decisione di lavorare con Allen, aveva in programma di donare il suo intero stipendio in beneficenza. Non è un buon momento per il prolifico regista e c’è già chi pensa che il suo prossimo film, A Rainy Day in New York, avrà qualche problema a vedere la luce del sole. È davvero arrivata l’ultima ora per le produzione a marchio Allen o è soltanto... un Hollywood Ending?

Molestie: Dylan Farrow si scaglia contro Justin Timberlake per via di Woody Allen. L’interprete ha da poco lavorato col controverso cineasta in La ruota delle meraviglie, scrive Pierre Hombrebueno il 24/01/2018 su "Bestmovie.it". Nonostante abbia lavorato con lui in La ruota delle meraviglie, Justin Timberlake ha scelto di non dissociarsi da Woody Allen (contrariamente a quanto hanno invece fatto altre star come Colin Firth, Rebecca Hall o Greta Gerwig), e durante gli ultimi Golden Globes, ha indossato la spilletta di Time’s Up, esprimendo così la sua solidarietà nei confronti del movimento contro gli abusi sessuali. A puntargli il dito contro, adesso, è però Dylan Farrow, la figlia adottiva di Woody, che sostiene ormai da diversi anni di esser stata violentata dal cineasta in tenera età. «Domanda random: qualcuno potrebbe spiegarmi il detto “Tu vuoi la torta e anche mangiarla”. Cos’altro dovrei fare con la torta?», ha scherzosamente twittato Justin, a cui è però seguita la risposta decisamente più seria della Farrow: «Questo detto significa, ad esempio, che non puoi sostenere #TIMESUP e nel contempo elogiare un predatore sessuale. Non puoi avere credibilità come attivista (avere la torta), e nel contempo, elogiare un predatore sessuale (mangiare la torta)». Insomma, il riferimento a Woody è chiaro e palese, non trovate anche voi? Nessuna replica, per il momento, da parte del musicista.

Molestie sessuali, da Woody Allen agli Oscar il deprecabile moralismo del cinema Usa. La polemica di Davide Turrini. Provate a chiedere a Woody Allen o a James Franco. Oppure provate a dare una sbirciatina alle nomination degli Oscar 2018. Un concentrato di falsa coscienza da denuncia al garante del pudore. Insomma: “bravi ma basta” e subito, scrive Davide Turrini il 25 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Ma quanto sono ipocriti a Hollywood in questo periodo? Non che non lo siano mai stati, però ora si sta esagerando davvero. Provate a chiedere a Woody Allen o a James Franco. Oppure provate a dare una sbirciatina alle nomination degli Oscar 2018. Un concentrato di falsa coscienza da denuncia al garante del pudore. Insomma: “bravi ma basta” e subito. Quando durante il mini show delle nomination agli Oscar 2018 si è sentito il nome di Christopher Plummer tra i cinque concorrenti alla statuetta come miglior attore non protagonista si è subito capito dove si andava a parare. La damnatio memoriae che ha colpito Kevin Spacey qui trova il suo compimento. Pur di far capire che la politica dell’Academy è quella di fare sciò sciò ai presunti molestatori seriali ecco inserire un grandissimo attore (leggasi: siamo in una botte di ferro) che in pochi giorni ha rigirato decine di scene in fretta e furia per non far andare in malora mister Ridley Scott e soci produttori. Film orrendo, tra l’altro, Tutti i soldi del mondo, con un Plummer/Getty che la storia ha già dimenticato, come chiunque ha già dimenticato il film che, guarda caso, ottiene una nomination proprio per quel signore che sostituisce Spacey. Ma davvero? È successo sul serio? Sì, ma non solo. James Franco viene rocambolescamente accusato di molestie poche oredopo aver vinto il Golden Globe come miglior attore in una commedia, per il suo The disaster artist, film che peraltro sfotte perbene la pompa magna di Hollywood. Accuse tra le più raffazzonate della storia, ma tant’è, ci sarà il famoso giudice che giudicherà (sempre che si apra qualche processo visto che fino ad ora siamo a zero). Franco allora viene cancellato da ogni possibile nomination (film, regia, attore) e la sua commedia si accontenta di uno strapuntino tra i cinque nominati per la miglior sceneggiatura non originale che tanto Franco non ha firmato. Davvero? Ma siamo arrivati sul serio a questo punto?  Sì, e visto che un paio di anni fa tutto il comparto degli artisti afroamericani, che non sono pochini, si era leggermente incazzato perché non c’era nemmeno un attore o un tecnico afroamericano tra i nominati agli Oscar, meglio provvedere con gli interessi. I votanti dell’Academy, cioè l’industria del cinema stessa, riesuma un horror stupidino e ben poco memorabile come Get Out, un pasticciaccio brutto su quanto possano essere cattivi i bianchi nel tenere sottomessi i neri, e gli si assegna quattro nomination pesantissime: regia(!), film (!!), sceneggiatura originale (chiamate un’ambulanza) e l’apoteosi con il povero nerissimo Daniel Kaluuya tra i cinque migliori attori di fianco a Gary Oldman che rifà Churchill. Se qualcuno pensasse male non ha ancora visto il carico da dieci. Due paroline solo: Timothée Chalamet. È il ragazzino protagonista del film di Luca Guadagnino. Bravissimo in Call me by your name per carità, ma nemmeno fosse Shirley Temple. 22 anni e una carrierina timida da festa in parrocchia, pardon in sinagoga, che se lo sa Leo DiCaprio, a cui è stato detto di maturare secoli per guadagnarsi le nomination e poi l’Oscar, se lo mangia per traverso. Eppure Chalamet è quel ragazzino che dal basso della sua inesperienza ha scritto un post pubblico dove ha spiegato di donare in beneficenza (tra cui Time’s Up, sorella di MeToo) il suo cachet guadagnato a recitare per il nuovo film di Woody Allen, A Rainy day in New York. Già Allen il pedofilo a scoppio ritardato. O meglio il presunto pedofilo di cui si sa da più di vent’anni. Le stesse accuse provenienti dalla famiglia Farrow che rispuntano come funghi nel post Weinstein, tanto quanto si affollano gli attori che hanno girato film con Allen pronti a pentirsi di aver fatto film con lui e di donare anche loro i dollari provenienti dai relativi cachet. Prima o poi ad Allen qualcosa di brutto doveva accadere. Perché Hollwyood l’aveva snobbata perbene non apparendo alla cerimonia di premiazione sia quando vinse l’Oscar come miglior regista, per il miglior film e sceneggiatura nel 1978 per Io & Annie; sia nell’86 per la miglior sceneggiatura di Hannah e le sue sorelle. Allen una volta spiegò che doveva suonare al Michael’s Pub come di consueto, un’altra volta che si era addormentato presto e non aveva nemmeno acceso la tv. Ecco, di fronte al perbenismo e all’ipocrisia hollywoodiana, di fronte a questo deprecabile moralismo, un pisolino davanti alla tv ai prossimi Oscar dovremmo schiacciarlo sul serio.

Fulvio Abbate: «Molestato da piccolo, difendo Woody Allen e l’ironia». Lo scrittore Abbate, che, con sua cugina, ha subito gravi molestie da un amico di famiglia ha reagito con ironia e furia. E litigando con la madre davanti alla bara del padre, scrive Fulvio Abbate su “L’Inkiesta" il 22 Gennaio 2018. Anch’io, lo confesso con tranquilla sincerità, ho subito molestie, da ragazzino. Sarà stato il 1966, avevo dieci anni, e lui, il molestatore, A., era un amico di famiglia, un ragazzo circa venticinquenne, che mio padre aveva accolto come sorta di quasi nipote. Ho ritrovato l’episodio riflettendo sulle accuse ricevute da Woody Allen dalla figlia adottiva Dylan Farrow. Proprio lui, mito cinematografico di me ventenne. Ho amato “Prendi i soldi e scappa”, “Il dormiglione”, “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, “Amore e guerra”, immensa parodia tolstoiana, meno i film successivi, tolto “Harry a pezzi”, dove brilla la storia della già “miglior pompino dell’Unione donne ebree”, finita all’inferno insieme all’inventore degli infissi di alluminio anodizzato. Forse anche in nome di questo debito di riconoscenza artistica comincio a trovare insostenibile la valanga inquisitoria che, anche nel suo caso, sembra innalzare la cattedrale del nuovo puritanesimo sessuofobico. Tornando a me, giuro che le molestie subite hanno inciso davvero poco sul mio vissuto, assai di più su Serena, mia cugina, coetanea, che le ha vissute insieme a me, assai più di me, nella medesima circostanza. Proprio lei, anni fa, mi ha chiesto se potevo aiutarla a fare luce su un episodio dell’infanzia comune, che stentava a ricostruire, proprio le nostre molestie. Serena aggiungeva che le hanno lasciato una profonda traccia d’inadeguatezza, perché A., il pedofilo, evidentemente persona omosessuale, le diceva di preferire me, la preda maschio, a lei, vittima femmina. Serena aggiunge che A. potrebbe anche averla penetrata. Poi racconta le attenzioni che, sempre A., mostrava verso di me. Non ne ho memoria, devo aver rimosso tutto. Rammento invece però che anche in seguito la stessa persona abbia ancora provato a molestarmi, toccandomi nelle parti intime, questo sì, l’ho presente bene, insieme ai suoi morbosi discorsi, era già il 1969. Tornando a me, giuro che le molestie subite hanno inciso davvero poco sul mio vissuto, assai di più su Serena, mia cugina, coetanea, che le ha vissute insieme a me, assai più di me, nella medesima circostanza. Il pedofilo, evidentemente persona omosessuale, le diceva di preferire me, la preda maschio, a lei, vittima femmina. Woody Allen: anni fa, mentre mi trovavo nel salottino dietro le quinte del “Maurizio Costanzo show”, d’improvviso l’ho visto venire verso me, era lì per promuovere un film, dove recitava da non vedente. Che immensa rivelazione, gli ho perfino chiesto l’autografo, e intanto che lui prendeva il foglietto di carta dalle mie mani, ripensavo a quando, ovunque programmassero un suo film, fosse anche la più remota arena fuori città, c’ero. Woody Allen mi apparso, quel giorno, identico a Stan Laurel, la stessa nuca, il medesimo collo smagrito di Stanlio, e ancora nei suoi occhiali, nel suo smarrimento, abitava l’immensità della memoria cinematografica…Trovo delirante e non meno incomprensibile che si possa mettere all’indice l’opera reputata più “oscena”(sic) della storia della pittura, “L’origine del mondo” di Courbet, una “fica” in primo piano, in nome di un parossismo paranoico, nuovo standard di ossessione sessuofobica, che sembra voler portare tutto e tutti verso un maccartismo moralistico ossessivo. La mia simpatia per Woody Allen resta intatta, non per questo catalogherò le accuse della figlia adottiva come “infamie” o “lesa maestà” di un simbolo, direbbero altri, della terrazza newyorkese “radical chic” (sic). Il giorno in cui è morto mio padre, con lui composto nella bara, era il 2009, nel pomeriggio è arrivata la telefonata di A., il nostro pedofilo, ho così approfittato per dirgli la verità: “Sei un miserabile pedofilo, tieniti per te le condoglianze”. Lui, cadendo dalle nuvole, ha ribattuto “… ma che dici, Fulvio, non ti capisco, ma che sei pazzo?” Ho replicato scandendo poche parole, no-sei-tu-un-miserabile-non-chiamare-più. E ho riattaccato. L’ho fatto soprattutto per Serena, per vendicarla, ritenendo il minimo così risarcirla della violenza subita quarant’anni prima. Poi sono tornato da Gemma, mia madre, nella stanza della veglia. Quando lei mi ha chiesto chi avesse chiamato, ho risposto “… era A, tu lo sai che è un pedofilo, no?”.

E lì, mia madre, sebbene donna libera, di più, comunista libertaria indifferente ai conformismi, ha replicato: “… ma che dici, Fulvio, ma figurati se A. è pedofilo!” Quasi le medesime parole dell’altro. Sono allora esploso, e nonostante avessimo papà lì, morto in casa, ho cominciato a urlarle un immenso “…non capisci davvero un cazzo, mamma, proprio un cazzo di niente, se ti dico che A. è un pedofilo, è come dico, ha pure violentato Serena!” Inutile precisare l’imbarazzo dei presenti alla nostra veglia, nella girandola di meravigliosi, reciproci, vaffanculo tra me e mia madre, irresistibile creatura con i suoi “… ma figuratevi, non ci credo, A. è una brava persona...” No, che non sono riuscito a fare breccia nella sua convinzione, e tuttavia rido ancora adesso se ripenso quel giorno, papà composto nella bara, Gemma irremovibile, i vicini imbarazzati, ma soprattutto la certezza di avere comunque salvato la verità, l’ironia, la stessa che serve a sconfiggere perfino i mostri. Peccato che Gemma non ci sia più, che disdetta non poterla chiamare anche adesso al telefono per dirle “non mi dire che continui a non credere che A. sia un pedofilo, eh, mamma?

Sono felice di avere trasformato l’orrore in metallo prezioso d’ironia, nonostante le ferite, le mie, e quelle di Serena, mia cugina, che amo. Racconto questa storia innanzitutto per fare giustizia delle violenze subite da Serena, però sapeste quanto abbiamo riso ieri al telefono mentre le ricostruivo lo scazzo con sua zia Gemma, il giorno della veglia funebre di zio Totò. Perché nonostante i segni profondi lasciati da quel comportamento eticamente inaccettabile, sono felice di avere trasformato l’orrore in metallo prezioso d’ironia, nonostante le ferite, le mie, e quelle di Serena, mia cugina, che amo. Nessuno mette in discussione le accuse di Dylan Farrow al padre adottivo, tuttavia trovo altrettanto esemplare la replica di Allen che, nega la molestia e cita un altro figlio adottivo, Moses, secondo cui la madre Mia Farrow “ha cercato senza tregua di mettere in testa a Dylan che il padre era un pericoloso predatore sessuale. Sembra che abbia funzionato, purtroppo Dylan crede veramente in quello che afferma”. Allen accusa a sua volta la famiglia Farrow di “sfruttare cinicamente l'opportunità offerta dal movimento Timès Up per ripetere accuse screditate: questo non le rende più vere”. Che pena per Colin Firth, già diretto dal regista in “Moonlight” nel 2013, quando dichiara “con Allen non lavorerò mai più”. Che fine abbia fatto il pedofilo A., davvero lo ignoro, non è più accaduto che richiamasse, non si è fatto vivo neanche quando Gemma, nel 2011, se n’è andata per sempre, senza che fossi mai riuscito a convincerla della verità delle cose, le cose subite. Il ricordo della nuca magra di Woody Allen, la sua camicia cachi, il modo di guardarmi, quel pomeriggio, lo smarrimento nei suoi occhi da miope, l’incertezza del passo, non li dimentico, li tengo con me ancora adesso, quasi fossi stato idealmente scritturato per recitare in suo film, una minuscola parte, intendiamoci, Woody Allen, io e Stan Laurel, e forse anche Oliver Hardy, noi quattro insieme, in cammino, a ridere, nel Sunset Boulevard, il viale del Tramonto dell’ironia.

IL LINCIAGGIO DI WOODY E IL GIORNALISMO CORPORATIVO.

Il linciaggio mediatico contro Woody Allen implica – se si postula la sua colpevolezza – la rivalutazione di tutte le nefandezze che si vedono quando si intraprende, soprattutto in America, una causa di divorzio contro un uomo famoso e potente, scrive Dimitri Buffa il 24 gennaio 2018 su "L’Opinione. Almeno nel suo ambiente culturale e lavorativo. Nefandezze che molto spesso comprendono false accuse di molestie sessuali ai figli che spesso sono l’ostaggio di queste cause (in) civili di divorzio. Ergo, proprio nella non postulabilità di tale colpevolezza – per giunta giustificandola con la pretesa potenza e influenza pubblica del personaggio – risiede quel che resta dello Stato di diritto. I media si dolgono - si legge - del processo cui vengono a volte persino loro sottoposti. È capitato, ad esempio, ai cronisti giudiziari da parte di questa o quella camera penale di una città italiana. Ma l’insorgere corporativo contro queste iniziative stride spesso, ormai molto spesso, proprio con la qualità del lavoro giornalistico espresso. E giustamente criticato. Ci si lamenta in particolare degli “osservatori sui media”. Ma non si considera che - così come De Benedetti ha presentato il conto di una spocchia pluridecennale che partiva da Eugenio Scalfari e si infondeva a tutto il corpo redazionale di “la Repubblica”, magari in maniera non signorile - anche i quisque de populo, la gente della strada, gli avvocati, i giornalisti con minor successo - e soprattutto con mancanza di quel protagonismo esibizionistico che poi garantisce la visibilità - sentono il bisogno di presentare il conto alla stampa costantemente in prima linea. In prima linea per scelta opportunistica non perché ce ne sia mai stato il bisogno. Era comodo avere il pm che ti passava sempre le notizie, che ti presentava i suoi ragazzi della sezione giudiziaria nelle forze dell’ordine... e via “per li rami”. Fico avere notizie così mentre i colleghi meno scafati, anche se non per questo meno bravi, dovevano tirare la carretta con il terrore del buco. Che poi si è visto quanto dopato fosse. Quei giornalisti che facevano i corifei a Di Pietro, che si sentivano molto squadra, e che spesso hanno rischiato di divenire una vera e propria “banda”, adesso sono sotto processo un po’ ovunque. La gente si chiede - e chiede loro - da chi siano stati pagati per fare diventare l’Italia un Paese forcaiolo a trazione para grillina. E in America chiedono conto a giornali autorevoli come il New York Times (e non solo) di varie porcate, tra cui quelle contro Woody Allen, fatte passare per colpi giornalistici. O come notizie utili per la società. Anche Donald Trump è stato bombardato, ed è tuttora sotto attacco, così. Si cerca un simbolo da infrangere, lo si fa badando poco alla sostanza e molto all’apparenza, con metodi spicci, e poi si costruisce una campagna moralistica politically correct da portare avanti a ogni costo. Spesso in sinergia con magistrati che si prestano. Ne sa qualcosa Berlusconi, in Italia. Il sesso in genere e le perversioni sessuali in particolare sono i benvenuti quando si cerca di fare scoppiare un caso. Ma la gamma dei pretesti da usare è pressoché infinita. In Italia i reati contro la Pubblica amministrazione sembrano essere considerati peggio che l’omicidio, ad esempio. Molti chiedono conto ai giornalisti - però - del crollo di vendita dei giornali e della scarsa frequentazione anche degli spazi giornalistici televisivi che non siano quelli calcistici. Infine si tende a imputare a questa informazione drogata, che è parente stretta di quella robotica che propala le fake news, la scarsa frequentazione delle urne da parte degli italiani. E in America, degli americani. Che comunque le urne non le frequentano mai volentieri. Quindi ora che sembra arrivato il “redde rationem” è inutile buttarla in caciara con il corporativismo o invocare sempre il sacro articolo 21 della Costituzione. Come qualcuno disse a Eugenio Scalfari che se la libertà di stampa “non si compra” allora nemmeno “si deve vendere”, a costoro, che sempre si appellano all’articolo 21 per mandare la palla in corner, qualcun altro ricorderà che chi è stato causa del proprio male, in maniera proterva e opportunistica, adesso non può chiedere a tutti gli altri una militanza di solidarietà. Per dirla alla romanesca, il tutto si riassume in un “ma de che?”.

Stiamo diventando mostri. Nel nuovo sistema di politicamente corretto, in cui il film di Louis CK non può essere visto, in Italia escono capolavori artistici come Massimo Boldi che fa il cuoco, ma soprattutto è concessa libera licenza di umiliare, scrive il 24 gennaio 2018 Matteo Vicino su "Rollingstone.it". Forse avrete notato, e certamente l’avrete fatto, negli ultimi mesi: Le donne di tutto il mondo hanno deciso di dire “#meetoo”, ovvero “anche io sono stata violentata, bistrattata, molestata, danneggiata, umiliata, sporcata nella mia innocenza” da un uomo. Questa rivoluzione è cominciata in California, le attrici di Hollywood sono insorte. Tutto è partito dall’inchiesta di Ronan Farrow, figlio di Mia Farrow e Woody Allen. L’uomo ha mantenuto il cognome della mamma, non del padre. Questa rivoluzione culturale sta avendo effetti benefici sui luoghi di lavoro, dove si auspica che la ripartizione economica tra i due sessi sia più equa. Queste donne hanno parlato anche in nome delle “altre”. E questo è sacrosanto, granitico, e benefico per un equilibrio maggiore non solo tra uomo e donna, distinzioni relative perché “la nostra natura è divisa in egual misura tra uomo e donna”, (Platone) ma per chi soffre. Ma le donne, o gli uomini e le donne, sono più liberi dopo questi mesi? Ogni rivoluzione, se tale sarà, e ho diversi dubbi a riguardo, fa cadere teste, e qui, a proposito di teste, ne sono cadute alcune che non dovevano cadere. E altre che cadono ogni giorno, meno note, ma altrettanto sensibili e degne di rispetto. Effetti collaterali. Quello qui sotto è il trailer di un film che forse non vedrete mai. Il suo titolo è I love you Daddy. Louis Ck è il più grande comico americano. In una società competitiva e di professionisti come gli Stati Uniti, essere il migliore lì significa essere il migliore al mondo. Louis Ck è il MIGLIOR comico al mondo. Un artista geniale, che nei suoi spettacoli viene applaudito per i suoi passaggi musicalmente matematici e perfetti nei temi di sesso, religione, parità tra sessi. Un “illuminato” della matematica della vita, tra l’ “Of course!” “But Maybe!”, un letterato della disciplina della felicità altrui grazie al racconto della sua miseria. Louis Ck ha scritto, diretto e montato un film su un suo possibile incubo, forse liberazione, un corto circuito in cui ogni uomo dotato di senno prima o poi incappa: “Mia figlia è una donna? Mia figlia è come tutte le altre donne? Un angelo? Una Prostituta? Una via di mezzo? Gli uomini sono tutti porci? Artisti? Mediocri?” Domande che l’artista si pone, sui conflitti eterni tra eros e logos. Un film dissacrante. Anche Stanley Kubrick sapeva che giocare su questi temi significa toccare le corde più profonde dell’esperienza umana.

Tre comiche professioniste, donne, hanno accusato Louis Ck di “molestia”, e lui si è ritirato dalle scene, al momento, e il suo ultimo film è stato letteralmente messo “al rogo”. Distribuzione cancellata, lotta agli Oscar svanita. Negli anni sessanta degli scontri per la parità razziale e la rivoluzione femminile, le pellicole e i libri scomodi sono sopravvissuti, in un modo o nell’altro, al rogo, inteso letteralmente come “bruciare fisicamente le pellicole”. Ma la rivoluzione culturale del Sessantotto era un inno alla libertà di espressione, comune.

Ultimo Tango a Parigi ad esempio fu condannato da una sentenza della cassazione il 29 Gennaio 1976, “alle distruzione di tutte le copie”. Le parole di Bernardo Bertolucci alla sentenza “Signori, magistrati, moralizzatori: vorrei sapere in quale forno crematorio sarà bruciato il negativo di Ultimo tango a Parigi. Con la vostra sentenza avete mandato in un campo di sterminio le idee al posto di alcuni milioni di spettatori adulti, gli stessi che si sono guadagnati il diritto di votare, di scioperare e di divorziare, colpevoli di aver amato, odiato o comunque di avere visto Ultimo tango. Ma non fatevi illusioni: nell’Italia del 1976 siete soltanto una minoranza in via di estinzione storica, naturale, biologica”. Si conta che Ultimo tango a Parigi sia il terzo film più visto della storia del cinema italiano.

Condannare Louis Ck al rogo da parte di un “organo di censura” sarebbe stato, seppur odioso, comprensibile, nell’esercizio delle proprie funzioni di potere. Ma qui? L’artista Louis Ck però, è diverso dal padre Louis Ck che è diverso dall’uomo Louis Ck. Il tribunale mediatico ha condannato al rogo non solo le opere di Louis Ck, ma anche la sua vita, il suo essere amorevole padre di due figlie, vittime di un tornado mediatico che segnerà loro per sempre. Il pubblico è stato privato dell’opera di un’artista da un tribunale precostituito, questa volta spontaneamente. Da noi stessi. Tutti i significanti e significati positivi delle opere di Louis Ck (una valga per tutte: “Mentre noi siamo in bagno, scrivendo un commento sarcastico su Facebook, qualcuno sta soffrendo miserabilmente per permetterci di farlo, costruendo telefoni come schiavo, dall’altra parte del mondo”) sono stati spazzati via. Messo nello stesso tritacarne di chi si presentava, lato Italia, nudo davanti ad attrici per un provino, o le violentava facendo credere che fosse una “esperienza artistica” e chi violenta senza nemmeno scuse o pretese artistiche. Sono tutti “violentatori” “molestatori”. I maschi, sono tutti uguali. E noi di converso “e le donne, sono tutte prostitute”. Stereotipi. Quanto vero? Quanto falso?

Ora, due sono le risposte. Proseguire in questa spirale e limitare sempre di più il “politicamente scorretto” a favore del “politicamente corretto”. Ma quante volte noi giudichiamo ogni giorno, su Internet, e lasciamo sfogo a ogni istinto? Se proseguiremo su questa nuova ondata di puritanesimo pubblico e di orrore privato (che Facebook rende pubblico) avremo sempre più libri come 50 sfumature di Grigio e sempre meno artisti come Stanley Kubrick, Louis Ck, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Rodari, e film come Shakespeare in Love. Un comico dovrà pensare decine di volte prima di ledere l’immagine del potere, una donna dovrà stare più attenta al suo comportamento, o altrimenti sarà travolta da commenti e ingiurie, e al tempo stesso tutti perderemo un po’ di noi a favore di questo ordine politicamente ineccepibile. La prima censura sarà l’autocensura. Questo è il dramma peggiore. Condannare l’arte alla mediocrità e le persone a non esprimersi in libertà.

Nell’epoca del politicamente corretto tutto è in corto circuito. Se stiamo contenendo la pubblica decenza, ci stiamo trasformando in mostri sui social network. Liberi di vomitare ogni insulto, ingiuria, offesa. E’ plausibile offendere il Presidente della Camera o una giornalista, o un amico, dando loro della “puttana”, “idiota” “coglione” “comunista” “imbecille” “ripieno di liquido seminale” “maiale” “dovresti essere appeso a testa in giù”, atti che sarebbero singolarmente tutti perseguibili, e dovrebbero essere perseguiti per legge.

Nel nuovo sistema di politicamente corretto, in cui il film I Love you daddy non può essere visto, l’Italia produce capolavori artistici come Massimo Boldi che fa il cuoco, ma soprattutto è concessa libera licenza di umiliare uomini e donne pubblicamente in gironi infernali di commenti su Facebook. Reclamiamo ordine ma siamo i primi a offendere, i primi a giudicare, i primi a rivolgere orribili epiteti, ben peggiori di qualsiasi stupro, a donne, giornaliste, medici, meccanici, esseri umani colpevoli a loro volta di manifestare il loro pensiero, qualunque esso sia. Questa è l’arte e la civiltà che ci meritiamo nel ventunesimo secolo? E’ questo il nostro “perseguir virtude e conoscenza?” Massimo Boldi? I nostri insulti su internet? Le opere troppo ardite sono bandite. Gli argomenti “scomodi” sono censurati. L’insulto e l’orrore sono accettabili, ma non la rappresentazione artistica ed elevata delle miserie umane attraverso l’arte. Questa epoca è oggi. Se sappiamo qualcosa dell’universo, è che esso è matematico. Un giorno vedremo I Love you Daddy. E con più arte, smetteremo di insultare e odiare il prossimo. Torniamo a credere nell’arte, ci salverà da ogni forma d’odio. La mamma di Ronan Farrow ha impedìto al proprio figlio di credere nel padre, gli ha insegnato l’odio, non tanto nei confronti degli uomini, quanto negli esseri umani in generale. Non è una splendida metafora? Odio porta odio.

Maria Pia Calzone sulle molestie: "Mai ricevute. Mi chiedevo sono così brutta?". Ora protagonista di Benedetta Follia, l'attrice racconta alcuni dettagli risalenti all'inizio della sua carriera, scrive Marta Proietti, Giovedì 25/01/2018, su "Il Giornale". È una delle protagoniste di Benedetta Follia, ultimo lavoro di Carlo Verdone, e fortunatamente non ha mai ricevuto alcuna molestia. Maria Pia Calzone racconta alcuni episodi risalenti all'inizio della sua carriera. Intervistata da Giuseppe Di Piazza, nella rubrica del Corriere "Controluce", Maria Pia Calzoneri percorre le tappe più importante della sua carriera, arrivata all'apice con l'interpretazione di "Donna Imma" in Gomorra. Ora nelle sale con Benedetta Follia, ultimo lavoro di Carlo Verdone, la Calzone non ha problemi a parlare del tema delle molestie sessuali, emerso con forza con il caso Weinstein. "Ad onor del vero - racconta - nella mia carriera sono arrivata seconda o terza o anche quarta negli ultimi due giorni di selezione, magicamente. Non mi sono mai state fatte grandi proposte perché penso che quella ragazza a lì (si riferisce a se stessa) si ponesse in un modo e avesse anche un retaggio culturale e familiare per cui dici questa...". "È inutile provarci", conclude la frase Di Piazza. Poi l'attrice continua ironizzando sull'argomento: "Io spesso con le mie amiche scherzavo ma dove sono i molestatori? io non li incontro. Ma sarò un cesso spaziale?".

Woody la strega: «Mi hanno assolto ma ho la peste!», scrive il 21 gennaio 2018 "Il Dubbio". Accusato di molestie dalla figlia, abbandonato dalle star. L’ultimo è Colin Firth, che promette: «Non lavorerò mai più con Woody Allen!». Tra una degustazione di vini umbri e una petizione contro la Brexit anche l’attore britannico si aggiunge alla lista di personalità dello spettacolo che hanno tagliato i ponti con il regista newyorkese. Prima di lui Rebecca Hall, Timothee Chalamet, Mira Sorvino, Greta Gerwig mentre Selena Go- mez protagonista dell’appena terminato A Rainy Day in New York sta ricevendo pressioni inaudite sui socialnetwork per dissociarsi pubblicamente, per prendere le distanze da Woody, l’orco pedofilo, il predatore compulsivo. L’accusa di aver molestato la figlia adottiva Dylan Farrow quando lei aveva sette anni è uno spettro che lo seguirà fino alla tomba. Poco importa che sia stato scagionato, che non si è mai arrivati nemmeno a un processo penale tanto inconsistenti e contraddittorie fossero le testimonianze contro di lui, e quanto fu chiaro agli inquirenti che l’ex moglie Mia avesse manipolato la bambina, la “società dello spettacolo” ha deciso che Woody è colpevole indipendentemente dai fatti, segnato per sempre. L’intervista rilasciata da Dylan Farrow alla Cbs ha poi fatto crollare altre dighe. La donna che oggi ha 32 anni ribadisce le accuse contro il patrigno prima di tuonare: «È vero, voglio distruggerlo, cosa c’è di strano?». Invitate nello studio televisivo altre dive del cinema come Nathalie Portman, Reese Witherspoon, Katleen Kennedy si commuovono in diretta e prendono le parti di Dylan, augurandosi che il tempo del regista «sia finalmente scaduto». Seguono gli applausi. Ormai Woody è una strega, un intoccabile, si dice anche che l’uscita nelle sale di A Rainy Day in New York sia a rischio. La pellicola è stata accusata di «immoralità» perché racconta la relazione tra una 15enne (Elle Fanning) e un uomo di mezza età (Jude Law) il che farebbe sorridere se oltreoceano la vicenda non fosse diventata molto seria e kafkiana, se le carriere non venissero stroncate in un frullar d’ali, i contratti stracciati, i nomi sbianchettati, i volti pixellati, i finanziamenti tagliati. A difendere Allen d’altra parte sono rimasti in pochi, tra loro l’attore Alec Baldwin che si è indignato per il linciaggio mediatico riservato al suo amico: «È triste e ingiusto vedere tutti questi colleghi che lo stanno abbandonando». Ma oltre alle motivazioni di principio agitate dai vari comitati di salute pubblica, c’è anche una ragione più meschina, più triviale dietro questo fuggi- fuggi. Come ha spiegato al Guardian Danny Deraney, agente di star hollywoodiane, accostare il proprio nome a quello di Allen è ormai sconveniente, Woody è tecnicamente «tossico» e lavorare con lui rovinerebbe la carriera a tante e tanti divi. Nel mondo dello spettacolo le regole di questo codice non scritto dell’esclusione hanno fatto a brandelli vite e carriere a tutte le latitudini. Lui, Allen, si difende con una lettera pubblica, «l’ultima che scriverò perché troppe persone sono state ferite», giura il regista dopo aver ribadito la sua innocenza: «Non ho mai molestato Dylan, ci sono state diverse indagini e tutte hanno dimostrato che non ho alcuna colpa che la bambina è stata manipolata da una mamma arrabbiata, usata come una pedina, come peraltro ha confermato Moses Farrow il fratello maggiore di Dylan. Far riemergere queste accuse un quarto di secolo dopo non le rende più vere o credibili».

Dylan Farrow accusa il padre in tv: "La mia verità su Woody Allen", scrive "La Repubblica" il 17 gennaio 2018. Nella sua prima intervista televisiva la figlia adottiva si scaglia contro il regista accusandolo di averla molestata quando aveva sette anni: "Posso solo sperare che qualcuno mi creda". "Perché non dovrei volerlo distruggere?": con gli occhi arrossati e pieni di rabbia, Dylan Farrow è apparsa in tv e si è scagliata contro Woody Allen nel corso di un'intervista alla Cbs, la prima in cui ha accusato il padre adottivo di averla molestata quando aveva sette anni. Dylan ha risposto alle domande di Gayle King per il programma Cbs This Morning: Cbs ha mandato in onda un estratto dell'intervista che sarà trasmessa integralmente il 18 gennaio. Dylan, 32 anni, fu adottata da Mia Farrow quando aveva due settimane e nel 1991 da Woody quando l'attrice e il regista sia misero insieme. "Sdegnata" dopo "esser stata ignorata per anni, o non creduta e messa da parte", Dylan ha detto di sentirsi "ferita" dall'indifferenza che ha circondato per anni le accuse che lei e la madre mossero contro il celebre regista, ma anche arrabbiata per la percezione di aver voluto cavalcare l'indignazione di movimenti come #MeToo e #Time'sUp per distruggere il patrigno: "Perché non dovrei volerlo distruggere? Perché non dovrei essere arrabbiata?". L'intervista, filmata nella casa di Dylan a Bridgewater in Connecticut, è la prima apparizione in tv della donna che per anni, da quando nel 2014 a Woody è stato conferito l'Oscar alla carriera, continua ad accusare il padre adottivo di molestie in lettere aperte e da ultimo, dopo i Golden Globe, in micromessaggi su Twitter: "Posso solo dire la mia verità e sperare che qualcuno mi creda", ha detto alla Cbs. Dylan Farrow, oggi 27enne (nella foto in braccio al padre), rinnova le sue accuse contro Woody Allen, colpevole - secondo quanto lei afferma - di averla molestata quando aveva sette anni, dopo che il regista e l'attrice Mia Farrow l'avevano adottata. In una lettera aperta al New York Times, pubblicata ieri on line, la ragazza rivela per la prima volta in pubblico ciò che sarebbe accaduto nel 1992. Dylan ha spiegato al columnist del quotidiano Nicholas Kristof che Allen "l'ha passata liscia" nonostante quello che ha fatto. A spingerla a parlare dell'accaduto è stato l'ennesimo premio alla carriera consegnato ai Golden Globes ad Allen: vedere Hollywood che continua ad acclamare il suo padre adottivo, ha detto, peggiora il suo tormento. Allen fu indagato per molestie su minore, tuttavia non fu mai accusato. Le accuse contro Allen sono emerse nel corso della guerra degli avvocati seguita alla separazione tra Woody e Mia e dopo che l'attrice aveva scoperto le Polaroid senza veli scattate dal regista a un'altra figlia adottiva, Soon Yi Previn, che poi è diventata sua moglie. Allen ha sempre negato le accuse. Quando quattro anni dopo Dylan era uscita allo scoperto, era tornato a smentire, definendo le affermazioni "non vere e vergognose". Di recente suo fratello adottivo, Moses Farrow, ha raccontato la sua versione dei fatti rivendicando l'innocenza del padre. Sulla scia dello scandalo delle molestie esplose a Hollywood con il caso Harvey Weinstein (a portarlo in luce è stato anche il figlio biologico di Woody e Mia, Ronan Farrow, con la sua inchiesta pubblicata sul New Yorker), numerosi attori hanno preso le distanze da Woody Allen: dopo la sua co-star Rebecca Hall, Timothée Chalamet ha annunciato che devolverà i compensi del film girato con il regista, A rainy day in New York all'iniziativa #Times'sUp e a fondazioni pro-gay e contro l'incesto. Scuse a Dylan sono arrivate nei giorni scorsi da altre dive dei film di Woody Allen come Mira Sorvino (La dea dell'amore, 1995) e Greta Gerwig (To Rome with Love, 2012). Sulla sponda opposta, Alec Baldwin (che ha lavorato con il regista in Alice del 1990, To Rome with Love e Blue Jasmine nel 2013) ha difeso il regista. "Due Stati hanno indagato su di lui, New York e Connecticut, e non ci sono state incriminazioni. Ripudiare il suo lavoro è triste e ingiusto".

Diane Keaton difende Woody Allen dalle accuse di molestie: "È mio amico e gli credo", scrive Giulia Echites su "La Repubblica" il 30 gennaio 2018. L'attrice, che per anni è stata legata professionalmente e sentimentalmente al regista, ha preso le sue difese: "È stato costruito un caso su qualcosa di mai accaduto". "Woody Allen è mio amico e io continuo a credergli". Con un tweet e senza troppi giri di parole Diane Keaton ha ripetuto di credere nell'innocenza di Allen al quale è stata legata professionalmente per anni e sentimentalmente per un periodo della sua vita. Per dimostrare la falsità delle accuse di molestia sessuale nei confronti della figlia adottiva Dylan Farrow, accuse mosse dalla ex moglie Mia Farrow e da Dylan stessa, Keaton suggerisce di riascoltare le parole di Allen nel 1992: "Potrebbe essere interessante riguardare l'intervista a 60 Minutes". Nella conversazione con Steve Kroft, fatta poco tempo dopo la notizia delle denunce, Allen sembra sereno e convinto: "È stato costruito un caso su qualcosa di mai accaduto - dice - Non si parla nemmeno di esagerare: non siamo nella situazione in cui io ho fatto del male a mia figlia e qualcuno sta provando a ingigantire la cosa, no, stiamo parlando di una cosa mai accaduta. Sono stati buttati milioni per esperti, avvocati, psicologi perché indagassero sul niente". Allen ha accettato fin da subito di collaborare con gli investigatori rendendosi disponibile anche a test psichiatrici: "Ho cinquantasette anni - continua nell'intervista - se avessi voluto molestare dei minorenni avrei avuto molte opportunità in passato. O avrei chiesto l'affidamento dei miei figli". Del divorzio, poi, parla in termini di una guerra intrapresa dalla ex moglie Mia Farrow che ha manipolato la mente dei figli contro di lui: "Dylan è stata indotta a raccontare questa storia. Qualche settimana prima che l'accusa venisse fuori, in una discussione telefonica, Mia mi disse: ho in mente qualcosa di orribile per te. Hai preso mia figlia e io prenderò la tua". Il riferimento è a Soon - Yi, figlia adottiva di Mia Farrow e del suo precedente marito André Previn. Sempre nel 1992 Farrow trovò in casa del regista foto nude di Soon - Yi, all'epoca maggiorenne e tuttora moglie di Allen. Quella scoperta fu la causa della richiesta di divorzio da parte di Mia Farrow. La prima volta che Dylan Farrow accusò pubblicamente Woody Allen, nel 2014 con una lettera aperta al New York Times, la ragazza si rivolse direttamente a Diane Keaton, ricordando i momenti trascorsi insieme quando lei era ancora una bambina. Subito dopo, però, in un'intervista al Guardian, Keaton confermò di non aver mai frequentato Dylan e di aver visto due o tre volte al massimo Mia Farrow, "praticamente non la conosco" disse. Nel 1993 i risultati degli esami medici dimostrarono che non c'era stata forma di abuso e il tribunale stabilì che non c'erano "prove evidenti" a supporto delle accuse di Dylan Farrow. Nonostante questo, Dylan, oggi 32 anni, continua ad accusare Allen. L'ultima volta, la prima con un'intervista televisiva, il 18 gennaio scorso in un programma della rete Cbs. Un altro che ha recentemente preso le difese di Allen è l'attore Alec Baldwin che ha definito "ingiusto e triste" il fatto che colleghi si scagliassero contro di lui. Non sono stati in pochi, effettivamente, gli attori e le attrici che, sull'onda dello scandalo Weinstein, hanno annunciato che non lavoreranno più con Allen o che doneranno i compensi ricevuti per girare i suoi film ad associazioni contro la violenza sulle donne e ai fondi istituiti dai recenti movimenti Time's Up e #MeToo. Greta Gerwig, Colin Firth, Ellen Page e Mira Sorvino sono tra questi, ma anche Timothée Chalamet, Selena Gomez e Rebecca Hall che sono i protagonisti dell'ultimo film di Woody Allen che è in lavorazione, A Rainy Day in New York e che, per questo motivo, potrebbe non vedere la luce. Fonti che hanno scelto di rimanere anonime hanno dichiarato al Post che l'ultimo film di Allen "potrebbe non uscire affatto o essere scaricato da Amazon - che produce - per problemi con il cast". Amazon non ha ancora commentato la notizia. Dalla fine del 2017 svariate inchieste giornalistiche pubblicate principalmente negli Stati Uniti hanno dato vita a un movimento di sensibilizzazione sui temi delle molestie e degli abusi sessuali nel mondo dello spettacolo, in particolare fra potenti registi, attori e produttori di Hollywood. Da allora molte personalità pubbliche, da Harvey Weinstein a Kevin Spacey, da Brett Ratner a Louis CK, sono state accusate da numerosi testimoni e conseguentemente allontanati dai loro vari progetti lavorativi. Questo ha causato poi una rapidissima reazione a catena in cui il movimento #metoo (così si sono chiamate le donne che hanno reagito alla situazione e protestato contro lo star system abusivo e maschilista) ha ottenuto molti risultati, scatenato qualche controversia (ad esempio con le accuse ad Aziz Ansari) e lasciato alcune spinose questioni in sospeso. Una delle principali riguarda sicuramente il regista Woody Allen. Non è un caso che una delle inchieste che ha inaugurato le accuse a Weinstein, pubblicata dal New Yorker, sia stata firmata da Ronan Farrow, ex figlio adottivo del regista, e che in questi ultimi mesi sua sorella, Dylan Farrow, sia ritornata a riproporre le accuse di abusi nei confronti del padre, risalenti a più di vent’anni fa. I dubbi sulla condotta di Allen sono sempre circolati negli scorsi decenni, anche se in molti hanno sottolineato piuttosto la levatura geniale del regista e le contraddizioni insiste nelle accuse a lui rivolte. Oggi, in un clima in cui ancora più radicalmente si sanzionano i comportamenti equivoci di svariati uomini di potere, il caso di Allen lascia perplessi per diversi motivi e la complessità della vicenda rischia di spaccare lo stesso movimento femminista.

Nel 1979 Woody Allen e l’attrice e attivista Mia Farrow iniziarono una relazione che sarebbe durata dodici anni. Prima dell’inizio della loro storia, Farrow aveva già sette figli, alcuni dei quali adottati, come una ragazza coreana di nome Soon-Yi Previn e un bimbo coreano chiamato Moses Farrow. Durante gli anni in cui fu con Allen, Farrow adottò da sola un’altra bimba, Dylan, e poi ebbe con il regista un figlio naturale, Ronan, nel 1987 (anche se un articolo di Vanity Fair sostiene che quest’ultimo sarebbe invece figlio di Frank Sinatra, ex marito di Farrow, con cui rimase sempre in buoni rapporti). Sebbene gli accordi iniziali fossero che Allen, il quale viveva in un’altra casa, non si sarebbe occupato attivamente dei figli, dopo la nascita di Ronan avviò le pratiche per condividere l’adozione anche di Moses e Dylan. Le cose precipitarono però nel gennaio 1992: Mia Farrow trovò nella casa di Allen alcune foto di nudo scattate dal regista alla figlia adottiva di lei, Soon-Yi Previn, allora ventenne. Allen, che all’epoca aveva 54 anni, ammise di averle scattate qualche giorno prima e di aver da qualche settimana iniziato ad avere rapporti intimi con la ragazza. Il fatto scatenò un divorzio condotto con grande acrimonia, anche dopo il trasferimento di Soon-Yi in casa di Allen (si sposarono poi nel 1997). La grande differenza d’età e il ruolo paterno che più o meno apertamente Allen aveva ricoperto nei confronti della ragazza scatenarono parecchie polemiche, anche se di fatto non ci fu nulla di illegale. Ancora più controversi furono i fatti che avvennero nell’agosto di quell’anno: Dylan Farrow, figlia adottiva a quel punto oggetto (assieme a Moses e Ronan) di un’aspra lotta legale per la custodia fra il padre e la madre, avrebbe dichiarato che Allen le aveva toccato le parti intime in un pomeriggio passato da soli. Il regista rifiutò da subito le accuse, parlando di un tentativo di Mia Farrow di manipolare la figlia contro di lui (l’altro figlio, Moses, avvalorò la tesi del padre parlando a sua volta di abusi psicologici da parte della madre, mentre Ronan ha da sempre spalleggiato la donna e la sorella). Le indagini condotte nel 1993dalla polizia del Connecticut e poi dal tribunale di New York, non rese completamente pubbliche per tutelare la privacy dei minori, avrebbero smentito l’ipotesi dell’abuso sessuale, riferendo anche di incrogruenze nelle deposizioni di Dylan e di dichiarazioni orchestrate ad hoc da Mia Farrow. Ma il giudice, pur liberando Allen da ogni accusa, gli negò la custodia dei figli.

L’uomo e l’artista. In seguito allo scandalo Weinstein e degli altri accusati di molestie, Dylan Farrow è tornata a rendere pubbliche le sue accuse, ribadendo come lo status eccezionale di Allen come regista riverito da molti e in questi anni premiato e osannato l’abbia protetto dal rendere conto delle sue azioni (già nel 2014aveva dichiarato come lui fosse “la testimonianza del modo in cui la società fallisca nel proteggere le vittime di abusi”). Le reazioni non si sono fatte attendere, con molti attori, da Greta Gerwig a Timothée Chalamet, da Colin Firth a Mira Sorvino, che hanno dichiarato di essersi pentiti o di non voler più lavorare con Allen per via di queste ombre sul suo passato. In questi giorni anche Kate Winslet, protagonista dell’ultimo film del regista Wonder Wheel, ha detto senza fare nomi di essersi pentita di aver lavorato con “certi uomini di potere”, riferendosi probabilmente anche a Roman Polanski (accusato di stupro su una minorenne, quest’altro regista vive in Europa per evitare il giudizio negli Stati Uniti; negli anni Novanta, l’appoggio della stessa Mia Farrow alla sua innocenza resero per alcuni la posizione di quest’ultima ancora meno solida). In mezzo a tante prese di distanza ci sono però anche alcune manifestazioni di solidarietà. Alec Baldwin, diretto da Allen in film come From Rome With Love e Blue Jasmine, ha detto che le accuse al regista sono “ingiuste e tristi”, che l’atteggiamento degli attori che lo ricusano è ipocrita e ha paragonato Dylan Farrow al personaggio di Mayella ne Il buio oltre la siepe (dimenticando che questo personaggio sì accusa ingiustamente di violenza un uomo di colore ma è in realtà abusata dal suo stesso padre). Anche Diane Keaton, collaboratrice storica di Allen e che con lui ha avuto anche una relazione, ha difeso il regista: “Woody Allen è un mio amico e continuerò a difenderlo”.

Da entrambe le parti, in questa ingarbugliata vicenda, le relazioni personali dunque si sovrappongono all’oggettività dei fatti ed entrambe queste cose al valore artistico dei film dello stesso Woody Allen. Se da una parte c’è chi invoca una specie di damnatio memoriae nei confronti della sua opera, dall’altra c’è chi sostiene che bisognerebbe distinguere l’uomo dall’artista e che, storicamente, grandi capolavori sono venuti da persone dalla dubbia moralità. In tutto ciò, circolano notizie sempre più insistenti secondo cui Amazon, che ha prodotto e distribuito i più recenti film del regista, sia intenzionata a chiudere i suoi rapporti con lui, mettendo in forse l’uscita del suo prossimo lavoro, A Rainy Day in New York, previsto per la fine di quest’anno (e già di suo controverso: secondo alcune indiscrezioni sulla trama, il protagonista della pellicola, Jude Law, verrebbe accusato dalla moglie, Rebecca Hall, di avere rapporti con una quindicenne). A motivi di immagine e di rispettabilità (Amazon ha avuto accuse di molestie anche al suo interno, a cui ha reagito prontamente), si sommerebbe anche una più fredda convenienza economica: secondo il New York Times gli ultimi quattro film di Allen sono stati un flop negli Stati Uniti, raccogliendo meno di 27 milioni di dollari a fronte di 85 milioni di costi di produzione (marketing escluso). E alla base di ciò ci sarebbero non controversie personali, ma una vena artistica ormai ripetitiva e per certi versi superata dai tempi. Resterà da capire se la fine dell’artista arriverà prima e indipendentemente o proprio a causa della fine dell’uomo.

Kate Upton accusa di molestie il co-fondatore di Guess. In due post sui social la Upton ha attaccato Paul Marciano e accusato il brand, scrive Luca Romano, Giovedì 01/02/2018, su "Il Giornale". È un altro nome importante quello che si aggiunge al novero delle donne che in questi mesi sono uscite allo scoperto per denunciare casi di molestie sessuali. Questa volta a schierarsi con il movimento "me too" è la modella 25enne Kate Upton, che sui suoi profili social ha pubblicato due messaggi con i quali accusa Paul Marciano, co-fondatore di Guess. "È una delusione che un marchio femminile iconico come Guess abbia ancora Paul Marciano come suo direttore creativo", ha scritto la Upton su twitter, per poi pubblicare un secondo messaggio su Instagram, aggiungendo: "Non dovrebbe essergli consentito di usare il suo potere nell'industria per molestare sessualmente e a livello emotivo le donne". La Upton non ha fornito maggiori dettagli sulle sue accuse, né specificato se lei sia stata vittima di molestie o se stesse parlando per altre donne.

Il Bene e il Male, la Bella e la Bestia. Ecco cosa non mi convince del Me-Too, scrive Lea Melandri il 24 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Tolto il silenziatore su abusi, ricatti sessuali e molestie nei rapporti di lavoro, la ribellione ha preso la via e la rappresentazione più facili e più contagiose: il cacciatore e la preda, la vittima e l’aggressore, la Bella e la Bestia, il Bene e il Male. Il giustiziere è sempre stato anche il vendicatore e il liberatore. Nella stagione di Mani Pulite, Antonio Di Pietro inchiodò davanti alla tv milioni di cittadini/ e e infiammò anche le persone meno sospette di accondiscendenza riguardo al suo modo di operare. Se poi il giustiziere o la giustiziera è chi ha subito l’offesa, la violenza, il sopruso – come nel caso delle donne che in vari Paesi stanno denunciando molestie, stupri e ricatti -, l’eccitazione e il plauso arrivano al massimo, e di conseguenza anche l’animosità verso chi non riesce a infervorarsi allo stesso modo o, peggio ancora, verso chi avanza dubbi. Inutile dire che di fronte a un’onda montante sempre più incontrollabile, l’esercizio della critica è quanto di più prezioso ci si possa augurare. In Italia, più che dissensi, ci sono state voci che invitavano alla discussione o che avanzavano dubbi, intravedevano rischi. Tra queste anche la mia. Giustamente Loredana Lipperini, in un post su facebook faceva notare che è diverso parlare di stupro, di aggressione o ricatto sessuale sul lavoro o di molestie, tenendo conto che esistono anche “infinite sfumature” fuori da questi quattro casi. Ma, soprattutto, diceva quello che già sappiamo, e cioè che “la fascinazione del potere di lui” e, da parte dell’uomo, “la fascinazione della giovinezze e della mancanza di potere di lei” sono una componente del desiderio. Aggiungerei soltanto che si tratta del desiderio così come lo abbiamo ereditato da una cultura che ha considerato “naturale” per l’uomo l’attività, per la donna la passività, per lui la forza, la competizione, la conquista, per lei il dovere di rendersi desiderabile, soddisfarne le esigenze sessuali, assicurargli una discendenza, sostenerlo nel suo impegno civile. Seduzione e maternità – per quanto finalizzate al privilegio maschile – non potevano non essere impugnate dalle donne come un potere sostitutivo di altri, negati, tanto da garantire loro qualche piacere, impedire che diventassero solo schiave, prede, oggetti, mezzi “per un fine”. L’uomo stesso non poteva che nutrire verso quel corpo differente dal suo, sottomesso ma potentemente necessario al suo piacere a alla sua sopravvivenza, contraddittoriamente amore e odio, desiderio e paura, dipendenza e superiorità. E’ una storia senza dubbio complessa e ambigua quella che ha visto l’uomo accanirsi sul corpo che lo ha generato, che gli ha dato le prime cure e che incontra nella vita amorosa adulta, assumendo su di sé, come padre, marito, amante un potere che va dalla violenza manifesta a tutte le forme invisibili, confuse con l’amore, che portano alla sottomissione, alla dedizione femminile. Come si legano questa consapevolezza, arrivata alla storia in tempi relativamente recenti, e le pratiche con cui il femminismo fin dagli anni Settanta ha cercato di svincolare ruoli e identità imposte e dalle donne inconsapevolmente fatte proprie, con la campagna Me- Too? Dal caso Weinstein in avanti, quello che è successo è sotto gli occhi di tutti. Tolto il silenziatore su abusi, ricatti sessuali e molestie nei rapporti di lavoro, svelato il legame che c’è sempre stato, nella vita pubblica, tra potere e sessualità, la ribellione ha preso la via e la rappresentazione più facili e più contagiose: il cacciatore e la preda, la vittima e l’aggressore, la Bella e la Bestia, il Bene e il Male. Cancellata l’ambiguità su cui si è costruito il dominio maschile, intrecciato con le vicende più intime, cancellata la parte che le donne, loro malgrado, hanno avuto nel trasmetterlo.

Sull’editoriale di Maurizio Molinari sulla Stampa di domenica 21 gennaio si legge: «E’ un’atmosfera che si respira ovunque: nei tribunali dove fioccano le denunce contro i molestatori, sui media dove dilagano le testimonianze più dettagliate, nelle cene tra amici dove si discute di vittime e colpevoli, dentro le aziende che studiano regolamenti più rigidi (…). Dove gli avversari da battere non sono gli uomini come categoria ma solo quei singoli che danneggiano il prossimo e indeboliscono i diritti di tutti». Il problema non è più quello di ricomporre i pezzi che man mano vengono allo scoperto di un sistema, di una cultura, di una dominazione che deve la sua durata al fatto – come dice Pierre Bourdieu – di essere inscritti nelle istituzioni pubbliche ma anche “nell’oscurità dei corpi”, ma solo di togliere di mezzo le mele marce, separando il Bene dal Male, la normalità dalla perversione. Se per il femminicidio si è potuto faticosamente uscire dalla patologia del singolo, il Me-Too sembra avviato a procedere in senso opposto, anche se il consenso che riceve può avere l’apparenza di una pratica collettiva. Dopo la messa alla gogna e i processi mediatici di Di Pietro, la corruzione è tornata a proliferare più rigogliosa che mai. “Se non ora quando” ha fatto cadere il governo di Berlusconi ma, da quello che vediamo oggi, non ne ha incrinato la credibilità umana e politica. In Italia non c’è Hollywood e non c’è Trump, ma c’è un settore delicatissimo e già nell’occhio di chi preme per la sicurezza, il controllo, la denuncia, l’espulsione: è la scuola. Le molestie, in questo caso, significano abuso, violenza su minori. Capri espiatori non saranno quei pochissimi insegnanti di sesso maschile che tentano approcci con le loro allieve, ma le donne presenti nella stragrande maggioranza, e le più esposte saranno quelle che tentano di aprire il loro compito educativo alle problematiche del corpo, della sessualità, dei generi. E’ già accaduto, ma mentre in passato era qualche isolato genitore o insegnante di religione a denunciare, adesso sono parrocchie e famiglie organizzate a farsi giustiziere in nome dei valori tradizionali. Chiediamoci se non vanno nella stessa direzione le proposte di legge in materia di video sorveglianza nelle scuole di infanzia e di test attitudinali per le maestre.

IL PRIVILEGIO DI ESSERE CARNEFICE…

Rosemarie Aquilina, la giudice perfetta del caso Nassar: «Lasciate qui il vostro dolore», scrive il 24 gennaio 2018 Chiara Pizzimenti su Vanity fair. Le ginnaste Usa hanno potuto parlare grazie a questa donna che ha trasformato il processo al medico che abusava di loro in una catarsi collettiva: «Nemmeno nell’esercito ci sono persone forti come te», ha detto a una ragazza abusata. «Sei un’eroina» «Nemmeno nell’esercito ci sono persone forti come te. Sei un’eroina, anzi una supereroina e la Mattel dovrebbe fare giocattoli che somiglino a te così che le bambine dicano: “Voglio essere come lei”. Grazie per essere qui oggi e grazie per la tua forza». Rosemarie Aquilina, la giudice del processo al medico molestatore delle ginnaste americane Larry Nassar, lo ha detto a Bailey Lorencen, una delle 140 ragazze arrivate a testimoniare contro il mostro. Lo ha detto a lei, sono però parole che valgono per tutte. A molte ha dedicato un sorriso pur non perdendo la sua compostezza, ha dato consolazione fazzoletti, ha ascoltato tutte e soprattutto ha obbligato Nassar a sentirle una ad una. «Per lei può essere dura ascoltare – ha detto la giudice – ma non sarà mai tanto devastante quanto è stato per le sue vittime passare ore nelle sue mani. Ascoltarle per 4 o 5 ore al giorno è nulla considerando le ore di piacere che ha avuto a loro spese, rovinando le loro vite». Così lo ha liquidato quando ha chiesto di non assistere alle deposizioni delle ragazze prima della sentenza nei suoi confronti. Ha detto che la richiesta non valeva nemmeno la carta su cui era scritta. Non è donna che lascia le cose a metà la giudice Aquilina. «Lasciate qui il vostro dolore – ha detto – e tornate nel mondo a fare cose meravigliose». Per tutte ha trovato una parola personale. Ad Amanda Cormier, che ha raccontato di come amava la musica prima degli abusi ha detto: «Qui oggi hai ritrovato la tua voce. È forte. Aspetti un bambino. La tua prima canzone può essere una ninna nanna». Tutte ha ringraziato per aver parlato. La 59enne, giudice in questa corte del Michigan dal novembre 2008, ha detto apertamente che vorrebbe vedere Nassar in prigione per tutto il resto della sua vita. È lei che ha permesso che tutte le ragazze parlassero, non solo per il bene del processo, ma affinché potessero liberarsi pubblicamente del peso che avevano portato in silenzio per anni. Erano 88 all’inizio, alla fine hanno parlato in 150. Hanno parlato per quanto hanno voluto: loro, i loro allenatori e i loro familiari. È stato un approccio non convenzionale, ma la signora Aquilina è tutto fuorché convenzioni. Ha la reputazione di chi dice le cose in faccia e pare porti stivali da cowboy sotto il vestito, oltre ai capelli neri spesso raccolti in alto. Ha scritto romanzi gialli, condotto un programma radio di consigli legali sulla famiglia e servito per vent’anni nella guardia nazionale del Michigan, il Jag, la procura militare, prima donna dello stato. Come la chiamavano? Barracuda Aquilina. Mandò anche un messaggio a Obama dicendo che doveva essere pronto a sborsare soldi federali per un caso di bancarotta che aveva seguito. Insegna al Michigan State University College of Law e alla Thomas M. Cooley Law School. Rosemarie Aquilina è madre single di 5 figli. I primi hanno più di trent’anni, gli ultimi due, gemelli, sono nati quando aveva 52 anni grazie alla fecondazione in vitro. Padre maltese e madre nata in Germania, lei è cresciuta negli Usa di cui è cittadina da quando aveva 12 anni. Da sempre è fiera sostenitrice della giustizia. Anche quando passa per vie meno abituali del solito. La distanza e l’imparzialità del giudice in un caso come questo, nell’ascolto delle ragazze, hearing in inglese, poteva venire meno e così è stato. Tutte le hanno detto grazie. Nelle parole del padre di una delle vittime: «Giudice Aquilina, ha il mio applauso, il nostro applauso, quello di tutta l’aula».

Chi è Rosemarie Aquilina, la giudice cha ha condannato Larry Nassar, scrive il 25 gennaio 2018 su "Lettera Donna". Il medico sportivo era accusato di molestie e violenze sessuali nei confronti di 150 atlete americane di ginnastica artistica. E lei le ha fatte testimoniare tutte, compresi allenatori e familiari. Oltre al mondo del cinema e quello della politica, ce n'è un altro colpito dallo scandalo delle molestie e violenze sessuali: lo sport. Per essere precisi, la ginnastica artistica americana. La denuncia di Rachael Denhollander ha dato il via al caso: da un lato le atlete, dall'altro il medico sportivo Larry Nassar, condannato il 24 gennaio 2018 dalla giudice Rosemarie Aquilina a 175 anni di reclusione. Come si può capire bene dalla sentenza l'ex dottore della Nazionale degli Stati Uniti era accusati di fatti gravissimi e, secondo le testimonianze, ha abusato di almeno 150 giovani ginnaste. Proprio per questo, il magistrato ha scelto un metodo non esattamente convenzionale: ha dato l'opportunità a tutte le sportive, ai genitori e agli allenatori di parlare liberamente senza limiti di tempo. E ha obbligato Nassar a sentire ogni secondo. Il motivo? «Per lei (il medico condannato, ndr) può essere dura ascoltare ma non sarà mai tanto devastante quanto è stato per le sue vittime passare ore nelle sue mani», ha detto la giudice. E ha proseguito: «Ascoltarle per quattro o cinque ore al giorno è nulla considerando le ore di piacere che ha avuto a loro spese, rovinando le loro vite». In un primo momento, infatti, Larry Nassar aveva chiesto di non essere presente nell'aula durante le testimonianze. Richiesta respinta.

UNA TESTIMONIANZA CHE SEMBRA UNA LIBERAZIONE. Nonostante il metodo, la scelta della giudice Rosemarie Aquilina è stata dettata da una profonda umanità. Come se raccontare di nuovo quelle ore buie, per le ragazze, fosse come liberarsi da un peso, per molte tenuto nascosto per anni. Basti pensare che all'inizio le denunce erano 'solo' 88 (tra cui quella di Simone Biles) e alla fine del processo sono state 150. Si potrebbe dire che si è trattato quasi di una seduta di gruppo.

IL PASSATO MILITARE DI BARRACUDA AQUILINA. Il metodo della giudice ricalca molto il suo modo di essere e, soprattutto, il suo passato professionale. Rosemarie Aquilina, infatti, ha fatto parte per 20 anni della guardia nazionale del Michigan, nel Jag (Judge advocate general, famoso all'estero per essere anche il nome di una serie tv di successo, creata e prodotta da Donald P. Belisario, la mente di altri serial piuttosto conosciuti come Magnum P. I. e Ncis). In pratica si parla di procura militare e lei è stata la prima donna dello Stato. Aveva anche un soprannome curioso: Barracuda Aquilina. Una tipa non proprio tranquillissima.

LA MAMMA, L'INSEGNANTE, LA CONDUTTRICE RADIOFONICA E LA SCRITTRICE DIETRO IL GIUDICE. Ma Rosemarie Aquilina non è soltanto un giudice, o meglio non sempre e solo stata un magistrato e un avvocato. È anche una mamma single di 59 anni: i suoi primi tre figli hanno superato ormai i 30 anni, mentre gli ultimi due, gemelli, li ha avuti soltanto sette anni fa tramite la la fecondazione medicalmente assistita. È anche insegnante della Michigan State University College of Law e della Thomas M. Cooley Law School. In passato ha fatto anche altre cose, come condurre una trasmissione radiofonica in cui dava consigli legali sulla famiglia e ha scritto romanzi gialli. Altra curiosità su Rosemarie Aquilina: non è nata negli Stati Uniti ma ha preso la cittadinanza a 12 anni. Suo padre, infatti, è di Malta, mentre la madre è tedesca.

LARRY NASSAR È UN MOSTRO, MA UN MOLESTATORE SERIALE NON È UN OMICIDA SERIALE, scrive il 25.01.2018 Giornalettismo. Larry Nassar, l’ex medico della Nazionale statunitense di ginnastica e dell’Università del Michigan, è stato condannato all’ergastolo per aver abusato sessualmente di circa centocinquanta atlete. La giudice Rosemarie Aquilina ha stabilito che dovrà rimanere in carcere 40 anni, e nel caso fosse ancora in vita la pena aumenterebbe a 175 anni.  Larry Nassar durante il processo aveva ammesso di aver penetrato con le dita le ginnasta, e di essersi anche masturbato davanti a loro. Si tratta di crimini orrenti, senza alcun dubbio, e una pena esemplare nei confronti di chi violenta sessualmente una persona è giusta. La condanna al carcere a vita però appare un’espressione di una non cultura giuridica.

Larry Nassar è un mostro, ma un molestatore seriale non è un omicida seriale. La pena deve essere relazionata alla gravità del reato commesso: se praticare violenza sessuale in modo seriale provoca il carcere a vita, come punire altri crimini più gravi come gli omicidi? Le parole di Rosemarie Aquilina possono scaldare i cuori ed emozionare, ma la giudice sbaglia quando dice a Larry Nassar che «così come è stato mio onore e privilegio difendere queste ragazze, è mio onore e privilegio emettere una sentenza nei suoi confronti. Perché lei, signore, merita di restare in prigione per sempre».  Anders Breivik, il serial killer che ha ucciso un numero di giovani paragonabile alle ginnaste americane abusate da Larry Nassar, è stato condannato a 21 anni di carcere per il più grave massacro nella storia recente d’Europa. In Italia Guerlin Butungu, il principale responsabile dei bestiali stupri di Rimini, è stato condannato a una reclusione di 16 anni, scontata di un terzo. Butungu aveva però dodici capi di imputazioni, e la pena così alta è stata determinata da crimini non legati alla violenza sessuale mostruosa effettuata contro la ragazza polacca e la transessuale peruviana. Chi violenta è sicuramente un mostro a livello morale, ma il diritto non può e deve cedere al lato emotivo quando si tratta di stabilire una giusta pena. Larry Nassarin Italia sarebbe stato probabilmente condannato a una pena superiore ai 10 anni di carcere, ma lontana dall’ergastolo rappresentato dai 175 anni come massimo indicato. Rosemarie Aquilina non ha ragione quando dice che chi ha abusato sessualmente di centinaia di ginnaste meriti il carcere a vita, e dobbiamo esser felici perché una simile pena sarebbe impossibile in Italia e in Europa.

Non c’era un giudice in Michigan come invece ci fu a Gerusalemme, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri il 25 Gennaio 2018 su "La Voce di New York". Spesso, anche dagli Stati Uniti, l’Italia riceve critiche, giustamente severe, nei confronti del suo sistema giudiziario. Ma certe tendenze sono universali. Basta osservare il giudice Rosemarie Aquilina durante il processo a Larry Nassar, il medico della nazionale di ginnastica USA condannato a 175 anni di galera per aver abusato delle giovani atlete. C’un giudice e c’è un imputato. Ma questa volta non siamo in Italia. Siamo negli Stati Uniti, in Michigan, Tribunale della Contea di Lansing. Lei, il giudice, si chiama Rosemarie Aquilina; lui, l’imputato, Larry Nassar. Già medico della nazionale di ginnastica USA, è stato condannato per avere commesso abusi di natura sessuale a danno di 160 atlete. In sette casi erano ragazzine, una di 13 anni. In un altro processo era stato già condannato per pedopornografia. Nel diritto penale statunitense ogni reato è punito con la pena per esso prevista; che sia unico reato, o che integri una più vasta serie di reati commessi dallo stesso autore. Perciò, a differenza che in Italia (dove, a certe condizioni, più reati vengono considerati un reato unico, e la pena è quella del solo reato più grave, aumentata sino al triplo) negli Stati Uniti ha luogo la pura e semplice somma delle pene. Ecco perché è consueto apprendere di condanne che possono giungere oltre il limite biologico, per es., “fino a 175 anni”, come in questo caso. O comunque ad una misura ad esso equivalente, per es., 60 anni, come nella precedente condanna per pedopornografia. E’ l’effetto di un diverso congegno normativo, non una bislaccheria. Non è invece parso effetto di una necessità propria del diritto il contegno del giudice Aquilina. Nel corso di questo processo, l’imputato, che già aveva confessato e riconosciuto le sue colpe, aveva manifestato una certa insofferenza per la durata dell’istruttoria dibattimentale. Inopportuno, visto che il processo formalmente è inteso a sua garanzia. Tuttavia, il giudice non si è limitata a spiegarglielo; ma ha dichiarato in aula: “nulla è più duro di quello che hanno subito le sue vittime nel corso di centinaia di ore… passare quattro o cinque giorni ad ascoltare quello che hanno da dire non è nulla rispetto alle ore di piacere che ha passato a loro spese, rovinando loro la vita”. Vale a dire, mentre i testimoni-persone offese deponevano (ed anche prima), aveva già deciso che l’imputato sottoposto al suo giudizio era colpevole. Che avesse confessato, nulla toglie o aggiunge ai doveri di un giudice. Proprio perché, sulla colpevolezza o meno di un accusato, non decide l’accusato stesso, ma, appunto, un giudice, dopo aver assunto le prove. Altrimenti, in entrambi i casi, ha luogo un pre-giudizio e non un giudizio. Ad una delle testimoni, durante la testimonianza, ha detto: “Sei un’eroina, anzi una supereroina e la Mattel dovrebbe fare giocattoli che somiglino a te così che le bambine dicano: ‘Voglio essere come lei’. Conclusa la superflua istruttoria, il giudice ha condannato. Si badi, nella realtà, potremmo anche essere moralmente certi della colpevolezza dell’imputato; come potremmo nutrire sentimenti analoghi a quelli espressi da quel giudice. Ma se il criterio di accertamento legale non è più giuridico, cioè razionale, ma morale, cioè interiore e non oggettivato, si è azzerata all’istante la sede Giudiziaria come fondamento di civiltà democratica, cioè, controllabile. Che distingue la sanzione dalla vendetta. E che pretende serenità interiore ed equidistanza: se pensava che le ragazze fossero eroine, e poteva liberamente pensarlo, doveva semplicemente astenersi dal giudicare l’imputato che quelle ragazze accusavano.  Fedele al suo personalissimo ruolo, nel comunicare la condanna, la giudice Aquilino ha perciò aggiunto: “E’ un mio onore e privilegio condannarla. Ho appena firmato la sua condanna a morte, non ha il diritto di uscire di nuovo da una prigione”. Che potrebbe sembrare solo una rude traduzione di quel numero di anni (175); ma l’avere richiamato la loro indubbia equivalenza alla pena capitale, ha solo confermato un compiacimento squilibrato e ingiusto. Come “il privilegio di condannare”. Mentre comunicava la sua decisione, il giudice ha preso i fogli recanti la memoria dell’imputato, ostentandone una scorsa inesistente; quindi, tenendoli come cosa impura, fra pollice e indice, li ha vistosamente lanciati in avanti, lontano da sè. Riferiscono le cronache, che la signora, per questo suo complessivo contegno, è diventata un’eroina dei social. Ecco: esattamente questo deve fare. Anche in Italia riscuoterebbe consensi. Per es. Vanity Fair (edizione italiana, appunto), ha titolato: “la giudice perfetta del caso Nassar”.

Se avesse invece curiosità di come si fa il giudice, e se non fosse troppo abbassarsi, può sempre dare un’occhiata ai filmati del Processo ad Adolf Eichmann: accusato di crimini contro l’umanità, costati la vita a sei milioni di prigionieri. Vedrà un uomo, Moshe Landau, il Presidente del Tribunale Distrettuale di Gerusalemme, indossare la toga: anche lui. Vedrà quel giudice intervenire più volte ad interrompere l’interprete, correggendo e migliorando la sua traduzione; durante l’interrogatorio dell’imputato, benché non fosse obbligato, rivolse le sue domande solo in tedesco, perché voleva essere sicuro che l’imputato capisse le domande, e potesse difendersi pienamente. Lo vedrà ascoltare testimonianze al limite dell’umano, con testimoni che svengono durante la deposizione, che si interrompono perchè sopraffatti da una folla di emozioni: uomini e donne a cui era stato sterminato ogni familiare, ogni conoscente, a cui era stato tolto tutto. Vedrà il Presidente Landau ascoltare in assoluto silenzio; mantenendosi vigile ma silenzioso anche prima, durante e dopo ogni suo intervento, teso a consentire che quelle infelicissime testimonianze riprendessero. Durante il processo, in Israele fu aspramente criticato per tutto questo; ma lui era un giudice; non doveva fare l’eroino. Non che non usasse interloquire con l’imputato: in un momento topico del processo, gli aveva detto: “un soldato deve anche avere una coscienza”. Ma quando lesse la condanna a morte per impiccagione di Eichmann, quell’uomo fra due altri giudici in toga, chino alla lettura, ma presente agli altri e a sè, lesse, non aggiunse una sillaba, e uscì dall’aula. Perché era un giudice, e aveva coscienza di esserlo.

FABIO CAMMALLERI. Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

DISSENSO COMUNE ED IL SISTEMA MOLESTATORE.

Oltre 120 attrici, registe, produttrici, donne che lavorano nella comunicazione dello spettacolo, hanno sottoscritto una lettera che muove dal caso Weinstein. Un testo che non vuole puntare il dito contro un singolo molestatore ma l'intero sistema di potere, scrive l'1 febbraio 2018 "La Repubblica". Si chiama Dissenso comune ed è una lettera manifesto firmata da 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo. Due mesi di incontri e confronti tra un gruppo sempre più largo di donne, per intervenire con la forza di un collettivo e non lasciare che le testimonianze dei mesi scorsi restassero solo voci isolate. Il primo passo verso una serie di iniziative per cambiare il sistema, non solo nel mondo dello spettacolo: “Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini”.

DISSENSO COMUNE. Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini. Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare. Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più. Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare! Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno. La scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: “Abituati o esci dal sistema”. Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza. Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni. La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non. La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza. La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema appunto.  È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte. Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura. Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo. Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema. Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura. Alessandra Acciai, Elisa Amoruso, Francesca Andreoli, Michela Andreozzi, Ambra Angiolini, Alessia Barela, Chiara Barzini, Valentina Bellè, Sonia Bergamasco, Ilaria Bernardini, Giulia Bevilacqua, Nicoletta Billi, Laura Bispuri, Barbora Bobulova, Anna Bonaiuto, Donatella Botti, Laura Buffoni, Giulia Calenda, Francesca Calvelli, Maria Pia Calzone, Antonella Cannarozzi, Cristiana Capotondi, Anita Caprioli, Valentina Carnelutti, Sara Casani, Manuela Cavallari, Michela Cescon, Carlotta Cerquetti, Valentina Cervi, Cristina Comencini, Francesca Comencini, Paola Cortellesi, Geppi Cucciari, Francesca D’Aloja, Caterina D’Amico, Piera De Tassis, Cecilia Dazzi, Matilda De Angelis, Orsetta De Rossi, Cristina Donadio, Marta Donzelli, Ginevra Elkann, Esther Elisha, Nicoletta Ercole, Tea Falco, Giorgia Farina, Sarah Felberbaum, Isabella Ferrari, Anna Ferzetti, Francesca Figus, Camilla Filippi, Liliana Fiorelli, Anna Foglietta, Iaia Forte, Ilaria Fraioli, Elisa Fuksas, Valeria Golino, Lucrezia Guidone, Sabrina Impacciatore, Lorenza Indovina, Wilma Labate, Rosabell Laurenti, Antonella Lattanzi, Doriana Leondeff, Miriam Leone, Carolina Levi, Francesca Lo Schiavo, Valentina Lodovini, Ivana Lotito, Federica Lucisano, Gloria Malatesta, Francesca Manieri, Francesca Marciano, Alina Marazzi, Cristiana Massaro, Lucia Mascino, Giovanna Mezzogiorno, Paola Minaccioni, Laura Muccino, Laura Muscardin, Olivia Musini, Carlotta Natoli, Anna Negri, Camilla Nesbitt, Susanna Nicchiarelli, Laura Paolucci, Valeria Parrella, Camilla Paternò, Valentina Pedicini, Gabriella Pescucci, Vanessa Picciarelli, Federica Pontremoli, Benedetta Porcaroli, Daniela Piperno,  Vittoria Puccini, Ondina Quadri, Costanza Quatriglio, Isabella Ragonese, Monica Rametta, Paola Randi, Maddalena Ravagli, Rita Rognoni, Alba Rohrwacher, Alice Rohrwacher, Federica Rosellini, Fabrizia Sacchi, Maya Sansa, Valia Santella, Lunetta Savino, Greta Scarano, Daphne Scoccia, Kasia Smutniak, Valeria Solarino, Serena Sostegni, Daniela Staffa, Giulia Steigerwalt, Fiorenza Tessari, Sole Tognazzi, Chiara Tomarelli, Roberta Torre, Tiziana Triana, Jasmine Trinca, Adele Tulli, Alessandra Vanzi.

124 DONNE DEL CINEMA ITALIANO CONTRO LE MOLESTIE. Asia Argento: "E' arrivata la letterina..." Dissenso comune, la lettera manifesto firmata da 124 donne tra registe, attrici e produttrici: le parole di Riccardo Scamarcio e Cristina Comencini sull'iniziativa, scrive il 2 febbraio 2018 Alberto Graziola su "Il Sussidiario". Dissenso comune, la lettera manifesto di 124 donne. Asia Argento non ci sta e si schiera contro Dissenso Comune. "Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle “donne del cinema italiano” contro le molestie. Contestano l'intero sistema ma si guardano bene dal fare nomi. Nei prossimi giorni interverrò sull’argomento, ora sono troppo incazzata", ha scritto l'attrice su Twitter. La lettera firmata da 124 donne del mondo del cinema italiano, per la figlia di Dario non è abbastanza e - soprattutto - non è arrivata in tempo. Un manifesto condiviso da tante donne famose che hanno voluto dire la loro, contro il sistema delle molestie sessuali, scoperchiato proprio dopo il caso di Weinstein. Asia non ha voluto partecipare e, intervistata da Hollywood Reporter ha spiegato anche perchè: "Innanzitutto mi sarebbe piaciuto essere stata coinvolta dall'inizio in questo dibattito" dichiara l'attrice, spiegando poi i motivi per cui non condivide il manifesto: "Certamente non rappresenta nulla di tangibile per cambiare il sistema su cui puntano il dito. Non denunciando i colpevoli, non avendo un piano d'azione concreto, non aderendo alla marcia delle donne, mi sembra che stiano solo lavando le loro coscienze per questi quattro mesi di silenzio assordante sul movimento #MeToo". (Aggiornamento di Valentina Gambino)

PARLA CRISTINA COMENCINI. Cristina Comencini, regista, sceneggiatrice e scrittrice italiana, ai microfoni di Vanity Fair, difende la lettere di “Dissenso comune” contro le molestie sessuali spiegando anche il motivo che ha spinto le donne del cinema italiano ad unire le forze per tale iniziativa. La Comencini spiega che le molestie esistono da tempo, ma che al giorno d’oggi, sono un fenomeno nuovo perchè nate in contesto nuovo in cui le donne, per la prima volta, hanno trovato il loro spazio. La Comencini confessa così quando è nata l’idea di scrivere la lettera: “Tre-quattro settimane fa, su impulso di un gruppo di attrici più attive: Jasmine Trinca, Alba Rohrwacher e Giovanna Mezzogiorno. Si sono riunite e hanno pensato a un documento che aprisse una discussione portante sul tema delle molestie” – dice e sulla decisione di non fare nomi, la Comencini ha spiegato – “Abbiamo scelto di ignorare i casi singoli, per guardare il disegno nel suo complesso. Abbiamo scelto di non fare nomi, per denunciare l’intero sistema. Abbiamo scelto di fare un passo indietro, per farne uno in avanti” (aggiornamento di Stella Dibenedetto).

IL PARERE DI RICCARDO SCAMARCIO. Nel giorno in cui 124 donne del cinema italiano hanno firmato la lettera di denuncia “Dissenso comune” contro le molestie sessuali, ai microfoni del Corriere della Sera, Riccardo Scamarcio esprime la propria opinione sul caso sollevato dallo scandalo Weinstein e si schiera con Catherine Deneuve che ha dichiarato che è necessario lasciare agli uomini la possibilità d’importunare le donne. “Bisogna distinguere tra lo stile di una persona e i reati. Poi c’è un aspetto trascurato, che il cinema è basato sulla seduzione e sull’erotismo tra le persone. La penso come Catherine Deneuve” – ha dichiarato l’attore che ha poi aggiunto – “Viviamo in una società pornografica che mercifica i corpi; perché sulle 500 mila vittime in Iraq il cinema non ha detto nulla? Mi chiedo perché Strauss-Kahn sia stato sbattuto in galera il secondo giorno e Weinstein sia ancora libero di girare. Il gioco al massacro di Hollywood non fa bene a nessuno, non mi piacciono i processi sui social”, ha spiegato ancora Scamarcio. Una posizione netta quella dell’attore pugliese (aggiornamento di Stella Dibenedetto).

LA SCELTA A CUI SONO COSTRETTE LE DONNE LAVORATRICI. “Abituati o esci dal sistema”: molte donne lavoratrici si trovano sempre più spesso a dover decidere se accettare compromesse pur di non perdere il lavoro o essere licenziate e dire basta ad un sistema corrotto e che, nonostante gli enormi passi avanti, resta pur sempre maschilista. E’ a questo che le 124 donne del cinema italiano che hanno firmato la lettera del «Dissenso comune» si riferiscono. Le attrici, produttrici, registe e sceneggiatrici del cinema, infatti, puntano a ribaltare un sistema sbagliato che compromette la posizione delle donne nel mondo lavorativo, costrette a dover rinunciare anche ad incarichi importanti pur di non accettare determinati ricatti. La lettere firmata dalle 124 donne del cinema, dunque, punta a dire basta ad una società sessista in cui, purtroppo, le molestie sono ancora all’ordine del giorno. Anche le donne normali, che lavorano come cassiere, segretarie e impiegate varie si sono ritrovate nelle parole scritte nella lettera del Dissenso comune che esprime il pensiero di tante donne rimaste, finora, in silenzio (aggiornamento di Stella Dibenedetto).

UN GRIDO PER DIFENDERE TUTTE LE DONNE. 124 donne del cinema si uniscono contro la violenza delle donne che, nel settore, continua ad esserci come hanno denunciato Le Iene in una serie di servizi che hanno portato a galla numerosi retroscena su ciò che accade durante i provini e non solo. La lettera firmata da 124 donne (leggi in basso per scoprire chi sono) non è il tentativo di mettere alla gogna registi e produttori ma è un grido con cui le donne cercano di difendere non solo se stesse ma anche tutte le donne che, in altri settori professionali, si ritrovano a vivere le stesse situazioni. Nel 2018, infatti, non sono pochi i casi in cui una donna è costretta a scendere a compromessi anche per avere un impiego da segretaria. Le Iene, in particolare, si sono occupate spesso di casi simili come quello di un imprenditore che richiedeva dalla propria assistente dei “servizi particolari”. Le 124 donne, dunque, puntano a sollevare l’attenzione sull’importanza di proteggere le donne non solo nel cinema ma in tutti gli ambienti. Dalla parte delle donne del cinema si sono così schierate tutte le donne lavoratrici (aggiornamento di Stella Dibenedetto).

LE IENE, LE PRIME A DENUNCIARE LE MOLESTIE NEL CINEMA. Sono 124 le donne che hanno firmato la lettera pubblica di "Dissenso comune". Sono attrici, registe e produttrici guidate dallo scopo di cambiare il sistema di potere dopo il caso Weinstein. “Non abbiamo paura” asseriscono, fiere e compatte, contro le molestie e gli abusi di potere presenti non solo nel settore dello spettacolo ma anche come messaggio per le donne di tutta Italia che si possono trovare in condizioni simili nel loro posto di lavoro. La dichiarazione è stata ripresa anche dal sito de "Le Iene" che ricordano come, per primi, abbiano affrontato il caso molestie nel nostro Paese, dopo lo scandalo Weinstein che ha provocato una reazione a catena in tutto il mondo: "Noi delle Iene, con l’inchiesta di Dino Giarrusso, abbiamo dato voce alle testimonianze di tante giovani attrici italiane e aperto per la prima volta la denuncia delle molestie nel nostro Paese dopo che il caso Weinstein ha fatto il giro del mondo. Da molti dei loro racconti è emerso il nome del regista Fausto Brizzi, costretto poi a lasciare la sua casa di produzione. Dalle parole delle donne che abbiamo ascoltato emergeva infatti un vero e proprio sistema, proprio come denuncia questa lettera. Che esprime solidarietà nei confronti “di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate”".

DISSENSO COMUNE, LA LETTERA FIRMATA DA 124 DONNE CELEBRI. “Dissenso comune”, si chiama così la lettera manifesto sottoscritta da 124 attrici e lavoratrici del mondo dello spettacolo. Dopo due mesi di incontri e confronti tra un gruppo sempre più grande di donne è arrivato questo testo, pubblicato su Repubblica, che non punta il dito contro un singolo molestatore, ma contro l'intero sistema di potere. Questo è dunque il primo passo verso una serie di iniziative con le quali queste donne vogliono cambiare il sistema. Lo scopo è chiaro: "Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini". Ci sono produttrici, attrici e registe che si sono unite in questa battaglia pubblica in un periodo storico che condanna, a gran voce, l'abuso di potere e le molestie sessuali. E' stato il celebre caso Weinstein a voler far prendere la parola a oltre centinaia di donne, insieme per ringraziare il coraggio di altre colleghe e per pretendere un cambiamento necessario della società, come loro stesso sottolineano: "Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza".

IL MESSAGGIO DELLA LETTERA MANIFESTO. Le donne che finora hanno firmato questo documento non vogliono creare scandali pubblici o mettere l'eventuale mostro in prima pagina e lo specificano da subito: "Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza". A chi domanda perché questa battaglia veda la loro discesa in campo, spiegano la motivazione in due punti chiave, partendo dal rapporto tra corpo e schermo: "La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non". Un altro punto essenziale è legato alla forza comunicativa e all'impatto che il loro messaggio più avere a livello mediatico: "Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza". 124 le firme raccolte in questa lettera, da Ambra Angiolini a Paola Cortellesi.

C'era davvero bisogno di "Dissenso Comune"? Fa discutere la lettera aperta co-firmata da 124 attrici italiane sul tema molestie sessuali, scrive Barbara Massaro il 2 febbraio 2018 su "Panorama". Una lettera tardiva, ruffiana e perfino codarda. Una presa di posizione importante per iniziare a scalfire un sistema malato. Sono queste le due reazioni contrapposte suscitate all'indomani della pubblicazione di Dissenso Comune, la lettera aperta co-firmata da 124 attrici del cinema italiano che contesta il sistema molestie sessuali sul posto di lavoro.

Dissenso Comune. Dopo due mesi d'incontri e di lavori e l'ampliamento del nucleo originario delle donne che hanno sentito l'urgenza di dire la loro sul tema, Dissenso Comune viene messa a punto tra (qualche) luce e (molte ombre). "Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini" recita il testo con un motto più da elezioni politiche che da manifesto culturale. Dopo i formali ringraziamenti alle donne che hanno avuto il coraggio di denunciare Dissenso Comune riflette sul senso che ha mettere alla gogna una singola persona assunta a capro espiatorio dell'intero sistema. "Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio - si legge nel testo pubblicato dal quotidiano Repubblica -  Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le "molestate" e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare". 

Vittime e carnefici. Le vittime così si trasformerebbero in imputate traslando la riflessione sui presunti interessi della donna e sugli eventuali vantaggi che avrebbe avuto a essere molestata e questo è pericoloso forviante. Nel testo poi si legge: "Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il gioco della seduzione. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza". A questo punto la riflessione si sposta e cerca di arrivare a comprendere le ragioni per le quali il tema delle molestie riguardi così tanto il mondo del cinema e dello spettacolo. "Perché il cinema? Perché le attrici? - si chiedono le 124 cofirmatarie - Per due ragioni. La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non. La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza". Secondo Dissenso Comune, quindi, il nodo centrale della questione è quello di andare a sradicare un intero sistema di violenza ormai culturalmente istituzionalizzato a più strati nella società. "Nominare la molestia sessuale come un sistema - conclude la lettera-  e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura. Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo. Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo molestatore. Noi contestiamo l’intero sistema". Tra le firmatarie ci sono Kasia Smutniak, Paola Cortellesi, Cristiana Capotondi, Ambra Angiolini, Cristina e Francesca Comencini e tante altre attrici.

La reazione di Asia Argento. L'assenza che salta agli occhi è quella di Asia Argento, tra le prime a subire la gogna mediatica per aver denunciato gli abusi subiti da Weinstein. L'Argento non sono non ha firmato quella che definisce via Twitter "La letterina di Babbo Natale", ma ha aggiunto, sempre via social "Contestano l'intero sistema, ma si guardano bene dal fare i nomi". Intervistata da Il Fatto Quotidiano Asia ha poi spiegato: "Aspetto gesti concreti, quelli che abbiamo fatto noi per prime: denunciando, aiutandoci a vicenda, denunciando i traumi, scendendo in piazza, gridando il vero dissenso contro al patriarcati. Allora sì potremo finalmente unirci e combattere veramente insieme". Sui social sono in molti a pensarla come Asia. C'è chi sottolinea come in nessun passaggio sia stato fatto il nome di Fausto Brizzi e chi spiega che, al di là dei massimi sistemi, sono i singoli uomini che devono rispondere delle proprie azioni. C'è chi vede nella lettera perfino un retaggio cerchiobottista tipico di una certa cultura politica italiana e chi si chiede quale contributo concreto ora le 124 donne possano dare per la causa.

Asia Argento contro #DissensoComune: "Troppo poco, troppo tardi", scrive il 02 febbraio 2018 “La Repubblica”. L'attrice intervistata da Hollywood Reporter si scaglia contro il manifesto delle donne del cinema italiano: "Mi sembra che stiano solo lavando le loro coscienze per questi quattro mesi di silenzio assordante sul movimento #MeToo". "Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle 'donne del cinema italiano' contro le molestie. Contestano l'intero sistema ma si guardano bene dal fare nomi". Così Asia Argento reagisce a caldo a #DissensoComune, la lettera firmata da 124 donne che, partendo dal caso Weinstein, si schiera contro "il sistema delle molestie sessuali" unendo le forze per "smascherarlo e ribaltarlo". Un manifesto condiviso da tante donne che lavorano nel mondo dello spettacolo, senza però l'adesione dell'attrice che per prima si è esposta nell'inchiesta di Ronan Farrow pubblicata sul New Yorker ricevendo in cambio insulti e reazioni polemiche. Un'assenza clamorosa quella di Asia Argento, che spiega la sua posizione in un'intervista a Hollywood Reporter: "Innanzitutto mi sarebbe piaciuto essere stata coinvolta dall'inizio in questo dibattito" dichiara l'attrice, spiegando poi i motivi per cui non condivide il manifesto: "Certamente non rappresenta nulla di tangibile per cambiare il sistema su cui puntano il dito. Non denunciando i colpevoli, non avendo un piano d'azione concreto, non aderendo alla marcia delle donne, mi sembra che stiano solo lavando le loro coscienze per questi quattro mesi di silenzio assordante sul movimento #MeToo". Asia partecipa attivamente al dibattito sui social: retwitta le parole di Miriana Trevisan ("Sarebbe più onesto dire: 'siamo costrette a non esporci perché il sistema è così radicato che perderemmo il lavoro'. Quindi non puntando il dito credete che il sistema venga smascherato? Negli Usa non mi pare che sia andata così") e attacca una delle firmatarie: "Cristiana Capotondi che aveva difeso il predatore Fausto Brizzi. Quanta coerenza". Poi, sempre su Twitter, Asia si rivolgendo direttamente alle firmatarie del documento #DissensoComune: "Aspetto dei gesti concreti, quelli che abbiamo fatto noi per prime: denunciando, aiutandoci a vicenda, condividendo i traumi, scendendo in piazza, gridando il vero dissenso contro il patriarcato. Allora sì potremo finalmente unirci e combattere veramente insieme". C'è chi la sostiene, come Francesca D'Aloja che ritira la firma dal manifesto: "Vorrei dichiarare pubblicamente il mio dissenso per non aver esplicitamente fatto il nome di @AsiaArgento nel doc #DissensoComune - scrive su Twitter. - Ho firmato perché le parole espresse sono sacrosante, tuttavia ho più volte sottolineato l'imperdonabile assenza di Asia, mi auguravo un ripensamento". 

Molestie sessuali, Asia Argento alle attrici italiane: "Fate i nomi", scrive Affari Italiani il 2 febbraio 2018.  Asia Argento alle attrici italiane scese in campo contro le molestie sessuali: "Fate i nomi". Molestie sessuali, appello attrici italiane, Asia Argento: "Facciano i nomi". Le attrici e registe italiane scendono in campo contro le molestie. Ma non c'è Asia Argento, la 'pasionaria' anti-molestie dalle cui dichiarazioni ha preso il via il caso Weinstein. Lo fanno con una lettera firmata da 124 donne, da Giovanna Mezzogiorno a Paola Cortellesi, da Alba e Alice Rohrwacher a Jasmine Trinca, da Valeria Golino a Cristiana Capotondi, da Roberta Torre a Laura Bispuri. Si chiama Dissenso comune ed è una lettera manifesto: "Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini", scrivono nell'incipit della lettrera che nelle loro intenzioni vuole essere il primo passo verso una serie di iniziative per cambiare il sistema, non solo nel mondo dello spettacolo: "Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una societa' che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini", scrivono. "La molestia sessuale è fenomeno trasversale. E' sistema appunto - si legge bel manifesto -. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poichè sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all'operaia, all'immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte. Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura. Noi non siamo le vittime di questo sistema concludono le 124 firmatarie - ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo. Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo "molestatore". Noi contestiamo l'intero sistema. Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura". Un manifesto, dunque, che non reca in calce la firma di Asia Argento. L'attrice e regista romana su Twitter a tarda sera parla di 'Lettera a Babbo Natale' delle colleghe e poi, in un'intervista sul Fatto quotidiano, rende esplicito il suo pensiero (anche se il tweet di ieri sera contro una collega non lascia troppo alla fantasia: "Cristiana Capotondi che aveva difeso il predatore Fausto Brizzi. Quanta coerenza! #Dissensocomune"). "E' solo un modo per pulirsi la coscienza da questo silenzio assordante - dichiara Asia a Silvia D'Onghia -. Non vedo un programma tantomeno 'politico'. E' tutto annacquato, non si capisce neanche cosa vogliono dire". Le 124 l'hanno contattata, racconta. "Anzi, le dico di piu'. Sono stata messa in una chat del gruppo e ho chiesto che venisse inserita anche Miriana (Trevisan, ndr). Non l'hanno contattata fino a un paio di giorni fa. Forse non la reputavano alla loro altezza. Io e Miriana abbiamo aperto questa porta e ci siamo beccate le bastonate. Però hanno fatto firmare anche Cristiana Capotondi che ha difeso Brizzi", aggiunge. Asia Argento ha chiesto alle colleghe di fare i nomi: "Non si può dire anche noi abbiamo vissuto e poi non dire di chi si sta parlando. L'attrice poi accusa le firmatarie di averla lasciata sola. "Non ho mai ricevuto un sms di sostegno delle attrici - racconta - e alcune di loro, quando le ho incontrate, si sono girate dall'altra parte. Capisco che magari si vergognavano di parlare con i giornali e le televisioni, ma almeno privatamente avrebbero potuto dimostrare solidarietà - conclude - Invece è stato il silenzio assoluto. Un silenzio assordante".

Cristina Comencini e la lettera sulle molestie: «Ecco perché non abbiamo fatto nomi», scrive su Vanity fair il 2 febbraio 2018 Francesco Oggiano. Tre mesi mesi dopo il caso Weinstein, arriva la lettera manifesto di oltre 120 attrici, registe, produttrici. Tra le firme Sonia Bergamasco, Cristina e Francesca Comencini, Jasmine Trinca, Sole Tognazzi. «Abbiamo scelto di ignorare i casi singoli, per guardare il disegno nel suo complesso. Abbiamo scelto di non fare nomi, per denunciare l’intero sistema. Abbiamo scelto di fare un passo indietro, per farne uno in avanti». Cristina Comencini difende il contenuto della lettera che ha firmato assieme a 123 colleghe dello spettacolo per denunciare, a tre mesi dallo scandalo Weinstein, gli abusi di potere nella società. 51 anni, la regista e scrittrice italiana da sempre attiva per la parità di genere, definisce l’iniziativa (Dissenso comune) come una chiave per far capire alla società «un problema nuovo, che riguarda tutte le donne in tutti i campi».

Perché parla di problema nuovo?

«Perché la violenza sulle donne è una cosa antica, ma usata in un contesto storicamente nuovo».

Ovvero? 

«Il contesto della libertà delle donne. Per la prima volta nella storia, le donne hanno invaso i luoghi di lavoro finora riservati ai soli uomini. Questi ultimi stanno “conoscendo” la libertà reciproca, in amore come in lavoro».

E alcuni reagiscono male…

«Vogliono “rimettere sotto” la donna, ridurla nuovamente a una condizione di subalternità. Per farlo, usano il potere e la forza. Strumenti antichi in contesti nuovi».

Quindi la molestia non è solo fisica. 

«Ma no, la molestia non è fatta solo per soddisfare il desiderio sessuale maschile. È una prova di forza messa in atto dall’uomo. La seduzione, al contrario di quello che dicono Catherine Deneuve e le donne francesi, non c’entra nulla».

Quando è nata l’idea di una lettera?

«Tre-quattro settimane fa, su impulso di un gruppo di attrici più attive: Jasmine Trinca, Alba Rohrwacher e Giovanna Mezzogiorno. Si sono riunite e hanno pensato a un documento che aprisse una discussione portante sul tema delle molestie».

La gestazione è stata piuttosto lunga. 

«Ci sono state discussioni, mediazioni per raccogliere i punti di vista di tutte le firmatarie».

Qual è stato il passaggio del testo più difficile?

«Quello in cui scegliamo di non fare nomi, né delle denuncianti né dei denunciati».

Asia Argento, che assieme a Miriana Trevisan non ha firmato la lettera, ha parlato di una «cosa annacquata per pulirsi la coscienza». 

«Vede, questo è un documento politico, di analisi di un sistema intero. Non volevamo perderci in querelle, in gossip che lasciano il tempo che trovano».

Anche per questo ci avete messo così tanto a farvi sentire?

«Sì, è una riflessione che arriva dopo, con la pacatezza di un ragionamento che non vuole essere scandalistico».

La domanda resta: perché non avete fatto nomi e cognomi precisi?

«Abbiamo ringraziato e dato solidarietà a tutte le colleghe italiane che hanno denunciato. Non potevamo mica fare la lista lunghissima di tutte».

Vista l’assenza di nomi, molti hanno definito la riflessione un po’ «generica». 

«Non siamo state generiche. Siamo state politiche. È molto più forte un messaggio che non cita singoli casi personali, seppure importantissimi, ma li usa come input per parlare di un problema della società».

Nella lettera scrivete che le molestie sono «successe a tutte noi con modi e forme diverse».

«Sfido qualsiasi donna giovane a raccontare di non avere mai avuto una pacca sul sedere, magari sull’autobus».

Perché dite che non bisogna mettere in dubbio la parola di una donna che denuncia di essere molestata? Se io vado a denunciare qualcuno per omicidio, mi aspetto che qualcuno valuti l’attendibilità della mia ricostruzione. 

«Troppe volte le donne sono state messe alla gogna ancora prima del molestatore. La domanda classica e più odiosa è: “Perché non l’hai denunciato prima?”. Ora, i singoli casi saranno valutati dai giudici. Noi non ci occupiamo delle cose processuali, anche per questo non facciamo nomi. Ma crediamo che quando una denuncia è così estesa, rappresenti una realtà gigantesca. Noi ci occupiamo di stimolare al cambiamento».

Cara Asia, questa volta sbagli…scrive Angela Azzaro il 3 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’attrice, protagonista del #metoo italiano attacca le colleghe che hanno scritto la lettera “Dissenso comune” in quanto «tardiva» e perché non cita i nomi dei molestatori. Ma la libertà delle donne passa davvero per la gogna e i processi sommari? Dopo il manifesto delle attrici e delle registe italiane a sostegno del metoo, è intervenuta duramente Asia Argento. Secondo la protagonista italiana delle denunce a Weinstein, sarebbe «troppo tardivo» e «troppo poco» perché non fa i nomi dei molestatori. Ma questa volta sbaglia lei. Cara Asia Argento, giusto denunciare ma sul manifesto delle registe sbagli «Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle donne del cinema italiano. Contestano l’intero sistema ma si guardano dal fare nomi». E’ questo il tweet con cui Asia Argento ha accolto polemicamente il manifesto di registe e attrici intervenute sul me- too. La presa di parola del gruppo di 120 sarebbe arrivato «troppo tardi» e direbbe «troppo poco». La «rabbia» di Asia Argento è dettata dalla necessità del manifesto “Dissenso comune” (così si chiama) di prendere le distanze dalla gogna, di non fare il nome di un singolo, ma di denunciare l’intero sistema di potere. Ma questo per l’attrice, che in Italia ha denunciato Weinstein, non basta, non serve, è un modo per sottovalutare il problema. Ma è davvero così? Serve fare nomi e cognomi in un manifesto per dare valore alla lotta contro le molestie? Sono convinta di no. Il rischio, del resto sottolineato dalle stesse donne dello spettacolo, è che archiviato il singolo caso, messo alla gogna quel regista o quel produttore, tutto torni come prima. E’ la logica del capro espiatorio che non ha mai risolto i problemi alla radice, ma ha messo in scena una punizione che lasciasse tutto intatto. Il problema, presente fin dall’inizio nella campagna del me-too, è quello di usare strumenti sbagliati per combattere una giusta battaglia. La battaglia è quella contro le molestie soprattutto in ambito lavorativo; gli strumenti sono quelli del giustizialismo, del processo mediatico, del voyeurismo. Margater Atwood, una delle più importanti autrici contemporanee, ha scritto un articolo molto duro contro questo meccanismo. «Il movimento me- too – si legge – è il sintomo di un sistema legale che sta andando a pezzi. Troppo spesso, le donne e altri denuncianti di abusi sessuali non potevano ottenere un’udienza imparziale attraverso le istituzioni – comprese le strutture aziendali – così hanno usato un nuovo strumento: internet. E le stelle sono cadute dal cielo. Ma se il sistema giudiziario viene aggirato cosa prenderà il suo posto? Chi saranno i nuovi mediatori del potere? Di sicuro non le cattive femministe come me». Atwood, prima di questo articolo, era stata fortemente criticata per aver difeso un professore dell’Università della Columbia Britannica accusato di stupro e poi assolto. Secondo l’autrice del romanzo distopico Il racconto dell’ancella, senza il sistema di regole si rischia di dare vita alla caccia alle streghe, ai roghi, al far west. E’ una degenerazione che in Italia vediamo in molti settori, dalla cronaca nera alla politica: ora tocca anche una questione così importante come la violenza sulle donne. Può un’istanza più che giusta usare metodi sbagliati? E può una giusta istanza, che usa metodi sbagliati, costruire le basi per aumentare il male che vuole sconfiggere? Sono domande che non possiamo non porci anche a costo, come dice Atwood, di apparire traditori o traditrici. Da Processo per stupro (il documentario del 1979) dove la vittima di violenza sessuale diventa l’accusata, si sono costruiti molti cambiamenti, dentro e fuori le aule di giustizia. Tanto resta ancora da fare, per trasformare la società e far sì che i rapporti uomo-donna non siano fondati sul potere e sull’abuso. Ma questa battaglia non può sacrificare lo Stato di diritto. E non tanto e solo per una questione di principio, ma perché come si chiede Atwood, «se il sistema giudiziario viene aggirato cosa prenderà il suo posto?».

Il manifesto delle registe va in questa direzione. Pone in maniera radicale la critica al sistema e chiede una trasformazione dei rapporti nel mondo del lavoro, ma non cade nel tranello dei processi sommari. «La molestia sessuale – scrivono – è fenomeno trasversale. È sistema appunto. È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi».

Per Asia Argento senza nomi questa analisi è acqua fresca. Ma questa volta, forse, sbaglia lei.

Vittorio Feltri contro le 124 attrici del manifesto contro l'uomo potente: "Ma chi ha il coraggio di sfiorarvi?" Scrive il 2 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano”. Un manifesto, firmato da 124 donne italiane del mondo dello spettacolo, tra attrici e televisione. Un manifesto con cui mettono sotto accusa tutti gli uomini, poiché "hanno il potere": secondo loro, infatti, qualsiasi luogo di lavoro è a rischio perché comandano i maschi. Una tesi bislacca, contro la quale si è scagliato Vittorio Feltri. Durissimo e politicamente scorretto, l'affondo è piovuto su Twitter, dove il direttore ha cinguettato: Guardo le foto di alcune firmatarie del manifesto contro le molestie nei confronti delle donne, e mi domando chi possa avere il coraggio di sfiorarle.

Antonella Clerici, il suo metodo infallibile contro le molestie sessuali: "Fingevo di non capire e me ne andavo", scrive il 31 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Ci sono mille modi per una donna di dire no ad avanches, anche le più ardite. Un esempio lo regala Antonella Clerici e la sua tecnica, a suo dire, collaudata. Alla Prova del cuoco, la conduttrice ha raccontato la sua esperienza sulle molestie sessuali e soprattutto il suo modo per evitarle: "Si può sempre dire di no. Poi io avevo una tecnica formidabile, facevo la finta tonta, fingevo di non capire e poi me ne andavo. Mi è capitato che uno mi facesse una proposta, credo un produttore. Mi disse 'vorrei qualcosa in cambio da te', mi fece capire che cosa voleva. Io gli dissi 'questa è la cassetta del provino, gliela buttai addosso e me ne andai'".

Le donne del cinema italiano contro il "sistema" sessista. Le nuove "pasionarie": solidarietà a tutte coloro che sono state molestate sul luogo di lavoro e non hanno voce, scrive Cinzia Romani, Venerdì 02/02/2018, su "Il Giornale".  Se non ora, quando? Adesso, mentre il caso Weinstein è ancora sullo sfondo e la scena risulta affollata di sfoghi postumi, anche venti-trent'anni dopo le presunte molestie, è adesso che urge la parola alle attrici italiane. Così centoventiquattro attrici, registe, produttrici e professioniste delle comunicazioni si sono confrontate per due mesi, firmando un manifesto, redatto in stile anni Settanta - come un volantino al ciclostile, però formato large e pubblicato su Repubblica on line - «per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini». Per la verità, le signore del cinema americano si erano già mosse da tempo fa sullo stesso terreno e ormai il movimento #MeToo, dopo le nomination agli Oscar, inizia anche a ricevere critiche e a essere al centro di alcune polemiche (anche da parte delle femministe). Però in Italia è sempre l'ora del «Dissenso comune», come s'intitola la lettera delle donne «unite per una riscrittura degli spazi di lavoro». Che cosa significa? Magari che Kasia Smutniak, brava attrice polacca tra le firmatarie del manifesto «contro il sistema», apprezzata anche dall'esigente Nanni Moretti, potrebbe smettere di recitare nei film prodotti dal compagno, il produttore Domenico Procacci. Così, tanto per «riscrivere gli spazi di lavoro». Oppure che la regista Cristina Comencini, figlia di Luigi che ha messo in cartellone il nome di lei e delle sue sorelle, correrà a rinnegare le opere sfornate sotto l'usbergo dell'ex-marito produttore, Riccardo Tozzi. Probabilmente Elisa Fuksas, figlia dell'archistar, sentirà il desiderio di farsi largo nell'audiovisivo da sola, adottando un nome d'arte per diversificarsi da papà. «Non è la gogna mediatica che ci interessa», vergano le vestali dello star system nostrano. Perché «la molestia sessuale non ha niente a che fare con il gioco della seduzione», chiosa l'attrice Valeria Solarino, nel tempo della sua carriera sostenuta dal compagno-regista Giovanni Veronesi. Anzi. «La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema», in un contesto di «sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi». Il linguaggio usato in tale dazibao da bacheca di Cinecittà ricorda certi stilemi usati dalle protofemministe pronte ai gruppi di autocoscienza. Soltanto che qui Miriam Leone, sovente senza veli sul set, e Giovanna Mezzogiorno, che nel film di Ozpetek, Napoli velata esibisce il suo corpo nudo per assecondare il desiderio del partner, non sono «attrici in quanto corpi pubblicamente esposti». No, esse hanno «il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro, la cui parola non ha la stessa voce o forza». Noi sappiamo che una segretaria d'azienda o una commessa di supermarket possono subire molestie sul posto di lavoro, o anche prima di arrivarci. Perché «la scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: Abituati o esci dal sistema», riflettono le 124 signore, che hanno la forza «per smascherare il sistema e ribaltarlo». Che cosa penserà, di tali affermazioni, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, fratello della sceneggiatrice Giulia, agitprop insieme alla loro mamma Comencini? E Paola Cortellesi starà bene attenta, a casa col marito regista Riccardo Milani, a vegliare sulla «macchina della rimozione», che vorrebbe zittire lei e le altre. Cristiana Capotondi, però, non ha evitato d'andare a cena con il presunto molestatore Fausto Brizzi, nonostante i processi televisivi intentati al regista amico dei Vanzina. Intanto Isabella Ferrari e Ambra Angiolini, assai contigue, da bambine, al defunto Gianni Boncompagni che le voleva fresche e yè-yè, non si sentono «creature narcisiste, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire».

Dissenso comune, un manifesto delle donne su cui c’è molto da eccepire. La lettera firmata da 124 attrici italiane poggia su una tesi mistificatoria: ovvero che la colpa non è mai individuale ma frutto di un’attitudine collettiva. Intanto il terreno si riempie di vittime in attesa di giudizio, una su tutte Fausto Brizzi, che tali resteranno perché nessuna si rivolge ai magistrati, scrive Paolo Madron su " Lettera 43" il 2 febbraio 2018. Il manifesto delle attrici italiane contro le molestie sessuali (tema nato e cresciuto a macchia d’olio sull’onda del caso Weinstein) poggia tutto su una tesi scivolosa e mistificatoria: ovvero che la colpa non è mai individuale ma il frutto di un’attitudine collettiva, di una cultura comune di cui essa è il prodotto. La dichiarazione di intenti è esplicita: «Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo molestatore. Noi contestiamo l’intero sistema». Quindi seguendo l’assunto logica vorrebbe che i colpevoli di molestie sessuali restassero impuniti, e che a salire sul banco degli imputati non fosse un individuo ma un’intera società. Evidente che ciò non può essere materia di giustizia ordinaria ma di critica culturale a un sistema ritenuto dominante e sopraffattorio.

COLPEVOLI TUTTI, COLPEVOLE NESSUNO. Intanto però il terreno si riempie di vittime in attesa di giudizio, che tali resteranno perché nessuno si rivolge ai magistrati chiedendo riparazione del torto subito. Tanto per fare nomi, il regista Fausto Brizzi è stato trasformato agli occhi del mondo in un molestatore seriale senza che in qualche tribunale della Repubblica sia stata presentata una denuncia a suo carico. E una colpa non provata ineluttabilmente si trasforma in calunnia. Processare una modalità ritenuta dominante facendo appello al «Dissenso comune» (che è il titolo della lettera firmata dalle 124 attrici) risulta suggestivo ma totalmente inefficace. Insomma, è una dichiarazione di principio come tante che finisce per essere assolutoria perché, se il colpevole è la società, tutti o nessuno sono colpevoli.

LA COLLETTIVIZZAZIONE DEL DESIDERIO. L’appello poi si infila in un passaggio altamente pericoloso, ovvero la definizione del desiderio. «Il corpo delle donne», vi si legge, «è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è un desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur si apparire». A parte il lapsus sul buonsenso, che generalmente si connota come antitesi del senso comune, è la collettivizzazione del desiderio e la sua sicura attribuzione di genere che lascia perplessi. Il desiderio erotico è argomento da maneggiare con cura. Appartiene all’individuo, è il frutto di un personalissimo impasto che pesca i suoi ingredienti nella psiche e nel vissuto. La sua collettivizzazione è un’altra cosa che prende il nome di pornografia, ovvero la riduzione del desiderio a mercificazione dei corpi. In primis, proprio perché è assolutamente vero che la cultura dominante è maschilista, quello delle donne.

Due, tre domande alle attrici del “manifesto” contro “il sistema” della molestie, scrive Giulio Cavalli il 2 febbraio 2018 su Left. Le attrici italiane (non in ritardo, perché sono mesi che cerchiamo di spiegare che ogni denuncia ha i suoi tempi naturali) riescono finalmente a produrre un documento sul cinema italiano e sul tema delle molestie (fino a ieri sembrava che solo qui da noi l’industria cinematografica fosse un parco giochi di nuvole sorridenti) e scrivono una lunga lettera in cui accusano il «sistema» e dichiarano di essere «quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo». Scrivono cose sensate e il fatto che abbiano deciso di scriverle è una cosa positiva. Pare però che scrivano come se fossero esterne. Osservatrici. E questo distacco è abbastanza impressionante. Ecco perché questa lettera non emoziona, non tocca nessuna corda in particolare. È un primo passo, dice qualcuno, rispetto al mortificante silenzio di questi ultimi mesi (o ancora peggio: il mortificante sostegno ai presunti molestatori piuttosto che alle vittime) ma dentro il documento ci sono alcune questioni che forse sarebbe la pena porre. «Non appena l’ondata di sdegno si placa, – scrivono le 120 attrici – il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare». Bene. È possibile sapere perché siete mancate durante «l’ondata di sdegno»?

Poi. «Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse». È sempre piuttosto facile essere solidali con tutti perché, come diceva quel geniaccio antipatico di Dario Fo, poi è come non essere solidale con nessuno. Questo documento quindi dice che è vero ciò che hanno raccontato Asia Argento, Miriana Trevisan, le diverse ragazze su Brizzi (e poi Giorgia Ferrero, Giovanna Rei, Alessandra Ventimiglia e tutte le altre)? E perché non citarle? È stato importante il lavoro de Le Iene e di Dino Giarrusso? E, soprattutto, hanno quindi cambiato idea Nancy Brilli e Cristiana Capotondi che nella furia di difendere Brizzi (basta leggere qui, per citare un articolo a caso) scrivevano «assisto con dolore alle accuse che stanno rivolgendo in queste ore a Fausto Brizzi» o «non può essere la paura che ti venga bloccata la carriera a non farti parlare»? E che dicono quelle che se la prendevano con chi denuncia «senza metterci la faccia» ora che invece preferiscono non accusare il singolo ma piuttosto il «sistema»?

«Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema», scrivono, nel Paese (ricordiamolo) in cui tutti sottoscriverebbero un manifesto per dire che “la mafia è brutta” ma sempre troppi pochi fanno i nomi dei mafiosi, nel Paese in cui si dice che “la politica fa schifo” ma si è sempre timidi a specificare quale politico, nel Paese in cui la corruzione “è il male” ma guai a fare i nomi dei corrotti. Hanno letto, le sottoscrittrici della lettera, come è stato “rovesciato” il mondo del cinema (e gli altri) negli Usa e negli altri Paesi (civili) del mondo? E soprattutto: se è vero che loro sanno i nomi e i cognomi sono convinte davvero che gli orchi smetteranno di essere orchi solo grazie a questa lettera che archivia il passato? E, ancora, che ce ne facciamo delle vittime che sono state? A posto così?

È un primo passo, dicono in molti. Tardivo e poco coraggioso, dico altri. Eppure sarebbe stato bellissimo (sarebbe quasi un Nuovo cinema paradiso) avere il coraggio di ammettere di avere paura. Scrivere nero su bianco che fare i nomi costa. C’è più forza nell’ammettere la paura che nel proclamarsi paladine di una battaglia che nasce già piuttosto spuntata. Se è il primo passo di un cammino, bene. Se è l’unico passo allora ha l’odore di un condono. Buon venerdì.

Lo strabismo delle femministe, scrive Luigi Iannone su Il Giornale del 2 febbraio 2018. Più di 120 tra attrici, registe, produttrici e donne che lavorano nello spettacolo, hanno sottoscritto un Manifesto (Dissenso comune) prendendo spunto dal caso Weinstein e dalle vicende successive, nel quale hanno allargato il campo delle denunce «non solo contro un singolo molestatore, ma contro l’intero sistema» e contro la «la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere» che tocca «la segretaria, l’operaia, l’immigrata, la studentessa…». Una campagna dai forti contenuti etici che sbatte contro una realtà, come sempre, ben più complessa ma rivela il fatto che si tenti di riprodurre vecchi stilemi con la sovrastante figura di un maschio con perenni istinti bestiali e che, sostenuto dalla sua posizione sociale, pronto a precipitare nella molestia insidiosa e nauseabonda verso l’altro sesso. Tralascio il fatto, nemmeno secondario, che ad animare siffatti manifesti sia sempre la solita compagnia di giro (i famosi ‘firmaioli’ di cui parlava Montanelli). Sinistrorse molto radical, sempre su posizioni ‘avanzate’ (così le chiamano!) sui diritti civili, pronte a scendere in piazza contro il Drago di Arcore, il fascismo prossimo venturo, a favore dell’accoglienza indiscriminata degli immigrati e cose di questo genere, ma stranamente silenziose quando ad occupare i ministeri, in specie quello Cultura che finanzia i loro film che nessuno vede, o le poltrone di Primo cittadino delle grandi città dove si organizzano Festival del Cinema, sono quei mediocri degli ‘amici’ o degli ‘amici degli amici’.

Ma queste sono, appunto, considerazioni di ordine secondario. Ciò che non torna è l’intruppamento totalizzante e monolitico delle nostre artigiane dello spettacolo (…ma lo stesso discorso vale gli uomini). Quando si intestano una battaglia, diventa di per sé giusta e condivisa dalla totalità delle colleghe. In ogni altro campo umano, il meno che accade, è che i fronti si dividano in due, con una fazione pronta a sostenere delle tesi e l’altra ben salda nello smontarle. In questo caso, la posizione prona verso l’idea della maggioranza diventa invece usuale e non c’è mai nessun fronte consistente e visibile che si azzardi ad andar fuori dal coro. I motivi sono noti e fin troppo umani. Il grande carrozzone progressista che governa culturalmente il mondo dello spettacolo da mezzo secolo non ammette deroghe e ‘nemici interni’, e quindi meglio far parte di questo gruppone sostenuto dai soliti giornali e da gran parte dei media, che staccarsi come anarchici guastatori. Se poi a far parte di quest’ultimi si palesano personaggi come Asia Argento, tale anarchia non può che connotarsi di una tale impalpabilità e disordine tematico, da marchiare questo misero e infinitesimale fronte avverso con la lettera scarlatta dello sconfitto e del reietto. Quando, infatti, contro simili ‘firmaioli’ si schierano personaggi simili la battaglia è persa in partenza. C’è poi la tempistica che non torna. Ad alzare la voce sono anche ultracinquantenni che hanno passato la vita in quello che dovrebbe essere, a ben interpretare le loro preoccupate interviste e dichiarazioni, uno squallido e coatto meretricio fatto di soprusi e violenze sottaciute. Epperò, domandine semplici semplici vengono spontanee: non si sono davvero mai accorte di nulla? E allora, se non se ne sono accorte, si tratterebbe di un fenomeno circoscritto con violenze limitate, pur sempre ignobili e squallide, ma dunque non ‘’di sistema’’? E se non era così, ma era generalizzato, e loro conoscevano questo fetido andazzo, perché sono state zitte? E ora perché non fanno i nomi? E, infine, visto che queste domande rimarranno inevase perché dovremmo credere alla bontà della loro battaglia? 

#DissensoComune, oltre 100 giornaliste italiane siglano il manifesto contro le molestie, scrive il 4 febbraio 2018 "Il Corriere della Sera”. Oltre cento giornaliste italiane delle testate televisive, web e carta stampata hanno firmato una lettera per sostenere l'appello-manifesto lanciato nei giorni scorsi con #DissensoComune dalle donne del Cinema e dello Spettacolo che, a partire dalle denunce di molestie sessuali fatte da alcune di loro, affermano la necessità di un cambiamento del sistema culturale strutturato secondo il modello maschile in ogni settore della società. «È ora di cambiare. Noi ci siamo», scrivono le firmatarie dell'appello, chiedendo «a direttori e ai colleghi di sostenere questa battaglia di civiltà». Con il documento «Dissenso comune» oltre cento attrici, registe, produttrici e donne dello spettacolo italiano hanno lanciato una chiamata pubblica a tutte le donne professioniste, impiegate, studentesse. Un primo, importante passo per dire basta a un sistema culturale che discrimina, penalizza e offende le donne, un sistema in cui le molestie sessuali sono la brutale punta di un iceberg fatto di consuetudini, pratiche di comportamento che va dalle discriminazioni salariali e di carriera in tutti i settori professionali alle relazioni umane sempre condizionate da logiche di potere maschile. Noi giornaliste italiane vogliamo stare accanto a tutte le donne in questa battaglia. Proprio attraverso il nostro lavoro di informazione e di inchiesta noi vogliamo aprire brecce in questo sistema, indagare e portare allo scoperto i casi di soprusi e abusi sessuali, esattamente come in Usa le giornaliste e i giornalisti delle principali testate sono stati protagonisti nella battaglia contro le molestie, rendendo pubbliche e incontrovertibili le denunce fatte delle attrici. Perché se è vero che il problema non è il singolo molestatore, è anche vero che rendere pubblico chi perpetua comportamenti che non rispettano la donna scoperchia le malefatte di questo sistema. Noi giornaliste siamo parte del cambiamento culturale che le donne italiane reclamano. Lo abbiamo avviato nei media e nelle redazioni dove siamo già in prima linea da anni. Il nostro lavoro, il nostro impegno per una informazione più degna del rispetto verso la donna e di denuncia contro le discriminazioni che si perpetuano nel modello sociale maschile è uno strumento essenziale per la trasformazione culturale. Chiediamo ai direttori dei giornali e ai colleghi giornalisti di essere con noi, di sostenere questa battaglia di civiltà. Noi giornaliste subiamo le stesse disparità di trattamento delle donne di altri settori professionali, incontriamo le stesse fatiche negli avanzamenti di carriera e nelle affermazioni individuali, e in più con il lavoro di comunicazione e informazione dobbiamo fare i conti con le difficoltà a testimoniare e raccontare il coraggio e il cammino delle donne in un contesto culturale univocamente impostato sul modello maschile. Ci battiamo da tempo con un lavoro quotidiano di informazione contro la macchina della rimozione e del silenzio per una società più equa, giusta e solidale. Siamo in campo. E’ ora di cambiare.

Molestie, più di cento giornaliste italiane si schierano a sostegno delle attrici. Le attrici che hanno aderito all'appello Dissenso Comune. Sono sempre più numerose le professioniste di testate televisive, web e carta stampata scese in campo per sostenere la battaglia 'Dissenso comune' intrapresa da attrici, registe, produttrici e lavoratrici del cinema e dello spettacolo. Perché il cambiamento è possibile, scrive il 4 febbraio 2018 "La Repubblica". "È ora di cambiare. Noi ci siamo". A sostenerlo sono oltre cento giornaliste italiane delle testate televisive, web e carta stampata scese in campo per sostenere l'appello lanciato nei giorni scorsi da attrici, registe, produttrici e lavoratrici del cinema e dello spettacolo che, a partire dalle denunce di molestie sessuali fatte da alcune di loro, chiedono un cambiamento del sistema culturale strutturato secondo il modello maschile. Le giornaliste, che già da tempo sono impegnate con il loro lavoro di inchiesta a far sì che questa trasformazione avvenga, si sentono solidali e unite alle attrici e lanciano un appello affinché alla fase di trasformazione, avviata dalle denunce delle molestie sessuali, si impegnino tutti i giornalisti, donne e uomini insieme. Per lanciare una 'chiamata pubblica', hanno quindi sottoscritto il documento 'Dissenso comune', "un primo, importante passo per dire basta a un sistema culturale che discrimina, penalizza e offende le donne, un sistema in cui le molestie sessuali sono la brutale punta di un iceberg fatto di consuetudini, pratiche di comportamento che va dalle discriminazioni salariali e di carriera in tutti i settori professionali alle relazioni umane sempre condizionate da logiche di potere maschile - si legge nella lettera -. Noi giornaliste italiane vogliamo stare accanto a tutte le donne in questa battaglia. Proprio attraverso il nostro lavoro di informazione e di inchiesta noi vogliamo aprire brecce in questo sistema, indagare e portare allo scoperto i casi di soprusi e abusi sessuali, esattamente come in Usa le giornaliste e i giornalisti delle principali testate sono stati protagonisti nella battaglia contro le molestie, rendendo pubbliche e incontrovertibili le denunce fatte delle attrici. Perché se è vero che il problema non è il singolo molestatore, è anche vero che rendere pubblico chi perpetua comportamenti che non rispettano la donna scoperchia le malefatte di questo sistema". E rivendicano la loro posizione in prima linea all'interno dei media e dell'informazione. "Il nostro lavoro, il nostro impegno per una informazione più degna del rispetto verso la donna e di denuncia contro le discriminazioni che si perpetuano nel modello sociale maschile è uno strumento essenziale per la trasformazione culturale".  Quindi le giornaliste lanciano un appello: "Chiediamo ai direttori dei giornali e ai colleghi giornalisti di essere con noi, di sostenere questa battaglia di civiltà. Noi giornaliste subiamo le stesse disparità di trattamento delle donne di altri settori professionali, incontriamo le stesse fatiche negli avanzamenti di carriera e nelle affermazioni individuali, e in più con il lavoro di comunicazione e informazione dobbiamo fare i conti con le difficoltà a testimoniare e raccontare il coraggio e il cammino delle donne in un contesto culturale univocamente impostato sul modello maschile. Ci battiamo da tempo con un lavoro quotidiano di informazione contro la macchina della rimozione e del silenzio per una società più equa, giusta e solidale".

LE FIRME: Alessandra Addari, Laura Aguzzi, Paola Alunni, Roberta Balzotti, Anna Bandettini, Cristina Battocletti, Irene Benassi, Serena Bersani, Laura Berti, Luisa Betti Dakli, Giulia Bianconi, Incoronata Boccia, Sandra Bortolin, Annarita Briganti, Maria Luisa Busi, Cristina Caccia, Manuela Cadringher, Stefanella Campana, Francesca Capovani, Fulvia Caprara, Monica Capuani, Laura Carassai, Gabriella Carluccio, Alida Castelli, Claudia Catalli, Anna Cepollaro,  Mara Cinquepalmi, Ida Colucci, Alessandra Comazzi, Carmina Conte, Licia Conte, Maria Corbi, Elisabetta Cosci, Marina Cosi, Gioia Costa, Emilia Costantini, Beatrice Curci, Zita Dazzi, Marina de Ghantuz Gubbe, Diana de Marsanich, M. Vittoria De Matteis, Eliana Di Caro, Elisa Di Salvatore, Agnese Ferrara, Tiziana Ferrario, Nadia Ferrigo, Arianna Finos, Valeria Gandus, Anais Ginori, Silvia Garambois, Paola Gariboldi, Maria Gianniti, Francesca Giuliani, Gabriella Guidi, Silvia Inghirami, Katia Ippaso, Tiziana Jelo, Chiara Jommi Selleri, Barbara Lalli, Laura Landoli, Laura Laurenzi, Maria Lepri, Natalia Lombardo, Alessandra Magliaro, Carlotta Magnanini, Marilena Maliverni, Alessandra Mancuso, Silvia Manzoni, Elisa Marincola, Laura Martellini, Anna Martinelli, Mirella Marzoli, Anna Masera, Tonia Mastrobuoni, Rita Mattei, Greca Meloni, Alessandra Miccinesi, Anna Migliorati, Maria Teresa Montaruli, Elena Mora, Silvia Motroni, Antonella Napoli, Silvia Neonato, Laura Novelli, Camilla Orsini, Daniela Paba, Elisabetta Pagani, Valeria Palumbo, Elena Pasquini, Alessandra Perera, Laura Pertici, Giovanna Pezzuoli, Monica Perosino, Cristina Piccino, Felicita Pistilli, Chiara Priante, Luisa Pronzato, Amelia Realino, Silvia Resta, Lara Ricci, Susi Rochi, Maria Silvia Sacchi, Alessandra Sallemi, Rosanna Santoro, Anna Scalfati, Barbara Scaramucci, Paola Scarsi, Simona Scioni, Roberta Secci, Luisella Seveso, Cytnhia Sgarallino, Monica Sicca, Raffaella Silipo, Nicoletta Sipos, Ilaria Solari, Claudia Stamerra, Michela Tamburrino, Alessandra Testa, Giorgia Tomatis, Alma Toppino, Letizia Tortello, Chiara Ugolini, Carla Urban, Stefania Viti, Maria Zegarelli.

Non crediamo all' uomo molestatore sistematico, scrive Olga Mascolo su "Libero Quotidiano" il 4 Febbraio 2018. "Dissenso comune" è la lettera manifesto firmata da 124 donne dello spettacolo che vuole denunciare e unire tutte le donne di tv e cinema contro l'imperante potere del fallo. Firmata da, tra le altre, Ambra Angiolini, Sonia Bergamasco, Tea Falco, Vittoria Puccini, Geppi Cucciari, Isabella Ragonese, ecc. Si definiscono come un collettivo, «Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini». Viene da sorridere. Scrivono: «La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all' operaia, all' immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte». Ci permettiamo solo di notare che non succede così a tutte. A chi scrive non succede. E non succede a tantissime altre colleghe giornaliste, ad amiche segretarie, ad amiche operaie. E speriamo che la contro argomentazione non sia che nessuna di noi è appetibile sessualmente, perché da un punto di vista retorico sarebbe come dire che le belle donne, in questo mondo di maschi arrapati, non sono mai veramente anche brave. E questo non sarebbe un manifesto di parità. In questo mondo così dipinto, noi donne saremmo solo un oggetto sessuale, e saremmo proprio noi a pensarlo. Avete letto nulla di più sessista? Per rendersene conto basti pensare che putiferio salterebbe fuori se quelle frasi le pronunciasse un uomo qualsiasi, per difendere il genere femminile. «Siete donne, siete degli oggetti sessuali, tutte, nello spettacolo e non, siete deboli, vogliamo darvi la parità per evitare il ricatto». Parità che a norma di legge è già sdoganata per altro. Senza contare che il mondo del potere e nello spettacolo non è solo eterosessuale, e che c' è anche di mezzo l'arte. Registi e attrici che erano anche amanti se ne sono visti, ma in quante possono dire di essere state ricattate? Sul serio però. Ricatto vero. Il collettivo prosegue poi alcune righe dopo, con una denuncia farsa "al sistema". Asia Argento ha twittato contro di loro: «Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle "donne del cinema italiano" contro le molestie. Contestano l'intero sistema ma si guardano bene dal fare nomi». E su di una cosa ha ragione: è una denuncia senza nomi. Contro il sistema. Priva di contenuti dunque; un'operazione formale, di facciata, quasi perché "il faut" (bisogna), mettere la firma dalla parte "delle buone". Scrivono: «Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo "molestatore". Noi contestiamo l'intero sistema». Ma il sistema è fatto di elementi, di mele marce: quelle vanno denunciate, una denuncia "contro il sistema" non si dice nemmeno durante un'assemblea di istituto. E le attrici in questione sono tutte ben cresciute per recuperare l'attivismo politico del liceo con una letterina di buoni intenti. Ci sono molestie? Che si facciano i nomi. Ma molestie vere, ricatti veri, con delle prove. Perché il nostro sistema giuridico prevede anche di non mettere alla gogna una persona sulla base delle sole accuse. Non uomini che ci provano, perché quelli ci saranno sempre (e per fortuna, come ha scritto Catherine Deneuve su Le Monde), e basta dire "non mi piaci" per liberarsene. Quali sono le preoccupazioni? Se siete brave lavorerete ancora. O forse siete voi le prime a credere di essere brave perché valide/non valide come oggetti sessuali? In tal caso, è il manifesto più sessista del mondo. 

QUELLE MISS NESSUNO SENZA TUTELA.

In Rete libertà di insultare. Ma chi tocca la Boldrini finisce subito nei guai. Fotomontaggio choc, già denunciato (giustamente) l'autore. Ma le minacce a Cav e Salvini sono online, scrive Gian Maria De Francesco, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Individuato, perquisito, portato in Questura e denunciato. È ciò che è accaduto a ieri a Gianfranco Corsi, artigiano cinquantottenne di Torano Castello, in provincia di Cosenza, reo di aver condiviso su Facebook il fotomontaggio con la decapitazione del presidente della Camera, Laura Boldrini. Un attacco odioso e ingiustificabile. A rendere nota l'identità dell'autore del gesto è stato il fratello Roberto, commerciante e simpatizzante dell'M5S, anche lui protagonista di happening iperbolici (incluso un tentato suicidio) contro Equitalia e Agenzia delle Entrate. «La foto che ha condiviso mio fratello è in rete: Google può detenerla, lui no», ha scritto. La terza carica dello Stato ha ringraziato le forze dell'ordine per l'alacre intervento e, ovviamente, non ha perso l'occasione per attaccare con altrettanta veemenza i propri detrattori. «Io non ho paura. Faremo sempre muro di popolo contro ogni forma di razzismo, fascismo e discriminazione», ha dichiarato durante una manifestazione a Milano. Boldrini, strenua fautrice dell'accoglienza dei migranti «senza se e senza ma» sempre pronta a dispensare patenti di democraticità agli interlocutori, si è attirata molte antipatie da parte di coloro che dissentono dal suo pensiero, anche in virtù dell'indisponibilità al dialogo che spesso tracima in supponenza. Contrarietà che su Internet si trasformano in insulti e minacce, giustamente da perseguire. La deferenza che si deve al suo ruolo ha, però, fatto sì che a ogni offesa seguisse immediatamente l'intervento della Polizia postale, come il fulmine al baleno manzoniano. Due esempi? A maggio 2013 le forze dell'ordine hanno fatto visita a un utente che aveva ripubblicato il falso fotomontaggio «nudista» del presidente della Camera. Nello scorso agosto dieci buontemponi di Latina sono stati denunciati per «diffamazione contro un corpo diplomatico» causa condivisione di un altro fotomontaggio offensivo. Tutto giusto, tutto ok. Le idee politicamente corrette e ben pettinate di Laura Boldrini meritano una tutela in nome della libertà di espressione. Occorre notare, tuttavia, che questo stesso diritto viene un po' meno allorquando a esprimere opinioni siano esponenti di quella parte politica che Boldrini & C. liquidano indifferentemente come «destra». Non si può non ricordare come ai tempi dell'ultimo governo Berlusconi su Facebook avesse fatto circa 20mila proseliti il gruppo «Uccidiamo Berlusconi» e quasi 50mila ne avesse affiliati «Tartaglia santo subito», dal nome dell'aggressore di Piazza Duomo. Anche oggi a spulciare il social di Zuckerberg proliferano gruppi come «I hate Berlusconi» e «Contro Berlusconi» che ritrae il Cav come un galeotto. Derubricata a semplice satira nello scorso dicembre la pubblicazione sulla pagina Facebook del gruppo di estrema sinistra «vento ribelle» di un fotomontaggio che ritraeva il leader leghista Matteo Salvini prigioniero imbavagliato in un covo delle Brigate Rosse corredato dalla didascalia «Ho un sogno». Salvini come Aldo Moro? Satira, appunto. Se, invece, si passa sul terreno delle offese contro le donne, occorre dire che Boldrini è stata più «fortunata» di Mara Carfagna. Un suo stalker è stato condannato a soli 600 euro di multa. Le donne non sono tutte uguali.

Quelle ragazze senza poltrona che hanno denunciato invano. Da Antonella a Marianna: lo Stato non le ha salvate, scrive Manila Alfano, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale".

Nicolina ha pagato anche per tutte eppure si poteva salvare. Uccisa a sedici anni con un proiettile in faccia dall'ex della madre. Ovviamente le due donne avevano denunciato, avevano cambiato città, dalla Puglia in fuga al nord, il più lontano possibile da uno stalker che poi è riuscito a vendicarsi. Quanta strada ci separa ancora dalla giustizia. Donne massacrate nonostante il coraggio di denunciare, di stanare il mostro, di chiedere, implorare aiuto. Aiuto che troppo spesso non arriva o arriva in ritardo.

Troppo tardi come è successo ad Anna Carusone che si era fatta anche fare una fotografia con addosso la maglietta «denunciate». Lei lo aveva fatto ben quattro volte, la speranza che l'ultima sia quella buona, ma alla fine lui ha battuta sul tempo: acciuffata e ammazzata. Maledetti tempi della giustizia. Ma chi chiede tanto? Basterebbe almeno protezione. Si sono fatte tante campagne: denunciate. Le vittime hanno risposto all'appello. Uscite dal buio, vestirsi e bussare alla porta dei carabinieri. Difficile raccogliere le forze per raccontare, i rischi e la vergogna. La paura e i sensi di colpa da superare. Ma se poi, nonostante gli sforzi, non succede nulla?

Vincenza pur tra mille titubanze, aveva avuto il coraggio di denunciare il suo ex che la tormentava. Lo stalker, facendosi beffe di un provvedimento della magistratura che gli impediva di avvicinarsi alla ragazza, l'ha inseguita e uccisa.

I dati fanno impressione. Una su quattro delle donne vittime di femminicidio aveva denunciato. E non solo una volta, più e più volte. Morti annunciate. Il caso di Giordana di Stefano, ha un tempismo che fa rabbrividire. Uccisa il giorno dell'udienza preliminare dal gip del procedimento per stalking a carico dell'ex convivente. Lei si era fidata della giustizia. Cercava protezione. Per lei, giovanissima di 20 anni e soprattutto per la sua bambina di quattro anni. E invece ha perso. Morta dissanguata a poche centinaia di metri da casa, alle pendici dell'Etna. A infliggerle diverse coltellate il suo ex e padre della loro figlioletta rimasta orfana. Donne vittime della malagiustizia proprio perché una su quattro aveva fatto appello alle forze dell'ordine per denunciare il proprio dramma, per mettere nero su bianco le violenze fisiche e psicologiche da parte di ex mariti, ex fidanzati o spasimanti respinti. Il killer di Vincenza Avino era sì stato messo ai domiciliari ma era tornato in libertà con la sola misura del divieto di avvicinamento.

Antonella Russo è stata uccisa a fucilate dall'ex marito ad Avola davanti al figlioletto di 4 anni, nonostante avesse presentato una denuncia per stalking ai carabinieri di zona qualche tempo prima. «Da quattro mesi mia sorella andava dai carabinieri è nessuno ha mosso un dito», ha raccontato la sorella. Stessa sorte è toccata alla signora Lucia Bellucci, uccisa vicino Trento con due coltellate dal ex partner, nonostante nel passato lo avesse denunciato per stalking.

Marianna invece batte - suo malgrado - ogni record. Dodici denunce in dodici mesi e tre figli di 3, 5 e 7 anni a cui pensare. Lei non perde certo tempo, se lo sente addosso, e lo sa che lui non mollerà mai la sua preda. Appena si vede davanti il marito con quel coltello capisce tutto. «Con quel coltello mi ucciderà», corre a spiegare ai carabinieri. Un anno dopo la partita tra la vita e la morte la vince lui. La sentenza firmata dal presidente Caterina Mangano è destinata a fare la storia e a dare speranza. «I giudici dell'epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del merito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile».

IL BUSINESS DELL’INDIGNAZIONE.

Ecco il video di Nancy Brilli: "Il cazzo più ciucciato in Italia". Porno verità, panico in studio da Vespa, scrive il 15 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Un produttore mi mandò un tizio che non avevo mai visto", racconta Nancy Brilli a Bruno Vespa durante l'ultima puntata di Porta a Porta sulle molestie sessuali nel mondo dello spettacolo: "Mi fece venire a prendere e mi disse: Guarda che questo produttore è molto interessato a te, trova che tu possa avere un grandissimo futuro nel cinema. Ero sposata, glielo dissi, stavo girando un film importante", "questo tizio si girò molto aggressivo, verbalmente, e mi disse: Guarda che questo produttore ha il ca... più ciucciato d'Italia". "Non mi ha stuprata - conclude l'attrice - però mi sono irrigidita perché stavo girando un film di cui la produzione era la sua, sta di fatto che poi non ho mai più lavorato con questa produzione". 

Nancy Brilli: "Anche io ho subito molestie. Mi hanno detto: “Quello è il produttore con il cazzo più ciucciato". A Porta a Porta, Nancy Brilli ha confessato di aver subito molestie sia da produttori cinematografici che registi: "Ero molto imbarazzata", scrive Anna Rossi, Mercoledì 15/11/2017, su "Il Giornale". Anche a Porta a Porta si continua a parlare delle molestie che decine di personaggi del mondo spettacolo hanno subito negli anni e fra gli ospiti c'è Nancy Brilli che ha dato la sua personale testimonianza. L'attrice, infatti, ha rivelato che tempo fa, alcuni produttori le hanno fatto delle avances non troppo eleganti. Nancy Brilli ha parlato di ciò che l'ha toccata da vicino, ma è su un episodio in particolare che si è voluta concentrare. E vista la tarda ora, l'attrice si è lasciata andare nel racconto. "Un produttore - dice Nancy Brilli - mi mandò un tizio che non avevo mai visto, mi fece venire a prendere e mi disse: 'Guarda che questo produttore è molto interessato a te, trova che tu possa avere un grandissimo futuro nel cinema'. Ero sposata, glielo dissi, stavo girando un film importante. Ero molto imbarazzata, stavo andando a lavorare e mi sembrava tutto strano. Questo tizio si girò molto aggressivo verbalmente, non mi ha sfiorata, e mi disse: 'Guarda che questo produttore ha il cazzo più ciucciato d'Italia'. Non mi ha stuprata, però, mi sono irrigidita perché stavo girando un film di cui la produzione era la sua, sta di fatto che poi non ho mai più lavorato con questa produzione". Dopo questo forte racconto, Nancy Brilli, senza fare nomi e nel silenzio più totale dello studio, ammette anche di aver ricevuto delle molestie da parte di registi, ma in meno quantità rispetto a quelle ricevute dai produttori. 

Alba Parietti: "Sono stata molestata da un produttore morto". Ma dieci giorni fa...scrive Alessandra Menzani il 15 Novembre 2017 su "Libero Quotidiano". Questa storia delle molestie nel mondo dello spettacolo prende una piega sempre più surreale. Nella foga attuale di raccontare un episodio spiacevole, showgirl e attrici non risparmiano neppure i morti e dimenticano cosa hanno detto fino a dieci giorni prima. Ormai non c'è giorno in cui una diva non si sfoghi. Dalla Lollobrigida alle recenti Miss Italia. Poi c'è Alba Parietti che sulla vicenda prima dice una cosa e poi afferma il contrario. Nell'ultima puntata delle Iene, ieri sera in onda, ha dichiarato: "Mi è successa una cosa così quando ero una ragazzina, con un famosissimo produttore. Avevo 17 anni e il mio sogno era fare cinema".  "Questo signore", prosegue, "mi invitò nel suo ufficio, mi spiegò il copione e poi disse: “ora c'è la scena del bacio”, si avvicinò e mi diede un bacio. Ricordo quella sensazione, non l'ho mai raccontato a nessuno, a mio padre tanto meno, perché mi vergognavo". E a Radio Capital dice: "Il nome di quel produttore non lo faccio, è morto. Pace all'anima sua". Ma come? Solo dieci giorni fa Alba affermava di non aver subito molestie e adesso incolpa un defunto? Solo dieci giorni fa distingueva tra molestie vere e finte, e ora si scandalizza per un bacio o un tentato bacio? "Viviamo in un mondo", diceva il 3 novembre al Giorno, "dove la donna non è considerata, ma va dato un freno a tutto: non dobbiamo confondere le battute con le molestie e le violenze vere" (..) andare a pescare nel torbido della vita, se non ci sono situazioni gravi, non è giusto. Pazienza se una volta hai messo la mano sul culo. Ora gli uomini sono presi di mira e poi c'è il problema delle denunce retroattive". Nella stessa intervista la Parietti diceva di non essere stata molestata. "Mai, per questo a molte sembrano estreme le mie tesi", affermava sempre sul Giorno. "Una violenza è una tragedia: quelle donne sono le vere vittime da tutelare. Paragonare una palpata a uno stupro è un errore. La situazione che si è creata sembra un vendicatoio, una caccia alle streghe al contrario. (..) Se domani un uomo non può permettersi di fare battute a una donna per timore di venire denunciato, è assurdo". Tra dieci giorni cosa dirà l'Alba Nazionale? Si aprono le scommesse. Alba Parietti ci tiene a precisare che: "Non ho mai detto che le donne non devono denunciare e men che meno che le denunce retroattive siano sbagliate. Ho soltanto ribadito l'importanza di non far confusione tra corteggiamento e violenza. In relazione all'episodio di cui ho parlato a Le Iene, ci tengo a sottolineare che ero minorenne. Non sono né un'incoerente né una persona in cerca di visibilità".

Molestie cercasi, scrive Luca Nannipieri il 13 novembre 2017 su “Il Giornale”. Visto che non ho ricevuto molestie da giornaliste, attrici, presentatrici, deputate, visto che non voglio rimanere indietro nella moda e il mio ufficio stampa vuole lanciare la notizia, vi supplico: molestatemi!! Ieri in un tale show in prima serata, una donna sconosciutissima ha detto che voleva fare l’attrice, un produttore le ha chiesto di andare a letto con lei, lei ha detto di no, e così è finita la sua carriera. Lei non è diventata attrice per colpa di questa molestia ricevuta, di queste avances ricevute e non ricompensate. “Io pure volevo fare la scienziata ma non gliel’ho data ad Einstein e mi è finita la carriera” scrive ironicamente Annarita Digiorgio su Facebook. Avete capito oramai il gioco: vuoi un po’ di visibilità? Vuoi giustificare il tuo non essere famosa, il tuo non essere riuscita a sfondare, il tuo non essere dove vorresti essere? Racconta che 10,20,30,40 anni fa sei stata molestata e per colpa di questa molestia la tua vita è cambiata. Anche Melania forse, all’inizio, è stata molestata da Donald Trump, che avrà provato a toccarle il culo. Visto che è diventata la First Lady, la moglie del Presidente degli Stati Uniti, la donna più fotografata e ambita del mondo, forse non le conviene per adesso fare tanta caciara. Domani, chissà?

Molestie, così i media sfruttano l’indignazione per fare soldi. All’inizio fu il caso Weinstein, e adesso? Con l’emergere continuo di nuovi casi di molestie, spesso tutt’altro che sicuri, si fa strada la tendenza da parte dei media a monetizzare sull’indignazione dei molestati/e. Oltre al solito, insopportabile, moralismo virtuale, scrive Francesco Francio Mazza su Linkiesta l'11 Novembre 2017. In principio fu Harvey Weinstein. Tutto d’un tratto si scoprì che il maggior artefice del successo di Quentin Tarantino, il produttore indipendente che con la Miramax aveva rivoluzionato Hollywood nel nome dell’indipendenza degli autori, era soprattutto un bastardo da premio Oscar. Con Weinstein le cose funzionavano solo in una maniera: “o me la dai o non lavori”. Il che vuol dire non solo ricatto - che fa automaticamente diventare l’altra persona una vittima, non importa che accetti o meno – ma pure estorsione: del resto, esigere un rapporto sessuale in cambio di lavoro è così diverso da esigere denaro? E allora tra quella richiesta e un’estorsione, che differenza c’è? Il problema è che, scoperchiato Weinstein, si è passati ad una psicosi di segno completamente diverso. Il 29 ottobre un attore di serie B, in un’intervista orchestrata dal suo ufficio stampa, sostiene che nel 1986 l’attore Kevin Spacey gli avrebbe fatto delle “avance” durante una festa. Nei giorni seguenti saltano fuori altri uomini, mezzi attori, mezzi figuranti, che muovono a Spacey le stesse accuse, ovvero essere stati vittime di avance sessuali da cui sono rimasti fortemente traumatizzati. Tutti asseriscono di aver trovato la forza “di venire allo scoperto” grazie al clamore suscitato dalla vicenda Weinstein. C’è però un piccolo particolare: Weinstein poneva le sue vittime davanti a un ricatto (e a un’estorsione). Kevin Spacey no. Kevin Spacey ci provava: in modo libertino, discutibile, sgradevole, non certo esemplare da un punto di vista morale; ma come ha detto Monica Bellucci, un conto sono le molestie e i ricatti, un altro le avance. Si può censurare un comportamento sbagliato: diverso è terminare la carriera di una persona, annichilirla come se non fosse mai esistita. Eppure Spacey è stato annichilito, sbattuto fuori dalla Creative Artists Agency (la potentissima agenzia di rappresentanza hollywoodiana) cosa che di fatto ne ha concluso la carriera. Da quel momento, come in un lungo deja-vu, ogni giorno esce una nuova intervista che nel giro di dieci minuti trasforma l’artista celebrato fino a ieri in un infamone da dare in pasto nella fossa dei social. Da quel momento, come in un lungo deja-vu, ogni giorno esce una nuova intervista che nel giro di dieci minuti trasforma l’artista celebrato fino a ieri in un infamone da dare in pasto nella fossa dei social Dustin Hoffman, Louis C.K., Matthew Weiner e domani chissà chi altro: per i puritani di Twitter sono tutti uguali, tutti Weinstein, pervertiti e criminali che non solo vanno sputtanati e rovinati, ma soprattutto cancellati dalla memoria collettiva. Come Netflix ha cancellato Kevin Spacey, così HBO ha cancellato tutti gli spettacoli di Louis C.K., opere di enorme valore culturale, da ieri sera non più disponibili. Il suo attesissimo nuovo film, “I Love You Daddy”, non uscirà al cinema. Il suo repertorio, incluse le clip da 10 milioni di views che spiegano meglio di qualunque libro di sociologia il funzionamento della modernità, viene riletto in chiave psico-analitica. Lui stesso, per anni ultimo baluardo della resistenza alla dittatura del politicamente corretto, per tentare di mettere un freno alla valanga è costretto alla pubblica abiura, riconoscendo “l’enorme dolore” che il suo comportamento ha causato. Non servirà: la sua carriera, come quella di Spacey, con ogni probabilità termina qui. Fa nulla che, ribadiamo, rispetto al caso Weinstein manchi l’elemento fondamentale che rende Weinstein diverso dagli altri, l’estorsione di quel lavoro dato solo “a condizione che”. Fa nulla che non si parli di violenza e nemmeno di contatto fisico ma addirittura, in un caso, di una conversazione telefonica. Fa nulla che si stia parlando di avance tra adulti, alle due di notte in una camera d’albergo per “bere qualcosa insieme” e che a tali avance fosse addirittura seguito un si. I puritani di Twitter, che hanno nell’HuffPost la loro personale Scientology, non hanno dubbi: forti di una concezione della donna come essere indifeso - questa sì, discriminatoria –incapace di mandare affanculo il porco di turno o di rifiutare una avance senza uscirne traumatizzata a vita, esultano per quella che definiscono una “salutare purga” (“healthy purge”) senza nemmeno sapere di citare Stalin. E ora, con le torce già accese, puntano dritti verso il cinghialone, quel Woody Allen che gli è sempre sfuggito e che, finalmente, si preparano a dare alle fiamme. L’attuale caccia agli stregoni, quindi, non è che una grande operazione commerciale per cui Weinstein non è stato che un pretesto, operata dai media per far fruttare una delle bolle più numerose, e quindi più ricche di tutte: la bolla femminista. Ma com’ è stato possibile che, all’improvviso, l’America sia diventata più puritana dell’Inghilterra di Oliver Cromwell e nessuno si renda conto dell’andazzo orwelliano intrapreso? La risposta è semplice: se ne rendono conto benissimo. Le ragioni di questa caccia alle streghe – anzi, agli stregoni –sono assai banali, e rischiano di degradare una battaglia urgente e legittima – la difesa delle donne dalle discriminazioni sul lavoro – per farne un mezzo al servizio di un fine assai meno nobile. Da anni il web, e in particolare i social network, hanno modificato il dibattito pubblico fino ad alterarlo completamente. Dividendo l’opinione pubblica in bolle, i social hanno messo i media davanti al problema di decidere su quale bolla puntare per sopravvivere; e mentre fiorivano testate rivolte dichiaratamente ad una singola bolla (HuffPost per la sinistra, Breitbart News per la destra), i media main stream, ad ogni latitudine, non solo sono stati costretti ad assumere posizioni sempre meno moderate e sempre più orientate verso la bolla selezionata, ma anche a nutrirla e a coccolarla costantemente. Non si è parlato più al grande pubblico, eterogeneo per definizione: si è scelto di parlare alla bolla, omogenea e conformista per costituzione, in un continuo processo di radicalizzazione. E il modo migliore, quasi infallibile per tenersela buona si è rivelato il meccanismo dell’indignazione. Sono anni che i media – nell’accezione più estesa che oggi può avere il termine – spendono le loro maggiori risorse nel favoreggiamento sistematico di ogni possibile forma di indignazione, cercando di trasformare lo sdegno in views, likes, copie vendute. Il meccanismo si è rivelato efficace: l’indignazione è diventata una vera e propria economia di scala mondiale, l’unica valuta accettata sul mercato delle idee. L’attuale caccia agli stregoni, quindi, non è che una grande operazione commerciale per cui Weinstein è giusto un pretesto, operata dai media per far fruttare una delle bolle più numerose, e quindi più ricche di tutte: la bolla femminista. Sono anni che i media – nell’accezione più estesa che oggi può avere il termine – spendono le loro maggiori risorse nel favoreggiamento sistematico di ogni possibile forma di indignazione, cercando di trasformare lo sdegno in views, likes, copie vendute. Di diritti e dignità femminile, di proposte concrete a favore dell’emancipazione delle donne reali, non importa nulla a nessuno, così come a nessuno importa della differenza tra molestia e avance sottolineata dalla Bellucci: quello che importa è che sempre più donne si indignino senza il beneficio del dubbio, e leggano in massa articoli zeppi di pubblicità di make-up o reggiseni dove le donne vengono usate come attaccapanni, su siti internet o giornali gestiti in larga parte da uomini, a loro volta controllati da gruppi finanziari diretti esclusivamente da uomini. Abbattere carriere che hanno contribuito in maniera fondamentale al progresso culturale di una comunità sulla base di un’intervista anonima, di un ricordo inverificabile di 15 anni fa, pur di ottenere il retweet. Affogare in un oceano di indignazione i colpevoli acclarati con quelli che perlomeno avrebbero diritto a un processo per avere in cambio un cuoricino. Tutti colpevoli, che tra poco vorra’ dire nessun colpevole. A chi si permette di avanzare un dubbio, rispondono che certo, forse nella lista di proscrizione ci sono anche innocenti, ma si tratta di un danno necessario per permettere ad altre donne di venire allo scoperto. Siamo alla fucilazione indiscriminata. Stalin, per l’appunto. C’è da sperare che qualche filologo non scopra scandalose avance di Newton o Galileo all’indirizzo di una donna o uno studente: altrimenti, con l’aria che tira, sarebbero capace di bandire la legge di gravità o di vietare il sistema Copernicano. Benvenuti nel sedicesimo secolo.

Lo spot Buondì Motta e l’indignazione prevedibile delle nazi-mamme. Il Signor Distruggere – il blogger che rese noto il fenomeno “mamme contro l’invidia” – analizza lo spot Buondì Motta e il polverone social che ha sollevato, scrive Marco Diotallevi Divulgatore e autore per Rai. Direttore creativo dell'agenzia Plural, il 5 settembre 2017 su "Wired.it". Se siete sopravvissuti all’ultimo weekend che sapeva di agosto, non potete non aver notato la discussione sull’ultimo spot di Buondì Motta. Cosa ha provocato una conversazione così animata? Me lo sono chiesto anche io ieri (per lavoro mi occupo di pubblicità, viralità e alfabetizzazione digitale). Dal punto di vista creativo: parodiare gli spot dei competitor (o prendere in giro gli stereotipi della pubblicità) non è una novità. Se dieci anni fa in agenzia proponevi una cosa del genere, ti rispondevano: “Fa tanto anni ‘90“.  Inoltre dieci anni fa lo spot avrebbe avuto maggiore concorrenza. Era un periodo ricco di creatività, headline, copy ad. Oggi purtroppo un claim o un titolo di qualità media sembrano bellissimi perché è molto più raro vedere un’affissione o uno spot che non siano adattamenti di campagne internazionali. E allora cosa è successo? Lo spot arriva in un momento in cui in Italia manca il coraggio di dire qualsiasi cosa. Per questo emerge rispetto al silenzio. Ma soprattutto gli va dato il merito di aver toccato un nervo scoperto: quello della genitorialità. Chi conosce il caso del “Signor Distruggere” sa bene a cosa mi riferisco. Esiste in Italia un sottobosco di mamme, probabilmente analfabeti funzionali, che si fanno forza su gruppi segreti di Facebook. Ma per questo è meglio chiedere direttamente a “Il Signor Distruggere”, blogger, conosciuto all’anagrafe come Vincenzo Maisto, fresco di nomination ai Macchianera Awards 2017. Il signor Distruggere in pochissimo tempo è diventato famoso grazie a una storia che parla di “mamme vegane contro l’invidia”. Ce la puoi raccontare? La pagina Facebook esiste dal 2011, il blog dal 2014. La storia delle “Mamme vegane contro l’invidia”, del 2016, parla dell’omonimo gruppo segreto di Facebook, oggi distrutto, dove si condividevano aneddoti e storie ai limite della realtà. Surreali vicissitudini e disgustose esperienze. Si sciorinava da ricotte realizzate con il latte materno offerte a ignari vicini di casa, da chi cucinava la placenta (umana), da chi “dimenticava” pannolini nei bagni pubblici, fino ad arrivare a una caccia alle streghe per capire chi fosse la vipera che faceva uscire dal gruppo le informazioni. Una signora, membro di quel gruppo, mi contattò con alcuni screenshot dove venivano raccontate quelle esperienze, dalle condivisioni sul blog la storia divenne virale arrivando a due milioni di interazioni su Facebook. Ci puoi descrivere cosa si intende per “pancine”? “Pancine d’amore” è la definizione che si sono autonomamente date una frangia delle nazi-mamme sui social network. Basta cercare su Facebook queste parole per incappare in decine di pagine e gruppi che fungono da consultorio “pancino”, dove le varie amministratrici, quasi tutte con serie problematiche nel rapportarsi con la realtà, condividono le richieste delle utenti, scritte in un italiano maccheronico, dai contenuti in stile “posta del Cioè”. Dove, però, il Cioè a paragone era letteratura d’avanguardia scientifica. Allattano i figli “a termine”, quindi anche a dieci anni, realizzano o commissionano favolosi bijou in latte materno, cordone ombelicale, ciocche di capelli, placenta, feci del pupo essiccate, etc. Contano l’età del pupo esclusivamente in mesi, come per le forme di parmigiano, commissionano torte “partoritrici” a forma di vagina, credono alla fata della casa… e potrei continuare all’infinito. Dove eri la prima volta che hai visto lo spot Buondì? Cosa hai pensato?

A casa, da solo, al computer. Mi è piaciuto, ma io non sono un cliente Buondì, né lo diventerò in futuro per via della mia alimentazione. Quindi, sicuramente, non faccio parte del target di riferimento a cui era destinato lo spot. Se lo erano le mamme… beh, Motta deve aver pensato che le sue clienti siano tutte delle cime nel comprendere l’ironia e l’umorismo nero. Visti i risultati ho qualche dubbio. Non è questo il luogo per capire se lo spot possa rappresentare l’eccellenza creativa italiana del 2017 (per quello ci saranno gli ADCI Awards) o se funzioni dal punto di vista commerciale (si vedrà col tempo). C’è da dire però una cosa: questo spot, come anche quello di Natale dedicato al Panettone, sembra scritto per provocare (o meglio “trollare”) i gruppi intolleranze che crescono sui social network. Col panettone Motta si rivolgevano ai nazi-vegani, ora è il turno delle nazi-mamme. I social network hanno dato forza ai gruppi di estremisti, non è una cosa che scopriamo adesso. E in questo gli autori della campagna sono riusciti a cogliere lo spirito del tempo. Nazi-Grammar, attenti a voi.

L’articolo sul look casalingo del Tgcom e la trappola dell’indignazione. Nell’epoca in cui i contenuti sono pensati per scatenare reazioni violente (e condivisioni) dobbiamo imparare a indignarci per giusta causa e non per un automatismo da clickbating, scrive Lorenzo Fantoni Giornalista, videogiochi, feticci nerd e affini su "Wired.it il 26 settembre 2017. Il vero grande motore di internet e la sua valuta col cambio più alta è l’indignazione, questo credo sia ormai abbastanza palese anche per il meno avvezzo ai meccanismi della rete. Ogni mattina ci alziamo e qualcuno pone alla nostra attenzione l’orribile fatto del giorno per il quale dobbiamo esprimere il nostro disappunto, possibile attraverso una notizia montata ad arte che ben pochi di noi verificheranno. Il Joker di Heath Ledger ne Il del cavaliere oscuro amava il caos, perché era equo, ma anche l’indignazione non fa distinzioni. Ci indigniamo se Grillo dice di voler vomitare i giornalisti, ci indigniamo perché il rifugiato stupra, ci indigniamo per l’ennesimo titolo di Libero, perché non hanno dato un rigore alla nostra squadra, perché Vacchi fa i balletti ridicoli in costume, perché It arriverà nelle sale italiane più di un mese dopo l’uscita internazionale, per le case alluvionate, per le tasse, per quello che vi pare. Certo, ci sono indignazioni più sensate di altre, grandi e piccole, ma al di là del risultato finale tutte hanno in comune una cosa: amplificano la portata dell’oggetto della loro indignazione. Chi si indigna di solito è, o pensa di essere, nel giusto: non solo affermo i miei valori esternando a tutti cosa non mi piace, ma porto all’attenzione qualcosa che ritengo ingiusto con la speranza che svelandolo qualcuno prenda provvedimenti. In alcuni casi funziona, d’altronde anni di Iene e Striscia la notiziaci hanno insegnato che disservizi, ingiustizie, soprusi, truffe e qualunque altra cosa non ci vada bene dev’essere sottoposta a una pesante gogna mediatica, perché la giustizia dei media è molto più efficace di quella ordinaria. Nelle Storie di Instagram si possono pubblicare foto più vecchie di 24 ore. Altre volte invece siamo semplicemente i gonzi che abboccano alla trappola e fanno il gioco di chi cerca esattamente la nostra indignazione per diventare virale. È il caso del Buondì (dai, veramente vi scandalizzate per una cosa del genere?) della maggior parte dei titoli di Libero, che ormai da qualche anno ha perfezionato una tecnica molto simile ai bambini che dicono le parolacce per sentirsi importanti, è il caso della polemica sull’etica dell’essere vegano (in un mondo in cui nessuno di noi può considerarsi etico nel consumare) ed è il caso di un articolo di TgCom che sta rimbalzando in queste ore sui social, una sorta di guida per le donne che fanno faccende in casa e vogliono apparire meno trasandate. Un articolo che come molti altri cerca, a partire dal titolo – Look casalingo: come evitare di sembrare super trasandate – con toni degni di almeno quarant’anni fa di far incazzare profondamente i propri lettori, sperando che condividano indignati l’oggetto della loro rabbia. I toni sono quelli da manuale di economia domestica degli anni ’50. Si parla di “Contegno”, di “dignità e compostezza”, di essere “carine” per l’uomo che lavora e tornando a casa probabilmente pretende di trovare una donna che ha passato il pomeriggio a lavare il water, ma che non rinuncia a un trucco nude look. Il tutto è accompagnato con una gallery patinatissima di casalinghe perfette che sorridono mentre fanno le faccende come in un magazine femminile uscito dal cassetto di tua nonna, tanto per aggiungere la beffa a uno scherzo già abbastanza palese. Il vero tocco di classe è “Ricordiamoci poi che nell’immaginario maschile tornare a casa e trovarci nude vicino ai fornelli con indosso solo un grembiulino è una fantasia ricorrente”. Ma che roba è? Come dire “se vuoi tenertelo stretto ogni tanto rischia di bruciarti con l’olio bollente della friggitrice per il gusto di farlo felice”. Questo articolo insomma è un gigantesco trappolone, probabilmente creato con la consapevolezza di voler scatenare un po’ di indignazione in cui giustamente vive il nostro tempo e non in una sorta di passato in stile Mad Men in cui la donna sta a casa e deve fare le faccende vestita di tutto punto perché potrebbe arrivare il postino e chissà cosa dicono i vicini. A giudicare dai commenti sottostanti, chi ha commissionato il pezzo ha ottenuto l’effetto desiderato: sollevare un vespaio di commenti indignati, che contribuiscono alle visite del sito, alla SEO e che di fatto autorizzano TgCom a farne altri. Che poi è lo stesso principio delle fake news no? Una notizia dal contenuto oltraggioso, scandaloso e in grado di scaldare gli animi così tanto da generare condivisioni a raffica nella brava gente in cerca di giustizia. La differenza è che la notizia falsa viene condivisa da espertoni informati lontani dagli organi “di regime” mentre certi articoli li condividiamo proprio perché ci fanno schifo. Purtroppo è un meccanismo in cui prima o poi caschiamo tutti, c’è poco da fare, ne parlavo più di un anno fa in occasione della drammatica performance musicale di Antonio Razzi: di fronte a certe cose la risposta migliore sarebbe il silenzio, ma non ce la facciamo. In un panorama editoriale basato sui click, quando decidiamo di condividere qualcosa che ci fa schifo è come se entrassimo volontariamente in un ristorante che già sappiamo di non apprezzare per mangiare cose che ci fanno vomitare per poi poter dire “Questo ristorante dovrebbe chiudere!”. Di fatto stiamo dando soldi e stiamo aiutando chi vorremmo vedere chiuso. Ormai un sacco di blog, siti, youtuber e chiunque cerchi di prosperare in rete lo ha capito, basta individuare la nicchia di persone a cui potresti dare fastidio e insistere su quella. Le condivisioni di chi disprezza saranno probabilmente più di quelle dei sostenitori. Il meccanismo è difficilissimo da contrastare, anche perché si alimenta in maniere spesso inconsapevoli, anche questo articolo, sono sicuro, verrà tacciato di contribuire in qualche modo. Non importa sviluppare buoni contenuti, scrivere in modo corretto o verificare le fonti, scrivi un pezzo dozzinale, retrogrado e che possibilmente rivendichi il proprio diritto di parola perché “tutte le opinioni hanno valore” e sei a posto. Lo scandalo sarà anche la moneta dei peggiori, ma purtroppo ha lo stesso valore. Dunque fatevi (anzi, facciamoci) più furbi e se vediamo un articolo che proprio ci fa ribrezzo, usa toni non appropriati o sembra scritto proprio per darci fastidio, lasciamolo perdere. Nell’epoca in cui l’attenzione può essere monetizzata, ignorare è un atto rivoluzionario.

LA SEMANTICA E LA DISTORSIONE DEL SENSO DELLE PAROLE.

Il glossario della violenza. Da abuso a stupro, il significato delle parole che utilizziamo dopo lo scandalo Weinstein. Abbiamo chiesto alla linguista e lessicologa Valeria Della Valle di aiutarci a trovare la definizione giusta per ogni termine. Partiamo, per ciascuno, con la definizione del Devoto Oli, scrive il 14 novembre 2017 Elvira Serra su "Il Corriere della Sera". Le parole sono importanti. Il caso Weinstein ce lo sta dimostrando una volta di più. Ascoltando quelle utilizzate nelle varie testimonianze e nei commenti che sono stati fatti finora, ci rendiamo conto, spesso, della assoluta indeterminatezza semantica dei termini scelti: ciascuno può assumere un connotato più o meno grave a seconda di quello a cui si riferisce. Soltanto due parole (stupro e stalking) hanno un significato univoco e certo. Le altre coprono, nascondono, non chiariscono. Perfino un termine come carezza, che può essere qualcosa di assolutamente angelicato, può trasformarsi in qualcosa di molto insidioso e intimo, a seconda del contesto in cui viene utilizzato. La linguista e lessicografa Valeria Della Valle, già professoressa di Linguistica italiana alla Sapienza di Roma, coordinatrice scientifica della Terza edizione del Vocabolario Treccani e direttrice scientifica, con Giovanni Adamo, del volume Neologismi Treccani, ci ha aiutato a creare questo glossario.  Per ogni termine abbiamo prima indicato la definizione che ne dà il Nuovo Devoto Oli 2018. Segue, per ciascuno, il commento di Valeria Della Valle, che definisce e qualifica ancora meglio tutte le parole.

Abuso. «Uso eccessivo, illecito o arbitrario». Sotto la voce abuso non c’è un’idea riferita alla violenza sessuale, che invece troviamo sotto il verbo «abusare» (di una donna, per esempio, cioè di usarle violenza).

Abuso di potere. Tutti i racconti ascoltati in queste settimane ci rimandano all’«abuso di potere»: questo comprende il complimento pesante, la carezza non richiesta, l’avance non gradita, ricevuti da una persona che esercita un potere rispetto a un’altra. 

Aggressione. «Attacco proditorio e violento». Implica un atto di violenza, ma improvviso. Se lo stalking è una violenza continuativa, l’aggressione è un atto di violenza improvviso. Lo usiamo anche al di fuori della sfera sessuale, quando parliamo dell’aggressione di uno scippatore, di un rapinatore, ma anche di persona che presa da un raptus di violenza fa del male improvvisamente a chi ha di fronte.

Approccio. «Avvicinamento». La parola vuol dire anche contatto. E da contatto (che di per sé non implica niente di violento o sessuale) si passa a espressioni come «tentare un approccio», «fare degli approcci». Se qualcuno ci dice che il capoufficio ha fatto un «approccio pesante», non parliamo solo di accostamento, ma di qualcosa di diverso che può essere fastidioso, grave o gravissimo: magari una carezza, un complimento o un contatto fisico diretto senza richiesta del permesso.

Avance. «Approccio»; «Tentativo di sondare le intenzioni dell’altra parte nel campo degli affari, in quello politico e, soprattutto, in quello del rapporto galante». Avance è una parola francese che si usa da moltissimo tempo nella lingua italiana. Significa, al plurale, le proposte, le profferte, che sono verbali (fare un’avance vuol dire fare una proposta). Ma nell’uso del termine, oggi, può essere implicato anche un gesto. E con questo senso, soprattutto dopo Weinstein, le avance sono diventate qualcosa di molto più intimo, sessuale, carnale. Una parola in origine «innocente» ora dà più l’idea di un accostamento fisico. Quando l’avance si trasforma in molestia? Dipende dall’accoglienza di chi la riceve: di certo succede quando non è gradita e mette a disagio il/la ricevente, soprattutto se si trova in una posizione di subalternità che gli/le impedisce di respingerla in modo sereno.

Carezza. «Tenera dimostrazione di affetto o di benevolenza fatta lisciando o toccando delicatamente con il palmo della mano chi ne è l’oggetto». In genere si fa al bambino e alla persona amata. Sembrerebbe una parola innocente, che riguarda solo affetti e sentimenti nobili. Ma non è così. Il «Tommaseo», il più importante dizionario della lingua italiana prodotto durante il Risorgimento italiano, alla fine dell’800 distingueva le «carezzine» dalle «carezzocce». Le carezzine sono quelle buone e innocenti che si fanno ai bambini, le carezzocce sono quelle badiali, grasse, forse più volgari e carnali. Già questo dimostra che una stessa parola a seconda di come la si usi può significare una cosa o un’altra molto diversa.

Complicità. «Partecipazione a un’azione criminosa o moralmente riprovevole»; «Aiuto, favore, protezione». La parola, nata inizialmente con una connotazione negativa, ha assunto nel tempo anche un’accezione positiva (quando per esempio parliamo di complicità in una coppia o tra colleghi). A proposito della violenza sessuale e delle molestie, troviamo la parola «complicità» riferita alla rete che ha avvolto nel silenzio i fatti raccontati; o anche all’intesa tra la vittima e il carnefice, quando finiscono con l’essere solidali in un gioco di potere.

Complimento. «Espressione di ammirazione o di affetto»; «Atti e parole di formale cortesia». Anche questa parola ha tutta una sua ambiguità. È in genere una dichiarazione di gentilezza nei confronti di qualcuno. Questa, però, è una definizione molto generica. Perché i complimenti possono essere fatti apposta per ottenere qualcosa, e passiamo in un attimo alla sfera sessuale. Il complimento, poi, può essere pesante: quello fatto per strada, oppure rivolto a una persona sconosciuta, da cui si vogliono ottenere dei favori. In un attimo, dalla sua accezione di rispetto siamo passati a qualcosa di molto diverso.

Corteggiare. «Rivolgere a qualcuno gentilezze, complimenti, galanterie per cercare di conquistarne l’amore». Corteggiamento: «Assiduo susseguirsi di attenzioni o di complimenti». Il corteggiamento e il corteggiare (parole che hanno ormai una patina un po’ antiquata e d’altri tempi) rientrano tra i comportamenti galanti, tradizionalmente a base di fiori, inviti, lettere, dichiarazioni d’amore. Ma se i regali, gli inviti e le dichiarazioni sono sempre rifiutati, la persona corteggiata li vive come atti di sopraffazione: il corteggiamento ossessivo si trasforma così in molestia, o addirittura in stalking.

Lusinga. «Motivo di allettamento, costituito o sottolineato da espressioni carezzevoli o adulatorie». Oggi non si usa quasi più, ma un tempo rappresentava un atteggiamento che mediante parole e atti benevoli cercava di attirare la simpatia di qualcuno per indurlo a un certo comportamento. È una parola antichissima, del Duecento, di origine provenzale: servirsi delle lusinghe, attirare qualcuno con le lusinghe, cedere alle lusinghe può voler dire accettare qualcosa oppure cedere alle proposte di un certo tipo. Oggi usiamo l’espressione scherzosamente, per far riferimento a una parola di vecchio stampo. Ma se vogliamo inserirla all’interno del quadro post Weinstein, anche le lusinghe finiscono per alludere a un qualche compromesso: cedere alle lusinghe significa cedere all’adulazione, concedere qualcosa in cambio di qualcos’altro.

Molestia. «Acuta sensazione di disagio provocata da fattori che disturbano, irritano, infastidiscono». Molestia sessuale: «Atto o discorso lesivo della dignità di una persona dal punto di vista sessuale, perseguito come reato». Molestia è una delle più usate da quando è partito lo scandalo Weinstein. L’ha adoperata anche Gina Lollobrigida, a Porta a Porta («Anche io ho subite molestie, anzi di più, e non ho denunciato»). In tutti i dizionari si specifica poi «molestia sessuale», che offende la dignità di una persona sotto il profilo sessuale. Ma anche qui, c’è una copertura eufemistica. Perché si può chiamare molestia sessuale anche uno stupro.

Palpeggiare. «Palpare insistentemente; accarezzare, toccare ripetutamente a scopo erotico». Di palpeggiamenti ha parlato Miriana Trevisan a proposito di un lontano incontro con il regista Giuseppe Tornatore. Sono vari i verbi che si possono utilizzare per indicare l’azione del toccare unita a una finalità erotica. Palpeggiare più di tutti dà l’idea di una mano che si insinua in un corpo e lo tocca anche quando non vorrebbe essere toccato. Tra gli altri verbi che possono alludere a un tipo di contatto con sfondo erotico ci sono strusciare, toccare, sfiorare. Indicano varie sfumature che si riferiscono a questa finalità di raggiungere il piacere erotico anche indipendente dalla volontà della persona che viene palpeggiata e che quindi diventano atti di molestia.

Potere. «Influenza esercitata su qualcuno o su qualcosa; autorità, ascendente, influsso». Tutte le parole e gli atti legati alla sopraffazione sessuale spesso hanno a che fare con il potere. E se tutti oggi stiamo parlando di abuso di potere è perché le due cose sono strettamente connesse. Il potere in campo intellettuale è un elemento che si gioca per ottenere favori da qualcuno in cambio di qualcosa. All’interno del rapporto di potere, subentra spesso la sfera sessuale che fa parte dei favori concessi in cambio di qualcosa o pretesi per un’altra. L’«abuso di potere» tiene insieme le parole usate finora, dalle più innocenti alle più esplicite.

Proposta. «Quanto viene presentato all’altrui attenzione nei termini del suggerimento, del consiglio, dell’offerta». In sé e per sé è una parola che allude all’atto del proporre, del presentare qualcosa o qualcuno perché diventi oggetto di una valutazione. Il termine «proposta» sembrerebbe non implicare qualcosa di erotico o che faccia riferimento alla sopraffazione. Ma su questa parola pesa il titolo del film Proposta indecente, del 1993. Molto spesso i titoli che fanno presa sul pubblico entrano nel linguaggio comune. Se prima il termine «proposta» non alludeva a implicazioni erotiche, da quando è stato associato all’aggettivo «indecente» ha cominciato a essere contaminato.

Seduzione. «Capacità di suscitare un’attrazione fisica forte o addirittura irresistibile». Seduzione è collegata al verbo «sedurre», che implica il concetto di fascino e che quindi sembrerebbe portare verso una sfera dove non c’è sopraffazione. Però è vero che sedurre viene usato quasi come sinonimo di «insidiare», e allora ha già un significato più grave. Nel verbo insidiare c’è la connotazione del circuire, e quindi diventa molto sottile il confine tra un verbo come sedurre (con la parola seduzione) e il verbo insidiare (con la parola insidia). Si passa dall’idea di seduzione, che avviene sulla base del fascino personale, per affascinare e conquistare qualcuno, all’idea di insidiare qualcuno circuendone la buona fede.

Sopraffazione. «Imposizione dura e prepotente della propria volontà». Qui c’è un elemento in più, sempre riferito alla sfera sessuale: implica un imporsi su qualcuno in una situazione di maggiore debolezza. La sopraffazione ha un qualcosa di più grave perché è messa in atto dall’adulto rispetto al minore che non riesce a difendersi. Può essere una sopraffazione morale che diventa fisica, come è successo con le quattordicenni che hanno incontrato di persona l’uomo conosciuto via chat da cui sono state poi violentate.

Stalking. «Insieme di comportamenti persecutori ripetuti e intrusivi, come minacce, pedinamenti, molestie, telefonate o attenzioni indesiderate, tenuti da una persona nei confronti della propria vittima». La parola è entrata prepotentemente nel linguaggio comune nel 1996 per alludere a una serie di atti persecutori. A che cosa ci si riferisce quando si para di atti persecutori? Lo stalking va dalla telefonata continua all’appostamento sotto casa, fino alle vie di fatto che comprendono atti di persecuzione fisica. Con questo unico termine si indicano tante cose che il diritto inquadra. Rispetto a tutte le altre parole usate finora, c’è questa nuova idea di persecuzione. Lo stalking ha in più l’idea di continuazione nel tempo delle offese morali a una persona.

Stupro. «Il reato di violenza carnale». La parola risale al 1292. Compare per la prima volta nel Libro dei Vizi e delle virtù di Bono Giamboni. Significa atto sessuale imposto con la violenza. Qui non ci sono ambiguità, è il termine che più chiaramente di tutti allude a ciò che è successo. Non ha indeterminatezza semantica e va dritto allo scopo: c’è stato un atto sessuale imposto con la violenza, magari in seguito a un abuso di potere. È la parola più chiara, esplicita e corretta tra quelle utilizzate nei vari dibattiti post Weinstein, perché non lascia adito a nessuna ambiguità. Molte delle critiche anche violente che sono state rivolte contro Asia Argento nascevano probabilmente dal fatto che le parole da lei scelte non chiarivano mai completamente quello che le era successo.

Violenza. «Azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà». Insieme con molestia, è una delle parole più nominate sul caso Weinstein. Ma la violenza raccontata a partire da quel giorno è stata spesso indeterminata. Noi non capivamo bene in che cosa consistesse la violenza esercitata dal produttore americano Harvey Weinstein, c’era implicita una forma di eufemismo.

Violenza carnale. «Il reato di chi impone ad altri con la forza un rapporto sessuale». Non si usa più tanto, mentre nel passato era molto frequente: decenni fa, con questi termini si qualificava lo stupro.

Violenza sessuale. Implica la penetrazione. È una violenza di tipo sessuale rispetto a qualcuno che non è disposto a concederla.

Da questo si passa all'approccio distorto del senso logico delle parole da parte delle femministe e comuniste...

Michela Murgia: "Il concetto di patria ha fatto solo danni. Cominciamo a parlare di Matria". Per sconfiggere i nazionalismi serve una nuova categoria, che sconfigga alla radice il maschilismo strettamente legato al concetto di patriottismo. La sfida della scrittrice. Scrive Michela Murgia il 15 novembre 2017 su “L’Espresso”. Non c’è un’accezione amabile della patria, e se c’è è forse proprio quella che dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci ha dato lezioni amare per tutto il ’900. La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra significa creare di sé un falso logico, oltreché geologico. La seconda ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è portatrice. È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati. E se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui siamo. E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale dell’appartenenza collettiva - padre, ma anche l’ossimoro madre patria - potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria. La prima utilità di questo cambio di senso sarebbe immediata: ci costringerebbe a ripensare la cittadinanza così come la conosciamo. Legarla alla patria (e quindi alla paternità) ha infatti confermato solo le appartenenze che storicamente vengono dai padri: consanguineità e patrimonio, cioè ius sanguinis e ius soli, entrambe matrici squalificanti e divisive dello stare insieme. Lo ius sanguinis è il principio di tutti i patriarcati e di conseguenza di tutti i nazionalismi, perché se il sangue genitoriale definisce la tua appartenenza allora non importa più chi sei, ma solo di chi sei. Il singolo non ha valore se non come estensione dell’identità collettiva. Chi difende lo ius sanguinis pretende che tutte le relazioni individuali siano subordinate alla relazione collettiva originaria, quella dell’essere sangue del sangue di un cittadino italiano. Per questo non importa da quanti anni sei nato qui, se ci lavori, se ci sei cresciuto o ci sei andato a scuola: senza quell’atto d’origine non sei nella nostra genealogia sociale, sei nessuno. Con lo ius soli non va molto meglio e per questo la battaglia pur necessaria per ottenerlo anche in forma blanda è una battaglia di retrovia storica, già superata dalle esigenze del presente. Il diritto del suolo ha fondato infatti gli imperialismi e le colonializzazioni, perché se è la terra che possiedi a darti l’identità, è legittimo e indispensabile accaparrarsene quanta più possibile, non importa come, e difendere quella che hai con ogni mezzo. Perché la terra ti definisca come proprio è infatti indispensabile che tu a tua volta la definisca come tua in modo non sindacabile, altrimenti chiunque ti porti via la terra ti porterebbe via anche l’identità. Paradossalmente si sono fatte più guerre per lo ius soli che per lo ius sanguinis, perché la terra, a differenza del sangue ricevuto una volta per tutte, è sempre a rischio di sottrazione. Va da sé che fondare cittadinanza su questi principi - entrambi strutturali al concetto di patria - porta e ha portato già a tragedie diverse, tutte non augurabili. Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale elementare, perché nutre e si prende cura. Prima di suscitare timore, suscita amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine. Nella prospettiva dell’appartenenza, il materno è uno spazio dove a legittimare l’esistenza e l’identità è quello che ti offrono, che è la matrice e non la conseguenza di ciò che poi offrirai tu. Non è strano che le persone che arrivano qui scappando dal proprio paese a volte possano dire: «Mi sento a casa». Non è un esproprio, ma la prova che stanno ridefinendo la loro appartenenza dentro alle relazioni anche istituzionali che hanno incontrato. Lo slittamento semantico cambia la prospettiva, perché tra patria e matria c’è la stessa differenza che esiste tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque. Sarebbe un grosso errore pensare che solo uno dei due sia il luogo della politica.

I radical chic nel mondo reale. È sempre bello quando la sinistra scopre il mondo reale, scrive Felice Manti, Giovedì 16/11/2017, su "Il Giornale". Succede che la scrittrice Dacia Maraini venga scippata per strada. «Stavo andando a teatro per vedere uno spettacolo tratto da un mio testo», ci tiene a dire al Corriere della Sera, che subito ne raccoglie il lamento dedicandogli un'intera pagina del quotidiano di ieri. È sempre bello quando la sinistra scopre il mondo reale. Quello dei furti in casa, degli scippi per strada e delle interminabili file alla Questura. «Vado subito alla stazione di polizia vicina e denuncio il caso - racconta - un giovane e simpatico poliziotto mi dice che da un poco di tempo gli scippi sono aumentati». Bah, che strano. La gente ruba. E così la Maraini prova un sentimento nuovo, «la rabbia». Lì, in fila, nella consapevolezza che tanto è tutto inutile, che tutte quelle copie della denuncia (ah, la burocrazia...) serviranno a poco o nulla. D'altronde il governo Renzi, con la scusa di velocizzare la giustizia ha depenalizzato i cosiddetti «reati bagattellari» come truffe e furtarelli appunto, e tanto piacere per le vittime di questi reati «leggeri» ma odiosissimi. Ma l'autrice di Marianna Ucrìa, piombata all'improvviso nel fantastico mondo degli sfigati, non si capacita di tanta barbarie. E qui parte la solita caccia al colpevole. «È il terrorismo islamico», sentenzia, che ha introdotto «un sordo innamoramento della devastazione, che li porta a drogarsi, ubriacarsi, correndo verso la morte come fosse una liberazione esaltante». E tutte quelle barbe incolte in giro? È colpa degli imam, «i barbuti predicatori di odio». Ah certo, il ladruncolo ragazzino è innocente per definizione. Non sarà invece la solita Età del malessere, che la Maraini conosce bene? Quella che fa lanciare i sassi dal cavalcavia o dare fuoco a un clochard solo per noia, senza bisogno di scomodare l'Isis? Non potrebbe anche essere colpa della crisi economica, che ha impoverito ancor di più il ceto medio spingendo alla disperazione padri e madri di famiglia? No, come al solito il ladruncolo è innocente. E come teorizzano da sempre le toghe di Md gli unici reati da perseguire sono quelli dei colletti bianchi e della politica, che con il suo linguaggio «che scivola nell'insulto e nella denigrazione» ha le sue responsabilità, e come no. È tutta colpa di un tweet di Salvini...

Porta a Porta e le donne alla sbarra. È cambiato ben poco dal “Processo per stupro” al caso Asia Argento: la vittima diventa colpevole, il "morsetto" diventa "leccatina" e la televisione si nutre delle accuse alle donne. Fino al gioiello regalato da Bruno Vespa, scrive Beatrice Dondi il 6 novembre 2017 su "L'Espresso". Era il 1979 quando la Rai mandò in onda il documentario “Processo per stupro”. La vittima, Fiorella, sequestrata e violentata per quattro giorni, veniva messa alla sbarra perché alle brave ragazze queste cose non possono succedere. Ai telespettatori venne mostrato, con la lucida verità delle riprese, una vittima che col passare delle arringhe diventava talmente colpevole da doversi difendere. «Signori miei, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza. Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro, parte che per antonomasia viene definita delicata dell’uomo. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!» disse nella sua arringa l’avvocato degli stupratori. Un documento, trasmesso all’epoca in prima serata tanto sconvolgente quanto inutile. Perché a distanza di 38 anni non sembra essere cambiato granché. Dopo la denuncia di Asia Argento la nostra piccola scatola televisiva si è riempita a dismisura di giudizi e crocifissioni, commenti con l’accetta e disquisizioni più basse che alte, che si pensava appartenessero a un passato remoto. Un florilegio a ritmo continuo di “Non moriva di fame, non aveva bisogno del pane. Ma non ha rinunciato, per vanità, per un lancio di carriera e volgarmente, l’ha data”. E ancora: “Questa chiagne e fotte, chiagne e fotte”. “Non siamo qui per giudicare? E allora che ci siamo venuti a fare” Evidentemente le faceva comodo, evidentemente”. “Ha raccontato di avere paura... perché mordeva?”. E sorvolando per dignità sulla «leccatina che fa tanto piacere», mentre le ore scorrono e il palinsesto si comprime, si arriva al gioiello finale di Bruno Vespa, artista dell’implacabile Porta a Porta: «Le donne sono sempre stata attratte dal potere. Mussolini ogni pomeriggio riceveva un’attrice. E c’era la coda. Qualcuna riceveva delle piccole somme in denaro, ma era l’idea del potere. Quindi il punto è: le donne per fare carriera dove devono fermarsi?». Nel ringraziare per la domanda verrebbe quasi voglia di rispondere. Ma forse è meglio aspettare il prossimo processo.

Ho visto cose belle. "The Deuce", la nascita del porno nella New York anni Settanta. Da vedere (Sky Atlantic) per almeno tre motivi: Candy, la prostituta consapevole, di se stessa, del suo corpo, del suo mestiere antico. James Franco, nei panni del gemello Vincent Martino. E James Franco che fa il gemello Frankie. Una prova d’attore che vale doppio.

Ho visto cose brutte. Tra le facce gommose di Tale e Quale si paga la tassa Gabriele Cirilli in versione fiabesca. Cirilli Ariel, Cirilli Shrek, Cirilli Ape Maia. Ma è un personaggio solo, passa in fretta. Quasi insostenibile invece è la moltiplicazione. Dopo aver visto i sette Cirilli diventare sette nani, non resta che tifare con forza per sette mele della strega cattiva.

Caso Brizzi, le parole di Neri Parenti e l’indegna difesa del “branco”, scrive Elisabetta Ambrosi il 14 novembre 2017, su "Il Fatto Quotidiano". Che Fausto Brizzi vada considerato innocente fino a prova definitiva è un’affermazione persino banale. Ma che le accuse che gli sono state rivolte – per il numero delle testimoni e per la gravità delle cose dette – facciano luce su un comportamento gravissimo e inquietante dovrebbe essere cosa altrettanto banale, tale da suscitare almeno un silenzio angoscioso di fronte alla possibilità che queste testimonianze siano assolutamente fondate. Va ricordato anche il fatto che lo stesso Brizzi non ha sporto alcuna querela verso le ragazze che hanno denunciato apertamente – Alessandra Giulia Bassi e Clarissa Marchese – mentre la Warner Bros Italia ha deciso di sospendere ogni futura collaborazione col regista e di non associare il suo nome ad alcuna attività relativa alla promozione e distribuzione del film “Poveri ma ricchissimi”. Una scelta pesante, dunque, che non mi pare qualcuno abbia attaccato. Lo stesso non è avvenuto nei confronti delle ragazze che hanno parlato. Infatti, dagli altri registi mi sarei aspettata un comportamento all’insegna soprattutto del rispetto per le possibili vittime, unita a una certa indignazione verso quello che si profila essere un abuso di potere violento e sconvolgente. Invece in Italia – peggio che in America – sta accadendo quasi il contrario: e cioè quella che non può che definirsi in qualche modo difesa del “branco”, fatta pure da nomi femminili. E che lascia attoniti. Le parole per me più scandalose le ha dette il regista Neri Parenti in un’intervista a Radio Capital. In un intervento anche mal spiegato- visto che il regista in un certo senso si è contraddetto quando ha detto che le ragazze che hanno denunciato a volto coperto non potevano certo essere in cerca di notorietà – Neri Parenti parla delle “signorine”, un termine che esprime il massimo disprezzo per queste donne che immagino con fatica immensa hanno denunciato, alcune apertamente. E ha aggiunto, con una frase che suona come una minaccia, “una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film”. Ecco, questa è un’immagine emblematica di una mentalità molto diffusa nel nostro Paese. Quella che vuole la donna silenziosa e muta (ma d’altronde basta guardare i suoi film), una donna che mai dovrebbe pensare di poter denunciare un potente, quand’anche questo avesse abusato di lei. Meglio l’omertà, il silenzio, per non rovinare carriere che contano più delle vite di donne sconosciute. Ma le parole di Neri Parenti sono solo la punta più eclatante di un una serie di prese di posizione di altri registi che avrebbero fatto meglio a tacere, oppure a puntare la loro attenzione sulla gravità delle accuse rivolte a Brizzi e sulle donne offese. Paolo Virzì, che ha il merito di aver difeso Asia Argento, si stupisce che ciò possa essere accaduto, ma anche “altrettanto che sia stato accettato”, e finisce così per mettere sullo stesso piano un regista potente e una semi-sconosciuta che sta facendo un provino. Francesco Bruni, regista di Scialla!, posta addirittura sul suo profilo Facebook una foto di Enzo Tortora, poi si lancia in un’incredibile invettiva retorica. Come riportato dal Fatto.it, Bruni scrive sul social network: “D’ora in avanti, se più persone dicono che hai fatto una cosa, quella è” dice, forse dimenticando come si porta avanti processualmente un’accusa nel nostro paese e ciò che occorre perché venga accolta, ovvero riscontri e prove certe. E poi aggiunge: “Anche ammesso che i fatti siano quelli, ci sono le modalità in cui si svolgono, che spesso vengono rappresentate in maniera opposta (…) La realtà è piena di sfumature”. La classica (falsa) difesa secondo cui ciò che è vero oggettivamente non è vero soggettivamente, proprio come quando un coniuge scopre un tradimento e l’altro grida “non è quello che pensi tu”. Ma non basta. Tracce di difesa tipica di un gruppo attaccato nel suo insieme, quello dei potenti registi italiani, si ritrovano anche nell’intervista a Federico Moccia, che pure da Brizzi ha preso le distanze. E che tuttavia parlando di Brizzi lo definisce “una persona che è stata infangata, distrutta”, in qualche modo così spostando nuovamente la colpa sui testimoni, anche se Brizzi non è stato infangato ma messo sotto accusa, che è cosa radicalmente diversa.

Poi ci sono le donne chiamate in aiuto a difendere il potere, come l’attrice Nancy Brilli, la cui intervista è stata accompagnata dal Corriere della Sera all’articolo di Brizzi per svariati giorni, quasi che il secondo non potesse stare in piedi senza una difesa. “Le donne prendono coraggio sulla scia dello scandalo Winstein, ma senza portare le prove di distruggono persone e famiglie”. Anche se sono d’accordo con Brilli che le accuse si fanno in Procura, ci si chiede quali prove – più della propria testimonianza – queste ragazze avrebbero dovuto portare. E poi c’è, peggiore tra tutte davvero quanto a dichiarazioni, Irene Ghergo, che in una intervista al Fatto.it sostiene “che il maschio sia molestatore è un dato che ahimè è sempre esistito” e che “Entro certi limiti un gesto di apprezzamento è anche lusinghiero” ma anche, in modo contraddittorio, che “la donna ha la facoltà di ribellione e nessuno gliela può togliere” e che “Se una non ha la forza di ribellarsi, e comunque di non perdere la tenacia, se ne facciano una ragione”. Poi, dimenticando che nel caso Brizzi non parliamo certo di decadi, afferma anche che “dopo 30 anni anche se c’è rabbia, frustrazione, si archivia”. Con rispetto per Ghergo, mi chiedo che senso abbia intervistare una professionista che parlando di molestie a giovani attrici mette in mezzo Boncompagni e le sue fidanzate giovanissime, attribuendogli la frase “A me le mie coetanee non piacciono, mi fanno orrore, a me servono almeno 50 anni di differenza”. Una professionista che difende Berlusconi a spada tratta, sostenendo che mai telefonò a Mediaset per raccomandare una ragazza. Questo sì che ha dell’incredibile. D’altronde, l’argomentazione secondo cui le donne possono sempre reagire e quelle che non lo fanno sono complici, per non dire prostitute o mignotte, è la stessa tesi che circola sui social in questi giorni di cronaca di molestie sessuali. Ad essa si aggiunge anche la critica dei troppi anni passati, peccato che non si applichi nel caso di queste donne che hanno accusato Brizzi, visto che i fatti sono più recenti. Ma io sono sempre più convinta che non ci sia distinzione tra chi ha accettato il rapporto e chi no, come ad esempio, nel caso Brizzi, le due testimoni a viso aperto. Come hanno dimostrato brillantemente due personaggi diversi in questi giorni, le fragili difese di molestatori – coloro che saranno provati tali, ovviamente – cadono di fronte ad argomentazioni d’eccellenza. Una è quella del comico statunitense Louis CK, che sul New York Times ha ammesso il suo errore, ha chiesto scusa e ha detto di provare “vergogna”. Ma soprattutto ha espresso questo ragionamento di grande profondità e verità: “Al tempo, mi ero detto che quello che avevo fatto era ok, perché non avevo mai mostrato il pene a una donna senza prima chiedere il permesso, cosa che è anche vera. Ma più avanti nella vita ho capito, comunque troppo tardi, che quando sei in una posizione di potere chiedere loro di guardare il tuo pene non è una domanda. Per loro è un’imposizione. Il potere che avevo su queste donne era che loro mi ammiravano. E io ho usato irresponsabilmente questo potere”. Gli ha fatto eco, stessa identica posizione, l’avvocatessa Giulia Bongiorno in un’intervista sempre del Fatto quotidiano: “La violenza è presente non soltanto se l’uomo rende d’assalto la vittima o se compie una penetrazione. Nel contesto attuale, anche se la donna accetta, il suo consenso è alterato dal fatto che deve scegliere, tra due mali, il minore: o accetta la proposta sessuale o viene esclusa. Non c’è libertà di autodeterminazione: quindi c’è una violenza”. Mi sembrano parole definitive, sulle quali tutti dovrebbero riflettere.

LA GOGNA DEI TRIBUNALI IN TV E L’ONTA DELLE SENTENZE MEDIATICHE.

Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017. Parliamoci chiaro, tutta la bagarre che si è innescata intorno al caso Weinstein oltreoceano ha smosso sicuramente le coscienze e gli umori di una società omertosa come non se ne vedeva da tempo. Finalmente siamo a un punto di svolta: è certo ormai secondo fonti americane che il famoso ex produttore possa essere arrestato in tempi brevi, se non questo fine settimana, poiché l’ultimo caso di stupro nei confronti di Paz del Huerta è da considerarsi molto recente rispetto agli altri già noti. Non solo: tra pochi giorni ci sarà una dichiarazione congiunta di altre due giovani attrici, raggirate anche dalle promesse lavorative e poi scaricate al loro destino, che aggraveranno questo quadro indiziale. Ovviamente non poteva mancare in Italia lo strascico di polemiche a riguardo ed infatti siamo in ballo anche noi, con le accuse rivolte dalla regista ed attrice Asia Argento al noto produttore per le ripetute molestie subite in giovane età, che vanno ad aggiungersi a tutte le altre denunce, finora mediatiche, di moltissime attrici hollywoodiane. Proprio Asia Argento in questi giorni sta preparando una campagna di sensibilizzazione, insieme ad altre colleghe americane e importanti onlus internazionali, dal nome “NoSHAMEFist”, che aprirà a breve un portale di raccolta e sostegno psicologico per le donne, con la possibilità di raccogliere anche denunce in forma anonima o in video. Non poteva esistere sexygate, o scandalo sessuale come preferite, senza il suo risvolto nell’ambiente gay: la caduta del dio Kevin Spacey a seguito delle accuse sulle molestie nei confronti di tanti giovani e aitanti attori e attrici si aggiunge alla lista di quelle nei confronti di Dustin Hoffman, John Travolta e il comico Louis Ck, onanista seriale. Il mondo del calcio non resta a guardare e Hope Solo, famosissima calciatrice americana, denuncia Jep Blatter, ex plenipotenziario della Fifa, di averla molestata prima di una premiazione. L’elenco si allunga ed anche in Italia dopo le accuse della Argento rivolte in America abbiamo avuto la graticola mediatica per Giuseppe Tornatore da parte di Miriana Trevisan e di ben dieci attrici o aspiranti tali che al programma Le Iene e nell’ambiente cinematografico accusano e fanno girare il nome di Fausto Brizzi e, sembra, di un altro regista, come loro aguzzini sessuali. Dopo questa lista di nomi fermiamoci un attimo a fare una riflessione.  Quanti di voi sanno che Marlon Brando -e questa è una vicenda che non resta più avvolta da un alone di mistero- fosse un maniaco del controllo sessuale? Brando sembra obbligasse per esempio James Dean a lunghe sessioni di sesso violento e sodomizzato, durante il quale lo bruciava con le sigarette e lo costringeva a guardarlo mentre lo faceva anche con estranei. Ci crediamo? E il giovane attore lo lasciava fare? Lo stesso attore Dean si dice andò spesso a letto anche con Walt Disney, del quale era nota l’omosessualità e che affittava appartamenti per incontrarsi con i suoi amanti. Sapevate inoltre che Spencer Tracy e Katharine Hepburn, coniugi perfetti agli occhi del mondo, in realtà erano bisessuali impenitenti, proprietari entrambi digarçonnière? Ma ci vogliamo a credere a tutte queste dicerie? Non ci risultano denunce. Chiudiamo con questo indovinello: chi pronunciò le seguenti parole?: «Sali, ti porto a fare un giro di mezzanotte attraverso i canyon di Manhattan». Il giorno dopo all´Actors Studio tutti sapevano della notte di fuoco che c´era stata tra i due. Presto detto, al margine di un intervista rispose al giornalista che lo intervistava Marlon Brando: «Paul è troppo sentimentale, lui degli uomini s´innamora». Quando parliamo di sessualità, molestie e deviazioni dobbiamo focalizzare sempre un punto importante, si è sempre in due e non sempre si è vittime. Il mondo del cinema ha da sempre avuto l’aura del posto più perverso sulla terra, ma sappiamo benissimo che ogni situazione lavorativa può portare a questo meccanismo. Dice in un intervista l’avvocato Giulia Bongiorno: «C’è un confine sottile tra violenza sessuale e prostituzione, e il discrimine è la libertà di scelta», lo sa bene lei, che è impegnata con Michelle Hunziker in Doppia difesa Onlus che tutela le donne vittime di violenza e aggiunge «Ciò che è mancato è la possibilità di scegliere. Se non c’è libertà reale di autodeterminazione allora c’è violenza e al tempo stesso se una donna, mossa da ambizioni di carriera, sceglie di accettare quello che chiede l’uomo anche se non ne ha particolarmente voglia, siamo di fronte alla ricerca di scorciatoie o al piacere personale, non a una violenza carnale». Restiamo a guardare senza giudicare, se non per quello che concerne la nostra morale, ma questo non ci vieta di credere che la società odierna stia vivendo una sorta di cambiamento epocale, forse una nuova rivoluzione nella lotta tra maschi contro femmine.

Chi è Fausto Brizzi, scrive il 13/11/2017 "L'Adnkronos.com". Dall'esordio record alla regia alle pesantissime accuse di molestie sessuali. Classe '68, romano di origini pugliesi, Fausto Brizzi è uno dei registi più apprezzati nel mondo della commedia italiana e autore di successo per la tv e il cinema, con tante commedie di Natale alle spalle sceneggiate per Neri Parenti. Sposato con l'attrice Claudia Zanella, conosciuta sul set del suo film 'Pazze di me', Brizzi è papà di una bimba nata dall'unione nel febbraio 2016. Pluripremiato e acclamato, il regista si è diplomato nello storico Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma nel 1994, occupandosi fino al 2006 della scrittura di film e fiction per altri. Poi la prima regia e, con lei, la notorietà al grande pubblico. E' infatti 'Notte prima degli esami' il lungometraggio d'esordio diretto da Brizzi, campione d'incassi e apprezzato da critica e pubblico tanto da guadagnarsi, fra gli altri premi, un David di Donatello, il Ciak d'oro, il Telegatto, lo Sky Award e il premio del pubblico al Festival di Annecy. Vero e proprio fenomeno cinematografico del 2006, con il suo tuffo nostalgico negli anni '80 il film incassa oltre 12 milioni di euro al botteghino, garantendo al sequel 'Notte prima degli esami - Oggi' girato l'anno seguente uno strepitoso successo, addirittura maggiore del primo capitolo. Tra il 2008 e il 2009 è la volta del terzo film di Brizzi, 'Ex', candidato in ben 10 categorie ai David di Donatello e vincitore di un Nastro d'Argento per la miglior commedia. Nello stesso anno Brizzi diventa anche produttore, fondando con alcuni partner la “Wildside”, società di cui oggi - dopo lo scandalo - ha lasciato le quote. La carriera dietro la macchina da presa vola al ritmo di più di un film all'anno, con 'Maschi contro femmine' del 2010, il sequel 'Femmine contro maschi' del 2011, 'Com'è bello far l'amore' dell'anno successivo e le due pellicole targate 2013 'Pazze di me' e 'Indovina chi viene a Natale?'. Nel mezzo e dopo, videoclip, ruoli da attore, il lavoro di sceneggiatura mai abbandonato. E altri prestigiosi premi portati a casa. Lo stop di tre anni dall'ultimo film per il grande schermo che lo ha visto regista si interrompe nel 2016 con ben due pellicole: “Forever Young” e “Poveri ma ricchi”, primo capitolo il cui sequel, “Poveri ma ricchissimi”, è già pronto per essere proiettato ma il cui destino - dopo le accuse che lo vedono protagonista - rimane ancora molto incerto.

Brizzi, la difesa della moglie: "Gogna mediatica contro di lui". Lettera dell'attrice Claudia Zanella che rompe un lungo silenzio. Parietti e Venier: molestate da altri produttori, scrive Nino Materi, Giovedì 16/11/2017, su "Il Giornale".  Siamo al «liberi tutti». Le cateratte si sono spalancate e il fiume delle presunte molestie sessuali sta allagando le case degli italiani, trascinando nella corrente del ridicolo anche un tema drammaticamente serio e reale come quello della violenza sulle donne: col rischio che, se tutto diventa «molestia», nulla potrebbe più esserlo. Ieri hanno voluto dire la loro anche Mara Venier e Alba Parietti con storielle autobiografiche piuttosto sconcertanti. Contemporaneamente altre due donne (una tatuatrice e la direttrice di un teatro) rilanciavano nuove accuse contro il regista Fausto Brizzi. Un pentolone dove è sempre più arduo distinguere bugie e verità. È questo ciò che vogliamo? Un interrogativo che si pone anche Claudia Zanella, la moglie del regista Fausto Brizzi, nella bufera per lo scandalo delle molestie sessuali. Zanella ha inviato ieri una lettera aperta a tutti i direttori di giornali e tv: «Ho iniziato a fare l'attrice a 11 anni, oggi ne ho 38. In questi anni mi è capitato di sentire di tutto, racconti di molestie, avance ricevute poco gentili e decisamente fuori luogo. Ho anche conosciuto attori e attrici alla ricerca di notorietà a tutti i costi. Se buona parte di tutto ciò che ho sentito ed è circolato nel nostro mondo fosse vero, da essere umano profondamente rispettoso del prossimo, ne sarei profondamente disgustata». Ma poi, ecco i distinguo: «Però deve esserci una distinzione: davanti alla violenza o all'abuso dobbiamo correre dai carabinieri e denunciare; davanti ad un approccio non gradito, invece, dobbiamo rispondere con un secco no, e andarcene, come ho fatto io stessa molte volte in questi anni nell'ambiente del cinema, della televisione e della moda». «Mi addolora molto - aggiunge la signora Brizzi - ascoltare le accuse che sono state rivolte a Fausto in questi giorni perché non corrispondono in nessun modo alla persona che conosco, pur nutrendo il massimo rispetto per le donne che si sono sentite ferite. Mi spiace anche perché a prescindere dal fatto che l'imputato in questo tribunale mediatico sia mio marito, non trovo affatto corretto per nessuno essere descritto come il peggiore dei criminali». La difesa del coniuge prosegue: «Mio marito ha ribadito, più volte, di non aver mai avuto rapporti non consenzienti. Queste accuse formulate in tv, nei salotti televisivi di trasmissioni di gossip, senza nessuna garanzia, possono distruggere la carriera di un uomo, il suo matrimonio e la sua esistenza. Se mio marito ha avuto rapporti con altre donne nel corso del nostro matrimonio, voglio parlarne da sola con lui, nel nostro privato, come è giusto che sia. Devo capire se come moglie mi ha mancato di rispetto. Sono madre di una meravigliosa figlia femmina, e devo esserle di esempio». Lo sfogo si conclude così: «Sono barricata in casa da 5 giorni e non posso nemmeno portare mia figlia di un anno e mezzo al parco, perché sotto al nostro portone ci sono giornalisti e paparazzi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Anche questa può essere considerata violenza sulle donne: in questo caso io e mia figlia».

Fausto Brizzi, la lettera della moglie Claudia Zanella: «Contro di lui un tribunale mediatico». Claudia Zanella interviene sul caso che ha coinvolto il marito, accusato di molestie da 10 ragazze nel corso della trasmissione «Le Iene»: «Queste accuse formulate senza nessuna garanzia possono distruggere la carriera di un uomo, il suo matrimonio e la sua esistenza. Io e mia figlia siamo barricate in casa da giorni: anche questa è violenza», scrive Claudia Zanella il 15 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Pubblichiamo la lettera di Claudia Zanella, moglie del regista Fausto Brizzi, accusato di molestie da almeno dieci ragazze. "Egregio Direttore, Ho iniziato a fare l’attrice a 11 anni, oggi ne ho 38. In questi anni mi è capitato di sentire di tutto, racconti di molestie di produttori su attori e attrici, abusi di potere da parte di registi e casting (uomini e donne), avance ricevute poco gentili e decisamente fuori luogo. Ho anche conosciuto attori e attrici alla ricerca di notorietà a tutti i costi. Se buona parte di tutto ciò che ho sentito ed è circolato nel nostro mondo fosse vero, da essere umano profondamente rispettoso del prossimo, ne sarei profondamente disgustata. Però deve esserci una distinzione: davanti alla violenza o all’abuso dobbiamo correre dai carabinieri e denunciare; davanti ad un approccio non gradito, invece, dobbiamo rispondere con un secco ‘no’, e andarcene, come ho fatto io stessa molte volte in questi anni nell’ambiente del cinema, della televisione e della moda. Si può e si deve dire di NO davanti a una avance di un produttore o di un regista importante, se questo non ci piace. Perché la carriera si costruisce con il talento, lo studio, l’impegno, non a letto. Mi addolora molto ascoltare le accuse che sono state rivolte a Fausto in questi giorni perché non corrispondono in nessun modo alla persona che conosco, pur nutrendo il massimo rispetto per le donne che si sono sentite ferite. Mi spiace anche perché a prescindere dal fatto che l’imputato in questo tribunale mediatico sia mio marito, non trovo affatto corretto per nessuno essere descritto come il peggiore dei criminali. Mio marito ha ribadito, più volte, di non aver mai avuto rapporti non consenzienti. In questo momento gli sono vicina perché così avviene tra una moglie e un marito quando si affrontano periodi difficili. Queste accuse formulate in tv, nei salotti televisivi di trasmissioni di gossip, senza nessuna garanzia, possono distruggere la carriera di un uomo, il suo matrimonio e la sua esistenza. Se mio marito ha avuto rapporti con altre donne nel corso del nostro matrimonio, voglio parlarne da sola con lui, nel nostro privato, come è giusto che sia. Devo capire se come moglie mi ha mancato di rispetto. Sono madre di una meravigliosa figlia femmina, e devo esserle di esempio. Sono barricata in casa da 5 giorni e non posso nemmeno portare mia figlia di un anno e mezzo al parco, perché sotto al nostro portone ci sono giornalisti e paparazzi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Anche questa può essere considerata violenza sulle donne: in questo caso io e mia figlia".

Amici e colleghi difendono Brizzi: "Televisione non è il tribunale". Da chi lo conosceva incredulità dopo le accuse di molestie svelate dalle Iene, scrive Lucio Di Marzo, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". Da una parte ci sono le donne che accusano Brizzi di molestie e chi, come l'ex Miss Italia Clarissa Marchese, racconta la sua vicenda, ricordando quella volta in cui "mi chiese di spogliarmi perché per farmi lavorare doveva fidarsi di me". Dall'altra gli amici e alcuni colleghi del regista, che nel bezzo della bufera e dopo le rivelazioni fatte alle Iene chiedono però di ragionare e attendere. Sono pronti "a mettere la mano sul fuoco sull'innocenza del regista romano", scrive Il Messaggero. E tra di loro ci sono nomi come il collega Massimiliano Bruno, che dice di dovergli "il lavoro nel cinema" e parla di lui come di "una persona bravissima, corretta e generosa", sospendendo il giudizio in attesa che a condannare Brizzi sia la giustizia e non l'opinione pubblica. Un'opinione condivisa anche da Federica Lucisano, produttrice italiana che ha realizzato i primi cinque film del regista. "Con me si è sempre comportato in maniera ineccepibile", spiega, aggiungendo di far fatica a "credere a tutto quello che sta emergendo". Ed è il comico toscano Paolo Ruffini a chiedere di non giudicare "davanti alle telecamere". "Le denunce - dice - si fanno alla magistratura, la tv non può trasformarsi nella Corte d'Assise".

Alessio Boni: “Denunciate le molestie, ma stiamo attenti alle gogne…”, scrive Chiara Nicoletti il 14 novembre 2017 su "Il Dubbio". L’attore della “Meglio gioventù”: “E’ importante l’urlo delle donne”. Ma poi avverte: “E’ la magistratura che deve appurare i fatti”. Mentre il suo ultimo film, “La ragazza nella nebbia” non abbandona la classifica dei film più visti da quasi quattro settimane, Alessio Boni torna in tv su Rai1 come protagonista della serie “La strada di casa”. Ma oggi con lui non parliamo solo di cinema, ma anche di molestie e processo mediatico: «Importante denunciare, ma bisogna stare attenti alle strumentalizzazioni. Le responsabilità vanno vagliate dal giudice».

“La ragazza nella nebbia” continua a reggere al botteghino, è in classifica tra i primi 10. Come si spiega questo successo?

«Il film mi ha convinto perché il mio personaggio era meraviglioso, ovviamente nel senso “attoriale” del termine. Poi c’era la possibilità di lavorare con Toni Servillo e Jean Reno. Non bisogna aver paura dei grandi, mi sono sentito accolto, in stato di grazia. Sono molto felice del successo in sala, ma spesso è impossibile fare pronostici».

Il film è molto attuale perché si concentra anche sul processo mediatico. Sembra quasi che in questo momento basti venir accusati per essere colpevoli.

«Sono d’accordo. Nel momento in cui si accusa, la magistratura deve indagare e bisognerebbe giudicare solo con atti processuali alla mano. Non dimentichiamoci di Enzo Tortora, accusato da un camorrista a cui hanno creduto e la storia è andata avanti anni, senza una prova concreta. Attenzione, si rovinano le vite anche così».

Lei è tra gli artisti che si sono esposti di più contro gli abusi, le molestie sessuali e il femminicidio. Qualche giorno fa a “Domenica in” ha parlato di una cultura maschilista.

«Dopo il mio intervento a Domenica in, mi sono arrivate almeno una trentina di email di donne che mi raccontavano la loro storia, non attrici famose ma persone che tutti i giorni sono costrette a dire no e si sentono ghettizzate perché non sono “carine” con il proprio direttore o dirigente. È un’ignominia e si chiama maschilismo. È un’assurdità che nel 2017 succedano ancora queste cose, se non si denuncia, si avalla il predatore. Son contro il maschilismo, ho fatto anche uno spot con la fondazione Doppia Difesa che si chiama “Uccisa in attesa di giudizio”. E siamo qui a parlarci addosso, tra chi è a favore e chi contro, mentre si tende a offuscare il vero problema. Si dimentica che l’usurpatore è machiavellico, sa chi prendere, e seppur sia sempre giusto dire no, magari qualcuna non ci riesce, cade nella trappola e si sente ancora più annichilita e annientata da non riuscire a raccontarlo neanche a uno psicoanalista. Ben vengano le avanches, capitano tutti i giorni. Ma se dici no è no».

Sono tante le donne che stanno parlando.

«Come la storia insegna, questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: è un urlo da parte delle donne o di chi ha subito abusi. Bisogna puntare a cambiare la cultura perché, se le persone che abusano, sapessero che c’è il rischio concreto di essere denunciati e arrestati, ci penserebbero due volte prima di alzare un dito su una donna».

Lei ha però detto di stare attenti alle strumentalizzazioni…

«Sì, bisogna stare attenti ad una strumentalizzazione del vittimismo, a chi potrebbe usare questa situazione per qualche intervista o paginetta sul giornale. La magistratura deve sempre indagare su accusati e accusatore. Dopo un terremoto, quando ancora ci sono persone vive sotto le macerie che rischiano di morire, ci sono gli sciacalli che vanno a rubare gli orologi e l’oro».

“La strada di casa” debutta su Rai: un mistery che si richiama a un Ulisse moderno, ma anche all’Harrison Ford di “A proposito di Henry”.

«Sì, si sono ispirati un po’ al film con Ford ma, in questa serie diretta da Riccardo Donna, il mio personaggio ha un incidente, finisce in coma e si risveglia dopo 5 anni. Deve riacquistare la memoria che ritorna pian piano attraverso i flashback. Indago su me stesso perché davvero non ricordo chi sono. Quando capirò chi ero, scopro di non piacermi. Questa rinascita in positivo è interessante, perché è un altro uomo. Scavare dentro se stessi è qualcosa che fanno in pochi, ci confrontiamo sempre con gli altri, come se fossimo noi i pianeti e gli altri i satelliti. Dovremmo diventare noi satelliti per una volta».

Dopo l’uscita di “La ragazza nella nebbia”, sembra che un certo cinema italiano si sia improvvisamente accorto di lei.

«C’è ancora un pregiudizio del cinema nei confronti della tv? Prima ce n’era molto di più. In effetti sembra che questo personaggio abbia risvegliato qualcosa. In questi ultimi anni mi sono arrivate proposte cinematografiche che non mi convincevano, allora a quel punto scelgo di fare Heathcliff di Cime tempestose in tv. Preferisco la serie True detective a centinaia di film che ho visto».

Giusto denunciare le molestie, ma stiamo attente alla gogna! Scrive Angela Azzaro il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". DAL CASO WEINSTEIN ALLE ACCUSE MOSSE NEI CONFRONTI DI KEVIN SPACEY E DUSTIN HOFFMAN: COME IL PROCESSO MEDIATICO SI È IMPOSSESSATO ANCHE DELLE BATTAGLIE FEMMINISTE. Fin dal suo nascere l’ondata globale di indignazione contro le molestie aveva in sé il germe della gogna, del capro espiatorio. Ma all’inizio l’elemento più evidente era la rottura di uno schema insopportabile: usare il proprio potere in ambito lavorativo per ricattare. Migliaia e migliaia di donne nel mondo hanno detto di no, hanno urlato la loro rabbia, hanno raccontato la loro storia. Una cosa è denunciare le molestie Altra cosa è la gogna mediatica. Ma come spesso accade in queste vicende ci sono stati almeno tre effetti boomerang che non vanno sottovalutati. Il primo è quello della “vittimizzazione” di coloro che raccontano. È come se improvvisamente tutte le donne fossero diventate vittime, incapaci di difendersi e di avere un ruolo pubblico. Non è stata la loro denuncia a far scaturire questo elemento, ma una retorica che tende a descrivere chi subisce una violenza come soggetto debole. L’attenzione è stata spostata dai molestatori, e soprattutto dalla cultura che questi esprimono, alle donne che hanno invece preso coraggio e hanno denunciato. Un’attenzione, è importante ricordarlo, che ha oscillato tra vittimizzazione e colpevolizzazione: è quello che è accaduto con Asia Argento, in Italia presa di mira perché avrebbe parlato troppo tardi. Alla fine sul banco degli imputati c’è salita pure lei. Il secondo effetto boomerang è quello del moralismo: la denuncia delle molestie non diventa occasione per ripensare il rapporto tra i sessi e per renderlo più libero, più consapevole, ma diventa l’occasione per chiedere una stretta sui costumi sessuali. Si ottiene in qualche modo l’effetto opposto di quello desiderato, relegando la libertà sessuale a questione secondaria se non pericolosa, quando invece dovrebbe essere l’orizzonte auspicato. Il terzo effetto boomerang è quello della gogna, del processo mediatico, processo di per sé sommario, feroce e fondato sul capro espiatorio. Nel caso Weinstein, come dicevano all’inizio, questi due elementi si sono da subito mescolati, ma alla fine la gogna ha prevalso anche nei confronti del famoso produttore hollywoodiano. L’importante non è capire cosa sia accaduto, denunciare la cultura da cui scaturiscono le violenze, ma lapidare il colpevole, “quel” colpevole, considerato il mostro, il responsabile di tutte le violenze del mondo. Da quel momento in poi la macchina della gogna non si è più fermata. Questo non significa sminuire le responsabilità del singolo né colpevolizzare, come pure è stato fatto, coloro che denunciano. No, non si vuole cadere in questo tranello. Ero e resto convinta che la denuncia di tante donne abbia una spinta positiva, sia un urlo che non viene dal passato, ma da una nuova consapevolezza di chi non vuole più subire e vuole sentirsi libera di agire nel mondo. Ma questa spinta non deve impedire di vedere il resto. Lo dimostrano i casi di Dustin Hoffman e di Kevin Spacey. Contro i due attori è in atto una vera e propria psicosi punitiva, con accuse che arrivano dal passato remoto. Kevin Spacey ha subito finora il linciaggio più violento: è stato rescisso il contratto per la nuova serie di House of cards e gli è stato revocato l’International Emmys Founders Award, prestigioso premio per le serie tv. Hollywood incapace di fare una riflessione sulle logiche di potere che reggono il mondo del cinema ha preferito usare la solita scorciatoia: dare addosso ai colpevoli o presunti tali, dandoli in pasto al linciaggio virtuale. Si può pensare che se lo siano meritati, si può confondere vita privata e capacità professionali o artistiche, si può pensare di punire senza pietà. Si possono pensare tutte queste cose ma così si rischia di pensare che la vendetta sia l’unica arma per cambiare le cose, quando secoli di storia dimostrano il contrario. Questo vale anche per le molestie e le violenze. Giusto denunciare, quando, come si può e si vuole. Altra cosa è confondere la presa di parola pubblica delle donne con questa smania di radere al suolo chiunque abbia sbagliato, sottoponendolo al giudizio spietato del web.

Perché le attrici che lo accusano non hanno denunciato Fausto Brizzi? Finché le attrici di Hollywood hanno denunciato un produttore di americano su Facebook e sui giornali andava tutto bene. Poi dieci sconosciute italiane hanno raccontato di essere state molestate da Fausto Brizzi e improvvisamente tutti si scoprono garantisti. Come mai? Scrive Giovanni Drogo lunedì 13 novembre 2017 su "Next quotidiano". Ieri sera Le Iene hanno rivelato il nome del regista romano accusato di molestie e violenza sessuale da una decina di attrici e aspiranti attrici. Il 22 ottobre le Iene avevano iniziato a parlare della vicenda senza però rivelare il nome del “regista romano di 40 anni” che sarebbe uno dei protagonisti degli episodi denunciati. Circa un terzo delle donne e delle ragazze intervistate da Dino Giarrusso de Le Iene ha raccontato di aver subito molestie o tentativi di violenza sessuale da parte di Fausto Brizzi. Le Iene hanno così mandato in onda le interviste alle dieci donne che hanno raccontato di essere state vittime di Brizzi. I racconti sono molto circostanziati e simili tra loro, e lasciano intendere che Brizzi abbia utilizzato sempre lo stesso modus operandi. Ovvero Brizzi invitava le aspiranti attrici per un casting nel suo ufficio – che tutte hanno descritto arredato come un’abitazione, con tanto di jacuzzi e fumetti – e di essere state costrette da Brizzi a recitare alcune “scene erotiche” durante quello che in teoria doveva essere solamente un provino. Tutte le donne hanno raccontato che ad un certo punto il regista – che aveva ha “cambiato espressione”, che si sarebbe completamente denudato arrivando a masturbarsi in loro presenza. Una di loro ha raccontato anche di aver avuto – contro la sua volontà – un rapporto sessuale completo con Brizzi ma di essersi sentita paralizzata e completamente impotente e di non aver avuto quindi la forza di reagire. Tutte le testimoni hanno chiesto di rimanere anonime e quindi i loro volti sono stati oscurati e la voce alterata. Solo due delle vittime di Brizzi – Clarissa Marchese, Miss Italia 2014, e la modella Alessandra Giulia Bassi – hanno scelto di raccontare la loro storia a volto scoperto. Il regista non ha voluto essere intervistato dalle Iene ma tramite il suo avvocato Brizzi ha fatto sapere di “non avere mai avuto rapporti non consenzienti”. Venerdì scorso, sempre tramite il suo legale, Brizzi aveva reso noto che “in via precauzionale e per evitare strumentalizzazioni” aveva “sospeso tutte le mie attività lavorative e imprenditoriali”. Fin qui dunque il racconto (e la difesa) delle parti in causa. Ma non spetta certo ai giornalisti e agli opinionisti stabilire se Brizzi sia colpevole o innocente. Certo: come nel caso delle accuse a Harvey Weinstein ci sono molte donne che raccontano, in modo abbastanza dettagliato, episodi molto simili tra loro. Difficile poter sostenere che si siano inventate tutto, che si sono messe d’accordo o che è tutta una messinscena delle Iene. C’è però chi sostiene che quelle donne, quelle ragazze, abbiano sbagliato a rivolgersi al programma Mediaset. Eppure che differenza c’è tra andare a raccontare la propria storia al New Yorker o alle Iene? Si potrebbe obiettare che il primo è un periodico che gode di ottima reputazione mentre le Iene spesso non fanno giornalismo di qualità. Ma non bisogna fare confusione: perché chi critica l’attendibilità delle Iene in realtà vuole solo screditare la credibilità delle testimonianze delle vittime (anche se chiudere il servizio sulle note di “Notte prima degli esami” è una cafonata di un certo livello). Anche la critica relativa al fatto che la maggior parte delle attrici abbiano scelto di rimanere anonime non vuol dire che si siano inventate tutto. In primo luogo perché il loro racconto è in un certo senso “confermato” dalle due che invece hanno raccontato la loro esperienza a volto scoperto. In secondo luogo perché la scelta dell’anonimato toglie agli esperti di slut-shaming e ai difensori d’ufficio di Brizzi la possibilità di dire che lo stanno facendo “solo per cercarsi pubblicità”. Per altri amici di Brizzi il regista sarebbe vittima di una “caccia al maschio” dove potenzialmente ogni uomo potrebbe essere accusato di violenza sessuale. Ma non è così, perché qui non stiamo parlando di avances ma di quelle che sembrano essere vere e proprie molestie. Perpetrate in un contesto in cui il molestatore godeva anche di una posizione di superiorità e di forza sulle vittime che per la maggior parte loro sono probabilmente attrici alle prime armi. Non bisogna dimenticare però che Brizzi, come tutti, ha diritto come tutti ad essere considerato innocente fino a prova contraria. Ma in questo caso non c’è nessuna indagine in corso e nessun processo quindi non ha molto senso invocare il garantismo. È quindi inutile lanciarsi, come stanno facendo molti, in processi improvvisati sui social network o sui giornali. Ma fatto salvo il diritto alla difesa di Brizzi – che potrebbe al momento limitarsi a spiegare come mai una decina di persone si sarebbe “inventata” accuse nei suoi confronti – in questa vicenda c’è qualcosa di peggio: i soliti attacchi contro quelle donne che hanno trovato la forza di denunciare quanto accaduto. Ma perché lo fanno in televisione, alle Iene, e non sono andate dai Carabinieri o in Procura? Non sappiamo quando sono accaduti i fatti, possiamo ipotizzare che risalgono a diverso tempo fa, forse ad alcuni anni fa. In Italia il Codice Penale (Art. 609-bis) stabilisce che la violenza sessuale è uno di quei reati per cui si procede in seguito a querela. Non è un reato per cui – salvo in casi particolarmente gravi come la violenza sessuale di gruppo o se sono coinvolti minorenni – si proceda d’ufficio. Le vittime hanno 180 giorni di tempo (sei mesi) per sporgere querela. Trascorso quel lasso di tempo non è più possibile farlo. Ed è per questo che Brizzi non risulta al momento essere sotto inchiesta. Ma oltre a questo particolare tecnico sono subentrate nelle vittime la vergogna, la paura di doverlo raccontare ai propri familiari, la sofferenza psicologica e il senso di impotenza comune a tutte le vittime di violenza sessuale.

Fausto Brizzi: tutti contro il “renziano” e la “superiorità morale” della Sinistra. Le molestie sessuali? I racconti delle vittime? La presunzione d'innocenza? Tutto passa in secondo piano se si può usare la vicenda per attaccare Matteo Renzi (e Obama), scrive Giovanni Drogo lunedì 13 novembre 2017 su "Next Quotidiano". Il nostro è un Paese fantastico in grado di affrontare con serenità anche gli argomenti più scabrosi. Tutto ovviamente senza trasformare ogni fatto di cronaca in una gara tra tifoserie. Prendiamo ad esempio le accuse di molestie sessuali nei confronti di Fausto Brizzi. C’è chi lo difende e attacca le vittime che si sono “nascoste” dietro l’anonimato per gettare fango sul regista e chi invece lo considera già “un mostro”. Purtroppo la realtà è una faccenda complessa, che spesso poco si presta alle semplificazioni. Brizzi molto probabilmente non è un mostro, così come quelle che lo accusano probabilmente non sono delle “troie in cerca di notorietà”. Le accuse sono troppo circostanziate per poter essere inventate di sana pianta. Ci sono troppi dettagli che si ripetono. Allo stesso tempo però non sappiamo ancora quale sia la versione di Brizzi. Da quando si è iniziato a parlare di un “quarantenne regista romano” si è chiuso dietro un muro di silenzio dal quale giungono solo le dichiarazioni dell’avvocato tramite il quale ci fa sapere di “non avere mai avuto rapporti non consenzienti”. C’è però un altro aspetto, tutt’altro che marginale per alcuni, di questa vicenda. Fausto Brizzi infatti nel 2012 parlò – come tanti altri – alla stazione Leopolda a sostegno della candidatura di Matteo Renzi alla Segreteria del Partito Democratico in vista delle elezioni politiche del 2013. Cosa c’entra questo fatto con le accuse di molestie e violenza sessuale nei confronti di Brizzi? Assolutamente nulla. Perché è ovvio che Brizzi non sia andato alla Leopolda perché era un molestatore ma perché – come molti – credeva nel progetto di Renzi. E non si può certo pensare che lo staff della Leopolda fosse a conoscenza di quello che faceva Brizzi nel privato e che lo abbia chiamato a parlare proprio per questo. C’è però chi la pensa diversamente e non ha perso l’occasione per legare una vicenda personale ad una vicenda politica. Ci hanno pensato per primi il Giornale e Libero che hanno parlato di “regista renziano nella bufera” una volta che era chiaro che era lui uno dei registi oggetto del servizio delle Iene del 22 ottobre. Ci ha pensato poi Luca Morisi, uomo chiave della macchina della propaganda della Lega Nord, a scagliarsi contro il “regista ufficiale della Leopolda, amicone di Renzi”. Per la precisione Brizzi non è il “regista della Leopolda” nel senso che è lui ad aver organizzato l’incontro dei renziani. Il regista romano ha girato un docufilm di 26 minuti realizzato durante il tour di avvicinamento di Renzi alle primarie “Italia. Bene Comune” del 2012. Non si parla più di Brizzi, né di quello che hanno subito e patito le sue vittime. Si parla invece del suo rapporto con il “Pinocchio di Rignano”. Quasi che la responsabilità penale di Brizzi debba essere ripartita almeno in parte con il Segretario del PD. Ma il godimento degli avversari e dei critici di Renzi è doppio perché ora che si scopre che Brizzi è “amico di Renzi” e ha molestato decine di attrici viene meno anche la famosa e tanto temuta superiorità morale della sinistra. La stessa sinistra che criticava Berlusconi per il bunga-bunga e le olgettine. Il fatto che le accuse di molestie non c’entrino nulla né con la politica né con la superiorità morale di chicchessia ovviamente è solo un piccolo dettaglio. Anche perché è facile così far passare in secondo piano le accuse di molestie, i racconti delle violenze sessuali e le sofferenze delle vittime. Non manca però chi ha trovato tra il caso Weinstein e quello Brizzi inquietanti punti di contiguità. Weinstein era infatti amico di Obama (come Renzi!1) e Brizzi era un “frequentatore assiduo della Leopolda”. Come non notare il fatto che a sinistra (il fatto che Obama non sia di sinistra è solo un dettaglio) sia pieno di stupratori? Manca poco all’invenzione di un Pizzagate italiano. Ma fate attenzione, che anche Trump disse che le donne “vanno prese per la figa”.

Molestie, direttore di Novella 2000: “prudenza con Fausto Brizzi, ricordiamoci quegli errori”. Gigi Sabani, caso molestie su Faustro Brizzi: l'avviso del direttore di Novella 2000 Roberto Alessi, "occhio a non ripetere gli stessi tragici errori". Il caso del comico accusato, scrive il 12 novembre 2017 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Gigi Sabani e il caso Fausto Brizzi. Il monito arriva ed è bello “grosso” sul caso di Fausto Brizzi: il direttore di Novella 2000 Roberto Alessi su Instagram ha invitato una netta prudenza sul caso del regista romano nella bufera per le presunte accuse di molestie subite da tanti attrici del panorama italiano nel affaire “Weinstein Italiano”. «MOLESTOPOLI. Occhio a mettere alla gogna il regista Fausto Brizzi. A suo tempo fu fatto lo stesso con Gigi Sabani. C’è pure morto ed era innocente». Il ricordo del direttore di Novella 2000 è importante perché prova a mettere il freno, con onestà intellettuale, ad un fenomeno poco “simpatico” tanto quanto il contenuto delle presunte azioni che avrebbe fatto il regista misterioso e che alcuni ritengono possa essere proprio Brizzi. Il caso di Gigi Sabani infatti è lì che “osserva” i tanti senza memoria, i tanti che dalle drammatiche vicende del recente passato non sembrano aver imparato alcunché. Se Brizzi è colpevole e se verrà accertato dovrà pagare per le sue colpe, ma fino ad allora costruire un circo mediatico tutto contro il regista romano solo perché siamo immersi nell’enorme “affare-molestie” in seguito al caso Weinstein è tanto aberrante quanto pericoloso. Gigi morì nella solitudine della sua famiglia e dei pochissimi amici che gli erano rimasti vicini a 54 anni, nel 2007 dopo che passò una dei peggiori errori giudiziari nell’era post-Tortora (capostipite degli errori compiuti contro personaggi famosi travolti poi da un ingiusto coro mediatico unanime di accuse). Nel 1996 Gigi Sabani fu coinvolto in una vicenda giudiziaria in cui si parlava di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione: fu arrestato, ne uscì con un'archiviazione del procedimento e un risarcimento. Perse però tutto: lavoro, amici, salute, fu il primo processo in stile “vallettopoli-molestopoli” di cui oggi ben conosciamo limiti, rischi e conseguenze. Il problema è che Sabani fu innocente, tirato in mezzo da calunnie e falsità che lo portarono purtroppo a perdere la salute e la speranza di tornare a lavorare in tv come aveva sempre fatto: morì d’infarto e come disse all’epoca Valerio Merola «Questa morte ha una firma». Il riferimento è al pm che indagò sul caso giudiziario sui provini a luci rosse: come riassunse Repubblica dopo la morte di Sabani, al centro della storia fu la scuola per modelle "Celebrità" di Biella, che avrebbe ospitato incontri privati fra le ragazze e uomini di spettacolo con l'obiettivo di ottenere contratti al cinema o in tv. «Truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione: con queste motivazioni Sabani viene arrestato all'alba del 18 giugno del 1998. Lo mettono nei guai le dichiarazioni dell'allora minorenne Katia Duso, aspirante showgirl, che racconta al pm di approcci sessuali con Sabani, a Roma, nell'estate 1995, in cambio della promessa di un aiuto per lavorare nello spettacolo», si leggeva nelle cronache di quell’epoca. Sabani viene scarcerato il 1 luglio dello stesso anno, fece 13 giorni di carcere che gli tolsero di fatto tutti gli amici e la fiducia nelle sue piene dosi di sincerità. «Come morire a occhi aperti. Vedi quello che ti succede e non puoi farci niente. Anzi, una cosa la puoi fare: conti i buoni, pochissimi. La famiglia, poi Lino Banfi, Gianni Morandi, Arbore, Celentano, Cutugno e Maurizio, sì Costanzo, più degli altri. Poi i cattivi, cioè quasi tutti. Perché l'ambiente è una m…da», spiegava in un libro-intervista Sabani prima della sua morte. Oggi il caso Brizzi è mille chilometri lontano ovviamente per contenuto e vicende, ma resta l’avviso forte lanciato da Alessi: occhio ad arrivare a conclusioni affrettate e senza prove, il passato parla abbastanza…

Violenza sessuale su tre donne, chiesta l'archiviazione per Brizzi, scrive il 31 luglio 2018 la redazione de Le Iene. Per la procura di Roma, dopo la denuncia di violenza sessuale di tre donne, “il fatto non sussiste”. Noi de Le Iene abbiamo sollevato il caso raccogliendo le testimonianze di 15 attrici che accusano il regista di averle molestate

“Il fatto non sussiste”. La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per il regista Fausto Brizzi, accusato di violenza sessuale dopo la denuncia di tre donne per fatti avvenuti nel 2014, 2015 e 2017. Gli inquirenti hanno indagati anche per due casi le cui denunce erano andate oltre i termini previsti dalla legge. A sollevare il "caso Brizzi" siamo stati noi de Le Iene. Abbiamo raccolto le testimonianze di molte attrici, che non si conoscevano prima, che ci hanno raccontato di essere state molestate e abusate da Brizzi molto tempo prima, nel suo loft, con la scusa di provini di scene di passione. Qui in basso vi riproponiamo tutti gli articoli e i servizi che abbiamo dedicati alla storia. Le tre donne che hanno denunciato il regista alla magistratura hanno raccontato la stessa scena. I pm non hanno riscontrato profili di natura penale. Il legale ha dichiarato che Brizzi "ribadisce di non aver mai avuto nella sua vita rapporti che non fossero consenzienti”. Recentemente il produttore Luca Barbareschi ha annunciato che Brizzi tornerà sul set a metà agosto con il nuovo film “Modalità aereo”, una scelta presa “condannando chi maltratta le donne ma anche gli assalti mediatici”. Negli ultimi mesi del 2017, dopo i nostri servizi, il nome del regista era stato cancellato dalla produzione del suo ultimo film di Natale “Poveri ma ricchissimi”. Barbareschi ha definito il MeToo un movimento “di mentecatti”. Roberta Rei l'11 aprile scorso è andata a chiedergliene conto di quanto detto, lui ha ribadito: “È un movimento per cretini”. Il caso italiano è scoppiato infatti sulla scia dello scandalo americano che ha travolto il produttore Harvey Weinstein, abusatore seriale, arrestato poi il 25 maggio scorso e rilasciato dopo una cauzione di un milione di dollari, e del movimento #MeToo di denuncia delle molestie e di appoggio alle vittime partito dalle attrici di Hollywood. In Italia noi de Le Iene siamo stati i primi e quasi gli unici ad affrontare il caso delle molestie nel cinema italiano. Dino Giarrusso ha raccolto molte testimonianze di attrici che hanno raccontato gli abusi subiti, dieci di loro accusano Brizzi. Nel primo servizio del 29 ottobre 2017 e nel secondo servizio, non abbiamo fatto il suo nome. Dopo che è uscito, indipendentemente da noi, abbiamo rivelato che dieci delle attrici da noi intervistate avevamo accusato Brizzi di averle molestate con la scusa di provini per scene passionali nel suo studio (le attrici che lo accusano sono salite poi a 15). Il 19 novembre abbiamo sostenuto che tutto doveva essere chiarito a quel punto in un’aula di Tribunale. Intanto sulla vicenda delle tre donne che hanno denunciato Brizzi la parola ora passa al giudice.

Il silenzio sui lapidati. Brizzi e il metodo Iene. Come si può distruggere la vita di un uomo fingendo di fare semplice giornalismo, scrive Luciano Capone il 3 Agosto 2018 su "Il Foglio". “Sarebbe bello che ammettesse come tutto ciò che le ragazze hanno detto a Le Iene è vero. Perché la pronuncia del tribunale non smentisce nulla di ciò che è stato raccontato. E una volta appurato che non avrà conseguenze penali sarebbe un bel gesto vederlo chiedere scusa”, ha detto a Repubblica Dino Giarrusso, autore dei servizi sul “caso Brizzi”, ex iena, già candidato M5s e attuale staffista in posti di sottogoverno. Al di là della vicenda giudiziaria, la richiesta...

"Il fatto non sussiste", chiesta archiviazione per Brizzi, scrive il 31/07/2018 "L'adnkronos.com". "Il fatto non sussiste". Con questa formula la Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione nei confronti del regista, Fausto Brizzi, accusato di violenza sessuale per tre diversi episodi. Brizzi era stato indagato dopo essere stato denunciato da tre attrici e lo scorso aprile era stato interrogato dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal pm Pantaleo Polifemo. Per la Procura il regista non ha commesso alcun reato. A Piazzale Clodio erano arrivate tre querele, ma soltanto una era utilizzabile perché le altre due erano state presentate ai pm fuori tempo massimo, cioè dopo sei mesi dai fatti denunciati. Le denunce sulle presunte molestie sono state presentate da tre attrici che fecero esplodere il caso attraverso la trasmissione 'Le Iene', a pochi mesi dalla vicenda di Harvey Weinstein, e riguardavano presunti episodi avvenuti tra il 2014 e il 2017. In seguito al clamore mediatico, la Warner escluse Brizzi dalla promozione del film di Natale poco prima dell'uscita nelle sale. Lo scorso febbraio il legale di Brizzi, l'avvocato Antonio Marino, ha detto che il regista "come già fatto in passato e in qualsiasi presente e futura circostanza ribadisce di non aver mai avuto nella sua vita rapporti che non fossero consenzienti".

Fausto Brizzi, spuntano gli sms che lo scagionano. E ora lui passa al contrattacco: denuncia le Iene e le ragazze…, scrive il 3 agosto 2018 su Oggi Edoardo Montolli. Per l’unica denuncia in cui la Procura è entrata nel merito, spuntano i messaggi al regista dopo l’incontro della presunta vittima: “Che belle sensazioni che ho avuto”. Gli aveva chiesto anche una dedica. Un messaggio ti può salvare la vita. Sono infatti due sms ricevuti dal regista Fausto Brizzi dalla donna che lo aveva denunciato e che si presentava come vittima, a chiudere sostanzialmente il procedimento contro il regista per violenza sessuale con una richiesta di archiviazione perché “il fatto non sussiste”.

IL FATTO - Tre donne avevano nei mesi scorsi presentato altrettante denunce nei confronti di Brizzi: sostenevano di essere state attirate nel suo loft con la scusa di un provino e successivamente di aver subito pesanti molestie. Per due di queste la Procura non è entrata nel merito in quanto giunte oltre il termine massimo, mentre per la terza lo ha fatto. Scoprendo che i fatti erano sensibilmente diversi.

I MESSAGGI - Dopo l’incontro tra il regista e la donna che lo ha denunciato, quest’ultima gli aveva mandato un messaggio: “Ho provato sensazioni veramente piacevoli”. Ne seguono altri, inviati sempre dopo l’incontro incriminato: “Appena posso ti richiamo”. E pure una richiesta di dedica per il libro di Brizzi ricevuto in regalo: “Ti devi inginocchiare perché non mi hai fatto una dedica”. Su Facebook seguivano commenti di entusiasmo per i suoi film. E ci sarebbero pure diverse telefonate. Segni che il rapporto tra loro era tutt’altro che quello tra vittima e carnefice. Brizzi ai magistrati ha detto di non aver avuto rapporti sessuali con le denuncianti, quanto ai messaggi ricevuti: “Semmai si è trattato di un contesto di piacevole condivisione. Io, se proprio devo dare una valutazione pensavo di piacerle, soprattutto per come si era sviluppata l’interazione tra di no”.

LA CARRIERA A PEZZI - Tutto era nato da un’inchiesta de Le Iene, che avevano intervistato una decina di donne, molte a viso coperto, che accusavano il regista. Qualcuna aveva infine deciso di mostrarsi a viso scoperto. E tre erano passate alla denuncia penale. Intorno al regista si era creato quasi il vuoto, con la Warner che aveva pubblicizzato il suo film senza promuoverne il nome. Soltanto alcuni attori, attrici e addetti ai lavori si erano schierati al suo fianco. E Luca Barbareschi lo aveva ingaggiato per il film “Modalità aereo”, non credendo alla gogna mediatica. 

LA QUESTIONE DEL #METOO - L’opinione pubblica era stata influenzata dal caso Harvey Weinstein e dal movimento del #metoo. C’era stata anche una richiesta mediatica di allungare i tempi in cui è possibile denunciare il presunto molestatore. Ma proprio quei messaggi ricevuti dal regista e che raccontano un’altra storia, fanno riflettere, perché la sua fortuna è averli conservati. Cosa sarebbe stato di lui se non lo avesse fatto? Di più: come si potrebbe difendere un domani un uomo se tali messaggi fossero inviati due-tre anni prima di un’eventuale denuncia? Se i tempi per l’azione penale si allungassero, evidentemente, chiunque dovrebbe conservare qualsiasi traccia di un proprio rapporto perché sia mai che a qualcuno venga in mente di portarti in tribunale.

TOLLERANZA ZERO - La voce ricorrente ora è che Brizzi chiederà un risarcimento dei danni. Il suo avvocato, Antonio Marino, intanto annuncia “tolleranza zero nei confronti di chi riproporrà insinuazioni o allusioni in ordine a presunte molestie sessuali da parte del regista”.

DINO GIARRUSSO INSISTE - Ma l’ex Iena Dino Giarrusso, autore dell’inchiesta tv e ora parlamentare M5S, non ha preso bene la richiesta di archiviazione per Brizzi. A Repubblica ha detto di sentirsi “Come uno che ha avuto il merito di scoperchiare una realtà orribile avendo raccolto le confessioni di 15 ragazze che raccontano fatti veri, incontrovertibili e gravissimi. Sono fatti narrati da testimonianze dirette e mai smentiti”. E insiste: “In Italia però vige una legge vergognosa per cui qualunque tipo di violenza sessuale su maggiorenne non può essere punita penalmente se non viene denunciata entro sei mesi”. Quanto al regista, sostiene Giarrusso “sarebbe bello ammettesse come tutto ciò che le ragazze hanno detto a Le Iene è vero. Perché la pronuncia del tribunale non smentisce nulla di ciò che è stato raccontato. E una volta appurato che non avrà conseguenze penali sarebbe un bel gesto vederlo chiedere scusa”. L’idea che le cose siano andate diversamente da come le ha presentate in tv, non lo sfiora neppure.

Caso Brizzi, parla Sgarbi, scrive il 3/08/2018 "L'Adnkronos.com". "Cosa ci insegna il caso di Fausto Brizzi? Innanzitutto di coltivare l'esercizio del dubbio, sempre. Poi che i processi, se ci sono le prove, si fanno nelle aule dei tribunali". Inizia così il post su Facebook che Vittorio Sgarbi ha scritto sulla vicenda che ha coinvolto il regista e sceneggiatore, per la quale la Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione. "Brizzi - si legge - è stato invece crocifisso sui social, additato come un mostro. Pagando un prezzo altissimo: una reputazione di uomo e regista distrutta in poche ore, la disdetta dei contratti cinematografici, gli insulti di milioni di imbecilli che, come iene sulla preda, per giorni e giorni lo hanno maciullato. Mettendo a dura prova anche l’integrità della sua famiglia, salvaguardata invece da una donna intelligente e forte come Claudia Zanella". "Ovviamente di questa violenza non pagherà nessuno - prosegue Sgarbi -. Non pagheranno gli investigatori e i magistrati che, senza alcuna remora, hanno consentito che indagini preliminari su accuse così infamanti diventassero di dominio pubblico, senza preoccuparsi del rischio gogna. Non pagheranno i milioni di odiatori seriali dei social sempre pronti, dietro la tastiera di un Pc, a sputare sentenze e vomitare insulti. Non pagheranno, molto probabilmente, nemmeno le ragazze che lo hanno accusato ingiustamente. Ragazze che spesso utilizzano la loro avvenenza, consapevolmente, come arma di 'persuasione' o di ricatto" scrive ancora Sgarbi, che conclude: "Io personalmente ho risolto questo problema. Faccio firmare alle donne che mi 'concupiscono' una liberatoria: “La sottoscritta Vanessa... dichiara di fare sesso liberamente con Vittorio Sgarbi senza nulla a pretendere in cambio”. Chi è interessata può richiedere i moduli, a pagamento, ai miei collaboratori".

Brizzi: violentatore seriale per una certa tv e stampa ma fortunatamente innocente per la giustizia, e adesso chi paga il conto per lo sputtanamento? Scrive Andrea Pasini il 3 agosto 2018 su “Il Giornale”. Vero come la finzione. Cade il cartello di carte costruito ad arte, adesso possiamo dirlo, attorno al regista romano Fausto Brizzi. Ai tempi della buriana, lo scorso inverno, Asia Argento madrina del dramma Weinstein diluita nei vaneggiamenti femministi, ha perfettamente descritto il clima definendo il garantismo “roba ottocentesca”. Passate due stagioni ci troviamo davanti a “il fatto non sussiste”, gli inquirenti per questo motivo hanno chiesto l’archiviazione per le accuse di violenza sessuale rivolte al cineasta autore di Notte prima degli esami. Neri Parenti, ai microfoni dell’Ansa, ha detto: “Non avevo dubbi, con Fausto ci conosciamo da vent’anni. Questa richiesta di archiviazione è un tassello fondamentale all’intera vicenda. Ora non conosco le motivazioni che hanno portato la procura a questa decisione, ma l’espressione il ‘fatto non sussiste’ la dice lunga”. Il tutto prese forma quando il programma Le Iene, in una serie di servizi condotti da Dino Giarrusso, ai tempi delle ultime politiche candidato del Movimento 5 Stelle nel X municipio di Roma, ha raccolto le testimonianze di 15 attrici in erba che, a loro detta, avrebbero subito violenze sessuali da parte del produttore capitolino. Il solito cliché fatto di palpate, mani allungate, tentativi di penetrazione, masturbazione ed un catalogo degno dell’orrido vecchio bavoso, nonché stupratore seriale, senza fine. In questi frangenti, risulta inutile fare i moralizzatori ed i verginelli della realtà, si instaura una gogna mediatica che supera il bene ed il male. Brizzi ha dovuto rinunciare all’apposizione nei titoli del suo nome nella sua ultima pellicola. La privazione della patria potestà della propria mansione. La promozione occultata, con una moglie ed una figlia al fianco. Una vicenda che si ripete, perché lanciato il sasso le mani si nascondono. Lasciando, all’ombra del nascondino, le vittime diventare carnefici nei salotti della casalinga di Voghera. Alla berlina di chicchessia, alla berlina di chi, attraverso le copertine patinate, legge la verità nei fondali torbidi delle soubrette. Nelle sue invettive contro il mondo, lo scrittore Massimo Fini, ai tempi di un’intervista con Linkesta, quattro anni fa, alla domanda su quali responsabilità hanno i giornalisti attualmente rispose, in maniera lapidaria, così: “Il giornalismo e gli intellettuali – uh, che brutta parola – hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica”. Nel frattempo le storie corrono sotto le nostre ruote, la notte avanza e gli indizi restano dietro di noi, distanti mille miglia, ma la notizia deve arrivare. Il giornale resta incompiuto, il servizio televisivo carente di suspance, le parole affrante. Gli annunci si susseguono correndo in più direzioni, senza ritrovarsi (quasi) mai. Ma la battaglia è tutta rinchiusa nella guerra tra i sessi. Nella morte del Padre e nella sconfitta della Madre. Le premesse sono queste: “Voi donne siete meglio di noi. Lo sappiamo benissimo, e sono millenni che ci organizziamo per sottomettervi, spesso con il vostro volenteroso aiuto. Ma quel tempo sta finendo. Comincia il tempo in cui le donne prenderanno il potere, lo stanno prendendo. E ‘potere’ non è una parola negativa; dipende dall’uso che se ne fa. Le donne ne faranno un uso migliore degli uomini. E li salveranno”. Le parole arrivano direttamente da Aldo Cazzullo, tratte dal libro Le donne erediteranno la terra. Un inginocchiarsi a fronte di un’uguaglianza forzata che vuole sovvertire i diritti ed i doveri di ogni uomo e di ogni donna. Per questo diventa salutare affidarsi alle, sapienti, parole di Adriano Scianca: “Ripetiamolo: esistono sicuramente uomini – brano tratto dal volume Contro l’eroticamente corretto edito da Bietti – che possono aver bisogno di un aiuto psicologico per i più svariati motivi, compresa un’aggressività non dominata. Ma se sul lettino finiscono gli uomini e solo loro, se si vuole mettere in questione la cultura maschile e se il percorso di redenzione passa necessariamente attraverso una terapista donna, l’obbiettivo è ovvio: una rieducazione del maschio pura e semplice”. Non impareranno dalla cantonata presa con Fausto Brizzi e cercheranno un altro mostro, a noi spetta il compito di sviluppare i dovuti anticorpi. E comunque va detto che questa storia racchiude in se una palese e colpevole mancanza di professionalità di una trasmissione che ho sempre reputato e continuo a reputare fondamentale per la libera informazione, ma che in questo specifico caso spero non volutamente per questioni prettamente di odiens ha mandato in onda dichiarazioni di ragazze che esprimevano delle accuse pesanti verso il registra Brizzi probabilmente senza nemmeno provare a verificarne l’attendibilità. E con questa leggerezza hanno causato dei traumi molto pesanti e difficili da sanare nella vita famigliare del regista e sicuramente dei danni psicologici devastanti sia al regista stesso che a tutta la sua famiglia. Una situazione del genere in una Nazione normale non dovrebbe mai accadere e qualora accadesse chi sbaglia deve pagare caro l’errore anche con la galera e non sto esagerando. Anche perché rovinare l’onorabilità, la professionalità e la serenità di una famiglia per sempre non ha un prezzo per cui non può avere una proporzionata punizione. Ed in questo specifico caso qualora alla fine i giudici archivino tutte le accuse sono sicuro che la trasmissione delle Iene in onda su Mediaset saprà riconoscere l’errore ed esprimerà le più sentite scuse al regista Brizzi anche se questo non sarà neppure minimante sufficiente a rendergli l’onorabilità che quel servizio televisivo gli ha sottratto per sempre. Grazie a Dio però esiste la magistratura che ha fatto il suo dovere. Verificando tutta la vicenda, ed alla fine chiedendone l’archiviazione perché il fatto non sussiste. Fecondo cadere di fatto tutte le accuse rivolte nei confronti di Brizzi dalle ragazze che dicevano di essere state molestate. Un’altra pagina negativa sembra essere stata archiviata. Ricordiamo però: che in un paese già dilaniato quotidianamente da notizie negative che attentano giornalmente alle nostre eccellenze, le quali ancora oggi permettono al paese di continuare a funzionare e a sopravvive: se non poniamo un freno a questo costante discredito molto spesso infondato verso le persone, che ha come unico scopo quello di creare un interesse giornalistico e televisivo alimentando per qualche giorno il chiacchiericcio delle persone nei bar ed in ufficio facciamo solo ed unicamente il male del nostro paese non di certo il suo bene. Queste notizie non attendibili ed alle volte addirittura false gettano soltanto discredito sulle persone note come ad esempio in questo caso un registra cinematografico e tutto questo discredito distrugge la reputazione internazionale delle nostre eccellenze italiane. In questo caso chi ne ha perso a livello di immagine e autorevolezza non è solo il registra Brizzi ma l’intero comparto cinematografico che rappresenta da anni per il nostro paese una grande eccellenza a livello Internazionale. A questi veri e propri attentati alla persona c’è da porre immediatamente un rimedio. Penso che sia arrivata l’ora nella quale la Politica si inizi ad interrogare in modo serio e metta mano una buona volta per tutte per normare con delle leggi ad hoc la libertà di stampa, di espressione e di informazione perché in molti casi sono usate in modo estremamente fazioso, becero, di basso profilo ed alle volte disonesto. 

LA DAMNATIO MEMORIAE.

La Damnatio memoriae è una locuzione in lingua latina che significa letteralmente “condanna della memoria” o “cancellazione dalla memoria”. Nel diritto romano indicava una pena consistente nella cancellazione di qualsuiasi tracci ariguardante un apersona. Come se essa non fosse mai esistita. 

Da Hitchcock a Kevin Spacey: se l’artista è sessista e violento cancelliamo i suoi capolavori? Scrive Paolo Delgado il 5 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  Dopo il caso Weinstein, si corre il rischio di una ondata di moralismo globale. Il Nuovo Ordine Morale che si sta rapidamente affermando nel mondo, anche se con qualche colpevole ritardo nel nostro Paese, ci impone alcuni doverosi passaggi, nella consapevolezza che consentire la diffusione di opere create da autori privi del necessario senso morale significherebbe minare alle radici l’Ordine che siamo incaricati dalla Storia di edificare. Urge prima di tutto rivolgere scuse pubbliche ai giudici della Corte di Cassazione che il 29 gennaio 1976 ebbero il coraggio civile di ordinare la distruzione di tutte le copie del film Ultimo Tango a Parigi. Per lunghi anni quei magistrati sono stati oggetti di critiche e contumelie che si rivelano oggi prive di ogni fondamento. Sappiamo oggi che la famosa “scena del burro” era stata girata senza il permesso dell’attrice, che non era stata neppure avvertita e che ha per tutta la vita risentito di quella brutale violenza. Con il ritiro della pellicola si disporrà anche una nuova cancellazione dei diritti politici per l’autore, Bernardo Bertolucci, del resto già giustamente sanzionato in questo senso per cinque anni nel 1976. In nome del sempre necessario senso della misura, non si considera al momento necessario sequestrare gli altri film del medesimo autore, mentre è chiaramente inevitabile il divieto di proiezione di tutte le altre pellicole interpretate da Marlon Brando, accusato dalla figlia di averla violentata più volte. Si disporrà con urgenza il divieto di trasmissione e diffusione sia nelle sale cinematografiche che in tv che su Internet del film Via col vento, che offende la popolazione nera di tutto il mondo abbondando nei più vieti stereotipi e si rende colpevole di propaganda a favore degli Stati razzisti e ribelli del Sud. Anche in questo caso non appare al momento necessario intervenire su altri film diretti dallo stesso regista mentre è inevitabile applicare un divieto tassativo di diffusione di tutte le altre opere interpretate da Clark Gable, accusato nel 1998 dall’attrice Loretta Young di averla stuprata 63 anni prima. Nello stesso spirito, si procederà all’eliminazione da tutti i musei dedicati alla storia del cinema delle pellicole di David Wark Griffith e in particolare di quel Birth of a Nation che, con la sua esaltazione palesemente razzista del Ku Klux Klan, veicola messaggi resi tanto più subdoli e minacciosi dalle elevate qualità artistiche della pellicola, considerata l’atto di nascita del cinema. La Commissione si è a lungo interrogata sull’opportunità di intervenire sulle opere di sospetti molestatori di minorenni come Charles Chaplin, pederasti come Pier Paolo Pasolini, figure di dubbia moralità come Woody Allen, senza arrivare per ora a una conclusione definitiva. Sarà quindi per il momento sufficiente avvertire gli spettatori delle ombre che circondano gli autori, in attesa di ulteriori e possibili sanzioni. Appare invece obbligatorio dare immediatamente corso al ritiro di tutti i film di Alfred Hitchcock il cui abuso di potere, aggravato dalla turpitudine dei moventi intesi come indirettamente sessuali, di- strusse la carriera dell’attrice Tippi Hedren e dello stupratore Roman Polansky. In questo caso si reputa utile anche il divieto d’ingresso in territorio nazionale della vittima, Samantha Geimer, che con le sue ripetute richieste di far cadere le accuse contro il regista si è resa oggettivamente complice dello stupro da lei stessa subito. In questa primissima fase della sua attività la Commissione si è concentrata soprattutto sulla fiction cinematografica, e anche solo questo fronte ha appena iniziato a scalfire un problema che si profila titanico. La Commissione considera però imprescindibile inviare almeno alcuni primissimi segnali anche in altre sfere come la letteratura, la filosofia, la musica e l’arte figurativa. Dispone pertanto la censura dell’intera opera dello scrittore Louis- Ferdinand August Destouches, inteso Céline, in quanto autore di un testo antisemita come Bagattelles per un massacro, che offende gli ebrei tutti e in particolare la memoria della Shoah. Dato il livello particolarmente scadente dell’opera in questione, tuttavia, si ritiene utile consentire la diffusione esclusivamente di questo testo, come monito per chiunque intendesse seguire il deplorevole esempio. Per le stesse ragioni vengono messe al bando le opere del filosofo tedesco Martin Heidegger, il cui antisemitismo appare conclamato dopo la pubblicazione dei Quaderni neri, dello scrittore norvegese Knut Hamsun, con ritiro immediato del premio Nobel, e del compositore Richard Wagner. La Commissione ritiene inoltre che le violenze fisiche commesse su alcune donne non consentano ulteriormente l’esposizione o la diffusione delle opere del musicista jazz Miles Davis, dello scrittore Ernest Hemingway e del pittore Edward Hooper. Pur non trattandosi di violenze fisiche ma di proseguite umiliazioni e violenze morali ai danni della fotografa e modella Dora Maar, la stessa misura deve intendersi applicata alle opere del pittore spagnolo Pablo Picasso. Caratteri particolarmente delicati ha rivestito il tema devastante della pedofilia. Pur avendo solo lambito questo fetido contenente, risulta necessario almeno vietare ogni forma di diffusione della musica del pedofilo Michael Jackson. La decisione più dolorosa, perché apparentemente feroce nei confronti di milioni di bambini, è stata senza dubbio per noi quella di ordinare il ritiro dei 26 premi oscar che hanno premiato il pro-dut-tore Walt Disney e di tutte le opere da lui prodotte. Per quanto sofferta e a lungo discussa la scelta si è resa necessaria nei confronti di un uomo che, senza contare le esplicite simpatie per il nazismo, rifiutava di far lavorare nella sua azienda le donne. Queste scelte, come le altre che presto seguiranno, non sono state prese a cuor leggero. Ma tra i diritti degli spettatori o dei lettori e quelli di una Morale depurata dai miasmi del sessismo, del razzismo e dell’antisemitismo un popolo civile e moderno non può avere dubbi.

Meglio non fidarsi degli scrittori. La letteratura inganna, come l’apparenza e in qualche caso come la realtà. Mai fidarsi degli scrittori, tanto meno di quelli che rappresentano se stessi con eccessiva benevolenza, scrive Paolo Di Stefano il 13 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «La vita o si vive o si scrive», diceva Pirandello, aggiungendo: «Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola». In realtà l’autore del Fu Mattia Pascal aveva vissuto: una vita difficile, ma l’aveva vissuta, anche se con un una moglie paranoica («La pazzia di mia moglie sono io») e con un amore disperato e lacerante per Marta Abba. Pirandello non si amava e vedeva intorno solo sfacelo. È sempre sorprendente lo scarto tra ciò che gli scrittori scrivono e quel che vivono. Vladimir Nabokov scrisse un romanzo scandaloso e lascivo, Lolita, ma la sua relazione con la moglie Vera fu ricca, intensa, fedele e alquanto convenzionale. Fatto sta che se non è tuo marito o tua moglie, al genio si perdona tutto, o quasi. Purché sia davvero un genio. Si sa che non esiste grand’uomo per il suo cameriere. Rousseau, Tolstoj, Brecht, Hemingway, Sartre…In un celebre libro degli anni 80, il saggista inglese Paul Johnson si divertì a raccontare i grandi intellettuali osservandoli dietro le quinte: uomini che in pubblico pontificavano, giudicavano l’umanità, impartivano urbi et orbi lezioni morali, mentre in privato erano tirannici, debosciati, bugiardi, egocentrici, sessuomani. Le contraddizioni fanno parte della vita e la coerenza sarà pure la virtù degli stolti, ma quando è troppo è troppo. Prendete i romanzi di Fausto Brizzi, pubblicati da Einaudi Stile Libero e confrontateli con le rivelazioni di questi giorni sulle molestie. Nulla di più distante. Storie lievi di vita familiare, ironica quotidianità di coppia, qualche tradimento da farsi perdonare in extremis. Niente di torbido, «commedie capaci di commuoverci e di farci sorridere», recita la frase di copertina. Il protagonista di Ho sposato una vegana si chiama addirittura Fausto e sua moglie è Claudia esattamente come la moglie di Brizzi. Più che una fiction, un’autofiction in cui si mette in scena un «onnivoro perdutamente innamorato di una donna con abitudini alimentari che lui pensava destinate solo ai ruminanti». Un libro «divertente e affettuoso» a lieto fine: lui soccombe e lei trionfa. Anche il protagonista di Se mi vuoi bene, pur chiamandosi Diego, mostra, come Fausto, il suo lato debole e innocente: decide persino di dedicarsi agli altri, ottenendo effetti contrari alle sue buone intenzioni. Viene presentato come un personaggio «tenero e maldestro che tutti, in fondo, vorremmo per amico»… La letteratura inganna, come l’apparenza e in qualche caso come la realtà. Mai fidarsi degli scrittori, tanto meno di quelli che rappresentano se stessi con eccessiva autoironia e benevolenza.

Se oscurano il "maialone" e non il suo genio. Che ipocrisia sul "caso Brizzi". Vorrei vorrei conoscerlo il signor Warner Italia. Sono curioso di vedere che faccia ha uno così ipocrita da fare soldi con la ciccia del (presunto) maiale senza dire al consumatore che sta per mangiare la carne di un porco, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/11/2017, su "Il Giornale". Non conosco Fausto Brizzi, il regista di sinistra finito nel tritacarne (per ora) mediatico dopo l'accusa di una decina di attricette che sostengono di essere state da lui molestate e invitate a scambiare il loro corpo con qualche particina. Si dice che facesse i provini direttamente in camera da letto, se è vero è quantomeno sintomo di un uomo che aveva tempo da perdere. Lo star system lo ha già condannato: fuori, impresentabile. Al punto che il suo ultimo film - Poveri ma ricchissimi con Christian De Sica, in uscita per Natale - andrà nelle sale censurato del suo nome (che non comparirà neppure nelle pubblicità della pellicola). Lo ha deciso il produttore, la Warner Italia, filiale domestica del colosso internazionale del cinema. Io vorrei conoscerlo il signor Warner Italia. Sono curioso di vedere che faccia ha uno così ipocrita da fare soldi con la ciccia del (presunto) maiale senza dire al consumatore che sta per mangiare la carne di un porco; che faccia ha chi dà un prezzo (il business di un film già girato e montato) alla presunta sofferenza o violenza su una decina di ragazze. Ed evidentemente per questi moralisti le (presunte) molestie non valgono l'incasso della pellicola, che a quanto pare - e io dico per fortuna - andrà regolarmente in sala. Vorrei chiedere al signor Warner Italia come fa a divulgare e vendere il genio, il talento e la professionalità di uno che considera un maiale e pensare di salvarsi la coscienza sbianchettando il suo nome. Scommetto: il signor Warner Italia è uno della sinistra chic, e - se non lo è - è un paraculo succube di quel sistema. Io non penso che a Natale andrò a vedere Poveri ma ricchissimi, ma pretendo da consumatore (e da uomo libero e consapevole) che mi si dica a caratteri cubitali chi l'ha pensato e girato come previsto dalla legge per qualsiasi prodotto proposto in uno scaffale. Tra il maiale e chi usa il maiale vergognandosi non ho dubbi: sto dalla parte del maiale, che almeno paga le sue maialate. E la morale di questa storia sull'immoralità del cinema e dello spettacolo è che c'è poca differenza tra vittime, carnefici e presunti giudici della morale. È una gigantesca presa per i fondelli, dove maiali e mascalzoni si scambiano solo la parte. Ma come noto, invertendo gli addendi, il risultato non cambia. Come non cambieranno mai le immorali, e a volte geniali, regole del vostro mondo.

Il genio e il maiale, scrive l'11 novembre 2017 Augusto Bassi su "Il Giornale". Il 6 novembre mi chiedevo, vi chiedevo, se fosse possibile definire la molestia. Ora è venuto il momento di porci un’altra domanda, divenuta indilazionabile. E’ giusto radere al suolo un artista e la sua arte nel momento in cui lo si scopre colpevole di qualche nefandezza? E di agire a ritroso e in previsione sia a caccia del peccato sia con l’intenzione di annichilire l’opera del peccatore? Kevin Spacey è stato annullato, messo fuori gioco. Per molto tempo, se non per sempre. Louis C.K. con lui. E chissà quanti altri ne seguiranno. Dobbiamo dunque chiederci, con urgenza: è lecito depauperare l’arte per lustrare il piolo alla morale pubblica? Lo stand-up comedian, è notizia di ieri, ha domandato a cinque donne di potersi masturbare innanzi a loro. E ci ha messo una tale arte da convincere le spettatrici, per qualche minuto almeno, che quel suo estroverso spippettarsi fosse parte di uno sketch. Se non è genio questo! Voi ci riuscireste? Un comportamento deplorevole, non lo negheremmo; ma cancellare il suo film in uscita, I love you, Daddy, annullare gli spettacoli in programma e demolirne la carriera… che cos’è se non masturbazione punitiva? Se non godere nel segare la reputazione del depravato? Come dicevamo in Puritani da Oscar, c’è un gusto malverso in questo voyeurismo disciplinare, dove tutti fanno i vigilanti guardoni che sputtanano per arrivare all’orgasmo. Ora, la questione non è banale e confesso di essere ambivalente; non riesco a tirar fuori un pensiero eretto. Perché senz’altro denunce così circostanziate non possono essere soddisfatte da un semplice scappellotto o dalla promessa di non farlo più. Ma è possibile punire l’uomo senza punire l’artista? E se si può, si deve? Che cosa avremmo perso se tutti i prevaricatori, i violenti, i viscidi, i pederasti della storia fossero stati professionalmente o artisticamente annientati? Socrate avrà giocato con il pistolino di Glaucone? Per fortuna, almeno nel suo caso, non ci sarebbero libri da bruciare. Ma le tele del Caravaggio? Le opere di Karl Kraus? Leggiamo qualche guizzo femminista di quest’ultimo per ponderare la portata dell’oltraggio: «Le donne vogliono apparire vestite ed essere guardate svestite. I diritti delle donne sono doveri degli uomini. Con loro monologo volentieri, ma il dialogo con me stesso è più stimolante. La cosmetica è la scienza del cosmo della donna. La donna è coinvolta sessualmente in tutti gli affari della vita. A volte perfino nell’amore. Nulla è più insondabile della sua superficialità».

E potremmo proseguire ancora a lungo, ma preferiamo passare il testimone a chi venne prima di lui come Arthur Schopenhauer: «Le donne sono sexus sequior, il secondo sesso, che da ogni punto di vista è inferiore al sesso maschile; perciò bisogna aver riguardi per la debolezza della donna, ma è oltremodo ridicolo attestare venerazione alle donne: essa ci abbassa ai loro stessi occhi. Quando le leggi concessero alle donne gli stessi diritti degli uomini, avrebbero anche dovuto munirle di un’intelligenza maschile. Le teste più dotate dell’intero sesso femminile non sono mai riuscite a creare un’unica opera effettivamente grande, genuina e originale nelle belle arti e, in generale, non sono mai state capaci di produrre una qualche opera di valore duraturo … Singole e parziali eccezioni non cambiano nulla». Immagino che affermazioni come queste siano ben più gravi del tirarlo fuori e autocompiacersi con bizzarra convivialità di fronte a qualche signora, giusto? E allora che fare, castigare a ritroso tutti i traviati applicando le “nostre” categorie? Dare alle fiamme le loro testimonianze? Abbattiamo palazzi e cattedrali ove i datori di lavoro non abbiano fornito alle maestranze i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente? Avranno messo a disposizione i caschetti, o almeno elmi Montefortini, agli operai edili del Colosseo? Ma qui l’ardire revisionista porta a conseguenza ben più temerarie; perché sarebbe necessario andare a prendere per le orecchie anche i titani dell’ingegno umano. Pensiamo a Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti: come giudicare gli affettuosi rapporti che intrecciavano con i giovanissimi pupilli? Anche il loro genio ne uscirebbe in qualche modo contaminato? E se così fosse, non andrebbe forse censurato? Il genio artistico produce esemplari, e li produce nel suo ambito; non produce princìpi. Kevin Spacey può essere un modello come attore senza essere un modello come uomo. Questo credo. E ritengo che la non coincidenza di moralità e realtà… sia condizione e premessa di ogni agire morale. Imbiancare il sepolcro della morale collettiva dopo aver seppellito il cadavere del peccatore e aver ballato sulle sue spoglie l’atroce danza della catarsi farisaica, è ciò che fa di noi una umanità di morti viventi.

MISANTROPIA. MISANDRIA. MISOGINIA.

La misantropia (dal greco antico: μίσος, mísos, "odio" e ầνθρωπος, ànthrōpos, "uomo, essere umano") è un sentimento e un conseguente atteggiamento d'odio, disprezzo totale o mancanza di fiducia nei confronti del genere umano e delle persone in generale, caratterizzato dalla ricerca della solitudine e della pace lontano dagli altri. Un misantropo è una persona che odia o non si fida dell'umanità. La misantropia comunque non implica necessariamente sadismo, masochismo o depressione, o una disposizione antisociale e sociopatica verso l'umanità. Il misantropo, inoltre, difficilmente ha l'intenzione di uscire dalla propria idea dell'uomo, ritenendo suddetta idea corretta, e non imputa la causa della misantropia a se stesso, considerandosi incapace di modificare il proprio stato. Le persone misantrope tendono a tenersi propriamente alla larga dagli altri.

Il termine misandria (dal greco μισέω misèō, "odiare", e áνήρ anễr, "uomo") indica un sentimento ed un conseguente atteggiamento di avversione ed ostilità nei confronti del genere maschile. In ragione di questa specifica delimitazione della categoria umana oggetto di avversione si distingue dalla misantropia e costituisce il concetto, speculare e contrapposto, della misoginia.

Il termine misoginia (dal greco μισέω misèō, "odiare" e γυνή gynễ, "donna") indica un sentimento e un conseguente atteggiamento d'odio o avversione nei confronti delle donne, perpetrato indifferentemente da parte di uomini o altre donne. In ragione di questa specifica delimitazione della categoria umana oggetto di avversione si distingue dalla misantropia e costituisce il concetto speculare e contrapposto della misandria. La misoginia è diretta verso le donne considerate come gruppo: una persona misogina può intrattenere comunque delle relazioni affettuose di amicizia e amorevoli con singole donne; di converso, avere relazioni negative con un gran numero di donne prese singolarmente non significa necessariamente essere persone misogine. Le ragioni che possono portare indifferentemente dal genere a tale atteggiamento possono essere di svariata natura: esperienze personali traumatiche, aspetti culturali propri o tramandati dai propri avi, rivalità insite in ambiti familiari e sociali, il modo in cui si vive la competizione, sul piano passionale o anche nel contesto lavorativo. La misoginia è generalmente un atteggiamento individuale, mentre il maschilismo, alla stregua del femminismo, è un atteggiamento culturale, non necessariamente accompagnato da odio.

Donne che odiano gli uomini: misandre o misandriche? Scrive il 24 gennaio 2017 "accademiadellacrusca.it".

Quesito: Laura A. da Napoli si chiede e ci chiede se esista l'opposto della parola misoginia, se ci sia, cioè, un modo per definire l'avversione per il genere maschile, ben sapendo che misantropia si riferisce all'odio per il genere umano e alla società in generale. Analogamente Sara M. da Roma e Daniela C. da Taranto domandano quale sia il termine per indicare "una persona che odia le persone di sesso maschile", visto che abbiamo un termine specifico per designare sia chi prova tale sentimento verso le donne (misogino), sia chi odia sia gli uomini che le donne (misantropo).

Donne che odiano gli uomini: misandre o misandriche?

Alla lettrice di Napoli rispondiamo subito che, per indicare l’avversione morbosa per le persone di sesso maschile, già esiste, almeno da quattro decenni, il termine misandrìa, come testimoniano le edizioni relativamente recenti di alcuni vocabolari di lingua (VOLIT, il cui volume relativo porta la data 1989, ZINGARELLI dall'edizione 1997, GARZANTI 2003, GRADIT 2007, Vocabolario Treccani online; ma non Devoto-Oli 2014 e Sabatini-Coletti 2008) e GDLI (il volume in questione è datato 1978). È voce dotta, usata soprattutto nell'ambito della psicologia, risalente alla seconda metà del secolo scorso: al 1957 per ZINGARELLI 2016, al 1976 per GRADIT (per quanto, stando a Google libri, la prima attestazione risalirebbe al 1938 nel "Bollettino di filologia classica", voll. 45-49, in riferimento alle Danaidi, come anche nel volume dell'anno successivo della stessa rivista). Non sono attestati però l'aggettivo e il sostantivo per indicare 'relativo alla misandria, caratterizzato da misandria' e 'che, chi prova repulsione o una profonda avversione nei confronti delle persone di sesso maschile', corrispondenti a misògino, che riveste entrambe le funzioni grammaticali, e a misantropico e misantropo. È interessante notare che misogino, secondo l'Etimologico, risale al XVIII secolo e misoginia ne è derivato nel secolo successivo (anche se il DELI lo dà già attestato in A Worlde of Wordes, il dizionario anglo-italiano di John Florio del 1598) e che misantropo risale al XVI secolo, misantropico al XVIII e misantropia agli inizi dell'Ottocento (per quanto sia testimoniato un suo uso seicentesco nelle Voci italiane d'autori approvati dalla Crusca nel Vocabolario d'essa non registrate... di Gian Pietro Bergantini, come ricordato nel DELI). Quindi, a parte usi sporadici precedenti, le forme misantropo e misogino, indicanti l'individuo che ha un atteggiamento di avversione nei confronti dei suoi simili o delle donne in particolare, precedono nell'uso il sostantivo astratto. Nel caso di misandria, molto più tardo – di almeno un secolo stando ai dizionari – rispetto a misoginia e misantropia, il rapporto parrebbe rovesciato. Ciò si verifica anche in altre lingue: in inglese misandrist (secondo l'OED attestato per la prima volta nel 1952) è successivo di quasi un secolo a misandry, la cui prima testimonianza è del 1885. In spagnolo la prima attestazione di misandria sul relativo corpus di Google libros risale al 1957 ("Misandria y misogynia no son caminos hacia Dios..." nella rivista argentina "Criterio") e dieci anni dopo è registrata nel Diccionario bachiller: con los vocablos y disposiciones más recientes de la Academia Española, mentre misándrico, che riveste sia il ruolo dell'aggettivo sia quello di sostantivo, appare nel 1981. Diversamente in francese (cfr. Trésor de la Langue Française) misandre risalirebbe al 1970 e misandrie al 1974; sembrerebbe quindi trattarsi di forme tarde e pressoché contemporanee tra di loro. Eppure, almeno per il francese, ci sarebbe un "antenato" particolare in forma di antroponimo che risalirebbe al XVII secolo: Lucilla Spetia nel suo Riccardo Cuor di Leone tra oc e oïl (BdT 420,2) ("Cultura neolatina", vol. 56, 1996, pp. 101-155: p. 147 n. 125), descrivendo i Fabliauxattribuiti al re d'Inghilterra: "Sono racconti di carattere seicentesco, in cui i personaggi che vivono situazioni tipiche delle favole (posseggono bacchette o vestiti magici), sono entità simboliche (si chiamano infatti Prudhomme, Longuevie, Misandre, ecc.)". Anche in italiano esiste un antico antroponimo maschile: nel Mortorio di Christo, “Tragedia Spirituale” del padre francescano Bonaventura (al secolo Cataldo) Morone, nato a Taranto, edita per la prima volta nel 1611 e più volte ristampata, è presente tra gli accusatori di Cristo un rabbino di nome Misandro (il personaggio sembra tuttora in uso nel teatro sacro di area pugliese). Per il femminile l’antecedente onomastico è più recente e si tratta di un fitonimo: nel Dizionario etimologico di tutti i vocaboli usati nelle scienze, arti e mestieri che traggono origine dal greco compilato da Bonavilla Aquilino coll'assistenza del professore di lingua greca abate d. Marco Aurelio Marchi (tomo IV, Milano, Tipografia Giacomo Pirola, 1821) troviamo il lemma misandra (“da μισός, misos, odio, e da ανήρ, aner, marito. Nome metaforico da Commerson dato ad una specie di pianta, i di cui individui frequentemente trovò femminini, ed un solo maschio”), che successivamente appare come “Genere di piante della dioecia diandria di Jussieu” anche nel Dizionario Technico-Etimologico-Filologicopubblicato dall’abate Marco Aurelio Marchi per gli stessi tipi nel 1828. Il fitonimo è registrato anche nel Panlessico italiano, ossia Dizionario universale della lingua italiana diretto da Marco Bognolo (Venezia, Stabilimento enciclopedico di Girolamo Tasso, 1839). Sondando il corpus di Google libri si trovano scarse attestazioni: nel XIX secolo quelle attendibili, poche decine, sembrano tutte riferibili, per il maschile, al nome del personaggio della passione di Cristo – riferimento che rimane prevalente anche nel secolo successivo – e, per il femminile, alla denominazione della pianta. Il XX secolo vede poche attestazioni per misandra concentrate soprattutto nell'ambito degli studi classici, benché la prima testimonianza sembri usata in riferimento alle donne contemporanee: "Quando vogliono al massimo grado magnificare una donna veramente superiore, anche codeste misandre la chiamano una donna... virile!" ("Ars et labor: musica e musicisti", vol. 66, anno 1911). Sotto il testo appare la firma Americo Scarlatti, ovvero Carlo Mascaretti, erudito giornalista e bibliotecario della Biblioteca Nazionale di Roma. Nel 1941 l'aggettivo appare in Eschilo, di Raffaele Cantarella, riferito alle Danaidi ("Il poeta si trovava quindi di fronte al problema di conciliare due leggende così contradittorie, di fare cioè, delle Danaidi misandre e di Ipermestra in particolare, le capostipiti della dinastia regale argiva", Vol. 1, p. 146). Ancora alle figlie di Danao era riferito nel secondo volume della Letteratura greca di Filippo Maria Pontani del 1955. Ancora in funzione aggettivale appare nel 1963 nell'analisi di un testo letterario contemporaneo, Ehen in Philippsburg del 1957 (traduzione italiana del 1962): "orbene in codesto romanzo, di tono un po' scandalistico-strapaesano alla Grace Metalious, si riprende una problematica tipicamente misandra [...] e si descrivono gli uomini come mostri di sensualità e di cinismo, che conducono le loro mogli o amanti al suicidio o alla follia" (Aldo Rossi, La colpa nell'Universo Autodifesa della giovane letteratura tedesca parlando del romanzo, "Paragone", vol. 14, aprile 1963, pp.21-44: p. 36). Troviamo la forma sostantivata pochi anni dopo in un testo di Amalia Signorelli D'Ayala intorno a Dieci donne anticonformiste di Julienne Travers pubblicato in Italia l'anno prima: "nessuna neppure ci sembra che abbia i caratteri della femminista che si sforza di modellarsi su esempi maschili, né della misandra competitiva, esclusivamente impegnata a dimostrare la superiorità femminile" ("Rassegna italiana di sociologia", vol. 10, 1969, p. 120). Di nuovo all'età classica rimandano le successive attestazioni nel testo di Franco Ferrari dal titolo La misandria delle Danaidi pubblicato negli "Annali della Scuola normale superiore di Pisa" (Classe di lettere e filosofia, 1977, s. III, v. VII, f. 4) e in Camilla: amazzone e sacerdotessa di Diana di Giampiera Arrigoni del 1982. Ancora al mondo classico rimanda Misandra, nome del personaggio di Fuochi, traduzione datata 1984 di Feux, romanzo di Marguerite Yourcenar edito nel 1936. Il XXI secolo ha poche decine di attestazioni e molte sono in forma di antroponimo, spesso in riferimento alla Misandra della Yourcenar. Anche l'alternativa aggettivale misandrico (in tutte le forme flesse) ha poche occorrenze nel corpus di Google libri. Le prime tre sono del XX secolo: una del 1984 riferito a Clitemnestra ("un'Amazzone misandrica di eschilea memoria") nelle pagine della "Rivista storica italiana" (vol. 96); nel 1995 troviamo il termine nell'edizione Mondadori di Schiava di mio marito, traduzione italiana di My feudal Lord (1991) di Tehmina Durrani; l'ultima occorrenza, del 1996, è in un brano in cui si cita il testo della Arrigoni già ricordato a proposito di misandra ("Giornale italiano di filologia", vol. 48). Nel primo decennio del nostro secolo ci sono solo cinque occorrenze e dal 2010 a oggi siamo a venti attestazioni. Troviamo l'aggettivo in testi di interesse letterario, ma anche in opere sul rapporto conflittuale tra uomini e donne, di cui citiamo qualche titolo a mo' di esempio: Maschio addio (2010), di Pasquale Romeo; Amori distruttivi e vampirizzanti. Come difendersi e come uscirne(2012), di Pier Pietro Brunelli; Viaggio verso Utopia: “L’impatto con il femminismo e il naufragio nella misandria” (2013), di Fabrizio Napoleoni; Il re di picche e la regina di cuori (2014), di Angelica Cremascoli; I pensieri di un giovane maschilista (2015), di Jan Quarius. Quale forma scegliere tra misandro e misandrico? Due grandi quotidiani italiani, "il Corriere della Sera" e "la Repubblica", hanno trattato la questione in due “pezzi unici” (i testi rappresentano a oggi le sole testimonianze nei due rispettivi archivi in rete): il 17 settembre 2004, nella rubrica Lo Scioglilingua da lui allora condotta sul "Corriere", Giorgio De Rienzo così rispondeva alla domanda: «Non è attestato nei dizionari l'aggettivo del raro sostantivo "misandria" che significa violenta avversione per il sesso maschile. Forse non è mai stato usato e perciò non registrato. Tuttavia se dovessi scegliere tra i due [...] opterei (in sintonia con "misantropia") per "misandrica"».

Dodici anni prima, il 14 febbraio del 1992 sulla “Repubblica” veniva pubblicata questa intervista a Tullio De Mauro: Professor Tullio De Mauro, lei che fa il linguista come spiega che le lingue di tutto il mondo, fino ad oggi, non hanno previsto che le donne possano odiare gli uomini? Non esiste infatti il corrispondente di misoginia, termine largamente in uso per un sentimento ammesso e coltivato, l'odio degli uomini per le donne... De Mauro va a sfogliare i suoi moltissimi dizionari: "È vero. Nel dizionario inglese si trova la parola misandry, misandria, ma non si cita altro che Euripide, che, evidentemente, una volta o due l'ha usata. Misandria non esiste nei dizionari italiani, mentre per la parola 'misoginia' c'è un'intera colonna di dizionario, con riferimenti, praticamente, a tutta la letteratura italiana, da Savinio a Gozzano, da De Robertis a Carducci, da Panzini a D'Annunzio". Conclusioni, professore? "È evidente che non c'è stato interesse a qualificare un sentimento di odio delle donne nei confronti degli uomini: delle donne, interessavano solo i sentimenti positivi nei confronti di padri, figli, mariti, amanti, fratelli. Tutto quello che non rientrava in questa previsione, costituiva 'devianza': mentre l'antipatia degli uomini per le donne, la misoginia, è largamente accettata. C'è, culturalmente, una liceità ad essere misogini. Non altrettanto ad essere misandre: ma chi sa, nel prossimo futuro, non è detto che non ci capiterà di leggere un romanzo intitolato appunto La misandra. Anzi, lo suggerisco: è un bel titolo..." (Vi odio cari maschi, senza firma). Alle conclusioni di De Mauro aggiungo il suggerimento di usare, come nel caso di misantropia, entrambe le forme aggettivali: misandrico (che mostra una diffusione in rete sensibilmente superiore), per l’inanimato, e misandro, anche sostantivato, per le persone. 

A cura di Matilde Paoli. Redazione Consulenza Linguistica. Accademia della Crusca 

Pubblicato il piano femminista contro gli uomini, scrive il 22 novembre 2017 By Silvio Altarelli su "it.avoiceformen.com". Un gruppo femminista ha pubblicato un piano di azione contro gli uomini. L’estremismo appare già dal nome della gruppo “Non Una di Meno”, con cui si dicono vittime di femminicidio.  Una delle loro dirigenti è in carcere per aver ucciso per gelosia Araceli, la ragazza di 13 anni che vedete stesa a terra.  Invece di cambiare nome, hanno attaccato la stampa che osserva la contraddizione: «informatevi, se una donna uccide un’altra donna non è femminicidio». Il piano femminista è una via di mezzo fra il tema di un bambino ed il Mein Kampf di Hitler.  Simile è il linguaggio “noi esigiamo”, “noi pretendiamo”, simile è la verbosità, simile è il fanatismo ideologico.  La differenza è il target: Hitler odiava gli ebrei accusandoli di colpe inesistenti; le femministe odiano gli uomini accusandoli di colpe inesistenti.  Fino a vivere in una realtà delirante: il “patriarcato” che opprimerebbe le donne è reale quanto i protocolli dei savi di Sion. È la strategia di tutte le ideologia dell’odio: dirsi vittime per dare sfogo ai peggiori istinti. Non ci credete?  Vi fidate del vocabolario che dice che il femminismo è per l’eguaglianza, è contro il sessismo?  Leggete. Questo il link al piano, e questo un estratto. Capitolo contro i diritti dei padri:

«Pretendiamo modifiche legislative in materia di affidamento condiviso, escludendo la sua applicazione in tutti i casi di violenza e opponendosi ad altre forme di affidamento come quello alternato che svuotano i diritti economici delle donne (diritto all’assegnazione della casa familiare e del mantenimento)». 

L’80% delle accuse di maltrattamento fatte da ex mogli sono false: privare un bambino del papà per 5-10 anni (il tempo di un processo in Italia) equivale a rapirlo e maltrattarlo.

«Assicurare l’applicazione di provvedimenti ablativi e/o limitativi della responsabilità genitoriale paterna». Nulla dicono sui figli che rimangono con le mammesantissime anche quando private della (ex) potestà genitoriale e sono sotto processo per lesioni e maltrattamenti sui figli.

«vietare di procedere a valutazione psicologica sulle donne … e sulla loro capacità genitoriale, valutazione che dovrebbe essere centrata sulla sola figura paterna».

Niente misure alternative al carcere per gli uomini: «evitare la patologizzazione dell’uomo violento».

Misure per incentivare alle false accuse di stampo femminista: chi denuncia avrà:

«reddito di autodeterminazione».

«flessibilità di orario, aspettativa retribuita, sospensione della tassazione».

«congedo lavorativo per violenza».

«mettere a disposizione per attività di imprenditoria femminile una percentuale dei beni commerciali confiscati» ai maschi.

«preteniamo contributo quadriennale all’affitto», il che è una novità apprezzabile visto che di solito le femministe occupano case senza pagarlo;

«equiparare la necessità di fuga dalla casa familiare all’essere colpite da una ingiunzione di sfratto» che non si capisce cosa voglia dire, forse che per non pagare l’affitto basta dirsi vittime di violenza?

«contratto facilitato per le donne».

«per le case popolari massimi punteggi per le donne».

«10% del patrimonio pubblico per case di semiautonomia gestiti dai CentriAntiviolenza», ovvero case alle femministe pagate da noi.

«risarcimento del danno ponendo a carico dello stato l’anticipazione di tutte le somme».

«estensione ai reati di genere di strumenti processuali che depotenziano i diritti della persona offesa». 

Poche idee ma ben confuse: vogliono l’opposto di quello che hanno scritto: vogliono che la legge del governo PD che depenalizza alcuni reati non sia applicata se la parte offesa è una donna che si dice vittima di un uomo. Capitolo CentriAntiViolenza, quelle associazioni spesso coinvolte nelle false accuse di donne separate, nell’«aggirare» le leggi, e nella conseguente sparizione dei figli. Divieto di ingresso ai maschi: «luoghi di elaborazione politica femministi al cui interno operano esclusivamente donne».  Eccetto la fondatrice Erin Pizzey, che venne cacciata con la violenza dalle femministe che le ammazzarono il cane, in quanto diceva che sia uomini e donne possono essere violenti, e aiutava sia uomini che donne. «I finanziamenti pubblici devono prevedere contratti a tempo indeterminato», e un mare di altre richieste di mantenimenti pubblici.  Occorre invece chiudere tutti i centri anti-violenza perchè uno stato serio non dovrebbe permettere che le separazioni siano gestite da fanatiche avvocate femministe che odiano la famiglia.  Occorre che siano sostituiti da strutture non sessiste, gestite da uomini e donne, che aiutino le coppie in crisi a superare le difficoltà o a separarsi in maniera pacifica, per il bene dei figli.

«Divieto di mediazione familiare e soluzioni alternative nelle controverse giudiziarie»: vogliono che le donne che per rabbia o vendetta sono ricorse ad un’avvocata femminista non siano libere di tornare indietro.

Capitolo cultura: Stampa obbligata a «fare riferimento ai Centri Anti Violenza e associazioni femministe come principali fonti di informazioni».  Goebbels docet. Imposizione delle «facoltà di studi di genere» nelle università.

Capitolo mantenimento di stato per le donne:

«Un salario minimo europeo per contrastare i bassi salari, i meccanismi di gender pay gap»;

«Un reddito che noi definiamo di autodeterminazione, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno […] per le donne […] per tutte e tutt@» (nel linguaggio femminista tutt@ sono lesbiche).

Si oppongono al Reddito di Inserimento varato dal Governo «perchè … rivolto alla famiglia – come sappiamo origine della violenza, condizionato ad un percorso di “inclusione lavorativa”».  Per le femministe il lavoro e la famiglia sono oppressione patriacale. «Un welfare universale gratuito e accessibile a tutt@, non basato sul modello familistico, capace di riconoscere diritti non solo alle donne ma alle migranti, alle soggettività lesbiche».

Capitolo «violenza ostetrica», new entry:

«Un milione di donne ha dichiarato di aver vissuto violenza ostetrica».  «L’insistenza sul parto naturale è da considerarsi una violenza ostetrica».

Non potendo denunciare Dio chiedono di «accedere all’aborto farmacologico fino a 63 giorni».  E pazienza se il “farmaco” provoca emorragie: quello che conta è abortire i bambini.

Capitolo invasione islamica/africana:

«Procedure semplificate e requisiti ridotti per la cittadinanza alle donne migranti».

«Esigiamo inoltre che il permesso di soggiorno per sfruttamento lavorativo sia svincolato dall’accertamento di reati in sede penali»: ovvero vogliono che basti accusare falsamente senza prove il datore di lavoro per avere il permesso di soggiorno.

«pretendiamo… protezione internazionale per le donne che si sottraggono ad ogni forma di violenza», «appoggio femminista per le richiedenti asilo», «permesso di soggiorno per le donne che subiscono qualsiasi forma di violenza anche episodica svincolandolo dal percorso giudizario/penale». Ovvero: basta accusare falsamente qualcuno in Kenya per farsi mantenere dagli italiani.

Il piano femminista contro gli uomini è stato gioiosamente approvato dal Manifesto: un uomo che vota a sinistra è oggi come un ebreo che vota per i nazisti.

La manipolazione dei dati sul “femminicidio”, scrive il 7 gennaio 2018 Paolo Cavallari su "it.avoiceformen.com". Ho già fatto un altro post sulle statistiche del cosiddetto femminicidio (Orwell aveva ragione?). In quell’articolo si esponevano dubbi e cautele sull’attendibilità dei dati presentati a tambur battente da telegiornali e quotidiani nel corso del 2013 per giustificare l’approvazione di leggi speciali di contrasto ad un fenomeno che si voleva far credere in crescita. Successivamente Giulio Tandiod ha pubblicato sul nostro blog una accurata analisi dei dati del Ministero dell’interno che mostra nei dettagli come l’allarme femminicidio sia totalmente infondato e finalizzato a scopi di bassa politica. Vale la pena però di tornare sul tema perchè ci sono in rete altre fonti che possono smascherare la truffa che è in atto. Parliamo di truffa perchè si è continuato a sparare dati durante tutto il 2017, con esiti grotteschi come quando nel medesimo giorno un TG dava numeri che erano più alti del 30% di quelli del TG della rete concorrente, evidenziando così il fatto che si trattava di dati inventati di sana pianta. La prima fonte che segnaliamo è il sito pensierocritico.eu che in un post sulla Manipolazioni statistiche sulla violenza di genere analizza i meccanismi sociologici che portano alla sovrastimazione dei dati sugli omicidi di donne con movente legato alla relazione affettiva (“femminicidio”).  Grazie ai riferimenti pubblicati in questa analisi critica abbiamo scoperto un altro utilissimo strumento pubblicato a cura del quotidiano La Stampa. Si tratta di una mappa dell’Italia con tutti i “femminicidi” rappresentati come punti. Cliccando il punto si può trovare il riferimento alla notizia di cronaca. I femminicidi riportati per il 2013 sono 103 (dato ben diverso da quello sbandierato nei TG di allora per supportare la campagna per le leggi speciali). Ma anche questa classificazione che ridimensiona il numero totale non è attendibile. Infatti se proviamo a cliccare sul punto corrispondente al villaggio di Ledro in Trentino scopriamo che l’omicidio di Daniela Sabotig del 5 febbraio 2013 è stato “contato” come femminicidio anche se il movente accertato dai tre gradi di giudizio è di tipo strettamente economico (impossessarsi del patrimonio della vittima). Quanti altri dei casi riportati dalla mappa sono falsi femminicidi? Lo lasciamo scoprire ai lettori che possono cliccare sulla mappa e fare le loro verifiche. Un’altra fonte di dati molto interessante è la “27esimaora” del Corriere della Sera che pubblica ogni announa pagina con le foto delle vittime di femminicidio. A fine 2016 il conteggio era arrivato 115 donne uccise. Tutti femmincidi? Non proprio perchè proprio nella prima riga i casi del 22 e del 20 dicembre 2016 erano due donna uccise a coltellate dai figli. E due righe più sotto il caso del 13 novembre 2016 è quello di una donna strangolata “per vendetta contro il figlio”. Nel post Orwell aveva ragione? si faceva il paragone tra i dati inattendibili forniti dai mass media politicamente corretti e le statistiche fasulle utilizzate dal Grande Fratello in “1984” per manipolare i sudditi del regime basato sulla menzogna. Dopo aver riflettuto credo che invece il paragone più azzeccato sia con le truffe descritte nel film Totòtruffa. Infatti i regimi totalitari falsificano i dati ma nascondono le fonti da cui sono stati presi. I mass media femministi politicamente corretti invece ci trattano come idioti e ci mettono sotto il naso i dati che provano le loro menzogne. Pensano di essere artisti geniali come Totò ma sono solo dei pasticcioni incapaci.

LOTTA ALL'UOMO ED IL TRAMONTO DEL MASCHIO.

Cosa resta della cultura maschile, molestia a parte. Oltre lo scandalo, un sisma che covava da molto. Resta da chiedersi se rimane qualcosa da salvare, scrive Pier Aldo Rovatti il 25 gennaio 2018 su "L'Espresso". Il sisma provocato dallo scandalo Weinstein sta ancora facendo tremare, al di qua dell’oceano, anche buona parte dell’Europa. Covava da tempo e le onde si sono propagate ben oltre il mondo del cinema. Anche l’Italia resta un epicentro di questo terremoto che avvolge sesso e potere nel grande contenitore delle “molestie”, finalmente scoperchiato.

Molestie paradigmaticamente unidirezionali: dagli uomini maturi, che le avanzano e le portano a compimento, alle giovani donne che le ricevono e ne pagano le conseguenze sulla propria pelle – è davvero il caso di dire. “Carnefici” che sfruttano il loro potere e “vittime” che pagano la loro debolezza scontando il desiderio di avere un qualche protagonismo sociale. Così, la decisione presa negli Stati Uniti che queste vittime vengano elette, collettivamente, a “donne dell’anno” ha suscitato un ovvio consenso generale. Il fenomeno, con un effetto valanga, è diventato endemico coinvolgendo le esperienze di donne molestate negli ambienti lavorativi, ma anche quelle situazioni, magari nascoste e comprensibilmente taciute, che proliferano tra le cosiddette mura domestiche.

Naturalmente non si può fare di tutte le molestie un fascio: alcune conducono direttamente alla violenza sessuale, altre risultano più sfumate o subdole. Queste ultime costituiscono una sorta di normalità, si confondono con l’approccio galante, permettono al maschio di tirarsi indietro e di dichiararsi innocente, vengono ridimensionate a qualcosa di semplicemente “percepito” dalla donna che le riceve (ma ne trattiene dentro di sé un segno magari indelebile).

Qui, però, una volta tratteggiato rapidamente il quadro che ormai è sotto gli occhi di ognuno, vorrei interrogarmi sulla attuale cultura maschile e nello specifico chiedermi se in tale cultura – che appartiene anche a me in quanto uomo – resti, “molestia a parte” (boutade ma fino a un certo punto), qualcosa di positivo e difendibile, oppure se non rimane che starsene colpevolmente muti poiché ormai nulla di questa cultura da padroni appare più salvabile.

Comincerei, per tentare di rispondere, da una rapida fenomenologia della condizione maschile di oggi, osservando subito che, se è vero che l’uomo continua a godere prestigio e padronanza sociale (“potere” per dirla in breve) sia a livello macro che a livello micro, e che quindi esiste tuttora un divario impressionante tra le potenzialità sociali dei due sessi, è tuttavia anche vero che molti maschi attraversano una decisa crisi di identità: non sanno più bene chi sono. “Alla buonora!”, potrebbe essere il commento da parte femminile, certo del tutto condivisibile. Il filosofo Derrida aveva coniato il termine “fallogocentrismo” con cui indicava il carattere prevalente da secoli nella teoria e nella pratica dell’umanità (!), un’umanità fatta di uomini. La cultura fallica ed egocentrica è ancora in piedi, saldamente e in maniera dominante nel mondo intero, anche se viene incrinata da pratiche di consapevolezza critica cui lo stesso Derrida ha inteso dare il suo personale apporto. Dovremmo allora cercare di allargare e approfondire di più simili incrinature, piccole che siano, ecco il compito di tutti noi, uomini e donne, ciascuno per la propria parte. Ma cosa accade a quel maschio (quei pochi che dovrebbero diventare tantissimi) che prende sul serio questo compito critico? Che si accorge che epiteti come “maschio” e “maschile” sono ormai parole marchianti e da cancellare? Che la stessa parola “uomo”, pur così indeterminata e universalistica, contiene qualcosa di oppressivo e al tempo stesso limitante? Accade che non potrà più dimorare lì e dovrà traslocare altrove. E dove? Dovrà prendere il femminile come esempio? Forse sì, ma credo anche che neppure questo basti a riempire la lacuna di identità che gli si spalanca, sempre che davvero riesca a essere conseguente con il suo sguardo critico.

Lasciamo pure al loro posto le filosofie che alla fine contano poco e inoltre hanno i propri problemi da risolvere. Basta, infatti, guardarsi un po’ attorno, nelle nostre vite quotidiane, e constatare quante figure maschili, zoppicanti, incerte, quasi disadattate, comunque tristi, vediamo accanto a noi: alcune dichiarate nella loro instabilità, altre mascherate da chi tiene duro e sa quello che vuole, ma le loro sono maschere sottili e di cartapesta. Se ti avvicini e li conosci un po’ meglio, scopri che i primi spesso hanno già appeso – come si dice – le scarpe al chiodo, cioè hanno smesso di cercarsi e vivacchiano all’ombra di compagne o figli piccoli, e i secondi reggono con fatica i loro ruoli mascherati e alla sera prima di dormire o nei momenti in cui si lasciano andare con qualcuno dichiarano fallimenti e addirittura intere vite da buttare.

C’è una comune scena di strada che mi pare esemplare. Ecco un giovane padre che spinge la carrozzina portando il suo bimbo a passeggio. Non sembra annoiato, né ha l’aria di farlo perché deve, come ci si aspetterebbe. Anzi, sembra contento e orgoglioso del suo compito, come se avesse preso congedo da ogni tratto “maschile” e si fosse accomodato in un’identità intermedia tra uomo e donna, assumendo un aspetto gentile e un ruolo lontanissimo da qualunque cultura fallica ed egoica. Una specie di mutazione repentina nei confronti dell’odioso maschilismo da cui con ogni probabilità lui stesso proviene. Questa banale scena di strada può sollevare parecchi interrogativi. Sarà vero che un simile esemplare di maschio è diventato – come pare – incapace di molestie e ormai solo incline al sorriso gentile e alla carezza innocente? È ragionevole dubitarne ed è più verosimile pensare che stia recitando una parte con la speranza che “gli riesca bene”: quanto a lui stesso, svestiti quei panni da padre/madre amorevole, potrebbe ridiventare chiunque, anche il peggiore dei molestatori.

Ma perché essere tanto cinici? Forse è più giusto credergli e pensare che stia sforzandosi di cambiare pelle per liberarsi dai lacci di una greve identità maschile. Bene, diamogli credito, e subito ci chiederemo in chi e in che cosa vada trasformandosi non senza fatica. Esito nel dare una risposta convincente. Non so se si tratti di una specie di “mutazione antropologica”, come la chiamava Pasolini, è una strana trasformazione in qualcosa che non pare – per dir così – né carne né pesce, insomma un collocarsi tra la tipicità dell’uomo e la tipicità della donna, una specie di ibrido, appunto, incerto e comunque non ancora realizzato. Una posizione quanto meno scomoda in cui si sente al tempo stesso troppo stretto e troppo largo. Non saprei dire, infine, se questa piega gentile possa assomigliare a un approdo o a un cambio di identità. Dall’altra parte non sfugge che un pezzo della padronanza, o addirittura qualche tratto ereditato dal maschilismo, possano ritrovarsi nell’attuale comportamento femminile, tuttavia non vissuti come un rischio o un problema di identità, ma questa è un’altra storia (oppure un capitolo della stessa?). 

La nuova guerra dei sessi. Dalle prime suffragette alle denuncianti tardive. Deprecabile chi approfitta della sua posizione come chi accetta. I maschi cambino approccio, scrive Giordano Bruno Guerri, Domenica 05/11/2017, su "Il Giornale".  In questo gran parlare di molestie sessuali si perde la distinzione fondamentale fra etica e morale. Per la morale, il produttore che ci prova approfittando del suo potere è un maiale, l'attrice che ci sta è la sua corrispondente femminile. Per l'etica il loro è, semplicemente, un comportamento disdicevole, che è peggio. Si tratta di una distinzione difficile da snodare in un paese di cultura cattolica, ma serve a capire perché un produttore (o un datore di lavoro, un docente, un capufficio, un politico, ecc) sono più deprecabili se approfittano della loro posizione di forza per ottenere un consenso sessuale che altrimenti non avrebbero; come più deprecabile è e non faccio nessuna morale - chi accetta. Una volta si parlava tranquillamente del «divano del produttore» come una faccenda scontata, normale, quasi divertente. (Esemplare la dichiarazione di Sandra Milo: «Ai miei tempi era peggio, il mio fondoschiena è stato toccato da migliaia di uomini». Vale per tutte le donne - qui ci limiteremo a parlare di donne - anche quelle con fondoschiena affatto celebre o non di simile pregio). Il concetto di molestie sessuali è nuovissimo nella nostra epoca. Venne introdotto in Svizzera negli anni Ottanta e un decennio dopo nell'Ue. Prima di allora l'aggettivo molesto veniva usato quasi soltanto a proposito di rumori, e le ragazze raccontavano alle amiche: «Ci ha provato, ma io non ci sono stata». Denunciare adesso molestie subite venti o più anni fa può dunque sembrare come pretendere l'applicazione di una legge che allora non esisteva, sa di vendetta tardiva per un torto subito, e si corre il rischio di equivoci e strumentalizzazioni, come è accaduto. Ma mi sembra giusto farlo: per esempio, racconto e scrivo appena posso che il mio maestro elementare, mezzo secolo fa, mi picchiava. Allora si usava - accidenti a te, maestro Busini - ma io mi sento ancora umiliato, so di avere subito un torto. Raccontarlo può servire a rafforzare l'idea che i bambini non si toccano, neanche a fini pedagogici e didattici, e insegna ai bambini a non farsi sopraffare. Occorre preparare le nuove generazioni a un futuro necessariamente diverso. L'etica va imparata sin da piccoli: si impari che l'abuso del potere è inaccettabile, come è inaccettabile che la vittima ceda all'abuso per trarne vantaggio. Da un punto di vista evolutivo, del resto, c'è stata una sorta di sviluppo inconscio e collettivo dell'antico slogan femminista «Il corpo è mio e me lo gestisco io», per cui il maschio predatore è teoricamente tenuto a chiedere soltanto a debita distanza, e per favore. (Tutto ciò sulla carta, beninteso, perché ciò che avviene nell'animo umano è ancora più insondabile e misterioso di quel che avviene nelle camere da letto, per fortuna). I maschi, in questa fase della storia umana, dovranno cambiare almeno ufficialmente il loro approccio alla seduzione, alla caccia, alla preda sessuale. È uno sviluppo naturale di quel fenomeno iniziato più di un secolo e mezzo fa con le suffragette, ovvero un movimento che voleva ottenere non soltanto il voto, bensì il pieno riconoscimento della dignità delle donne. Questo sviluppo è ancora in una fase intermedia. Arriverà a compimento quando il numero delle molestatrici sarà pari a quello dei molestatori. Perché - stiamone certi, si faccia quel che si faccia le molestie sessuali non cesseranno mai.

Alla fine, va a finire che l’unico uomo che non ha mai molestato qualcuno è Rocco Siffredi.

Un confine esiste tra gentilezza e molestia. Guai se nei nostri luoghi di lavoro si diffondesse un’atmosfera di sospetto generalizzato. I predatori e i molestatori non aspettano altro: tutti colpevoli, nessun colpevole! Invece le colpe sono chiare e così l’innocenza: basta guardare il mondo con occhi puliti, scrive Beppe Severgnini il 4 novembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Gli uomini possono aprire la porta alle donne? Se lo chiede Greta Sclaunich su La 27esima ora, citando un servizio di The Lily, una testata sperimentale del Washington Postdestinata alle Millennials. Posso assicurare le ragazze americane, e la giovane collega italiana, che la discussione non è nuova. Ricordo l’episodio, proprio a Washington DC. Primavera 1995: entrando in un ristorante, apro la porta a una signora che conosco. Lei sibila: «I can manage». Me la cavo da sola. Da allora, negli Usa, evito galanterie: non si sa mai. Ma ci sono un paio di riflessioni in materia che vorrei condividere con voi. Sembra evidente che il produttore Harvey Weinstein si comportasse come un maiale (le nostre scuse ai suini). E’ chiaro che l’attore Kevin Spacey non ha ceduto a un’isolata tentazione, molti anni fa; ma ha mantenuto un modus operandi odioso. Due innovatori nel cinema, due maschi predatori. Combinazione non insolita, anche alle nostre latitudini. Tuttavia mi chiedo, ascoltando certe reazioni: non stiamo esagerando? Non rischiamo una sorta di maccartismo sessuale? È un’opinione che potrebbe venire travisata, lo so; ma conto sulla sensibilità dei lettori. Ne abbiamo parlato, in questi giorni, nella redazione di 7-Corriere, che è giovane e prevalentemente femminile. Ho ascoltato opinioni diverse, ma è consolante trovare la conferma di una cosa che sapevo: le donne intelligenti hanno intuito i rischi che corriamo. Tutti, maschi e femmine, in ogni posto di lavoro. Le donne più dei maschi, non c’è dubbio. Molti uomini, purtroppo, non sanno vedere il confine tra gentilezza e molestia, tra corteggiamento e ricatto. Sono cose molto diverse. Molestie e ricatti sono intollerabili. Gentilezza e corteggiamento fanno parte della vita. Anche della vita di lavoro. Ho usato, poco fa, l’espressione «maccartismo». Ricordo cos’è stato: un’isteria collettiva che, in nome dell’anticomunismo, portò ingiustizie e sofferenze negli Usa dei primi anni ’50 (il nome viene dal senatore repubblicano Joseph McCarthy, paladino di questa insana crociata). Il termine è rimasto e indica un’atmosfera di sospetto generalizzato, nella quale diventa impossibile difendersi. Guai se accadesse nei nostri luoghi di lavoro. I predatori e i molestatori non aspettano altro: tutti colpevoli, nessun colpevole! Invece le colpe sono chiare e così l’innocenza: basta guardare il mondo con occhi puliti.

Molestie sessuali: "Vaso di pandoro" o di Pandora? Scrive Pier Giorgio Liverani domenica 5 novembre 2017. Ci sono diversi modi di fare cronaca e, al solito, c'è chi valuta gli avvenimenti in base solo alla loro "vendibilità". Il caso più chiassoso delle scorse settimane, per diversi giornali è stato quello di Harvey Weinstein, grande imprenditore cinematografico hollywoodiano, del quale si è improvvisamente scoperto il vizio di costringere le sue giovani attrici a soddisfare certe sue richieste. Abbiamo scritto "chiassoso" per come l'hanno trattato alcuni giornali. In realtà si tratta di costrizioni che avvenivano con le buone o con le cattive, pena la violenza fisica (l'abuso) e quella economica: il no alla seconda costava la perdita dei ruoli di protagonista. Così le sue vittime erano molto spesso forzate consenzienti. Nel mondo di Hollywood, insomma, si dice quasi sempre sì e da noi, su certi quotidiani si prendono quei sì piuttosto alla leggera. Viene alla memoria quella ragazza delle Paludi Pontine – una bambina di neanche 12 anni, Maria Goretti – che davanti non a un portafogli ma al coltello che la uccise (1902), disse un categorico no (ma nessuno ora l'ha ricordata). Le cronache hanno occupato anche pagine intere con abbondanza di fotografie: nomi e visi sorridenti di attrici che sembravano soddisfatte di ciò che avevano subìto o accettato di fare e la faccia ridente del Re Mida di Hollywood, come lo chiamano a San Francisco. Su questi costumi della "dorata Hollywood" presi dai più con molta leggerezza, i giornali hanno riportato anche citazioni di proposte e di risposte (tutte "storiche"). Dunque nessun approfondimento morale sulla condizione delle donne, neppure dal mondo del femminismo, se si esclude Il Fatto Quotidiano. Il quale su queste brutte storie ha chiamato in causa (venerdì 3) il «Vaso di pandoro» che, invece di versare sulla terra tutti i mali come fece Pandora, la prima figura femminile della mitologia greca, grazie al Fatto sembra volersi addolcire la bocca e addolcire anche i lettori con il buonissimo e noto dolce veronese. 

Molestare stanca. Spericolato atto d’accusa del bon vivant Taki Theodoracopulos contro l’ipocrisia puritana di sinistra che ha trasformato l’uomo in orco. Con una postilla politica sulla grande guerra a Murdoch, scrive Mattia Ferraresi il 5 Novembre 2017 su "Il Foglio". “Sweetheart, c’era anche lui alla festa con Harvey!”, dice Taki Theodoracopulos, ridendo, alla moglie, la principessa Alexandra Schöenburg-Hartenstein, che emerge dall’altra ala del salotto assieme a un parrucchiere francese e fingendo un’espressione scandalizzata esclama: “Oddio, mi dispiace tanto”. Poi si rieclissa per un altro ritocco all’acconciatura, “che così sembro mia madre”. “Mi hanno detto che quella sera Harvey ci provava con tutte, ma se devo dirti la verità non mi ricordo niente, avevo bevuto troppo”, ammette Taki, e i pochi...

Sotto processo non è il maschio stupratore ma la figura del maschio in quanto tale. Weinstein ma non solo. La resa alle circostanze e la fuga dalle responsabilità è stata indecente più delle accuse di abuso ed è una prova di ferro del carattere fanatico della grande crociata antimaschile andata in scena nel circo delle nuove molestie, scrive Giuliano Ferrara il 5 Novembre 2017 su "Il Foglio". Mi sono domandato che cosa sarebbe successo se Harvey Weinstein avese replicato a brutto muso che lui è un famoso tombeur de femmes, un seduttore dongiovannesco, un uomo potente che sforza le sue Zerline (“vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”), uno che magari merita l’inferno dei peccatori incalliti ma attende un giusto processo per accertare che cosa siano penalmente come siano provate o dimostrabili le famose manipolazioni attraverso cui riceveva attrici vogliose di ottenere una parte.

Il tramonto del maschio. Si fa presto a lapidare un Weinstein, ma se vi guardate intorno vedrete più spesso un uomo braccato da femministe fuori dal tempo e donne in carriera che per sopravvivere alla gender society deve rinunciare a se stesso. Sesso, figli, matrimonio, una vita in ritirata. Un’indagine, scrive Annalisa Chirico il 30 Ottobre 2017 SU "Il Foglio". Dio è morto, e neanche il maschio se la passa bene. Qualcuno pensa davvero che l’uomo del 2017 somigli all’eternamente infoiato Weinstein? Di predatori molesti il mondo è pieno, il sofà del produttore con gentile richiesta di massaggi non è il teatro di uno stupro. Se puoi dire “no, grazie”, sei in grado di scegliere, e se scegli di darla, mi suggerì una volta un saggio amico, “ricorda di fartela sempre restituire, con gli interessi”. Battute a parte, la violenza... “Al giorno d’oggi la virilità è chiamata sul banco degli imputati, il maschio animalesco è messo alla gogna, la donna è l’eterna vittima incolpevole. Eppure l’uomo contemporaneo non è un Adone allupato ma ha il volto efebico di un modello Gucci. È l’amara verità che nessuno vuole raccontare.” “I metrosexual sbucano da ogni dove, volti l’angolo e t’imbatti in uno di loro. Dall’estetista attendono il turno insieme a te che li osservi fantasticando maliziosamente su quale trattamento avranno prenotato. […] Il metrosexual è il compagno di viaggio perfetto: in spiaggia tira fuori dallo zaino, come dalla borsa di Mary Poppins, un numero imprecisato di flaconi e tubetti: “Stendi questa crema sulle palpebre, quella è per le spalle, non dimenticare l’olio sui capelli, per décolleté usa lo stick”. Lui non è gay, è metrosexual. È la tua amica con pisello e fidanzate annesse. In attesa del coming out.” “Se al ristorante giapponese, davanti a una portata di sashimi, lui ti confida che va pazzo per i fagioli di soia, alzati e scappa. […] Si chiama epidemia da basso testosterone, è la piaga dell’uomo contemporaneo. Nel corpo di lui gli ormoni maschili diminuiscono, quelli femminili aumentano. Singolare contrappasso.” “Le mani sotto la gonna rispondono a un insopprimibile istinto naturale, a un codice ancestrale, a una pulsione senza tempo perché fuori del tempo. Valgono come carnale rassicurazione: tu sei maschio, io sono femmina. Ma tra noi due, al giorno d’oggi, la gonna chi la indossa?” “Volitive e indipendenti, indaffarate nel nostro personale percorso di autorealizzazione, abbiamo schiacciato il maschio in un angolo, bollando come ‘sessista’ ogni timida espressione di mascolinità, abbiamo alimentato in lui un insopprimibile senso di colpa in quanto compagno difettoso, padre inadeguato, femminicida vero o potenziale.”

Perché l'amore può passare dal portafogli. Un sito fa incontrare chi è giovane a chi è milionario. Cosa che indigna soltanto gli ipocriti, scrive Annalisa Chirico, Sabato 28/10/2017, su "Il Giornale". Di regola, soldi e giovinezza non vanno a braccetto, perciò qualcuno ha pensato di facilitare l'insolito connubio attraverso una mirata campagna pubblicitaria che nella Parigi dei giorni nostri, culla di neopuritanesimo, è stata accolta da un coro di indignazione. Il sito d'incontri si chiama RichMeetBeautiful.fr, l'inventore è un imprenditore norvegese, Sigurd Vedal, che ha incassato un primo formidabile risultato, la notorietà. «Noi non promuoviamo la prostituzione ha precisato lui -. Sono le due persone a fissare le condizioni. Occorre però riconoscere che l'aspetto finanziario è parte di ogni relazione. Noi non verifichiamo come i nostri clienti strutturano i rapporti». Insomma, maschi e femmine, belli e brutti, ricchi e poveri, si organizzano come vogliono. Non ci vuole gran fantasia per comprendere il senso della controversa iniziativa. Sei un giovane alle prese con gli studi e con mille desideri fuori dalla portata del tuo portafogli? Ecco lo «Sugar Daddy», o la «Sugar Mama», che fa alle tue esigenze. «Uno Sugar Daddy si legge sul sito apre le porte di un mondo di diamanti, champagne e shopping, cose alle quali una Sugarbaby non avrebbe accesso». Le giovani potenzialmente interessate sono ragazze «ambiziose che sanno quel che vogliono e fanno tutto per ottenerlo». Da una parte, gli studenti che si arrangiano come possono, vivono sulle spalle di mamma e papà, magari arrotondano con qualche lavoretto ma, anche quando provengono da famiglie abbienti, non sono certo autorizzati a scialacquare i soldi altrui. Dall'altra parte c'è l'esercito di chi in un mondo affollatissimo lotta contro la solitudine, uomini e donne professionalmente realizzati, economicamente indipendenti, o anche signori e signore anziane che si godono la pensione e sarebbero disposti a spendere per allietarsi con una giovane compagnia. Rich Meet Beautiful ha esibito il manifesto della vergogna davanti alla Sorbona e altre università, la reazione delle forze dell'ordine non si è fatta attendere: com'era già accaduto a Bruxelles, il rimorchio è stato sequestrato. Il sindaco della Ville Lumière, la socialista Anne Hidalgo, ha chiesto l'apertura di un'inchiesta per incitamento alla prostituzione. Eppure a noi sembra a dir poco difficile individuare una condotta criminosa dal momento che il sito consente a persone adulte e consenzienti di incontrarsi sul web, da lì l'interazione si svolge in completa riservatezza, un'eventuale dazione di denaro non lascerebbe traccia. Nel 2016 la Francia è diventato il quarto Paese europeo, dopo Svezia, Norvegia, Islanda, che punisce i clienti delle prostitute con multe da 1.500 euro (il doppio in caso di recidiva). Oggigiorno il «dàgli al porco» è il pensiero unico dominante, ma la campagna di Rich Meet Beautiful squarcia il velo di ipocrisia. Esattamente come avviene negli incontri offline, al ristorante o in ufficio, qualche agio e un buon conto in banca ci rendono più attraenti agli occhi degli altri. La giovinezza poi, quando non c'è più, genera nostalgia. Perché allora scandalizzarsi se tali aspettative vengono esplicitate sin dall'inizio? Patti chiari, amicizia lunga. E chissà che dal clic galeotto non possa nascere una bella storia d'amore.

Ogni donna è vittima di un uomo. L'emancipazione social ai tempi di Weinstein. Da #quellavoltache a #allucinazionecollettiva la via è breve, scrive Manuel Peruzzo il 18 Ottobre 2017 su "Il Foglio". Dopo le denunce a Harvey Weinstein, a Hollywood tutti hanno un aneddoto: anche quando non è successo niente. Quella volta che Kate Winslet ha intenzionalmente omesso di ringraziare Weinstein che le ha fatto vincere un Oscar, quella volta che Felicity Huffman e Sienna Miller sono state costrette a indossare gli orrendi vestiti Marchesa, della (a breve ex) di lui moglie. Persino le Pussycat Dolls erano vittima di un giro di prostituzione. Certo il nome non le aiutava. Reazioni divise tra Tutti-sapevano-e-nessuno-diceva e è-successo-a-tutti. Per spiegare l’omertà dei primi c’è la risposta – inusualmente seria – che diede nel 2005 Courtney Love a una cronista che le chiedeva un consiglio per aspiranti attrici di Hollywood. Inizialmente indecisa (“Mi denunceranno per diffamazione se lo dico”) alla fine sibilò: “Se Harvey Weinstein vi invita a una festa privata al Four Seasons, non andateci”. Col senno di poi era un buon consiglio. Oggi però gli inside jokes e le mezze accuse non sono sufficienti, bisogna schierarsi. Se non parli sei colpevole o complice. Se sollevi dubbi e sei donna, guai a te che “non stai dalla parte delle donne”, se sei un uomo guai a te perché vuoi mantenere il tuo privilegio da maschio bianco (colpevolizzare un’etnia e un intero genere sessuale a buon fine=combattere le discriminazioni). Invece il è-successo-a-tutti fa scrivere a Gianluigi Ricuperati su Vanity Fair che è entrato in uno scannatoio gay per errore e ha capito cosa provano le donne ogni giorno. Per la prima volta s’è sentito desiderato, trauma. Sipario. A febbraio esce Brave, un “empoweing manifesto” di una delle voci più provocatorie della nostra generazione. No, non Camille Paglia: Rose McGowan, divenuta famosa per interpretare una strega in un vecchio telefilm. Si definisce ora “femminista whistleblowing” perché da giovane ha accettato centomila dollari per non sporgere denuncia nei riguardi di Harvey Weinstein, e ora twitta il proprio coraggioso disprezzo con l’hashtag #metoo. In Italia diventa #quellavoltache “un progetto narrativo estemporaneo […] per raccontare le volte in cui siamo state molestate”, su iniziativa di Giulia Blasi. E così si legge di quella volte che, citiamo alla rinfusa: “Il tizio che in Tunisia mi fa l’occhiolino e segno di seguirlo”. “Il signore dell’età di mio padre che mi fissa in metro e mi dice ciao”. “Sorpresi uno dei vertici di un grosso gestore di telefonia a fotografarmi la scollatura con lo smartphone…”. “Il capo mi afferrò il viso e mi stampò uno schifoso bacio sulle labbra. Non lo dissi a nessuno. Ne scrivo oggi, dopo 20 anni”. Il concetto di emancipazione femminile che sta passando è che ogni donna è vittima di un uomo: piangiamoci addosso. Essere toccati quando non vuoi è fastidioso, ma se pensi ancora a quando uno t’ha dato una gomitata sul seno in autobus a 13 anni, il problema forse non è più solo suo: ma anche tuo. Dare la colpa a un intero genere sessuale creando un “flusso di coscienza collettiva di #quellavoltache è davvero straziante, commovente, doloroso, verissimo”, per citare un altro messaggio. Ma anche un po’ ridicolo. A Woody Allen per aver osato dire che la storia di Harvey Weinstein è triste per entrambe le parti coinvolte, perché se è vero che tutte quelle donne hanno subito abusi è vero anche che Harvey era vittima dei propri impulsi, hanno detto che deve tacere. Proprio lui che ha sposato la figlia adottiva, proprio lui che ha denunce di stupro da parte della figlia Dylan Farrow e della ex moglie Mia Farrow (dopo ricerche meticolose gli investigatori conclusero che le dichiarazioni di Dyan fossero dovute a tensioni famigliari e all’influenza della signora Farrow, ma vabbè). Come si permette di parlare di clima di paranoia in cui “ogni ragazzo in un ufficio che fa l’occhiolino a una donna si ritroverà a doversi cercare un avvocato”. Proprio lui che ha ammesso d’essere uno stupratore pedofilo: lo abbiamo letto in un tweet. Per una distopia verosimile non dovete leggere Margaret Atwood ma Esquire, maschile storico, dove trovate le 51 cose da non fare mai a una donna sul luogo di lavoro: non toccare una collega, mai. Non fare riferimenti alla sua vita sessuale, mai. Non commentare l’umore femminile. Se importiamo il modello americano, per evitare stupri e molestie dovremo far firmare consensi informati. Ogni flirt diventerà molestia. Tutto per accontentare chi fraintende il sesso e le relazioni. No, non è empowering identificare le donne nella vittima e infantilizzarle, non è empowering denunciare con gli hashtag anziché alla polizia, non è empowering vedere molestie in ogni flirt o situazione in cui siamo a disagio: è #allucinazionecollettiva.

Maschi sotto processo Se l’uomo “vero” è sparito è colpa (anche) delle donne? Simone Perotti, nel suo ultimo libro, l’ha chiesto alle dirette interessate, scrive Maria Luisa Agnese il 15 febbraio 2013 su "Io Donna". Dove sono gli uomini? Perché le donne sono rimaste sole? Racconta Simone Perotti che quando rivolgeva alle amiche questa domanda si sentiva rispondere: «Finalmente qualcuno se ne occupa, del problema». Interesse e soddisfazione che aumentavano quando spiegava che sul tema era deciso a costruirci un libro e che per farlo chiedeva proprio la loro collaborazione, delle donne. Perché, argomenta Perotti, è assodato che la crisi del maschio contemporaneo c’è ed è sotto gli occhi di tutti ma che il maschio medesimo più che altro ci si crogiola dentro, e fa poco o nulla per chiarire a se stesso la situazione: «Perché noi maschi non abbiamo coraggio». Così Perotti ha deciso di parlarne con chi il coraggio e l’abitudine all’introspezione ce l’ha da sempre. «Se vuoi capire se un albergo funziona, non ne vai a parlare all’albergatore, ma guardi su TripAdvisor. Ecco, io ho applicato lo stesso sistema alla crisi dell’uomo, sono andato dall’utilizzatore finale: le donne». Perotti come un rabdomante capta nell’aria temi di rilevanza e ne fa dei bestseller: è successo nel 2009 con Adesso basta, caso editoriale sul fenomeno del downshifting, cioè rallentare, cambiare vita, tagliato anche sull’esperienza personale di Perotti, che da manager di successo chiuse con il lavoro nella comunicazione, per tornare al primo amore, la scrittura. E adesso quella domanda iniziale (Dove sono gli uomini?) è diventata il titolo del suo nuovo saggio per Chiarelettere: «Perché gli uomini sembrano tanto impauriti, dipendenti, non in evoluzione?». Una crisi, una transizione, di sicuro un grave disagio di questa abbondante metà del cielo, che un’amica di Perotti fotografa nel libro con sintesi brutale: «Gli uomini oggi o vanno a puttane o sono gay». Ma è davvero così sconfortante il quadro dell’uomo nuovo, che si è confrontato con il cambio dei costumi e con la crescita delle post-femministe, è davvero ridotto all’angolo dall’avanzata delle donne, che non riesce a vivere se non come una minaccia? Per verificare le tesi estreme di Perotti ho allestito un salottino personale con tre donne di diverse generazioni (madri, sorelle minori, figlie) che con toni amicali hanno cercato di sbrogliare la matassa. Concorda Helen Nonini, 31 anni, cosmopolita per nascita e per il lavoro di “brand consultant” che la porta spesso in giro per il mondo, con la “sintesi agghiacciante”, e racconta che l’anno scorso aveva seguito per curiosità l’agenda delle relazioni di un amico gay, rimanendo stupefatta dalla prevalenza nel carnet (80 per cento circa) di uomini sposati con figli. «Alcuni mi è anche capitato di incrociarli e mi ha colpito come non si sentissero a disagio ad andarsene da quella casa sulla bici con il seggiolino del bambino». Ride invece con riso argentino Laura Sartori Rimini, classe ’64, interior decorator di successo, tipica generazione di mezzo tra quella delle mamme combattenti sul fronte femminista e quella delle figlie che hanno usufruito delle battaglie precedenti, nata respirando aria di libertà. «Secondo me gli uomini veri ci sono» dice Laura, «e sono reali con le loro forze e le loro debolezze, come tutti noi. Basta saperli vedere, non fermarsi alla prima impressione. E soprattutto non inseguire l’uomo ideale». Non farsi prendere dalla sindrome del principe azzurro che affligge le trentenni emule di Bridget Jones. Saggiamente media la stilista Chiara Boni, che la stagione femminista l’ha vissuta in prima persona: «Gli uomini non sono in evoluzione, ma è anche vero che noi stiamo mancando la nostra funzione: farli evolvere. Forse se le donne sono rimaste sole dipende anche dal fatto che li abbiamo abbandonati. La donna deve riappropriarsi di un po’ di dolcezza. Invece vedo un po’ di tigna nel non dare loro nemmeno un po’ di soddisfazione». Per evitare che uomini e donne si muovano su due binari paralleli, due mondi che non tendono a incontrarsi, ci vorrà adesso una Rivoluzione dei maschi, come auspica nelle ultime pagine Perotti? Di sicuro, e forse anche - avverte Boni - una Rivoluzione, di nuovo, delle donne.

Se oggi ha ancora senso essere dei «cavalieri». Secondo alcuni è solo un modo di essere cortesi, per altri è maschilismo. E il New York Times si è chiesto se ne possano esistere nel XXI secolo, scrive Eleonora Barbieri, Giovedì 01/08/2013, su "Il Giornale".  Cavalieri ma non troppo. Gentili, ben educati, ma non iperprotettivi. Non da far pensare a una donna che lei abbia bisogno di lui, per difendersi, per sopravvivere. Le donne di oggi non sono principesse in pericolo, i maschi non sono di sicuro cavalieri. Qualche volta cercano pure di salvarle, ma più spesso succede il contrario, e soprattutto: le donne si irritano al pensiero di dover essere salvate. Però la parola cavalleria, con tutto il suo strascico di armature, cavalli, coraggio, lealtà, trecce lanciate giù da altissime torri, viaggi infiniti e combattimenti, ha ancora il suo fascino. Il suo perché. Il New York Times ha aperto il dibattito, dal titolo La cavalleria è morta. Lunga vita alla cavalleria, per capire quale possa essere la sua sorte negli anni Duemila: sepolta sotto la lapide delle romanticherie del passato, ancora viva oppure in evoluzione, per adattarsi a una società molto più «emancipata e cinica»? Senza dimenticare che i cavalieri andavano alle crociate e si ammazzavano per spartirsi le terre e ottenere privilegi dai loro signori (al di là della facciata valoriale il feudalesimo, quanto a cinismo, ha poco da imparare), certo pare anacronistico riproporre una visione del rapporto uomo-donna in cui lui debba proteggere lei, fragile e indifesa. Però scrittori e blogger e studiosi che hanno dibattuto di cavalleria per il quotidiano americano sono quasi tutti d'accordo: morta non è morta, ma un po' da rivedere di sicuro. E sì, la giovane attrice Miley Cyrus ha detto che «la cavalleria è morta» e lei si deprime a guardare certi film romantici, visto che poi la realtà va in tutt'altra maniera. Un sondaggio del 2010 però racconta anche che l'ottanta per cento degli americani pensa che le donne siano trattate meno cavallerescamente che in passato, mentre uno studio su diecimila persone in tutto il mondo ha scoperto che la caratteristica principale che i giovani (maschi e femmine) cercano in un partner è la gentilezza. E al cuore della cavalleria, insieme al coraggio, alle capacità in battaglia, ai valori cristiani, c'è proprio la «cortesia» medievale. Che nulla vieta di riadattare al Ventunesimo secolo, con le dovute differenze. Per esempio, che cavalieri possano essere sia gli uomini, sia le donne, in questi termini. O che non si confonda un atteggiamento cavalleresco con uno maschilista: perché spesso l'accusa, per i sostenitori della cavalleria, è quella di riproporre un sessismo mascherato. Keith Bernard, scrittore e musicista, scrive per esempio che la cavalleria è «un contributo allo sciovinismo», perché quegli uomini che sono così galanti e solerti nel cedere il posto in metropolitana alle signore, sono «gli stessi che cento anni fa non avrebbero tollerato una donna manager in ufficio». Può essere vero, ma non sempre. Può essere anche vero, invece, come sostiene la scrittrice Emily Esfahani Smith, che «è meglio aprire la porta a una donna che sbattergliela in faccia», e che quindi la cavalleria, alla fine, sia «una virtù a cui tutti dovremmo aspirare». Nel senso di compassione ed empatia per il prossimo, gentilezza rispettosa. Cavalleria non è proteggere le donne coprendole con un burqa, o rinchiudendole in una torre dorata (anche con vista su Central Park). Magari è una forma di cortesia troppo spesso dimenticata: le donne saranno cambiate, ma non è un alibi per non versare l'acqua nel bicchiere, o regalare un mazzo di fiori, o cedere il passo, o corteggiare. Ci sono buone maniere, anche per e verso donne non da salvare. Se esistono dei rituali, dice Brett McKay (con la moglie ha un blog dedicato all'«arte della mascolinità»), non per questo sono da demonizzare: anzi, ci ricordano le nostre differenze, che poi ci rendono una coppia. C'è chi commenta che oramai «cavalleresco» sia sinonimo di «molto civile»: perché negli anni Duemila è tutto così rivoluzionato, emancipato, che «un gesto di civiltà sembra qualcosa di straordinario». Tanto da pensare che siamo ridotti così male, da dover ripescare i vecchi cavalieri (anche senza investitura).

La Stampa, 23 novembre 2004: Manda un sms d'amore alla donna dei suoi sogni. Lei non gradisce e lo denuncia: condannato per molestie. Galeotto fu l'sms e chi l'ha scritto. Il frutto della vena poetica di un quarentenne di Catania non è piaciuto alla padovana di 34 anni con la quale era in contatto: dopo aver ricevuto un sms amoroso dall'uomo ha sporto querela per molestie. I fatti risalgono a tre anni fa. Durante una pausa pranzo l'uomo digita sui tasti del cellulare il messaggio: "Da quando mi sei apparsa davanti agli occhi non faccio che pensare a te". Niente a che vedere con il talento del Petrarca ma abbastanza per far infuriare la padovana, che pur essendo concittadina del poeta non coglie l'intento letterario e considera l'sms talmente fastidioso da recarsi dai carabinieri per sporgere querela. Ieri il giudice ha accolto la richiesta di patteggiamento avanzata dall'imputato per molestie (articolo 660 del codice penale) quantificando l'ammenda in 300 euro. Ecco un comportamento tipico di una tipica femmina moderna: oggi ti illude, domani ti denuncia per molestie e dopodomani si lamenta che gli uomini non corteggiano più. Giunti a questo punto credo che la cosa più stupida che possa fare un uomo sia finire in galera per una donna.

Ed allora...

1-Fine del corteggiamento

2- Sganciamento emotivo

3-Fine della cavalleria

Questi tre punti li ripeterò a mente 100 volte ogni sera prima di addormentarmi e 100 volte il mattino appena sveglio e prima di colazione. Amen. 

IL GATTOMORTO.

Non c’è mai e si fa rincorrere: se l’uomo è un gattomorto. Diverso dal suo corrispettivo femminile, non prende mai l’iniziativa. Ecco come «proteggersi», scrive Greta Sclaunich il 13 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «Ci siamo conosciuti tramite amici comuni e scambiati i numeri di cellulare. Ci sentivamo ogni giorno e mi faceva capire che gli interessavo, ma non mi invitava mai a uscire. Ho dovuto farlo io — racconta Chiara, 39 anni —. E ho dovuto continuare a invitarlo anche le volte successive, finché non mi sono stancata: mi sembrava di piacergli, ma allora perché non faceva mai nulla?». Una domanda che si fanno tutte le donne quando incappano nel loro primo «gattomorto» (prima o poi succede, in giro ce ne sono sempre di più come documenta Grazia Sambruna su un pezzo dedicato al fenomeno pubblicato da Linkiesta). Che non è l’equivalente maschile della gattamorta, ma piuttosto la sua evoluzione: entrambi non fanno ma lasciano fare, lei però è seduttiva mentre lui sembra sempre disinteressato. Questo manda in tilt le donne: perché scrive messaggi ma non propone di vedersi? Perché non cerca il contatto fisico e anzi, a fine serata sembra ben contento di tornare a casa sua? Perché non chiede di rivedersi? «Perché ha capito che la sua passività è una strategia vincente. Se la donna è interessata la sua immobilità diventerà una sfida, se non lo è lui comunque non si sarà esposto: in entrambi i casi ci guadagna», spiega Alberto Caputo, psichiatra e psicoterapeuta dell’Istituto di Evoluzione Sessuale di Milano.  Paolo, docente 38enne, lo conferma: «Io non cerco, mi faccio cercare. Faccio così da una quindicina d’anni e questo fa bene alla mia autostima. Se poi lei non insiste e lascia perdere... si vede che non era cosa». Sarà un caso (o sarà perché di donne molto insistenti forse non ne ha trovate), ma da quando è un «gattomorto» Paolo non ha avuto nessuna relazione importante. Un dettaglio che non sorprende Caputo: «Spesso gli uomini così non vogliono impegnarsi: molti di loro sono narcisi ed egocentrici. Riflettono la crisi dell’identità maschile: non a caso la stragrande maggioranza ha dai 20 ai 40 anni e il fenomeno negli ultimi dieci anni si è diffuso a macchia d’olio». Jacopo rientra nel target: ha 28 anni, fa l’imprenditore e si definisce «sornione. Non chiamo, non cerco ma faccio in modo di farmi notare. È la mia indole, ma mi pongo così anche perché non mi piace essere il maschio che corre dietro alle ragazze. Funziona: le donne sono abituate ad essere cercate, quando vedono che io non lo faccio iniziano a rincorrermi». Tiziana, impiegata 60enne, ha un «gattomorto» da anni: si scrivono quasi tutti i giorni, si sono anche incrociati sotto casa di lei. Lui ha pochi anni in più, non è sposato ma non sembra interessato ad andare oltre a mail e messaggi. A Tiziana va bene così: «So di affascinarlo, il suo interesse mi lusinga ma per me finisce lì». Che poi è il modo migliore per trattare il «gattomorto», almeno secondo Roberta Rossi, presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica: «Uomini così possono essere ottimi amici e partner, ma solo in relazioni senza impegno basate soprattutto sul gioco. Non aspettatevi da lui grandi passioni: spesso il suo desiderio sessuale è molto basso». Per il resto, «meglio perderli che trovarli» e su questo entrambi gli psicoterapeuti sono d’accordo. Perché, sostiene Rossi, «sono sempre pronti a tirarsi indietro». Oppure a non fare niente, come nota Caputo: «Non si espongono e non prendono decisioni nemmeno nelle relazioni. Che si tratti di programmare un weekend oppure di fondare una famiglia». Lo sa bene Alessandra, 32enne, che qualche anno fa ha avuto una relazione di qualche mese con un gattomorto che a un certo punto è sparito nel nulla. Salvo poi chiederle di vedersi «per parlare» e darle buca all’ultimo con la scusa che era troppo stanco per guidare. È finita che, per farsi lasciare, è dovuta andare a prenderlo lei.

Ragazze, rendiamocene conto, il maschio contemporaneo è un gattomorto. L’affascinante piaga sociale del gattomorto. L’uomo che accenna ma non si concede. A metà strada tra Clark Kent e l’ultimo dei cazzari, è quasi impossibile entrare davvero in contatto con lui. Per quanto la vostra giornata possa essere stata stressante, il gattomorto starà sempre peggio di voi, scrive Grazia Sambruna su "L’Inkesta" il 30 Dicembre 2017. Che cos'è una gattamorta? L'ha spiegato bene Michela Murgia qualche giorno fa su Facebook: il termine «prende il nome dall'atteggiamento lascivo delle gatte in calore, che rotolano per terra miagolando e mostrando la pancia con un atteggiamento apparentemente passivo che ti induce a credere che la decisione di avvicinarti spetti a te». Se questa descrizione vi ricorda qualcosa ma non vi ci sentite rappresentate, un motivo c'è: guardatevi intorno, siamo circondate da gattimorti. Davvero, dopo la battaglia fatta per inserire nella lingua italiana quell'inutile “petaloso”, sarebbe ora che anche la Crusca riconosca un fenomeno (da baraccone) che c'è, è tra noi, ma resta ad oggi senza nome: il gattomorto. Il gattomorto è, per sua natura, morto. Cercare di entrare in contatto con lui è come tentare di comunicare con una persona che sta in coma. Tutti vi dicono, con più o meno tatto, di lasciar perdere ma voi sapete che, in qualche modo, può sentirvi. E allora continuate a gridare nel deserto, scansate eventuali pretendenti, rimanete a fare la calza partendo dal gomitolo, dalla matassa che vi ha lasciato il gattomorto. Gattomorto che, da parte sua, non vi dà alcuna certezza, nessun punto di riferimento (del resto voi, così forti-indipendenti-girl power mica ne avete bisogno). Lui se ne sta lì, pancia all'aria ad aspettare che troviate il modo, le parole, l'orario giusti per potergli far fare le fusa. Come ben dice la Murgia, lui "non è", lui "sta". Il gattomorto vi vuole, moderatamente. Ve lo dimostra tra le righe a suon di “nonostante”. “Nonostante” sia un brutto periodo, “nonostante” non starà nemmeno a dirvi tutte le grane che gli sono capitate nelle ultime 24 ore, “nonostante” il pianeta Terra sulle sue spalle gli abbia fatto uscire tre ernie almeno, sì, gli farebbe piacere concedervi udienza. A metà strada tra Clark Kent e l'ultimo dei cazzari, il gattomorto si dimostra quindi disposto, sua sponte, a riservare per voi manciate del preziosissimo tempo di cui dispone. Siete proprio speciali, anzichenò. Lì lascerà trapelare qualche dettaglio tristanzuolo del passato che gli è toccato vivere, del presente cattivo che deve affrontare e del futuro senza sconti che gli si para davanti. Piccole epifanie di un quadro tra il vago e il confuso: difficilmente saprete quali pensieri lo attaglino davvero o addirittura, nei casi più gravi, che lavoro faccia per vivere. Ma una volta messi insieme i (pochi) pezzi del puzzle, basandovi sugli indizi che si è lasciato “inavvertitamente” sfuggire, non potrete rimanere indifferenti riguardo le sorti del gattomorto. Gattomorto che non vi chiederà mai una mano, no, perché gliela state dando già. Il suo atteggiamento passivo nei confronti di ogni cosa è il Sacro Graal di qualunque aspirante crocerossina (e futura “zitella”).

Dopo la battaglia fatta per inserire nella lingua italiana quell'inutile “petaloso”, sarebbe ora che anche la Crusca riconosca un fenomeno (da baraccone) che c'è, è tra noi, ma resta ad oggi senza nome: il gattomorto. Però il gattomorto è “così sensibile”. Dice parole molto belle, per essere un maschio, ammesso che lo sia. Parole con cui vi dipinge, in buona sostanza, come l’unica cosa piacevole della sua sciagurata esistenza. Dunque vorrebbe vedervi, ma solo per chiacchierare, non ha doppi fini, mai. Può capitare benissimo che vi incontriate senza concludere alcunché. Del resto, l’aria da “bomber” proprio non ce l’ha: magari zoppica un po’, poche diottrie, soffre di attacchi di panico, insomma ha almeno un difetto di fabbricazione che lo rende sventurato, sì, e pressoché innocuo. Lo scotto da pagare per tale entusiasmante meraviglia di maschio è che anche il più infinitesimale soffio di vento potrebbe danneggiare le sue fragili ossa di cristallo. Per questo pratica periodi medio-lunghi di isolamento in cui scompare (possibilmente anche dai social) per ragioni sconosciute e inconoscibili dovute forse al suo oscuro passato à la Batman. Il gattomorto combatte il crimine? Si vede con un'altra? Non lo sapremo mai. Nemmeno nel momento in cui ritornerà, quando ormai ne avevamo già celebrato mentalmente il funerale, con un meme su whatsapp, una cosetta senza impegno ma che può vantare precisi riferimenti a quanto vi eravate detti la sera del giorno tal dei tali. Perché lui se la ricorda bene, quella sera del giorno tal dei tali, almeno quanto voi. E rieccovi arruolate, in prima linea, al Fronte per la Resurrezione del Gattomorto. Non sorride, il gattomorto, mai. Quando lo fa, diventa una piccola vittoria da mettere in saccoccia e punti paradiso accumulati a favore di non si sa bene chi dei due. In ogni caso, quel sorriso ve lo tenete caro da Natale fino a Pasqua almeno: è una battaglia vinta. E poi non è che da Natale a Pasqua ci sarà modo di rivedervi, la sola ipotesi lo terrorizza, gli fa paura, ve lo dice proprio sgranando gli occhioni da Bambi: “Ho paura”. Fino al prossimo messaggio. A proposito di messaggi (che non gli scrivete, ormai, tanto prima o poi si farà sentire lui quando e se), tendenzialmente il gattomorto disattiva le spunte blu su whatsapp, le sue sono perennemente grigie, come la vita. Così rifugge lo scontro, ma anche l'incontro. Lui rifugge tutto per definizione. È morto, non può. Non è possibile condividere qualcosa con il gattomorto. Non importa quanto la vostra giornata possa essere stata stressante, lui starà sempre peggio di voi e non avete alcun diritto di importunarlo con inezie tipo la vostra esistenza.

Tendenzialmente il gattomorto disattiva le spunte blu su whatsapp, le sue sono perennemente grigie, come la vita. Non è possibile condividere qualcosa con il gattomorto. Non importa quanto la vostra giornata possa essere stata stressante, lui starà sempre peggio di voi e non avete alcun diritto di importunarlo con inezie tipo la vostra esistenza. Il gattomorto vive (ovvero riesce a portarsi a casa un buon numero di sciagurate) suo malgrado. Lui non vuole veramente, mai. Il suo tempo verbale preferito è il condizionale, “non proprio” la filosofia di vita che persegue (e che lo perseguita). È un incompreso. E lo è pure quando le cose gli vanno bene: non ha idea del motivo per cui gli stiano capitando però, nel dubbio, se ne lamenta. «C'è una che mi scrive, ma non so perché». Nove volte e tre quarti su dieci, lo sa eccome. Per quale motivo il Gattomorto eserciti un qualunque tipo di fascino su di noi, è materia che rimettiamo alla (fanta)scienza. Casi umani alla mano, possiamo azzardare ipotesi soltanto sulla sua genesi: alla mezzanotte dei 30 anni, la maggior parte degli uomini fino ad allora di buona volontà si trasforma senza scampo in Gattomorto, come la carrozza di Cenerentola in zucca. Altrimenti noto come “Stellina” o “Piccola Reginetta del Ballo”, il Gattomorto è un'affascinante (per molte) piaga sociale (per tutte). Nell’immaginario comune cosa identifica una zitella meglio di un gatto? C'è pure un sinonimo, questo sì ammesso dalla Crusca nella lingua italiana: “gattara”. Il punto è che siamo già gattare ad honorem ancora prima che ci vengano i capelli bianchi perché, anno domini 2017 quasi 2018, stiamo vivendo l'era dell'invasione dei gattimorti. Roba da raccontare ai nipoti che non avremo. Di generazione in generazione. Non sappiamo se la Crusca vorrà accettare “gattomorto”. Nel dubbio, portatevi avanti e fatevi un favore: prendetevi un gatto. Vivo.

PERCHE’ GLI UOMINI PREFERISCONO LE DONNE DELL’EST.

Perché gli uomini sposano le straniere, scrive Bianca Fracas, Psico Sessuologa su “Amando. Il mondo è donna” il 17 marzo 2017. Perché molti uomini preferiscono formare una coppia mista? La risposta è da ricercare nel fenomeno in continua espansione delle migrazioni internazionali, ma anche nei nostri comportamenti. Chi sono queste donne straniere? La maggior parte delle donne straniere che sposano gli italiani, sanno cucinare, ascoltare, ballare ed essere affettuose, ma soprattutto sono capaci di far sentire maschi gli uomini! Molto spesso sono ragazze di bell’aspetto, che arrivano dai Paesi dell’Est, dal Centro e Sud America, oppure dall’Estremo Oriente. Le occasioni per conoscerle non mancano, grazie ai viaggi intercontinentali, per lavoro o per vacanza, e ai cambiamenti che si sono verificati nella nostra società.

La differenza con le donne italiane. Gli uomini che si innamorano delle donne provenienti da altri paesi, lamentano il fatto che le italiane concedono troppo spazio alla carriera sottraendo tempo ai sentimenti; il tempo libero preferiscono passarlo con le amiche, o in palestra e quando sono con un uomo si lamentano di essere stanche e avere mal di testa. L’uomo pensa che la donna italiana sia di difficile conquista, perché questa è perennemente in competizione con il maschio, che rimane impaurito dalla loro iniziativa. Un tempo era l’uomo a conquistare, ora i ruoli si sono invertiti. In più le donne si considerano troppo preziose e pensano sempre solo a se stesse Questi piccoli grandi egoismi allontanano le donne italiane dal maschio nostrano che, pur emancipato, preferisce ancora avere al proprio fianco delle donne “vecchio stampo”, più attente alla famiglia e alle esigenze dell’uomo di casa.

Le unioni miste. Negli ultimi anni si è osservato un notevole incremento delle coppie interculturali, e tale fatto apre nuovi scenari che s’iniziano a studiare con attenzione. Le coppie interculturali rappresentano un fenomeno consequenziale alle attuali migrazioni internazionali e le unioni miste sono manifestazioni di un alto valore simbolico poiché grazie ad esse è possibile analizzare l’integrazione raggiunta dalle popolazioni immigrate, oppure la chiusura operata nei loro confronti dalla società che le ospita. Di fatto il matrimonio misto rappresenta una concreta diminuzione del pregiudizio razziale: all’interno di esso oltre a due individui, si sposano dei valori, degli stili di vita e delle abitudini sociali, delle eredità culturali e religiose decisamente diverse. In questo modo si devono inventare nuove dinamiche famigliari, che saranno quelle del futuro, nelle quali viene ridiscussa non solo la propria identità, ma anche quella del gruppo di appartenenza di ogni singolo coniuge. Il fenomeno dunque non sembra essere solo una moda ma una realtà, e presto anche le donne italiane dovranno guardarsi intorno e sposare uomini stranieri!

“Misto” vip. Anche nel mondo dello spettacolo non mancano esempi di coppie in cui lei, straniera, è riuscita a conquistare il cuore di un bell’uomo italiano. Basta pensare a Natasha Stefanenko, Randi Ingerman e Nina Moric.

Perché certi italiani preferiscono le straniere? Alcune considerazioni. Scrive il 17 Aprile 2012 “L’Inkiesta”. Settimane fa mi è capitato sotto gli occhi un post presso uno dei blog de «Il Corriere.it» in cui si discuteva del crescente fenomeno, da parte degli uomini italiani, che intrecciano un rapporto con una donna straniera. Per quanto l'argomento sembri degno delle pagine del gossip nostrano, in realtà esso può anche essere valutato in chiave strettamente sociale. La crescente mobilità delle persone e l'abbattimento delle distanze attraverso la diffusione dei viaggi aerei favorisce questo fenomeno. La domanda legittima del blogger era, perché alcuni italiani preferiscono le straniere? Cui seguivano tentativi di risposta interessanti ma non del tutto esaustivi...Si argomentava infatti la legittima posizione di debolezza delle straniere che vivono in Italia, con allusioni alla condizione economica e la speranza di una vita migliore. Anche se questo non è sempre vero, è facile in ultima analisi considerare certe assimilazioni come un mero opportunismo da ambo le parti. Ma nel post si tirava in ballo anche un aspetto parecchio interessante, ci si chiedeva cioè se la vera attrattiva non dipenda più che altro da un maggior senso di emancipazione delle straniere. In questa affermazione si nascondono molte verità interessanti. Le donne straniere ad esempio vivono la sessualità con maggiore libertà e meno preconcetti e accettano molti più compromessi rispetto alle italiane. L'area geografica di provenienza amplia ovviamente lo spettro di questi compromessi, perché in certi paesi la cultura forma donne molto più tradizionaliste rispetto alle italiane e in altri luoghi meno. Così risulta facile comprendere la posizione di chi predilige una donna indipendente o di chi si aspetta una moglie devota. Questo gusto esterofilo ridotto ai minimi termini sembra simile a quel fenomeno delle aziende che assumono in nero i lavoratori stranieri, scelta che avviene a causa delle diverse posizioni di forza e di una maggiore necessità. Col medesimo criterio si punta ad una straniera col favore di poter incontrare una donna giovane e bella, che non abbia troppe pretese sull'estetica e sull'età del suo fidanzato, ma che abbia quantomeno in contraccambio quel giusto riguardo che sente di meritare. E cosa ricorda questa considerazione se non l'accesso "agevolato" ad una difficile conquista? Ma al di là di un mero ragionamento utilitaristico è necessario considerare qualcos'altro. Nella società odierna la percezione della solitudine è crescente e le difficoltà ad intrecciare nuovi rapporti è evidente. Salvo circostanze particolari in media sussiste molta diffidenza da parte delle donne italiane, diffidenza dettata da un diffuso machismo che fin troppo spesso considera le donne come prede da conquistare e gettare via. Per questa ragione proprio le italiane mostrano una certa diffidenza verso le conoscenze maschili, salvo essere "amici di amici" è molto più difficile conoscere "al volo" una donna piuttosto che all'estero. Così puntando alle conquiste straniere, magari fatte in terra straniera o superando le timidezze tramite internet, il gioco diviene più semplice. Possiamo sicuramente dire che la passione esterofila di molti uomini italiani mostra i segni di calcoli pratici, o la ricerca di un qualcosa che le donne italiane, per quanto posseggano, forse non sanno o non riescono a valorizzare a sufficienza. Per questa e molte altre ragioni l'approdo straniero è sempre più spesso agognato.

Fare apologia di omosessualità e di islam va bene, ma scatta la censura quando l'argomento è sgradito ad una minoranza che esercita il potere sulla stragrande maggioranza.

“Parliamone Sabato” chiuso: il femminismo non sa più che pesci prendere, scrive Stelio Fergola il 20 marzo 2017. Dopo le indignazioni di settembre 2016 contro il Fertility Day (sponsorizzate da veri luminari del pensiero contemporaneo come Roberto Saviano),  dopo le prese della Bastiglia del maschilismo occidentale con Lotto Marzo, dopo la toccante (qualche uomo lo spera) protesta civile radicale manifestata con #SuLeGonne, capace di rovinare anche lo splendido panorama del Vittoriano a Roma, il femminismo italiano balza di nuovo agli “onori” della cronaca con un’intensa, quanto mai utile e soprattutto intelligentissima battaglia. Il nemico numero uno, ovvero l’acerrimo e terrificante sessismo della società occidentale, stavolta è rappresentato dal peggiore degli spauracchi: Parliamone Sabato, condotto da Paola Perego. Trattasi di banalissima trasmissione, condotta in modo altrettanto banale, alla continua ricerca di contenuti banali, che ogni tanto prova ad intrattenere il pubblico con approfondimenti banali (ma spacciati per originali). Il motivo per cui la povera e oppressa femminista italiana deve immediatamente imbracciare i fucili e le baionette della “censura”, stavolta, è contenuto in una “lista” che appare durante la puntata del 18 marzo. Tema: “perchè gli uomini preferiscono le straniere”. A prescindere dall’ovvia stupidaggine del quesito stesso, nato con l’unico scopo di intrattenere il pubblico e di far tirare avanti alla meno peggio una trasmissione che altrimenti avrebbe dovuto parlare solo del piatto estivo o della marca di vestiti preferiti dalla Perego, ad un certo punto appare la “lista”, di cui abbiamo una diapositiva. La “lista” trarrebbe spunto – a quanto pare – dalle donne dell’Est Europa che, per un motivo o per l’altro, sono diventate famose compagne di importanti uomini occidentali. E così si narra di Donald Trump che ha scelto per “ben due volte mogli dell’Est”, alzando il livello di una discussione che nemmeno le comari la domenica vicino a un supermercato penserebbero di produrre. Ora, ri-tralasciando il livello intellettivo nullo e nemmeno richiesto a simili dibattiti (sul quale è anche futile riflettere, considerato che il programma in questione è un varietà, un puro e cosiddetto infotainment, e non una tesi sperimentale di astrofisica), i contenuti della lista si concentrerebbero sulla natalità, la salute e la bellezza fisica delle donne dell’Est in questione, un particolare gusto per il maschio dominante e qualche altra diavoleria che non sto qui a citare. Le femministe italiane, quelle oppresse, quelle emarginate, quelle che talvolta alzano le gonne, non ci stanno. Quel programma è un’offesa, lede i diritti delle donne: se si parla di essere casalinghe già non ne parliamo. Se poi per caso, pour parler, si alza l’asticella e si mormora addirittura l’esistenza di quegli esseri chiamati figli ancora peggio. E per carità, non si parli di bellezza, che quella è sessista per definizione. “Fuori i nomi degli autori” dice la scrittrice Silvia Ballestra. La stampa di massa, la politica, tutti in coro si accodano all’indignazione. I robottini prodotti in serie in una fabbrica di giocattoli avrebbero più autonomia mentale. Il Corriere della Sera definisce la lista una cosa che “che oscilla tra sessismo e razzismo”, Quotiano.net parla di “lista choc”, il PD di Milano chiede “le immediate dimissioni dei responsabili”, Mara Carfagna e Maurizio Lupi twittano la loro solidarietà alle eterne offese di questo millennio, sempre per cause nobili, intelligenti e soprattutto utili. Sui social il delirio diviene ancora peggiore: “Schifo” il commento della pagina che si batte per l' “intelligenza” della donna, ovvero Abbatto i muri. Non poteva mancare Laura Boldrini che scrive: “E’ inaccettabile che in un programma televisivo le donne siano rappresentate come animali domestici di cui apprezzare mansuetudine, accondiscendenza, sottomissione.” Il programma chiude nel giro di un nanosecondo che manco Mussolini con le leggi fascistissime e del controllo sulla stampa. Il fu Andreotti con il fu estromesso Funari un povero dilettante. Berlusconi con Biagi e Santoro una barzelletta. Loro battono tutti i record, da vittime ed emarginate però, sia sempre ben chiaro. Le genuflessioni continuano. Non solo quelle dei parlamentari, ma della stessa RAI che, ovviamente, attua il protocollo vero della modernità contro una categoria con troppo potere: si scusa. Si scusa il direttore Andrea Fabiano, si scusa la presidente Monica Maggioni. Si scusano tutti, perché “gli errori si fanno, le scuse sono doverose, ma non bastano”. Un passaggio bellissimo: non paghi, dopo essersi inginocchiati, prevengono addirittura l’umiliazione futura dichiarandola in anticipo. L’unico che sembra essere estraneo alla follia generale è il povero Salvo Sottile, partner della Perego nella conduzione di Domenica In, che scrive: “Ma non era cazzeggio? Io so che lavorando con Paola abbiamo fatto tante battaglie (vere) a favore delle donne”. Dopo la chiusura, festa grande. Una nuova lotta è vinta, la marcia verso l’eterna emancipazione senza fine e logica è solo all’inizio. La conclusione di questo tristissimo circolo di azioni, strepiti e reazioni che manco i cagnolini più umiliati verso i loro padroni attuerebbero, è la seguente. Ovvero che tra tanti dubbi, c’è una certezza da scolpire nella pietra. La palese mancanza di diritti della donna oppressa in questo occidente patriarcale non smette mai di farsi viva. Lasciano in mutande per non dire morti di fame mariti separati, eventualmente fanno di un feto che non può parlare ciò che vogliono, anche giocarci a pallone, paralizzano un intero Paese come solo uno sciopero meganazionale può fare (per cosa poi non si sa), e perché no, fanno chiudere pure un programma stupido perché lo ritengono perfino più stupido di loro. Delle vere emarginate. Aiutiamole. La gravità di tutta questa vicenda non sta tanto nelle proteste ridicole per una questione ridicola e senza alcuna importanza. La vera emergenza culturale è che si sia dovuta muovere addirittura la politica con tutto il sistema propagandistico al seguito, rigorosamente a comando, per assecondare come i peggiori pappagalli una delle più stupide proteste che la storia italiana abbia mai visto (al primo posto probabilmente c’è Lotto Marzo, e chissà come mai la provenienza è sempre la stessa: due in poche settimane, comunque, è una media tragica). Le vere denunce sono lontane anni luce da queste sciocchezze. Ce ne dava un’allegoria imponente uno splendido film capolavoro di Carlo Verdone, Perdiamoci di vista, uscito nel 1994. La storia parlava di Gepy Fuksas, squalo del giornalismo televisivo italiano, il cui programma-sciacallo sulle disgrazie altrui viene chiuso a causa di gravi e reali offese proferite a una ragazza paraplegica che, resasi conto dello squallido giochino, lo denuncia in diretta. Motivi seri riflessione che 23 anni dopo spariscono come per magia, quando la realtà di oggi supera di parecchio la fantasia di allora. Si è perso completamente il senso del reale, del concreto. L’ augurio, quindi, è di prendere le distanze. Ovviamente mi rivolgo alle donne vere, che pagano con la loro dignità le azioni di simili energumene, spalleggiate dall’intero sistema politico e culturale di cui sono autrici e dominatrici, ma con la faccia tosta di definirsi oppresse, discriminate ed emarginate. Donne di ogni età e vere vittime di questa continua corsa al ridicolo. Quelle che pensano alla vita di tutti i giorni, fatta di lavoro e – si spera – anche di famiglia, che curano i propri figli insieme ai propri mariti, oppure che non hanno un marito ma rispettano il prossimo, insomma, fate voi.  Certamente, non soggette alla continua ricerca di lotte sociali infantili, senza alcun senso costruttivo, nessun motivo di esistere, se non per denunciare una palese carenza di materia grigia. (Stelio Fergola)

"Perché scegliere le donne dell'est": polemica per la "lista" del programma di RaiUno, scrive Alessandra Vitali su “La Repubblica” il 20 marzo 2017. A "Parliamone sabato", rubrica di "La vita in diretta" condotta da Paola Perego, servizio su "Gli uomini preferiscono le straniere" con una grafica che illustra il "valore aggiunto" delle giovani non italiane. Sui social incredulità e insulti: "Vergogna, a casa gli autori". Titolo: "La minaccia arriva dall'est. Gli uomini preferiscono le straniere". Sottotitolo: "Sono rubamariti o mogli perfette"? Il servizio introduce l'argomento del dibattito che Paola Perego, conduttrice di Parliamone sabato, rubrica di La vita in diretta su RaiUno, ha messo sul piatto nella puntata di due giorni fa. Discussione con ospiti in studio e poi grafica con ben 6 punti che spiegherebbero, secondo gli autori del programma, il valore aggiunto in base al quale gli uomini italiani - e non solo - preferirebbero o dovrebbero preferire le donne dei paesi balcanici, in particolare dei paesi dell'ex Unione Sovietica. Sul web si anima subito la polemica. Si va dall'incredulità agli insulti, ci si chiede se sia uno scherzo o se stiano facendo sul serio. "Fuori i nomi degli autori, e domani tutti a casa, la Perego per prima" twitta la scrittrice Silvia Ballestra. 

"Vogliamo parlare del fenomeno delle donne dell'est e del fascino che queste donne esercitano sugli uomini", spiega Perego prima di presentare gli ospiti in studio: Marta Flavi, il direttore di Novella 2000 Roberto Alessi, l'ex Miss Italia Manila Nazzaro, una ragazza, Marina, di origine ucraina, una coppia con lui di Savona e lei siberiana ("una bellissima storia d'amore che dura da diciassette anni") l'attore Fabio Testi al quale la conduttrice chiede una testimonianza, "tu sei stato con donne dell'est meravigliose, come Anita Ekberg", Testi precisa "non era tanto dell'est, era svedese". Ma gli esempi non mancano. Perego cita Donald Trump "che ha scelto ben due mogli dell'est Europa", cioè la prima moglie Ivana Marie Zelníková da Zlìn, Repubblica Ceca, e l'attuale, Melania, nata Melanija Knavs, da Novo Mesto, Slovenia. Perego torna su Testi, "l'unico titolato a darci questa risposta: la minaccia viene dall'est?". Replica l'attore, "non è una minaccia, semmai un regalo. Minaccia per le donne italiane - continua - perché c'è un minimo di differenza. Per noi latini, italiani, parli di una donna bionda, occhi azzurri, fisicata...", interrompe alzandosi Manila Nazzaro (bionda), "e allora io, terrona pugliese?", il direttore di Novella 2000 le riconosce dei meriti definendola "meravigliosa burrata", Nazzaro chiosa "moglie e buoi dei paesi tuoi", applausi e risate in studio. Poi Testi racconta di un amico, fidanzato con una ragazza di Mosca che per il suo compleanno "lo ha portato in Russia, sono andati insieme in un bordello, gli ha fatto scegliere un'altra ragazza e si sono divertiti tutta la notte insieme: come fai - si chiede l'attore - a non innamorarti di una donna così, giustamente?". 

Ancora dibattito, pareri contrastanti, altro servizio sugli italiani che hanno scelto in generale donne non italiane. Ma il momento-clou arriva quando viene mostrata la grafica che dovrebbe sintetizzare le ragioni grazie alle quali le donne dell'est guadagnano "punti" rispetto alle italiane. Eccoli:

1) Sono tutte mamme, ma dopo aver partorito recuperano un fisico marmoreo.

2) Sono sempre sexy, niente tute né pigiamoni.

3) Perdonano il tradimento.

4) Sono disposte a far comandare il loro uomo.

5) Sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa.

6) Non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio.

E poi, aggiunge Marta Flavi, "sono tutte curatissime. Anche chi vende i pomodori al mercato ha le unghie curate".

I sei punti vengono commentati dagli ospiti, interpellate per prime naturalmente le due ragazze ucraina e siberiana che spiegano agli astanti in che modo affrontano i rigori casalinghi senza "pigiamone", se è vero che perdonano il tradimento e via raccontando. Interviene Fabio Testi che cerca di ricondurre la discussione a "un approccio culturale di base": "Il problema - commenta l'attore - è che le nostre donne sono troppo bene abituate agli uomini italiani. Gli uomini italiani amano la donna, la femmina. Se si incontrano, l'uomo la guarda dal basso verso l'alto mentre la donna russa non viene mai guardata in questo modo. L'altra cosa, importantissima - aggiunge Testi - se per caso l'uomo italiano ha qualche difficoltà nell'approccio finale con la donna, la brutta figura la fa l'uomo. Mentre se una donna russa vede che l'uomo non riesce a ottenere l'orgasmo, è lei che si sente in colpa. La femminilità esce in un altro modo". Perego: "Ma quale femminilità, ma ti prego: se tu non funzioni, la colpa me la devo prendere io?".

Ma dove trovare le donne dell'est? Semplice: ci sono le agenzie "di collocamento". Altro servizio su agenzie online che presentano schede, foto, dati anagrafici e tutto quel che serve per scegliere la compagna ideale. L'agenzia online è a Verona, il responsabile si chiama Sandro, tutto è cominciato quando, sul web, ha contattato Viktoria, che poi è diventata la sua compagna e insieme hanno deciso di aprire un'agenzia tutta loro. "Ogni signore visualizza la fascia d'età che più gli si addice. C'è scritto tutto, anche quello che vogliono dalla vita. Se l'uomo desidera contattarla non deve fare altro che andare con la freccettina sul 'contattami' e premere. Anche le ragazze possono fare lo stesso". Per aderire al sito, spiega il responsabile intervistato, "c'è un costo, sono 3000 euro tutto compreso. Una volta entrato nel sito, tutto quello che deve fare un uomo è cercare di innamorarsi, esattamente com'è successo a me". Più facile di così. 

Parliamone sabato chiude dopo le polemiche sulle donne dell'est. La Rai si scusa: "Errore folle", scrive "La Repubblica" il 20 marzo 2017. Cancellato il programma di RaiUno, condotto da Paola Perego, dopo le critiche provocate dal dibattito su "i motivi per scegliere una fidanzata dell'est". Il dg Rai Campo Dall'Orto: "Contenuti che contraddicono la mission del servizio pubblico e la nostra linea editoriale". Sarà chiuso Parliamone sabato, il programma - all'interno di La vita in diretta - condotto al sabato pomeriggio da Paola Perego e al centro delle polemiche dopo la messa in onda, nell'ultima puntata, di un servizio dedicato alle donne dell'est con tanto di "lista" contenente le ragioni per cui gli uomini italiani dovrebbero preferirle alle donne italiane. Prima lo sdegno sui social, poi l'indignazione del mondo della politica e della cultura fino alle scuse del direttore di RaiUno, Andrea Fabiano e a quelle della presidente di viale Mazzini, Monica Maggioni.  "Gli errori si fanno, e le scuse sono doverose, ma non bastano", scrive in una nota il direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall'Orto - occorre agire ed evolversi, la decisione di chiudere Parliamone sabato non è infatti solo la semplice e necessaria reazione ai contenuti andati in onda lo scorso sabato, contenuti che contraddicono in maniera indiscutibile sia la mission del servizio pubblico che la linea editoriale che abbiamo indicato sin dall'inizio del mandato. È anche - prosegue il dg - una decisione che accelera la revisione del daytime di RaiUno1 sulla quale peraltro stavamo già lavorando da tempo. Questo al fine di rendere i contenuti Rai sempre più coerenti ai valori che ne ispirano la missione". "Non ho visto la puntata, lo sto scoprendo dai siti - aveva detto in mattinata Maggioni - quello che vedo è una rappresentazione surreale dell'Italia del 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile". "Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso", ha aggiunto la presidente Rai, "ogni giorno ci interroghiamo su quale immagine di donna veicoliamo, su come progredire, uscire dagli stereotipi. Poi accade un episodio come questo: il problema non è una battuta inconsapevole, ma la costruzione di una pagina su un tema del genere. È un'idea di donna che non può coesistere con il servizio pubblico. Per prima cosa mi scuso. Poi come azienda cercheremo di capire come è nata una pagina di questo tipo". Le scuse della presidente Rai erano state anticipate via Twitter da quelle del direttore di Rai1 Andrea Fabiano: "Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito a #Parliamonesabato". Su Twitter anche un commento di Salvo Sottile, partner di Perego alla conduzione di Domenica In: "ma non era cazzeggio? io so che lavorando con Paola abbiamo fatto tante battaglie (vere) a favore delle donne". La polemica, da due giorni in rete, era esplosa dopo la messa in onda del servizio "La minaccia arriva dall'est. Gli uomini preferiscono le straniere" (sottotitolo: "Sono rubamariti o mogli perfette?") nel corso del programma La vita in diretta. Il servizio introduceva l'argomento del dibattito condotto da Paola Perego. Una discussione con ospiti in studio e poi grafica con ben 6 punti che doveva spiegare, secondo gli autori del programma, il valore aggiunto in base al quale gli uomini italiani - e non solo - preferirebbero o dovrebbero preferire le donne dei paesi balcanici, in particolare dei paesi dell'ex Unione Sovietica. "Quanto è avvenuto ed è stato raccontato nel programma è esattamente la negazione di servizio pubblico. I responsabili di ciò che è successo devono dimettersi", ha postato su Facebook il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico. "Il direttore di RaiUno e la presidente Maggioni si sono scusati per l'accaduto, ma non basta. Sono necessari provvedimenti seri. A breve convocherò un ufficio di presidenza dove valuteremo le audizioni da svolgere in commissione sull'accaduto".

Duro il commento di Francesco Verducci, vicepresidente della Commissione Vigilanza Rai: "I responsabili di questo scempio alla nostra cultura e alla nostra convivenza devono dimettersi. La Rai ha il compito di promuovere democrazia e diritti, quanto avvenuto sabato è molto più di un semplice incidente. Gran parte della programmazione d'intrattenimento, in specie mattutina e pomeridiana, va ripensata. E i responsabili di quanto accaduto sabato devono dimettersi". "Non si scherza. Questa roba sul servizio pubblico non ci deve essere manco per scherzo. Chiedo intervento #vigilanza", scrive su twitter la deputata del Partito democratico Lorenza Bonaccorsi, altro membro della Vigilanza. Mentre l'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, parla di "un siparietto disgustoso di cui come dipendenti, come donne e uomini della Rai ci vergogniamo. Positivo che la presidente Rai e il direttore di RaiUno si siano scusati. Ma ovviamente non può bastare. È indispensabile che vengano presi provvedimenti nei confronti di tutti i responsabili".

 "Offensivo non solo per le donne ma anche per gli uomini, come se non avessero la facoltà di relazionarsi all'altro sesso in un modo rispettoso e paritario". Severo il commento della Presidente della Camera Laura Boldrini sul caos Rai dopo la trasmissione "Parliamone Sabato" su Rai1 durante la quale sono stati enunciati i motivi per cui gli uomini italiani dovrebbero preferire le fidanzate dell'Est. "Se noi facciamo di una donna un oggetto -  conclude Boldrini - da lì il passo alla violenza è breve".

Parliamone Sabato e la bufera Rai, Maggioni: "Chiedo scusa, errore inaccettabile". Dopo le polemiche del web contro la puntata di "Parliamone Sabato" in cui si è discusso sulle donne dell'Est i vertici Rai sono stati costretti a scusarsi. La Maggioni: "errore folle, inaccettabile", scrive Enrica Iacono, Lunedì 20/03/2017, su "Il Giornale". Durante la puntata di "Parliamone sabato", il programma condotto da Paola Perego su Rai1 si è parlato di un tema che ha fatto infuriare il web e ha fatto scattare la polemica: sono stati elencati, infatti, i motivi secondo cui gli uomini italiani preferirebbero le donne straniere. Sullo schermo sono comparsi i motivi validi per "scegliere una fidanzata dell'Est" con tanto di discussione in studio che non ha lasciato indifferente il popolo del web che si è scagliato duramente contro la trasmissione e la discussione in studio. I vertici Rai a questo punto di sono scusati per ciò che è accaduto. "Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito a #Parliamonesabato", ha dichiarato il direttore di Rai1 Andrea Fabiano. Monica Maggioni, presidente Rai, ha affermato di non aver visto la puntata e di aver scoperto tutto dai siti: Quello che vedo è una rappresentazione surreale dell'Italia del 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile". "Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso", ha aggiunto Maggioni, "ogni giorno ci interroghiamo su quale immagine di donna veicoliamo, su come progredire, uscire dagli stereotipi. Poi accade un episodio come questo: il problema non è una battuta inconsapevole, ma la costruzione di una pagina su un tema del genere: è un'idea di donna che non può coesistere con il servizio pubblico". "Per prima cosa - dice ancora la presidente - mi scuso. Poi come azienda cercheremo di capire come è nata una pagina di questo tipo". "La puntata di Parliamone sabato andata in onda lo scorso 18 marzo su Rai 1 mi mette in imbarazzo come amministratrice Rai, come donna e come cittadina di questo paese", dice Rita Borioni, componente del Cda Rai. "Sono imbarazzata, arrabbiata e basita dal tema e dal tono usato in trasmissione intessuto di sessismo, luoghi comuni, superficialità, basse allusioni, sguardi ammiccanti, sottocultura maschilista e a tratti razzista", aggiunge. "Vergognoso. Non riesco in questo momento a trovare altre parole. Per questo trovo giuste le scuse chieste questa mattina dal direttore di Rai1 Andrea Fabiano. Auspico che non si ripetano più episodi del genere che mettono in crisi la fiducia dei cittadini nel servizio pubblico", conclude Borioni.

Franco Siddi, consigliere d'amministrazione di Viale Mazzini, parla di "grande amarezza e sconcerto. Stando sempre attenti a garantire le libertà di posizionamento sui temi sociali e sui fatti di costume, il significato stesso di servizio pubblico, va ricordato a tutti gli autori e protagonisti della nostra tv, richiede sempre di alzare l'asticella della responsabilità". "Non si tratta di censurare - prosegue Siddi - ma di avere riguardo del fatto che la Rai deve essere sempre bene pubblico, in tutte le sue espressioni. Sicuramente l'idea di eliminare i gruppi di ascolto e di valutazione di qualità interna per molti programmi, fatta a suo tempo anche per ragioni economiche, merita un ripensamento. Così pure diventa sempre più urgente l'articolazione funzionale delle responsabilità editoriali dentro le reti. E' ora anche di ripensare i limiti degli agenti nella realizzazione dei programmi esterni. Bene le scuse del direttore Andrea Fabiano che ci mette la faccia, ma occorre ora fare tesoro della lezione".

Il senatore Francesco Verducci, vice presidente della Commissione Vigilanza Rai, parla invece di "un pesantissimo concentrato di luoghi comuni e stereotipi sessisti da società feudale che mortificano interi secoli di conquiste civili e di emancipazione femminile". "La nostra società è molto più avanti di stereotipi insopportabili - sottolinea l'esponente pd - e riconosce alle donne (e agli uomini) la piena e consapevole libertà di poter scegliere i propri comportamenti, di non dover essere per forza sexy, di poter volendolo indossare pigiami, di arrabbiarsi o meno per i tradimenti del partner, di saper cucinare oppure anche no (per stare alle "tesi" contenute nel famigerato cartello apparso in trasmissione) e via così. Per questo il cartello messo in bella mostra in trasmissione, che pretende di catalogare i giusti comportamenti femminili, è un insulto insopportabile alla nostra libertà, che è tale solo quando vince la gabbia e il bullismo degli stereotipi". "I responsabili di questo scempio alla nostra cultura e alla nostra convivenza devono dimettersi - conclude Verducci - La Rai ha il compito di promuovere democrazia e diritti, quanto avvenuto sabato è molto più di un semplice incidente. Gran parte della programmazione d'intrattenimento, in specie mattutina e pomeridiana, va ripensata. E i responsabili di quanto accaduto sabato devono dimettersi".

La Rai, le mogli dell’est e la miseria italiana nei talk, scrive Monica Lanfranco, Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere, il 20 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". "Errore folle, inaccettabile": questa la sintesi del commento della Presidente della Rai Monica Maggioni, collega potente e stimata nell’azienda pubblica italiana più importante del paese che si occupa d’informazione e intrattenimento, dopo l’ondata di sdegno (e la successiva chiusura) dalla trasmissione di Rai Uno Parliamone sabato, dedicata al profondo argomento: uomini italiani e donne dell’est. Inaccettabile, sì, ma non è un errore: è lo specchio della nostra realtà quotidiana, dentro e fuori lo schermo dell’elettrodomestico che governa, in molti sensi, gli indirizzi della politica, della cultura, dell’economia, della nostra vita. Dovunque, sì, ma in Italia moltissimo. Anche se non la vediamo, o non la possediamo, sbagliamo a pensare che i nuovi social, con la loro velocità e pervasività, abbiamo tolto potere alla tv. Non è così, perché la sua forza nel veicolare arretratezza e resistenza al cambiamento è ancora enorme: basta vedere le milionate di persone che hanno seguito il festival di Sanremo, tanto per stare nell’attualità recente. Come nel 2009 dimostrò il profetico documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, è stata la tv a veicolare per oltre due decenni stereotipi e luoghi comuni sessisti in programmi definiti di intrattenimento zeppi di volgarità, doppi sensi sempre e noiosamente a sfondo sessuale, reiterando l’allegro adagio di mogli e buoi dei paesi tuoi come leit motiv di fondo, perché l’imperativo fatti una risata è stato ed è il collante politico trasversale del paese del sole, mozzarella e mandolino. Va detto che in Rai lavorano centinaia di brave persone, donne e uomini dalla grande professionalità e, lasciatemelo scrivere, grande impegno civile e politico (così come anche nelle tv commerciali). Ma il loro sforzo titanico nel portare altri pezzi di realtà dietro a quel vetro passa con fatica, quando passa. Da quattro anni giro l’Italia ininterrottamente riempiendo teatri grandi e piccoli con lo spettacolo Manutenzioni-Uomini a nudo, dove per la prima volta uomini sconosciuti parlano di sessualità maschile: mai una volta che la tv italiana si sia fatta viva. Ciò è interessante non perché mi riguardi, ma perché, come in centinaia di altre iniziative che pure coinvolgono in modo significativo la società, racconta il concetto di notiziabilità della realtà. Chi sceglie cosa diventa visibile decide anche cosa diventa informazione, e quindi costruisce consenso. Negli anni in cui ho lavorato in Rai sono stata invitata in trasmissioni tv della ‘concorrenza’ come ospite, e ho quindi visto su entrambi i fronti come si ragiona e quali sono le logiche della notiziabilità: stando in radio ero meno controllabile, meno potente e mi muovevo con una autonomia impensabile in tv, ma il mantra da seguire era comunque: “Mi raccomando, quale che sia l’argomento presenta sempre una opinione a favore e una contro”. La famosa ‘neutralità’ del servizio pubblico era, secondo questo concetto di democrazia acritica e meccanica, salva. E infatti la trasmissione Parliamone sabato, il cui clou è stato l’imparziale cartello con i sei motivi per scegliere una fidanzata dell’est, dovrebbe diventare un ottimo case study per le scuole di giornalismo sulla favolosa neutralità. Che ridere. L’avvento della tv commerciale, aggressiva e per questo ritenuta moderna, ha mutato profondamente la Rai, e non in meglio: navigando negli archivi o nel mare magnum di Youtube viene da piangere a confrontare lo stile delle inchieste così come dei programmi di intrattenimento. Sarà pur vero che usiamo meno parole (quindi pensiamo meno profondamente) e che l’analfabetismo di ritorno fa lanciare allarmi alle università sulla incapacità linguistica e lessicale di un grande numero di giovani (che pur vengono dai licei): ovviamente non è solo responsabilità della Rai. Ma è sideralmente lontanissima la funzione migliorativa, creativa, coraggiosa e di servizio della tivvù. Lo spettacolo triste, violento e ignorante non solo insito in quel cartello, ma nell’intera trasmissione, andata in onda sulla rete di maggiore ascolto e di maggior potere, non è altro che la conferma del senso di impunità e di disprezzo di chi ha confezionato il programma per quella grande parte di Italia che si rifiuta di pensare che le donne e gli uomini siano spazzatura. Intendiamoci: la rimonta, a partire dal Parlamento, della grettezza dei discorsi da caserma e da palestra è inequivocabile e diffusissima, ma un conto è che questa miseria sia fuori dall’elettrodomestico, un altro è che venga asseverata in trasmissioni per famiglie, e per giunta pagandoci obbligatoriamente il canone. Che vergogna abissale. Una cosa che non molti sanno, a proposito dell'ormai famigerato sondaggio giudicato "sessista" sulle donne dell'Est, è l'origine del servizio. In studio a Parliamone sabato, ribattezzato ormai "Non parliamone mai più", Paola Perego ha detto: "Su internet ho trovato un articolo che elenca i motivi per cui una donna dell'est è meglio di una donna italiana". Bene, TvBlog ha scoperto che la freddura è stata presa dal sito satirico OltreUomo. La vicenda ha raggiunto vette davvero surreali. La notizia della cancellazione del programma da parte della Rai è stata ripresa dalla stampa straniera. La Bbc si è occupata della vicenda con un "Italian broadcaster cancels sexist show". Roba da perdere il sonno. 

La polemica contro la rubrica Parliamone sabato, condotta da Paola Perego su Rai1, è per il Codacons ipocrita ed insensata. “Tutti si scandalizzano per la “lista” con i motivi per scegliere una fidanzata dell’est, ma nessuno rimane turbato quando, sfogliando le pagine dei quotidiani, la donna appare come un mero oggetto – spiega il presidente Carlo Rienzi – La rappresentazione delle donne che danno oggi i giornali è assai peggiore del servizio trasmesso da Rai1, perché sulle pagine dei quotidiani il corpo femminile e l’immagine della donna vengono continuamente umiliati e mercificati. Eppure non ci sembra che chi oggi si indigna con la Perego abbia mai protestato contro i direttori delle varie testate giornalistiche”. “Parlare delle “fidanzate dell’est” e delle caratteristiche di donne di altri paesi non ci pare uno scandalo, ma anzi affronta una questione sociale esistente nel nostro paese, dove cresce costantemente il numero di donne provenienti dall’Europa dell’est, e può essere utile per portare ad una riflessione non solo sulla donne ma anche e soprattutto sugli uomini italiani e sui loro comportamenti” – conclude il presidente Codacons.

Censura Rai, maschilismo e ipocrisia. Il caso Perego. Hanno chiuso la trasmissione “Parliamone sabato” di Rai1 e “licenziata” la conduttrice Paola Perego. Per chi si vuole informare, ne sono pieni tutti i media, tradizionali e no. L’accusa: maschilismo, perchè ha parlato di quanto sono buone e brave le donne dell’est Europa come mogli per il maschio maschilista italiano. Cioè ha detto quello che sanno e dicono in tanti, in qualunque bar dello sport o casa del popolo (2). Ha detto quello che generazioni e generazioni di maschi italiani hanno pensato e fatto quando -cortina di ferro comunista ancora vigente, e anche dopo- andavano (anche con gite organizzate in pullman) alla conquista di queste donne portandosi dietro diverse paia di calze di seta e preservativi, e non tanto per farne fidanzate e spose…La trasmissione ha raccontato una realtà che ancora c’è. Brutta, per carità. Sicuramente maschilista, per carità. Ma che c’è. Che va combattuta, superata e che, per questo, forse non è male che sia conosciuta meglio, oltre alla gomitate tra maschi che, sempre al famoso bar, raccontano di quel loro amico che era andato a Bucarest col pullman (l’immaginario della donna rumena è tra le più sexy e maschiliste)…Tra le tante reazioni di indignazione, spunta quella della presidente della tv di Stato, Monica Maggioni: “un errore, inaccettabile. … mi scuso… non posso pensare che trenta minuti su una questione del genere siano stai pagati col canone”. Ed eccolo, il canone, l’imposta che siano obbligati a pagare per il mero possesso di un apparecchio tv, anche se non ci sogniamo neanche di vedere la Rai… ma, si sa, è l’imposta che i contribuenti devono pagare per il servizio pubblico radiotelevisivo, ora anche nella bolletta della luce, e quindi più faticoso da evadere…Quello stesso canone, per esempio, con cui si pagano anche quelli che ci raccontano l’oroscopo. E non ci risulta una qualche indignazione di presidente e cda della Rai per frottole di questo genere. O forse l’oroscopo sì e il maschilismo no? Sembra di sì. A noi ci fanno schifo entrambi. Ma almeno quando si parla di maschilismo si racconta una realtà, triste e squallida, ma realtà. Con l’oroscopo, invece, siccome non lo si racconta ma lo si sciorina come verità perchè non c’è interlocuzione (al pari dei tg e di altri tipi di spettacoli e servizi di informazione in cui non c’è confronto), vuol dire che ci sono diverse valutazioni. E quella che emerge, con l’oroscopo, è che al popolo gli va data la droga. Rai spacciatrice, quindi. Sembra di sì. Spacciatrice ed ipocrita e pruriginosa e moralista, anche se a difesa dei cosiddetti soggetti deboli (le donne). In contesti come questi - è nostra opinione - uscire dai tunnel della cultura oscurantista, violenta e maschilista, non si fa con la censura, il divieto. Quello che è stato fatto verso la trasmissione della Perego, per noi è censura. E quest’ultima non educa mai, ma crea i miti del proibito, aumenta e fomenta la curiosità e la bramosia. Se il nostro presidente della Rai voleva servire lo Stato, lo ha fatto proprio male, candidandosi ipoteticamente a prossimo ministro della Cultura… e i ministeri della Cultura se non vivono di censura (storia docet, italiana e non solo) di cos’altro dovrebbero alimentarsi?

1 – tranquilli, non è come nei film americani, dove, mentre stai facendo il tuo lavoro, si presenta il capetto con una busta e ti dice: Sei licenziato e siccome siamo generosi in questa busta c’è la paga di tutta la settimana, anche se non è ancora finita. No. Qui ci saranno strascichi e, se non rimane in sella, la Perego avrà milioni e milioni di buona uscita. Non perché è lei, ma perché è così il sistema.

2 – il tipico “bar sport” in Toscana

Vincenzo Donvito, presidente Aduc su Agenpress il 21 marzo 2017

Perego chiusa, Littizzetto osannata. Donne Est ed Ipocrisia Rai. La Littizzetto, strapagata icona radical chic, infarcisce le sue performance di oscenità ad ogni più sospinto. La signora non è capace di svolgere un discorso di trenta secondi senza qualche greve allusione a sfondo sessuale spesso indirizzata al pene maschile. Perchè la Boldrini (a) non censura anche la Littizzetto? Forse gli uomini italiani sono meno degni di tutela delle "Donne dell'Est" di Paola Perego?, scrive il 21 marzo 2017 di Peppe Iannicelli. Luciana Littizzetto oscena ed applaudita, Paola Perego ironica ma chiusa. Le donne dell’Est di Paola Perego turbano i dirigenti della Rai, le oscenità della “comica” sabauda sono considerate forme d’arte sublime. Quanta ipocrisia in mamma Rai che ha da deciso di cancellare la trasmissione “Parliamone Sabato”. Il programma aveva proposto una divertente conversazione sui plus delle “donne dell’Est” rispetto a quelle italiche. Una lista dei luoghi comuni più inverosimili e ridicoli, quelli proposti da Paola Perego, ai quali solo una persona priva del più totale umorismo può prestare una benchè minima attenzione prendendo un caffè al bar. Un argomento leggero come possono esser: il mito degli africani “superdotati”; le suocere insopportabili; i rigori concessi alla Juventus; per la prossima estate meglio bikini o pezzo intero; la cotoletta con una sola o con doppia panatura e così via discorrendo. La discussione sulle Donne dell’Est innescata da Paola Perego ha scatenato un pandemonio che ha smosso persino la Presidenta (non è un refuso) della Camera Laura Boldrini che ha “convinto” la Rai a chiudere il programma bollato come gravemente lesivo della dignità delle donne. Trovo avvilente che la Terza Carica dello Stato faccia sentire la sua voce solo per vicende lessicali inerenti la vocale finale e per simili idiozie ad alto tasso mediatico. Il Parlamento dovrebbe produrre leggi vere a tutela delle donne contro le discriminazioni economiche o la mancanza di servizi non certo perder tempo dietro ad un banale programma televisivo d’intrattenimento. Oppure, se proprio bisogna censurare i media, che la legge valga per tutti. La Littizzetto, strapagata icona radical chic, infarcisce le sue performance di oscenità ad ogni più sospinto. La signora non è capace di svolgere un discorso di trenta secondi senza qualche greve allusione a sfondo sessuale spesso indirizzata al pene maschile. Perchè la Boldrini (a) non censura anche la Littizzetto? Forse gli uomini italiani sono meno degni di tutela delle “Donne dell’Est” di Paola Perego?

Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono Francesco Borgonovo e Adriano Scianca il 15 agosto 2016 su “Libero Quotidiano". È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola.  Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura. Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici.  Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica». Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito? Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria. Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale. LA CRUSCA La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro. Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso. Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti.

Le ragazze dell’Est, scrive Massimo Gramellini Martedì 21 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Noi ragazzi dell’Ovest affezionati alle reliquie del politicamente corretto ci chiedevamo da tempo se si sarebbe mai posto un limite alla deriva del discorso pubblico che ha trasformato la volgarità d’animo in sincerità e il buon gusto in ipocrisia. Ebbene, contro ogni previsione, quel limite esiste. Ed è affiorato in reazione a un programma di Raiuno capace di sciorinare una lista da bar sport, scopiazzata seriamente da un blog satirico, sulle donne dell’Est viste come mogli ideali per la loro natura a metà tra la concubina e l’animale ammaestrato: una foca, ma per niente monaca. A completare il quadretto sociologico è intervenuto in studio il noto fu-attore Fabio Testi con dotte argomentazioni, non sappiamo quanto autobiografiche, del tipo: se l’uomo fa fiasco a letto, l’italiana infierisce, mentre la russa si sente in colpa per lui. In attesa delle liste sulle cinesi che hanno i piedi piccoli e sulle bolognesi che dopo avere fatto sesso tirano la sfoglia, non si può che salutare con piacere, e un velo di stupore, la reazione per una volta compatta dei cittadini della Rete e dei mandarini del Palazzo, uniti nel disgusto. Il circuito mediatico, ridotto a ruttodromo, scopre così un confine insuperabile, forse frutto di un salto di coscienza collettivo. La conduttrice del programma Paola Perego ci ha rimesso il posto. Applicando lo stesso trattamento ai tribuni politici che da anni gargarizzano intorno ai pregiudizi di genere e razza, si profilerebbe una strage.

Rai, ipocrisia di Stato, scrive il 20 marzo 2017 Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Chiudere una trasmissione televisiva rende più civili? Se non è troppo ardire, né offesa al comune senso del pudore, vien da chiederselo dopo la decisione della Rai di cancellare dal palinsesto Parliamone Sabato, condotta da Paola Perego, secondo i sacerdoti della morale pubblica rea di aver mandato in onda una scheda zeppa di luoghi comuni sulle donne dell’est. Detto con franchezza: quella carrellata di banalità, che sembrava essere stata spinta in tv direttamente da uno spogliatoio maschile, o da una panchina affollata da acide zitelle (in questi casi, la par condicio sessuale è d’obbligo), non meritava un palcoscenico. Non ne meritava uno televisivo, né altri. Nemmeno uno scantinato. Ma ciò stabilito, sicuri sicuri che mettere al bando una trasmissione sia la soluzione giusta e, soprattutto, basti a lavarsi la coscienza, a permettere di poter pensare che la lamentata offesa alle donne possa considerarsi riparata e che un passo – piccolo o grande – verso nuovi orizzonti di civiltà sia stato compiuto? Ammettiamo che Campo Dall’Orto e i suoi l’abbiano imbroccata. Che abbiano ragione. Che sì, quella della Perego e dei suoi sia stata un’infelice uscita da punire con la più pesante delle sanzioni e che il sessismo debba essere esiliato dalla Rai – in ragione del suo essere chiamata ad assolvere una missione di servizio pubblico – e più in generale dalla vita pubblica. Ma se questo fosse il metro di giudizio universale, cosa resterebbe sul piccolo schermo? Semplice: niente. Forse (ma non è certo) solo le previsioni del meteo. Pure per questo, d’altra parte, è rimasta lettera morta l’impegno preso dal Senato, nel 2011, ad inserire nel contratto di servizio pubblico norme a tutela della rappresentazione dell’immagine femminile e del principio di pari opportunità, con un solo obiettivo: dare il benservito ai belli e patinati, ai patiti della chirurgia estetica e – tenetevi forte – ai corpi mercificati oltre che ai ruoli ingessati. Allora, se così non è stato e non è, che senso ha bannare una trasmissione per lesa maestà della dignità femminile, lasciandone in vita cento altre in cui – magari con maggior astuzia – avviene altrettanto? C’è una spiegazione per il poco amletico dubbio: nessun senso. Solo un omaggio ad un antico vizio. Quello dell’ipocrisia. Che fa più danni del sessismo ed in Italia, come scriveva impietoso Indro Montanelli al premio Pulitzer Edmund Stevens, <<non è neppure un fatto sociale perché gli italiani non si metteranno mai d’accordo tra loro per sostenere una menzogna utile agli interessi dello Stato. Da noi l’ipocrisia è dettata dal senso dell’opportuno. È spicciola, pratica e utilitaria: quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza: si limita ad un calcolo di convenienza>>. Per cui, placata con l’olocausto mediatico l’ira funesta delle folle social rumoreggianti bavose e col pollice verso nel Colosseo del web, tutto potrà ricominciare. E continuare allegramente come prima, fino al prossimo sacrificio umano sull’altare dell’ipocrisia.

Le donne dell’est, scrive Michele Fronterrè su "Formiche.net" il 20 marzo 2017. Le donne dell’est sono servizievoli e accoglienti. Sin da piccole sono iniziate ai lavori domestici. Sanno che devono far comandare l’uomo. Si fanno ingravidare e sgravano bene. Senza psico-complicazioni. Tornano dure e sode di fianchi e seno. Così, il servizio su Rai 1 della Perego per il quale la Boldrini rischia di finire in rianimazione e la Perego a peri, nel senso di piedi cioè appiedata. In effetti, la statistica è, evidentemente, parziale. È sfuggito al paniere il panaro. Alcune donne dell’est, infatti, ricevono dalle 11 alle 19 e sono disponibili anche outcall. Su Corso Siracusa a Torino una in dieci anni ha messo da parte duecento mila euro mantenendo un figlio fino all’università. Gli ha comprato una golf di seconda mano con lo spoiler perché potesse tornare al paesello tra i Carpazi a mostrare i cerchi da 16” a Dracula. Poi ci sono quelle che badano agli anziani sollevandoci dall’entrare in contatto con gli umori e gli afrori della vita da cui nessun radicale potrà mai liberarci. A proposito, in Svizzera ai vecchi che gli fanno? Alcune altre, che fanno di mestiere le governanti, sono diventate il perno di molte famiglie italiane. Loro consigliano, loro mediano. Loro ascoltano, riempiendo tutti quei vuoti lasciati dalla quotidianità in cui ci perdiamo dietro che le cose che non contano. Molte mandano i soldi verso est che servono per costruire case, per mantenere famiglie. La propria e quella d’origine di genitori anziani e pieni di acciacchi. Ci sono quelle che arrivano giovanissime e sono disposte a tutto pur di godersi l’occidente con i suoi consumi da cui sono così pervasivamente affascinate. Telefonini, glitter, stivali, piastre per allisciare i capelli che chiudono visini alla Romy Schneider da cui escono come spilli i due occhi cerulei dove c’è dentro una tristezza infinita storicizzata. E ci sono quelle più attempate che arrivano avendo, spesso, un tasso di scolarizzazione altissimo. Che hanno letto tutti i russi e a cui la donna dell’ovest in carriera dà 8 euro l’ora in nero per farsi pulire il bidet e spolverare il comodino su cui c’è Carofiglio e la Murgia fermi a pagina 9. A pochissime riesce di trovare marito. A pochissime, di uscire dallo stereotipo.

Le donne dell'Est. 20 marzo 20117. Lettera a Dogospia. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile D'Agostino, esprimo alcune considerazioni che mi sono state stimolate dalla trasmissione della Perego sulle donne dell'Est Europa. Non ho visto la diretta televisiva, ma ho letto gli articoli dei quotidiani on line, perché vivo a Odessa in Ucraina e non seguo la televisione italiana. Devo per forza fornire alcuni tratti della mia esperienza di vita per poter far capire "da che pulpito arriva la predica". Frequento i paesi dell'Europa dell'Est dalla caduta dell'impero sovietico, prima per lavoro e da almeno 15 anni solo per diletto. Vivo quasi tutto l'anno a Odessa in Ucraina con la attuale moglie ucraina di 15 anni più giovane di me che ho conosciuto on line su un sito specializzato quando avevo 60 anni. Lei lavora ancora anche se non ne avrebbe bisogno. Io ho imparato il russo che è la lingua ufficiale a Odessa e ho scelto di vivere qui per il clima (il mare), per la vita sociale e per la convenienza economica. Qui il costo della vita è mediamente il 50% che in Italia e questa città è cara per gli standard ucraini! Sono stato sistematicamente in contatti via internet con alcune donne prevalentemente russe e ucraine prima di trovare sistemazione definitiva 10 anni fa con mia moglie con cui sono felicemente sposato da 8 anni. Siamo divorziati entrambi da un precedente coniuge e ora siamo liberi e indipendenti da ogni precedente obbligo familiare perché lei ha un figlio adulto e io una femmina e un maschio entrambi adulti e tutti sono per la loro strada senza bisogno di noi. In conclusione penso di avere un po' di esperienza sull'argomento. I 6 punti sintetici sulle caratteristiche delle "donne dell'est" presentati nella trasmissione in questione sono molto aderenti alla mia realtà e a quella vissuta da molti miei amici di altri paesi oltre che italiani. Bisogna sfatare i preconcetti che il provincialismo italiano fa sorgere. Infatti gli uomini che hanno maggior successo per un rapporto stabile con le "donne dell'est" sono in ordine: tedeschi, scandinavi, inglesi e americani, sia statunitensi che canadesi. Gli italiani hanno il loro successo, ma in misura inferiore a quelli descritti. La causa di ciò mi sembra essere una maggior affinità culturale e sociale di questi uomini con quelle donne e una maggior disponibilità economica. Gli italiani sono simpatici interessanti, ma in troppi casi, anche visti da me, poco consistenti. Veniamo ai punti sintetici che hanno originato le proteste degli italiani del "politically correct" piccolo borghese.

Le donne slave curano molto il loro aspetto, ma dire solo questo è riduttivo. Esse curano in primo luogo l'aspetto dei loro figli che sono la dimostrazione delle loro capacità di essere buone madri e poi anche quello dei loro uomini che devono manifestare la loro capacità di avere buona cura del partner. Questa è una cosa lodevole ed è appagante per qualsiasi donna slava, fin dai tempi della nascita della loro cultura tribale.

Ai 6 punti devo aggiungerne altri 3. Le donne slave per tradizione ex comunista hanno una scolarità maggiore delle nostre a esempio, ma non maggiore di quelle dei paesi da me sopra citati, e infatti il problema sollevato dalla trasmissione non esiste in quei paesi come materia di gossip. Le "donne dell'est" amano il sesso. Amano darlo e riceverlo e se ne compiacciono se funziona bene. Sono i poveri provinciali italiani che credono di essere loro a fare le conquiste. Sono le donne invece che conquistano. Se vogliono un uomo per un rapporto stabile e non una "sveltina", lo provano sessualmente e se sembra loro che lui possa funzionare con il sesso, allora si mostrano disponibili per continuare. Gli italiani di poca cultura internazionale che qui cercano solo " la chiavata", se pagano allora hanno trovato una prostituta, se non pagano pensano di essere stati loro a portarsi a letto la donna, ma non è vero perché è sempre lei che decide di "provarti". Per terzo argomento bisogna dire che in ogni caso, perché il rapporto diventi duraturo ci vuole la combinazione di rispetto e soldi da parte dell'uomo, di qualsiasi nazionalità egli sia. Se uno di questi due elementi viene a mancare il rapporto non dura e lasciare ed essere lasciati è la cosa più sbrigativa che si possa immaginare. Le "donne dell'est" ti danno tutto quello che credono ti possa far piacere, ma pretendono che tu dia loro quello che desiderano: affetto, rispetto e vita economica superiore a quella che stanno vivendo o che pensano di dovere vivere in futuro. Vengono con te per stare meglio e non per soffrire, Se questo non succede alla prima ti mollano.

Infine due preconcetti da sfatare: "sono tutte puttane", "i loro uomini sono peggio di noi". Il primo è veramente una sciocchezza e la maggior quantità di donne giovani rispetto alle nostre che fanno le prostitute è dovuta all'aspetto economico e alla demografia, Questo secondo elemento influisce anche sulla generalità del fenomeno e tocca anche la popolazione maschile. Nei paesi dell'ex unione sovietica a causa dell'ecatombe di maschi nella seconda guerra mondiale e del fatto che l'aspettativa di vita dei maschi specie in Russia e Ucraina è di molto inferiore a quella delle femmine, vi è una carenza di uomini. In Ucraina a esempio vi è un rapporto di 3/4 donne per ogni uomo e a Odessa, città di mare di porto e di turismo questo rapporto sale a 5 femmine per ogni maschio. Da ciò deriva che ci vogliono maschi stranieri per fare coppia con le donne in sovrannumero e che gli uomini slavi non hanno problemi di alcuna sorta a trovare una donna e anche più di una. Essi sono come noi, mai certamente inferiori a noi e non si lamentano del fatto che noi europei ci prendiamo cura di alcune loro donne. Io sono inserito e come altri stranieri sono accettato e rispettato per quello che sono e per come mi comporto. Poi piccola battuta da maschilista italiano. Odessa fin dalla sua fondazione 200 anni fa è stata famosa per la qualità e la quantità delle sue donne. E' tutto vero. Più di una volta dico a mia moglie che devo andare a fare la spesa al mercato o al supermercato per deliziarmi gli occhi e per vedere la sfilata delle bellezze di Odessa. Lei sorride ma sa che mi fa piacere e non obietta. Perché le donne italiane dovrebbero sentirsi offese se molti uomini cercano "donne dell'est"? Anche questo è un mercato e il potenziale acquirente cerca il potenziale miglior prodotto: è la legge della domanda e dell'offerta. Sentiti auguri gentile D'Agostino. Francesco.

Donne e tv, il solito doppiopesismo italico, scrive Andrea Zambrano il 21-03-2017 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Bisogna riconoscere che alle ragazze dell’Est è andata parecchio bene. Per anni catalogate alla voce “bonazze in cerca di accasamento” dalla becera vulgata italica, sono balzate in un batter d’occhio nell’aurea categoria delle vittime del machismo italico. Prepariamoci a ondate di ospitate tv e storie strappalacrime. Abituiamoci alla creazione di una nuova specie protetta nel nome dell’autodeterminazione femminile, un genere letterario ad hoc, una fiction, fazzoletti rosa da sventolare e uno sdoganamento perché è “intollerante catalogarle solo come badanti”. Che la Rai abbia deciso di chiudere un’insulsa e anonima trasmissione chiamata Parliamone sabato è fatto che non cambia di una virgola la giornata delle persone di buona volontà: ne ignoravamo l’esistenza ieri e non ci mancherà affatto domani. Così come non sembra il caso di sposare usque ad sanguinem il catalogo ridicolo dei sei motivi per cui scegliere una donna dell’Est che ha provocato la chiusura della trasmissione condotta da Paola Perego. Perché boutade ridicola è, era e resterà. E niente più. Anche perché molte delle motivazioni erano piuttosto un complimento. Che cosa ci sia di sessista in “sono tutte mamme ma dopo aver partorito hanno un fisico marmoreo” è un mistero insondabile. Le altre “doti” erano così virtuose che sembravano uscite dal Siracide. Provare per credere. E se lo dice Eva Henger, la quale ci informa di non essersi offesa affatto e di portare persino il pigiama a letto, conviene crederci. Infatti la canea non è scoppiata per una rivolta di rumene e ungheresi violate. Come sempre accade da noi, le indignazioni mediatiche nascono sempre per altri diversi dalle presunte vittime. Sembra quasi che a volere tutta la cagnara mediatica che ieri ha portato la notizia della chiusura del programma in home page di tutti i siti siano state le donne italiche, come invidiose comari di Bocca di rosa, che come erinni inviperite si sono scagliate sulle colleghe e sul loro momento di celebrità. Ma è evidente che la polpetta era ghiotta per scatenare dalla Boldrini in giù le vestali del femminismo autocratico nostrano. E mica solo la Boldrini che ha denunciato come ancora una volta le donne siano trattate come peluche e bla bla; anche parlamentari di lungo corso e personaggi dello spettacolo sono intervenute per bacchettare gli autori della trasmissione. Un coro unanime e compatto, veloce come una guerra lampo, potente come una falange di amazzoni della buon costume. Ovviamente agli autori non è valsa la scusante della satira perché di fronte a questi affronti non c’è satira che tenga. Nella tv pubblica si può bestemmiare (fatto), dileggiare i politici pro family (fatto), fare sesso esplicito in orario protetto (fatto), indottrinare le masse in favore del simil matrimonio gay (fatto), ma non si può fare ironia sul gentil sesso. Strana democrazia che impone i criteri morali e le indignazioni globali a seconda del peso che certe campagne raggiungono e non secondo un dettato interno che dovrebbe valere per tutti. Alle ragazze dell’Est è andata bene perché hanno avuto la fortuna di incontrare sul loro cammino donne irreprensibili e agguerrite pronte a difenderle dalle angherie del machismo televisivo; le stesse che magari scendono in piazza per l’utero in affitto, perché quello è un diritto e non uno sfruttamento del corpo femminile. Ma vabbè. Meno fortunate sono state le molto più numerose famiglie italiane che sono scese in piazza al Circo Massimo e in Piazza San Giovanni per testimoniare la bellezza della famiglia, del matrimonio, dei figli naturali, della fedeltà. Sono milioni, ma la loro protesta non è riuscita a toccare le corde delle pasionarie boldriniane in servizio permanente. Così la richiesta di scuse a Mediaset per l’oltraggioso dito medio del fantoccio J-Ax e del bambinone Fedez al popolo del Family Day, è ancora ferma al palo, ignorata e vilipesa. Eppure quel dito medio era rivolto ugualmente ad altre donne, madri, spose altrettanto casalinghe e fedeli. Ma nell'immaginario sono etichettate come nemiche del progresso. Potere del politicamente corretto che sceglie le donne, certe donne, da usare come patriot per i propri scopi, il più delle volte opposti alla valorizzazione dell’universo femminile e lascia le altre alla gogna. 

Quegli ipocriti perbenisti dell’Lgbt. Demonizzano D&G, ma restano in silenzio sui gay uccisi dall’Is, scrive Giulio Meotti il 16 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Nulla hanno mai detto sugli omosessuali palestinesi, tutti fuggiti in Israele per non finire spellati vivi sotto il regime di Arafat e Abu Mazen, per non parlare di Hamas. Non soltanto il mondo Lgbt si è voltato dall’altra parte, ma ha pure accettato, senza soprassalto di dignità, accecato com’è, che il Gay Pride di Madrid boicottasse gli omosessuali israeliani. Nulla, ma proprio nulla, l’Lgbt ha detto negli anni Novanta mentre in Algeria i fondamentalisti islamici annunciavano come avrebbero risolto la questione gay: “Nella lotta contro il male abbiamo il dovere di eliminare gli omosessuali e le donne depravate”. Nulla o quasi ha detto contro Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano che qualche anno fa, oltre alle camere a gas, negò l’esistenza di gay nella Repubblica islamica? Va da sé che adesso i capi Lgbt stiano in silenzio, mentre lo Stato islamico getta dai palazzi di Siria e Iraq i reprobi omosessuali, bendati, uno dopo l’altro, per un “peccato” da mondare con la morte, e le pietre della folla. Non uno striscione, non un appello, non una campagna che provenga dal mondo della militanza gay. Due giorni fa, il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non c’erano barche contro l’Is alla fiera di Sydney dell’orgoglio gay friendly. Non una barca su centocinquanta. Opinionisti gay spesso accusano gli “islamofobi” di voler dividere mondo islamico e omosessuali. Come ha fatto Chris Stedman su Salon: “Stop trying to split gays and Muslims”. In questi giorni invece si sono tutti scatenati – a cominciare da Elton John, e poi via via altre celebrities – contro Dolce e Gabbana, il due fondatori della casa di moda italiana, rei di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta. “Filthy”, lercio, osceno, schifoso, è l’aggettivo più usato su twitter contro i due stilisti italiani da parte della comunità gay nel mondo, che adesso annuncia il boicottaggio. La rappresaglia economica ha già funzionato contro Barilla e Mozilla, i cui capi erano stati accusati di “omofobia” e poi costretti a umilianti scuse pubbliche. E la rappresaglia funzionerebbe se volessero davvero attirare l’attenzione del mondo su quei regimi arabo-islamici dove gli omosessuali sono davvero discriminati, altro che in occidente. Eppure ipocrisia e silenzio annebbiano l’Lgbt. Mai una volta che denuncino i versetti della Sunna, che assieme al Corano compone la legge islamica, e in cui degli omosessuali si dice: “Quando un uomo cavalca un altro uomo, il trono di Dio trema. Uccidete l’uomo che lo fa e quello che se lo fa fare”. Qualche giorno fa il settimanale inglese Spectator ha sintetizzato l’indulgenza Lgbt: “Perché la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell’islam”. Non è che il diritto alla vita di un gay è meno importante del diritto di Elton John ad avere un bambino? Non è che sputare contro Dolce e Gabbana renda perfino, in termini di probità morale, mentre denunciare i fanatici islamici può costare la testa e allora è meglio glissare? Perbenisti.

Rai: sexy sì bambole no, le russe rispondono agli stereotipi. Non c'è niente di più lontano dalla realtà dell'immaginario collettivo del maschio europeo sudoccidentale (leggi: l'italiano gallo cedrone), scrive L'Agi il 20 marzo 2017. Le donne russe rispondono al decalogo del programma Rai in una mini inchiesta condotta dalla corrispondente dell'Agi da Mosca attraverso il micromondo di amiche e conoscenti costruito in tanti anni passati in Russia. Donne normali, che contestano fin da subito la generalizzazione del tema della trasmissione, perchè di "donne dell'Est" ce ne sono di tutti i tipi, dalla Vistola a Vladivostock. E che toccano certi argomenti con sincerità, senza però cadere nel trash. La realtà è' più dura e più complessa dei luoghi comuni. Questo è l'elenco Rai rivisto, alla luce dei loro commenti.

SONO TUTTE MAMME, MA DOPO AVER PARTORITO RECUPERANO UN FISICO MARMOREO. A recuperare il fisico sono quelle che non hanno problemi di tempo e soldi. Se il marito è disposto a spendere soldi per la babysitter o la donna delle pulizie che lava e fa la spesa. Allora la neo mamma ha tempo di rimettersi in forma: massaggi, piscina, palestra, trattamenti estetici. Sono tutte attività che, visto che la donna è in maternità e non guadagna, devono essere a spese del marito. Le donne russe fanno figli da molto giovani, prima dei 30 anni, e il recupero avviene ovviamente in modo diverso che non in Italia, dove la maternità inizia anche dopo i 35 anni. Se però si esce fuori da Mosca e si parla di una famiglia media di provincia, lo stile di vita poco sano e le condizioni spesso d'indigenza, fanno sì che la donna invecchi anche prima delle italiane.

SONO SEMPRE SEXY, NIENTE TUTE NE' PIGIAMONI. Questo è vero, la donna russa è molto curata e attenta alla sua femminilità, spesso quasi ostentata, e la società non dà giudizio morale su questo. I saloni di bellezza sono a ogni angolo, come in Italia i bar, e non c'è donna che non dedichi buona parte del suo stipendio a manicure, parrucchiere e vestiti. Anche al mercato si va vestite bene, perchè "bisogna sempre essere pronte". "Devi brillare come un semaforo, perchè l'uomo si fermi a guardarti", è uno dei consigli che le ragazze russe danno alle amiche straniere troppo modeste nel vestire. Conquistare un uomo in Russia è come una guerra e tutte le armi a disposizione sono valide. Questo atteggiamento va spiegato col fatto che la competizione tra donne è altissima e gli uomini "dostoinie" (degni) sono pochi. Il mantra con cui mamme e nonne spiegano la situazione è che la Seconda Guerra Mondiale ha portato via milioni di uomini, generando così un gap tra maschi e femmine molto alto. La gara tra donne e l'interesse per gli stranieri si spiega, quindi, anche con la natura stessa dell'uomo russo: non ama curare il suo aspetto fisico, vestirsi bene, è galante ma solo in modo formale, ha un'aspettativa di vita media di 59 anni (contro i 73 della donna), a causa di abitudini come alcolismo e tabagismo e non usa dare troppa attenzione alla donna, che di solito prende sempre lei l'iniziativa. Per giustificare questo loro atteggiamento, gli uomini russi amano citare il poeta Aleksandr Pushkin: "Non guardiamo le donne, affinchè loro ci amino di più". La pressione sociale è forte e una donna che a 30 anni non è sposata e non ha figli è considerata spacciata. L'importanza di conquistare un marito benestante è una delle basi dell'educazione delle ragazze russe, con le mamme e le nonne che danno vere lezioni di vita a riguardo. A Mosca si riversano eserciti di ragazze dalle province meno abbienti del paese, in cerca di un uomo che le risollevi anche economicamente. Andare in una palestra di quelle frequentate dai manager stranieri è, per esempio, un investimento che in molte fanno proprio a questo scopo. La fantasia del marito straniero sta comunque svanendo tra le nuove generazioni cresciute nelle grandi città. In seguito al boom economico Mosca può offrire gli stessi o maggiori benefici dell'Occidente, tanto più che la crisi economica e quella dei migranti contribuiscono a creare un'idea poco allettante di vita in Europa. Così, svanito il motivo economico, rimane appunto quello culturale per cercare un compagno non russo.

PERDONANO IL TRADIMENTO. Mai! Il tradimento verrà sicuramene rinfacciato, ma in molti casi può venire facilmente dimenticato con il regalo giusto. Si torna di nuovo all'idea dell'uomo come fonte di sostentamento materiale. La Russia detiene un primato scoraggiante: è il secondo paese al mondo per tasso di divorzi, dopo la Bielorussia. Il 65% dei matrimoni finisce con una separazione. Spesso a 30 anni si hanno già due divorzi alle spalle e così è come se dopo una certa età, le donne avessero rinunciato all'idea di un principe azzurro, dell'amore per sempre e, con un alto grado di freddezza, abbiano deciso di puntare almeno sull'unica cosa che un uomo può dare loro per sempre: i soldi. Così non è raro sentire storie di donne che sposano uno straniero e come prima cosa chiedono al marito di farsi intestare una casa a nome loro o della mamma.

SONO DISPOSTE A FAR COMANDARE L'UOMO. Lui comanda solo se guadagna molto e si occupa di tutte le spese. La donna è molto astuta, e questo accade anche in Italia, spesso comanda lei senza che il marito se ne accorga. I ruoli dei due sessi sono molto distinti nella società e in famiglia; la parola "femminista", in Russia, suona quasi come un'offesa. Le donne sovietiche sono state tra le prime a godere di parità di diritti, ma non hanno vissuto il loro '68.

SONO CASALINGHE PERFETTE E FIN DA PICCOLE IMPARANO I LAVORI DI CASA. E' vero che mediamente le donne russe hanno ambizioni di carriera più limitate rispetto alle italiane, ma non vogliono neppure passare le giornate a pulire la casa e a fare il bucato. Le donne amano uscire con le amiche, andare ai concerti, a fare shopping, a teatro, soprattutto se il marito può pagare tutto. Spesso è la pressione sociale, di cui abbiamo accennato, a costringerle nella parte delle casalinghe amorevoli, ma una volta diventate adulte si tratta di ritmi che tendono a rifiutare.

NON FRIGNANO, NON SI APPICCICANO E NON METTONO IL BRONCIO. E' vero, sono meno "appiccicose", anzi cercano spesso i loro spazi e non vogliono essere controllate. Il broncio, invece, è il metodo più amato e usato tutto il giorno e anche la notte? E' usato per comandare in modo indiretto e a volte ci si nega anche sessualmente, finche' non si è ottenuto quello che si vuole, sfruttando il punto su cui gli uomini sono più deboli. Pilit, lamentarsi facendo ripetutamente la stessa richiesta, è tra i verbi più usati da un marito russo, quando parla della moglie.

“Perché scegliere una donna dell’est”: la gaffe è da anni ’50, ma la censura è conformista, scrive Emmanuel Raffaele il 21 marzo 2017 su “Il Primato Nazionale". “Hanno fatto bene in Rai a decidere di chiudere questo programma”. Parola della presidente della Camera Laura Boldrini, sempre in prima linea quando si tratta di censura. Il suo parere, ovviamente, non poteva mancare a conclusione di una vicenda imbarazzante da ogni punto di vista: “Parliamone Sabato”, programma condotto nel fine settimana dalla nota conduttrice Paola Perego, è stato chiuso per volere dei piani alti della Rai in seguito alle polemiche scoppiate per la discussione sulle donne dell’est. Nell’ultima puntata del programma, infatti, era stata proposta una slide sui “Motivi per scegliere una fidanzata dell’est”, un elenco di sei ragioni per cui, secondo la Perego – che in diretta ha spiegato di averne estratto i contenuti da un articolo preso in rete – gli italiani preferirebbero le ragazze provenienti appunto dall’Europa dell’est. Tra le ragioni ritenute offensive, in primis la quarta in lista: “sono disposte a far comandare il loro uomo”. E poi le inaccettabili “sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa”, “perdonano il tradimento” e, per concludere, “non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio”. Ragioni che, unite alle classiche “sono sempre sexy”, mamme dal fisico marmoreo, hanno scatenato prima le polemiche sui social e su internet e, poi, naturalmente la stampa. Con inevitabili retromarce della Rai tutta. Il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto ha dichiarato: “Gli errori si fanno, e le scuse sono doverose, ma non bastano. Occorre agire ed evolversi”. A fargli eco il direttore di Rai Uno Andrea Fabiano: “Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito”. Mentre Monica Maggioni, presidente Rai, ieri ha spiegato: “Non ho visto la puntata. Quello che vedo è una rappresentazione surreale dell’Italia nel 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile. Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso”. Un’ondata di inchini che, in poche ore, ha portato addirittura alla chiusura del programma, tra gli applausi della Boldrini che ha trovato la lista “agghiacciante”, “un elenco che grida vendetta”. Una scelta di fronte alla quale non si può che restare basiti, tanto è opprimente, ormai, il livello di conformismo imposto ai mezzi di comunicazione di ogni tipo. “Parliamone” andava chiuso? Per quanto ci riguarda, come tanti altri programmi del servizio pubblico e privato, avrebbe benissimo potuto non partire mai. Ben altri sarebbero i contenuti richiesti ad una televisione di qualità. Ma non ci risulta che sia stata la qualità complessiva della trasmissione a portare alla chiusura. Piuttosto, sull’onda delle misure liberticide anti-bufale, anti-revisioniste ed anti-tutto-ciò-che-non-va-d’accordo-con-il-background-politico-dell’attuale-classe -dirigente, il programma è stato chiuso per aver espresso, pur senza farle proprie e semplicemente mettendole in discussione, alcune ipotetiche caratteristiche delle ragazze esteuropee. Stereotipi? Probabilmente sì. Dopo tutto, sempre all’interno de “La vita in diretta”, qualche anno fa, in un servizio dedicato ancora alle “belle donne dell’est”, il fascino loro attribuito era dovuto soprattutto alla loro forza di carattere, tutto il contrario (o forse no?) rispetto a quanto appariva dalla lista in questione. Chiacchiere da bar? Sicuramente. Ma, nell’epoca di “Uomini e donne” e dei reality, di Bruno Vespa e dei talk show su qualunque cosa, dovessimo chiudere tutti i programmi dove si fanno chiacchiere da bar (e ne saremmo felicissimi), ben pochi rimarrebbero ancora in onda. Trattasi, dunque, molto semplicemente di un caso inquietante di censura, che è tanto più grave quanto insignificante è la rilevanza reale della questione, a dimostrare il controllo sempre più stringente sul pensiero, favorito dalla “mediatizzazione” della società. Ad ogni modo, senza se e senza ma, “Parliamone” è stato chiuso. “Per sessismo. O per razzismo. Oppure per eccesso di luoghi comuni”, per riprendere un’ottima sintesi de “Il Fatto quotidiano”. Emmanuel Raffaele

La censura è il mondo alla rovescia. Ho, in passato, lodato il coraggio del presidente della Rai, Monica Maggioni, rispetto ai luoghi comuni, ma fatico a riconoscerla nelle scuse al pubblico per la trasmissione Parliamone sabato di Paola Perego, scrive Vittorio Sgarbi il 21 agosto 2017 su "Il Quotidiano.net.  Il mondo va a rovescio. Ho, in passato, lodato il coraggio del presidente della Rai, Monica Maggioni, rispetto ai luoghi comuni, ma fatico a riconoscerla nelle scuse al pubblico per la trasmissione «Parliamone sabato» di Paola Perego, dopo le proteste di alcuni spettatori (probabilmente solo donne, certamente brutte e prive di ogni ironia) sul web. Ma addirittura incredibile mi sembra la decisione del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto di chiudere il programma, con una motivazione solenne: «Gli errori si fanno, le scuse sono doverose, ma non bastano...», «occorre agire ed evolversi», in nome della «mission del Servizio Pubblico». Capisco la nobilitazione del concetto, ma non servono le maiuscole per «servizio pubblico». Ed è invece un cattivo servizio una censura violenta per una trasmissione ironica, spiritosa e persino veritiera. Di più, la censura ottenuta è una evidente espressione di razzismo nei confronti delle rumene, che sono non meno libere e intelligenti delle italiane. Dov’è allora lo scandalo? Nell’elencare 6 prerogative, logiche, divertenti, che identificano nelle rumene i costumi delle italiane di 40 anni fa, prima del più velleitario femminismo, e come ancora sono, tanto per fare dell’antropologia, le abruzzesi, le molisane, le lucane e parte delle pugliesi. Le radical chic milanesi e le strappone romane non m’interessano. Ma ditemi voi cosa c’è di negativo e di umiliante per le donne nelle divertenti definizioni del temperamento rumeno illustrato dalla Perego: la forma fisica dopo il parto, l’essere sexy e non sciatte con tute e pigiami, perdonare il tradimento, essere casalinghe perfette (perché dovrebbe essere una cosa negativa?) e, ironicamente, non frignare, non essere appiccicose, non mettere il broncio (è un delitto non mettere il broncio?). Resta soltanto il punto che avrà indisposto, immagino, la Boldrina, e qualche altra pseudo femminista, generalmente brutte e sgradevoli: le rumene sono disposte a far comandare il loro uomo. È un’affermazione forte, capisco, ma è condivisa da tutti gli uomini. E non è altro che una forma di superiorità mascherata. La disponibilità o la disposizione a farsi comandare è una sottile forma di potere. Per tutta la vita l’ha dimostrata mia madre nei confronti di mio padre. E non solo.

Censura femminista contro donne dell’est e contro manifestazioni di papà italiani, scrive il 20 marzo 2017 Silvio. Ormai branchi di femministe rabbiose azzannano chiunque parli di donne. L’ONU mette Wonder Women come simbolo? Proteste perchè è bianca. Esce un film su Wonder Women? Proteste perchè non ha le ascelle pelose. Oggi la RAI ha auto-censurato il programma “parliamone subito” colpevole di aver osato discutere con ironia del fatto che sempre più uomini preferiscono le donne dell’Est, più belle e meno contaminate dal femminismo. Il programma censurato ha detto solo la verità nota ai sociologi come “linea Hajnal” che storicamente divide quei paesi, per lo più ad Est, dove le donne sono più femminili e dedite alla famiglia. Inoltre le mappe parlano chiaro: l’Est comprende la regione del Dnieper-Dniester, da cui provengono le donne che più rispondono ai canoni di bellezza. La polemica isterica contro il programma RAI è sulle prime pagine (!) dei maggiori quotidiani nazionali:

La stampa che monta polemiche sul nulla è la stessa che contemporaneamente ignora questioni serie che riguardano gli uomini.

La stessa stampa non aveva speso una parola quando la RAI aveva diffuso generalizzazioni false e calunniose contro gli uomini italiani.

E non spende una parola oggi sulla manifestazione di ieri dei papà separati che a Roma hanno protestato per le violazioni dei diritti umani (Italia pluri-condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umanni), a difesa dei centinaia di migliaia di bambini privati dei loro papà ed alienati da associazioni a delinquere di stampo femminista.

La stampa che attacca l’informazione indipendente accusandola di “fake news” è la stessa che tenta di manipolare l’opinione pubblica oscurando temi sgraditi all’ideologia dominante e pompando notizie irrilevanti.

Nuova epurazione femminista in Rai. Chi tocca le donne, muore, scrive il 20 marzo 2017 Giulio Tandiod. Nel pomeriggio di sabato, durante la trasmissione condotta dalla Perego su Rai uno, è andata in onda una breve “striscia” nella quale si discuteva delle virtù delle donne dell’est. Tutti noi conosciamo il tenore di queste trasmissioni pomeridiane, pensate per riempire i buchi del palinsesto televisivo e rivolte principalmente ad un pubblico composto da casalinghe o vecchiette. Lo scopo degli autori che le propongono e le mandano in onda, lungi dall’informare seriamente le persone, o dal fare servizio pubblico, è essenzialmente quello di intrattenere facendo leva, attraverso i temi trattati, sui più scontati e banali luoghi comuni, che sfociano quasi sempre nel pettegolezzo più becero. Durante la discussione è stato mostrato il cartello che vedete al lato, nel quale in maniera scherzosa, venivano sintetizzati i punti principali per i quali gli uomini dovrebbero preferire le donne dell’est Europa a quelle autoctone. Immediatamente sui social è scoppiato lo scandalo. La questione è stata considerata di importanza tale che gli autori della trasmissione hanno dovuto immediatamente porgere le loro scuse, spinti dalla pressione mediatica che ha visto coinvolti addirittura esponenti politici.  La MegaPresidentA Monica Maggioni poi, stamane ha annunciato provvedimenti straordinari che puntualmente sono arrivati: la chiusura del programma. Parliamoci chiaro: si può essere d’accordo o meno su quanto riportato in quel cartellone ma visto il tenore della trasmissione, la cosa non avrebbe dovuto scandalizzare più di tanto. Quello che è andato in onda è stato l’ennesimo pettegolezzo pomeridiano per intrattenere il pubblico, come più o meno siamo abituati a vedere da un po’ di tempo a questa parte. Ma allora, cosa c’era di diverso? La domanda è retorica e la risposta scontata: il dibattito riguardava le donne. La sacralità dell’immagine della donnainquantodonna è stata messa per una volta in discussione. La lente di ingrandimento è stata collocata sui pregi e difetti dell’universo femminile, visti dalla prospettiva maschile, e contrariamente a quanto accade sempre, stavolta ad essere messe “sotto esame” erano le donne occidentali e il loro modo di relazionarsi con gli uomini. Poteva passare inosservata una cosa del genere? In una società come la nostra, gravida di politicamente corretto, dove la narrazione mediatica dominante è quella di uomini violenti e inetti, è arrivata puntuale la sanzione di lesa maestà, che colpisce con l’ostracismo, la gogna mediatica, l’umiliazione pubblica e il licenziamento.

Se qualcuno avesse ancora il dubbio di ciò che stiamo dicendo adesso spazzerà via ogni titubanza. Guardate le foto che vi proponiamo, tratte dalle pagine facebook StopmoralismoTv e DirittiMaschili Mra.

Domenica In…misandria! Rai UNO. Come far soffrire gli uomini brutti sporchi e cattivi!

Dolce Casa. Rai UNO. Difendersi dai Mammoni…maschietti inetti e attaccati alla gonnella di mammà.

Uno mattina. Rai UNO. Umiliare gli uomini per cominciare in allegria la giornata!

Uno mattina. Rai UNO. Uomini, tutti sporchi assassini.

Si tratta di noti programmi della Rai nei quali si trattano più o meno gli stessi temi a parti invertite.

Nella prima trasmissione, si istruiscono le donne sulle tecniche utili a far soffrire gli uomini.

Nella seconda, si parla di come tutelarsi dai mammoni, ovviamente uomini immaturi e ancora attaccati alla gonnella di mammà.

Nella terza, si umiliano i maschi colpiti dalla crisi economica, ricordando loro quanto sono inutili.

Infine nell’ultima, a caratteri cubitali si afferma che gli uomini sono tutti dei potenziali assassini: Uomini, se li lasci ti uccidono.

Ricordate qualche tipo di reazione analoga? Ricordate qualche forma di scandalo, programmi chiusi in un batter d’occhio, Presidentesse che si scusano e si indignano in quanto donne e stupidaggini varie? Assolutamente no. Questo perché nel regime politicamente corretto in cui viviamo, la dignità degli uomini può essere calpestata senza alcuna remora e senza alcun freno. Anzi, più la mascolinità viene degradata e calpestata, maggiori sono gli ascolti e l’approvazione. Siamo in un vero e proprio regime mediatico totalitario dove il culto del leader è sostituito dal “culto della donna”. La pari dignità delle persone ormai è abbondantemente superata nell’indifferenza e nell’apatia collettiva. L’opinione pubblica, spinta dai media e dalla stessa classe politica, ha ormai una percezione della realtà totalmente distorta, che si basa su un doppio standard nella valutazione degli eventi. Gli stessi identici episodi passano totalmente inosservati quando riguardano gli uomini, mentre si trasformano in casi di interesse nazionale quando colpiscono le donne. A costo di essere ripetitivi bisogna sottolineare forte ciò che abbiamo già detto in altre occasioni. Non bisogna affatto pensare che questo scandalo sia sorto per una questione relativa all’utilizzo di un linguaggio televisivo adatto ad una tv pubblica, e rispettoso delle persone. La questione è ancora una volta prettamente di “genere”. Tutto è nato perché si è osato toccare e criticare le donne. Se al loro posto si fosse parlato di uomini dell’est, o della potenza sessuale degli uomini di colore, non sarebbe accaduto praticamente nulla. Perché non è MAI accaduto nulla in passato. Quando i ruoli si invertono, gli stessi comportamenti vengono ignorati o nella migliore delle ipotesi liquidati con una risata. Sia chiaro, la Grande Sorella vi guarda. Chi tocca le donne, muore. 

Il programma "Parliamone sabato" ha scatenato un polverone mediatico e social per la lista sulle "qualità" delle donne dell'est e immediata è stata la decisione della Rai di cancellarlo dai palinsesti. In difesa di Paola Perego scende la figlia, Giulia Carnevale, scrive Mercoledì 22 Marzo 2017 "Leggo". La ragazza scrive su Instagram: "Chiedere scusa senza neanche aver visto e dichiararlo non ha prezzo. Alla presidenza Rai le pecore che tolgono il lavoro a decine di persone dal giorno alla notte per aver visto dai siti. MAGGIONI SEI UN MITO! #IGNORANZA. #nonhovistolapuntata #pecore". Un attacco frontale contro la presidentessa Rai.    Poi, in un post successivo, sulla chiusura del programma, commenta: "Ovvia conseguenza, altrimenti tutti avrebbero potuto vedere l'inconsistenza di elementi validi alla CENSURA. Forse qualcuno dovrebbe spiegarci quali sono le vere ragioni che hanno portato alla chiusura del programma? #incoerenza".

Interpellato sul caso “Parliamone Sabato” e sulla chiusura del programma di Paola Perego, Bonolis ha difeso la collega (nonché moglie del suo agente Lucio Presta, in prima fila in conferenza stampa): “Mi dispiace per quello che è successo. È successo qualcosa di umano, e in televisione si esercitano rapporti di forza. La Rai è un’azienda televisiva di Stato e deve far contenti tutti. E per fare contenti tutti è difficile non ascoltare le lamentele di tutti, ma così si finisce per fare una televisione innocua dove l’ironia rischia di non avere spazio. E l’ironia non può essere innocua. Io ho visto quel momento e non era successo davvero nulla. Credo che dietro quella chiusura ci siano altre cose e credo che se quel programma avesse fatto il 20% non sarebbe stato chiuso. La rete rischia di diventare una forca caudina con le sue battaglie inutili ma non bisogna avere paura. Bisogna avere le palle di rispondere”.

Paola Perego, il crollo dopo la cacciata... Coltellata alla Rai, le frasi durissime, scrive il 22 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "C'è gente che ha bestemmiato, hanno intervistato il figlio di Totò Riina facendogli l'altarino, abbiamo visto in televisione qualunque cosa. Questo era un gioco. È scoppiata la bomba, ma la bomba non c’è. Hanno usato me come potevano usare forse qualcun altro. Forse è scomodo mio marito". Paola Perego travolta dalla polemica che ha portato alla chiusura del suo programma Parliamone sabato racconta la sua versione in una intervista esclusiva a Le Iene Show su Italia1. "Sto male - spiega - perché mi sento messa in mezzo in una cosa molto più grande di me. E sto male per tutte quelle persone che, fidandosi di me, mi hanno seguita in questo programma. Ora resteranno senza lavoro. Pensa che guadagnano due lire ed ora veramente avranno problemi a pagare l'affitto, perché non è che gli stipendi Rai proprio ti permettono di navigare nell'oro. Sono disorientata, spaventata, non riesco a rendermene conto, vedo i giornali e mi sembra una cosa surreale, che non sta capitando a me. È tutto troppo surreale. Non ho ancora metabolizzato, non riesco a capire bene che cos’è questa violenza contro di me. Non me lo merito, io credo di essere una brava persona". Non solo hanno subito chiuso il programma ma "credo che adesso rescinderanno anche il mio contratto", "questo non è un problema, cioè io non sono quella persona che stanno descrivendo e chi mi conosce lo sa". Tornando al merito del programma, "può essere stata una pagina brutta, ma non... È incredibile perché dal niente è partita un'eco mostruosa su una cosa che non c'è, non esiste". Ma "non verrà mai fatta chiarezza. Ma come fanno a fare chiarezza? Gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda". Approvati "dal capostruttura, dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo perché non era con la linea editoriale". "Prima l'approvano e poi si scusano, di cosa? Ma di cosa? Ma di che stiamo parlando? Loro si sono dissociati da una cosa che avevano approvato e adesso fanno la figura di quelli che stanno salvando l'Italia da questo mostro che è sessista, che porta in televisione queste cose". Sensi di colpa? "Ti ci fanno sentire in colpa perché parte da una parola e poi tutti la ripetono e poi s'ingigantisce e ti portano a pensare Ma che cosa ho sbagliato? Io l’ho rivisto tre volte quel pezzo: io ho difeso le donne come faccio sempre". E ancora: "C'era l'intero programma da vedere, cogliendo la discussione e il lato ironico della cosa". "Io mi vorrei scusare per la dichiarazione di Fabio Testi. Ho chiesto di non invitarlo più". Ma qualcuno potrebbe ridimensionare le accuse? "No, anche perché dalle posizioni che hanno preso - conclude Paola Perego - è molto difficile tornare indietro e poi sono dei codardi".

Paola Perego in lacrime a Le Iene: "Parliamone sabato, la Rai sapeva tutto", scrive Antonella Luppoli il 22 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Hanno chiuso Parliamone sabato, il programma di Paola Perego "reo" di aver intavolato una scanzonata discussione sulle donne dell'Est. Una decisione che Libero ha definito "ridicola", quella della Rai. Una decisione dietro alla quale ci sarebbe stato lo zampino, decisivo, di Laura Boldrini, che si è battuta come una leonessa per far chiudere il programma: l'ultima delle sue battaglie inutili. Anzi dannosa, dato che nel nome di un presunto sessismo - che nel fatto in questione, non esiste - ora sono rimaste a casa diverse persone. Tra queste, anche la Perego, che certo non avrà problemi a cavarsela. Eppure, vederla disperata, ridotta in lacrime, nell'intervista a Le Iene con cui ha rotto il silenzio dopo il "patacrac" fa una certa impressione. Per inciso, come vi spieghiamo nell'articolo di Antonella Luppoli, che segue, la Perego afferma che la Rai sapeva tutto, compresa la discussione sulle donne dell'est. Paola Perego fuori dalla Rai? Questa potrebbe essere la più pesante delle conseguenze, una volta archiviata la querelle di Parliamone Sabato. «Hanno chiuso il programma e io adesso credo che rescinderanno anche il mio contratto, ma questo non è un problema, cioè io non sono quella persona che stanno descrivendo e chi mi conosce lo sa» ha detto ieri sera a Le Iene la conduttrice. Sulla questione del contratto la Rai glissa, nessuno conferma né smentisce. Quello che avevano da dire lo hanno già detto, scritto e cinguettato. È a Sabrina Nobile infatti che la Perego ha scelto di raccontare la sua versione dei fatti. Intercettata nei pressi degli uffici dell’Arcobaleno Tre, la signora è apparsa provata, disorientata. «Mi hanno messa in mezzo in una cosa più grande di me, sto male. Più per le persone che, fidandosi di me, mi hanno seguita in questo programma che per me stessa» ha detto e ha proseguito come un fiume in piena: «Non ho ancora metabolizzato, non riesco a capire bene che cos’è questa violenza contro di me. Una violenza terribile, brutta. Non me lo merito, io credo di essere una brava persona». Paola ha ribadito poi che le sembra tutto surreale. E ha aggiunto: «C’è gente che ha bestemmiato, hanno intervistato il figlio di Totò Riina facendogli l’altarino, abbiamo visto in televisione qualunque cosa. (Questo, ndr) era un gioco. È scoppiata la bomba, ma la bomba non c’è. Hanno usato me come potevano usare forse qualcun altro. Forse è scomodo mio marito». Il riferimento è a Lucio Presta, agente di star come Paolo Bonolis, Roberto Benigni e Antonella Clerici. La signora Perego in Presta paga quindi – ancora una volta - il conto per essersi innamorata di un uomo influente nel mondo della tv? «Può essere, forse ho un marito scomodo». Così tanto che alla Rai non è bastato far calare il sipario gelido su Parliamone Sabato ma pare sia stato rescisso anche il suo contratto. Questa infatti potrebbe essere la sentenza. Un po’ troppo? Non si dà pace la conduttrice e sostiene di non meritare l’appellativo di sessista insensibile: «Non lo sono, non posso stare qui ad elencare i miei pregi o le cose che io ho fatto, ho anche 8 mila miliardi di difetti, però io non sono quella persona che oggi è descritta sui giornali». Poi, entra nello specifico dell’accaduto: «Può essere stata una pagina brutta, ma è incredibile che dal niente sia partita un’eco mostruosa su una cosa che non c’è, non esiste. Gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda dal capostruttura e dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo: non era con la linea editoriale». Ancora: «Loro si sono dissociati da una cosa che avevano approvato e adesso fanno la figura di quelli che stanno salvando l’Italia da questo “mostro” che è sessista, che porta in televisione queste cose». Il riferimento è a tutti gli addetti ai lavori del piccolo schermo e, perché no, anche i politici che le hanno puntato il dito contro. E a questo proposito ha specificato: «Quando la signora Boldrini ancora non era in politica e faceva televisione, io già lottavo per i diritti delle donne». Il Presidente della Camera ha infatti scritto su Twitter: «Doveroso immediato provvedimento della #Rai su trasmissione #ParliamoneSabato. Mai più #donne in televisione trattate come animali domestici». Ma il problema diciamolo è stata quella slide con i 6 buoni motivi per sposare una donna dell’est. «Perché hanno visto solo quella» ha replicato la Perego. Pure il dibattito in studio è stato mediocre ma non più di tanti, tantissimi altri. Targati Rai e non. Si è anche scusata la conduttrice: «Per la dichiarazione di Fabio Testi, ho chiesto di non invitarlo più». E se qualcuno dovesse tornare indietro e ridimensionare le accuse, ha chiesto infine la Nobile? La Perego perentoria ha concluso: «Dalle posizioni che hanno preso, è molto difficile tornare indietro e poi sono dei codardi». Antonella Luppoli

Caso Perego, quando tre donne diventano vittime dell’anti-sessismo. Dopo la chiusura di «Parliamone... sabato», in tempi in cui il tema delle quote rosa è sempre acceso, per uno strano volo del destino si ritrovano abbattute dal fuoco dell’anti-sessismo tre donne, scrive Renato Franco il 24 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Si nasconde anche un doppio paradosso dietro la chiusura di Parliamone... sabato, dietro quella pagina di tv «mediocre come tante altre» (ammissione di Paola Perego). La prima singolarità è che a essere accusate di sessismo siano tre donne, proprio loro, quelle stesse donne che dovrebbero affermare il principio che nel terzo millennio certe discriminazioni che viaggiano tra il luogo comune, lo stereotipo e l’ignoranza non sono più accettabili. Colpevoli? Sicuramente superficiali. La rete (intesa prima come web e poi come Rai1) ha deciso la chiusura del programma. Dibattito aperto. Troppo duri? In fondo era solo una pagina di tv «mediocre come tante altre» e a esser severi si finirebbe con il monoscopio (può essere un’idea). Ma c’è anche un secondo cortocircuito imprevisto. In tempi in cui il tema delle quote è sempre acceso, per uno strano volo del destino si ritrovano abbattute dal fuoco — in teoria amico — dell’anti-sessismo tre donne. Raffaella Santilli, la capostruttura del day time di Rai1, ha ricevuto una lettera di contestazione. Il senso: doveva vigilare e non lo ha fatto. E molto probabilmente verrà rimossa dall’incarico e spostata a mansioni meno prestigiose. L’altra lettera di richiamo è stata indirizzata a Antonella Stefanucci, la produttrice esecutiva, ritenuta in qualche modo responsabile anche del contenuto editoriale. E poi ovviamente lei, Paola Perego, la conduttrice: non ha ricevuto avvisi formali ma si ritrova non solo senza programma ma anche con un danno di immagine — alcuni diranno che doveva pensarci prima — e un’etichetta (la lista delle donne dell’Est) che faticherà a scrollarsi di dosso. Sono i danni collaterali dell’anti-sessismo.

Elogio della tv “sessista”, scrive Antonella Grippo su “Il Giornale" il 23 marzo 2017. Il “femminismo” della Rai, in nome del quale si epura la Perego, emana il medesimo olezzo di un totano sdraiato al sole dei Tropici. Fete di melliflua ipocrisìa debordante. Di rancida sagrestìa paraboldrinica. Diciamola tutta: le ragioni per le quali i maschi nostrani preferirebbero le femmine dell’Est è roba sedimentata lungo l’Immaginario Italico. Testosteronico e non. Dalle sale di biliardo di Busto Arsizio alle officine meccaniche di Brindisi. Dalle ferramenta di Casalpusterlengo agli uffici del catasto di Subiaco. Dai lavatesta delle parrucchiere di Oppido Mamertina ai lettini delle logopediste di Brembate. Cliché raffermo finché vuoi, ma, in ogni caso, difficilmente rimovibile da bocciofile, cantieri e saune à la page. Rappresentazione anacronistica? Mica tanto! Del resto, un luogo comune (tòpos), checché ne pensino i rozzi predatori del Senso, è tale nella misura in cui si rifiuta testardamente di sbaraccare dalle latitudini sociali. Le cosiddette “paleopercezioni”, spesso, non si lasciano irretire dalle teoresi alla cannella. Il terreno degli stereotipi, sovente, risulta sdrucciolevole anche per certa intellettualità salottinarda. Una sera, nel corso di una cena tra pensatori scelti, ho sentito dire ad un insigne studioso (ufficialmente non simpatizzante di Lombroso): “Guarda quello, ha proprio la faccia del delinquente”. Nella specie, la trasmissione di Paola Perego, falcidiata con sospetta solerzia dai chierici di Viale Mazzini, non ha fatto altro che trasferire al pubblico un dato “sociologico” più o meno caricaturale. Se volete, parodistico, ma non del tutto disancorato dal sentire comune. Sennonché, le falangi pudiche del Bel Paese, in perenne rapimento estatico al cospetto della totemica Boldry, hanno issato il vessillo della Indignazione. In men che non si dica, è scoppiata “casamicciola”. I soliti sanculotti isterici, in servizio permanente a difesa della Virtù Pubblica, hanno reclamato la scure del boia. In nome e per conto delle fauci dell’imperante “benpensatismo protovittoriano”. A morte Paola e tutto il suo cucuzzaro! Peggio della Tv di Stato, c’è solo la Tv di Stato che, alla stregua di un Magistero Politically Correct, pretende di addomesticare le coscienze, attraverso il maldestro tentativo di imbrigliare l’anarchico, capriccioso fluire della realtà, che, pur nella sua stoltezza, talvolta deraglia meravigliosamente dal breviario degli untuosi pretuncoli “setacciapalinsesti”. D’altro canto, l’amministrazione delle anime è materia di stretta spettanza parrocchiale. Così come il bipolarismo catechistico che vede contrapposti il Bene e il Male. E così, nel novero dei castigatori dei vizi italici irrompono nutrite pattuglie di zeloti che muovono da Saxa Rubra. Libera nos a malo! Senza la Perego, finalmente, saremo impermeabili ad ogni turbamento che violi il precetto dell’Immacolatezza Progressista. Di più: la Rai si tramuta in SuperEgo della Nazione, come da statuto freudiano. Altro che Bernabei! La Salvezza a portata di video. Dopo di che, frotte di culi inabissati lungo i fondali di malconci divani, ebbri del tedio pomeridiano del sabato, in tinelli comprati a rate con il maxischermo incorporato, dovranno rinunciare all’emersione. Mai più indizi di corpi marmorei postpartum dell’Est. Nessuna traccia di clemenza baltica per i tradimenti dei mandrilloni indigeni. Tantomeno, promesse di obbedienza femminea al Verbo maschio di piastrellisti, benzinai e meccanici tornitori. La bonifica può dirsi compiuta. Erga omnes. La Madonna, nel suo piccolo, appare solo a pastorelli e similari genìe contadine; Madre Rai Interclassista, persino ai ragionieri. Amen.

Antonella Grippo, altrimenti detta La sparigliatrice di Sapri, è una giornalista dal tratto irriverente e politicamente scorrettissimo. Antifemminista ed iconoclasta. Nel recente passato ha scritto e condotto, per conto di reti televisive, il cui bacino di riferimento insiste nel Sud Italia, una trasmissione di approfondimento politico dal titolo emblematico Perfidia. Il programma, improntato, perlopiù, ad uno stile sacrilego, ha spesso raccontato, in modo impietoso e caustico, l'emisfero della politica italiana. Perfidia è stata più volte soppressa da editori al cappio dei finanziamenti pubblici, erogati dal Palazzo. La narrazione televisiva della Grippo, tutt'altro che benevola, è sempre risultata "urticante" per l'establishment di turno. La scrittura di Antonella è, parimenti, eretica e sferzante. La frequentazione del suo Blog è sconsigliata a quanti non amino le "uscite in mare aperto" e la" temerarietà della parola impopolare".

Roberto D’Agostino: “Non si può fare una battaglia contro il trash”. Intervista di Giuseppe Alberto Falci del 20/03/2017 su “La Stampa”. «Ho un’idea. Non è il che, è sempre il come, che cambia il giudizio su qualsiasi cosa». Roberto D’Agostino, giornalista e inventore di Dagospia - il sito che racconta i pettegolezzi della politica italiana e sbeffeggia la TV - a tarda sera prova a tirare le somme dopo la cancellazione da parte del dg Rai Campo dall’Orto del programma condotto da Paola Perego “Parliamone sabato”. «Sono un po’ stanco a quest’ora, avanti cominciamo», ironizza rispondendo al telefono.

D’Agostino, cosa ne pensa del caso Perego?

«Noi possiamo fare l’apologia della donna asiatica, l’apologia della donna anglosassone, l’apologia della donna latina. Ad esempio, possiamo affermare che la donna latina sia mammona. Ma qui il punto è un altro: come si affronta la questione? Chi sono gli esperti che trattano l’argomento?».  

Si spieghi meglio.  

«Il nostro Paese è così: la Perego apre bocca e gli danno fiato. Il mondo dello spettacolo è un mondo senza più cultura, senza più creatività. Si parla di cose delicate senza avere gli strumenti». 

Però la lista sulle qualità della donna dell’est grida vendetta.  

«Ahò, qui il problema non è se la Perego ha fatto la pipì fuori dal vaso. Il problema è culturale. Oggi tutti sono diventati esperti di tutto. Nei talk show trovi personaggi dello spettacolo a commentare la politica italiana. Ma te rendi conto? Se avessero chiamato Marino Niola sarebbe stato comprensibile. E invece chiamano un’ex Miss Italia. Ecco perché da lì a passare al razzismo ci si mette un attimo».  

La Rai però si è subito scusata e ha preferito la chiusura la trasmissione.  

«No, vi sbagliate. La trasmissione è stata chiusa dal suo manager Lucio Presta con quel tweet che noi abbiamo segnalato. Lo sapete chi è Presta? È colui che assieme a Caschetto ha in mano i palinsesti di Rai e Mediaset».  

Con la chiusura di “Parliamone sabato” inizia il declino del trash in tv?  

«Non c’è spazio, non si può fare una battaglia contro il trash. Stiamo sempre a parla’ di piccoli numeri. Ormai la tv è parcellizzata. Ci sono tre mila canali sul digitale e su Sky. Poi c’è Netflix. Quando assieme a Gianni Boncompagni firmavo Domenica In superavamo il 50%. Adesso questi programmi stanno a fa’ il 5%. E il restante 95% cosa guarda? Solo Sanremo e Montalbano superano il 40%. Di cosa stiamo a parlare? Eppoi fatemi dire una cosa».  

Cosa?  

«È vero che ci sia una sorta di inclinazione verso un tipo di donna pre-femminismo. Basta, vi saluto. Buona serata».

Sessismo non stop, non solo in Rai: il voyeurismo è dilagante. Sul caso incredibile di “Parliamone sabato”, la discussione non è finita, e sono previste, giustamente, anche iniziative simboliche, scrive Vincenzo Vita il 23 marzo 2017 su "Globalist.it". Sul caso incredibile di “Parliamone sabato” ha scritto con argomentazioni efficaci su “il manifesto” Bia Sarasini. Ma la discussione non è finita, e sono previste, giustamente, anche iniziative simboliche. Tuttavia, proprio per non chiudere il caso con la punizione “esemplare” della chiusura della trasmissione condotta da Paola Perego, qualche riflessione è doverosa. Troppo comodo, se no. In verità, quella incriminata è stata una particolare caduta negli inferi del sessismo misto al razzismo, vittime le donne dell’est. Una sorta di errore di grammatica –uno dei più gravi come un altro con l’apostrofo, per dire- da leggere, però, nella sintassi sbrindellata di tanta parte del day time. I palinsesti della mattina e del pomeriggio, fino ai fatidici quiz che servono da traino ai telegiornali, sono infarciti di televisione voyeuristica, di pornografia del dolore, di utilizzo “normale” delle donne secondo gli stereotipi vieti dell’universo maschile. Una donna o è un genio o un’eroina, o inesorabilmente assume le sembianze della moglie o della fidanzata subalterne o della persona libera ma dai facili costumi. Stiamo parlando delle consuete immagini che ci sono riflesse dai talk di appendice che riempiono i canali. Il discorso non riguarda solo la Rai, ovviamente. Anzi. L’intero contesto è da quel dì “berlusconizzato”: pubblico e privato hanno confuso i rispettivi ruoli, sfidandosi nella corsa al ribasso pere l’indice di ascolto. Urla, pianti a orologeria, strepiti e esibizione di anatomia femminile sono diventati dagli anni ottanta in poi una delle cifre distintive della televisione generalista, come ha messo in luce il noto libro di Lorella Zanardo e su cui si è soffermato il recente film “Femminismo” di Paola Columba. La pubblicità, poi, è spregiudicatamente sessista e rimpiangiamo la bonomia di “Carosello”, di fronte ai messaggi spesso espliciti di molti spot. Ne scrive con competenza Annamaria Arlotta ed è augurabile che l’Istituto di autodisciplina dia qualche segno di vita. Guai a confondere tutto questo con pericolose tentazioni censorie. Niente affatto. E’ doveroso, al contrario, alzare la soglia del dibattito, prendendo sul serio per cominciare le varie “Carte” sottoscritte dagli organismi sindacali e professionali, nonché gli stessi vecchi “Contratti di servizio. Il progressivo slittamento della soglia critica avvenuto nel tempo fa riflettere e ci interpella sugli effetti tremendi della mercificazione totale del corpo e dell’immaginario, caratteristica saliente del liberismo. Quanta sottovalutazione del disastro in corso. Ora, mentre si discute del nuovo testo della Convenzione con la Rai, è indifferibile riacquisire i principi fondamentali della comunicazione, al di là della natura societaria delle aziende. Del resto, proprio nei giorni scorsi a Parigi il direttivo di Eurovisioni ha cominciato a discutere della qualità dei servizi pubblici, nell’era dei rinnovi delle charter e in vista della Direttiva Servizi Media Audiovisivi. La Presidente Maggioni e l’Amministratore delegato Campo Dall’Orto si sono scusati. Positivo. Ma c’è un particolare inquietante da chiarire. L’Ad-direttore generale ha affermato che la “catena di controllo” ha funzionato. Mah. La reazione contro il programma di Paola Perego è scattata due giorni dopo. Viene in mente “Quinto potere” di Sidney Lumet. Insomma tra il Grande Fratello e il nulla ci sarà una via di mezzo. Infine, la Rai organizzi uno specifico dibattito con le donne più impegnate su tali argomenti, per chiarire qualcosa ai cittadini-utenti.

Il caso Perego-donne dell'Est: tutti moralisti sì, ma con le idiozie, scrive giovedì, 23 marzo 2017 Barbara Pavarotti su “La Gazzetta di Lucca”. All’estero infuria il terrorismo, a Roma sabato potrebbe scoppiare il finimondo con 60 fra capi di stato, ministri degli esteri e vertici Ue fra i piedi causa festeggiamenti per il sessantesimo della disavventura europea, ma l’Italia è serena: almeno la minaccia dall’Est è stata arginata. Sono stati annullati i preparativi del nuovo missile nucleare russo Satan 2 (sì, si chiama così), quello che potrebbe incenerire l’Europa? Macché. E’ stato solo chiuso, come ormai tutti sanno, il programma di Paola Perego del sabato pomeriggio perché nell’ultima puntata si è parlato del predominio delle donne dell’est sul maschio italiano. Un dramma vero, finito sulle prime pagine di tutti i giornali, che a noi donne colpisce profondamente, che non ci fa dormire la notte, che ci fa rosicare ogni secondo visto che loro, come è stato spiegato nel programma, sono sempre belle e statuarie anche dopo aver sfornato vari pargoli, non indossano mai il pigiamone e sono più remissive di noi italiane, perché disposte ancora a riconoscere al marito il ruolo di capo famiglia. Beh, questa cosa gliela riconosceremmo volentieri anche noi se i mariti fossero quelli di un tempo, che portavano bei soldini a casa e ci facevano stare da signore. Ma c’è la crisi, c’è la disoccupazione, se non si lavora in due è un guaio, c’è stata l’emancipazione e, insomma, non ci va più di essere tanto riconoscenti a questi mariti che spesso si rivelano ben presto solo altri bambini da accudire. Le donne dell’est, beate loro, sono sicuramente più pazienti o forse abituate peggio, chissà. Del resto chi si accontenta gode e quindi pare che queste coppie est-ovest funzionino alla grande. Ma dov’è lo scandalo che ha portato alla chiusura del programma, al coro unanime di indignazione capeggiato dalla presidente della Camera Boldrini e dalla presidente Rai Maggioni? Trasmissione sessista, donne ridotte come animali domestici di cui apprezzare mansuetudine e sottomissione, donne-oggetto, hanno gridato politici, intellettuali, giornalisti in versione maschile, femminile e bipartisan. E con estrema solerzia – cosa mai vista nel caso, per esempio, dell’intervista azzerbinata di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina, fatto passare per un buon padre di famiglia – l’accetta Rai stavolta si è abbattuta pesante. Segnale forte, da vera azienda del servizio pubblico: colpirne uno per educarne cento. Quindi ora la Rai ci offrirà finalmente un servizio degno del canone che paghiamo? Bei programmi culturali, di approfondimento, una informazione non narcotizzata e di parte? Nessuno si illude in tal senso. Solo una cosa è certa: con tutte le magagne del servizio pubblico, divorato dagli interessi dei partiti, dal favoritismo e dal clientelismo, soltanto su un giochino del sabato pomeriggio la politica e i vertici aziendali sono riusciti a dare questa grande prova di coraggio. Come dire: prendiamocela con questa scemenza perché sulle cose serie è meglio stare zitti. E quali sono le cose serie in casa Rai? Oltre alla lottizzazione, per esempio, i super stipendi di dirigenti che non fanno nulla e, anche se fanno, i soldi sono sempre troppi. O i compensi delle star, per le quali ancora non vale il famoso tetto di 240.000 euro fissato per chi lavora nelle aziende pubbliche. Li ha pubblicati il quotidiano “La Stampa” a febbraio e la Rai ha reagito con un esposto per “la diffusione di documenti riservati con informazioni sensibili sulla gestione aziendale”. Ecco alcuni compensi, pagati anche coi soldi nostri, quelli del canone da cui la Rai ricava la bellezza di 2 miliardi all’anno.

Antonella Clerici: 3 milioni di euro per due anni.

Flavio Insinna (quello dei pacchi, peraltro appena chiuso per bassi ascolti): 1 milione e 420.000 euro a stagione.

Lucia Annunziata: 1 milione e 380.000 euro per tre anni.

Michele Santoro: 2 milioni e 700.000 euro versati alla sua società di produzione per tre programmi.

Bruno Vespa: 1 milione e 300.000 euro di minimo garantito più 1 milione per prestazioni fuori contratto.

Poi bisogna sapere che la Rai molti programmi non li produce in proprio, ma li appalta a società di produzione o li acquista e così ha pagato 5,6 milioni alla Magnolia per “L’Eredità” (preserale Raiuno, con Fabrizio Frizzi) per la stagione 2016-17.

La conclusione è che sono tutti moralisti sulle idiozie. Altroché donne dell’est, ben altre sono le vicende Rai su cui ci si deve indignare. Fra l’altro, secondo voci di viale Mazzini, la chiusura del programma incriminato potrebbe anche derivare da una lotta intestina fra poteri Rai. E molti infatti dicono, non senza ragione: perché colpire solo “Parliamone sabato”? Devono cadere anche il capostruttura e il direttore di Raiuno, che avevano approvato la scaletta. Comunque, la puntata sulle donne dell’est era persino affascinante nel suo essere terribilmente kitsch. Discriminante verso il genere femminile? E allora prendiamocela con miss Italia che fa sfilare le donne in mutande, con la pubblicità dove per vendere un’auto bisogna infilarci dentro una bella donna, con le riviste di moda, con tutto. Ma, per piacere, non facciamo i femministi sulle stupidate. Nessuna donna con un po’ di buon senso si sente lesa nella propria dignità se un uomo, che non sia il proprio compagno, preferisce una donna dell’est. Fatti suoi, anzi loro. Magari noi lo abbiamo scartato, quindi lui va verso altri lidi. E poi un po’ di sana autocritica non guasta. Esiste una fetta di donne molto abile nel conquistare e tenersi un uomo, sia dell’est che dell’ovest, del sud o del nord. Bisogna solo avere chiare le priorità: ne vale la pena? Se la posta in gioco è avere un sacco di rotture di scatole in più, no. Noi donne, dopo l’ubriacatura del “possiamo conciliare tutto”, stiamo finalmente cominciando a capire una cosa: che tutto non si può avere. Che qualunque scelta si paga e a qualcosa tocca rinunciare. Se io vedo la cucina come l’antro del diavolo e al malcapitato di turno anziché una carezza darei sempre volentieri due schiaffi, mica mi posso poi lamentare se arriva una più remissiva e lo conquista, giusto? Prendiamoci anche noi donne le nostre responsabilità. Intanto, amiche dell’est (o di dove vi pare): prego, accomodatevi. Il maschio italiano ve lo potete ampiamente tenere. La maggior parte degli esemplari, per un problema o per l’altro, in questa fase ci lascia perplesse. E quindi quella non era una trasmissione sessista. Solo realistica.

LA FESTA DEGLI UOMINI E LA FESTA AL PAPA'.

Il 2 Agosto È La “Festa Degli Uomini”. La celebrazione trae spunto da un fatto accaduto nell'era napoleonica, scrive il 18 agosto 2017 Gianni Chiarappa su "Ultima Voce". Se l’8 marzo è ormai una data ben consolidata in cui ricorre la Festa della Donna, lo stesso non si può dire della festa dedicata all’altro sesso, gli uomini. Sì, perché quasi nessuno sa che c’è una giornata dedicata agli uomini, un ‘8 marzo’ tutto al maschile che, in questo caso, si celebra il 2 agosto. Una festa che ancora non ha preso piede in tutta Italia ma che viene celebrata soprattutto nelle zone dell’arco alpino. È qui che, infatti, dai primi anni Settanta, a Monteprato di Nimis, in provincia di Udine, si tiene ancora oggi la “Festa degli uomini” nei giorni 1 e 2 agosto. La ricorrenza prende spunto da un bizzarro avvenimento risalente all‘epoca napoleonica, quando i soldati delle ultime fila indossavano delle calzamaglie molto strette che lasciavano poco spazio all’immaginazione. A questi sfortunati soldati veniva imposto, per una questione di ‘uniforme’, di tenere entrambi i testicoli spostati a sinistra della cucitura della calzamaglia. Da qui il detto “les deux à gauche” ovvero “due a sinistra”. Non ci è dato sapere il perché, ma pare che in seguito l’affermazione “deux à gauche” sia diventata “deux de août” che significa proprio “due di agosto”. Alcuni ipotizzano infatti che la forma dei testicoli assomigli ad un 8 rovesciato, e agosto è l’ottavo mese dell’anno. Da qui la scelta di festeggiare l’uomo proprio il 2 agosto. Nessun avvenimento serio da ricordare come accade per la festa della donna, ma solo per il piacere di festeggiare e celebrare l’uomo. Ma ad essere celebrati, più che gli uomini in quanto tali, sono i loro genitali! Ogni anno, infatti, a Monteprato di Nimis accorrono migliaia di visitatori, soprattutto coppie. In occasione della Festa degli Uomini è tradizione ricevere la benedizione per un anno ricco di fertilità. Per questo, come detto in precedenza, ad essere celebrati sono soprattutto i genitali maschili e il loro ‘corretto funzionamento’. Tant’è che durante la festa sfila per le vie cittadine un’enorme statua in legno rappresentante l’organo sessuale maschile. Tutto ciò può sembrare assurdo o strano, ma migliaia di visitatori prendono parte ogni anno a questa ricorrenza per celebrare l’uomo. La statua portata in “processione” è realizzata a mano e l’usanza vuole che le donne la tocchino come buon augurio per la loro fertilità. Dunque un modo completamente diverso per festeggiare l’uomo rispetto alla donna ma che nelle zone limitrofe sta prendendo sempre più piede. E chissà che tra qualche anno non diventi una vera e propria “festa istituzionale” come avviene per l’8 marzo. Ma se alle donne viene regalata la mimosa, cosa potrà mai essere regalato agli uomini?

Il 2 Agosto. Tutti conoscono la Festa della Donna, ma in pochi sanno che il 2 agosto è la Festa degli Uomini, ricca di curiosità, scrive su "Velvetmag.it" il 2 agosto 2017 Olga Caputo. La Festa della Donna è l’8 marzo e tutti conoscono i motivi perché si celebra per una giornata intera il sesso femminile, ma anche gli uomini hanno un giorno dedicato a loro. Il 2 agosto è la Festa degli Uomini, ma non tutti lo sanno. Questa giornata che ancora non ha il successo che merita, dagli anni Settanta viene presa molto seriamente a Monteprato di Nimis, in provincia di Udine. Ogni anno, da quarant’anni nelle zone alpine tra il 1 e il 2 agosto, Monteprato celebra tutti gli uomini. Il regista Gabo Antonutti, per festeggiare il quarantennale della Festa, ha realizzato un trailer che porta tutta la ricorrenza nell’iperspazio di Star Wars. Questa ricorrenza ha origini napoleoniche e nasce da un evento bizzarro accaduto proprio in quell’epoca. Quando i soldati delle ultime file erano obbligati a indossare delle calzamaglie molto strette che lasciavano poco all’immaginazione e per rispettare l’uniforme dovevano spostare entrambi i testicoli a sinistra. Proprio da questa imposizione militare nasce il detto: “Les deux à gauche”, ovvero "due a sinistra". Come spesso è già accaduto per altri modi di dire, con il passaparola la frase è stata cambiata: “Deux de août”, letteralmente vuol dire "due di agosto". Quindi non c’è un motivo vero e proprio o un singolo avvenimento da ricordare, ma è solo una giornata dedicata all’uomo. A Monteprato di Nimis, la tradizione vuole che vengano celebrati i genitali maschili e non l’uomo come persona. Il 2 agosto, per le vie cittadine, sfila una grande statua in legno che riproduce l’organo maschile. Durante la sfilata le donne possono, anzi, devono partecipare e toccare la statua come segno di buon augurio di un anno ricco di fertilità.

Festa del Papà 2018. Data, storia e curiosità. Il 19 marzo si festeggiano tutti i papà. Ecco le origini di questa tradizione, con tutte le usanze più curiose in Italia e nel mondo, scrive il 16 marzo 2018 "Quotidiano.net". Anche nel 2018, il 19 marzo in Italia si celebra la festa del papà. Una giornata che, specularmente alla festa della mamma, è dedicata alla figura paterna. Sebbene anche altri Paesi come Spagna e Portogallo festeggino il 'babbo' - detto alla toscana - nel nostro stesso giorno, in molte parti del mondo le cose non stanno così. Infatti nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Francia sono soliti celebrare la festa del papà la terza domenica di giugno mentre altrove le date e i significati sono ancora differenti. Ma da dove arriva la tradizione di festeggiare la figura del padre? E perché esistono date differenti in cui festeggiarla?

LE ORIGINI RELIGIOSE - I più attenti avranno notato che i Paesi nei quali la festa del papà cade il 19 marzo hanno tutti una caratteristica comune, ovvero una storia fortemente influenzata dalla religione cattolica. Nel calendario della Chiesa infatti, il 19 marzo si festeggia San Giuseppe, padre adottivo di Gesù e simbolo della figura paterna. Da un punto di vista storico, il culto di San Giuseppe era diffuso già dal Medioevo ai tempi del Sacro romano impero d'oriente, anche se i primi a diffonderlo furono alcuni monaci come i benedettini nel 1030, i Servi di Maria nel 1324 e i Francescani dal 1399. Come per altre feste, in Italia la festa del papà non ha più un significato prevalentemente religioso e nel 1977 è stata rimossa dal calendario delle festività civili.  

LA FESTA MODERNA - La festa del papà come la conosciamo oggi (father's day nei Paesi anglosassoni) è invece decisamente più 'giovane' e ha origine nei primi del Novecento. Anche se c'è incertezza su quale sia stata la prima celebrazione moderna, quello che si sa è che la prima a diffondere ufficialmente l'usanza fu una ragazza americana di 26 anni, di nome Sonora Smart Dodd. La giovane, forse ispirata da un sermone ascoltato in occasione della festa della mamma nel 1909, organizzò il 19 giugno dell'anno seguente una festa in onore dei padri. La data non fu casuale, visto che la Dodd la scelse per festeggiare suo padre, un veterano della guerra di secessione americana di nome William Jackson Smith. Fu così festeggiata a Spokane, nello Stato di Washington, la prima festa del papà in chiave moderna e non religiosa, proclamata festa nazionale nel 1966 dal presidente Lyndon Johnson e festeggiata per consuetudine la terza domenica di giugno.

CURIOSITA' DAL MONDO - In varie parti del mondo la festa del papà assume significati diversi, e piuttosto curiosi: In Thailandia, ad esempio, la festa del papà coincide con il compleanno di re Rama IX, considerato il padre della nazione mentre in Russia si celebrano invece gli uomini nel loro ruolo di 'difensori della patria'. In Danimarca la festa del papà coincide con il giorno dedicato alla Costituzione, il 5 giugno mentre in Germania cade nel giorno dell'Ascensione e, come spesso accade con le festività teutoniche, si conclude con grandi bevute. A Taiwan invece, la festa del papà si festeggia l'8 agosto, e non poteva essere che così vista l'assonanza tra la data 8/8 e la parola papà (entrambe si pronunciano bà bà).

19 marzo, festa del papà (ma va bene anche babbo), scrive il 19 marzo 2018 Chiara Pizzimenti su "Vanity fair". Si festeggia San Giuseppe e con lui tutti i padri. La data è quella dei paesi cattolici. Altrove si celebra in giugno. Ma forse non tutti sanno che la parola papà si usa solo dalla fine dell'Ottocento. «Padre è la voce vera e nobile. Babbo è voce da fanciulli. Papà è una leziosaggine francese che suona nelle bocche di quegli sciocchi, i quali si pensano di mostrarsi più compiti scimmiottando gli stranieri». Non era tenero l’aggiornamento del Vocabolario dei sinonimi della lingua italiana di Pietro Fanfani del 1865 con il termine papà. Quella leziosaggine francese è diventata usuale nella lingua italiana tanto che oggi si festeggia la festa del papà non quella del babbo, anche se ovviamente la festa vale che voi scegliate una o l’altra dicitura. Il primo termine, babbo, non si utilizza solo in Toscana, ma anche in Emilia-Romagna, in Umbria, nelle Marche e in Sardegna. Vale come papà, anzi è una forma autoctona, locale, mentre quella con la p è un francesismo, anche se antico come ricorda l’accademia della Crusca. Nel vocabolario ottocentesco non c’era papà. Padre era il termine nobile, babbo quello affettuoso dei bambini. Nel Novecento si inverte la tendenza: il papà prende il sopravvento e babbo diventa un regionalismo. Oggi è festa per tutti. L’idea è del secolo scorso quando si è voluto riconoscere il ruolo del padre come della madre e a comunicare con i propri padri.

LA PRIMA FESTA DEL PAPÀ. La festa si è aggiunta a quella già esistente della mamma all’inizio del 1900. Le origini sembrano documentate negli Stati Uniti. Il 19 luglio 1910 il governatore dello Stato di Washington proclamò il primo «Father’s Day» della nazione. Sonora Smart Dood, ispirata probabilmente da un sermone sentito alla festa della mamma dell’anno precedente, dedicò la festa al veterano di guerra William Jackson Smith, simbolo della figura paterna. Ancora prima, nel 1908, la causa della festa del papà era stata sostenuta da una chiesa della Virginia con un sermone in memoria di 362 uomini morti nel crollo di una miniera. Nel 1909 una donna cresciuta, insieme ai cinque fratelli, da un vedovo aveva già cercato di creare la ricorrenza.

FESTA LAICA O RELIGIOSA? «Solennità di San Giuseppe, sposo della beata Vergine Maria: uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, fece da padre al Figlio di Dio Gesù Cristo, che volle essere chiamato figlio di Giuseppe ed essergli sottomesso come un figlio al padre. La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto dal Signore a custodia della sua famiglia». Il Martirologio Romano, il libro che raccoglie il calendario liturgico e le feste religiose, e questo si legge per il 19 marzo. Da noi è la festa del papà, una festa laica che in altri paesi si festeggia la terza domenica di giugno.

DA NOI IL 19 MARZO. Come in altri paesi di tradizione cattolica in Italia si è scelto il giorno di San Giuseppe, marito di Maria, l’uomo che crebbe Gesù, esempio di padre e marito modello, come data per la ricorrenza. San Giuseppe, secondo la tradizione, protegge anche gli orfani e le giovani nubili. Nella festività è tradizione in Sicilia invitare i poveri a pranzo. In zone diverse si fa coincidere questa ricorrenza con la fine dell’inverno. Fra i primi a festeggiare il santo in questa data ci sono stati i monaci benedettini nel 1030, i Servi di Maria nel 1324 e i francescani a partire dal 1399.

DOLCE PAPÀ. Anche il dolce tipico della festa, la zeppola, raccoglie una tradizione biblica. L’origine è nella storia della fuga in Egitto. Per mantenere la famiglia in quel periodo Giuseppe dovette vendere frittelle.

LE ALTRE DATE. La festa del papà è la terza domenica di giugno in molti paesi nel mondo, a partire dagli Usa. Estiva è la data di istituzione negli Stati Uniti e per questo è rimasta in giugno anche quando il presidente Lyndon Johnson l’ha proclamata festa nazionale nel 1966. In Russia è il 23 febbraio e i padri sono ricordati come difensori della patria. In Corea del Sud l’8 maggio è il giorno dei genitori. In Danimarca è il 5 giugno, giorno dedicato alla Costituzione. In Germania si festeggia nel giorno dell’Ascensione, 40 giorni dopo la Pasqua. Si chiama Männertag o Herrentag, giorno degli uomini. Molti paesi festeggiano in estate, ma si arriva fino a dicembre, il 5, in Thailandia, dove la festa coincide con il compleanno del defunto sovrano Rama IX, padre della nazione.

Sgarbi sulla festa del papà: "Tempi duri per i padri. Sono tutti madri". Alcune scuole hanno impedito ai bambini di delebrare questa festa. Migliaia di famiglie e alcuni personaggi pubblici hanno dato la loro opinione, scrive Anna Rossi, Sabato 19/03/2016, su "Il Giornale". La festa del papà è stata al centro di discussioni per diversi giorni, oggi, non poteva mancare il commento del critico d'arte Vittorio Sgarbi. La festa del papà o del "babbo" viene celebrata in tutto il mondo. I Paesi cattolici la festeggiano oggi perché è San Giuseppe (Giuseppe è il padre putativo di Gesù Cristo ndr). Ma negli ultimi giorni, a seguito della legge delle unioni civili, molte scuole si sono rifiutate di ricordare ai bambini la festività per evitare discriminazioni nei confronti di quei figli che hanno o due padri o due madri. Ma questa decisione ha fatto insorgere famiglie e personaggi pubblici che non possono accettare "la morte di questa festività". Vittorio Sgarbi, per esempio, ha scritto sul suo profilo Facebook alcune righe: "Tempi duri per i padri. Oggi sono tutti madri. E presto saremo figli di una sega". Con poche parole, che fanno trapelare un lieve sarcasmo, il critico d'arte ha riassunto il pensiero della maggior parte degli italiani. Il post, infatti, è stato condiviso in poco tempo da migliaia di persone.

Non solo feste: rivalutiamo i papà. È fondamentale affermare con forza le qualità positive dell'essere maschio, scrive Barbara Benedettelli, Lunedì 19/03/2018, su "Il Giornale". In un'epoca in cui si assiste a un tentativo di svuotamento del ruolo maschile nella società, la festa del papà non può limitarsi agli auguri. In un momento storico nel quale l'uomo è attaccato su ogni fronte in quanto tale, è fondamentale affermare con forza le qualità positive dell'essere maschio. Ma anche denunciare le derive e le discriminazioni (ritenute positive senza esserlo sempre) alle quali stiamo assistendo negli ultimi tempi. L'esplosione dei divorzi, per esempio, che da 29mila del 1971 sono passati a oltre 80mila - in aumento dopo l'introduzione del divorzio breve nel 2014 -, ha condotto al collasso non solo la famiglia come simbolo positivo e perno sociale, ma anche la figura del padre. Considerato una figura di serie B perfino dalla legge, a volte è ridotto a mero oggetto. A una sorta di bancomat obbligato a emettere contanti, senza però contare nella vita affettiva e nella crescita interiore dei figli. Non colui che li sostiene anche economicamente mantenendo un ruolo centrale nella loro vita, ma colui che da quella vita deve essere «espulso» a ogni costo perché, in quanto padre, ritenuto sostanzialmente inferiore. A meno che non si faccia «mammo». Ma i figli hanno bisogno del padre, e non del padre/padrone autoritario e violento, che è bene contrastare, o dell'eroe invincibile e perfetto. Per dirla con lo psicanalista Massimo Recalcati, hanno bisogno del padre/testimone, che con i suoi atti, con la testimonianza della sua vita, è lui stesso speranza da infondere ai figli. È portatore di senso e di avvenire attraverso il senso che sa dare alla sua vita - dunque alla loro - nonostante la fatica e la fragilità dovuta alla condizione precaria di ognuno nella società liquida. E allora ecco Franco Antonello, padre del 24enne Andrea colpito da una forma di autismo. Nel 2005 ha lasciato la sua azienda per costituire la Fondazione I Bambini delle Fate: tra business e sociale finanzia una cinquantina di progetti per i ragazzi disabili e le loro famiglie. Poi ci sono quei padri che escono al mattino e tornano la sera, fanno lavori non sempre appaganti che a volte logorano il fisico altre la mente, ma che permettono loro di dare alle loro famiglie quei beni materiali necessari per una vita dignitosa. E ci sono quelli che hanno un lavoro precario, che ne fanno più di uno, che a volte cadono in mille pezzi, ma sono pronti a rialzarsi con responsabilità capaci di trovare gioia nelle piccole cose, come la manina dei loro figli che si posa sulla loro. Ci sono quelli che se la moglie lavora sono felici di aiutarla e quelli che vivono l'ansia e la paura che la nascita di una nuova vita comporta. Poi ci sono padri che la perdono la vita, come Angelo Ferraioli, l'odontotecnico 51enne morto nel 2017 a Santa Maria di Castellabate per salvare la figlia dalle onde. Ancora oggi uomini che si comportano in modo sbagliato ci sono. Però la Festa del papà serva anche a riconoscere quel lato della medaglia ossessivamente rinchiusa nell'oblio mediatico e culturale.

Il padre è morto, ed è stato sostituito da un’idea totalitaria. Dalle ceneri del Padre, centro dell’ordine sociale, non nasce l’Ordine nuovo dell’umanità liberata. Intravediamo, invece, la fine della stessa società che volevamo liberare, scrive il 19 Marzo 2018 “L’Inkiesta”. Buona festa del papà a tutti noi! Perché questa festa rischia di essere solo un necrologio, un requiem per una figura che non c’è più. Padre-padrone e patriarca, eletto a nemico pubblico numero 3 dalla sinistra sessantottina, subito dopo il Capitalismo e il Neoliberismo (le maiuscole sono d’obbligo), il Padre non gode di ottima salute. Epitome dei privilegi che nella società tradizionale spettavano al maschio, perché ci si dimentica dei doveri che invece facevano premio sui diritti, frana di fronte agli ukase del femminismo e del radicalismo della “vera sinistra”. Quella “vera sinistra”, evocata al Teatro Brancaccio o ai girotondi come in una seduta spiritica e che immancabilmente perde le elezioni. Quella sinistra che, nella sua marcia verso il Sol dell’Avvenir, distrugge i simboli del passato come i talebani con buddha di bamiyan. La sinistra tafazziana, incurante della disaffezione delle masse che, nella “società del rischio” e delle “identità liquide”, cercano invece le certezze granitiche di un papà vecchio stampo. Ma si sa che l’ossessione del giacobinismo che anima pezzi di femminismo e sinistra è “rieducare”, per costruire l’Ordine nuovo. Così, siamo passati dalle teorie di Alexander Mitscherlich che, in “Verso una società senza padri”, puntava a eliminare i padri per disintegrare la società patriarcale e il Capitalismo al metrosexual della cultura Glamour, non più maschi ma umanità gender-neutral che passa il tempo a depilarsi e a rifarsi le sopracciglia ad ali di gabbiano. La società senza padre degli eterni figli. La società senza doveri, ma dei diritti. Ironia della sorte: dalle ceneri del Padre, centro dell’ordine sociale, non nasce l’Ordine nuovo dell’umanità liberata. Intravediamo, invece, la fine della stessa società che volevamo liberare. La morte del Padre è anche morte del maschio, terrorizzato dalla sua stessa ombra, incapace di invitare una donna a cena, figurarsi proporle di farsi una famiglia. La campagna #MeeToo qualifica come molestie maschiliste anche una carezza su di una gamba femminile nel corso di un invito galante. L’eterosessualità oramai è un rischio. Nel tramonto della virilità, si consuma la crisi demografica dell’Occidente che alimenta le paure agitate dagli spettri conservatori che prendono la forma delle teorie della “grande sostituzione” demografica. Le teorie di Renaud Camus per le quali i migranti servono per ripopolare un’Europa sterile. E, per quanto tali teorie risentano della vecchia ossessione complottista della destra radicale, il tema della flessione demografica dell’Occidente c’è. Insomma, per spezzare l'autoritarismo, abbiamo spazzato via il principio di autorità e, dunque, il padre. Invece di spezzare le catene del Capitalismo abbiamo spazzato via gli unici freni che ne inibivano il suo trionfo incontrollato: i freni morali del Padre. Di cui oggi celebriamo solo il ricordo. Paghiamo evidentemente il conto di una serie di battaglie culturali che, benché all’origine giuste, si sono trasformate in una ossessione totalitaria che, dopo aver distrutto il mondo com’era, non sono state capaci di indicare “un altro mondo possibile”. L’inno tedesco non va bene perché c’è l’espressione “terra dei padri”; la scrittrice Michela Murgia propone di sostituire “patria” con “matria” per cancellare tutti i riferimenti all’obbrobriosa cultura patriarcale che essa esprime - dimentica che l’italiano già aveva trovato la giusta sintesi in “madre patria” -, la delegittimazione del maschio-padre è completa. Essere maschi veterosexual e padri comincia ad avere un costo sociale improponibile, accusati di sessismo, molestie e fascismo: molto meglio godersi la vita con leggerezza, sembra suggerire la sinistra degli aperitivi. “La società si regge sul no del padre”, scriveva il filosofo Michel Foucault, ma al papà-amico è proibito perfino dare un ceffone al figlio, nei cui riguardi invece persiste l’obbligo di mantenerlo, corrispondendogli tutti i feticci consumistici che la società impone: merci griffate, smartphone costosissimi, cibo bio. Il superio - la voce del padre che per la psicanalisi è dentro di noi, imponendoci l’ordine morale a scapito delle pulsioni libidiche -, è stato distrutto. Ma prevale solo l’Es - lo sfrenato desiderio asociale e senza limiti -, l’Io, che per Freud doveva mediare fra essere e dover essere, non ci riesce più. Ma la nemesi incombe: proprio Capitalismo e Neoliberismo si giovano della morte del padre. Perché il feticismo delle merci, come lo chiamava Marx, cioè il consumismo, si basa proprio sulla possibilità di soddisfare tutti i bisogni indotti che ci vengono inoculati, senza che la fastidiosa voce del Padre e del dover essere ci imponga limiti o dubbi. Insomma, per spezzare l'autoritarismo, abbiamo spazzato via il principio di autorità e, dunque, il padre. Invece di spezzare le catene del Capitalismo abbiamo spazzato via gli unici freni che ne inibivano il suo trionfo incontrollato: i freni morali del Padre. Di cui oggi celebriamo solo il ricordo.

Il padre sparito. Nella festa del papà, una riflessione dello psicoterapeuta Ferliga sull'importanza di riscoprire la figura paterna, scrive Federica Cenci lunedì 19 marzo 2018 su "In Terris". Oggi è festa per i papà. A loro sono dedicati bigliettini d’auguri, dolci e regali, proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la figura di San Giuseppe. Quest’ultimo è stato padre (putativo), e in quanto tale guida della sua (sacra) famiglia in una fase delicata e preziosa. Quel ruolo di padre come guida che ha in San Giuseppe il modello, sembra però eclissarsi sotto l’influsso di una cultura che esalta il neutro e demolisce l’identità, che foraggia il permissivismo e nega l’autorità, che promuove l’individualismo contro la famiglia. Sull’importanza di riscoprire il ruolo che compete al padre e sulle conseguenze devastanti di una società senza padre, In Terris ne ha parlato con Paolo Ferliga, psicoterapeuta, scrittore e docente al liceo di Filosofia e Storia. È il fondatore di “Campo Maschile”, che - si legge sul suo sito - “si propone come luogo, fisico e simbolico, di ricerca-azione sull’identità maschile”.

Dott. Ferliga, che vuoto lascia nella società l’assenza paterna?

“Terribile. È un vuoto che si presenta spesso nei sogni dei miei pazienti o nei racconti dei miei alunni. Secondo alcune ricerche come quelle di Robert Bly, negli Stati Uniti la maggior parte dei giovani che commettono crimini sono fatherless, ossia non hanno un padre o ne hanno uno negligente. Ciò impedisce lo strutturarsi della psiche umana in una norma etica: il padre, del resto, è il primo modello su cui costruire una legge interiore. E l’assenza del padre ha gravi ripercussioni sociali, perché il diritto non può supplire l’etica”.

Quando ha inizio il declino della figura del padre nella società occidentale?

“La crisi del padre ha radici antiche. Già la nascita della scuola - che naturalmente è un’istituzione molto importante - ha incrinato il rapporto familiare, perché ha tolto al padre la funzione primaria di insegnamento nei confronti del figlio. C’è stato poi l’avvento della società moderna: quando il padre entra in fabbrica, si allontana fisicamente e per gran parte della giornata dai figli. Per non parlare delle guerre mondiali, che hanno costretto un’intera generazione a rimanere separata per lunghi periodi dai padri”.

E l’avvento del ’68, con la sua critica a una società definita “patriarcale”?

“La contestazione del ‘68 nei confronti del padre cela, tuttavia, una sorta di richiesta di aiuto nei confronti del padre da parte di figli disorientati dalla mancanza di etica. Dal movimento giovanile si è levata una domanda: “Papà, ci sei?”. Purtroppo i padri di allora, già assorbiti dall’edonismo di massa, non hanno risposto. Questa mancanza ha provocato quindi delle degenerazioni, la critica verso l’autoritarismo si è trasformata in critica verso l’autorità ed è talvolta sfociata nel terrorismo, accelerando una crisi della figura paterna che, come dicevo, ha radici più antiche”.

Giorni fa, in occasione dell’8 marzo, si è assistito a cortei e slogan femministi. La recrudescenza del femminismo radicale mette in pericolo l'identità maschile e quindi la figura del padre?

“Il femminismo radicale coinvolge una piccola minoranza di donne. A parte questi episodi cui le fa riferimento, nel movimento femminista esistono realtà importanti che valorizzano la differenza di genere. Il problema però esiste, ma è da attribuire principalmente agli uomini stessi: sono loro che evidenziano spesso una debolezza psicologica, una subalternità che nella società dei consumi è sempre più lampante. Sembra che i maschi abbiano una certa timidezza nel riconoscere la propria identità sessuale. Invece, è opportuno che gli uomini rivalutino l’importanza della loro mascolinità. L’equilibrio nel rapporto tra uomini e donne, che insieme formano una famiglia, verte su identità ben precise, non sulla confusione della neutralità sessuale”.

Oltre all’assenza fisica, specie con la diffusione della tecnologia personale si va registrando un’assenza mentale, con padri e anche madri spesso piegati sui tablet e distratti rispetto ai propri figli…

“È molto grave. Internet, che è utile per ampliare le conoscenze, nasconde il rischio di trasferire il nostro pensiero in realtà virtuali impoverendo così le relazioni umane. Se già nei decenni passati, la tv accesa a tavola era considerata un elemento destabilizzante per i rapporti familiari, l’avvento di tablet e telefonini ha aggravato la situazione. Per questo è fondamentale considerare che le relazioni umane passano non solo dalla mente, ma anche dal corpo. Noi siamo eredi del cristianesimo, che si fonda su un Dio che si è fatto carne. Dunque dovremmo essere ancor più capaci di valorizzare questo elemento. I padri devono preoccuparsi di ridare al corpo valore come luogo di incontro con i propri figli: se durante la settimana un padre è spesso fuori casa per lavoro, ha il compito di ritagliarsi del tempo nel fine settimana per giocare con i suoi figli, specie con i maschi, per fare sport insieme, per passeggiare o correre in mezzo alla natura”.

Perché ritiene che sia importante soprattutto con i figli maschi?

“Perché il padre trasmette ai figli maschi un sapere di cui solo lui può essere depositario in famiglia, che è quello legato all’istinto maschile. Per le femmine è più evidente per via delle prime mestruazioni, ma nella pre-adolescenza si sviluppa anche nei maschi un’energia che è un fatto nuovo, avvengono cambiamenti importanti dal punto di vista fisico e psicologico: essi richiedono un accompagnamento, una vicinanza da parte del padre. Anche questo significa porre al centro il corpo”.

Diversi studi negli ultimi anni stanno sottolineando l’importanza della figura paterna. È in corso una rivalutazione del ruolo del padre?

“Guardi, io ho scritto la prima edizione del libro Il segno del padre nel 2005 proprio perché, da psicanalista, avevo scoperto che c’erano decine e decine di volumi dedicati al ruolo della madre e pochissimi sul padre. Negli ultimi anni è cambiato molto: è cresciuta la sensibilità sulla funzione paterna, ho modo di vedere anche padri più presenti e attenti. Il bisogno profondo della società nei confronti della figura del padre sta finalmente emergendo, nonostante esistano centri di potere che tendono a svilirla”.

A cosa fa riferimento?

“La figura del padre impone dei “no”, dei sacrifici, come dicevo prima è fondata su un’etica. La società dei consumi, al contrario, ha bisogno di individui disposti sempre a dire di “sì”, ad accettare ogni proposta che il mercato offre. Per questo il consumismo o la “Grande Madre”, per usare un termine della psicanalisi junghiana, ha interesse a sopprimere il padre e con lui ogni regola, così che l’unica regola divenga il mercato. Come diceva già Pasolini, il consumismo richiede l’omologazione degli individui e arriva persino a promuovere figure genitoriali neutre. È in questo senso che si inseriscono tutti quei tentativi subdoli di sostituire, ad esempio, i termini ‘padre’ e ‘madre’ con ‘genitore 1’ e ‘genitore 2’. Si tratta però di strategie perorate da elite ristrette. Credo che la natura profonda delle persone comuni spazzerà via certi tentativi: le figure del padre e della madre sopravvivranno nei secoli”.

Lei è fiducioso, anche se le biotecnologie fanno passi da gigante. Sempre più figli sono concepiti in provetta, senza avere padri né madri…

“È un dato preoccupante, è vero. Il figlio è il prodotto di un atto generativo, non un oggetto. C’è bisogno anche di una battaglia culturale: lavorando per la mia ultima pubblicazione, una ricerca sulla fecondazione eterologa, ho scoperto che due grandi centri che fanno procreazione assistita finanziano le riviste più importanti sul campo. E queste ultime - guarda caso - producono poi lavori dai quali emerge che non c'è alcun problema per un bambino ad essere fabbricato in laboratorio. Comunque è sempre l’uomo che può decidere i limiti della tecnica, frenarne un uso irresponsabile: è qui che torna l’importanza dell’etica, della figura del padre”.

La festa al papà, scrive il 19 marzo 2018 Marcello Adriano Mazzola, Avvocato, rappresentante istituzionale avvocatura, su "Il Fatto Quotidiano". Il titolo non è un refuso. Vorrei riflettere nel giorno della “festa del papà” (19 marzo), sull’importanza dei padri nella vita di tutti noi e sulle difficoltà che hanno molti di loro – in un periodo storico in cui aumenta a dismisura il numero di quelli consapevoli, presenti, partecipi e felici di occuparsi del percorso evolutivo dei figli – paradossalmente oggi, dopo la dissoluzione della “famiglia” (a causa dell’interruzione del vincolo tra l’uomo-padre e la donna-madre), nel mantenere tale precipuo ruolo. Mio padre in questi giorni avrebbe compiuto 83 anni. E’ scomparso pochi giorni fa. Conosco l’importanza del ruolo. Non intendo esondare dalla mia formazione e mi limiterò a ricordare quello che oramai è notorio anche a chi non si occupi di psicologia evolutiva, di psichiatria e di sociologia: il ruolo fondamentale dell’influenza della figura paterna durante tre periodi di vita, quali la fase pre-edipica, edipica e adolescenziale. Invero “se a lungo il ruolo paterno, all’interno della cornice familiare, è stato identificato come ‘dispensatore di sostegno economico’ (capitale finanziario), oggi è sempre più valorizzato il suo contributo nei termini di ‘capitale sociale’/umano.” (“Una riflessione pedagogica sui padri, il loro ruolo educativo, la loro presenza nei servizi per l’infanzia”, Silvia Cescato, in Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education 12, 2, 2017). E ancora: “La specificità che la figura maschile riveste nelle sue modalità di cura, comunicazione, interazione, sostiene e orienta la separazione del bambino dalla madre, contribuendo ad allargare la relazione duale madre-figlio e facendo in modo che la separazione non sia vissuta come distacco/privazione, abbandono e vuoto (Fruggeri, 2002, p. 115), quanto piuttosto come un momento ‘naturale’ di passaggio, di transizione a nuove interazioni (padre-figlio, madre-padre-figlio, altre figure extra-familiari). Gli studi ‘depongono per il fatto che il padre è estremamente importante già dai primi anni di vita‘ (Baldoni, 2005, p. 94) […] Un numero consistente di studi negli ultimi anni ‘ha evidenziato l’importanza che il rapporto con il padre ha per lo sviluppo infantile, la cui influenza, specie nella prima infanzia, è stata sottovalutata’ (Di Folco & Zavattini, 2014, p. 159)” (Cescato, cit.). Dunque chi vuole rimuovere la figura del padre dalla vita di un figlio (e anche chi vuole rimuovere la figura di una madre) attenta non solo allo sviluppo sereno ed equilibrato del figlio ma tende a demolire la vita e l’esistenza del padre, oltre che a rimuovere tutto ciò che è paterno (dunque nonni, zii, cugini etc.). La rimozione (psicologica, con uno spettro infinito di condotte malevoli che supera ogni fantasia) di un genitore è una condotta che nasce con l’evoluzione stessa dell’uomo. Nella notte dei tempi. Non è un’invenzione moderna. Ora si osserva più spesso e si nota che investe migliaia e migliaia di genitori, ogni anno. La casistica c’insegna che coinvolge circa il 70/80% dei padri. Probabilmente non è una questione di genere/sesso ma coinvolge (agevolandone tale condotta) il genitore al quale è di fatto affidato in modo prevalente, dominante, il figlio. Le Corti di giustizia italiane hanno infatti creato il genitore cosiddetto collocatario (al contrario della ratio legis ex l. 54/2006 sull’affidamento condiviso), così contrapponendolo fortemente al genitore non collocatario, che diviene di serie B. Il genitore al quale vengono concesse le ore d’aria a weekend alternati e poco altro. Il genitore di serie B è così destinato a perdere il suo ruolo verso il figlio, non potendo di fatto crescerlo. Il fenomeno di allontanamento si può dunque manifestare in modo virulento come alienazione genitoriale, che molti ancora non hanno compreso (o ancor peggio, non vogliono comprendere) essere la condotta (di rimozione, demolizione, denigrazione, annientamento dell’altro genitore), e non la patologia (Pas, Parental Alienation Syndrome, che peraltro – sfatiamo questa fake news – non è assolutamente vero che non compaia nel Dsm-v – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, pubblicato in Italia nel 2014 – nel quale difatti sono riportati esattamente tutti i suoi tratti sintomatici). L’alienazione è un fatto, la Pas è una patologia. L’alienazione è un abuso dell’infanzia (o dell’adolescenza). La Pas è la conseguenza, è la patologia che nei casi più gravi può anche insorgere. L’alienazione è lo squarcio. La Pas è l’infezione che può manifestarsi e perdurare. Sono distinti. Non si può negare la valenza a un fatto se vi è evidenza che accada o sia accaduto. E spesso tale evidenza c’è e compare anche nelle consulenze tecniche. Ma poi vengono ignorate dai Tribunali che decidono di lasciar trascorrere il tempo, lasciando collocato il figlio dal genitore alienante. Ed è come lasciare la vittima al suo aguzzino. Si alimenta l’alienazione, invece di contrastarla. Ma il modo ideale per disinnescare tutto ciò sarebbe l’introduzione di un reato specifico. E l’auspicio è che il legislatore lo faccia subito, perché è un’urgenza che coinvolge un numero enorme di persone e di vite.

Chi sono i papà che il 19 marzo non fanno nessuna festa. Lunedì - festività di San Giuseppe - si svolgerà a Taranto un sit-in davanti al tribunale civile organizzata dai padri separati.  “La figura genitoriale del padre vale il 20% contro l’80% di quella della madre”, scrive il 19 marzo 2018 Agi. Lunedì 19 marzo 4 milioni di padri separati trascorreranno un’altra festa del papà, in cui non ci sarà spazio per cioccolatini e bigliettini: per loro - ma solo per chi riuscirà a ottenerlo - il regalo più grande sarà quello di trascorrere la giornata insieme al proprio figlio. Sono i papà che ogni giorno, per anni, lottano in Aula e fuori dai tribunali contro le ex mogli e compagne - ma anche contro un sistema burocratico lento e contorto - per non essere tagliati fuori dalla vita dei propri figli.

In strada a Taranto “nel nome dei figli” e dei papà. Ed è per loro, ma non solo, che lunedì l’associazione “Nel nome dei figli” scenderà per la prima volta in strada a Taranto per un sit-in davanti al Tribunale civile. “Vogliamo far capire a chi siede ai piani più alti che attualmente la legge non è uguale per tutti e che in queste battaglie le prime vittime sono i bambini che non hanno voce. Eppure se ci mettessimo dalla loro parte sarebbe tutto più facile”, spiega all’Agi Andrea Balsamo, uno degli organizzatori dell’evento insieme a Vito Ditaranto, entrambi presidenti dell’associazione. “Bisognerebbe riformare il diritto di famiglia, creare un tribunale specifico il cui scopo sarebbe quello di conciliare per il bene dei bambini. O semplicemente far rispettare le leggi”, continua Balsamo che denuncia una generale discriminazione in tribunale nei confronti dei papà. “La figura genitoriale del padre vale il 20% contro l’80% di quella della madre”. Tuttavia, “la nostra associazione vuole dare voce non solo ai 4 milioni di papà, ma anche ai 4 milioni di mamme e ai 32 milioni di persone tra genitori, nonni, zii, fratelli, che ruotano intorno a queste situazioni complesse e che soffrono. Un messaggio che a giudicare dal numero di donne che hanno aderito alla manifestazione di lunedì è stato ben recepito”. Le lotte tra poveri - aggiunge Balsamo - non mi sono piaciute. Ogni padre (o madre) farebbe qualsiasi cosa pur di trascorrere del tempo con i propri figli. E pagherebbe qualsiasi prezzo. Questo è uno dei motivi per cui le battaglie durano anni, avanzano a colpi di denunce e di sgarri, perdendo di vista l’obiettivo principale: il bene del bambino”. Intorno alle cause per l’affido, spiega l’organizzatore, “c’è un giro di affari che vale 5 miliardi, tra legali, periti, marche da bollo e tutto il resto. Gli stessi avvocati - non tutti, ovviamente, ma una buona parte - si mostrano del tutto interessati a fomentare il disaccordo tra i due genitori”. Cosa dovrebbe cambiare?

“Le leggi esistono, che vengano rispettate”. L’ultima riforma del diritto di famiglia risale agli anni ’80. Quanto alla “Legge 54 sull'affidamento condiviso” del 2006 “avrebbe potuto risolvere il problema, ma così non è stato”.  Di fatto “il bambino continua a vivere con la mamma e il papà a vederlo solo poche ore. Questo non vuol dire ‘affido condiviso’. È vero che la legge obbliga entrambi i genitori a trovare un accordo sulle decisioni che riguardano il piccolo, ma per il resto tutto funziona come prima. Nella maggior parte dei casi, il bimbo vive con la mamma che risulta essere quasi sempre il ‘genitore collocatario’”. Nel resto dell’Europa - continua Balsamo - il bambino vive metà del tempo con uno e metà con l’altro (per chi lo desidera, ovviamente). “L’Italia continua a rappresentare un’eccezione e a pagare una multa di decine di milioni di euro ogni anno comminata dalla Corte di Giustizia europea per il mancato rispetto della legge 54”. Il problema, precisa poi l’organizzatore, “non è la mancanza di legge: ce ne sono anche troppe, il problema è che non vengono fatte rispettare”.

Storia di Marco e Davide. Tra i papà guerrieri c’è anche Marco (nome di fantasia, come gli altri della vicenda). Per lui l’incubo inizia nel 2010, pochi mesi dopo la nascita di suo figlio Davide. Marco è nato e vive al Nord, nel 2001 sul posto di lavoro conosce Valeria, una collega separata e con una bambina; i due si innamorano e lui, per il bene di quella famiglia che vuole costruire, convince la compagna a trasferirsi al Sud dove vive il papà della piccola. Valeria e sua figlia fanno le valigie e iniziano una nuova vita, Marco le raggiunge nei fine settimana appena può. Nel 2009 nasce Davide, il figlio della coppia. L’anno successivo Marco riesce a ottenere il trasferimento, ma dopo pochi mesi l’idillio svanisce. La convivenza dura pochissimo e nel giro di qualche settimana Marco si ritrova fuori casa. Peggio: nei primi sei mesi di vita del bambino riesce a vedere suo figlio solo per due ore a settimana. Così l’uomo decide di rivolgersi a un avvocato che proverà più volte a raggiungere un accordo con Valeria senza passare per i tribunali. “Si trattava di accordarci sui giorni in cui potevo vedere mio figlio e sulla somma del mantenimento. Ma lei non ha voluto saperne. Aveva già deciso di dichiararmi guerra”, racconta all’Agi Marco, che vuole restare anonimo. Nei successivi tre anni Valeria cambierà 15 avvocati e arriverà ad accusare Marco di essere un alcolista. “Per fortuna sono un donatore di sangue e questo mi ha aiutato a smantellare velocemente l’accusa”. Storie come queste “sono all’ordine del giorno”, commenta l’uomo. Nel 2011 arriva l’ordinanza che riconosce a Marco il diritto di vedere suo figlio tre volte a settima pur non potendo ancora dormire con lui. “A quel punto Valeria inizia a terrorizzare il bambino innescando la classica “sindrome da alienazione genitoriale” che si manifesta con i tentativi da parte di uno dei due genitori di allontanare l’altro attraverso frasi tipiche rivolte al minore come “papa è cattivo”, “mi ha fatto male”, “se vai con papà io piango”. La mia non è un’interpretazione: lo hanno stabilito i giudici che hanno disposto una Ctu da cui Valeria è uscita devastata. Ed era evidente anche osservando il bambino che era restio quando andavo a prenderlo a casa loro, mentre all’asilo mi correva incontro”. Poco dopo la situazione degenera. Nell’estate del 2012 Marco passa a prendere suo figlio per una vacanza a due, Valeria si innervosisce, tra i due scoppia una discussione e lei inizia a picchiarlo. “Mi hanno dato 22 giorni di prognosi. Ma la cosa che più mi dispiace è che è successo davanti al bambino”. A quel punto Marco denuncia l’ex compagna. Il tribunale sospende la podestà genitoriale della donna per 4 mesi, e da allora Marco vede Davide con regolarità. “Questo dimostra che se la giustizia interviene nel modo giusto, le cose cambiano”, commenta l’uomo. “A breve sono in attesa di giudizio per l’aggressione, ma parto dal presupposto che lei verrà assolta. L’avessi fatto io sarei stato in carcere da allora”. Per combattere la battaglia più importante della sua vita, Marco ha speso finora 50mila euro. “Non ne faccio una questione di soldi, ma non è normale, indica che qualcosa non va in questo sistema. Senza contare che non tutti possono permetterselo”.

DONNE: COMPETENZA NON DESINENZA…

Casellati e la discontinuità con la Boldrini: «Chiamatemi presidente, non presidentessa». La neo presidente del Senato dedica il suo primo giorno a tutte le donne, scrive martedì 27 marzo 2018 "Diario del web". «Come prima donna in questa carica ho dedicato la giornata di sabato a tutte le donne, perché sappiamo che ancora ci sono disuguaglianze e moltissime difficoltà soprattutto per coniugare casa e lavoro. Il fatto che io abbia potuto raggiungere questa vetta così alta è un auspicio per tutte le donne perché noi ce la possiamo fare». Lo ha detto la neo presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, nel corso di un incontro istituzionale al comune di Padova. «È inutile dire che sono emozionata perché questo riconoscimento attribuito è una cosa grande, stamattina mi sono alzata e mi sono chiesta se avevo sognato perché questa è davvero la realizzazione di un sogno", ha detto Casellati, che ha voluto segnare subito la discontinuità con la donna che l'ha preceduta nella presidenza di una delle due Camere, chiedendo ufficialmente di essere chiamata presidente e non presidentessa. «Il mio è un incarico denso di grandi responsabilità - ha continuato - il momento che vive il nostro paese è molto difficile ma sono ottimista perché la grande condivisione che c'è stata attorno al mio nome e alla mia candidatura può essere un viatico per questa nuovo legislatura. E questo è il mio più grande augurio», ha concluso.  «Ho trascorso il primo giorno da presidente del Senato in famiglia e quindi in maniera privata, il secondo giorno nella mia seconda casa cioè a Padova. Aver vissuto qui a Padova anche il mio percorso politico e aver maturato qui le mie esperienza mi porterà ad avere con la mia città e il mio Veneto un rapporto 'privilegiato'» ha detto. «Io per voi ci sarò sempre, questa è la mia promessa e io le promesse le voglio sempre onorare - ha continuato - sarò sempre con voi, vicino a voi, e quando sarò a Roma ci sarà sempre una sorta di ponte ideale».

E i grillini votarono la nemica numero uno di Travaglio e Caselli. Chi è Maria Elisabetta Alberti Casellati, la nuova presidente del Senato…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio". L’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato passerà quasi certamente agli annali per le critiche dei media e non, invece, per essere stata la prima donna nella storia della Repubblica a raggiungere lo scranno più alto di Palazzo Madama. Il fuoco di sbarramento da parte degli organi d’informazione è iniziato subito: il presidente emerito Giorgio Napolitano non aveva ancora ultimato lo spoglio delle schede ed in rete viene diffuso un video del 2013 in cui, ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7, Alberti Casellati ebbe un confronto molto aspro con Marco Travaglio sui guai giudiziari di Silvio Berlusconi. L’ex premier, come si ricorderà, era in attesa che la Giunta per le elezioni e le immunità del Senato si esprimesse sulla retroattività della legge Severino. Travaglio, dopo un lungo botta e risposta sul caso “Mediatrade” che aveva portato alla condanna di Berlusconi, decise di abbandonare il collegamento. «Mi dispiace – disse il direttore del Fatto Quotidiano – ma chiudo qui. È impossibile restare, qui non si può interloquire. Ogni frase viene interrotta dalla puttanate che dice questa senatrice». Il video ha raggiunto subito le migliaia di condivisioni. Passano poche ore e, sempre dagli archivi del web, spunta fuori una vicenda ancora più risalente nel tempo. Era il 2005, Alberti Casellati ricopriva l’incarico di sottosegretario al Ministero della Salute quando la figlia venne assunta con un contratto a tempo determinato. Per la stampa è un esempio di “conflitto d’interesse”. Anzi, sempre secondo Travaglio, un comportamento da “quintessenza della casta”. Il carico da undici lo mette, però, La Repubblica ripescando una foto dell’11 marzo 2013 che immortala alcuni parlamentari del Pdl – fra cui Alberti Casellati – protestare sotto il Tribunale di Milano dopo la decisione dei giudici del processo “Ruby” di sottoporre Berlusconi ad una nuova visita fiscale. Una foto che, secondo il quotidiano di largo Fochetti, rappresenterebbe bene chi sia il neo presidente del Senato. Concetto ribadito in una lunga intervista ieri, sempre sul quotidiano romano, dall’ex procuratore di Torino Giancarlo Caselli, «dispiaciuto» per la nomina della senatrice azzurra. Il messaggio è chiaro: Alberti Casellati è la paladina delle «leggi ad personam», una «pasdaran» del berlusconismo più spinto che negli anni ha sempre «insultato» la magistratura libera. Anzi, sarebbe stata mandata da Berlusconi nel 2014 al Csm proprio con lo scopo di «controllare» le nomine dei magistrati. La storia di Alberti Casellati è, però, molto diversa. Nei tre anni e mezzo al Csm si è sempre spesa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Il caso più celebre è la difesa del procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, “reo” di aver aperto lo scorso anno una pratica disciplinare nei confronti del pm Henry John Woodcook a proposito del modo in cui era stata condotta l’indagine “Consip”. Secondo le accuse di alcuni giornali, in primis Il Fatto Quotidiano, il pm napoletano stava indagando il padre dell’ex premier Matteo Renzi che aveva prorogato Ciccolo nell’incarico. «Uno scambio di favori, una collusione tra la politica e il procuratore generale sul fatto di essere stato favorito con la legge», si disse. «Un attacco spregevole e ingiustificato a Ciccolo e un’offesa a tutto il Csm», aveva aggiunto Alberti Casellati invitando tutto il Consiglio a reagire rispetto a chi «buttava impunemente fango su un’istituzione». Fautrice del merito nelle nomine dei direttivi, si oppose alla scelta di Lanfranco Tenaglia, rientrato in magistratura come giudice minorile dopo aver cessato il mandato parlamentare nel Pd, a presidente del Tribunale di Pordenone. Un curriculum quello di Tenaglia, secondo Alberti Casellati, pieno di “handicap” rispetto ai titoli della sfidante Licia Consuelo Marino, non solo più anziana, ma dal 2013 presidente di sezione proprio presso il Tribunale friulano. Contraria alle correnti della magistratura, presentò un emendamento, poi accolto, per cambiare il regolamento del Csm rendendo “trasparenti” le attività delle Commissioni. Dietro gli attacchi di queste ore, forse, c’è altro. Ad esempio quello di far saltare l’accordo fra Lega e M5S. Infatti non sarà sfuggito che gli attacchi vengono principalmente da quei giornali, La Repubblica ed Il Fatto, che vedono come il fumo negli occhi la liason fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

«Chiamatemi presidente»: perché Casellati non ha contraddetto Laura Boldrini. Neanche lei, nella sua battaglia grammaticale di genere, si faceva chiamare «presidentessa». Per declinare il ruolo al femminile basta cambiare l'articolo, scrive "Lettera donna" il 26 marzo 2018. «Presidente o presidentessa?». «Preferisco essere chiamata presidente». Lo ha detto Maria Elisabetta Alberti Casellati, neo eletta presidente del Senato e prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia della Repubblica, rispondendo a un giornalista mentre lasciava frettolosamente il teatro Carlo Felice di Genova. Un'affermazione che ha sollevato qualche polemica e che ha catturato i media, destando scalpore se si pensa alla battaglia sulle declinazioni femminili in grammatica portata avanti per anni da Laura Boldrini, ex presidente della Camera, che ha passato il testimone a Roberto Fico del M5s. Presidente, appunto. Non presidentessa. Il femminile di presidente è sempre presidente, infatti. Ma si coniuga con l'articolo femminile. La stessa Boldrini ha sempre chiesto di essere chiamata «la presidente», non «la presidentessa». Nessuno scoop, insomma. Nessuna inversione di marcia, almeno per ora. Casellati non si è espressa in modo più approfondito sulla questione grammaticale di genere, non ha detto che vuole che per riferirsi a lei si usi l’articolo maschile. Quindi se ci atteniamo alla sua risposta troviamo che non c'è nessuna guerra a Boldrini, come invece hanno scritto testate come Libero e Il Secolo d'Italia, politici (Nunzia De Girolamo, ad esempio) e altri utenti su Twitter, esultando per (il finto) schiaffone nei confronti di Boldrini, che invece ha risposto per le rime a Libero: «Per il vostro giornale non riesco a trovare appellativi nè al maschile nè al femminile». Avvocata matrimonialista classe 1946, iscritta all'Ordine di Padova, da sempre vicina a Berlusconi e Nicolò Ghedini, Casellati si è insediata solo da qualche giorno ma ha già fatto parlare molto di sè. E non in positivo. Soprattutto di quando, tra il 2004 e il 2006 ricopre il ruolo di sottosegretario alla Salute, finisce al centro delle polemiche per via dell'assunzione della figlia Ludovica a capo della sua segreteria. Poi c'è il rapporto con l'ex Cavaliere: sul suo profilo Twitter (inattivo) giganteggiano una bandiera di Forza Italia e la sua foto mentre stringe la mano a Berlusconi, in difesa del quale interviene più volte, soprattutto sul piano giudiziario, sostenendo le cosiddette «leggi ad personam». Inoltre, desta molta preoccupazione la sua posizione nei confronti delle unioni civili, che sostiene non essere paragonabili ai matrimoni tra uomo e donna. E una presidente del Senato omofoba non sarebbe certo un passo avanti.

Quelle donne competenti. Non "quote" ma merito, scrive Annalisa Chirico, Mercoledì 28/03/2018, su "Il Giornale". Esistono diversi modi di essere donna, anche in politica. Quando la neopresidente del Senato Elisabetta Casellati rifiuta l'appellativo in -essa, ricorda il caso di Oriana Fallaci che pretendeva di essere chiamata «scrittore». Perché le donne fanno la differenza con le azioni concrete, non per un fatto di desinenze politicamente corrette. Se certi ruoli, tradizionalmente appannaggio degli uomini, non sono declinati al maschile, nessuno dubiterà per questo che tu sia donna. L'insistenza sulla correttezza di genere è oppio dei popoli, vuota retorica, puro formalismo: chiamateci «sindache» e «ministre», la lingua italiana si ribella ma la coscienza è salva. Un paio di anni or sono, al cospetto di una sbigottita Laura Boldrini, Giorgio Napolitano sbottò contro «la trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell'orribile appellativo di ministra o nell'abominevole appellativo di sindaca». Disse proprio così, il presidente emerito. Boldrini è la stessa che, dopo avere cavalcato ossessivamente la causa rosa, alle ultime elezioni politiche si è prestata al gioco truffaldino delle pluricandidature per consentire l'elezione di altrettanti colleghi uomini. In politica si può essere donne accontentandosi di un ruolo ornamentale per conferire l'agognato «pedigree rosa» a questo o a quel partito, oppure si può intendere il proprio impegno come una sfida ambiziosa in una competizione alla pari con l'altro sesso. Finalmente Forza Italia elegge come capigruppo di Camera e Senato due donne che coronano così un percorso politico specchiato e autorevole. Le loro idee si possono condividere o no, ma non v'è dubbio che Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini siano oggi promosse per un fatto di competenza, non di genere. Quando il ministro Valeria Fedeli, eletta grazie al «paracadute» a seguito della sconfitta nell'uninominale, chiede al proprio partito di individuare almeno una donna al vertice di un gruppo parlamentare, non rende un servizio a noi tutte. Com'è noto, i parlamentari Pd hanno scelto due maschi ma non per questo possiamo sentirci oltraggiate, ohibò. Nelle società evolute le donne competono con gli uomini su un piano di parità, e avanzano, eccome, in quanto persone brave e preparate, non in ragione del sesso con cui sono accidentalmente venute al mondo. Le quote possono aiutarci, d'accordo, ma non facciamone una questione squisitamente aritmetica. Essere donna non deve penalizzarci, ma di per sé non è neanche un merito, guai a scordarlo.

Femminismo fa rima con terrorismo, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Dopo aver stabilito un conflitto tra maschi predatori e donne vittime, fino a trascinare sulle soglie del carcere il produttore Weinstein, dove è finita Asia Argento? Si affaccia oggi sulla scena del crimine Alessandra Cantini, con una serie di considerazioni che rovesciano il punto di vista, in favore di una dignità della donna che supera la condizione di vittima. Gli argomenti sono interessanti e non vogliamo condividerli, ma semplicemente proporli. Intervistata da Giuseppe Cruciani a La Zanzara, Alessandra dichiara: «Non sono mai stata molestata. Se lo avessero fatto mi sarei data la colpa. Ogni donna è capace di andarsene da una situazione molesta». Incalzata sul caso Weinstein prosegue: «Asia Argento? Prima accetta i favori di un uomo e poi lo denuncia e lo rovina mandandolo dagli psichiatri e in bancarotta. Lo ha rovinato per ottenere altri privilegi. Tra Asia Argento e Weinstein preferisco Weinstein. È un uomo di potere e spesso il potere va di pari passo con la sessualità». Quanto ai movimenti #metoo e #timesup risponde: «Le femministe di oggi si prostituiscono due volte, vanno con gli uomini e poi vogliono distruggerli. Questo nuovo femminismo sta portando gli uomini a vivere nel terrore. Le donne hanno sempre usato l'arma del sesso per ottenere influenza e potenza, da millenni». A suo parere, infatti «se una donna vuole utilizzare il proprio corpo per avere successo può farlo, ma non bisogna essere ipocriti: la donna sa esattamente dove è, altrimenti va via. La donna non è abusata, dirlo è offendere le donne. Asia Argento ha goduto di ciò che ha ottenuto». Una posizione insolita. Quanto vera e quanto provocatoria?

IL FEMMINILE NON E’ QUESTIONE DI GRAMMATICA MA DI POTERE.

Infermiera sì, ministra no. Se il femminile non è questione di grammatica (ma di potere). Le parole hanno un peso e danno forma alla realtà. E dunque segnano le differenze tra uomo e donna in termini di ruoli e riconoscimenti sociali. «Bisogna insistere, correggere espressioni che penalizzano la dimensione femminile, anche correndo il rischio di essere noiose», spiega Stefania Cavagnoli, linguista e docente dell’Università di Roma Tor Vergata, scrive Silvia Morosi il 17 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera". Il dibattito (storico) sul sessismo linguistico. La questione è tornata d’attualità con le ultime elezioni amministrative di Roma e Torino e con la richiesta di numerose ministre di essere chiamate tali. Nell’uso dell’italiano sono ancora molte le remore nel declinare al femminile i nomi di mestieri, professioni, ruoli istituzionali, soprattutto quando la posizione che indicano è prestigiosa. Non è strano quindi sentire nominare il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno o il rettore Stefania Giannini, ma storciamo il naso se sentiamo parlare della ministra Valeria Fedeli. Eppure, se leggessimo un discorso del Cancelliere Merkel, potremmo sorridere. Non solo, cosa succederebbe se trovassimo in un titolo di giornale «il sindaco di una città annuncia di essere incinta»? Perché è tanto difficile superare le resistenze e chiamare correttamente «architetta» o «chirurga» le donne arrivate a ruoli fino a ieri solo maschili? Perché non lo è, invece, per la maestra, l’infermiera, la cameriera o l’operaia? Dietro la semplice questione grammaticale si nasconde quello che, anche nel nostro Paese, è stato racchiuso sotto la nozione di «sessismo linguistico». In Italia il dibattito sulla sociologia del linguaggio e sull’uso non sessista della lingua è ancora in essere, nonostante dell’argomento si discuta dagli anni Ottanta, sulla scia del linguistic sexism elaborato negli anni ‘60-’70 negli Stati Uniti. Nel 1987 l’uscita del volumetto «Il sessismo nella lingua italiana» di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha allargato il discorso all’ambito socio- linguistico ed è arrivato a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico. Lo scopo del lavoro era politico e puntava a (ri)stabilire la «parità fra i sessi» — obiettivo all’epoca di primaria importanza — attraverso il riconoscimento delle differenze di genere. Al linguaggio veniva riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà, e quindi anche dell’identità di genere maschile e femminile.

Le parole e le desinenze hanno un senso. Ma le resistenze sono rimaste perché la lingua è creatrice di realtà e strumento di potere. «Nominare le donne, usare le forme al femminile mostra la presenza delle donne, e quindi riequilibra la società e i suoi poteri. Credo che questa sia una forte motivazione per mantenere lo status quo. Quello che personalmente non capisco è la battaglia contro la modifica del linguaggio. La lingua cambia, è dinamica. Solo in questo diventiamo puristi. E la cosa che mi fa riflettere, e intristire, è che spesso sono proprio le donne quelle con posizioni più contrarie e radicali», spiega Stefania Cavagnoli, professoressa associata di linguistica e glottologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, dove insegna linguistica generale e applicata. «Nei molti incontri che ho avuto con il mondo delle avvocate, per esempio, una delle motivazioni maggiori per l’uso al maschile del titolo professionale era: «Ho fatto tanto per arrivare qui, ed ora voglio essere chiamata avvocato». Casi in cui non serve provare a spiegare che si tratta di grammatica, dato che la ritrosia parte proprio dalle donne. L’unico modo per convincere le donne a farsi chiamare in modo adeguato è dire che si tratta di una questione di potere. «E se ci si pensa bene, in fondo un piccolo cambiamento linguistico potrebbe provocare un grande cambiamento nell’immaginario collettivo».

Le donne se non sono nominate spariscono. «Ognuno di noi, anche le persone sensibili all’argomento, se sentono una formulazione al maschile immaginano una corrispondenza al maschile: i giornalisti scrivono, gli avvocati conducono le cause, i giudici sentenziano, i professori insegnano», continua Cavagnoli.  Ma dove sono le donne? In tutte queste professioni «alte» le donne sono molto presenti, se non addirittura in maggioranza. Però non sono nominate, e quindi spariscono. Nelle professioni tipicamente femminili, e notoriamente di minor potere, si usa il femminile, ed anzi sembrerebbe strano leggere le vicende dell’«operaio Maria Rossi». A chi dice che certi femminili «suonano male», è facile rispondere che è solo questione di abitudine all’uso di parole nuove. La lingua è dinamica, si modifica in continuazione, si adegua alle necessità della società e ai suoi cambiamenti. Se serve un nome, lo si crea. «Se le donne in magistratura non erano ammesse fino al 1963, non c’era nemmeno bisogno di pensare al termine magistrata. Quando nel lessico si inserisce un nuovo vocabolo o si declina al femminile una parola di solito usata al maschile, può esser richiesto un po’ di tempo per abituarcisi», evidenzia la professoressa. «Suona male» ciò che, al nostro orecchio, si allontana dalla normalità. Ma le norme si modificano, e anche l’orecchio si adegua. In fondo, usiamo spesso parole nuove, ce ne facciamo un vezzo, soprattutto se sono prestiti da altre lingue.

Il neutro non esiste (e non è la soluzione). Perché allora ci dà così fastidio la declinazione (nella norma) delle professioni al femminile? Usare il maschile per le donne che ricoprono professioni e ruoli di prestigio non solo disconosce l’identità di genere e nega quello femminile, ma addirittura nasconde le donne. «Credo che al fondo ci sia una convinzione radicata nelle donne, in alcune donne, che gli uomini riescano meglio in certe professioni. Conseguenza di un’educazione non attenta al genere, ma anche di continue difficoltà reali nell’ambito del lavoro, pensato al maschile. L’uso adeguato della lingua potrebbe essere un primo passo per modificare gli ambienti professionali. Le donne ci sono, competenti, e si nominano».  La questione non può essere risolta o bypassata, come sostengono alcuni, dal cosiddetto «maschile neutro», un ossimoro. «Il maschile è maschile. L’italiano ha due generi, femminile e maschile. Il neutro non esiste. L’italiano è una lingua androcentrica, e il maschile spesso è inteso in modo inclusivo».

«La signora ministro» francese. L’Italia non è un paese per donne.  In altri paesi, infatti, suonerebbe strano utilizzare il maschile inclusivo al posto del femminile. Un esempio? In Germania la discussione sulla lingua di genere è vecchia, e i risultati si vedono. Angela Merkel, nel giorno della sua nomina, ha fatto modificare la pagina web e Bundeskanzler è diventato Bundeskanzlerin. Normalità della lingua, adeguamento a una nuova realtà, in quanto Merkel rappresentava la prima donna con la funzione di Cancelliera. I nostri media ci hanno impiegato anni a chiamarla così, come è successo anche in altri Paesi come ha evidenziato una ricerca di Babbel, la app per imparare le lingue nel minor tempo possibile, nata nel 2007. Nella lingua francese, ad esempio, la questione è stata affrontata in due modi: mentre l’Exagone resta fedele al maschile per i titoli di prestigio anche qui «il ministro» presenta la forma maschile, creando però al femminile un ibrido curioso come «madame LE ministre» (madame IL ministro), il Québec ha sancito per legge nel 1979 il doppio uso, maschile e femminile, nelle professioni. 

Il caso di «a presidenta» brasiliana. Lo spagnolo sostituisce la finale maschile «o» con la «a», come ad esempio «ministro/ministra», o aggiunge una - «a» alla fine della professione (juez/jueza il/la giudice). Nella lingua polacca il femminile delle professioni si forma normalmente aggiungendo il suffisso «ka» alla forma maschile: «nauczyciel - nauczycielka» (maestro - maestra). Il problema nasce quando lo stesso suffisso è usato anche per la forma diminutiva: kawa - kawka (caffè - caffettino). E così fa notizia Joanna Mucha, ministra polacca dello Sport e del Turismo dal 2011 al 2012, quando decide di non usare il termine convenzionalmente accettato di pani minister («signora ministro») ma la versione femminile «ministra» (ricalcata dal latino), snobbando anche il neologismo ministerkaper non incorrere nel diminutivo. In portoghese, la maggioranza dei prefissi presenta una distinzione tra maschile e femminile. Alcune professioni che storicamente non avevano un parallelo al femminile non hanno tuttora un suffisso. Il termine «presidente» però, come da regola, non avrebbe bisogno di un termine extra, dato che esiste ed è corretto il termine «a presidente». Esiste però una corrente che accetta la versione «a presidenta» e il fatto che l’ex presidentessa del Brasile Dilma Roussef abbia deciso di scegliere quest’ultima acquista un’importante connotazione politica.

Rispettando la grammatica si rispettano le donne. Per sensibilizzare su un corretto uso della lingua, il ruolo della scuola è determinante. Per il bambino l’esempio è fondamentale, sia che esso venga dalle insegnanti, dalle famiglie, che dai libri, dai manuali, dai cartoni animati. «Per bambine e bambini è normale applicare le regole della grammatica che imparano a scuola e formarsi idee e riferimenti sulla base di quanto sentono, vedono, vivono. Se gli esempi sono sempre al maschile, e le donne spariscono, nulla si modificherà», spiega Cavagnoli. Certo, anche la politica gioca un ruolo nella diffusione di una cultura più attenta all’utilizzo del linguaggio di genere. «In occasione dell’8 marzo ho partecipato a un incontro in un ministero, un seminario sul tema della presenza delle donne nelle istituzioni. Sul palco solo donne, ma sulla locandina solo alcune cariche sono declinate al femminile, nonostante la mia insistenza nel far correggere le altre. Mi è stato risposto che le relatrici preferivano il maschile. Vorrei tanto che passasse l’idea che non è una questione di preferenza, ma di grammatica e sì, di impegno politico. Avrebbero preferito il maschile anche se la professione fosse stata quella di maestra, cameriera, impiegata?», conclude la professoressa. Rispettando la grammatica si rispettano le donne.

8 MARZO: IL POTERE DELLE DONNE.

Frasi, citazioni e aforismi sulla donna, scrive "Aforisticamente". In occasione delle Festa della donna (detto anche il “Giorno dei Diritti Internazionali della Donna”, diritti che nel corso del secolo scorso sono stati raggiunti faticosamente e che in alcuni paesi sono ben lungi dall’essere ottenuti) presento – in omaggio alla figura femminile – un’ampia raccolta di frasi, citazioni e aforismi sulla donna.

Certo che Dio ha creato l’uomo prima della donna. Si fa sempre una bozza prima del capolavoro finale. (Anonimo)

Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. (Oriana Fallaci)

Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per di più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti. (Ginger Rogers)

Le donne: non le vedi mai sedersi su una panchina con l’avviso “Verniciata di fresco”. Hanno occhi dappertutto. (James Joyce)

Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza. (Rita Levi Montalcini)

Qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. Per fortuna non è una cosa difficile! (Charlotte Witton, sindaco di Ottawa)

Per tutte le violenze consumate su di Lei,

per tutte le umiliazioni che ha subito,

per il suo corpo che avete sfruttato,

per la sua intelligenza che avete calpestato,

per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,

per la libertà che le avete negato,

per la bocca che le avete tappato,

per le ali che le avete tagliato,

per tutto questo:

in piedi, Signori, davanti ad una Donna. (William Shakespeare)

Non fosse la donna il giorno sarebbe senz’albore;

non stella avrebbe e rugiada la notte;

non acqua o fil d’erba la terra.

Senza cielo sul capo si andrebbe. (Camillo Sbarbaro)

Quando si appartiene a una minoranza bisogna essere migliori per avere il diritto di essere uguali. (Christian Collange)

Noi donne rappresentiamo il 50% della popolazione e le madri dell’altro 50%. Cari uomini, guardatevi intorno: ci sono donne dappertutto. Avete veramente bisogno dell’8 Marzo per ricordarvi che le donne esistono? (Lucina Di Meco)

Basta con ‘sta festa della donna. Ammucchiamo queste benedette mimose e facciamo un falò. Ormai ci siamo emancipate. Siamo uguali agli uomini. Ci viene l’infarto anche a noi. Cosa vogliamo di più? La prostata forse? O la barba… visto che i baffi ce li abbiamo…(Luciana Littizzetto)

Se nascerai uomo non dovrai temere d’essere violentato nel buio di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per essere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace. (Oriana Fallaci)

L’intero ordine sociale… si schiera contro una donna che aspiri a raggiungere la reputazione di un uomo. (Madame De Stael)

Se le donne in Russia possono lavorare per le ferrovie, perché non possono volare nello spazio? (Helen Kirkpatrick, prima donna nello spazio)

Un giorno un uomo chiese al genio della lampada di renderlo più intelligente di qualsiasi altro uomo sulla terra. Il genio lo ha trasformò in una donna. (Anonimo)

Le donne devono pagare per ogni cosa… Ottengono più gloria degli uomini per imprese simili ma fanno più scalpore quando precipitano. (Amelia Earhart)

Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società. (Rita Levi-Montalcini)

Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità. (Francois Giroud)

Il test per sapere se sei idonea o meno per svolgere un lavoro non dovrebbe essere la disposizione dei tuoi cromosomi. (Bella Abzug)

La differenza tra uomini e donne? Le donne vogliono un uomo che sappia soddisfare ogni suo desiderio. Gli uomini vogliono qualsiasi donna sappia soddisfare il loro unico pensiero fisso. (Anonimo)

E in verità, a una donna basta conoscere bene un uomo, per comprendere tutti gli altri uomini; mentre un uomo può conoscere tutte le donne e non comprenderne neanche una. (Helen Rowland)

Mi affiderei piuttosto all’istinto di una donna che alla ragione di un uomo. (Stanley Baldwin)

Se Dio non avesse fatto la donna, non avrebbe fatto il fiore. (Victor Hugo)

Senza il sorriso delle donne, il mondo sarebbe eternamente buio…(Fabrizio Caramagna)

Le donne si preoccupano sempre per le cose che gli uomini dimenticano; gli uomini si preoccupano sempre per le cose che le donne ricordano. (Anonimo)

Essere donna è un compito terribilmente difficile, visto che consiste principalmente nell’avere a che fare con uomini. (Joseph Conrad)

Maschi, ricordatevi: quando un giorno nella corsa della vita una donna vi busserà alle spalle non è perché è rimasta indietro, è che vi h  doppiati.(Geppi Cucciari)

Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che chiede d’essere ascoltata. (Oriana Fallaci)

Avete sentito quel bambino nato con gli organi di entrambi i sessi? Aveva sia il pene che il cervello. (Anonimo)

Se gli uomini fossero altrettanto esposti al rischio di questa condizione – se sapessero che la loro pancia potrebbe gonfiarsi come per una cirrosi all’ultimo stadio, che dovrebbero stare quasi un anno senza farsi nemmeno un bicchiere, una sigaretta e persino un’aspirina, che potrebbero svenire ogni due per tre e non riuscire a farsi largo su un treno di pendolari – sono certa che la gravidanza verrebbe classificata come malattia a trasmissione sessuali e gli aborti non sarebbero più controversi di una qualunque appendicectomia. (Barbara Ehrenreich)

Oggi esistono pochi lavori che richiedono necessariamente un pene e una vagina. Tutti gli altri dovrebbe essere aperti a tutti. (Florynce Kennedy)

L’uomo gode della felicità che prova, la donna di quella che dà. (Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos)

Le donne non sanno cosa vogliono ma sanno benissimo come ottenerlo. (Anonimo)

Non lasciare mai che un uomo metta qualcosa sopra di te… se non, forse, il suo ombrello. (Mae West)

E’ difficile essere donna.

Devi pensare come un uomo,

Comportarti come una signora,

Sembrare una ragazzina,

E lavorare come un mulo. (Anonimo)

Le donne non sono mai così forti come quando si armano della loro debolezza. (Marie de Vichy)

Le donne sostengono la metà del cielo. (Proverbio cinese)

Quando le donne sono depresse mangiano o fanno shopping. Gli uomini invadono un’altra nazione. (Elayne Boosler)

La guerra non appartiene alla storia della donna. (Virginia Wolf)

Le donne hanno paura dei topi e degli omicidi, e di molto poco in mezzo. (Mignon McLaughlin)

Dobbiamo fare attenzione in questa epoca di femminismo radicale a non dar rilievo a una parità dei sessi che conduca le donne a imitare gli uomini per dimostrare la propria uguaglianza. Essere pari non significa essere identici. (Eva Burrows)

L’uomo che dice male delle donne dice male di sua madre. (Carlo Dossi)

I vantaggi di essere donna:

1) puoi cazziare a destra e a manca e dare la colpa al ciclo;

2) la tua autostima non dipende da un righello. (kikka75f, Twitter)

Le donne hanno le palle. E’ solo che le hanno un po’ più in alto, tutto qui. (Joan Jett)

Mostratemi una donna che non si sente colpevole e io vi mostrerò un vero uomo. (Erica Jong)

Le donne è vero, forse un difetto ce l’hanno. Dopo essersi spese per gli altri, dopo essersi donate, si dimenticano di quanto valgono. (ceciliaseppia, Twitter)

Troppo basta qualche volta alle donne. (Edmond e Jules de Goncourt)

Le donne sono una vite su cui gira tutto. (Lev Tolstoj)

E ovviamente gli uomini conoscono qualunque cosa, tranne le cose che le donne conoscono meglio di loro. (George Eliot)

Se vuoi che venga detto qualcosa chiedi a un uomo, se vuoi che venga fatto qualcosa, chiedi a una donna. (Margareth Tatcher)

Le donne hanno solo una piccola idea di quanto gli uomini le odiano. (Germaine Greer)

E’ mai esistito qualcuno così maltrattato, così vilipeso, così insultato, tanto ingiustamente e crudelmente calpestato come noi donne? (Jane Anger)

Le donne parlano due lingue – uno dei quali è verbale. (William Shakespeare)

Mi aspetto che la donna sarà l’ultima cosa civilizzata dall’uomo. (George Meredith)

Non è vero che non si possa vivere senza una donna. È vero soltanto che senza una donna non si può aver vissuto. (Karl Kraus)

Riuscite ad immaginare un mondo senza uomini? Nessun crimine e un sacco di donne grasse e felici. (Nicole Hollander)

La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore ma dal lato, per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata. (William Shakespeare)

Dopo le ferite, ciò che le donne fanno meglio è il bendaggio. (Jules Barbey d’Aurevilly)

Non c’è un Mozart donna, ma neanche un Jack lo Squartatore donna. (Camille Paglia)

Un uomo durante un appuntamento si chiede se avrà fortuna. Una donna già lo sa. (Monica Piper)

Il compito di noi donne è di innalzare la razza umana. Gli uomini devono cercare di raggiungerci. E ne hanno ancora per circa un milione di anni. (Roseanne Baer)

Non è mai esistito un grande uomo che non abbia avuto una grande madre. (Olive Schreiner)

Le curve di una donna: la più bella distanza tra due punti. (Mae West)

Dio creò prima l’uomo, e poi la donna. Del resto si, sbagliando si impara. (Anonimo)

Per inciso, vorrei anche dire che la prima volta che Adamo ebbe la possibilità diede la colpa a una donna. (Nancy Astor)

Una donna indossa le sue lacrime come gioielli. (Anonimo)

Il cuore di una donna non ha segreti ma solo stanze vuote che aspettano di essere spalancate e scoperte. (cannovaV, Twitter)

Le incantevoli forme femminili complicano in modo terribile le difficoltà e i pericoli di questa vita terrena, soprattutto per i loro proprietari. (George du Maurier)

Se una donna è così attraente quando ti incontra, chi se ne frega se è arrivata in ritardo. (JD Salinger)

Non nego che alcune donne siano stupide; Dio Onnipotente le ha fatte per vivere insieme agli uomini. (George Eliot)

Se le donne sono frivole è perché sono intelligenti a oltranza. (Alda Merini)

Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia. (Marcel Proust)

La donna è come una bustina di tè, non si può dire quanto è forte fino a che non la si mette nell’acqua bollente. (Eleanor Roosevelt)

L’intuizione di una donna è molto più vicina alla verità della certezza di un uomo. (Rudyard Kipling)

Fanno delle cose, le donne, alle volte, che c’è da rimanerci secchi. Potresti passare una vita a provarci: ma non saresti capace di avere quella leggerezza che hanno loro, alle volte. Sono leggere dentro. Dentro. (Alessandro Baricco)

Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico. (Oriana Fallaci)

Sto fatto che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna mi sembra una gran cretinata. E’ la solita storia che puzza di mancia, di gratifica natalizia, di carità, di bel gesto nei confronti di noi donne, esseri inferiori. Io mi sono rotta leggermente le palle. E dietro una grande donna c’è sempre chi o cosa? Solo se stessa, temo. (Mina)

Le donne ad un certo punto capendo che non avrebbero potuto migliorare i maschi sono scese al loro livello. Grave errore: ravvediamoci. #8marzo (ChiaraDiGiorno, Twitter)

Misteriosa come la donna è l’origine della festa della donna. Generalmente si fa risalire l’origine al grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, in una fabbrica dove morirono 146 donne in prevalenza immigrate dall’Europa. Le femministe francesi degli anni Cinquanta, dicono che la giornata della donna è stata scelta per commemorare il 50° anniversario di uno sciopero di lavoratrici tessili, brutalmente represso a New York l’8 marzo del 1857. Chi invece ricorda la rivolta pacifista delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo 1917. Chi, come il bollettino del Pci del 1949 celebra l’8 marzo 1848, quando le donne di New York scesero in piazza per avere i diritti politici. Chi ricorda un fantomatico incendio a Boston nel 1898. Col risultato che alla fine, a forza di passaparola e di equivoci, non si conosce la vera origine di questa festa. (Fragmentarius)

Non si cambia mentalità con un solo giorno di buone maniere. Ci vuole il Decennio della Donna, o il Secolo. Allora si, funzionerà. #8Marzo (lddio, Twitter)

Più che l’#8marzo, andrebbe festeggiato il giorno in cui gli uomini smetteranno di credere a quella storiella della costola di Adamo. (Cicciogià, Twitter)

“Donne è bello”. Affermativo. Uomo è facile, ma donne è bello. Era l’elogio della complessità, la glorificazione della differenza. Uomo è potenza, ma donne è bello. Era la rivendicazione di quella nostra muscolatura interiore, così magnificamente allenata dalla sofferenza, da renderci forti. (Lidia Ravera)

Ci avete dato la vita, è nostro dovere di maschietti restituirvela, in piccole rate di 1440 minuti al giorno. L’interesse, in questo caso, è reciproco. A tutte voi donne, un bacio con profonda riconoscenza. (Mauroemme)

Ciò che Dio non può più fare, una donna, a volte, lo può fare. (Daniel Pennac)

FESTA DELLA DONNA: ORIGINI, FALSI STORICI E PERCHÉ LA MIMOSA. La Festa della donna, più correttamente la "Giornata internazionale della donna", si festeggia l'8 marzo per ricordare sia le conquiste sociali e politiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze che il gentil sesso ha subìto e subisce tuttora nel mondo, scrive Martedì 7 Marzo 2017 Luigi Garofalo. Nasce negli Stati Uniti come il giorno della donna il 3 maggio 1908 quando in una conferenza del Partito socialista di Chicago, una socialista denuncia: lo sfruttamento dei datori di lavoro sulle operaie e le discriminazioni sessuali sugli stipendi e orario di lavoro. Così gli USA iniziano a festeggiare il giorno della donna a fine febbraio, mentre in Europa si comincia a festeggiarla il 19 marzo. L'8 marzo 1917, a San Pietroburgo, le donne guidano una grande manifestazione per rinverdire la fine della guerra, manifestazione e proteste che portano al crollo dello zarismo. L'8 marzo 1917 rimane così nella storia a indicare l'inizio della Rivoluzione russa, una data scelta anche durante la seconda conferenza internazionale delle donne comuniste nel 1921, che fissarono all'8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia. In Italia la Giornata internazionale della donna si festeggia per la prima volta nel 1922, grazie al Partito comunista d'Italia, che la celebra il 12 marzo, prima domenica successiva all'8 marzo, data poi riconosciuta ufficiale dall’ONU. Falsi storici L'8 marzo si ricorda la morte di centinaia di operaie, uccise nel rogo di una fabbrica di Cottons divampato a New York nel 1908, o ancora la repressione poliziesca di una manifestazione sindacali di operaie tessili di New York. Niente di più falso. Perché la mimosa? Scelta in Italia perché fiorisce nei primi giorni di marzo ed è economica. Auguri, donne.

8 Marzo. Perchè alla Festa della Donna si regalano le mimose? Ecco la leggenda dell’albero, scrive l'8 marzo 2017 Domenico Ascione. Ogni anno, la mattina dell’8 marzo, i piccoli fiorellini gialli della mimosa invadono completamente strade, abitazioni ed uffici: uomini corrono per regalare il tradizionale bouquet alla donna della loro vita ed, a loro volta, le donne ostentano questi piccoli, o grandi, gesti di attenzione. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è l’esempio di come una giornata commemorativa sia diventata solo un altro pretesto per spendere, di come i fiori non servano a ricordare le battaglie femministe se non vengono accompagnati da azioni civili e sociali. Che piaccia o meno, il simbolo della Festa della Donna è quel fiore. Perchè? Cosa lega la mimosa alle donne? Perchè viene regalata quasi esclusivamente in tale occasione? L’origine della tradizione si lega a doppio filo alla genesi stessa della celebrazione, com’è giusto che sia. Per chi non lo sapesse, l’8 marzo non è una data scelta a caso per concedere un contentino alle donne. Era l’8 marzo del 1908 e 129 operaie di un’industria di New York protestavano contro le condizioni di lavoro indegne e svilenti a cui erano sottoposte. Un incendio divampò improvvisamente nella fabbrica occupata uccidendo tutte le lavoratrici al suo interno. Si racconta che, un albero di mimose crescesse proprio nei pressi di quell’edificio maledetto e che gli uomini raccolsero i suoi fiori per posarli avanti al luogo in cui avevano perso la vita tutte quelle donne: un ultimo omaggio floreale per chi aveva combattuto fino all’ultimo respiro l’ingiustizia. Forse, però, la storia che lega la mimosa a tale celebrazione è molto meno romantica rispetto a quanto qui raccontato. La celebrazione dell’8 marzo venne sancita ed istituzionalizzata in Italia nel 1946 dall’U.D.I. (Unione Donne Italiane). Vista la natura della festa è stato naturale prendere come simbolo un fiore che simboleggiasse la femminilità. Tuttavia, sono poche le piante che fioriscono fra la fine di febbraio e gli inizi di marzo: il clima è ancora freddo e la maggior parte dei fiori aspettano la mitezza primaverile. La mimosa, però, regala le sue perline gialle già da fine febbraio e fu quindi la candidata ideale per rappresentare le donne in tale periodo. Che commemori un giorno di lutto o festeggi un momento felice, ricordate sempre che un fiore è un bel gesto solo se per regalarlo non distruggete o sciupate la natura. Quindi, piuttosto che sfrondare alberi per un mazzetto di mimose, un gesto di amore, rispetto e stima può essere un valido sostituto per omaggiare le vostre donne.

8 marzo, Fare Verde: no alla strage della mimosa, “comprate solo da rivenditori autorizzati”. L’associazione ambientalista Fare Verde lancia un grido d’allarme in difesa della mimosa, scrive Filomena Fotia il 7 marzo 2017.  L’associazione ambientalista Fare Verde lancia un grido d’allarme in difesa della mimosa, aggredita quest’anno anche dalla criminalità organizzata. Infatti, secondo una denuncia della Coldiretti, le organizzazioni criminali stanno effettuando vere e proprie razzie, spogliando gli alberi di mimosa e rivendendo i mazzetti attraverso una fitta rete di venditori abusivi. “Un danno enorme per l’ambiente e incassi notevoli per i criminali – dichiara l’avvocato Francesco Greco, presidente nazionale di Fare Verde – quintali di rami di mimosa sono stati strappati dagli alberi e introdotti in un mercato parallelo. A questa attività illecita si aggiunge l’aggressione dei privati, che strappano dagli alberi la mimosa danneggiando gravemente le piante. Per questo, da anni, lanciamo appelli contro quella che, in prossimità dell’8 marzo, è una vera e propria strage degli alberi di mimosa. La festa della donna non passi per la distruzione dell’ambiente. Se si vuole acquistare un rametto di mimosa – conclude il presidente di Fare Verde – ci si può rivolgere a venditori autorizzati, che sono riforniti dai coltivatori italiani di questo bellissimo fiore.”.

Niente festa delle donne, quest’anno, perché non c’è niente da festeggiare, scrive Pietro Senaldi il 9 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Non mimose o cioccolatini buoni soltanto a far girare l’economia. Niente cinema con le amiche o serate pornosoft ad ammirare maschi dal corpo scultoreo. Ma sciopero globale in 40 Paesi del mondo. Sciopero dal lavoro pubblico, privato, domestico (per intenderci, niente spesa, cucina, letti rifatti). Insomma, una giornata senza di noi, per riflettere, far riflettere, esprimere la nostra rabbia. Uscendo tutte («non una di meno») in piazza, vestite di nerolutto e rosso­sangue. Per protestare contro la violenza che è prima controllo, aggressività psicologica, per poi diventare fisica, sessuale, arrivando nei casi più gravi al femminicidio o alla distruzione della bellezza di colei che osa riprendersi la sua libertà. Ma non basta: si lotta anche per la parità, contro una cultura fallocentrica e un immaginario mediatico misogino, in cui la donna è ancora vista come oggetto sessuale o lavoratrice domestica senza stipendio, come proprietà del maschio, che ha il diritto di lasciarla e il diritto di non essere lasciato. Dite che sono casi limite? Ma allora perché le coppie sempre più vacillano, i figli sempre più ne soffrono, le donne, anche se economicamente autonome, sono poco felici (ne è prova l’abuso di psicofarmaci e le fumatrici di ogni età che invadono le strade assai più degli uomini)? Questo in Occidente, dove sono violenza anche le lettere di dimissioni in bianco in certe ditte per utilizzarle in caso di gravidanza. O la disparità di stipendio a parità di lavoro, o la difficoltà a raggiungere ruoli di direzione, salvo eccezioni di donne potenti e già privilegiate. E ancora le leggi scritte sopra i nostri corpi, il rischio di aborti clandestini per obiezione di coscienza dei sanitari, i tribunali in cui la vittima è, talvolta, giudicata prima ancora del carnefice (Aveva bevuto? Com’era vestita? Lo sciopero delle donne, comunque, non è una novità assoluta. Già la mitologia ci aveva fatto conoscere, grazie ad Aristofane, il personaggio di Lisistrata che avrebbe indotto altre donne all’astensione dal sesso per indurre i mariti a por fine alla guerra. Una commedia, ma ha creato un archetipo. Molto più tardi, a inizio Novecento, hanno scioperato per motivi di genere le camiciaie di New York, poi le operaie dell’allora Pietrogrado. Infine, oggi, hanno rilanciato l’idea le donne argentine. Lo sciopero serve non solo per chi vive in Paesi «evoluti» ma anche o soprattutto per dar voce a chi non ce l’ha. Come le donne e le bambine del Terzo Mondo, dove non esiste il diritto­dovere all’istruzione, dove si praticano mutilazioni sessuali e si obbligano le adolescenti a nozze indesiderate e maternità precocissime, s’impongono abiti che nascondono corpo e il volto, e s’infliggono alle ribelli punizioni che possono arrivare, oltre alle frustate, alla lapidazione. Intendiamoci: non tutti gli uomini sono orchi narcisisti e crudeli, ci sono anche quelli intelligenti, collaborativi, affettivi. Bene, devono moltiplicarsi. E le donne non sono tutte angeli, ci sono le aggressive, le pigre, le capaci di crudeltà. Male, devono cambiare. Ma le ragazze, anche se non hanno ancora capito cos’è il femminismo e disdegnano la parola, sono in maggioranza brave a scuola, all’università si laureano prima dei loro coetanei anche in facoltà un tempo «maschili», e, se trovano lavoro, lavorano bene. Non vogliono il potere, ma la parità e la libertà. Sperano nell’appoggio maschile ma intanto solidarizzano fra loro più di un tempo. Insomma l’8 marzo di lotta e non di festa punta alla messa in crisi di vecchi modelli antropologici e sociali, al ribaltamento degli ingiusti rapporti di forza.

Noterelle sulla storia del potere femminile (a proposito dell’8 marzo), scrive Michele Magno su "Formiche.net" l'8 marzo 2017. Quando Matteo Renzi propose solo donne come capolista alle elezioni europee (maggio 2014), un notabile meridionale del Pd masticò amaro, mal sopportando di essere scalzato da una cinquina da lui bollata come uno specchietto per le allodole. Essendo un magistrato (in aspettativa), Michele Emiliano conosceva sicuramente Les six livres de la République (1576), in cui il giurista Jean Bodin confinava le donne ai margini della vita civile, ritenendo che dovessero occuparsi solo delle faccende domestiche. Beninteso, sono certo che il governatore pugliese non oserebbe pensare che Alessandra Moretti, tanto per fare un nome, “c’est la peste de l’air, l’Erynne envenimée”. Proprio così, infatti, il poeta protestante Théodore Agrippa d’Aubigné descriveva nel 1616 Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II e dal 1560 reggente di Francia. Secondo la storica Cesarina Casanova (Regine per caso, Laterza, 2014), l’Erinni velenosa – che rende irrespirabile l’aria con la sua perfidia e le sue diaboliche macchinazioni – è il distillato di tutti i cliché che il Rinascimento attinge dalla cultura misogina medievale: la donna al potere vista come una beffa della natura, tendenzialmente strega, lussuriosa, incestuosa, eretica. Se il Socrate dei dialoghi platonici non escludeva la possibilità per la donna di accedere a posizioni di comando, la genesi di questa immagine risale ad Aristotele. Nel terzo libro della Politica, lo stagirita non la menziona nemmeno tra le categorie dei “non-cittadini”. Con l’eccezione di Euripide, la tragedia greca è piena di figure femminili lascive e dal genio distruttore. Il mito di Pandora, raccontato da Esiodo, attribuisce a una donna l’origine delle fatiche e dei dolori dell’umanità. Nelle epistole paoline, poi, la sottomissione della donna al potere maschile è categorica. Nel mondo greco-romano come in quello giudaico-cristiano, insomma, la tradizione misogina si radicava in una gerarchia dei sessi costitutiva della stabilità del nucleo familiare e, insieme, dell’incremento demografico. Nell’alto Medioevo, Matilde di Canossa (1046-1115) è la personalità femminile più leggendaria della sua epoca. Protagonista assoluta della lotta per le investiture, che contrapponeva pontefici e imperatori germanici sul problema delle nomine vescovili, spaccherà l’opinione pubblica europea. Per il suo sostegno a papa Gregorio VII, verrà paragonata dai ghibelllini all’empia Jezabel dell’Antico Testamento, dai guelfi alla Vergine Maria. Del resto, come ha messo in evidenza Jacques Le Goff, il culto mariano dotava le donne di uno status ammantato di un’aura religiosa, fino alla santità. I margini di autonomia femminile nella società feudale si consumano progressivamente nel corso del Trecento. Si fa strada una nuova idea di famiglia, che diventa il fondamento su cui poggiare l’edificio dello Stato moderno. La sua coesione viene perciò considerata di vitale importanza, e i legislatori non risparmieranno accorgimenti per metterla al riparo dalle potenziali minacce -l’irrazionalità, l’incostanza- derivanti dalla natura femminile. Nel Quattrocento giuristi e eruditi umanisti mutuano e sviluppano dal sapere medico e dal diritto romano i concetti di “fragilitas et infirmitas sexus”. Viene teorizzata quella inferiorità che autorizzava l’esclusione delle donne dai “virilia officia” (guerra e governo) e dalla successione nei feudi, “ob garrulitate” (per petulanza) e perché “foeminae sua natura dominationis cupidae sunt” (per connaturata sete di potere). La riscoperta della legge salica, che riservava la continuità dinastica solo alla discendenza maschile, avviene in questo contesto. A partire dal quattordicesimo secolo e per tutta la durata del Rinascimento, diverse generazioni di giuristi si ingegneranno per renderla irreversibile. Nondimeno, nella Francia cinquecentesca l’arretramento della condizione sociale della donna coinciderà con un sorprendente progresso del suo prestigio intellettuale. Sulla scorta del “De claris mulieribus” di Boccaccio, tradotto su impulso di Anna di Bretagna, moglie di Carlo VIII, nasce un filone letterario destinato a una lunga fortuna, centrato sull’elogio della “femme forte” e della “femme savante”. C’è stato, allora, un Rinascimento per le donne? Le risposte a questa domanda, formulata per la prima volta nel 1972 dalla studiosa americana Joan Kelly-Gadol, non sono state univoche. Ma, alla prova dei fatti, mai come nell’Europa del Cinquecento un numero tanto rilevante di donne -figlie, sorelle, mogli, madri, amanti- ha avuto accesso ad elevate responsabilità o ha governato in prima persona. Farne l’elenco completo non è possibile. Basti ricordare il nome di Caterina de’ Medici (1519-1589), che per trent’anni reggerà la Francia in uno dei periodi più tragici e sanguinosi della sua storia. In una celebre requisitoria, Jules Michelet ne farà l’incarnazione della doppiezza e della cattiveria femminile. Nella Comédie Humaine, Honoré de Balzac ne esalterà invece la politica di tolleranza e di riconciliazione, che avrebbe consentito alla monarchia transalpina di superare una delle sue prove più difficili dopo ben otto guerre di religione e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572). Questo illustre corteo di signore al potere non rivela un miglioramento giuridico della condizione delle donne. Dimostra tuttavia che molte tra loro hanno saputo far valere le proprie ambizioni e la propria intelligenza – e anche la loro bellezza – a dispetto dei pregiudizi maschili. Tuttavia, come ha scritto Benedetta Craveri in Amanti e regine (Adelphi, 2008), per quanto spettacolari i loro successi costituiscono la somma di casi individuali, non si saldano mai in un’unica storia. Perché” la Storia rimane appannaggio ufficiale degli uomini, e per inserirsi nei suoi ingranaggi senza venirne stritolate, bisogna mascherarsi, giocare d’astuzia, crearsi alleati potenti, distribuire favori, sedurre, corrompere, punire – e sapere, al momento giusto, uscire di scena”.

8 Marzo? È l’uomo che ha bisogno di una festa, non la donna, scrive Barbara Pavarotti l'8 marzo 2016. Già chiamarla “festa” è un’assurdità. Dov’è la festa? In realtà è “la giornata internazionale della donna”, quella che l’Onu, nel 1977, nell’epoca delle grandi battaglie per i diritti femminili, si decise a proporre come “giornata delle nazioni unite per i diritti della donna e la pace internazionale”. La parola pace poi è sparita gradualmente, di nome e di fatto. Però non fu male l’idea dell’Onu di abbinare donne e pace. Le donne le guerre non le hanno mai fatte semplicemente perché al potere non ci stavano. E comunque, stando alla storia e alla cronaca, non ci sono tante versioni femminili di dittatori, torturatori, violentatori, mafiosi. Le donne, nella violenza, non è che poi ci sguazzino granchè. Come al potere: non ci sono molto abituate. E qualche rinuncia la devono sempre fare per far quadrare la propria esistenza. Rinunciare a far carriera per seguire la famiglia o rinunciare alla famiglia per seguire la carriera. Rimane questo il grande dilemma femminile. Inutile prenderci in giro coi luminosi esempi di manager di successo con 5 pargoli al seguito. Quelle hanno i soldi, tate e cuoche. Trovatemi una donna che lavora 12 ore al giorno per arrivare a fine mese e gestisce senza aiuti, nemmeno genitoriali, casa e famiglia e sarà da premio Nobel. Non ci stanno. Ma, da decenni, tocca sentire, in prossimità dell’8 marzo, la solita liturgia sui pari diritti e le pari opportunità, sulla necessità di maggiori servizi sociali per aiutare le madri in affanno. Populismo da campagna elettorale. Perché, passata la retorica dell’8 marzo, tutto rimane esattamente come prima. Data sciagurata ormai, questa dell’8 marzo. Oggi compie 70 anni perché fu istituita in Italia nel 1946 ed è decisamente invecchiata, mostra tutte le sue rughe. Utilissima nel dopoguerra, quando le donne conquistarono finalmente, il 10 marzo 1946, per le prime amministrative, il diritto di voto. Il 2 giugno 1946, per il referendum monarchia/repubblica, il Corriere della sera titolò: “Senza rossetto nella cabina elettorale”. Perché la scheda doveva essere incollata umettandola con le labbra e le tracce di rossetto l’avrebbero resa riconoscibile, quindi nulla. Utilissima negli anni ’70 quando le donne manifestavano per il divorzio e per l’aborto e venivano com’è successo a Roma (8 marzo 1972) persino disperse dalla polizia. Meno utile oggi perché ormai le donne, semplicemente, sono stanche. E stufe di sentire la solita lagna sul “patrimonio” femminile da tutelare e valorizzare, sul genio e il valore femminile. Lo sappiamo bene ormai quanto valiamo, grazie. L’abbiamo sempre saputo e infatti tanto si è lottato per cambiare il mondo. Le donne la loro rivoluzione l’hanno fatta ed è l’unica che ancora resiste. Delle tante utopie dal dopoguerra in poi, come ben ha evidenziato Curzio Maltese sul Venerdì, ben poco è rimasto. Il “mai più guerre” non si è avverato, anzi. Gli stati uniti d’Europa sognati da Altiero Spinelli non si sono mai realizzati. Il benessere economico per tutti nemmeno a parlarne. Il pianeta è sempre più sporco e invivibile. Tutte le rivoluzioni sono andate in fumo: tranne una. Quella compiuta dalle donne in Occidente. Qui davvero è cambiato tanto: opportunità di vita e di lavoro, possibilità di scelte e libertà. E’ cambiato tanto al punto che le donne non ce la fanno più. Perché gli uomini non sono cambiati. Almeno non quanto le donne. Poveri maschi, sono davvero in crisi ormai: così confusi e disorientati che hanno paura di tutto. O rimangono tetragoni: guai a chi li mette in discussione. E allora, ecco la proposta. Basta con la festa della donna che ci fa sentire tanto panda, un “caso umano” cui dedicare una celebrazione, basta con questo giorno che ci omaggia e ci perseguita e oggettivamente ormai non porta assolutamente a nulla se non a un grande sperpero di mimose, che dopo un giorno puzzano pure. Facciamo “la festa dell’uomo”. Perché anche lui ormai sembra una specie in via di estinzione. Introduciamo le quote blu, quelle riservate agli uomini. Anche loro in fin dei conti – e mai come in questo periodo – hanno i loro problemi di ruolo e di identità, no? Se non la si fa, vuol dire che la festa degli uomini dura 364 giorni all’anno. E il sospetto spesso ci viene. Via, parlare dei diritti delle donne, oggi, è come dire che è giusto essere buoni, che è obbligatorio combattere la fame nel mondo. E’ una tale ovvietà. Meglio risparmiare il fiato e pensare ai fatti, tutto l’anno. E visto che anche tutto l’anno ben poco si conclude, rovesciamo la scacchiera: mettiamo LUI al centro del dibattito. Basta di sbandierare, da eterne vittime, i nostri più che ovvi diritti. Imponiamo agli uomini, almeno una volta all’anno, di mettersi ufficialmente in discussione. Chissà perché ho la sensazione che se per un giorno, un solo giorno, l’uomo si sentirà sotto osservazione, reagirà. E assai più delle donne. Dedichiamola, dunque, questa giornata all’uomo: al suo ruolo, al suo impegno e ai suoi doveri verso le donne. Giornata di riflessione, mica una roba da carnevalata sessista. O fasulla e consumistica come le decine di feste che ci invadono puntualmente: del papà, della mamma, dei nonni, del gatto, degli innamorati. Diceva la grande antropologa Ida Magli: “Le feste nascono perché i subalterni possano una volta all’anno sentirsi liberi da vincoli e legami. Nell’antica Roma, ad esempio una volta all’anno si permetteva allo schiavo di fare da padrone”. E ormai, bisogna ammetterlo, lo schiavo è lui, l’uomo. Ancora prigioniero di pregiudizi, ancora troppo convinto del proprio potere o, viceversa, confuso e annaspante. Il “caso umano” oggi è l’uomo. E’ lui a non riuscire a combinare proprio nulla, senza le donne. Anche se ci ha messo millenni per ammetterlo e ancora a qualcuno non è entrato bene in testa. Zucche dure, quelle degli uomini. Una bella giornatina di convegni, dibattiti dedicati alla figura maschile ci sta proprio bene di questi tempi. Scusate donne, ma è arrivato il momento che si dia da fare lui, non noi. Noi abbiamo già dato. E comunque abbiamo sempre troppo da fare. Ben più degli uomini.

La protesta in occasione della giornata delle donne dell'8 marzo 2017. Alzata di gonne davanti Palazzo Pirelli, sede del Consiglio regionale della Lombardia. Qualche decina di manifestanti con un sacchetto bianco sulla testa ha messo in atto la performance «Ana Surumai», mentre dal camion gli organizzatori del corteo della rete «Non una di meno» scandivano le rivendicazioni del gesto. Tra i cartelli che circondavano le donne durante la performance, scritte come «Su le gonne contro il patriarcato», «Su le gonne contro il corpo come destino», «Su le gonne contro il controllo medico sui corpi» e «Perché siamo forti delle nostre differenze».

Otto marzo. Perché lo sciopero «per le donne» è stato un errore, scrive Dario Di Vico l'8 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Togliamoci subito il dente: lo sciopero delle donne proclamato ieri si è rivelato un mezzo disastro. Se nei sogni di molte doveva essere una grande e pacifica prova di forza capace di dimostrare «per sottrazione» che senza le donne niente funziona, purtroppo non è andata così. Hanno scioperato più uomini che donne. Alla fine il settore più colpito è stato quello del trasporto pubblico, con tutte le ricadute che ben sappiamo sugli strati meno abbienti della società. La piattaforma elaborata dall’associazione Non una di meno era corretta nell’individuazione dei temi, tra i quali femminicidio, disparità di trattamento economico, sperequazione dei carichi di lavoro, educazione. Sono tutte issue più che condivisibili e adeguate per promuovere una giornata di mobilitazione. Ma lo sciopero no. È uno strumento che finisce per coinvolgere attivamente solo una fetta minoritaria del mondo del lavoro, i posti fissi, e soprattutto — non avendo una controparte precisa e una piattaforma immediatamente esigibile — lo sciopero rischia di rivelarsi una dimostrazione di debolezza, non di forza. Ieri infatti alla fine l’astensione dal lavoro nei trasporti o nelle scuole ha finito per pesare su altre donne che sono dovute rimanere a casa perché magari la baby sitter non poteva raggiungerle. La vicenda dell’8 marzo suggerisce però una considerazione di carattere più generale e che si può sintetizzare così: ha senso oggi coltivare ancora la separatezza delle donne? O piuttosto si tratta di spendere la loro grande forza morale e le loro straordinarie motivazioni per ricucire le nostre società e liberarle dal cinismo e dall’indifferenza? In fondo se vogliamo davvero «salvare l’Occidente» oggi c’è bisogno di più giustizia sociale e le donne in materia sembrano sicuramente le più attrezzate.

Dell'8 marzo e del perché uno sciopero globale è proprio l'ultima cosa che serviva alle donne, scrive l'8 Marzo 2017 Serena Rosticci su "L’Inkiesta". 

AVVERTENZA: post altamente impopolare, si sconsiglia la lettura ad acidi, polemici, guerrafondai e deboli di stomaco. Vengo in pace, ma questa la dovevo propri di’, come si dice qui a Roma. Donne di tutto il mondo, a me l’attenzione: che nessuna di voi oggi alzi un dito, si azzardi ad andare al lavoro o muova un muscolo in casa. Guai a chi laverà i denti a suo figlio o, peggio, si unirà a suo marito (sì, proprio in quel senso, rassegnatevi). Oggi, 8 marzo, ogni attività produttiva e riproduttiva deve essere interrotta. Parola di "Non una di meno" che aderisce e invita ad aderire allo sciopero globale indetto in occasione della Giornata Internazionale della donna.

Premetto: sono la prima a essere contraria a qualsiasi forma di violenza sulla donna e la prima a battersi per ottenere gli stessi diritti di un uomo in qualsiasi ambito, compreso quello lavorativo. Sono una mamma, nessuno sa meglio di me cosa significhi essere discriminata in un posto di lavoro per il tuo desiderio di maternità o perché la sera devi tornare a casa da tua figlia che ti aspetta nascosta dall’armadio per farti “Buh”. E no, non puoi tardare nemmeno un quarto d’ora, pena il soffocamento. Per i diritti miei, e di quelli di ogni donna, lotto ogni giorno, o almeno ci provo, non voglio essere arrogante. Ma non con questo sciopero. Ritengo che la protesta di oggi non abbia contribuito ad altro che ad andare contro le donne per tutta una serie di motivi.

1. Manca la controparte. Si sa, uno sciopero lo si fa sempre contro qualcosa o qualcuno. I miei diritti vengono a mancare? Bene, mi faccio sentire da chi li ha calpestati, lo metto in difficoltà, sia questo il mio datore di lavoro, che lo Stato stesso. Nel caso specifico dello sciopero di oggi chi sarebbe la controparte che dovrebbe ascoltare? Il genere maschile? I maschilisti tutti? Le donne assoggettate agli stereotipi femminili? Tutti questi soggetti insieme? Mi sembra un po’ tutto troppo campato in aria. Scioperare oggi equivale a farlo contro la fame nel mondo. Nobilissimo, per carità, ma non so quanto porti i suoi frutti.

2. Si sono messe in difficoltà prima di tutto le donne. Mia figlia non è potuta andare a scuola. Ho dovuto cercare e pregare in ginocchio qualcuno che me la tenesse per poi correre ed evitare di perdere l’ultima metropolitana prima della chiusura dei cancelli. Perché al lavoro io, come altre migliaia di donne, oggi sono dovuta andare allo stesso. Dopo dovrò correre ancora per prendere di nuovo i mezzi pubblici prima della chiusura della fascia di garanzia e poi andare a prendere la bimba e tornare a casa sane e salve. Non so a che ora. Grazie a tutte e a tutti, eh.

3. Perché fa ridere. Scusate, ma che vuol dire ‘Ogni attività produttiva e riproduttiva sarà interrotta’? Qualsiasi cosa faccia, sono io prima di tutto ad averla scelta. A partire dal mio lavoro. Ma prendermi cura della mia famiglia per me non è un lavoro. Vestire mia figlia, farle da mangiare, spazzolarle i capelli, per me non è un lavoro. Unirmi fisicamente a mio marito per me non è un lavoro. Il sesso non è qualcosa che gentilmente si offre. Mi sembra una lotta a suon di dispetti.

4. Perché io lotto ogni giorno. Non mi serve uno sciopero per protestare contro la discriminazione sul posto di lavoro. La mia lotta consiste nell’andarci ogni giorno e dimostrare con la mia intelligenza e con la mia preparazione quanto valgo. Non mi serve uno sciopero per protestare contro la violenza sulle donne. La mia lotta consiste nell’educare mia figlia a pretendere rispetto. Prima di tutto il suo, poi quello di qualunque altra persona, sia essa un uomo o una donna. Nello spiegargli che un uomo violento è un uomo che non vale niente, che se usa anche ‘solo’ le parole per farla sentire piccola e insulsa è un uomo che per primo piccolo e insulso ci si sente. E che ha bisogno di uno psicologo, non di una compagna. Che una donna è vita, armonia e amore, e che niente e nessuno può svilirla. E se mai un giorno avrò anche un figlio maschio sarò ben più felice di educare anche lui a questi valori. Anche se l’esempio vale più di mille parole e quello che troverà in suo padre potrà sicuramente essergli di grande aiuto. Non mi serve uno sciopero per affermare il mio valore in quanto donna. Cerco sempre di dimostrarlo in tutto quello che faccio ogni giorno, nelle mie scelte quotidiane, nei miei piccoli atti di coraggio.

5. Perché i cambiamenti veri non avvengono con una giornata di disservizi. Avvengono invece con il lavoro quotidiano, con l'informazione sacrosanta, quella fatta bene. Con la passione, con la pazienza e con il coraggio. Ma soprattutto con la speranza che prima o poi le nostre lotte smuoveranno le coscienze e le idee rendendo migliore la vita di qualche ragazzina. Siamo donne, queste doti non ci mancano. E per fortuna, siamo pure multitasking.

P.s. Non me ne vogliano le donne che hanno scioperato. Le rispetto e rispetto gli ideali che le hanno mosse. Anzi, alla fine oggi mi hanno regalato un tuffo nel passato, a quando andavo a scuola, era l’8 marzo e non si entrava. Mai.

Perché in Occidente la Festa della donna non ha più senso, scrive Corrado Ocone su "Formiche.net" l'8 marzo 2017. Il commento del filosofo Corrado Ocone.

A costo di essere accusato delle più turpi nefandezze da parte della centrale dominante del “pensiero unico”, credo che oggi la festa della donna non solo non abbia più senso, almeno qui in Occidente, ma vada addirittura abolita come festa dannosa al genere femminile stesso. Che le donne come genere e gruppo si siano in passato coalizzate per poter affermare il diritto alla loro autodeterminazione senza la tutela dei maschi o dello Stato, per poter realizzare liberamente i loro progetti di vita, è stato un processo coerente con la modernizzazione delle nostre società. Che ciò sia potuto accadere, e far pesare i suoi frutti (seppure ancora parziali), in primo luogo e soprattutto in questa parte di mondo, è un dato storicamente significativo che però la mentalità illuministica astratta e di massa che domina oggi nelle nostre società tende a non considerare. Essa anzi tende ad imputare al cristianesimo storico, e più in generale alla nostra civiltà, ogni tipo di discriminazione in funzione antifemminile. Non accorgendosi che proprio i germi presenti sin dall’inizio nella cultura cristiano-occidentale hanno permesso di raggiungere quegli stadi (ripeto ancora parziali e imperfetti) di emancipazione che oggi andrebbero celebrati. Qualche settimana fa è uscito un libro, che ha avuto un discreto successo, in cui si ripercorre la storia del pregiudizio anti femminile nella nostra cultura (Paolo Ercolani, Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio. Marsilio). Il libro riporta passi che la nostra sensibilità odierna tende a classificare come misogini, di pensatori di ogni tempo e corrente filosofica, tutti allineati nel considerare la donna un essere “inferiore”. È un volume interessante, ma in cui l’autore, vuoi per convinzione vuoi per aderenza allo spirito dei tempi, finisce per condannare tutti i padri della nostra civiltà. Senza i quali, essa semplicemente non sarebbe. È lo stesso processo che, in modo probabilmente più rozzo, portano avanti in certi campus americani (e non solo) femministe radicali e teorici delle minoranze. Costoro, con intento censorio, vorrebbero addirittura espungere dai piani di studi autori considerati rei di leso femminismo o maschilisti. E fa niente che i loro nomi siano quelli di Platone, Aristotele, Agostino, Nietzsche, ecc. È quindi oggi all’opera, nella parte mediamente colta della nostra società, una mentalità antistorica e antidialettica, che, da una parte, non riesce ad andare oltre all’astratto confronto fra la nostra sensibilità e quella degli uomini del passato, e, dall’altra, non si rende conto che la nostra consapevolezza attuale nasce non per azzeramento ma affinamento delle convinzioni del passato. Le donne colte dell’Occidente non hanno bisogno di un femminismo identitario, e politicamente orientato, in ultima della politica (di sinistra) succube. Il passo ulteriore che esse oggi devono compiere, così come tutti noi, è quello di affermarsi e di pretendere diritti e libertà non in virtù del loro essere donne, ma semplicemente in quanto individui o rappresentanti del genere umano. Devono chiedere, a prescindere dal loro genere, di essere rese fino in fondo responsabili per i loro atti e comportamenti. È questa la libertà e la conquista da pretendere e rivendicare, non già quella di essere considerate un genere “speciale” e da “tutelare” o favorire.

"Porta due uomini, avrai un libro": polemica sulla Pinacoteca di Bologna. 8 marzo: le donne entrano gratis al museo, ma l'omaggio solo se sono accompagnate da due uomini. Polemica per la promozione della Pinacoteca Nazionale di Bologna, scrive Alessia Albertin, Mercoledì 8/03/2017, su "Il Giornale". Per festeggiare l’8 marzo, le donne entrano gratis al museo. Ma la Pinacoteca nazionale di Bologna riserva un omaggio solo a chi si presenta accompagnata da due uomini. Ed è subito polemica. Niente mimose alla Pinacoteca. Anzi, un volume sull’iconografia femminile nella storia dell’arte intitolata "Lucrezia Romana, la virtù delle Donne da Raffaello a Reni". Un "regalo" per le visitatrici in occasione della loro festa. Ma con una clausola: per poter ricevere il dono occorre essere accompagnate da non uno ma ben cavalieri. Paganti, si intende. L'iniziativa, pubblicizzata sulla newsletter del museo con tanto di auguri per la festa della donne, scatena un putiferio. "La trovata è opposta allo spirito dell’8 marzo" commenta a La Repubblica Lola Hanau, curatrice del cineclub Bellinzona. Si stupisce anche l'ex direttrice della Pinacoteca, Jadranka Bentini: "Il libro è un’opera magnifica, perfetta per l’8 marzo, certo la modalità dell’omaggio è bizzarra". "È una cosa in più. Le donne non pagano e non si poteva offrire l’omaggio a tutti - si giustifica imbarazzata la direttrice della Pinacoteca, Elena Rossoni - E comunque non è stata una nostra decisione". L'idea, infatti, porta la firma di Mario Scalini, il direttore del Polo museale, che commenta: "Qualcuno ci trova disallineati con lo spirito dell’8 marzo? Non so, le colleghe non la vedevano così, visto il libro. Il risultato ci dirà. Forse c’è un fraintendimento. L’accesso alle donne è gratuito comunque - continua - A quelle che convincono due uomini a seguirle daremo anche una copia del libro in omaggio". Ma la spiegazione non convince, soprattutto le dirette interessate. "È una questione di sensibilità. Siamo al solito paternalismo all’italiana e lo direi anche se l’idea fosse venuta a una donna – replica Giovanna Cosenza, semiologa e docente di comunicazione politica all’Alma Mater – Tra l’altro tutti i dati confermano che le donne sono quelle che leggono più libri, che frequentano più musei. Non voglio essere troppo cattiva, è pur sempre un museo, ma se si organizza qualcosa su un tema come questo occorre farlo al passo con la realtà. E, secondo l’annuale Global Gender Gap Report, il problema delle donne italiane non è l’istruzione o la cultura, le donne sono più istruite e preparate, è l’accesso al lavoro, la disparità nel trattamento economico che inizia fin dal primo anno lavorativo - conclude la docente - sembra il modello delle discoteche applicato alle istituzioni culturali: gli uomini pagano, le donne gratis. Anzi, qui lo scambio è due uomini per una donna".

Perché io, donna, dico: serve uno sciopero contro la Festa della donna l’8 marzo, scrive Marta Ottaviani l'8 marzo 2017 su "Formiche.net". La verità è che si dovrebbe organizzare uno sciopero contro la Festa della Donna. Dubito servirà a cambiare qualcosa, ma almeno finalmente si chiamerebbe con il suo nome quella che ci spacciano come una “festa”, ossia “la giornata della frustrazione”, quelle 24 ore dove fra dati sulla violenza domestica, mancanza di pari opportunità, divisione delle donne stesse, ci si rende conto di come la soluzione sia ancora lontana e forse esista solo in un mondo ideale. E non solo per colpa degli uomini. Quest’anno, ad allietare una quotidianità fatta già di salti mortali, è arrivato anche lo sciopero generale. Evidentemente i sindacati non hanno pensato che per protestare contro la violenza di genere hanno reso la vita ancora più difficile a milioni di madri, mogli, professioniste, single più o meno precarie, anziane e studentesse. Si tratta di un’immagine paradossale, ma che disegna un ritratto perfetto della questione femminile oggi. Di certo, c’è solo che le donne, chi più chi meno, non sono contente della situazione attuale. In mezzo, però, c’è un Paese, l’Italia, fatto di divisioni generazionali e ideologiche, differenze lavorative e di condizione sociale e personale, che portano inevitabilmente a una ridefinizione delle priorità e dove la panacea di tutti i mali per alcune è l’introduzione delle quote rosa. Con tutto il rispetto per chi porta avanti questa battaglia, anche perché altrimenti da alcune si rischia di essere sbranate, sarebbe come nascondere la polvere sotto il tappeto. In Italia c’è un evidente problema di meritocrazia e selezione. Allargare la possibilità di ingresso di donne in posizioni di dirigenza rischia di portare a vedere persone sbagliate nel posto sbagliato. Se le conclusioni sono queste, preferisco vederci un uomo, grazie. Lo facevano in un partito di inizio seconda repubblica, dove la quota rosa era simpaticamente definita “quota panda”. Ora, li ringrazio per non averci imposto, almeno dal punto di vista simbolico, modelli estetici inarrivabili come quelli che ci ritroviamo tutti i santi giorni sui cartelloni pubblicitari o davanti ai quali si gira la gran parte dei maschi di questa terra, però l’espressione “quota panda” mi ha sempre dato l’impressione dell’animale da tutelare più che dell’elemento da valorizzare. Non saranno stati eleganti, ma almeno sono stati onesti. Il succo della questione è che ogni persona avrebbe il diritto di essere valutata per quello che è, non per il fatto che sia uomo o donna. Ammetterlo non fa comodo al genere maschile, che rischierebbe di essere bollato come misogino e maschilista per una volta che invece dice una cosa condivisibile (ma che dovrebbe anche trovare il modo di applicare nella vita di tutti i giorni, se non è di troppo disturbo). Per le donne, ci vorrebbe forse troppo coraggio ad ammettere che alcune di noi che si nascondono dietro il motivo di genere non sono proprio modelli da seguire né nella vita professionale e nemmeno sotto il profilo umano e che, se possono mettere i bastoni fra le ruote a un uomo piuttosto che a una donna, scelgono molto volentieri la seconda. E quindi si va avanti così, fra frustrazioni professionali, economiche e in qualche caso anche affettive, e divisioni interne, aspettando l’otto marzo alcune per ‘festeggiare’, ossia scendere in piazza con i soliti slogan contro i soliti problemi irrisolti, altre per dire alle prime che tanto ‘festeggiare’ non serve a niente. Per tutto il resto dell’anno, il solito tran tran, a fare le madri, le mogli, le professioniste, le amiche, le amanti. Tutto insieme e tutto bene. Chi ci guadagna in tutto questo? Quegli uomini, perché ci sono, che una donna come capo non la vorrebbero mai e che magari oggi compreranno pure la mimosa. E quando vedono due donne che si scannano fra di loro stappano uno champagne millesimato. Io non voglio né la mimosa né le quote rosa. Mi accontenterei di servizi che funzionino e di un Paese con una mentalità diversa. Oggi, in compenso, mentre mi ricopriranno ipocritamente di auguri o quelle in buona fede mi inviteranno a lottare in cose a cui non credo, dovrò contare fino a 10 per non tirare improperi contro chi ha organizzato lo sciopero generale.

In Occidente la parità uomo-donna è veramente realizzata? La parità uomo-donna è ancora una meta da raggiungere, non un fatto acquisito. Nella realtà, toccano spesso alle donne compiti gravosi e poco gratificanti. Le loro possibilità di coltivare i propri interessi e seguire le proprie inclinazioni possono essere fortemente limitate. Sul lavoro, una donna trova spesso più difficoltà di un uomo. L'obiettivo di tutelare i diritti delle donne è perseguito dai movimenti femministi e fatto proprio da alcuni soggetti politici. A livello di leggi, l'Italia può vantare un ordinamento fra i più avanzati del mondo. La parità di diritti e di dignità fra uomo e donna è affermata senza mezzi termini, nella famiglia come nella società. Poiché le discriminazioni esistono di fatto, è a volte necessario prevedere garanzie speciali per le donne, ma è auspicabile che queste diventino inutili con l'evoluzione del costume. Leggi che riguardano espressamente le donne si giustificano solo in casi particolari, per esempio per la tutela della maternità. Il cammino verso un'effettiva parità è in pieno svolgimento e i progressi nell'arco dei decenni sono evidenti. La emancipazione della donna dai soli compiti familiari e la partecipazione alla vita pubblica e al lavoro esterno è realizzata da un numero crescente di donne. Nelle scuole di ogni livello il numero di studentesse e studenti è uguale. Abbiamo buon numero di donne nella magistratura, nell'insegnamento, nella medicina, alla guida di autobus, operaie, commercianti. In campi come la politica, l'ingegneria, la dirigenza burocratica e industriale, il numero delle donne è ancora minore di quello degli uomini, ma la loro presenza non è vista come un fatto eccezionale. Sono state eliminate norme odiose, come il delitto d'onore o l'obbligo per la moglie di "seguire il marito" per la residenza. Oggi ogni donna ha realmente la possibilità di scegliere il tipo di vita che vuole intraprendere. Trova ancora, però, maggiori difficoltà di un uomo, e in particolare rischia spesso di dover scegliere fra realizzazione familiare e realizzazione sul lavoro. Gustavo Avitabile.

"Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". A parole progressisti, a casa sessisti. Dossier Istat sugli stereotipi di genere, scrive "L'Huffington Post" il 09/12/2013.  La maggioranza schiacciante degli italiani (77,5%) è convinta che non debba toccare all'uomo prendere le decisioni più importanti della famiglia, e sempre una percentuale altissima (80%) è sicura che gli uomini non sono affatto dirigenti o leader politici migliori delle donne. Allo stesso tempo, nonostante per quattro cittadini su dieci le donne subiscano evidenti discriminazioni di genere, un italiano su due ritiene che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende di casa e la metà della popolazione in fondo trova giusto che in tempo di crisi i datori di lavoro debbano dare la precedenza ai maschi. Non solo: nelle coppie - anche in quelle che litigano per decidere chi carica la lavatrice e porta il bambino dal dottore - sia le donne che gli uomini arrivano alla conclusione che il carico di lavoro casalingo sia equo. E' il ritratto di una nazione ancora intrappolata negli stereotipi di genere quello presentato oggi dal dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Istat che ha curato lo studio "Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". "Sebbene una parte cospicua della popolazione sembra aver lasciato perdere la convinzione che gli uomini debbano prendersi maggiori responsabilità delle donne, continua a esistere uno zoccolo duro che resiste al cambiamento", commenta la curatrice dello studio Linda Laura Sabbadini, capo dipartimento dell'Istat. Gli stereotipi contro le donne - più diffusi al Sud, negli anziani e nei ceti sociali meno istruiti - sono maggiormente cari agli uomini: il 60,3% e' convinto che una madre lavoratrice non possa stabilire un buon rapporto con i figli come una madre che non lavora. E, in generale, quattro uomini su dieci stima che non esista alcuna discriminazione di genere nei confronti delle donne. Sorprendentemente sono anche le donne a nutrire gli stereotipi su se stesse oppure a negarli: se per la maggioranza degli italiani (57,7%) gli uomini godono di una situazione migliore, il 50,6% delle italiane pensa che le donne in Italia non patiscano alcuna discriminazione. Gli svantaggi riconosciuti sono legati al lavoro: le donne sono maggiormente svantaggiate nel trovare una professione adeguata al titolo di studio, nel guadagnare quanto i colleghi maschi, nel fare carriera e conservare il posto di lavoro. Ecco perché moltissime donne (il 44,1% contro il 19,9% degli uomini) ammettono di avere fatto rinunce in ambito lavorativo perché hanno dovuto occuparsi della famiglia e dei figli. "La politica non può intervenire proponendo una misura legislativa per cambiare l'immaginario degli italiani", afferma Maria Cecilia Guerra, viceministra al Welfare con delega alle Pari Opportunità. Meglio "fare in modo che la società si faccia carico dei soggetti deboli come i bambini, gli anziani, i disabili" liberando le donne da quel tradizionale compito di cura. Non esiste invece alcuna differenza di genere nelle discriminazioni che gli italiani (25%) dicono di avere subito, specialmente a scuola e nel lavoro, e legate secondo gli intervistati alla condizione sociale originaria e alla provenienza territoriale (Sud). Una scarsissima mobilità sociale che secondo Lucia Annunziata "e' accentuata dalla crisi economica e racconta la rabbia delle persone che sentono di essere escluse dalla possibilità di riscatto", un senso di impotenza specialmente avvertito nelle regioni del Meridione "che sta anche alla base del grillismo". Quanto alle donne, la direttrice dell'Huffington Post sente che "ancora faticano a proporsi con sicurezza nel campo delle professioni poiché si sentono in difetto e invece dovrebbero pensare che il lavoro non ha genere". E' ancora la parte economicamente più debole del Paese a colpire la curatrice Sabbadini: "nonostante la condizione delle donne nel Sud sia peggiore dal punto di vista lavorativo e sociale, la percezione degli stereotipi e delle discriminazioni subite sia molto meno evidente". Il segno che "la presa di coscienza degli stereotipi e' ancora lenta nelle regioni meridionali". In definitiva, conclude, servirebbe "un barometro delle opinioni" curato dall'Istituto di Statistica per misurare le idee e le percezioni degli italiani sui fenomeni sociali politici. Uno strumento che darebbe il polso del Paese sulle questioni fondamentali.

Parità uomo donna: a che punto siamo. La quota di donne che lavorano è cresciuta incessantemente in Europa negli ultimi anni, e il livello d'istruzione delle donne è oggi superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante, la maggior parte delle donne sono ancora escluse dai vertici della vita sociale, economica e politica. La differenza media di retribuzione tra uomini e donne, ad esempio, si è stabilmente assestata sul 15% dal 2003, scendendo di un solo punto dal 2000, e la maggior parte delle donne recentemente affacciatesi sul mercato del lavoro sono entrate in settori e professioni dove si riscontrava già una forte presenza femminile. La presenza di donne dirigenti nelle imprese ristagna al 33%, mentre progredisce assai lentamente in campo politico; infatti appena il 23% dei parlamentari nazionali ed il 33% degli eurodeputati sono donne. Lo stesso dicasi quanto alla presenza delle donne nei governi nazionali, che da alcuni anni viene regolarmente monitorata dalla Fondazione Robert Schuman per tutti i paesi dell'UE. Un recente studio della CES mostra come anche tra le organizzazioni dei lavoratori la presenza delle donne nei posti di responsabilità sia ancora troppo debole, nonostante sia in crescita l'affiliazione delle donne ai sindacati di tutta Europa. Il Rapporto dell'Organizzazione mondiale del lavoro (OIL) sulle tendenze del lavoro delle donne nel mondo, pubblicato in occasione della Giornata internazionale della donna, mostra chiaramente come i progressi che pure si sono realizzati in questi ultimi anni hanno ridotto in maniera ancora insufficiente le disparità tra uomini e donne. In occasione della Giornata internazionale della donna, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha raccolto tutti i suoi lavori più recenti sul tema della parità uomo-donna. Il Consiglio d’Europa invita invece gli Stati membri e i loro cittadini a rafforzare l’impegno contro la violenza nei confronti delle donne. Si stima infatti che una percentuale compresa tra il 20% e il 25% delle donne abbia subito violenze fisiche almeno una volta nella loro vita e che oltre il 10% ha subito violenza sessuale. Anche l'Unesco celebra in questi giorni la giornata internazionale della donna, mettendo l'accento sul ruolo delle donne nella scienza. Per quanto riguarda l'Italia, il Consiglio dei Ministri del 27 febbraio scorso ha approvato lo schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva comunitaria 2006/54/CE concernente l'attuazione del principio delle pari opportunità fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Con questo decreto si introducono anche nel nostro paese molte novità nel codice delle pari opportunità. Ad esempio: il principio generale del "mainstreaming di genere", che obbliga a tener conto dell'obiettivo della parità tra uomini e donne in tutti gli atti legislativi e amministrativi; si ampliano le nozioni di discriminazione, rendendo più forti e omogenee le tutele, s'include la discriminazione legata al cambiamento di sesso, si vieta di discriminare attraverso i criteri di selezione e nelle condizioni di assunzione, si vietano trattamenti economici differenziati a parità di lavoro, si vietano discriminazioni in caso di licenziamento e di sospensione temporanea, si assicura il diritto di beneficiare, dopo congedi parentali, degli eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero spettati alla lavoratrice o al lavoratore durante il periodo di assenza. (Marzo 2008 Osservatorio Inca).

Donne, carriere in trappola. Colpa di discriminazioni e pregiudizi. Troppo carina per far l’ingegnere. Troppo emotiva per decidere. Troppo dolce per comandare. Sono tutti stereotipi: che danneggiano anche le aziende, scrive Francesca Sironi su "L'Espresso" il 03 gennaio 2016. Quanto può dire una foto. È il 9 novembre, sul palco parla Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, il suo nome saldato alla legge che dal 2011 impone la presenza femminile nei board delle società quotate (allora le donne erano il 6 per cento, ora sono il 23). In prima fila, ad ascoltarla, siedono Giuseppe Vegas, presidente della Consob, e Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato della Borsa italiana. Dormono, entrambi. O per lo meno, se ne stanno a capo chino, occhi chiusi, mani in grembo. Istantanea casuale di un rapporto che resta burrascoso: cosa devono fare le manager, le parlamentari, le funzionarie, le impiegate, le ingegnere, per essere prese sul serio dai colleghi? Cosa devono dimostrare, ancora, per farsi arruolare, assumere, riconoscere e ascoltare, alla pari degli uomini? È solo una foto, certo, ma il problema è globale. Isis Anchalee, una sviluppatrice che ha prestato il proprio sorriso a una campagna pubblicitaria per l’azienda informatica in cui lavora, è stata coperta di insulti sul web, perché considerata “falsa”, “troppo carina” per essere davvero una programmatrice. Uno stereotipo, validato da stuoli di smanettoni nerd rappresentati in occhialoni e jeans nelle serie tv. Uno stereotipo, comune anche ad altri universi, secondo il quale c’è chi è “adatto” e chi no a un mestiere solo a seconda del suo aspetto, o del suo sesso. Su un forum che raccoglie storie di donne occupate in ambienti tecno-scientifici, un’ingegnera nucleare scrive del suo primo incontro con un nuovo capo: «Io non ti avrei mai assunta», le dice lui. «Perché so che le donne non hanno la stessa conoscenza intuitiva dei meccanismi che servono per avere successo in questo campo». Le discriminazioni di genere dentro e intorno al lavoro, insomma, nonostante tutte le lotte, restano radicate, soprattutto nei campi tecnici. Ma forse - forse - in Italia meno che altrove. Almeno ad ascoltare le due “cacciatrici di teste” contattate da “l’Espresso”. La domanda nasceva dalle storie di cui sopra: il corpo delle donne è tutt’ora un “problema” nei colloqui, in ufficio? Le colleghe sono meno rispettate? La loro risposta è che possiamo forse ritenere finalmente fuori gioco almeno i preconcetti più banali. «Non mi è mai capitato di ascoltare una valutazione che pesasse l’essere “carina” fra i candidati proposti», sostiene Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel: «Gli stereotipi restano, ma quelli più profondi o inconsci. Come i pregiudizi verso le leader donna, ad esempio: ingiustificati eppure ancora saldi. Anche perché ci sono pochi modelli da seguire». Concorda Beatrice Roitti, partner associato di Key2People: «Molto raramente ho percepito distinzioni dovute al genere o alla bellezza quando ho presentato dei professionisti», spiega: «È vero però che la donna è considerata “più complessa da gestire” rispetto a un uomo; oppure “più debole” e quindi meno adatta a certi impieghi, nonostante la nostra esperienza ci dica esattamente il contrario: siamo altrettanto resistenti noi ai lunghi orari e alla fatica, se non è muscolare». Gli stereotipi però mantengono la loro forza perché si specchiano in una realtà che non cambia. Isis Anchalee risultava tanto “falsa” a chi la insultava quanto rare sono le ragazze nelle imprese hi-tech e nelle startup della Silicon Valley. E non è una questione solo californiana, ovviamente. I dati dell’osservatorio di Key2People sui contatti da loro avviati confermano la stessa polarizzazione in Italia: nel settore “Ict” (ovvero strutture d’informazione, comunicazione, tecnologia), le donne impiegate oggi sono solo il 15 per cento del totale. Ancora meno se ne trovano nei ruoli che riguardano “Direzione tecnica, ricerca e sviluppo, o produzione”: il 13 per cento. E poco meglio va nel commerciale (22 per cento) e negli uffici legali o fiscali: 24 per cento. Ognuno di questi numeri potrebbe avere una spiegazione diversa. Quella più evidente riguarda un divario che si annuncia già prima, nel corso degli studi. La sporadicità della presenza femminile fra hardware, server, reti e computer, infatti, è ereditata direttamente dall’università: su 3.824 iscritti maschi a “Ingegneria dell’informazione”, le donne sono 686. Gli immatricolati in “Scienze e tecnologie informatiche” sono divisi fra 17.910 ragazzi e 2.564 femmine. Poco più di una su 10. E lo stesso vale per l’ingegneria industriale: 56mila maschi, 14mila iscritte. Va meglio che in informatica - due su 10 - ma è sempre un abisso che si rispecchia poi nel lavoro. Da qui si potrebbe poi risalire ulteriormente seguendo quella che per molti è in fondo la linfa del problema: la mancanza d’attrazione verso codici, algoritmi, tavole o sistemi meccanici delle giovani sarebbe essa stessa tara di un lungo stereotipo, che fin da piccole alleva le bambine a non amare i numeri, a preferir le bambole da accudire e curare (nell’area sanitaria le donne sono il 63 per cento del totale, in università) - ma allora forse è dai colloqui per un impiego che bisogna ripartire. Le stesse statistiche però mettono in dubbio altre percentuali. Per esempio nella “Ricerca di nuovi prodotti”, o nelle squadre di esperti fiscali o legali, perché le donne sono così poche? Nelle discipline che inviano a quei mestieri, ormai, le laureate sono infatti pari o superiori ai compagni. Cosa le tiene allora lontane dalla realizzazione dei loro studi? «Per quanto riguarda le “direzioni tecniche” e i reparti produttivi può essere una questione di flessibilità», spiega Francesca Costardi. «Sono ruoli che richiedono spesso una presenza 7 giorni su 7, o turni il sabato e la domenica. E l’Italia è ancora ferma, statica, quando si parla di conciliazione familiare. Se sul lavoro stiamo dimostrando moltissimo, infatti, nessuno ci ha insegnato come essere anche, allo stesso tempo, delle buone madri; come seguire la carriera e la maternità insieme. Che rappresenta però anche il futuro demografico del paese». Mentre su altre posizioni resistono vecchi stereotipi: «Come appunto quello secondo cui, in quanto “sesso debole” le donne non potrebbero reggere i chilometri percorsi in auto dai venditori o le notti passate sui documenti dai consulenti», aggiunge Beatrice Roitti: «Mentre molte nostre colleghe stanno dimostrando ogni giorno il contrario». Qualcosa sta cambiando, dicono loro. Anche se il tasso di occupazione femminile resta inchiodato in Italia al 50,3 per cento, 13 punti sotto la media europea. Le donne, con la crisi, hanno perso meno posti rispetto agli uomini, è vero, ma per le giovani la strada è in salita. Soprattutto perché i segnali positivi di “parificazione” - minor divario negli stipendi, ad esempio - stanno arrivando, anche se al ribasso: sono peggiorate le condizioni degli uomini, non migliorate quelle dell’altro sesso. E se nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa il vento rosa è stato imposto per legge - portando, è stato dimostrato, a board più giovani e preparati, oltre che paritari -, ai vertici delle aziende le donne sono ancora poche. Il “top management” monitorato nel 2015 da Key2People è femminile soltanto al 21 per cento. Il “middle management” al 34. «La settimana scorsa abbiamo incontrato un grande imprenditore che sta cercando un manager», racconta Roitti. «Aspettando le quattro persone proposte, due candidate e due candidati, ha detto: “Ah, vediamo finalmente cosa possono fare queste donne”». “Finalmente”. Nel 2015. È tardi, tardissimo. Ma forse è almeno un inizio.

Donna e uguaglianza di genere: tra discriminazione e diritti negati, la strada è ancora lunga, scrive Luca Lampugnani il 7.03.2015 su "Ibtimes". Se le parole sono importanti (e lo sono), non è un caso che si dica "dietro ad un grande uomo c'è sempre una grande donna". Un'affermazione certamente ad effetto, sia chiaro, ma che nasconde un'interpretazione del mondo che da decenni e decenni - seppur tra molte migliorie - rimane nella sostanza immutata: le donne (per quanto grandi), fanno grandi gli uomini nell'ombra, in sordina. Dietro, appunto. E proprio in questi giorni, quando siamo alla vigilia dell'8 marzo, Giornata internazionale della donna, è giusto chiedersi quanto altro tempo sarà necessario affinché tutte le donne possano giustamente ritrovarsi non più dietro agli uomini, ma accanto, fianco a fianco. (Dis)Uguaglianza di genere: dalla Piattafroma di Azione di Pechino (1995) ad oggi. Sono passati esattamente vent'anni dall'adozione della Piattaforma di Azione di Pechino, progetto ratificato da 189 Paesi in tutto il mondo con l'obiettivo di ridurre in modo costante e sensibile i numerosi gap esistenti tra uomo e donna. In questo lasso di tempo la situazione globale è indubbiamente migliorata sotto numerosi aspetti, dalla salute all'istruzione, dalla presenza in politica e ai vertici delle grandi aziende internazionali. Tuttavia, affinché si possa vedere realizzato in futuro quanto la Conferenza mondiale sulle donne di Pechino ha messo sulla carta nel 1995, molto rimane ancora da fare. Non a caso, intervistata dall'Associated Press a pochi giorni dall'8 marzo, il direttore esecutivo dell'Ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile (abbreviato in inglese con UN Women), Phumzile Mlambo-Ngcuka, è stata lapidaria sul tema: nessun Paese del mondo ha raggiunto ad oggi una piena uguaglianza tra uomo e donna, ha spiegato, ricordando inoltre che tanto la sotto-rappresentanza di donne nei processi decisionali quanto la violenza di genere sono "fenomeni globali" tristemente di grande attualità. Un po' di numeri sulle differenze globali tra uomo e donna. Dato spesso tra i più riportati per sottolineare la disuguaglianza di genere che divide il sesso maschile da quello femminile, stando alle Nazioni Unite a parità di lavoro le donne hanno in media una remunerazione inferiore rispetto agli uomini che varia tra il 10 e il 30%. Alla luce di queste cifre, secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, dall'inglese International Labour Organization) gli stipendi delle lavoratrici rimarranno più bassi rispetto a quelli degli uomini per almeno altri 70 anni, riporta il The Guardian. Significativo, nel determinare tale lasso di tempo, è il lento, lentissimo migliorare della situazione: negli ultimi 20 anni, spiega ancora l'ILO, il rapporto globale tra le remunerazioni di uomini e donne è migliorato di soli 3 punti percentuali. Altro aspetto da non sottovalutare nell'analisi del divario tra uomo e donna riguarda la presenza femminile ai vertici delle grandi aziende. Secondo l'ONU, ad oggi sono 25 le donne che ricoprono il ruolo di amministratore delegato in altrettante compagnie inserite tra le 500 più importanti dalla rivista Fortune. Un passo in avanti non indifferente, se si considera che al 1998 ne venina contata solamente una. Tuttavia, sottolinea ancora l'UN Women, sul totale di tutti gli amministratori delegati ai vertici delle compagnie nella lista Fortune, solo il 5% è donna. Particolarmente simile a quest'ultimo caso, inoltre, è la questione della partecipazione delle donne alla politica. Stando alle Nazioni Unite, infatti, la presenza femminile globale nei parlamenti è pressoché raddoppiata negli ultimi 20 anni. Ma, nonostante tutto, tale aumento si traduce con una poco incoraggiante presenza media (sul totale dei parlamentari) del 22%. La situazione degli stipendi in Europa e in Italia. Secondo i dati relativi al 2013 Eurostat pubblicati il 5 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna, nel Vecchio Continente le lavoratrici, a parità di impiego, guadagnano il 16,4% in meno rispetto agli uomini. Un gap che è migliorato rispetto alle più recenti rilevazioni dell'agenzia europea (nel 2008 le donne ricevevano stipendi inferiori del 17,3%), ma che comunque dimostra quanto sia ancora lontana una vera e propria uguaglianza. Entrando nello specifico, le differenze più profonde sono registrate in Estonia, Austria, Germania e Repubblica Ceca, rispettivamente con un gap salariale uomo-donna del 29, del 23, del 21,6 e del 21,1%. Al contrario, il divario appare decisamente più contenuto in Croazia (7,4%), Polonia (6,4%), Malta (5,1%) e Slovenia (3,2%). E l'Italia? Guardando semplicemente al dato finale del 2013, la Penisola si annovera certamente tra i virtuosi, facendo registrare un gap pari al 7,3%. Tuttavia, guardando più da vicino le cifre snocciolate dall'Eurostat, è impossibile non notare come proprio l'Italia abbia avuto uno dei declini (quindi aumento della differenza) peggiori tra il 2008 e il 2013, arrivando alla percentuale già accennata partendo dal 4,9%. Inoltre, stando al Global Gender Gap Report stilato annualmente dal World Economic Forum (WEF), la situazione è ulteriormente in peggioramento. In tal senso, l'Italia si è classificata per quanto riguarda il gap salariale al 129esimo posto su 142 Paesi analizzati: nel 2014, infatti, a parità di lavoro una donna ha guadagnato in media il 48% dello stipendio di un uomo. Non solo disuguaglianza: la strada è lunga anche per quanto riguarda i diritti. Così come per i numerosi gap esistenti tra uomo e donna, il mondo è ancora ben lontano da una situazione in cui i diritti di quest'ultime siano pienamente e globalmente rispettati. E se è vero che in molti Paesi del Medio Oriente (e non solo) si può parlare sostanzialmente di segregazione - in Arabia Saudita è ad esempio fatto divieto alle donne di guidare -, è altrettanto vero che anche il mondo Occidentale ha ancora grandi passi in avanti da compiere. Innanzitutto, è necessario pensare ed implementare un argine efficace alla piaga della violenza sulle donne in ogni sua forma, dall'arma dello stupro usata nel corso di conflitti passati e attualmente attivi, sino alle brutalità domestiche che molte donne subiscono ogni giorno - contro tale realtà è stata ratificata nel 2011 da 32 Paesi la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. In secondo luogo, sarebbe necessario che i Paesi del mondo adottassero sistemi di assistenza alla maternità più efficaci, permettendo così alle donne di non essere svantaggiate nei confronti degli uomini nella scelta tra famiglia e lavoro, spesso una discriminante non indifferente incontrata dalle donne che vorrebbero portare avanti entrambe. Ancora, una maggiore attenzione globale dovrebbe essere dedicata al tema dell'istruzione, con molte giovani ragazze in tutto il mondo impossibilitate dalla povertà, dalla famiglia o dal pregiudizio a proseguire gli studi dopo un certo livello. Da non sottovalutare, inoltre, è anche la questione relativa al diritto all'aborto, una decisione che in molti casi e in molti Paesi del mondo viene espressamente negata facendo si che un gran numero di donne ricorra ad aborti clandestini e in condizioni igieniche al limite del disumano, rischiando spesso la vita. In ultimo, proprio a partire da questo aspetto, di primaria importanza è il diritto alla salute, messa a rischio ad esempio anche dalle mutilazioni genitali femminili - o dal matrimonio precoce, altra piaga cui moltissime ragazze sono costrette ogni anno -, pratiche purtroppo ancora oggi molto diffuse. 

"I camionisti sono tutti maschi" e altre scuse grottesche contro le quote rosa, scrive Laura Eduati, Giornalista de "L'Huffington Post" l'11/03/2014. Il dibattito sulla parità di genere ha stimolato nei (tanti) uomini contrari alle quote rosa un florilegio di ragionamenti che spesso sconfinano nel grottesco. A partire dal bollettino di informazione di Forza Italia, Il Mattinale, che nei giorni scorsi spiegava con orgoglio di avere introdotto nel 2003 grazie a Stefania Prestigiacomo una modifica all'art. 51 della Costituzione per promuovere normativamente proprio le quote rosa. Tuttavia, spiegavano contriti gli estensori della nota forzista, non era possibile votare gli emendamenti sulla parità di genere perché il partito di Silvio Berlusconi ora crede fermamente nel "merito delle donne". Abbiamo cambiato idea: quelle brave prima o poi arrivano. Soprattutto quando c'è un capo (maschio) che sa sceglierle, come spiega Gian Marco Chiocci sul quotidiano romano "Il Tempo": "Non ci piace questa storia della parità di genere perché a voi, come a noi, dà soddisfazione soltanto il merito". E per confermare che questa opposizione ai meccanismi di genere non nasce dal maschilismo, cita la lettera che una sua redattrice gli avrebbe spedito parlando della propria esperienza: "Non sono favorevole alle quote rosa perché un editore ha tutto il diritto di scegliere chi mettere alla guida del suo tg o del suo giornale, e un direttore come te ha tutto il diritto di scegliere a chi dare fiducia". Per grazia ricevuta. E se non è nella redazione di un giornale, capiterà a un professore (maschio) applicare le quote rosa a suo piacimento. Lo ha spiegato in aula Rocco Buttiglione: "Se io sono in una commissione di laurea faccio passare i più bravi. Ma se mi capitasse di far passare sette maschi e tre femmine mi porrei il problema se inconsciamente non sto discriminando". L'onorevole Pino Pisicchio invece ha spiegato seriamente ai cronisti che il problema delle quote rosa stava tutto nell'assenza delle preferenze all'interno della legge elettorale. Fintantoché l'Italicum prevede liste bloccate, ha detto, "non c'è modo" di garantire una adeguata parità tra maschi e femmine, ma nessuno gli ha chiesto quale fosse la straordinaria qualità magica delle candidate donne per la quale risulta quasi impossibile aumentare la loro presenza in Parlamento attraverso una legge. Filippo Facci su Libero non comprende come mai si faccia tanto baccano: "I camionisti, anche nei paritari Stati Uniti, in genere sono uomini. E anche gli agricoltori, gli operai edili, gli addetti alle trivellazioni e i tagliaboschi: mestieri che vantano il primato mondiale dei morti sul lavoro". Senza un solo lamento. Non si dica, però, che gli uomini poco amanti delle quote rosa non vogliano bene alle donne. L'onorevole Gianluca Buonanno (leghista) ha indossato una giacca bianca da cameriere per scimmiottare le novanta deputate che avrebbero voluto la parità di genere nell'Italicum: "Io sono contro a queste quote di genere ma non sono contro le donne, anzi dico: viva le donne e per fortuna che esistono". Di più: "Le donne sono migliori. Non hanno bisogno di riserve indiane costruite per legge. Non servono, soprattutto in una stagione come questa", è l'editoriale odierno de Il Giornale. Non sono mancati i parlamentari femministi come Mario Sberna, appartenente a una delle formazioni più maschili del Parlamento (gli ex montiani) e che improvvisamente vorrebbe abbandonare lo scranno pur di favorire una collega donna: "Signor Presidente, sono di quegli uomini di questo partito che è convinto di essere di troppo qui dentro; di troppo perché siamo in troppi eletti, tanto è vero che, se mi dimettessi, prima di trovare un'altra donna dietro di me bisognerebbe scorrere addirittura cinque posizioni". Come ha ben sintetizzato la deputata Gea Schirò (Scelta civica): " Rimane solo una cruda verità, quella di perdere un po' di "potere"". Eppure alla Camera non c'è stata una riproposizione della guerra dei sessi: molti uomini si sono schierati a favore delle quote rosa, e alcune donne invece si sono proclamate contrarie. Irene Tinagli (PD) è stata l'unica ad ammettere di non aver mai pensato alla questione: "Io fino a pochi mesi fa non ne ero consapevole, devo essere sincera, e quindi non mi ero mai posta il problema di una parità di genere e della rappresentanza". Un pugno di sue colleghe di partito hanno voluto, purtroppo, puntare sul vittimismo: "Ma noi non siamo casta, siamo cittadini, madri di famiglia che ogni sera sentono i figli e li sentono piangere perché siamo qui e non siamo a casa" ha esclamato Marilena Fabbri. Perché le donne, è risaputo, sono emotive: "In casa si prendono tutti i compiti, sul lavoro tutte le responsabilità, soffrono di più ma tengono botta, hanno ansie e picchi di angoscia, ma non si arrendono" (Luisa Botta). Un valzer degli stereotipi.

La discriminazione che non fa scandalo: le quote rosa, scrive il 19 febbraio 2014  su "avoiceformen.com". In un era in cui quotidianamente vengono affrontati i temi dell’uguaglianza e delle pari opportunità, il femminismo radicale trova il suo fertile terreno di coltura. Utilizzando argomentazioni populistiche che fanno presa sull’interlocutore medio, esso sta attuando, silenziosamente e con la complicità dei poteri forti, un profondo mutamento culturale e sociale che nei sui sviluppi futuri potrebbe mettere seriamente in pericolo la libertà e le opportunità del genere maschile. Il lettore superficiale e frettoloso, lobotomizzato da anni di dottrina femminista, esercitata attraverso slogan, campagne mediatiche d’effetto e finti dati snocciolati in tv, potrebbe sorridere di fronte a questa affermazione. Ma la realtà, se ci si sofferma qualche minuto, è più drammatica di quel che si pensa. In nessun’ epoca storica, il mondo occidentale ha mai dato tanto valore alle donne e alle loro problematiche come in quella contemporanea, al punto che oggi, se di discriminazione si vuol parlare, essa sta colpendo gli uomini, divenuti il capro espiatorio dei fallimenti del gentil sesso e valvola di sfogo delle sue frustrazioni. L’ideologia femminista, abusando del principio delle pari opportunità, ha finito per scavalcarlo, facendo apparire addirittura legittimo e positivo il suo superamento. Essa non solo ha imposto coattivamente la partecipazione femminile in alcuni settori lavorativi e in politica, ma si è fatta promotrice di iniziative finalizzate alla tutela di genere che, paradossalmente, si sono tradotte in vere e proprie discriminazioni nei confronti del mondo maschile. In ambito nazionale e internazionale, conseguenza diretta della propaganda femminista sono state le quote rosa. Introdotte con la legge 120/2011, cosiddetta Golfo-Mosca, esse hanno imposto alle società quotate in borsa, sia pubbliche che private a partecipazione statale, di rinnovare i propri organi sociali, riservando una quota pari al 30% dei propri membri alle donne. Successivamente, questo vero e proprio privilegio d’ancien regime è stato esteso alle liste elettorali comunali, (aumentando la percentuale a un terzo e introducendo addirittura la doppia preferenza in lista), e alle commissioni esaminatrici pubbliche. In totale spregio del principio di uguaglianza e della meritocrazia, di cui oggi se ne fa un gran parlare, questo strumento è una vera e propria corsia preferenziale che consente a qualsiasi persona di occupare un posto di rilievo, in un Consiglio di Amministrazione societario o in politica, solo perché di sesso femminile. A prescindere dalle reali ed effettive capacità, una donna dovrebbe avere un posto riservato solo perché tale, per l’unico motivo che una legge, ideologicamente orientata, ne imponga coattivamente la presenza. Il merito, per le femministe, dovrebbe valere per tutti tranne che per le donne, al punto che, ancora oggi, riguardo alla recente riforma della legge elettorale di cui si discute in Parlamento, sono state avanzate proposte di imporre nelle liste elettorali il 50% di presenze femminili. Addirittura, con legge cost. del 30 maggio 2003 è stato modificato l’art 51 della Costituzione, per rendere legittima questa vergognosa pratica discriminatoria, giudicata incostituzionale già nel 1995, perché le quote: «non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (Corte Costituzionale, sent. n. 422 del 1995). Sfruttando strumentalmente il principio di uguaglianza, si è arrivati ad attribuire alle donne veri e propri privilegi di genere, con la grave compiacenza delle Istituzioni che sul rispetto effettivo di tale principio dovrebbero vigilare. Vorremmo però chiedere alle lobbies femministe e a coloro che le rappresentano, per quale motivo tali battaglie ideologiche non vengono intraprese per garantire il rispetto della parità di genere in quei settori in cui a prevalere è la presenza femminile, ad esempio nelle scuole, nelle pubbliche amministrazioni o nei servizi sociali. Oppure perché non si impongono quote rosa anche in quei settori lavorativi usuranti e pericolosi che sono totalmente appannaggio del genere maschile. Le pari opportunità non fanno comodo in questo caso? Recentissima è la notizia dell’esplosione di una miniera in Ucraina il cui bilancio è di sette morti, ovviamente tutti di sesso maschile. Non abbiamo sentito nessuna femminista impegnata mostrare sdegno per le condizioni pietose in cui sono costretti a lavorare migliaia di uomini quotidianamente, correndo seri pericoli per la propria incolumità e rischiando la morte, né visto sventolare lo spauracchio dell’uguaglianza di genere in nome di un effettiva parità. La logica deduttiva femminista è la seguente: dove le donne sono in minoranza, la causa è del maschilismo che impedisce loro l’accesso, ad eccezione dei settori in cui conviene non essere affatto presenti (cantieri, pescherecci, miniere, ecc.). Laddove, invece, esse sono in maggioranza, il merito è tutto personale e conseguenza della loro capacità, tenacia e intraprendenza.

Le legittime schiave del sesso bambine dei musulmani. E l'Italia tace e acconsente, scrive lunedì, 26 dicembre 2016, Barbara Pavarotti. Il problema è sempre lo stesso. Quando succede da loro ci si sdegna, quando succede da noi si tende a dire: che volete farci, è la loro cultura, la loro tradizione. Quando in Africa e in Asia milioni di bambine sotto il 15 anni (una ogni sette secondi) vengono costrette a sposarsi con uomini di 30,40, 50 anni, Onu, Unicef, Save the Children denunciano la piaga, stilano impietosi rapporti. Quando accade in Italia ci si scandalizza sì, nei rari casi in cui il dramma viene scoperto, ma sotto sotto li si giustifica dicendo: nei loro paesi si usa così. Persino i tribunali li giustificano. E’ successo a Padova: una quindicenne, figlia di un uomo del Bangladesh (paese al 90 per cento musulmano), residente in Italia da 30 anni, viene spedita in patria per sposare un cugino di 33 anni. Il bengalese e la ragazzina tornano e s’installano a casa del padre di lei, come da accordi. Per la quindicenne inizia un calvario di stupri e violenze con la complicità del padre finché a scuola si sfoga con le insegnanti che avvertono la polizia. Il tribunale di Padova condanna il cugino a tre anni e due mesi di carcere e il padre a un anno e 10 mesi per maltrattamenti. E sapete perché pene così lievi? Perché, appunto, scrive il giudice “la modalità maltrattante trova le sue radici nella formazione culturale”. Come dire: se io provengo da un paese dove vige il cannibalismo, la mia cultura rimane quella e sono giustificato se sbrano e mangio un altro essere umano. Insomma, una sentenza talmente buonista e tollerante da far gridare allo scandalo. E a scandalizzarsi è stata la stessa Cassazione che recentemente ha ribaltato tutto e ha disposto che i due vengano riprocessati per un reato ben più grave: stupro. Anche il padre, sì. Anche lui è da ritenersi, scrive la Cassazione, complice delle violenze sessuali perché “è stato colpevolmente tollerante nei confronti del genero cui tutto è stato consentito sul piano sessuale”. E parliamo di una famiglia “integrata”, con cittadinanza italiana, di un padre che lavorava come capo cuoco in un noto ristorante, di una quindicenne nata in Italia e felice della sua vita, delle amiche, della scuola, prima che la maledizione della sua “cultura” si abbattesse su di lei.

Quale cultura? Una che non può aver spazio in Italia e nell’Occidente. Quella della prevaricazione dell’uomo sulla donna dettata dal Corano. E’ il principio cardine dell’Islam: l’uomo detta legge, la donna non conta nulla. E dove meglio si esprime il potere maschile? Nella sottomissione sessuale della donna, la quale ha un senso e una funzione solo in quanto strumento del piacere maschile e dei bisogni dell’uomo. Una cultura contro la quale in Occidente le donne si battono da oltre un secolo, ma che per l’Islam è perfettamente legittima. Non solo. Il dramma delle spose-bambine nei paesi islamici è drammaticamente in aumento, perché il potere maschile in quei paesi è in aumento, di pari passo con la radicalizzazione musulmana. Secondo i rapporti delle organizzazioni internazionali le bambine costrette a matrimoni forzati già a 10-12 anni con uomini di cui diventeranno solo schiave sessuali sono oggi 700 milioni nel mondo. 125 milioni in Africa. Oltre un milione diventa madre prima dei 15 anni. E 70.000 nell’ultimo anno sono le bambine morte di parto o durante la gestazione perché sotto i 15 anni la probabilità di morire in gravidanza è cinque volte maggiore.

Perché forniamo questi dati? Per dimostrare come la piaga in Africa e Asia sia estesa, radicata e pressoché incurabile. Inevitabile che chiunque venga da noi se la porti appresso, come un diritto legittimo. Tornando all’Italia, ogni anno circa 2000 quattordicenni musulmane non si iscrivono più a scuola. Che fine fanno? Vanno a lavorare sfruttate, vivono in casa come piccole schiave o si sposano nei loro paesi con uomini adulti scelti dai padri e tornano qui maritate? Nozze spesso imposte per soldi, per estinguere debiti contratti per venire in Italia in cui le figlie sono solo merce di scambio. Non esiste alcuna ricerca, nessun dato su questo esercito di bimbe scomparse dal mondo scolastico. Esiste però la complicità di uno Stato e di tutte le sue diramazioni periferiche che non fa abbastanza per indagare sul fenomeno, che chiude un occhio e lo apre solo quando il caso esplode in una denuncia. Persino le organizzazioni femministe, quelle che tutelano le donne, poco si pronunciano perché si rischia di passare per xenofobi, non rispettosi delle altrui culture.

E adesso già le sentiamo le repliche, i mille e uno tentativi di giustificare e depistare: ve la prendete tanto con questa usanza musulmana quando anche da noi ci stanno i pedofili, i bambini ammazzati dagli orchi violentatori, la piccola di sei anni buttata dalla finestra a Caivano dopo aver subito abusi in famiglia. Ebbene, sono crimini diversi. Chi commette questi reati, ovvio, è un mostro, fuori da ogni legge e morale e umanità. Se beccato, va in carcere e si spera ci resti. L’usanza musulmana di dare le proprie figlie bambine in sposa a uomini adulti scelti dai padri, invece, è qualcosa di diverso, fa parte, come dimostra l’enormità della sua diffusione, del loro dna, ma è altrettanto mostruosa per la coscienza occidentale e per le nostre leggi. Il dolore di una dodicenne che fa sesso con un quarantenne non è, come pensano loro, una cosa naturale. E il quarantenne che trae piacere da questo è un violentatore, non un marito. E’ solo la dimostrazione che la donna in questa cultura vale meno di zero, con la complicità dell’intera famiglia e delle stesse madri che a loro volta sono state vittime prima delle figlie. E che questa cultura, questi costumi, queste usanze fanno a botte con le nostre. Quale cultura vogliamo difendere, a quale vogliamo dare piena legittimità? Alla nostra o alla loro? E se dopo 30 anni in Italia, come è successo nel padovano, certe abitudini sono ancora così radicate, allora bisogna riflettere. Bisogna finalmente capire che la cultura non è un cappotto che ti sfili e cambi, ma il substrato di millenni. Sono venuti qui per migliorare la loro vita, legittimo, ma se avvertono come un peggioramento della propria esistenza, uno sradicamento, non poter rispettare pratiche per noi inconcepibili, allora no. Non possono essere accolti e avere la nostra cittadinanza.

L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]

1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,

2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.

3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.

4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.

5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.

6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.

7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.

Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262

Il coraggio di Cristicchi: dopo le foibe, ecco lo spettacolo “Marocchinate”, scrive il 25/10/2016 Luca Cirimbilla su “L’Ultima ribattuta”. Da stasera al 30 ottobre al Teatro Lo Spazo andrà in scena le «Marocchinate», spettacolo teatrale scritto da Simone Cristicchi e Ariele Vincenti sulle atroci violenze subite dalle donne (e non solo) del basso Lazio da parte degli Alleati al termine della seconda guerra mondiale. Simone Cristicchi si conferma ancora una volta “artista” nel senso più nobile del termine, scegliendo di mettere in scena una rappresentazione coraggiosa e controcorrente. Quello delle marocchinate è uno dei tantissimi episodi che la storiografia ufficiale ha provato a nascondere in tutti i modi (un altro è stato il bombardamento di Gorla). Come è stato raccontato su L’ultima Ribattuta, nei giorni che seguirono la caduta di Esperia, avvenuta il 17 maggio 1943, 7000 goumiers marocchini devastarono, rubarono, razziarono, uccisero e violentarono circa 3500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui alcuni ragazzi e anche un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, che morì due giorni dopo a causa delle sevizie. E molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati. Tutto questo con la copertura dei vertici militari: infatti venne garantita l’impunita dal loro generale comandante, il francese Alphonse Juin. Nei mesi scorsi lo spettacolo sulle foibe di Cristicchi aveva suscitato la rabbia di chi non vuole che si parli dei massacri attuati da “Alleati” e “liberatori”. Tra le vittime delle foibe ad esempio ci furono persone la cui colpa era solo quella di essere italiane (tra gli infoibati per mano dei partigiani titini si contano anche numerosi partigiani “bianchi” della Osoppo). Cristicchi, dunque, sceglie di affrontare un’altra vergogna messa in atto da quelli che vengono considerati “liberatori”. «Aspettavamo ji salvatorià so’ arrivati ji diavoli» è quanto si sente ancora oggi tra i cittadini del basso Lazio. «È un’altra di quelle storie che se non sei di quelle parti non la conosci», ha osservato Cristicchi. Grazie a lui molte altre persone verranno a conoscenza di un simile dramma.

Foibe e Marocchinate, il teatro di Cristicchi fa infuriare la sinistra, scrive il 4/11/2016 Luca Cirimbilla su “L’Ultima ribattuta”. Prima Magazzino 18, oggi Marocchinate: le storie portate in scena da Simone Cristicchi non piacciono a una certa sinistra politica e culturale. Eppure la voglia di raccontare questi lati oscuri della Liberazione sono arrivati da uno, come Cristicchi, che si è sempre reputato di sinistra e che può addirittura vantare un nonno partigiano: “Devo dire – ha confessato a Libero – che gli incidenti accaduti con Magazzino 18 mi hanno portato anche a ripensare i miei riferimenti ideali”. Se da una parte, una sinistra antistorica che fomenta l’odio antifascista ha provato a boicottare lo spettacolo, dall’altra il riscontro a livello di pubblico non si è fatto attendere: “Le 200 repliche con le quali abbiamo portato Magazzino 18 in tutta Italia – per un totale di quasi 200 mila spettatori – sono un successo clamoroso per uno spettacolo di teatro civile”. L’ultimo spettacolo, il cantante lo ha scritto assieme ad Ariele Vincenti e affronta il dramma delle donne stuprate dai Goumiers, ovvero dai soldati marocchini e algerini inquadrati nell’esercito dei liberatori francesi sul finire della seconda guerra mondiale. Dopo Magazzino 18 che ha raccontato delle foibe e degli esuli istriani, dunque, Cristicchi ha voluto rappresentare un altro aspetto – meno conosciuto e per niente eroico – della Liberazione dal nazifascismo. Chi pensa che l’autore sia mosso solo dall’effetto da suscitare nel pubblico, si sbaglia: “Per me è semplicemente un atto necessario – ha spiegato Cristicchi – Avverto l’urgenza di doverlo raccontare”. Si mettano l’anima in pace, dunque, i dinosauri dell’Anpi e i loro nipotini: i partigiani e i loro epigoni – in risposta allo spettacolo Magazzino 18 – avevano pensato bene di ritirare la tessera di iscritto all’Anpi a Cristicchi. Peccato che fosse risultata scaduta da mesi.

8 marzo: nessuno ricorda le donne vittime delle “marocchinate”, scrive l'8/03/2016 Fabrizio Di Marta su “L’Ultima ribattuta”. Nel giorno della festa delle donne, sono ancora tante le vittime del sesso considerato “debole” dimenticate e lasciate morire senza giustizia. L’8 marzo non sono le mimose, non è esibizionismo, non è strumentalizzazione, non è moda. Dovrebbe essere semplicemente silenzio. E ricordo. Ad esempio di una delle pagine più buie della seconda guerra mondiale, che qualcuno si è “dimenticato” di inserire nelle pagine di storia: la dolorosa vicenda delle migliaia donne italiane uccise dalle truppe marocchine del contingente francese della V Armata Americana. Le cosiddette “marocchinate”. Un brutto termine usato per indicare quelle vittime che, durante la seconda guerra mondiale, in Italia, subirono la violenza degli stupri da parte dei “buoni”. A ricordare quelle donne non sono state le Istituzioni, perchè non è mai stata dedicata loro alcuna giornata della memoria o del ricordo. Ci ha pensato solo l’ex senatore Ferdinando Signorelli, che ha scritto una lettera, pubblicata su “Tuscia web”.

“La vergognosa inerzia dello Stato sulle marocchinate”, esordisce così Signorelli.

“E’ stata richiesta l’istituzione della memoria delle ‘marocchinate’ e la locuzione di ‘crimine contro l’umanità’, senza alcun risultato. Come pure sono stati interessati i vari governi per conoscere la sorte toccata alle 60mila pratiche presentate dalle donne violentate per l’accertamento finalizzato al loro riconoscimento di vittime civili di guerra, ma senza nessun apprezzabile riscontro da parte della burocrazia, nelle cui agghiaccianti voragini si sono lasciate spegnere le speranze di un riscatto”.

Ma cosa successe davvero quel giorno?

“Nei giorni che seguirono la caduta di Esperia, avvenuta il 17 maggio 1943, 7000 “goumiers” marocchini devastarono, rubarono, razziarono, uccisero e violentarono circa 3500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui alcuni ragazzi e anche un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, che morì due giorni dopo a causa delle sevizie. E molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati”.

In una relazione degli anni Cinquanta si legge poi che “su 2mila donne oltraggiate, il 20 per cento fu riscontrato affetto da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose. Il 40 per cento degli uomini risultarono contagiati dalle mogli. Senza contare la distruzione dell’80 per cento dei fabbricati, la sottrazione di gioielli, abiti, denaro e del 90 per cento del bestiame”.

“E, cosa ancora più triste – conclude Signorelli- le truppe omicide furono fatte sfilare, come “marcia premiale” il 4 giugno 1944 a Roma, in via dei Fori Imperiali.

Perché l’8 marzo nella Chiesa va ancora di moda, scrive Sabrina Cottone il 7 marzo 2017 su "Il Giornale". C’è un 8 marzo della Chiesa? Può sembrare strano che proprio mentre le donne disertano più o meno rumorosamente una festa che per anni è stata simbolo di quel che ancora manca, in Vaticano la ricorrenza si festeggi in grande stile, con tante signore insieme sul palco, anche se sotto il patronage di un uomo, il presidente del Pontificio consiglio per la Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi. "Essere donna è terribilmente difficile perché consiste soprattutto nell’avere a che fare con gli uomini" ha detto Ravasi, citando Conrad. E poi ha aggiunto, con ironia autotagliente: soprattutto se gli uomini sono preti. Ma battute a parte, questo ‘femminismo’ ha poco o nulla a che fare con il femminismo storico che è diventato sinonimo di conquiste equivoche e presunte parità più simili a nuove forme di sudditanza, almeno culturale: diventare come gli uomini non è ciò che chiedono e meno che mai desiderano le donne. Ecco, se c’è una cosa su cui hanno insistito in molte, è che la differenza è da tutelare per essere davvero alla pari. Senza recriminare, per non innalzare muri ma costruire ponti. Consuelo Corradi, prorettore alla Lumsa e coordinatrice della Consulta delle donne, ha lanciato la sua proposta: "Gettare un ponte verso le culture maschili’. E ancora: ‘Esiste lo sguardo delle donne, un tempo delle donne, un modo di vivere la vita umana proprio delle donne. Non è un discorso ideologico, ma la nostra esperienza concreta di madri, mogli, compagne, lavoratrici; profili di vita, provenienze diverse, religioni diverse, confronto tra credenti e non credenti nella concretezza delle nostre vite". Tra i membri della Consulta femminile ci sono donne impegnate in molti diversi settori: il rettore dell’Antonianum, suor Mary Melone, teologa dogmatica, la teologa iraniana Shahrazad Houshmand, Mariella Enoc, presidente del cda del Bambin Gesù, la storica Lucetta Scaraffia, la direttrice del carcere di Rebibbia, Ida Del Grosso, le diplomatiche Emma Madigan, irlandese, e Monica Jimenez, cilena, la resposabile per l’arte contemporanea dei Musei Vaticani Micol Forti, Siria Fatucci, responsabile della Memoria della Shoah, la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, la recordwoman di salto in lungo Fiona May e l’attrice Nancy Brilli, la presidente della Rai Monica Maggioni e l’imprenditrice della moda Lavinia Biagiotti, la studiosa del Google Cultural Institute, Giorgia Abeltino, giornaliste come la turca Yasemin Taksin e la milanese Elisabetta Soglio. Un elenco molto vario eppure ancora incompleto. Che ne dice Ravasi delle sue donne? ‘I diritti delle donne sono ormai conclamati – le parole del cardinale -. È necessario che vengano declinati nel concreto e qui cominciano le ambiguità’. Cercando di scioglierle, perché una cosa è la teoria, ben altra la pratica: ‘Non sono entusiasta del meccanismo delle quote rosa perché lo trovo artificioso. L’accesso ad alcuni orizzonti deve essere concesso a tutti e per questo è necessario che gli uomini lascino spazi’. Come ciò possa avvenire è ancora da vedere: "Io penso che il femminismo come tale, che era in fondo una variante del maschilismo, è in crisi. Bisogna invece ritrovare la dimensione della reciprocità: uomo e donna sono entrambi necessari e qui c’è tanto da fare perché in tanti ambiti domina la monodia maschile. Nella società c’è molto da fare: penso all’ambito della politica e dell’accesso alla carriera. Bisogna permettere a tutte le donne di autoaffermarsi con le competenze che hanno: è ovvio che questa è una responsabilità maschile". In un consesso del genere, sia pur molto variegato, anche per la presenza di suor Mary Melone, che fa parte pure della commissione sul diaconato femminile voluta da papa Francesco, non poteva non parlarsi di questo tema. E anche Ravasi ha detto la sua: ‘Non sono contrario ma penso a un diaconato con caratteristiche diverse da quelle che pensiamo oggi. Bisogna ripartire dal diaconato delle origini’. Suona come uno stop a rivendicazioni che si chiamano sacerdozio femminile e che, nonostante siano escluse dal magistero della Chiesa, continuano ogni tanto a farsi sentire. Ma se donne e uomini sono pari, ciò non significa che siano uguali…

Gran Bretagna, licenziata per i tacchi. La sua lotta arriva in Parlamento. Quando fu cacciata dal suo impiego per aver rifiutato di indossare scarpe alte, Nicola Thorp fece scoppiare un caso sui media internazionali e lanciò una petizione per rafforzare le norme contro la discriminazione. Ora la sua lotta è arrivata davanti ai parlamentari britannici, scrive Lara Crinò il 7 marzo 2017 su "L'Espresso". Quel giorno in cui Nicola Thorp fu spedita a casa e lasciata senza paga per aver rifiutato di indossare i tacchi alti previsti dal suo impiego come receptionist di una società della City di Londra, di certo non poteva immaginare che quel rifiuto si sarebbe trasformato in una nuova forma di lotta civile. Dopo quella giornata nera, Thorp ha fatto partire una petizione online per chiedere al governo norme più stringenti, tali da impedire che altre donne possano, in futuro, subire discriminazioni o essere licenziate a causa di un 'dress code' sessista e antiquato. La petizione, firmata da oltre 150mila persone, è stata discussa il 6 marzo al Parlamento britannico; la discussione dovrebbe servire a rende più efficace il Britain's 2010 Equality Act che proibisce le discriminazioni sul lavoro in base al genere, l'età o l'orientamento sessuale. Un membro della commissione che si sta occupando della vicenda ha commentato infatti che, al momento attuale, “le aziende hanno la possibilità di non osservare le norme vigenti perché la possibilità di incorrere in gravi conseguenze è minima. La commissione EHRC (Equality and Human Rights Commission) deve trovare nuovi modi per supportare gli appelli contro la discriminazione ed evitare che il peso delle denunce cada pesantemente sulle donne, in particolare coloro che già hanno una posizione lavorativa precaria”. La laburista Helen Jones, come riportato dal New York Times che si occupa della vicenda in un lungo articolo, ha dichiato: “è scioccante: le donne inglesi sono sottoposte a un doppio standard sul posto di lavoro che appartiene più alla metà dell'Ottocento che alla contemporaneità”. Molte altre impiegate, dopo che la storia di Nicola Thorp è stata ripresa dai media internazionali, hanno denunciato di essere state costrette a usare i tacchi alti fin quando i piedi sanguinavano e non erano più in grado di camminare, mentre gli esperti convocati da Jones hanno citato studi sugli effetti negativi, a lungo termine, di indossare scarpe a tacco alto per troppe ore di seguito, tra i quali problemi all'anca e di equilibrio. Tra le dichiarazioni di dipendenti di grandi e piccole società, c'è chi è stata costretta a sbottonare la camicetta durante il periodo natalizio per incrementare le vendite, o a tingersi i capelli di biondo. Il governo britannico ha dichiarato dopo il dibattito parlamentare che "il dress code delle aziende deve essere ragionevole e fare richieste equivalenti a uomini e donne. Questa è la legge e i datori di lavoro devono rispettarla”. Come riporta il New York Times, anche l'ex ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite ha voluto dire la sua sul tema. Su Twitter ha dichiarato che la “prossima petizione deve chiedere agli uomini di indossare tacchi alti per nove ore di seguito prima di insistere affinché lo facciano le donne”.

«Vuoi un contratto? Fai sesso con me». Complice la crisi economica dilagante, le denunce di lavoratrici vittime di ricatti sessuali, presso gli sportelli dei sindacati di tutta Italia, sono aumentate del 40 per cento. A Roma la situazione più tragica. Gli esperti: “La solidarietà fra donne è praticamente assente”, scrive Arianna Giunti l'8 marzo 2017 su "L'Espresso". Prima i sorrisi, gli ammiccamenti, le carezze sulle guance. Gesti apparentemente inoffensivi, fatti soprattutto in pubblico, davanti agli occhi dei colleghi, come a voler dire “vedete? Lei ci sta”.  Avances che con il passare dei mesi sono diventate sempre più frequenti, subdole, asfissianti. Fino a che una mattina, sulla scrivania di Laura, è comparso un disegno: ritraeva una donna a gambe divaricate e sopra di lei un enorme fallo. Il giorno dopo, sulla fotocopiatrice, è spuntato un post-it: “Occupati di questa pratica. E poi fammi un pompino”. Episodi come questi, in Italia, si verificano silenziosamente ogni giorno. I numeri sono sconfortanti: con l’impennata della crisi economica, negli ultimi due anni i ricatti sessuali sul posto di lavoro sono aumentati del 40 per cento. Lo conferma il sindacato Uil, che ha attivato sportelli di ascolto in tutta Italia e che ogni giorno si trova a raccogliere richieste di aiuto che arrivano in maniera quasi univoca dalle donne (63% dei casi). Lavoratrici donne che denunciano soprattutto casi di mobbing (67%) e di stalking (10%). Più in generale, secondo gli ultimi dati Istat, sono oltre 1 milione e 500mila le donne fra i 18 e il 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa. In particolare, il 32% di loro ha subito vere e proprie molestie (con tanto di palpeggiamenti e contatti fisici sgraditi) e il restante 68% si è sentito rivolgere richieste di disponibilità sessuale. Le avances, nello specifico, arrivano sia al momento dell’assunzione che – molto più frequentemente – al rinnovo del contratto a tempo determinato o con la promessa di un avanzamento di carriera. Le vittime – contrariamente a quello che si potrebbe pensare – sono quasi sempre donne mature: nell’80% dei casi fra i 41 e 50 anni, italiane e con livello culturale medio alto. Il restante 20%, invece, è composto da giovani straniere fra i 31 e i 40 anni. Gli abusi di potere da parte dei datori di lavoro - è la triste realtà - quasi sempre centrano il loro squallido obiettivo: sette donne su dieci pur di non perdere il posto di lavoro chiudono gli occhi e cedono ai ricatti. Lo scenario tipico è quello delle piccole medie e imprese, dove la presenza del sindacato è quasi assente, c’è poca solidarietà fra colleghi e si tende a respirare un’atmosfera padronale. “Le situazioni più tragiche si registrano nelle grandi città, Roma in testa – spiega a l’Espresso Alessandra Menelao, Responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing e Stalking Uil – perché le regole del mercato del lavoro sempre più competitive e spregiudicate unite alla crisi economica dilagante tendono ad esacerbare questi ricatti”. Difficile la situazione anche a Milano, dove il Centro Donna della Cgil ha raccolto, in soli 12 mesi, 484 segnalazioni. Di queste, 220 hanno riguardato le discriminazioni di genere e 7 le molestie sessuali. Come è successo a Francesca, nome di fantasia di una commessa di 35 anni impiegata a tempo determinato in un negozio che si trova all’interno di un centro commerciale nella periferia nord della Capitale. Il titolare del negozio – un uomo di 57 anni – inizia a rivolgerle complimenti sempre più insistenti e a invitarla a pranzo fuori. Lei, nonostante sia in imbarazzo, accetta. Davanti alle altre commesse il titolare loda la sua bravura la sua precisione, le accarezza spesso il viso, le lascia intendere che oltre a rinnovarle in contratto le offrirà un ruolo di maggiore responsabilità all’interno del negozio. Un giorno l’uomo le chiede di accompagnarlo a prendere alcuni tessuti in magazzino, lei lo segue. Una volta soli nella stanza lui prova a baciarla, lei si divincola e scappa. Quando tenta di confidarsi con una collega, la donna le lascia intendere che è colpa sua. Che se l’è cercata. E che a questo punto, per tenersi il posto, “ti conviene andarci a letto”. “Il comportamento di questi datori di lavoro sembra quasi seguire un manuale scritto – spiegano ancora dalla Uil – perché scegliendo la propria vittima ed esponendola in pubblico, si sortisce l’effetto di isolarla dal resto dei colleghi. Che la guarderanno con sospetto, biasimo, invidia per suoi eventuali traguardi lavorativi. E la abbandoneranno in caso di difficoltà”. Per molte di queste lavoratrici si tratta di un iter che inizia con avances più o meno esplicite e poi termina con il mobbing, se la richiesta sessuale non viene esaudita. Una discesa agli inferi dalla quale è difficile risalire. Così è stato per Laura, 30 anni, impiegata in un’azienda di piccole dimensioni con un ruolo amministrativo. Quando la donna comincia a subire le attenzioni del superiore, inizialmente fa finta di nulla. Di fronte all’insistenza dell’uomo, pensando di trovare solidarietà femminile, spiega la situazione alla sorella del suo capo, che lavora anche lei nella stessa azienda con un ruolo di responsabilità. La donna, però, anziché aiutarla, riferisce tutto al fratello. Che trasforma le sue avances in veri e propri atti intimidatori. Sulla sua scrivania, Laura comincia a trovare disegni osceni, insulti a sfondo sessuale e fazzoletti sporchi di escrementi. Chiede aiuto alla Asl e alla polizia giudiziaria. Ma poi, stremata ed esasperata, accetta di dimettersi. Uno stato di isolamento che a volte, invece, travolge le donne sul posto di lavoro anche quando quelle avances in realtà non sono mai avvenute. Ma diventano “immaginarie” per punire e umiliare una rivale che è riuscita a ottenere il posto lavorativo che si voleva per sé. Così è successo a Mirela, donna rumena di 50 anni, impiegata come addetta in una mensa. Suo marito era malato e lei aveva chiesto il trasferimento nella sede più vicina a casa. L’azienda gliel’aveva concesso. Quel posto, però, era ambito anche da altre sue colleghe, che hanno cominciato ad alimentare su di lei pesanti calunnie, insinuando che l’avesse avuta vinta solo dopo essersi concessa ai suoi capi. “Quelle maldicenze erano diventate così feroci e insistenti che a un certo punto mentre servivo in mensa– è la denuncia della donna – gli altri lavoratori hanno cominciato a saltare le pietanze che offrivo per manifestare il loro disprezzo”. E così l’hanno ancora una volta l’hanno avuta vinta loro: Mirela ha dovuto lasciare quella sede. Già perché la battaglia più dura da vincere non è quella che si consuma in Tribunale. Ma nella testa delle donne stesse. Che devono vincere, loro per prime, retaggi culturali ancora duri a morire. Spiega Pietro Bussotti, psicologo e psicoterapeuta esperto in lavoro, che si occupa quotidianamente di vittime di mobbing a sfondo sessuale: “Il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie non è nient’altro che l’interiorizzazione di quel metro morale che valuta le donne, anche sul piano lavorativo, in base alla loro sessualità”. “Questa morale giudicante, ormai fatta propria non solo dagli uomini ma anche dalle stesse donne – prosegue lo psicologo – viene applicata nei giudizi verso le colleghe e persino verso se stesse. E così i sensi di colpa e la vergogna aumentano, rendendo il gioco facile ai molestatori”. L’altro fattore frenante, confermano gli esperti, è la paura. “A livello psicologico la paura ha uno scopo positivo, perché ci mette in guardia e aiuta a salvarci la vita – spiega ancora Bussotti – però quando è troppa ci paralizza, ci impedisce di reagire. Ed è quello che succede a queste donne”. “La lavoratrice deve riconoscere prima di tutto con se stessa che in queste situazioni la strada del compromesso non può essere percorsa – è il consiglio dello psicologo – deve ritrovare la propria lucidità e chiedere aiuto. E trovare la forza per denunciare”. Dimostrare queste realtà, però, non è facile. Negli atti persecutori così come nei casi di molestie o di mobbing, per la legge italiana l’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E’ lei a dover eventualmente dimostrare – davanti a un giudice – di aver subito ricatti sessuali. “I datori di lavoro sono quasi sempre abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail o messaggi – spiega ancora Alessandra Menelao – tutto si gioca sul piano del “detto e non detto”, delle frasi allusive diversamente interpretabili e giocate sul fraintendimento”. E così è facile che gli accusati ribaltino la situazione iniziale, rendendo debole e inefficace la testimonianza dell’accusatore. Che nel frattempo – stremato a livello psicologico e sempre più solo – arriverà ad accettare anche un inadeguato compromesso economico pur di mettere fine a quella situazione logorante. “La lavoratrice – consiglia dunque la responsabile dei centri di ascolto Mobbing e Stalking – deve diventare una sorta di detective, procurarsi tutte le prove possibili e rivolgersi immediatamente agli sportelli dei sindacati dove sarà indirizzata ad affrontare il percorso legale e psicologico necessario”. L’altro argomento da non tralasciare è – appunto - quello della solidarietà, che scarseggia nei posti di lavoro. “In Italia manca un empowerment femminile – spiega ancora Menelao – spesso le prime nemiche delle donne sono le donne stesse”.

"Molestie? Ma no, è solo goliardia" Così non fermiamo le violenze di genere sul lavoro. Le avances insistenti, le battute o i gesti degradanti di un capo, o un collega, in ufficio, sono molto più diffusi di quanto non sembri. Semplicemente perché "in Italia l'asticella è molto alta. La maggior parte delle donne sopportano, e stanno zitte. E la precarietà, di certo, non aiuta". Tatiana Biagioni, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani, racconta cosa dovrebbe cambiare, scrive Francesca Sironi il 25 novembre 2016 su "L'Espresso". Sono le avances indesiderate e insistenti; sono i colleghi che sbirciano ridendo da sotto le scale; sono i dirigenti che fanno scivolare le mani dove non vorresti; sono le battute su “chissà come ha fatto carriera quella lì”; sono gli insulti di un capo; sono la dignità che scivola; sono il silenzio. Le molestie sessuali sui luoghi di lavoro «sono un fenomeno molto più diffuso e grave di quanto non appaia dalla rare statistiche a riguardo e dall'opinione comune», spiega Tatiana Biagioni, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani: «Molti comportamenti che per legge sono considerati molestie, e che di fatto lo sono, vengono liquidati in Italia come semplici “battute”. Che le impiegate continuano a subire in silenzio». Tatiana Biagioni è un'avvocata - «ci tengo al sostantivo femminile, non per vezzo, ma perché fino all'800 la mia professione era vietata alle donne, ed è giusto ricordare il superamento di questo divieto» - che difende lavoratori e lavoratrici, e che presiede il comitato pari opportunità dell'Ordine. È da questo osservatorio che racconta: «Mentre su altri temi, in una causa, ricevo dai miei colleghi avvocati risposte tecniche, dove potremmo dibattere per ore sull'interpretazione di un dettaglio, quando si parla di molestie sul luogo di lavoro la risposta più frequente è “ma insomma, era solo goliardia”, “bisogna vedere il tono”, “non era certo sua intenzione”. Anche in presenza di insulti pesanti, di riferimenti sessuali espliciti, di comportamenti ripetuti, da parte di un dirigente a una sottoposta». La differenza, spiega Biagioni, sta fra il considerare le molestie una questione rilevante dal punto di vista legale oppure abbassarle a fenomeni di «costume», quando questo “costume”, spiega, «può significare per molte donne l'accettare il degradamento della loro vita: perché il lavoro sta alla base della costruzione della nostra autonomia, dello sviluppo della nostra personalità, ed è con profondissimo disagio che le vittime gestiscono e sopportano piccoli o grandi offese di genere, quasi sempre - quando accadono - ripetute nel tempo». Così, continua l'avvocata, «Il problema resta completamente sottovalutato, perché la maggior parte delle violenze viene gestita in economia dalle donne, senza dirlo nemmeno a casa». E sì «che gli strumenti legali ci sarebbero, e ben chiari. Mancano però quelli culturali per riconoscere il fenomeno e contrastarlo. C'è una censura a monte», ribadisce Biagioni: «Lo provo io stessa: ogni volta che sollevo la questione, mi viene risposto con una sorta di fastidio. Come se non fossero questioni importanti. Ora, io sono toscana, e non potrei vivere senza ironia. Ma in un rapporto gerarchico una certa ironia diventa presto altro; diventa esercizio di potere». Bisogna quindi imparare a riconoscerle, le molestie, in quanto umilianti «mancanze di rispetto». Ma deve cambiare soprattutto anche la cultura aziendale a riguardo: «Raramente ho visto le imprese farsi avanti. Nella maggior parte dei casi la denuncia viene liquidata con una buona uscita. La vittima così se ne va. E il molestatore resta. Spesso la parte più difficile in questi processi è proprio trovare testimoni, infatti. Perché dall'alto non sono incentivati. E i colleghi temono per il loro stesso posto. Sapendo che». L'ultimo tassello infatti è sempre il contesto: «E la precarietà, la fragilità del mercato e dei rapporti di lavoro, non fa che accentuare il problema. Perché pur di non perdere ciò che hanno, molte più donne si troveranno costrette a tacere».

Violenza sulle donne, quante scuse. Ecco i 7 miti da sfatare. Dal frequente "nel mio quartiere non succede", al sottinteso "le ragazze esagerano", fino all'onnipresente "se a una non piace, se ne può sempre andare": l'Espresso pubblica due sondaggi sui pregiudizi più diffusi a proposito di abusi di genere. Che qui una professoressa di Filosofia smonta. Mostrandone le radici profonde, scrive Francesca Sironi il 25 novembre 2014 su "L'Espresso". «Lui ha perso il controllo, e l'ha uccisa». «Era pazzo di gelosia». «L'aveva picchiata, ma lei non è scappata. E alla fine...». Quante volte tornano queste frasi negli articoli e nelle discussioni sulla violenza di genere. Quante volte, dando conto di una fidanzata ammazzata di botte, spunta un commento sull' "in fondo se l'è andata a cercare" perché flirtava con l'amico, perché non si occupava di casa...Sono questi i pregiudizi che permettono alle violenze di non diminuire. Di resistere. Di avere uno spazio "d'onore" fra i reati che mobilitano, in questo caso molto, ma ad oggi con pochi risultati, l'opinione pubblica. Le espressioni più frequenti dei preconcetti sulla violenza di genere, specialmente quella domestica, che avviene cioè fra le mura di casa, sono state elencate da un ricercatore dell'Università del Maine in un test che è già stato ripreso da numerose ricerche scientifiche. E che l'Espresso mette a disposizione dei lettori. Per spiegare cosa si nasconde dietro queste convinzioni, dove stia l'errore, ma anche quali siano le radici che le rendono così impermeabili ai cambiamenti, interviene qui Valeria Babini, professoressa di filosofia all'Alma Mater di Bologna e promotrice del primo seminario obbligatorio sul problema della violenza di genere in università. Prima del dibattito, però, i numeri. Quelli non contestabili del ministero dell'Interno. I più aggiornati fotografano la situazione al 31 luglio del 2014. E riportano aumenti. Aumenti di morti e di botte nonostante le nuove norme: 153 le donne uccise in un anno, contro le 149 del precedente. Gli omicidi in generale calano, non quelli di donne. E in particolare di mogli e fidanzate: sono stati 72 dall'agosto 2013 al luglio 2014 contro i 45 dei 12 mesi prima. Poi, ci sono le denunce per stalking: 51.079 dall'introduzione della legge nel 2009. Nel 77,5 per cento dei casi le vittime sono di sesso femminile. E infine i provvedimenti amministrativi, che secondo molti esperti possono funzionare più delle lunghe indagini penali, se ben applicati e fatti rispettare: 1.125 ammonimenti; 189 allontanamenti dal nucleo familiare; 5.890 divieti di avvicinamento. Questi dati, da soli, dovrebbero mostrare quanto sia distorto in partenza il primo di questi preconcetti, l'idea consolidata che «La violenza domestica non è poi così diffusa». Ma non è così. Le statistiche non bastano. Allora ecco le spiegazioni più profonde, secondo l'analisi di Valeria Babini.

PRIMO MITO: «La violenza domestica non è poi così diffusa», «Nel mio quartiere gli episodi di violenza domestica sono rari». Risposta: La violenza domestica è di fatto molto diffusa anche se non sempre riconosciuta. Nella maggioranza dei casi la si ammette/confessa/denuncia solo quando si manifesta in modo eclatante e ripetuto, e, anche in questo caso, viene spesso sottovalutata o addirittura non percepita: difesa, per così dire, sotto la rubrica del “privato”. Spesso anche i segni lasciati sul corpo dalle violenze domestiche vengono nascosti e giustificati in modi diversi (caduta dalle scale, malesseri, ecc.). Questa confusione è anche imputabile all’uso della violenza genitoriale come mezzo di educazione per i bambini; seppure sempre più raro, resta comunque un elemento contraddittorio dentro i vissuti famigliari soprattutto nella nostra società in bilico tra rifiuto della violenza domestica e tolleranza verso il suo (blando) uso pedagogico. Un esempio. Risulta psicologicamente difficile accusare il partner di violenza domestica se si è stati educati dal proprio padre (o madre) a “dar retta” a forza di schiaffoni; qui la lezione di Alice Miller e il suo concetto di pedagogia nera hanno ancora qualcosa da insegnarci. Inoltre il legame amore/ violenza rischia persino di rovesciarsi di segno, come nel caso di quella paziente di Freud che si lamentava che il marito non l’amava più perché aveva smesso di bastonarla quotidianamente.

SECONDO MITO: «Quando un uomo è violento, è perché ha perso il controllo», «La violenza domestica accade se si ha un carattere irascibile», «Gli uomini violenti perdono il controllo a tal punto da non sapere più cosa stanno facendo». Questa affermazione è forse la più complessa e pericolosa: la più insinuante. Tra le righe si afferma l’esistenza di un corredo pulsionale violento che ciascuno di noi (ma allora le donne?) deve contenere e controllare. È una tesi storica (dalla bête humaine di Zola alla pulsione di morte di Freud) ancora presente anche se spesso male interpretata e divulgata, ma non condivisa da tutti. Veicola inoltre l’idea di una patologizzazione del soggetto violento. Imputando l’azione violenta sulla donna al bagaglio biologico e/o caratteriale del partner, in qualche modo lo discolpa, ne fa una vittima della sua stessa “natura”. Si passa così dal piano morale e giuridico, dove il soggetto ha proprie responsabilità, a quello medico e psichiatrico, in cui le condizioni psicologiche del soggetto momentanee (perdita del controllo) o permanenti (carattere irascibile) possono valere come attenuanti.

TERZO MITO: «Se una donna continua a vivere con un uomo che la picchia, allora è colpa sua se lui le mette ancora le mani addosso», «Odio ammetterlo, ma una donna che resta con un uomo che la picchia, alla fine si merita quello che le accade». Anzitutto non si tratta di colpe, ma di violazione di diritti umani. Quale che sia la causa o la cosiddetta ragione, picchiare la propria partner è non rispettare la integrità fisica della sua persona. È azzittire, togliere la parola, impedire il dialogo, rinunciare alla forma del confronto verbale, ma è anche minare il corpo umano che è il sostrato della persona, come si evince chiaramente dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948). La donna che resta con un uomo che la picchia va comunque rispettata per la sua decisione, sia che ciò avvenga per la paura di essere poi perseguitata (cosa frequente), sia per l’amore che ancora la lega al partner. Deve trovare lei la forza e la convinzione, anche grazie all’aiuto dei Centri antiviolenza ormai presenti in tutta Italia, per affrontare il suo dramma e risolverlo nel modo migliore. Spesso la donna vive drammaticamente proprio questa contraddittorietà tra la sconvolgente violenza del partner e il dichiarato sentimento d’amore in ragione del quale il partner giustifica spesso la sua aggressione (per gelosia, ad esempio). L’ambivalenza del sentimento del partner la disorienta e, disorientandola, la paralizza. In più resta il retaggio culturale di una concezione della femminilità come dedizione assoluta alla vita altrui, da cui anche la speranza di poter “salvare” il partner restandogli vicino.

QUARTO MITO: «Far ingelosire un uomo significa andarsela a cercare», «Le donne che flirtano se la vanno a cercare». Quella della gelosia è un’altra delle ragioni più frequentemente addotte per giustificare la violenza maschile sulle donne: ancora una volta accusate di stimolare la reazione dell'uomo e quindi di essere di fatto la causa scatenante della violenza subita. È dell’estate scorsa il caso di una donna violentata in Trentino mentre faceva jogging dopo cena vicino a un bosco: i commenti più diffusi erano: «Cosa va a correre di notte da sola nel bosco? Per forza la violentano!». Nello specifico, poi, ci sono altri aspetti da considerare, sulla gelosia. Da un lato si sopravvaluta – soprattutto in Italia – la sua valenza amorosa: della serie “chi ti ama deve essere geloso” o “se non è geloso, non ti ama” - quindi se ti picchia o ti insulta è perché tiene molto a te. Inoltre c’è una sorta di confusione tra gelosia e possesso: dove la paura di perdere l’altro ha più spesso a che fare con una ferita narcisistica, del proprio orgoglio di uomo, piuttosto che con il dolore di perdere concretamente l’amore e la compagnia della partner. Nella società contemporanea, in cui la competizione e dunque il confronto e l’immagine di sé sono diventati dei valori, il rischio di essere traditi può essere percepito come un segno di debolezza più che (o oltre che) un dolore personale e intimo. Così, paradossalmente, la cornice antropologico-sociale che giustificava fino al 1981 (anno della sua abrogazione dal Codice penale) il delitto d’onore nell’Italia del Sud, ha cambiato solo di abito, e trova nuovo spazio e nuovi proseliti.

QUINTO MITO: «Numerose donne in fondo desiderano essere controllate», «Molte donne hanno un desiderio inconscio di essere dominate dal proprio partner». Queste affermazioni, che forse hanno anche radici nelle teorie psicologiche/psicoanalitiche, non possono diventare degli assiomi, delle leggi. Possono valere in alcuni casi, dove la storia personale rende ragione di quell’affermazione. Se affermate come universali, riferite a tutti, si rivelano sbagliate e ideologiche. Di fatto si rifanno a un'idea, ma meglio sarebbe dire a una costruzione scientifica della femminilità come passività che è stata sì dominante nel ‘900 (da Cesare Lombroso a Freud) ma ampiamente messa in discussione non solo dal femminismo, ma anche in campo scientifico e specificamente psicoanalitico.

SESTO MITO: «Molte violenze accadono perché le donne continuano a criticare i loro compagni», «La maggior parte dei casi di violenza domestica implicano una violenza reciproca dei due partner». Sotto questa affermazione si nascondo ordini diversi di considerazioni. Anzitutto si tende a centrare l’attenzione su chi ha subìto la violenza piuttosto che su chi l’ha agita: passa così l’idea di una violenza per reazione con un’implicita assoluzione dell’aggressore che, a quel punto, avrebbe agito per una causa a sua volta scatenata dalla vittima. L’affermazione ha un risvolto chiaramente ideologico, in quanto si vuole di fatto sostenere che le donne, rivendicando i loro diritti di pari dignità anche nella vita famigliare e domestica, finiscono per suscitare la violenza maschile come risposta - come dicessimo che molti licenziamenti accadono perché i lavoratori continuano a pretendere stipendi adeguati al lavoro realmente svolto. Dall’altra parte si vuole sottolineare che un rapporto caratterizzato da forte conflittualità reciproca può essere alle origini della violenza domestica, trascurando il fatto, indiscutibile, che la violenza domestica resta pur sempre prevalentemente maschile. 

SETTIMO MITO: «Se a una donna non piace, se ne può sempre andare», «Le donne possono evitare gli abusi fisici se accadono solo saltuariamente». Il “saltuariamente” è di fatto la china su cui scivola frequentemente la violenza domestica perpetrata sempre più insistentemente. Quanto alla libertà di interrompere la relazione e sottrarsi, anche in questo caso l’affermazione è semplicistica e per così dire astratta. Una relazione amorosa diventa un legame sempre più complesso e doloroso da recidere a mano a mano che il tempo ha intrecciato esperienze, vissuti, ricordi, che costituiscono il tessuto della vita sentimentale della persona. Si confonde spesso il comprendere con il perdonare e dunque con il continuare a sperare: e fa parte dei sentimenti e della loro complessità anche l’attesa di un cambiamento da parte dell’altro e la fiducia che ciò possa avvenire. Non è un caso che si consigli di interrompere la relazione al primo esempio di violenza, quando è più facile rinunciare all’altro.

Anna Falchi: “in Italia ci sono carriere che sono nate a letto…” Intervista del 2/03/2017 di Giulia Cherchi su “Il Giornale Off. Sex symbol degli anni novanta e duemila, Anna Falchi, mantiene intatta negli anni la sua bellezza nordica, ma anche quella verve romagnola che l’ha sempre contraddistinta. La sua carriera inizia nel 1989 con il concorso di Miss Italia, dove, oltre al secondo posto, conquista l’ambita fascia di Miss Cinema. Ma a lanciarla nello star system è senza dubbio uno spot, quello della Banca di Roma, diretto dal grande Federico Fellini. Un lavoro che segnerà inevitabilmente il suo percorso e la porterà in seguito a rifiutare numerosi contratti televisivi – che saranno poi la fortuna di altri personaggi (vedi Carlo Conti e Simona Ventura) – per inseguire la carriera cinematografica. Arrivano così per l’attrice italo-finlandese una serie di ingaggi in pellicole tra cui Nel continente nero di Marco Risi, e S.P.Q.R. 2000 e ½ anni fa di Carlo Vanzina, che le affiderà il ruolo della conturbante Poppea. Da lì la sua fama prosegue tra calendari di nudo, tante apparizioni sui media, e conduzioni tv, tra cui quella del fortunato Sanremo ’95, al fianco di Pippo Baudo e Claudia Koll. Nel 2005 diviene anche produttrice cinematografica con la sua A-Movies Production, dove ancora oggi si occupa di film d’autore e indipendente. Sempre spontanea e sincera, è una che di certo non le manda a dire, preferendo una cruda verità ad un’infima bugia. In questa intervista, tra delusioni e ironia, rivela a noi di OFF tante curiosità su vita, carriera, sesso e attualità.

Ci racconti un aneddoto Off?

«Sanremo, 1995. Sono passati tanti anni ma i ricordi sono nitidi e gli aneddoti si sprecano. Su quel palco ne ho fatte e dette di “ogni”. Una delle cose più simpatiche che ricordo riguarda l’abito per la finalissima. Si trattava di un abito da sogno di Lancetti a cui tenevo molto, visto che qualche anno prima, come modella, l’avevo indossato per la campagna pubblicitaria di Lancetti. Era una specie di torta gigante, impossibile da piegare, un abito alla Via Col Vento per capire, e, il mio staff, composto da due cari amici e mio fratello, lo ha portato in giro per Sanremo, sulle spalle, dall’hotel all’Ariston. Tutti si giravano ed erano chiaramente sorpresi»

Come erano i rapporti con la tua collega Claudia Koll?

«Non c’era una simpatia reciproca onestamente. Caratteri molto diversi e tanta competizione, dovuta e creata ad arte dai media. Questo inconsciamente ha creato in noi una sorta di rivalità che, a mio parere, non era niente male, visti i risultati. Ancora oggi il Festival del 1995 è l’evento nella storia della televisione (a parte le partite di calcio) più visto».

E con Valeria Marini? Come l’ha presa la tua imitazione sui social?

«Premessa: adoro Valeria Marini. E’ una creatura fuori dal comune, un vero personaggio che interpreta la vita da “diva”. Valeria quando è uscita dalla casa ha saputo tramite amiche comuni della mia “imitazione” (si fa per dire!)e mi ha chiamata facendomi i complimenti. Confesso che mi ha piacevolmente sorpresa. Che ironia, che bel carattere e Sense of Humor incredibile! Mi aspettavo tutt’altra reazione. Non solo, ha persino ripostato un mio video sui suoi social ed ha avuto più like dei miei!»

A Baudo hai detto “se non mi inviti tu non mi invita nessuno”. Perché questo calo di richiesta nei tuoi confronti?

«Nessun grido di dolore né duro sfogo! Diversi organi di stampa hanno riportato alcune mie esternazioni durante un’intervista a Domenica In con Pippo Baudo. Dopo un’accoglienza che mi ha molto emozionata, Pippo dice di non vedermi da un po’ in tv, e mi domanda se sia una mia scelta. Io, ironicamente (almeno nelle intenzioni…) rispondo con una lusinga verso l’uomo che considero il mio pigmalione. A Pippo rispondo dunque ringraziandolo; e aggiungo, sorridendo, che se non mi avesse invitato lui, nessuno avrebbe pensato a me. Apriti cielo!! In realtà, volevo solo dire a una persona che mi conosce da tanti anni e a cui voglio molto bene, che vivo la vita come tutte le persone del mondo, accettando serenamente quel che propone. Non voleva essere una lamentela per mancanza di attenzione, tanto è vero che mi attende ancora un periodo pieno di presenze in tv».

Nella tua carriera hai incontrato molti personaggi famosi. Qual è quello a cui sei più legata e quello che ti ha delusa di più?

«Sono legata affettuosamente a Pippo Baudo che ha creduto in me. Un vero signore dello spettacolo, e direi insostituibile! Per il resto ho avuto tante delusioni da amici “comici” con cui ho lavorato. Spesso questi personaggi sono troppo istrionici ed egocentrici che tendono a prendersi tutto lo spazio relegandoti a ruoli secondari e poco incisivi».

In passato in teatro hai recitato in Se devi dire una bugia dilla grossa. Qual è la più grossa bugia che hai detto?

«Le bugie hanno le gambe corte, e non mi sembra di averle! A parte gli scherzi, direi che qualche bugia bianca l’ho detta, ma sono una piuttosto diretta e sempre sicura delle mie scelte, a costo di sbagliare. Cosa che ho fatto spesso. Meglio una cruda verità che un’infima bugia!»

Le tue relazioni ti hanno mai creato dei problemi sul lavoro?

«Sì, eccome! Ho sbagliato molto spesso con gli uomini. Tanto gossip mi ha danneggiata ma mi ha anche dato tanta notorietà (bisogna ammetterlo!), ma a volte la vita privata ha preso il sopravvento sulla mia professione».

Quanto pensi che il sesso sia fondamentale nei rapporti di lavoro e nella vita?

«Sul lavoro mi verrebbe da dire che non sia fondamentale, ma, in Italia ci sono carriere che sono nate e consolidate con “storie di letto”. Nella vita privata chiaramente è un’altra storia. L’amore e il sesso vanno di pari passo e ti rendono serena, felice e appagata».

E la bellezza? C’è un personaggio storico, un’icona che rappresenta la bellezza e a cui noi donne oggi dovremmo ispirarci?

«Come bellezza ho sempre pensato che la più bella nella storia sia Brigitte Bardot. Come donna icona, invece, una grande donna che ha speso tutta la sua vita nella ricerca, Rita Levi Montalcini. Con lei avevo in comune il 22 aprile, giorno in cui entrambe siamo nate. Ho avuto modo anche di conoscerla oltre che in pubblico in privato. Un mio amico del passato era in fin di vita in ospedale e chiese di lei (la conosceva perché l’aveva fotografata). Lei accorse subito, studiò il caso e in poche ore comprese cosa avesse il mio amico, prescrisse la cura e gli salvò la vita».

Cosa ne pensi invece del femminismo al giorno d’oggi, quello che sfida il senso del pudore, come nel caso delle azioni delle Femen?

«Non condivido le azioni delle Femen, come tutte le forme e i mezzi aggressivi utilizzati per varie campagne. Penso che purtroppo la società sia ancora troppo maschilista, anche se le cose sono migliorate negli anni, ma finché esisteranno culture che annientano la figura della donna penso che il mondo delle donne non sarà mai omogeneo in primis, e che le donne dovrebbero lottare insieme per raggiungere tutte lo stesso obiettivo di uguaglianza col mondo maschile. Non entrerei in politica perché non mi sembrerebbe giusto visto che, come tanti, non ho studiato politica e non sono abbastanza forbita per rappresentarla. Mi è stato chiesto di entrare in politica ma non rivelerò mai da chi».

Secondo te la società odierna é pronta a personaggi quali Concita Wurst e all’educazione gender?

«Dopo tutto quello che è stato fatto e da quanto ne parliamo io penso non ci sia più alcun tabù. La società attuale è molto sensibile a questo argomento. Persino i bambini d’oggi (io penso a mia figlia perlomeno) sono già educati e preparati alle diversità di varia natura. Si rendono conto benissimo se una persona è “speciale” e non hanno alcun problema a riguardo. L’importante nella vita è incontrare persone sane mentalmente, educate e rispettose del prossimo. Del resto ognuno può essere e apparire come meglio crede».

Se non avessi lavorato nel mondo dello spettacolo, che lavoro avresti voluto fare?

«Il mio sogno era fare l’architetto o interior designer, come si dice oggi. Lo trovo comunque una forma d’arte».

QUELLI CHE…LA PATATA BOLLENTE.

Il quotidiano Libero condannato per "La patata bollente". Tribunale e Odg unanimi: "Titolo sessista". Il Tribunale di Milano respinge il ricorso del direttore Senaldi contro la sentenza del Consiglio di disciplina dell'Ordine dei giornalisti: condannato a pagare 20 mila euro di spese legali, scrive Antonella Loi il 23 novembre 2018 su Tiscali. Un esempio incontestato di cattivo giornalismo. A giudicarlo così sono stati unanimemente il Tribunale di Milano e l'Ordine dei giornalisti, chiamati a giudicare il famigerato titolo di Liberomesso in prima pagina il 10 febbraio 2017, "La patata bollente", corredato dall'occhiello "La vita in agrodolce di Virginia Raggi". Ancora sotto campeggiava la fotografia della sindaca di Roma. Come riferisce Prima Comunicazione, con sentenza di primo grado la V sezione del Tribunale di Milano ha confermato la delibera del Consiglio di disciplina dell’Ordine nazionale dei Giornalisti contro Pietro Senaldi, il direttore responsabile della testata, guidata da Vittorio Feltri. Il Tribunale ha infatti respinto il ricorso del giornalista contro la decisione del Consiglio di disciplina condannandolo anche al pagamento delle spese legali, circa 20mila euro.

Richiami sessuali e dileggio sessista. Per il Consiglio nazionale di disciplina dell'Ordine dei giornalisti, il titolo del quotidiano presenta “evidenti richiami sessuali”, un “dileggio” sessista proprio perché la sindaca “è donna”. Del resto si parlava proprio delle sue vicende personali trattate non a caso insieme alla notizia dell'inchiesta in cui era stata coinvolta la sindaca di Roma. La stessa Virginia Raggi è stata tra l'altro prosciolta da ogni accusa nel processo sulla nomina del fratello dell'ex dirigente Raffaele Marra. Il quotidiano di Feltri, con quel titolo e il contenuto dell'articolo, accostava Virginia Raggi alla vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi sulle "olgettine" e Ruby. La difesa del direttore Senaldi davanti al Consiglio di disciplina della Lombardia, era basata sul "doppio senso, inteso con un'accezione affettuosa". Accezione evidentemente respinta. 

Boccata d'ossigeno per l'informazione. La notizia arriva come una boccata d'ossigeno per un'informazione messa sempre alla sbarra per i rapporti poco amichevoli con il potere politico, nel bene e nel male. Sapere che gli organi di disciplina e poi il Tribunale unanimemente bocciano la condotta di un quotidiano a tiratura nazionale è una buona notizia, perché dà la conferma che gli organi preposti alla vigilanza sulla correttezza dell'informazione funzionano.

Sono stati proprio i Cinquestelle a denunciare all'Ordine dei giornalisti l'abuso oggi sanzionato. E ancora i Cinquestelle avevano tirato in ballo questo caso per additare giornalisti colpevoli di "sciacallaggio" su Virginia Raggi anche in quanto donna. Ma sicuramente esagerando nella durezza dialettica e nelle accuse contro un'intera cactegoria tanto da sollevare l'asticella dell'allarme "attacco alla libera informazione". I giornalisti poche settimane fa sono scesi in piazza contro le pericolose generalizzazioni. Oggi gli organi di disciplina di categoria e di giustizia ordinaria dimostrano che le strutture di garanzia spesso funzionano: è una buona notizia.

Pietro Senaldi: "Patata bollente e giornalisti bolliti, cosa penso della mia condanna", scrive il 23 Novembre 2018 su "Libero Quotidiano". Pietro Senaldi, direttore di Libero, è stato condannato dall'ordine dei giornalisti per il titolo "patata bollente" riferito alla "grana" di Virginia Raggi a Roma. "I politici possono dare delle puttane ai giornalisti ma i giornalisti non possono dire patata bollente che secondo la lingua italiana significa grana e non donna poco di buono".

Più patate, meno mimose, scrive Pietro Senaldi l'8 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Non discutiamo. È un dato di fatto comunque che passi avanti ne sono stati fatti. Tra le nuove leve di magistrati, medici, notai, politici (?), giornalisti tv e tutte le professioni che portano prestigio e ricchezza le donne hanno superato numericamente gli uomini. Ogni due per tre escono studi che asseriscono che sul lavoro le donne sono più sensibili, ordinate, efficienti, produttive e affidabili, che vivono di più e a dispetto delle apparenze sono più forti. Nelle settimane scorse Libero ha pubblicato perfino una pagina in cui un tale sosteneva che l’uomo si estinguerà per manifesta inferiorità. È vero sono ancora vittime di violenza e il fatto che comunque le aggressioni siano in calo e in Italia siano molto meno che nei Paesi più civili e attenti alla donna, come quelli scandinavi, non può essere una consolazione sufficiente ad abbassare la guardia. Ma qualcuno è davvero convinto che uno sciopero femminile possa risparmiare anche una sola sberla a una donna da parte di un compagno violento? Dubitare è lecito: se perfino molte donne non capiscono le ragioni di questo sciopero, state certi che i maschi violenti non le afferreranno per nulla. Anzi. E allora? Se davvero sono le numero uno, anziché scioperare, che specie quando in realtà comandi da un pezzo serve a poco, le donne prendano in mano l’Italia e la salvino, il Paese ne ha bisogno e lasciamo loro volentieri il posto. Facciano come la Boschi a Palazzo Chigi, si impadroniscano ciascuna del proprio piccolo regno e lascino il Renzi di turno a girare come un matto rischiando i fischi. Noi maschi. Esausti, non opporremo resistenza. Ci limiteremo ad aprire lo sportello, offrire cene, pagare bollette, farci carico di ogni spesa per gli anni a venire quando ci si separa e lasciare il posto sulla scialuppa in caso di naufragio, privilegi a cui nessuna donna aspira. E se qualcuna non ha più voglia di fare la mamma, nessun problema, non si disturbi, le moderne acrobazie del diritto globale ci consentono di fabbricare un bimbo utilizzando un utero del terzo mondo o, più a caro prezzo, a stelle e strisce, e tirarlo su con un amico facendoci perfino chiamare mamma. Ma ogni cosa ha un prezzo: la raggiunta o agognata parità deve pur valere la rinuncia alla pretesa delle mimose. Così, signore, non andate a denunciare il collega che al posto del mazzo di fiori oggi vi farà trovare una patata. Almeno sul tubero stiamo tutti con Berlusconi, immortale estimatore del gentil sesso, secondo cui «quella deve girare il più possibile». Ecco, alla fine il maschilismo viene sempre fuori, anche solo per scherzo. È quel diavoletto che ci fa pensare: perché scioperano? Non è che ora possono fare tutto quello che fanno i maschi si sono accorte che non sono tutte rose e mimose e allora tentano il salto triplo: noi donne non vogliamo vivere come gli uomini, vivete piuttosto voi come le donne. E allora vai di spesa, aspirapolvere e pannolini. Ma ormai anche questo accade da anni in molte giovani coppie, con il malcapitato che si presta che viene sistematicamente umiliato perché compra il cibo sbagliato, si è dimenticato le mele, non ha pulito bene gli angoli, ha lasciato il bebé sporco e così il culetto si arrossa. Ebbene, cercate di capire, anche se a lavorare voi siete brave come gli uomini e anche meglio, nelle cose che tradizionalmente erano da donne, noi siamo ancora molto indietro. E, anche se sciopererete tutti i giorni, siamo fatti per rimanerlo sempre. Mi scuso ma non ce la facciamo, malgrado ogni sforzo culturale e concettuale, la natura ha le sue regole: le priorità, gli interessi, l’attenzione ai figli e alla casa sono diversi. Amiamo la casa e la prole ma diversamente da voi, meno bene se ci tenete al mea culpa. Preferiamo il pub alle feste di bambini. Saremo spietati, sporcaccioni, barbari, ma abbiamo una tolleranza superiore alla vostra al cibo in scatola, alla camicia stropicciata, alle macchie sul pavimento e perfino ai pianti dei figli. Alla femminilizzazione non ci rassegniamo e mi illudo che forse sia proprio la parte meno addomesticata di noi a farci, se non proprio desiderare, ancora rispettare un po’ da voi. E a quelle che oggi andranno in piazza anziché al lavoro, ricordo: stasera niente cena.

Cantava più o meno così negli anni ’60 «La coppia più bella del mondo», Mori e Celentano. Allora era lei a negarsi ma i tempi sono cambiati. Quanto a me, grazie a Dio non ho questo problema: l’8 marzo a casa mia è da sempre il compleanno di papà e viene celebrato come festa personale e non di genere. A proposito, auguri.

«Viva il tubero, parola di femministe». Parlano le due artiste che hanno lanciato l’iniziativa #nonsibaratta nelle città del Nord Italia, scrive Alessandro Gonzato l'8 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Ci sono le pistole (e i pistola) fumanti che hanno sparato contro Libero, accusandoci di sessismo per il titolo «Patata bollente» riferito alle grane amministrative e private del sindaco di Roma Virginia Raggi, e ci sono poi femministe convinte che in occasione della festa della donna anziché la mimosa preferiscono offrire ai passanti la patata. Da lunedì Silvia Lana e Ilaria Marchesini, 42 e 30 anni, stanno girando il Nord Italia con dei cesti di patate. Fermano le persone per le strade e nelle piazze e gli chiedono se vogliono farsi fotografare tenendo in mano il rotondo ortaggio, su cui c’è attaccato un cartellino giallo con l’hashtag #nonsibaratta, con riferimento alla patata, ovviamente. Di professione, Silvia e Ilaria, fanno le artiste: si ispirano alla string art, prendono delle grandi tavole di legno, ci impiantano un sacco di chiodi, e attorno a questi tendono dei fili che danno vita a delle immagini. Tra queste una patata, pardon, una vagina gigante di due metri. Il loro lavoro non ha a che fare con la patata, «anche se spesso, per poter esporre in sale e musei, ci è stata chiesta» dice Ilaria, che incontriamo assieme alla collega a Verona, davanti all’Arena. Ed ecco il motivo dell’hashtag #nonsibaratta. «Ci sono stati parecchi uomini che in cambio di una mostra ci hanno proposto di andare a letto con loro. Noi però non siamo scese mai a compromessi». Sono femministe, credono nelle loro battaglie, ma riescono anche a non prendersi troppo sul serio per quanto reputino la loro battaglia serissima. Denunciano quella che secondo loro è «una società sessista e fallocentrica» ma non demonizzano (a differenza degli inventori dell’educatissimo Vaffaday e delle verginelle di sinistra) l’utilizzo del termine «patata». Anzi, al contrario. Ne hanno fatto un simbolo. «Qualcuno si è indignato per il linguaggio. Noi però nell’utilizzo della parola “patata” non ci vediamo niente di male. È un tubero» aggiunge Ilaria. Oggi Silvia e Ilaria saranno a Milano in piazza Duomo. Venerdì in piazza San Marco, a Venezia. Domenica a Lazise, Bardolino e Garda, sulla sponda veronese del lago. Qui verranno raggiunte in macchina da altre due donne molisane, un’imprenditrice madre di tre figli e una sua collaboratrice. E ci immaginiamo le facce dei mariti quando le signore gli hanno comunicato che si sarebbero fatte tutta l’Italia in auto per dare le patate ai passanti. Patate che oggi però sono più utili e apprezzate delle mimose, almeno dalle donne di casa. Con le patate ci si fa il purè, ci si può accompagnare il pollo, o si possono mangiare anche da sole con un filo d’olio. Le patate sono buone bollenti, bollite, sbollentate, tiepide, lesse, al cartoccio e anche ripiene. E fanno felici anche i bambini (ma anche i grandi), che per le patatine fritte vanno matti e le mangerebbero sempre. Le mimose invece, oltre a costare molto di più, dopo due giorni puzzano e sono da buttare nella pattumiera. La patata #nonsibaratta con niente. Evviva la patata! Parecchi uomini in cambio di una mostra ci hanno proposto di andare a letto con loro. Noi però non siamo scese mai a compromessi.

Più patate, meno mimose. Viva le patate felici, scrive Pietro Senaldi il 9 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Tutta la nostra stima alle «Parallel Lines», al secolo Ilaria Marchesini e Silvia Lana, due artiste originali e spiritose che stanno girando l’Italia proponendo a chi incontrano di farsi fotografare con loro e una patata in mano con la scritta #nonsibaratta. Potrà sembrare stravagante aprire il giornale con questa notizia ma dopo il clamore suscitato dal nostro titolo «Patata bollente» riferito ai casini combinati dal sindaco Raggi a Roma, abbiamo colto al balzo l’occasione. Come a dire, la patata non è sessista e lo dimostrano perfino due femministe doc. E poi (...) (...) oggi è l’8 marzo, la festa delle donne, che sciaguratamente qualche sindacalista o femminista d’antan, sotto le insegne della piattaforma «Non una di meno» celebrerà con uno sciopero che, come hanno già scritto i nostri Simona Bertuzzi e Filippo Facci, è inutilmente divisivo, fomenta il sessismo e tra asili chiusi, mezzi che non vanno e giornata di lavoro non pagata, metterà in difficoltà soprattutto le donne. Non a caso, perfino la Camusso, segretario Cgil, ha detto di non condividere la protesta. Molto meglio festeggiare con dei selfie al tubero come fanno Ilaria e Silvia, che rivendicano che la loro patata non si baratta ma hanno trovato un modo più moderno di protesta e dimostrano che perfino una femminista può sorprendere. Come non capiterà invece alle arrabbiate che in piazza oggi si alzeranno la gonna mettendo in mostra la mercanzia convinte così di veicolare il messaggio che quello che hanno tra le gambe non è a disposizione di tutti. Ma passando dal faceto al mezzo serio: cosa si può dire di questo sciopero? Argomento arduo da affrontare per un uomo, specie su un giornale considerato di destra. A ogni parola si corre il rischio di essere tacciati di maschilismo. Meglio allora arrendersi subito e specificare che non è intenzione e che anzi, perfino qui a Libero siamo convinti che le donne abbiano gli stessi diritti, doveri, meriti e qualità degli uomini; e se non è così, è solo perché ne hanno di più. Tuttavia sociologi e analisti negli anni ci hanno fornito milioni di dati denunciando che le donne in Italia sono ancora discriminate, guadagnano meno, tra figli e impegni domestici lavorano di più e hanno meno chance. Una minoranza di donne vuole rovinare la festa di tutte con uno sciopero divisivo. Molto meglio l’iniziativa di due artiste che girano l’Italia distribuendo tuberi con la scritta “non si baratta”. Più efficaci e spiritose delle sindacaliste e della Raggi.

Manfrine e polemiche da destra a sinistra, giusto per parlarne al solo scopo di autoincensarsi ed autopromozionarsi a fine politico o commerciale. Della serie: scompari o declini, allora fai parlar di te, male o bene, ma fai parlar...Ed infuria la diatriba sui media che non sanno parlar d'altro di interessante.

Caso Meloni-Argento, Rai: "Ci dissociamo". Viale Mazzini si dissocia con una nota dalle parole e "dall'atteggiamento" di Asia Argento. Fdi: "Va rimossa dalla conduzione", scrive Franco Grilli, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". La polemica tra Asia Argento e Giorgia Meloni è destinata a non chiudersi rapidamente. L'attacco volgare della conduttrice con una foto e una didascalia carica di insulti sulla Meloni ha innescato due reazioni. La prima è proprio quella della leader di Fratelli d'Italia che su Facebook ha messo immediatamente la Argento nel mirino rispondendo a tono: "Pubblico questo commento di Asia Argento a una foto che mi ha fatto di nascosto (temeraria), perché, al di là dei soliti insulti triti e ritriti che non mi interessano, mi ha molto colpito che abbia parlato della mia "schiena lardosa". Lo pubblico per dire a tutte le donne che hanno partorito da pochi mesi e che per dimagrire non usano la cocaina di non prendersela se qualche poveretta fa dell'ironia sulla loro forma fisica. Valeva la pena mille volte di prendere qualche chilo. Ps. E sappiate che pagate il canone Rai anche per stipendiare gente di questa levatura". La seconda reazione è quella della Rai che ha preso una posizione ufficiale su quanto accaduto: la Rai "si dissocia dalle frasi ingiuriose sulla deputata Giorgia Meloni pubblicate da Asia Argento sui social network. Affermazioni che, pur se espresse nel contesto dei propri account social, sono molto distanti dallo spirito del servizio pubblico", si legge in una nota di Viale Mazzini. E Fratelli d'Italia rincara la dose con il capogruppo Fabio Rampelli: "Il vergognoso, indecente commento che la conduttrice Rai di Amori criminali, Asia Argento, ha postato su Instagram la dice lunga sulla capacita' di questa 'donna' di difendere le donne. ‎Ma dimostra anche l'assoluta inadeguatezza, visti anche gli ascolti imbarazzanti della sua trasmissione". "Il management -aggiunge- la rimuova immediatamente e dimostri di saper scegliere chi deve interpretare ruoli così delicati nel servizio pubblico. Per lo sguaiato e discriminatorio attacco a Giorgia Meloni non bastano nemmeno le scuse". Scuse che sono arrivate via twitter dalla stessa Argento: "Il mio tweet è stato inappropriato. Non avrei dovuto farlo - indipendentemente da idee personali o politiche - contro una donna. Chiedo scusa".

Raggi, scoppia il caso Libero. "Mi risarciranno anche il giornale". Bufera per il titolo sulla Raggi: "Patata bollente". Il M5S fa quadrato: "Che schifo". La Boldrini: "Giornalismo spazzatura". Solidarietà anche dal Pd, scrive Giovanni Neve, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". "Patata bollente". È il titolo che oggi campeggia d'apertura sul quotidiano Libero. Feltri: "Non chiedo scusa per quel titolo". Subito sotto la foto del sindaco di Roma Virginia Raggi. E, sopra, l'occhiello: "La vita agrodolce della Raggi". Una presa di posizione che non è andata già al Movimento 5 Stelle che, dopo essersele date di santa ragione per prendersi il massimo scranno del Campidoglio, ha subito fatto quadrato attorno al primo cittadino della Capitale. Con Beppe Grillo che, in apertura del proprio blog, ha sbattuto le fotografie del direttore editoriale Vittorio Feltri e del direttore responsabile Pietro Senaldi, con il link ai loro account Twitter e l'indicazione "Scrivigli su Twitter". "Libero Quotidiano nel 2016 ha perso il 16,3% dei suoi lettori rispetto al 2015. Il 2017 è appena iniziato". Nell'editoriale di oggi, intitolato appunto Patata bollente, Vittorio Feltri scrive che la vicenda politico-privata della Roma si perde tra inchieste giudiziarie e gossip sui presunti flirt in Campidoglio con i suoi assistenti. Una vicenda che rischia di mettere in difficoltà il Movimento 5 Stelle sia in termini di voti e sia di reputazione. I Cinque Stelle si sono subito infuriati. Non hanno proprio digerito il titolo di Libero. Ovviamente, non appena il comico ha dato il via alla gogna mediatica, i grillini si sono scatenati in attacchi e insulti. Su Twitter è subito rimbalzato l'hashtag #libero. "Non so se sia sessismo o semplice idiozia, in ogni caso mi fa schifo - ha tuonato il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio - la stampa ha superato ogni limite". Anche la deputata Roberta Lombardi, da tempo in forte contrasto con la Raggi, ha fatto sentire la propria voce sui social: "È qualcosa di vergognoso, deplorevole, perché un simile attacco offende la dignità di ogni donna". E la diretta interessata risponde su Facebook. "Quando chiederò il risarcimento per diffamazione - ovviamente, lo farò - aggiungerò anche 1 euro e 50 centesimi che ho speso per comprare per la prima ed ultima volta questo giornale". A dar man forte ai grillini c'è la sinistra. "Questa prima pagina fa semplicemente schifo", attacca su Twitter il presidente del Pd Matteo Orfini. "È una schifezza", ha fatto eco il deputato dem, Roberto Giachetti. Il presidente della Camera Laura Boldrini parla, invece, di "volgarità sessista": "Questo è giornalismo spazzatura". Il presidente del Senato, Piero Grasso, chiede a Feltri di scusarsi con il sindaco di Roma: "Libero sì, ma non di insultare volgarmente con allusioni oscene".

Caso Raggi, Feltri: "Non chiedo scusa per quel titolo". Bufera su Libero per il titolo sulla Raggi. Feltri a chi lo accusa: "Rispettate le mie idee", scrive Giovanni Neve, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". "Ma perché dovrei chiedere scusa?". Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero, parla con Affaritaliani.it del caso (e delle polemiche politiche) scoppiato dopo il titolo di questa mattina relativo a Virginia Raggi. "Questo stesso titolo lo feci il 15 gennaio 2011 su Libero, dove ero tornato da poco come direttore editoriale, per il caso Ruby ", spiega Feltri. L'occhiello era: "Silvio rischia grosso". E il catenaccio: "Sul caso Ruby offensiva finale dei pm di Milano, processo al premier per sfruttamento della prostituzione minorile. Interrogate cento ragazze, 600 pagine di intercettazioni ma Berlusconi sfida i giudici: solo fantasie, lasciatemi governare o si va al voto". "Lo stesso titolo fatto su Ruby e con foto di Ruby va bene - controbatte Feltri oggi - se invece lo facciamo sulla Raggi non va bene? Come mai?". "Poi che cos'è la patata?", si chiede il direttore di Libero. "A Roma c'è sicuramente una questione scottante. E quindi è una patata bollente". I grillini e la sinistra lo accusano di aver alluso al doppio senso. E lo tacciano di sessismo. "Il doppio senso, eventualmente, lo attribuisce chi legge e non chi scrive", ribatte Feltri. Il presidente della Camera Laura Boldrini ha addirittura parlato di "volgarità da giornalismo spazzatura". "Sono opinioni e io rispetto tutte le opinioni - afferma Feltri - per cui desidererei che fossero rispettate anche le mie, ma forse pretendo troppo". Feltri non chiederà scusa alla Raggi. "Perché dovrei chiedere scusa? Di che cosa? Per la patata bollente? Ma stiamo scherzando? Che questa sia una patata bollente non c'è il minimo dubbio. Poi il salto dalla patata alla figa è notevole". Quindi, conclude: "Da notare che il 15 gennaio 2011 io ero qua, quello su Ruby non fu un titolo di Belpietro, ma mio. Ma nessuno fece polemiche. Anzi, manco se lo ricordano perchè di Ruby si poteva dire tutto. E di Berlusconi soprattutto, perchè Ruby senza Berlusconi sarebbe stata la signora nessuno. Non ci furono polemiche e nessuno disse niente. Nessuno parlò di sessismo. Due pesi e due misure, che differenza c'è tra la Raggi e Ruby? Non sono due persone entrambe degne di rispetto?".

Tutti contro un tubero. M5S, Feltri risponde alla polemica su Patata bollente: "Io chiedere scusa? Rispettino le nostre idee", scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Uno dei meriti che deve essere riconosciuto al titolo dedicato a Virginia Raggi in prima pagina di Libero oggi in edicola, "Patata bollente", è di aver messo d'accordo buona parte dei dirigenti grillini con diversi pezzi grossi del Partito democratico. Da entrambi i partiti è arrivata la richiesta al direttore Vittorio Feltri di chiedere scusa al sindaco di Roma, una richiesta rigettata al mittente: "Ma perché dovrei chiedere scusa? - ha detto ad affaritaliani - Questo stesso titolo lo feci il 15 gennaio 2011 su Libero, dove ero tornato da poco come direttore editoriale, per il caso Ruby rubacuori. L’occhiello era: 'Silvio rischia grosso. Il titolo: 'La patata bollente. E ancora: 'Sul caso Ruby offensiva finale dei pm di Milano, processo al premier per sfruttamento della prostituzione minorile. Interrogate cento ragazze, 600 pagine di intercettazioni ma Berlusconi sfida i giudici: solo fantasie, lasciatemi governare o si va al votò. Lo stesso titolo, 'la patata bollente, fatto su Ruby e con foto di Ruby va bene, se invece lo facciamo sulla Raggi non va bene? Come mai?". Lasciano il tempo che trovano le accuse di sessismo: "Poi che cos’è la patata? A Roma c’è sicuramente una questione scottante. E quindi è una patata bollente". Anche sul doppiosenso e il tono ironico del titolo secondo Feltri va riportato alla realtà: "Il doppio senso, eventualmente, lo attribuisce chi legge e non chi scrive". Tra gli indignati dell'ultim'ora non poteva mancare la presidenta della Camera, Laura Boldrini, che ha definito la prima pagina di Libero: "Volgarità da giornalismo spazzatura". Feltri non usa gli stessi toni esacerbati: "Sono opinioni e io rispetto tutte le opinioni. Per cui desidererei che fossero rispettate anche le mie, ma forse pretendo troppo". Restano le proteste di sottofondo alle quali Feltri non ha nessuna intenzione di dare peso, ricordando poi come si sono comportati gli scandalizzati di oggi solo pochi anni fa: "Perché dovrei chiedere scusa? Di che cosa? Per la patata bollente? Ma stiamo scherzando? Che questa sia una patata bollente non c’è il minimo dubbio. Poi il salto dalla patata alla f..a è notevole. Da notare che il 15 gennaio 2011 io ero qua, quello su Ruby non fu un titolo di Belpietro, ma mio. Ma nessuno fece polemiche. Anzi, manco se lo ricordano perché di Ruby si poteva dire tutto. E di Berlusconi soprattutto, perchè Ruby senza Berlusconi sarebbe stata la signora nessuno. Non ci furono polemiche e nessuno disse niente. Nessuno parlò di sessismo. Due pesi e due misure, che differenza c’è tra la Raggi e Ruby? Non sono due persone entrambe degne di rispetto?".

Feltri: "Volevo parlare con Di Maio, ma per mandarlo affanculo", scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Tra i primi a correre in soccorso di Virginia Raggi dopo il titolo che le ha dedicato Libero in prima pagina c'è stato il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio. Dopo l'elenco consegnato all'Ordine dei giornalisti con l'elenco degli autori di articoli che non gli sono piaciuti, Di Maio ha sentenziato su Twitter: "Non so se sia sessismo o semplice idiozia, in ogni caso mi fa schifo. La mia solidarietà a Virginia Raggi. La stampa ha superato ogni limite". Il direttore di Libero, Vittorio Feltri, avrebbe voluto rispondergli di persona, ma ironicamente ha scritto su Facebook che non è riuscito a parlare con Di Maio perché: "mi hanno riferito che egli è impegnato a tenere una lezione universitaria sull'uso del congiuntivo, e che nei prossimi giorni ne terrà una seconda sul corretto impiego del gerundio. Peccato - ha concluso Feltri - Lo avrei volentieri mandato affanculo". Vittorio Sgarbi entra nella polemica sul titolo di Libero "patata bollente" legato alla vicenda di Virginia Raggi. "Tutti a scandalizzarsi per la 'patata bollente' di Virginia Raggi", scrive il critico d'arte su Facebook. "Ma quando i giornali scrivevano, per restare in tema di ortaggi, della carota bollente di Silvio Berlusconi, dove erano gli indignati di oggi?". Il discorso di Sgarbi, come sempre, non fa una piega. 

Patata bollente, Sgarbi show a L'Arena: asfalta Parietti e Geppi Cucciari con una sola frase, scrive "Libero Quotidiano" il 12 febbraio 2017. L'ha fatto davvero, Vittorio Sgarbi: ha tirato fuori la patata bollente, ancora fumante. Su Twitter il critico più famoso d'Italia si schiera ufficialmente con Libero e, direttamente dalla cucina di un ristorante, rivendica con orgoglio: "Vi mostro la bollente (e tanto vituperata) patata bollita". Con tanti saluti a Virginia Raggi e a chi strilla all'insulto sessista. Con una sola frase Vittorio Sgarbi gela Alba Parietti, ospite insieme a lui a L'Arena di Massimo Giletti, e a distanza Geppi Cucciari, che qualche ora prima al Festival di Sanremo aveva portato la "patata bollente" di Libero sul palco dell'Ariston. Sia la Parietti che la comica si sono schierate nel gruppo di chi si dice scandalizzato per il titolo a loro dire "sessista" che il nostro quotidiano venerdì scorso ha dedicato alla sindaca di Roma Virginia Raggi. La questione, come hanno spiegato i direttori Vittorio Feltri e Pietro Senaldi (per cui Beppe Grillo ha invocato la gogna social), è tutta politica, al di là dell'ironico riferimento "sessuale". Eppure moralismo e strumentalizzazione, con spolverata di doppiopesismo, ha dominato il dibattito nel weekend.  Preso nella morsa, Sgarbi si è ribellato. "La donna va difesa perché donna non in quanto puttana o sindaca", ha incalzato in diretta su Raiuno, rivendicando come non si possa fare distinzione in base a chi viene "colpito". In passato, quando lo stesso trattamento venne riservato a Silvio Berlusconi, Ruby o alle Olgettine, anche con minor ironia, nessuno di coloro che oggi si stracciano le vesti ha fiatato. In una parola: asfaltate le verginelle, a 5 Stelle e non.

"Mio marito mi chiama sempre patata. Che dite, lo devo denunciare?". Standing ovation per Iva Zanicchi. La cantante emiliana con un passato in politica, ospite de L'Arena di Massimo Giletti su Raiuno, riporta la questione della "patata bollente" alla dimensione logica: l'ironia. In studio, a discutere del titolo di Libero su Virginia Raggi che da venerdì ha portato scompiglio nella politica italiana, con un coro sdegnato che va dal Movimento 5 Stelle al Pd, ci sono anche Alba Parietti e il sempre pungente Vittorio Sgarbi, che già a caldo aveva detto di essere contrario a moralismi e doppiopesismo. Ma al di là di ogni commento sul presunto "sessismo" di quella prima pagina (accusa che andrebbe riservata ad altri temi), è proprio l'Iva nazionale a riassumere al meglio tutta questa surreale levata di scudi.

Patata bollente, la doppia morale di Concita De Gregorio: lei parla ma si faceva pubblicità col lato b. Anche la giornalista Concita De Gregorio non ha voluto far mancare il suo contributo agli attacchi a Libero. A proposito della pubblicità di una nota marca di lavatrici (foto in alto), l'ex direttrice dell'Unità ha commentato: «C' è qualcuno a Libero che nel dopolavoro si applica al marketing di questa ditta, o forse il contrario». La lezione di bon ton, al solito, arriva da chi dà buone lezioni perché non può più dare cattivo esempio. Proprio la De Gregorio, nel 2008, quando dirigeva l'Unità da pochi mesi lanciò una campagna pubblicitaria in cui il giornale fondato da Antonio Gramsci compariva nella tasca posteriore della minigonna di una procace fanciulla (foto sotto). «Nuova, libera, mini», era lo slogan. Fioccarono le polemiche e la direttora si difese dicendo che «non era bene usare il corpo di una donna per vendere automobili, ma per pubblicizzare un prodotto intellettuale è pertinente». Ovvio, se di sinistra, anche un culo diventa un prodotto intellettuale. Da Libero, invece, può venire solo bieco sessismo.

La pagella dei famosi a Sanremo: da Toti scatenato alle bestemmie per Bianca Atzei.

La Pagella dei famosi di Alessandra Menzani, sempre in Sanremo special edition. 

10 - I ladri di carrozzelle, la band formata da invalidi ospite della finale. La loro hit si chiama “Viva la patata”. “Ma non l’abbiamo cantata al Festival, non ci sembrava il caso”. Peccato.

9 - Il più scatenato di Sanremo? Il governatore della Liguria Giovanni Toti, di Forza Italia. La notte della semifinale ha “sbocciato” fino alle 3 di notte al ristorante La Pignese, divertendosi un mondo. Al suo tavolo, per dieci minuti, anche Alba Parietti.

8 - Sven Otten, il ballerino della pubblicità della Tim. Ventinove anni, di Colonia, è diventato un personaggio, tanto che ieri è salito sul palco della finale. E ha ballato sulla voce di Mina, che non è poco.

7 - Boom delle scommesse Sisal MatchPoint su Sanremo. Tutti a dare le proprie preferenze e, a sorpresa, il 17 per cento di chi scommette è donna. Mai accaduto prima.

6 - Virginia Raffaele. La sua parodia di Sandra Milo è favolosa, come sempre, ma forse sarebbe stato meglio imitare un personaggio più attuale e “politico”.

6bis - L’armonia di coppia. Maria De Filippi e Carlo Conti non ne sprizzavano molta.

5 - Mentre su Raiuno andava in onda la semifinale, su La7 si registrava un certo imbarazzo da parte di Lilli Gruber. Alla fine di Otto e mezzo, la giornalista non ce l’ha proprio fatta a dire: “Dopo di noi va in onda il film La Patata bollente”.

4 - Marica Pellegrinelli. Non si capisce perché quest’anno abbiano chiamato le bellone per una semplice comparsata di 2 minuti.

3 - Le giornaliste all’Ariston. Cinque giorni di Sanremo, con un’ora di sonno ogni notte sul groppone, non fanno bene alle rughe. Una settimana in Riviera equivale a dieci anni di vita.

2 - La rabbia di Gigi D’Alessio. Su Facebook ha ululato: “Sapete chi ci è rimasto male? Sto c…o”. Con tanto di gestaccio.

1 - Chi è il giornalista di un importante quotidiano del sud che bestemmiava (a più riprese) durante l’esibizione di Bianca Atzei? Perché la bella sarda è così odiata?

La "patata bollente" fa sbroccare Grillo: così lancia la guerra a Libero, Feltri e Senaldi, scrive il 10 febbraio 2016 “Libero Quotidiano”. No, a Beppe Grillo non è piaciuto il titolo di prima pagina di Libero. "Patata bollente", riferito a Virginia Raggi, ha scatenato la reazione scomposta del leader del Movimento 5 Stelle che dal suo blog ha invitato alla gogna pubblica, come da triste usanza. "L'informazione italiana", con foto-combo della prima del nostro quotidiano e i volti dei due direttori, Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, con "caldo invito" a scrivere loro via Twitter. Ovviamente, pronta la pioggia di insulti per un pacato confronto su giornalismo e affini. La più classica delle shitstorm social, con tanto di hashtag gentilmente dedicato, #Libero. Tra le prime personalità istituzionali a partecipare si segnalano, ovviamente, Luigi Di Maio, la presidenta della Camera Laura Boldrini e il dem Matteo Orfini. L'ex marito della sindaca, Andrea Severini, va giù duro: "Poi ci domandiamo perché siamo una società maschilista e sessista, vergognatevi pezzenti". Nel suo editoriale Feltri spiegava anche con ironia come la vicenda politico-privata della sindaca grillina di Roma, persa tra inchieste giudiziarie e gossip sui presunti flirt in Campidoglio con i suoi assistenti, gli ricordi da vicino quella ben nota e assai più strombazzata di Silvio Berlusconi e le Olgettine, vicenda che per inciso è costata parecchio al Cav in termini di voti e reputazione. "Intendiamoci - scrive il direttore - personalmente non condanno i peccati della carne e neppure quelli del pesce. Il moralismo non è il mio forte. Pertanto mi limito a sottolineare che le debolezze accertate del Cavaliere meritano la medesima considerazione di quelle supposte della sindaca. Le valutiamo con lo stesso metro di giudizio: l'erotismo è legittimo ed è materia su cui non vale la pena di indagare". Più che di merito, dunque, un problema di par condicio. "Non ho titolo per chiedere le dimissioni della Raggi, ma i suoi mentori cessino di adorarla come una regina", è l'invito di Feltri, che poi profetizza: "Con la presente preghiera mi sarò guadagnato spero l'iscrizione nella lista di proscrizione che Di Maio ha compilato includendovi i giornalisti sgraditi e rei di aver canzonato i santi pentastellati". Giusto, anzi sbagliato: si è mosso Grillo in persona.

Patata bollente, l'affare s'ingrossa: spunta pure la Boldrini, scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Tre, due, uno: dopo la "Patata bollente" scende in campo Laura Boldrini. Anche la presidenta della Camera, come prevedibile, si schiera con Virginia Raggi come chiesto da Beppe Grillo con tanto di hashtag #Libero. Non è piaciuta, a quelli del Movimento 5 Stelle, la prima pagina del nostro quotidiano dedicata ai guai politico-sentimentali della sindaca di Roma e all'appello agli insulti hanno aderito in tanti. Compresa la Boldrini, appunto, che ha definito "giornalismo spazzatura" quello di Libero. Ma l'affare s'ingrossa, visto che Pietro Grasso, presidente del Senato, ha chiesto ufficialmente al direttore Vittorio Feltri do chiedere scusa alla Raggi. Ovviamente, la parola chiave della indignazione social è "sessismo", termine che di questi tempi si abbina un po' con tutto, come il nero. Nel florilegio di volgarità più o meno illustri, spicca però il commento pacato di Paola Taverna, una delle più agguerrite nemiche interne della Raggi ma che per l'occasione fa quadrato intorno alla compagna di grillismo. Su Facebook, la sempre educata deputata si concede questi ameni passaggi: "Vede dottor Feltri, con un semplice parallelismo sarebbe facile alla sua definizione del sindaco di Roma come "patata bollente" accostare per lei "gran testa di cazzo". E poi, dopo averci edotto su come utilizzerà il nostro giornale ("Sarà un piacere rivestirci il fondo del mio secchio della spazzatura"), si sbilancia in un augurio non nuovo dalle parti della Casaleggio: "In attesa che la sua testata sparisca insieme a tante altre". Questo, più che sessismo, è proprio odio.

Il caso Raggi e il gigantesco bar sport oltre gli argini della convivenza civile. Ormai il pensiero di pancia, la battuta greve, sono diventati consuetudine. E spesso sono i politici, per l’ansia di essere vicini alla gente, ad avvicinarsi al peggio della gente, scrive Marco Imarisio il 10 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Solidarietà bipartisan per Virginia Raggi dopo l’attacco della prima pagina di Libero. Muori. L’invito è accompagnato dal consueto insulto che fa riferimento a eventuali attività mercenarie del proprio corpo. Nei giorni in cui il dibattito nelle piazze virtuali è stato dominato dal tweet di Caterina Balivo sulla moralità di Diletta Leotta, da quello di Asia Argento sulle fattezze di Giorgia Meloni e infine, per chiudere il cerchio su un sessismo spesso spacciato per goliardia, dal titolo di Libero sulla patata bollente di Virginia Raggi, causa esigenze di lavoro è capitato di leggere un messaggio del genere rivolto su Facebook a Giorgia Galassi, una delle superstiti dell’hotel Rigopiano. È una ragazza di vent’anni rimasta prigioniera di neve e macerie. Qualcuno la ritiene colpevole di aver postato foto delle sue vacanze in Svizzera. In buona sostanza, di essere sopravvissuta e di scrivere frasi persino banali sulla vita che continua. Ci vorrà molto tempo per capire quando, esattamente, si sono rotti gli argini. Nel nostro dibattito pubblico sono saltate regole elementari di convivenza, tolleranza, persino di educazione minima. E non da ieri. Ormai il pensiero di pancia, la battuta greve, sono diventati consuetudine. Non c’è più alcuna intermediazione tra stomaco e polpastrelli, buona la prima, come se fossimo in un gigantesco bar sport virtuale. Anche per i titoli di giornale, che sono grandi perché devono essere il riassunto di una vicenda. Gli amori presunti del sindaco non dovrebbero neppure essere una nota a margine nel dramma di Roma, intesa come città. Le sue questioni personali non hanno alcun rilievo, a meno che non diventino snodi importanti dell’inchiesta giudiziaria. Il titolo di Libero fornisce legna al falò cospirazionista dei Cinque Stelle, alla teoria dei media cattivi che senza alcuna distinzione ce l’hanno con loro. Invece le responsabilità sono sempre individuali, e forse qualche distinzione andrebbe fatta. Proprio per questo, addossare la colpa a Internet rappresenta spesso un alibi di comodo. Oggi Beppe Grillo può tuonare contro la patata bollente di Libero. È la stessa persona che ha contribuito in modo decisivo a questa decadenza del nostro discutere, che poi sarebbe anche un modo di stare insieme. Fu lui a chiedere agli utenti del suo blog cosa avrebbero fatto se si fossero trovati in macchina da soli con Laura Boldrini, a chiedersi in un tweet se Maria Elena Boschi non fosse per caso in tangenziale con Pina Picierno. Nel 2001, quando durante uno spettacolo diede della vecchia meretrice a Rita Levi Montalcini, ma il termine era più comune ed esplicito, Facebook non esisteva ancora. I social network hanno sicuramente contribuito a sdoganare nella politica e in alcuni media un linguaggio e una lettura del mondo deresponsabilizzata, come se fosse possibile dire tutto, sempre. A voler cercare momenti che hanno segnato il crollo di ogni separazione tra le bacheche virtuali più deleterie e ambiti in teoria più protetti ci si imbatte anche nel deputato pentastellato Massimo De Rosa, che il 30 gennaio 2014 in aula, rivolto alle colleghe del Pd disse che si trovavano in Parlamento solo per le loro capacità nel sesso orale. E anche qui la frase originale era molto più cruda. L’ansia di essere vicini alla gente ha prodotto un avvicinamento al peggio della gente, spesso tollerato con molta indulgenza. Ieri Matteo Salvini ha dato a denti stretti la sua solidarietà a Virginia Raggi, ma non risulta che rimpianga di aver detto che Boldrini, una sua ossessione, aveva meno cervello di una bambola gonfiabile. E lasciamo perdere le banane e i paragoni con le scimmie che la Lega Nord ha riservato all’ex ministra Cecile Kyenge. Anche Vincenzo De Luca, uomo forte del Pd in Campania, è ancora al suo posto dopo aver sostenuto che la sua nemica Rosy Bindi avrebbe dovuto essere uccisa, ultima perla di un rosario che comprende ovviamente anche giudizi sull’avvenenza della sua compagna di partito. Se tutto è lecito come su Facebook, se anche chi ricopre una carica istituzionale sente il bisogno di essere «uno di noi», allora è possibile che il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri risponda con insulti e sberleffi ai suoi follower su Twitter, che il deputato Ernesto Carbone si esibisca nel celeberrimo «ciaone» agli sconfitti del referendum sulle trivelle, senza capire che ci vorrebbe rispetto, sempre e comunque. La lotta allo sdoganamento dei cattivi sentimenti viene sovente subordinata ad altre necessità più impellenti, che siano la convenienza politica, il tifo da stadio per le opposte fazioni o la semplice consapevolezza di essere comunque coinvolti. Vittorio Feltri ha ragione quando dice che quel titolo venne fatto anche per le olgettine di Silvio Berlusconi, ma in quella occasione non si levò nessuna protesta, o quasi. Abbiamo tutti le nostre colpe, comprese frasi, vignette e titoli sbagliati dei giornali. Ma non possiamo più permetterci l’indulgenza demagogica per lo sfogo, per la volgarità esibita. Perché stiamo perdendo qualcosa, tutti. C’è tanta gente sempre più cattiva in giro. Non solo sulla pagina Facebook di Giorgia Galassi, non solo su Internet. Anche e soprattutto là fuori, nella vita vera. Forse è arrivato il momento di metterci più attenzione. E di tornare ai fondamentali della nostra convivenza.

Raggi, lardo e patate nel menu del trash, scrive Francesco Merlo l'11 febbraio 2017 su "La Repubblica". Lardo e patate è il menu guasto di giornata, la porcheria di parola che sta lordando non l’italiano, ma il dibattito pubblico e giornalistico. “La patata bollente” è la metafora sessuale di delegittimazione della sindaca Virginia Raggi usata ieri, come titolone di prima pagina, dal quotidiano Libero. Lardosa (“spalle lardose”) è invece l’insulto che Asia Argento ha rivolto a Giorgia Meloni. Lardo e patate dunque, come il piatto triestino di cucina povera, “patate in tecia”: sapori forti e sostanza debole, surrogati di gastronomia, la sapida miseria servita in tavola. E va detto subito che non sono cibi linguisticamente scandalosi perché la volgarità non scandalizza ma annoia, e proprio mentre conforta con ammiccanti risatine la stupidità e la pigrizia mentale, l’ottusità aggressiva che si spaccia per furbizia. Niente indignazione superciliosa, per carità. Di sicuro, però, i seicento professori universitari che, come l’indimenticabile Aristogitone di Arbore, qualche giorno fa se la sono presa con gli studenti — ovvio muro basso della cultura e dell’alfabetizzazione — hanno ora una ricca occasione per studiare lo stile, il modello e il paradigma del polemos italiano che una volta era un gioco di intelligenze e qui è diventato sguaiataggine e basta. Ho il sospetto che ci sia più di un nesso tra lardo e patate e gli studenti che, secondo i professori che li formano, non sanno usare l’italiano. Di sicuro la realtà sembra rispondere proprio a quei professori con una lezione di linguistica complessa, perché qui non ci sono gli insulti a Meloni e poi a Raggi, ma ci sono anche le solidarietà degli avversari politici della sindaca e soprattutto c’è l’uso che Grillo, Di Maio e la Rete grillina stanno facendo della metafora patata. Attenzione: l’imputato non è la lingua, che è sempre ricca e dunque impura, ma è il collasso dei valori che nella lingua si trasmette e che spinge un’attrice fragile e radicale come Asia Argento a oltraggiare un’altra donna, Giorgia Meloni, a freddo, fotografandola di nascosto mentre mangia, e definendo “lardosa” la sua schiena, che è una volgarità infantile, tanto gratuita quanto disarmante. L’offesa di Argento, scritta in inglese su Twitter, non riesce ad essere nobilitata né dal richiamo sprezzante a Trump, che è il nuovo automatismo, il nuovo tic linguistico della pigrizia di sinistra, l’ultima scorciatoia del pensiero, né dalla parola “fascista”, dal rimando cioè a una stagione della storia che in genere in Italia mette le ali anche all’insulto più pedestre, meno fantasioso e più sciocco. Ecco il testo completo che accompagna la foto di Meloni che sta mangiando seduta a un tavolo di ristorante, di tre quarti e di spalle: «Back fat of the rich and shameless. Make Italy great again. # fascist spotted grazing (La schiena lardosa della ricca e svergognata. Facciamo l’Italia grande di nuovo. #fascista colta a brucare al pascolo»). Qui ci sono due aggravanti evidenti e due nascoste. Quelle evidenti sono la politica e l’inglese. È ovviamente legittimo non apprezzare la politica di Meloni, il suo populismo, la sua simpatia per Trump, la rabbia che semina nelle periferie e tra i coatti romani e gli emarginati. Ma che c’entrano con la politica le spalle lardose che sono robaccia da sfogatoio triste e da pattumiera del risentimento? Forse qualcuno dei 600 professori troverebbe molte somiglianze, magari per contagio, tra questo linguaggio povero ma risentito e quello dei picciotti dell’odio, comici del vaffa, ammaestrati pavlovianamente in Rete. Anche l’inglese qui è un’aggravante perché mostra una scienza di lingua per surrogare la povertà della lingua. È come ostentare un Rolex d’oro o l’unghia lunga del mignolo mentre bevi il caffè. Le aggravanti nascoste sono la recente maternità di Meloni e il lavoro di Asia Argento che in televisione conduce un programma che ogni settimana scova, denunzia, spiega e condanna episodi di violenza proprio contro le donne. Non è ovviamente secondario che Asia Argento abbia chiesto scusa. Ma chi chiederà scusa a Virginia Raggi, svillaneggiata con il doppio senso triviale, con la malizia sporcacciona? Perfido e dunque ben più pesante è infatti il titolo di Libero con la metafora sui bollenti spiriti e le passioni che berlusconizzerebbero la sindaca Raggi, la quale, ha spiegato Vittorio Feltri nel suo editoriale — come sempre chiarissimo ed esplicito — trafficherebbe in prestazioni e incarichi politici, tra Cupido ed Eros e Priapo, direbbe Gadda. È probabile che più che attaccare Raggi, Feltri abbia voluto ribadire la normalità di Berlusconi, la vecchia idea che lì ci fu solo privata esuberanza sessuale, un po’ di quel fuoco che ogni tanto brucia tutti, dal gatto in amore alla sindaca di Roma. In realtà non c’è nessuna evidenza che assimili Raggi a Berlusconi. C’è solo la casuale di una polizza — “relazione sentimentale” — e poi ci sono i soliti mille gossip che le attribuiscono mille amori. Accade sempre a tutte le belle donne di potere, è il riflesso condizionato, la vecchia maldicenza che diventa silloge di luoghi comuni, tra sorrisetti salaci e volgari storture per un chiacchiericcio pruriginoso che è alimentato dai grillini stessi, spurga dallo stesso Campidoglio. Davvero nulla a che fare con l’oscenità dei pezzi di Stato con cui l’allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali a una turba di Olgettine e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E però, a guardare le reazioni, le solidarietà obbligate e spesso pelose dei nemici e la furbizia degli amici di Raggi, sembra quasi che il titolista di Libero sia il compare di Grillo e Di Maio, che voglia toglierli di impaccio permettendo loro di assimilare i tuberi ai fatti, di attaccare tutto il giornalismo italiano mescolando la patata con la cronaca, le offese sessuali alla Raggi con la fredda precisione del taccuino e del registratore del collega della Stampa Federico Capurso, la volgarità con le critiche argomentate e ragionate che sono il sale e non la feccia della democrazia, sono gli ingredienti della libertà di stampa e non del trash, non del lardo e patate che è un piatto alla Grillo, quello che svillaneggiava Boldrini, è un piatto alla Salvini … Ecco, la lingua che dovrebbero spiegarci i professori alla Aristogitone, che era quello che si presentava così: “quarant’anni di insegnamento, quarant’anni di disillusioni, quarant’anni di illusioni in mezzo a queste quattro mura scolastiche”.

Patata bollente, Grillo sputtanato: ecco cosa diceva lui di Boschi, Boldrini e Montalcini, scrive di Gianluca Veneziani l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Ma come, Beppe, proprio tu. Tu che, tra blog e social, hai sparso perle sessiste un po' dovunque, senza fare distinzioni di età, di partito, di avvenenza fisica, e che hai attaccato ripetutamente le parlamentari in quanto donne, le donne in quanto parlamentari e le donne in quanto donne, ora fai il piangina e gridi allo scandalo per il titolo di Libero sulla Raggi alle prese con una «Patata bollente»? Che la coerenza non fosse il tuo forte lo avevamo già intuito, ma pensavamo che ciò si limitasse a faccende tutte politiche, al fare i giustizialisti con gli altri e i garantisti con i propri, alla convinzione che «tutti gli indagati sono uguali, ma i nostri sono più uguali degli altri». E invece no, ci sbagliavamo, perché i cortocircuiti e le continue giravolte fanno parte del tuo modo di essere e di scrivere e forse della natura stessa del Movimento, che ha inventato insieme la post-verità e il suo rovescio. E in questo ci vuole talento, bisogna riconoscerlo. Sai com'è, però. Uno dei maggiori problemi del web, della tua amata rete, è che le cose che dici e scrivi rimangono, e puoi rinnegarle, cancellarle o rimangiartele quanto vuoi, ma là restano, scripta manent in Internet. E ci sarà sempre qualcuno pronto a tirarle fuori e a rinfacciartele, alla prima occasione buona. Come noi, stavolta. Ecco, dunque, tu che ora ti ergi a paladino della Raggi vilipesa sessualmente da Feltri&Senaldi, dovresti ricordarti di quella volta in cui, con un post su Facebook, ti chiedevi «cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?» e linkavi un video, sotto il quale i commentatori si scatenavano, dicendosi pronti o a «trombarla» in prima persona o a «portarla in un campo rom e farla trombare con il capo villaggio». Non era sessista quel post? E soprattutto non se lo ricorda la Boldrini, che ora invece prende le parti del Movimento e in un tweet scrive «Piena solidarietà alla sindaca Raggi per volgarità sessista del quotidiano #Libero»? Eppure parliamo di quella stessa Boldrini, contro la quale voi del Movimento avevate fatto querela per diffamazione, avendo lei definito gli interventi sul blog di Grillo degni di «potenziali stupratori». Ma ci si dimentica subito delle offese date e subite quando si tratta di fare fronte comune contro uno stesso nemico: un giornale di destra. E perciò è probabile che si sia scordata degli insulti pure Maria Elena Boschi contro la quale tu, Grillo, avevi ritwittato un post non proprio sobrio secondo cui il vero lavoro dell'allora ministra delle Riforme era battere sulla strada. «#Boschidovesei», lanciavi l'hashtag su Twitter, dopo l' affaire Banca Etruria. E subito rilanciavi la risposta di un tuo follower: «In tangenziale con la Pina». Quando si dice lottare contro il sessismo...Non fu l'unico caso. Perché le donne del Pd sono state da te a lungo associate ad attività che esulavano, come dire, dalla prassi politica. Ad esempio quella Debora Serracchiani, da te accusata sul blog di avere troppi incarichi al suon di «Serracchiani mille mani» (avevi avuto la decenza di non specificare, allora, cosa facesse con quelle mani), e ancora più direttamente offesa con il retweet «#SerracchianiBugiarda stuprati le orecchie». Uno può pensare che sia normale prendersela con le donne più in vista, con quelle che, al momento, rappresentano bersagli da attaccare sul piano personale per colpirle sul piano politico. Ma allora come giustificare gli attacchi immotivati a figure di lungo corso e ormai di secondo piano, che non sono più un vero ostacolo per la conquista del potere? Gente come Rosy Bindi che nel 2012, in una poco allegra dichiarazione, definisti una sessuofobica nonché una povera sfigata che non aveva mai conosciuto i piaceri della carne. «La Bindi», dicevi, «problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti. Vade retro, Satana. Niente sesso». Al confronto, la punzecchiatura del Cav che la definiva «più bella che intelligente» era una carezza... A proposito di Cav, sei stato pure capace di postare un'immagine di pessimo gusto con Mara Carfagna, Ruby e Nicole Minetti che si toccavano gli attributi, in compagnia di Gad Lerner, che a sua volta si ravanava i gioielli di famiglia; un fotomontaggio del tutto gratuito rispetto al contenuto del post in cui sostenevi che in politica non serve la gavetta... Ma in quel caso era l'immagine a parlare, più delle parole. Non fu l'apice del trash sessuale, perché fosti in grado di prendertela anche con l'allora 92enne (sic!) Rita Levi Montalcini, l'illustre scienziata italiana, accusandola dopo la sua nomina a senatrice a vita (era il 2001) di aver ricevuto il premio Nobel solo perché al soldo di una casa farmaceutica che le aveva comprato il premio, e chiosando in modo invero elegante: «Vecchia puttana!». E vabbè, dici, sono le donne il pallino fisso di Beppe Grillo, che sotto sotto deve essere pure un po' misogino. E invece no, perché Beppe-il-paladino-delle-donne-contro-Libero sa berciare anche contro gli omosessuali, gay in politica come Vendola che - siccome riceve un vitalizio di oltre 5mila euro - merita, a suo giudizio, tweet pesantemente omofobi. Ai tempi Grillo lanciò prima l'hashtag #BabyVendola, contro la sua baby-pensione, e poi ritwittò il post «Vendola vaffanculo! Ah no, ti piacerebbe»... Che classe. Se gli tocchi la Raggi, va su tutte le furie. Ma se si tratta di bersagliare ogni altra donna o omosessuale, che si insulti pure. Forse la spiegazione sta in una battuta di Crozza, parafrasata: per lui la Raggi non è una donna. È una grillina.

Grillo e la patata, fuoco amico: cosa scrivono i grillini sul suo blog, scrive Brunella Bolloli l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. La Rete grillina parla solo di Libero. Il coro indignato dei pentastellati dice che il giornale fondato da Vittorio Feltri «fa vomitare», «deve chiudere», «fallirà», «è cartaccia buona solo per pulire i vetri», «è misogino», «mi sta sul cazzo», «è diarrea liquida», «è letame», «fa schifo». I gruppi M5S su Facebook augurano la morte al direttore Feltri, ripescano vecchie sentenze per diffamazione, attaccano (con tanto di foto) il direttore responsabile Pietro Senaldi e la redazione: «Con noi al governo sarete tutti in mezzo alla strada», dicono compiaciuti. Su altri profili la base M5S si organizza per scendere in piazza il 17 febbraio a sostegno di Virginia Raggi «la nostra sindaca». Ma leggendo i post sul blog di Grillo, tra la carrellata di insulti rivolti al nostro quotidiano, spiccano commenti di attivisti M5S che non si sono offesi per il titolo sulla patata bollente. «Solo io trovo il titolo spiritoso?», dice Lario, «giocato sul doppio senso ma per un giornale piuttosto scandal/gossiparo come Libero ci può stare. Più strano che sul blog di un (più o meno ex) comico/satirico faccia tanto scandalo. A volte la politica va presa un po' alla leggera, senza anatemi (a meno che non si sia similtrinariciuti). «Sono una convinta sostenitrice del m5s e una grande ammiratrice di Raggi», ma non sono scandalizzata dall' articolo di Feltri», scrive Luci. «Secondo me con l'espressione patata bollente non intende essere irriverente nei confronti della Raggi, ma intende dire che rappresenta, nel suo insieme un grosso problema per il M5s e questo chi lo può negare? Quanto al confronto con la storia di Berlusconi secondo me intende dire che è stato attaccato talmente a lungo che alla fine si e arrivati al suo allontanamento e alla chiamata di Monti che può quasi essere considerato un colpo di Stato». Un altro, Giustino, aggiunge: «Titolone di Libero in perfetto stile sessista/grillino! È Beppe Grillo infatti che ha dato della puttana alla Montalcini, per cominciare, e nel corso degli anni si è esibito una lunga teoria di squallidi epiteti alla varie Boschi, Boldrini, fino ad arrivare alla Littizzetto...». La lista delle voci contrarie al coro degli indignati prosegue anche sul blog di Luigi Di Maio, dove Vanes Luciani scrive: «Giggi, ma dimmi perché non criticano l'Appendino? Forse perché lei è capace? Forse perché aveva la giunta fatta PRIMA delle elezioni? A te questo titolo potrà fare schifo, ma le colpe le avete eccome!!! Ps: ti piaceva di più se titolavano con parole vostre: «Vaffanculo?».

M5s, Grillo pubblica su facebook un post sulla Boldrini e scatta la furia degli ultrà, scrive l'11 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. "Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?". Era il febbraio 2014, tre anni prima del titolo di Libero su Virginia Raggi e la "Patata bollente" che ha fatto gridare allo scandalo il Movimento 5 Stelle. Parlare di sessismo all'epoca non era ancora di moda, ma quel post di Beppe Grillo, proprio lui, aizzò gli animi dei grillini ben al di là di ogni ironia su tuberi e affini. La "provocazione" - Il leader dei 5 Stelle condivide su Facebook il video di un attivista grillino che si esibisce in una chiacchierata on the road con una Boldrini cartonata appoggiata sul sedile della sua automobile. Lo sketch del grillino è tutto un monologo basato sulle vicende di quei giorni, soprattutto su quella ghigliottina usata dalla Presidenta della Camera per abbattere i tempi per la conversione in legge del decreto Imu-Bankitalia. A scatenare la bufera sono i commenti apparsi sulla bacheca di Grillo proprio sotto quella domanda usata come promo per la clip: "Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?". Commenti-choc - Qui si è scatenata la furia degli ultrà grillini, commentatori, che va detto, probabilmente non sono degli iscritti al M5s, ma simpatizzanti del Movimento (qualcuno li accusa di essere dei "troll"). Quello di Marco Fiuzzi è uno dei commenti più morbidi: "La scaricherei subito sulla statale, magari fa un po' di cassa extra". Subito dopo arriva Enzo Castrini che rincara la dose: "La metto a pecora e poi la fotto in c....". Di seguito Carmela Bonafiglia afferma che "la prenderebbe a botte" mentre Antonio Truffa "brucierebbe la macchina assicurandosi che le porte siano ben chiuse". Infine, solo per citare un altro commento-choc c'è qualcuno che spedirebbe la Boldrini tra i campi degli zingari: "La porto in campo rom e la faccio trombare con un capo villaggio", scrive Fabio Fogu. Insomma un clima d'odio fuori controllo, altro che patate. 

Gli insulti velenosi contro Boschi e Picierno: l'allusione sessuale di Grillo, scrive il 9 gennaio 2016 “Libero Quotidiano”. Continuano a darsele di santa ragione i dem e i grillini sui social network. Stavolta ad accendere la miccia è l’hashtag #BoschiDoveSei?, coniato da Beppe Grillo contro la ministra delle Riforme. Lo staff M5S, come di consueto, rilancia i tweet degli attivisti che adottano l’hashtag lanciato dal blog di Grillo, che ben presto scala la classifica delle Tendenze su Twitter. Ma il Pd attacca il leader 5 Stelle per aver rilanciato messaggi a sfondo sessista. "Il nervosismo dei grillini si traduce in offese sessiste nei confronti delle donne del PD. Che vergogna infinita», scrive l’esponente dem Francesco Nicodemo, che accusa Grillo di aver rilanciato il tweet «#BoschiDoveSei in tangenziale con Pina" Picierno, altra esponente dem. "Sessismo, giustizialismo, pressappochismo. È la solita indigesta miscela di Grillo e di un M5S sempre più in difficoltà" gli fa eco il senatore Pd Andrea Marcucci. Francesco Russo, altro dem di prima linea, rincara la dose: "Sì al confronto politico anche duro, no agli insulti sempre sinonimo di ignoranza e mancanza di argomenti. Vero Beppe?".

Travaglio e la frase volgarissima sulla Boschi "trivellata dai pm", scrive il 5 aprile 2016 “Libero Quotidiano”. In fondo stava solo aspettando l'occasione giusta, Marco Travaglio. E l'inchiesta sul petrolio in Basilicata glie l'ha fornita su un piatto d'argento. Una brutta storia, un intreccio altamente imbarazzante per il ministro Guidi, costretta alle dimissioni, ma soprattutto per Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, chiamata direttamente in causa. E proprio sulla Boschi colpisce la penna velenosissima del direttore del Fatto quotidiano, che nel suo editoriale la cita di passaggio esibendosi però in altissime vette di malizia. L'incipit è tutto un programma: "Diciamolo: questa è sfiga", così inizia il commento di Marco Manetta dal titolo maramaldo "Tempa rossa la trionferà". La Boschi "trivellata dai pm" - Ma prosegue rimestando ancora più nel torbido: "Ieri Matteo Renzi, in grandi ambasce per Mariaele che in quel mentre veniva trivellata dai pm di Potenza". Boom. D'accordo, le "trivelle" al centro dell'inchiesta (e con un referendum alle porte, con il Fatto schierato fortissimamente per il sì e contro il governo) forniscono l'alibi per sapidi giochi di parole a cui Travaglio non si sottrae, anzi, tra "ambasce", un gigionesco "Mariaele" fino a quel "trivellata". E già ci si immagina, sotto la spinta dell'enfasi travagliesca, l'orgogliosa ministra sottomessa dai rudi, vigorosi e gagliardi magistrati lucani, un tumultuoso amplesso di botte e risposte, un interrogatorio orgiastico fatto di "non sa" e "non risponde". Insomma, si annusa un'aria piena di doppi sensi e allusioni sessuali. Diciamolo: questa è volgarità (o almeno, tale sarebbe bollata se a scriverla non fosse stata l'irreprensibile macchina da guerra del Fatto).

"Putt...", "and...". Laura Boldrini, faccia a faccia con la casalinga che la odia, scrive il 26 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. "Boldrini sei una put... andicappata vattene a casa". Gli insulti con tanto di strafalcioni firmati da Gabriella Maria Feliziani erano tutti per Laura Boldrini che l'ha prima "denunciata" e poi, dopo il pentimento della "hater", invitata per un faccia a faccia. Riporta il Corriere della Sera che la casalinga di Massignano ha ammesso di aver sbagliato, si è scusata e ha scritto: "È stato l'attimo dell'imbecille... Presidente chiedo fermamente scusa, mi vergogno per quello che ho detto". La presidente della Camera le ha chiesto di incontrarla: "Voglio parlare con lei, capire cosa spinge le persone a covare tanto odio". Si è conclusa così la giornata contro la violenza sulle donne per Laura Boldrini che ha deciso di pubblicare online i nomi e le offese di quanti la continuano ad insultare sui social network.

Patata bollente e pistola fumanti, Vittorio Feltri, l’11 febbraio 2017 su "Libero Quotidiano”, umilia le verginelle 5 stelle.

Il caso del nostro titolo di ieri, Patata bollente, riferito alla vicenda tribolata di Virginia Raggi, è paradigmatico dello strabismo che affligge il mondo politico e quello dei media. Attivisti di partito e cronisti usano due pesi e due misure nel valutare i fatti, anche i più semplici. Ne diamo immediata dimostrazione. Il 15 gennaio 2011 Libero se ne uscì con lo stesso titolo succitato: Patata bollente. Ma nessuno se ne scandalizzò, zero polemiche, zero accuse di sessismo al nostro quotidiano. Sapete perché, cari lettori? Allora, quel titolo era dedicato (identica posizione in prima pagina, apertura) non certo alla Raggi bensì a Ruby Rubacuori, la minorenne che, stando alle notizie dell'epoca, dilettava le serate di Silvio Berlusconi a Villa San Martino di Arcore. Capito l'antifona? Se ti occupi delle ragazze che allietavano le cene eleganti dell'ex premier puoi tranquillamente scrivere che si trattava di patate bollenti. Ovvio, di Silvio potevi dire di tutto, e delle sue amiche, idem. Lui era definito da varia stampa nano, caimano eccetera. E loro, le fanciulle, erano impunemente liquidate quali escort e anche peggio. È evidente la malafede. Sei anni orsono non ci fu anima che abbia osato criticare Libero per il medesimo titolo riservato ieri alla sindaca di Roma. Come se Ruby avesse minor dignità umana rispetto alla Virgo potens. Pubblichiamo la documentazione di quanto abbiamo asserito da cui risulta, incontestabilmente, che i soloni del politicamente corretto cambiano parere sul linguaggio a seconda delle persone oggetto di attenzione. Ruby, dato che stava col Cavaliere, era considerata alla stregua di uno straccio col quale era lecito lustrarsi le scarpe, mentre la Raggi che ha triplicato, per affetto, lo stipendio al suo Romeo, che a sua volta ha regalato a lei, ignara, una polizza da 30 mila euro, non può essere sfiorata nemmeno con una patata né bollente né fredda. Ma vi sembra, questo, un metodo accettabile? Nel presente numero di Libero spicca una foto ricavata dal sito di Beppe Grillo. Guardatela, rimarrete a bocca aperta davanti a cotanta volgarità. Accusano noi di sessismo e dimenticano che il Movimento 5 stelle nacque col vaffaday, cioè con l'ideologizzazione del vaffanculo. D' accordo che il culo è neutro, maschile e femminile, però non è più chic della patatina fritta. Perfino Matteo Salvini in questa circostanza ha espresso solidarietà a Virginia. Ne siamo sorpresi. Solidarietà di che? Di casta? Noi siamo cronisti e raccontiamo quello che vediamo con una scrittura il più colloquiale possibile, e tu Salvini, che pur ci conosci, per fare il figo ti allei coi grillini allo scopo di crocefiggerci come se fossi una qualsiasi Boldrini? Scusa, ma ti senti bene? Poi ci sono Di Maio e una schiera di pentastellati che ci insultano secondo il loro stile, dimenticandosi di essere essi stessi i teorici del vaffanculo su cui hanno fondato successi elettorali incomprensibili sul piano logico. Non sanno i verbi ma sono verbosi. Non sanno parlare ma straparlano. Ignorano che i giornali di opinione se non avessero una opinione non avrebbero senso di esistere, e non è obbligatorio che tale opinione coincida con quella di Grillo. E veniamo all'Ordine dei giornalisti. Mi informano che il presidente nazionale, Iacopino, considera il nostro titolo disgustoso. Gli farei notare che, sei anni fa, era già al vertice della corporazione, ma non si accorse del trattamento che usammo per Ruby, identico a quello usato ora per la Raggi. Il che significa che per lui Virginia è di una razza superiore a quella della marocchina? Spero di non offendere nessuno se affermo che siamo di fronte a un plotone di esecuzione formato da "pistola fumanti". Gente che spara alla cieca per adeguarsi al conformismo più vieto. Non abbiamo la pretesa che si condividano le nostre idee. Ci accontentiamo di poterle esprimere senza dover affrontare tribunali speciali. Siamo sessisti? Forse. Ma noi lo siamo a parole, e gratis. Altri lo sono in pratica e si fanno triplicare la paga solo perché vogliono bene a chi gliela dà. La paga. E magari non solo quella.

Vittorio Feltri il 12 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”: la Raggi, la patata e i depensanti. Ringraziamo tutti quelli che non si sono accodati all’esercito della salvezza che lancia in resta ha aggredito Libero, reo di aver pubblicato un titolo, giudicato licenzioso e volgare, dedicato alle rocambolesche vicende del Comune di Roma, fonte di barzellette più che di delibere atte a risolvere i problemi rancidi della città. Fa piacere e un po’ sorprende scoprire che in Italia c'è ancora qualcuno non contaminato dal conformismo politico e linguistico. Il titolo in questione è noto: «Patata bollente», riferito alla situazione scottante in cui la sindaca Virginia Raggi si è ficcata, probabilmente a causa della propria inadeguatezza al ruolo. Ringrazio soprattutto Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, che pur non avendo citato la testata del mio giornale, ha ricordato un titolo blasfemo del Manifesto, pubblicato l'indomani dell'elezione a Papa di Ratzinger. Questo: «Pastore tedesco». Espressione geniale finché volete, il cui significato però era (e rimane) il seguente: quel Pontefice è (visto che è ancora vivo) un cane. I commenti all'iniziativa del quotidiano comunista per eccellenza furono improntati ad ammirazione. Non un cane, neppure pastore tedesco, ebbe parole di biasimo per il direttore che aveva ideato quel titolo da brivido e fortemente offensivo. Da questo episodio si evince che è lecito dare della bestia al Papa, mentre è vietato parlare delle patate bollenti servite in Campidoglio. Segnalo lo stravagante fenomeno a coloro che si sono stracciati le vesti dopo aver letto venerdì la prima pagina di Libero recante il famigerato accostamento di Virginia al tubero focoso. Per Ratzinger paragonato a un quadrupede teutonico non si scandalizzò alcuno, né progressista né conservatore. Non abbaiò nemmeno l'Ordine dei giornalisti; non sporse manco il muso dalla cuccia e tenne la coda rigorosamente tra le zampe. Si trattava di non disturbare i manovratori di un giornale di sinistra. Molto chiaro. D'altronde, il Papa è un bieco cattolico talmente mite da non sognarsi di protestare né di querelare, invece con la Raggi c'è poco da scherzare, cribbio, è una pentastellata raccomandata addirittura da Peppino Grillo. Quindi bisogna fare quadrato e difenderla anche dalle bischerate commesse da lei stessa. Scaricare le sue colpe su Libero è un gioco da ragazzi cui partecipano entusiasticamente e gratuitamente anche i presidenti di Senato e Camera. Al mio stimato amico Francesco Merlo, che sulla Repubblica ci tira le orecchie e ci impartisce una lezione di stile, rammento pure il titolo cinofilo sul Pontefice, casomai se lo fosse scordato, pregandolo di prenderlo in esame per verificare se sia migliore o peggiore della patata, gradita peraltro ai vegani, quasi tutti di sinistra. Inoltre, gli do un consiglio. Invii ai professori che hanno denunciato l'italiano sgangherato degli studenti qualche articolo del suo direttore, Calabresi, che temo consideri la sintassi un odioso pregiudizio borghese. 

Vittorio Feltri: «Feci lo stesso titolo su Ruby e nessuno fiatò perché era marocchina», scrive Giulia Merlo l'11 Febbraio su "Il Dubbio". Il direttore di Libero non si scusa con Virginia Raggi, difende il suo “Patata bollente” e attacca i detrattori: «Un ridicolo e ipocrita pandemonio per un titolo di giornale». «Ma quali scuse?», commenta serafico Vittorio Feltri. Ieri, il direttore di Libero ha pubblicato sulla prima pagina del suo quotidiano il titolo più commentato (e criticato) della stampa italiana. Il suo «La patata bollente» – campeggiante sopra una fotografia della sindaca di Roma Virginia Raggi – ha suscitato le reazioni indignate dell’intero panorama politico, per una volta unito nell’unanime condanna.

Direttore, l’ha stupita la reazione al suo titolo?

«Ho notato il pandemonio ridicolo che si è scatenato contro quel titolo. Direi però che, da parte mia, lo stupore è stato relativo: sono abbastanza abituato a questo tipo di reazioni e non mi sconvolgo di certo».

Un classico esempio di perbenismo all’italiana?

«Guardi, noi domani (oggi per chi legge ndr) pubblicheremo di nuovo la prima pagina di Libero del 15 gennaio 2011, in cui facemmo lo stesso titolo su Ruby Rubacuori. In quel caso, curiosamente, non si scatenò alcuna corsa alla condanna per sessismo. Era perché Ruby era marocchina, o forse perché in quel caso si trattava della solita vicenda berlusconiana? Rilevo che, invece, lo stesso titolo utilizzato con la Raggi ha suscitato pubblica e unanime indignazione. Allora forse una domanda dovrei farla io, a coloro che lanciano strali: perché per Raggi è stato sessismo e per Ruby no? Un doppiopesismo emblematico, direi».

Molto rumore per nulla, quindi?

«Non so esattamente quale sia il problema: “patata bollente” è una metafora che si usa nel linguaggio delle persone per bene. Non mi interessa capire, invece, in altri gerghi lessicali che cosa si decida di leggervi dietro».

Ma, al netto della polemica, secondo lei Virginia Raggi dovrebbe dimettersi o comunque trarre qualche conseguenza politica, dopo le notizie degli ultimi giorni?

«Ma assolutamente no, le persone con cui va a letto sono fatti suoi personali».

Eppure anche i grillini ormai sembrano tentennare sulla difesa ad oltranza di Raggi.

«Da giornalista noto che nel Movimento 5 Stelle si sta animando un certo scontento nei confronti dell’amministrazione romana. Tuttavia non ho né verificato in prima persona, né ho mai frequentato ambienti vicini ai grillini. Poi sa, io vivo a Milano, che è una città tutto sommato ben amministrata e in cui si vive bene. Per me Roma ha un interesse esclusivamente giornalistico e mi limito a rilevare che la Capitale ha avuto una lunga lista di sindaci ridicoli, non vedo come Raggi possa essere o sia peggiore di altri che l’hanno preceduta».

Rileverà, però, che c’è un imbarbarimento del dibattito pubblico…

«Ma sa, l’Italia è abituata a questo tipo di dibattito dopo le prodezze sessuali di Berlusconi raccontate con profusione di particolari. E poi di certo non mi stupiscono le debolezze carnali di Raggi, anche lei è umana».

Ma quindi nulla da eccepire?

«Io per primo non sono un santo, ho fatto le mie esperienze nella vita e francamente non mi importano i dettagli della vita intima della sindaca. Non è ovviamente questo il dato che mi interessava rilevare».

E cosa le importa, invece?

«Mi sembra di interesse, per esempio, il fatto che goda di questi piaceri della vita a spese delle casse comunali. Ecco, non trovo elegante triplicare lo stipendio dell’impiegato del Comune con cui si va a letto. Non erano eleganti nemmeno le cene di Berlusconi, certo, ma almeno lui le pagava di tasca propria».

Patata bollente, Pietro Senaldi l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”: i grillini ci devono solo ringraziare. E dire che mi sembrava una gatta morta. Invece, tira più una patata bollente che un carro di grillini al governo della capitale. Che spreco di parole per il nostro titolo («Patata bollente») dedicato ai guai del sindaco di Roma Virginia Raggi. L'affare si ingrossa più del rosso del bilancio di Roma. Eppure, quando avevamo fatto il medesimo titolo per Ruby, con tanto di foto ben più esplicita, non avevamo suscitato altrettanto sdegno, malgrado ce la prendessimo con una ragazza quasi minorenne. Forse perché oggetto dell'attacco allora era Berlusconi, e quindi tutto era giustificato, perfino il titolo «Merkel culona inchiavabile», opera del Fatto Quotidiano. La frase fu attribuita a un'intercettazione del Cavaliere mai venuta fuori senza che questo però suscitasse sdegno né dubbi sulla sua esistenza, e sulla quale l'Ordine dei Giornalisti, che oggi vuole processarmi, non ha mai indagato. E invece ieri è scoppiato il putiferio perché avremmo insinuato quello che i grillini si gridano in faccia tra loro, visto che l'ultimo assessore grillino giubilato, Berdini, è in procinto di dimettersi per aver accusato il suo sindaco di tresche. C' è chi mi ha dato del sessista chiedendosi come faccia mia moglie a vivere con me visto che sicuramente visto che scrivo su Libero la tratto male. Se è solo per quel titolo, sono fiero di essere definito sessista. Per il resto, non mi importa perché non mi importa nulla di cosa pensa di me chi mi chiama così. E perché chi mi accusa di questo di me non sa nulla. Potrei non essere sposato, potrei essere gay. Mi viene il dubbio che chi ci attacca non abbia neppure letto l'articolo sotto il titolo. Anzi ne sono certo, vista la tempistica di autorevoli esponenti del Pd, scattati come i cani di Pavlov al tweet in cui Grillo invitava il Paese a scrivere per testimoniare il suo disprezzo a me e a Vittorio Feltri. Mi viene anche il dubbio che chi mi dà del sessista in realtà non conosca il significato del termine, che da vocabolario è «chi discrimina in base al genere sessuale». Se però noi paragoniamo la vicenda Raggi a quella di Berlusconi, che abbiamo difeso ripetutamente per i suoi assalti alla vita privata, che discriminazione sessuale è? A proposito, molti giornali hanno riportato che l'ex capo segreteria della Raggi, Salvatore Romeo, avrebbe scritto «ragioni affettive» nella causale della polizia vita intestata alla sindaca. Solo Libero ha verificato e riportato che non è vero, non c'è nessuna motivazione. Chi è più sessista? Un rammarico però ce l'ho: con il nostro titolo abbiamo dato una grossa mano a M5S, distogliendo l'opinione pubblica dai disastri del governo grillino della capitale, che anche oggi documentiamo, a pagina 7. Per un giorno, tutti saranno con la Raggi e nessuno si preoccuperà dei guai di Roma, dei conti in rosso, degli assessori usa e getta, dello stadio, della spazzatura in strada, dell'ora e passa che un romano impiega mediamente per andare al lavoro, dei campi rom e delle periferie in mano agli spacciatori. Ai grillini però, che lenzuola a parte, sono davvero una novità nel panorama politico italiano, vorrei dare un suggerimento. Diffidino dalla solidarietà che è stata a loro espressa da Orfini, Giachetti e una serie di altri personaggi irrilevanti. Il Pd e tutto il mondo della sinistra hanno annusato che Cinquestelle è in crisi e si gettano sulla carcassa: solidarizzano per prendervi i voti. Nel tentativo di sedurre l'elettorato deluso da Cinquestelle dalla maggioranza di governo in tanti ci hanno accusato di voler alzare i toni. Forse dovrebbero dirlo alla collega che dagli stessi banchi ci ha accusato di istigazione al femminicidio. Siamo rassegnati, la politica attaccata si difende come tutti, facendo quadrato. Così la Boschi dimentica di quando Grillo ha retwittato un messaggino che la invitava «a tornare a lavorare in tangenziale» e la Boldrini si dimentica del sondaggio «Cosa le fareste chiusi in macchina con lei?» lanciato dal blog di Grillo. Ieri ho ricevuto molti messaggi di solidarietà da colleghi di altre testate. C'è perfino chi ha definito i grillini squadristi. Vi ringrazio ma voglio tranquillizzarvi, lo squadrismo era cosa seria, questi sono solo patatini arrostiti. C'è anche chi mi augura di perdere il lavoro ma questo più di me metterebbe in difficoltà i Cinquestelle. Sarebbe bello vedere Di Maio e la Raggi battersi per darmi il reddito di cittadinanza. Ringrazio anche il capocomico, Beppe Grillo. Da oggi, finalmente, grazie a lui tutta Italia sa che sono il direttore responsabile di Libero e Liberoquotidiano.it. I più furbi e ironici di tutti nella vicenda, si sono dimostrati comunque quelli de La7, che ieri hanno mandato in onda il film La patata bollente con Pozzetto e Ranieri. Non c'entra nulla e dicono che è un caso. Chissà se l'ordine indagherà.

"Caro Grasso, ti dico io dove è la patata bollente...". Melania Rizzoli il 12 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”, la verità sul sessismo in aula. «Vuol dire che siamo migliorati, ed è bene che adesso ci sia maggiore indignazione di allora, oggi noi siamo più civili e più sensibili». Queste le parole di Pietro Grasso a commento di chi gli segnalava l'assenza di critiche a Libero ed al suo direttore, quando questi, 5 anni fa, utilizzò lo stesso identico titolo, «La patata bollente», in relazione a Ruby Rubacuori e a Silvio Berlusconi. Il presidente del Senato però dovrebbe sapere che lo stesso dibattito politico da mesi sta toccando alti livelli e forse dovrebbe scendere ogni tanto dal suo trono per andarsi a sedere tra gli scranni dell'Aula che presiede, o di quella della Camera, per scoprire che le deputate hanno addirittura creato un «Intergruppo Parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità» (si chiama proprio così), nel quale si riuniscono per esprimere la loro condanna alla escalation di allusioni, quelle sì sessiste, che vengono urlate pubblicamente nei loro confronti durante i dibattiti politici e dove denunciano la loro preoccupazione per le offese inaccettabili delle quali sono state oggetto. La seconda carica dello Stato, dovrebbe infatti aver letto il documento uscito dal succitato Intergruppo, in cui si chiede non ai giornalisti, ma a tutte le forze politiche, ai loro leader e a lui incluso, di attuare subito una moratoria di simili insulti e di tutti i linguaggi non appropriati e a sfondo sessista, dando così il buon esempio nel sanzionare lui stesso un simile comportamento dell' assemblea che dirige, almeno per essere credibile, prima di criticare pubblicamente un ironico e discusso titolo di prima pagina. Questa non sarebbe una semplice questione di forma, ma un segnale di serietà, quella che è mancata ai tanti che hanno pubblicamente detto la loro sulla questione della «patata bollente», e che in passato si sono espressi con un gergo molto più esplicito. Nella scorsa legislatura, seduta tra i banchi di Montecitorio, io stessa ho registrato il linguaggio sessista di molti parlamentari, ed ho ascoltato i più violenti attacchi volgari e maschilisti nei confronti delle mie colleghe di centrodestra, senza che ci fosse una Boldrini di turno ad insorgere, senza ascoltare l'indignazione dei cosiddetti intellettuali, senza leggere una riga di giornalismo critico a riguardo, anzi, ho visto solo sghignazzi allusivi e sentito toni così vergognosi che quelli da stadio al confronto parevano da catechismo. Dove erano i benpensanti quando Sabina Guzzanti disse in una pubblica piazza che Mara Carfagna era arrivata alle Pari Opportunità per le sue abilità «oratorie»? O quando la Gelmini per il suo lato B, o la Rossi per il suo lato A venivano triturate dall'umorismo maschio che le descriveva come equivoche deputate, con meriti ben distanti dalla meritocrazia, e oggetto di ogni pettegolezzo e maldicenza sui rapporti ritenuti tutt' altro che onorevoli con il loro leader? Non ho sentito nessuno all'epoca tirare fuori la storiella lisa del sessismo nei tanti titoli ironizzanti e allusivi e nei quotidiani editoriali dei giornali. Dove erano i parlamentari Pd che, con livido garantismo mascherato da finto buonismo, oggi si indignano per la Raggi, mentre all' epoca il loro collega dei 5stelle Massimo Felice De Rosa accusava in Aula le deputate Dem di essere lí «solo perché brave a fare i pompini», o quando Grillo, in un post dove accusava di partigianeria la giornalista del Tg1 Claudia Mazzola, usò il titolo «Basta servizietti»? E che dire dell'allora portavoce del M5s Claudio Messora, quello che scrisse: «Ho fatto una cosetta a tre con Carfagna, Gelmini e Prestigiacomo», e poi cinguettò alla Boldrini: «Volevo tranquillizzarti. Anche se noi del blog di Grillo siamo tutti potenziali stupratori... tu non correresti alcun rischio»? L' elenco del pensiero comune sulle donne in Parlamento rischia di essere lungo per questo articolo, e tristemente focalizzato sul tacco 12, sull' assenza di castità, o sulle «relazioni sentimentali» per arrivare ai ruoli occupati, a dimostrazione che il vero linguaggio sessista serpeggia proprio su quella stessa scena politica che le denigra come indegne eredi di Nilde Jotti, e non in un titolo di giornale. Ma la barbarie evidentemente non è uguale per tutti, poiché esistono offese derubricate a quisquilie, ad equivoci o a satira, come nel caso delle parlamentari su citate, mentre per la mancata Giovanna D' Arco di Roma si sono sollevate indignazioni di vergini immacolate, in una sorta di rapimento mistico generale, a difesa di quella che è ormai considerata dagli italiani la novella statista del fallimento grillino. La «patata bollente», senza doppio senso, è davvero nelle mani della sindaca Virginia Raggi, la quale, che le bruci o no, dovrebbe passarla di mano, più in fretta possibile, e concludere l'epilogo della sua penosa vicenda romana non cercando una pelosa solidarietà bipartisan, non prendendosela con il titolo di un quotidiano, o con la lista dei giornalisti critici che è stata inviata dal Movimento come un elenco di proscrizione all'Ordine, ma chiedendo lei scusa, e rassegnando le sue dimissioni da un incarico che non è alla sua altezza, né culturale, né intellettuale, né tantomeno politica. Virginia smetta quindi di fare la vittima di questa testata, di fare da censore alla libertà di espressione, non per una questione di sessismo, ma per una questione di pura dignità, poiché è solo lei ad essere vittima di se stessa. E questo non perché Libero fomenti il «pensiero debole» politico nei confronti delle donne, come è stato accusato di fare, ma perché raccoglie il «pensiero comune» dei romani, quelli che in otto mesi di guida grillina hanno visto la loro città scivolare in una pericolosa agonia prossima al coma, che sta per diventare irreversibile. E morire, si sa, non piace a nessuno, né a Roma né tantomeno ai romani, soprattutto a causa di una sedicente sindaca che la «patata bollente» non si decide a passarla di mano.

L'UTOPICA UGUAGLIANZA TRA I DIVERSI E LA FENOMENOLOGIA MEDIATICA TRA ABORTO, OMOSESSUALITA', FEMMINICIDIO ED INFANTICIDIO.

Unione Europea, arriva la risoluzione per aborto e omosessuali. Un emendamento presentato a Strasburgo prevede "corsi nelle scuole per un'educazione sessuale pro gay, meno obiettori di coscienza , e procreazione assistita per le lesbiche", scrive di Ignazio Stagno su “Libero Quotidiano”. Corsi a scuola per l'educazione sessuale sugli omosessuali, meno obiettori di coscienza per gli aborti, e più figli per gay e single. L'Europa ci vuole così. II 21 e 22 ottobre al Parlamento europeo sarà votata una risoluzione che, in caso di approvazione, inviterà gli Stati membri a garantire a tutti aborto, contraccezione, fecondazione assistita, corsi obbligatori a scuola sull’identità di genere e contro la discriminazione delle persone omosessuali. La risoluzione, va detto non ha un effetto vincolante sugli stati membri ma resta comunque una linea guida per le politiche sociali da adottare. 

Figli per gay e single - La risoluzione 2013/2040(INI), "riconosce che la salute e i diritti sessuali e riproduttivi costituiscono un elemento fondamentale della dignità umana di cui occorre tener conto nel contesto più ampio della discriminazione strutturale e delle disuguaglianze di genere" e invita gli Stati membri a tutelare la salute sessuale e riproduttiva". Con questi "consigli di Bruxelles" gli Stati membri dovranno "offrire scelte riproduttive e servizi per la fertilità in un quadro non discriminatorio e garantire l’accesso ai trattamenti per la fertilità e alla procreazione medica assistita anche per le donne senza un partner e le lesbiche". 

Spot e aborto per tutti - La risoluzione approfondisce anche l'accesso all'aborto che dovrà "essere universale, (…) legale, sicuro e accessibile a tutti". Il testo è di fatto contro gli obiettori di coscienza. La risoluzione afferma che "l’aborto è spesso evitato o prorogato da ostacoli che impediscono di accedere a servizi adeguati, come l’ampio ricorso all’obiezione di coscienza". Per questo "gli Stati membri dovrebbero regolamentare e monitorare il ricorso all’obiezione di coscienza nelle professioni chiave". Il documento manifesta anche "preoccupazione per il fatto che il personale medico sia costretto a rifiutarsi di prestare servizi per la salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti negli ospedali e nelle cliniche di stampo religioso in tutta l’UE". L'aborto dovrà pure essere sponsorizzato: "Gli Stati membri dovranno ricorrere a vari metodi per raggiungere i giovani, quali campagne pubblicitarie, marketing sociale per l’uso dei preservativi e altri metodi contraccettivi, e iniziative quali linee verdi telefoniche confidenziali". Ma la vera rivoluzione arriva a scuola.

Corsi sui gay a scuola - Infatti secondo la risoluzione "dovranno essere obbligatori corsi di educazione sessuale nelle scuole che includano la lotta contro gli stereotipi, i pregiudizi, tutte le forme di violenza di genere e violenza contro le donne e le ragazze, fare luce sulla discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale, e denunciarla, e sulle barriere strutturali all’uguaglianza sostanziale, in particolare all’uguaglianza tra donne e uomini e tra ragazze e ragazzi, oltre che porre l’accento sul rispetto reciproco e la responsabilità condivisa". Inoltre "l’educazione sessuale deve includere la fornitura di informazioni non discriminatorie e la comunicazione di un’opinione positiva riguardo alle persone LGBTI, così da sostenere e tutelare efficacemente i diritti di giovani LGBTI". L'Europa di fatto ci impone una maschera gayfriendly. Di Stato. 

Pillola del prima possibile, scelta da donna “responsabile”. Per gli esperti è fondamentale assumerla il prima possibile adottando il farmaco più efficace. L’80% delle donne che l’ha utilizzata ha cambiato in positivo i propri comportamenti contraccettivi, scrive “Libero Quotidiano”. Ogni anno, quasi una donna su tre ha rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata, ma la contraccezione d’emergenza rimane sottoutilizzata. Quasi tre italiane su dieci tra i 16 e i 45 anni hanno avuto rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata. Malgrado ciò sono ancora tantissime le donne che non hanno valutato l’opportunità di ricorrere alla contraccezione d’emergenza. Anche perché sono spesso inconsapevoli dei rischi ai quali si sono esposte e continuano ad avere idee confuse. Inoltre circa il 45% pensa che la contraccezione di emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% ne ignora il meccanismo d’azione. Ma c’è anche chi crede possa causare infertilità o che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. Eppure per quasi sette donne su dieci, la contraccezione d‘emergenza è una scelta responsabile per evitare una gravidanza ancora non voluta, e la possibilità di disporre di questo farmaco è considerata come “un passo in avanti” per l’universo femminile. Sono questi alcuni dei principali risultati emersi dalla prima ricerca sulla contraccezione d’emergenza (CE), presentata a Venezia nell’ambito del 15th World Congress on Human Reproduction. L’indagine, svolta dall’istituto di ricerche BVA Healthcare per HRA Pharma su oltre 7mila donne in cinque paesi europei, in Italia ha messo sotto la lente 1.234 donne sessualmente attive, equamente distribuite sull’intero territorio nazionale.

I risultati italiani. Tutte le italiane intervistate hanno dichiarato di non volere al momento figli, per questo il 78% utilizzava già un metodo contraccettivo. Eppure circa il 30% delle donne si è trovata comunque a dover gestire il rischio di una gravidanza non voluta. Le cause? Principalmente perché in quella particolare occasione non stavano utilizzando alcun metodo contraccettivo, oppure lo avevano sospeso temporaneamente (il 45%). Ed anche perché il preservativo si era rotto o era scivolato via (41%), e avevano dimenticato la “pillola contraccettiva”, il cerotto o non avevano inserito l’anello vaginale (26%). Uno scenario di fronte al quale le donne hanno reagito diversamente: ben l’80% non è ricorsa alla contraccezione d’emergenza, sulla quale ha invece puntato appena il 20% (di queste un terzo l’aveva già utilizzata in precedenza, e soltanto in un quinto dei casi appena una volta).
Insomma, si assiste a un evidente sottoutilizzo di questo strumento contraccettivo in un Paese in cui i numeri parlano di un 33% di gravidanze indesiderate che nel 50% dei casi si traducono in un’interruzione volontaria di gravidanza (Carbone - Rivista di ginecologia consultoriale 2009).

Donne tra sottostima dei rischi e incertezze. Secondo i dati rilevati dall’indagine, tra le donne regna una mancanza di consapevolezza dei rischi ai quali si espongono. A causa di un errore di valutazione, il 43% ha infatti ritenuto di non essere a rischio, così non ha utilizzato la CE. Ma gioca un ruolo importante anche l’incertezza su come ottenere la prescrizione o procurarsi il farmaco (per il 35%). Non solo, c’è anche chi è convinta che il farmaco non sarebbe stato più efficace dopo due giorni dal rapporto sessuale, e quindi ha abbandonato l’idea. Mentre, nel 27% dei casi ha giocato un ruolo determinante la paura di una futura infertilità o di utilizzare un metodo troppo aggressivo.

Le percezioni sbagliate. Esistono poi nella mente delle donne intervistate alcune idee errate. Quasi il 45% ritiene che la contraccezione d’emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% non ne conosce esattamente il meccanismo d’azione. Il 15% crede che possa anche causare infertilità, e il 16% che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. “Queste idee appartengono al passato – chiarisce la professoressa Rossella Nappi, ginecologa, endocrinologa e sessuologa all’Università di Pavia – ormai sappiamo esattamente come e quando funziona la contraccezione d’emergenza, non è altro che un ulteriore supporto contraccettivo. Un ultimo efficace baluardo prima di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Un aiuto non per donne distratte o irresponsabili, ma un completamento proprio per quante già usano la contraccezione consapevole, ormonale o di barriera, che in quel particolare momento ha fallito”.

La pillola del “prima possibile”. Ma accanto a quante ignorano rischi e meccanismi d’azione ci sono anche donne consapevoli che, nell’86% dei casi hanno fatto ricorso alla CE entro le 24 ore dal rapporto in quanto coscienti che la sua efficienza è maggiore se assunta rapidamente. “È confortante vedere che ci sono donne attente nel valutare l’efficienza di una metodica di prevenzione – aggiunge la professoressa Nappi – anche se rimane ancora molto da fare. Non dimentichiamo che la contraccezione d’emergenza serve per abbassare il potenziale di fertilizzazione del ciclo, spostando o bloccando del tutto l’ovulazione. Ed è chiaro quindi come la tempestività di assunzione giochi un ruolo chiave per assicurare la riuscita dell’intervento. Rispetto al passato abbiamo fatto passi in avanti. Grazie, infatti, a molecole più innovative come l’Ulipristal acetato, da circa un anno presente anche in Italia, è possibile ridurre, nelle prime 24 ore, di ben due terzi il rischio di gravidanza indesiderata rispetto alle vecchie formulazioni con Levonorgestrel. E con un atout in più: la sua capacità protettiva è doppia rispetto al Levonorgestrel nelle 72 ore dal rapporto a rischio. Bisognerebbe perciò iniziare a parlare di “pillola del prima possibile” e non di “pillola del giorno dopo”.

Donne più responsabili nella contraccezione. C’è poi un altro dato che emerge con evidenza: dopo l’utilizzo della contraccezione d’emergenza le donne sono diventate più responsabili. Tant’è che ben il 61% delle italiane ha iniziato a prestare maggiore attenzione all’assunzione o all’uso del proprio contraccettivo. Il 22% si è rivolta al proprio medico per approfondire l’argomento e il 18% ha cambiato metodo di contraccezione. Solo il 26% delle donne ha ritenuto di essere inciampata in un caso isolato e quindi non ha ripensato al proprio comportamento contraccettivo di base. La contraccezione di emergenza sembra dunque un’occasione di educazione alla salute sessuale quando viene prescritta con una adeguata informazione.

La CE, un passo in avanti per le donne. Nonostante il sottoutilizzo della CE, il 72% delle donne ritiene che questo metodo sia un vero passo in avanti per l’universo femminile. Quasi sette donne su dieci (il 69%), credono sia una scelta responsabile per evitare una gravidanza indesiderata e che debba essere considerata come un normale contraccettivo da usare dopo il rapporto sessuale non adeguatamente protetto (il 33%). L’81% è convinto che non ci si debba vergognare di utilizzarla e non debba essere considerato come un argomento tabù. Mentre il 53% delle donne pensa sia la dimostrazione di una mancanza di responsabilità nel modo in cui si gestiscono i propri sistemi contraccettivi.

Nove donne su dieci chiedono più informazioni. Di certo le italiane hanno fame di informazioni: ben il 90% vuole saperne di più. Per questo chiedono al proprio medico e al ginecologo un ruolo più attivo. Il 42% desidera essere informata sull’esistenza della contraccezione di emergenza: come funziona, dove e come assumerla quando necessario. E sempre il 42% vorrebbe ricevere una consulenza che le aiuti a trovare un metodo di contraccezione continua più adeguato. Il 40% desidera che il medico fornisca consigli su cosa fare nel caso in cui si dimenticasse il contraccettivo e sulle situazioni a rischio di gravidanze indesiderate. Il 30% che le assista dopo l’uso del contraccettivo di emergenza per essere rassicurate. Infine il 45% vorrebbe poter ottenere un appuntamento il giorno stesso per un consulto di emergenza. “Dall’indagine emerge che seppure sia ancora molto ridotto l’utilizzo della contraccezione d’emergenza – spiega la dottoressa Nicoletta Orthmann, dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) – le donne che invece l’hanno assunta comprendono pienamente l’importanza di questa opzione contraccettiva per la tutela della propria salute sessuale e riproduttiva. Dobbiamo tenere conto della loro richiesta di maggiori informazioni, che dovrebbe essere considerata come un’opportunità concreta per parlare di sessualità consapevole, di prevenzione contraccettiva stabile e di pianificazione familiare anche a quelle donne che non hanno fatto una scelta a riguardo. Nel nostro Paese purtroppo manca ancora un progetto organico e strutturato di educazione alla sessualità, alla salute riproduttiva e alla contraccezione”.

Accesso difficile per più di quattro donne su dieci. L’indagine ha infine indagato sulle esperienze vissute dalle donne nel richiedere la CE. Solo poco più della metà delle intervistate ha dichiarato di avere ottenuto il farmaco in modo tutto sommato semplice e in tempi brevi (57%) e appena il 41% ha ricevuto consigli. Mentre una su quattro ha ricevuto la prescrizioni senza alcuna informazione. E ancora, sempre una donna su quattro ha dichiarato di essersi sentita a disagio e persino giudicata o di aver subito una paternale (18%). “Di fronte a questi dati emerge la necessità – sottolinea Orthmann – e in questo senso è cruciale il ruolo del ginecologo quale interlocutore di riferimento, di favorire l’accesso alle donne a uno strumento di prevenzione che da un lato non le esponga a un’eventuale interruzione volontaria di gravidanza e dall’altro abbia il valore aggiunto di farle riflettere e prendere coscienza dei rischi nei quali possono incorrere”.

Abortisce da sola nei bagni dell'ospedale Pertini. I medici erano tutti obiettori di coscienza, scrive “Libero Quotidiano”. Valentina ha abortito nel bagno dell'ospedale Sandro Pertini di Roma tra atroci dolori senza che nessuno dei medici presenti nel reparto muovesse un dito per aiutarla. Il perché è presto detto: in servizio c'erano solo medici obiettori che mentre la giovane donna era piegata in due e vomitava per effetto dei farmaci per interrompere la gravidanza l'unica cosa che sono stati in grado di fare è stata quella di mostrare il Vangelo accusandola di infanticidio lei e suoi marito. Eppure l'aborto di Valentina non era frutto di un capriccio. Lei e il suo compagno Fabrizio avevano scoperto che la bimba che attendevano era affetta da una grave malattia genetica, di cui la madre era portatrice, per cui non c'è una prognosi di sopravvivenza, e ha deciso quindi di interrompere la gravidanza al quinto mese. Il racconto - "Mi sono rivolta la mio ginecologo", racconta la donna in una conferenza stampa organizzata dall'Associazione Cosioni, "il quale, tuttavia, si è rifiutato di farmi ricoverare perchè obiettore di coscienza. Due giorni dopo, sono riuscita a ottenere il ricovero all’ospedale Sandro Pertini. Qui, mi hanno indotto il parto (anche se viene definito aborto terapeutico, di fatto al quinto mese di gravidanza si tratta di un parto vero e proprio), ma il travaglio è durato molte ore e così, al momento del parto vero e proprio, il medico che mi aveva ricoverata (non obiettore di coscienza) non era più di turno e medici e infermieri presenti, tutti obiettori a quanto pare, non sono intervenuti, lasciandomi sola con mio marito che mi ha assistita mentre partorivo nel bagno della stanza. Troppo sconvolti da quello che era accaduto - ha concluso la donna - non abbiamo avuto neanche la forza di denunciare la struttura e gli operatori sanitari". "La legge 194", tuona il segretario dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, "prevede che in tutti i reparti di ostetricia e ginecologia ci siano medici obiettori e non, così da garantire la continuità del servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Dovrebbero essere le Regioni a vigilare sull'applicazione della legge ma i numeri dell’ultima relazione al Parlamento e la bocciatura dell’Italia, da parte del Consiglio d’Europa, per l’eccessivo numero di obiettori di coscienza presenti nelle nostre strutture, ci dicono che non è così". La bocciatura da parte del Consiglio d’Europa, ha ricordato Gallo, è dovuta al fatto che l’elevato numero di obiettori di coscienza rischia di mettere a repentaglio l’applicazione della legge con ripercussioni anche molto gravi.

Roma,"Io, abbandonata in bagno ad abortire". L'accusa di Valentina, affetta da una malattia genetica costretta a ricorrere all'interruzione di gravidanza al quinto mese. "In ospedale erano tutti obiettori". E la donna, complice il cambio turno resta sola, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "Io sognavo un figlio, un bambino che avesse qualche possibilità di una vita normale. Invece mi sono ritrovata ad abortire al quinto mese sola come un cane. Abbandonata in un bagno a partorire il feto morto, con il solo aiuto di mio marito Fabrizio. E tutto questo per colpa di una legge sulla fecondazione ingiusta, di medici obiettori, di uno Stato che non garantisce assistenza". Valentina Magnanti ha 28 anni, minuta e combattiva con un filo di voce racconta la sua storia. Fotografia di un'Italia condannata dall'Europa nei giorni scorsi per violazione della legge sull'aborto, dei diritti delle donne, proprio a causa dei troppi medici obiettori.

Cosa c'entra la legge 40?

"Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l'accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto".

Quando ha deciso di abortire?

"Ci avevamo tanto sperato in quei mesi che il piccolo fosse sano, ne avevamo già perso uno per gravidanza extrauterina. È stato un colpo, ma la malattia è terribile per cui con mio marito Fabrizio abbiamo deciso..."..

E qui comincia la serie dei medici obiettori.

"Scopro che la mia ginecologa lo è, si rifiuta di farmi ricoverare. Riesco dopo vari tentativi ad avere da una ginecologa del Sandro Pertini il foglio del ricovero, dopo due giorni, però, perché soltanto lei non è obiettore".

È il 27 ottobre 2010 quando entra in ospedale.

"Incominciano a farmi la terapia per indurre il parto, a base di candelette, mi dicono che non sentirò nulla. E invece..."

Cosa accade?

"É stato un inferno. Dopo 15 ore di dolori lancinanti, tra conati di vomito e momenti in cui svengo, con mio marito sempre accanto che non sa che fare, che chiama aiuto, che va da medici e infermieri dicendogli di assistermi, senza risultato, partorisco dentro il bagno dell'ospedale. Accanto a me c'è solo Fabrizio".

Medici e infermieri?

"Venivano per le flebo, ma nessuno li ha visti arrivare quando chiamavo aiuto. Nessuno ci ha assistito nel momento peggiore. Forse perché da quando sono entrata a quando ho partorito era cambiato il turno, c'erano solo medici obiettori".

È molto amareggiata.

"Già una arriva in ospedale disperata, perché in quel figlio ci hai creduto e sperato per cinque mesi, poi ti mettono ad abortire a fianco delle neo mamme e senti i bambini piangere, uno strazio. In più, mentre ero lì stravolta dal dolore entravano degli attivisti anti aborto con Vangeli in mano e voci minacciose".

Lei però non ha denunciato.

"Quando è finito tutto non avevo più la forza di fare nulla. L'avvocato parla di omissione di soccorso, io so solo che nessuno deve essere trattato così in un Paese civile. Il responsabile è lo Stato che non garantisce un servizio sanitario adeguato. Nel Lazio quasi tutti i ginecologi sono obiettori. Pensate la desolazione che troppi devono vivere, obbligati a implorare per un ricovero, per abortire, come me, un figlio desiderato".

Adesso il tribunale le dà ragione.

"Almeno sulla legge 40 sì. Mi sono rivolta all'associazione Coscioni e abbiamo fatto ricorso perché anche chi ha malattie genetiche possa accedere alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impanto, perché non ci si debba ritrovare ad abortire al quinto mese. E ora il tribunale, per la seconda volta in due mesi, ha sollevato dubbi di costituzionalità su questo punto della legge. Forse ora anch'io potrò diventare madre".

Aborto al Pertini, Zingaretti: "Verifiche in corso". Ma la Asl si difende: "La coppia fu assistita". La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perchè affetta da una grave malattia genetica trasmissibile ma al Sandro Pertini ha raccontato di essere stata lasciata sola a espellere il feto in un bagno dell'ospedale a causa dell'alto numero di medici obiettori. La Asl: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora e a noi risulta che è stata prontamente seguita", continua “La Repubblica”. "Una vicenda drammatica, su cui vanno avanti verifiche e indagini, anche se i fatti risalgono al 2010". Così il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha commentato la denuncia di una coppia che ha raccontato di essere stata lasciata sola durante un'interruzione volontaria di gravidanza all'ospedale Pertini di Roma a causa dell'alto numero di medici obiettori. Nel Lazio, va ricordato, il 93% dei ginecologi è obiettore di coscienza, su una media nazionale dell'85%. La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perché affetta da una grave malattia genetica trasmissibile. Ma ha raccontato che all' ospedale Sandro Pertini dove avrebbe dovuto sottoporsi all'intervento accompagnata dal marito, non ha trovato medici e infermieri pronti ad assisterla nei momento più delicato e per questo l'espulsione indotta del feto sarebbe avvenuta in solitudine in un bagno del nosocomio. Il marito chiamava i sanitari e questi rispondevano "veniano, veniamo", ma nessuno si presentava. L'Asl Roma B, dal quale dipende l'ospedale Sandro Pertini, ha diffuso però una sua versione dei fatti: "La signora - afferma l'Asl - fu seguita dal personale che ha l'obbligo dell'assistenza anche nel caso di obiezione di coscienza. Nel caso specifico due medici non obiettori che fanno parte dell'équipe istituzionalmente preposta all'Ivg". E, aggiunge la nota: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora Valentina  e a noi risulta che è stata prontamente assistita ed avviata alla sala parto per il 'secondamento' (l'espulsione della placenta) e per le successive procedure previste nel post parto". Ma, secondo il racconto della coppia che comunque poi decise di non presentare una regolare denuncia, più volte nelle fasi più delicate avrebbero inutilmente chiesto assistenza. Intanto la Regione, ha affermato Zingaretti, "da due mesi" ha avviato dei "tavoli tecnici sui consultori, sul Progetto nascita e la tutela della 194, come grande opportunità di prevenzione e sostegno alla donna, che non sempre, come abbiamo visto, per colpa di tante disattenzioni, è a livelli civili nel Lazio". "Fra pochi giorni presenteremo - ha aggiunto Zingaretti - le linee guida uscite da questi tavoli per il rilancio della 194 della funzione preventiva e di presenza di consultori e vedere come affrontare questo tema, di effettiva garanzia dell'offerta di un servizio che come abbiamo visto non sempre è tale". A chi gli chiedeva se la Regione avrebbe attivato un'indagine sul caso, il governatore ha spiegato: "E' un fatto drammatico avvenuto alcuni anni fa ma siamo a lavoro e siamo pronti a proporre una via d'uscita, una soluzione a questo grave problema. Adesso la cosa più importante è evitare che questa condizione limiti in forma sostanziale l'applicazione della legge".

Le "quote rosa" e le altre...E dopo le donne ecco le prossime quote: età, tendenze sessuali, credo religioso, titolo di studio, etc etc. Tutto tranne la meritocrazia. Tutti pazzi per le quote rosa. Negli Stati Uniti non esistono ma in qualche modo esiste una forma di “discriminazione positiva”. A parità di merito, pubblico e privato devono favorire esponenti delle minoranze o delle fasce tradizionalmente emarginate: donne e neri (ma anche, per dire, indiani cioè nativi americani). Non è un principio liberale la quota, di genere o razziale. Tuttavia in America ha funzionato anche perché funziona (salvo eccezioni e sacche trascurabili) il principio del merito. La “discriminazione positiva” vale pure, volendo, in negativo: qualora fosse provata una discriminazione negativa, pubblico o privato ne pagherebbero le conseguenze (devastanti). L’amministrazione USA non fa sconti, chiude i ponti con chi discrimina. Bene, detto questo in Italia è tutt’altra musica. Tutt’altra cacofonia. Perché la quota di merito è minoritaria e marginale, e il sistema di reclutamento è un altro: la “cooptazione”. Clientelare, familistica, sessista, etc. etc. Quello delle quote rosa nelle liste per la Camera è un fenomeno a parte. Mentre negli Stati Uniti gli elettori possono realmente scegliere tra candidati, in Italia l’altra faccia della cooptazione è l’imposizione del candidato. Non c’è una piena libertà di scelta. Liste bloccate, listini, nomine dall’alto sono la norma. Le quote rosa sarebbero minate dal cancro della cooptazione-imposizione. L’introduzione delle quote rosa nei Cda è servita e ha prodotto risultati concreti, al di là della coerenza liberale del principio stesso. In Parlamento la storia è tutta un’altra: a che servono le quote, se la selezione continua a farsi non in base alle preferenze dei cittadini (corrispettivo del merito nelle assunzioni di lavoro), ma per imposizione (corrispettivo della cooptazione alias raccomandazione)? In conclusione, potrei anche esser d’accordo con le quote rosa nelle liste elettorali (l’alternanza rosa-celeste), proprio perché la composizione del Parlamento sarebbe pur sempre fatta a tavolino (nelle sedi dei partiti). Ma a una condizione, che si stabiliscano altre quote anti-discriminatorie: Quote per età (giovani-vecchi, sotto o sopra i 30). Quote gay (etero-omo-bisex). Quote etniche. Quote religiose. Quote per titoli di studio. Quote per colore dei capelli (o crinierati-calvi). Quote per tipo di contratto (partite IVA, dipendenti con sotto-quota a tempo deteterminato e non). Quote per titoli di studio. Quote Sud-Nord (e Centro). Quote per amanti del calcio (e no). Quote per statura fisica (alti-bassi, grassi-magri). Per vegetariani. Per dotati di Pc (e no). Quote città-campagna. Quote per censo. Per stato civile (sposati, single, poligami). Per nonni/e. Quote Panda (minoranze minime, ad es. amanti del teatro). Continuate voi la lista.

Femminicidi e infanticidi, indignarsi non basta. Il contatore dei delitti e delle violenze nell’ambito familiare corre sempre più velocemente. Ma non bastano cinque minuti di umana compassione e scaricare la colpa sulla società, dimenticando che siamo noi la società. E’ ora di educarci al rispetto, scrive Sergio Stimolo su “Giornale Metropolitano”. Ci insegnavano: “Una donna non si colpisce neanche con un fiore”. Un principio che veniva ripetuto ovunque, dalla famiglia alla scuola. Sui bambini non c’erano aforismi o proverbi. I figli, come recita quel bellissimo assunto napoletano “so’ piezz’e core” e quindi guai a toccarli. Fin qui la “facciata”. Ma la realtà all’interno delle pareti domestiche è sempre stata diversa: donne maltrattate, picchiate, violentate. E così anche per i bambini, spesso non solo violentemente picchiati ma anche violentati dai parenti più prossimi. Tutto, però, tenuto sotto traccia con un perbenismo di facciata e la paura, da parte delle vittime, di parlare, di denunciare. Negli ultimi anni, anche grazie allo sviluppo di Facebook, molti veli sono stati squarciati. Molte donne, soprattutto, leggendo e comunicando con altre donne, hanno scoperto l’autostima e quindi trovato la forza di reagire, di denunciare i soprusi di cui erano – sono – vittime. Ma, nonostante ciò, il contatore dei femminicidi e quello degli stupri continuano a correre. Sembra che non passi giorno senza che la cronaca nera ci fornisca l’ennesimo delitto di una donna. Di solito, i motivi sono passionali, cioè follemente e biecamente stupidi. E’ assurdo uccidere per amore. Però, da qualche anno, registriamo la crescita di un altro fenomeno spaventoso: l’infanticidio. Il primo caso che inorridì il mondo fu quello del piccolo Giuseppe Di Matteo strangolato e sciolto nell’acido dalla mafia che violava platealmente il comandamento morale che “i bambini non si toccano”.  Da allora è stato un precipitare. Ricordate Cogne? E poi bimbi rapiti e ammazzati, bimbi misteriosamente scomparsi, fino ai tragici fatti degli ultimi mesi: genitori che uccidono i propri figli con le motivazioni più disparate. Di solito li sgozzano o li soffocano, altre volte si lanciano con loro nel vuoto. Ci impietosisce pensare agli agnellini sgozzati, vogliamo fermarci a pensare per un attimo anche a questi poveri bambini? Vogliamo pensare con stupore e livore a quel salvadoregno che, a Milano, ha ammazzato una donna (che lo aveva respinto) e il suo bambino davanti agli occhi del proprio figlio? E vogliamo pensare all’orrore di quelle tre bambine di 14, 11 e 4 anni, sgozzate ieri mattina dalla loro mamma a Lecco? C’è sempre chi parla di “tragedia della disperazione”. Crediamo che sia un alibi che tutti noi ci diamo per permetterci il lusso di inorridire, scrivere su FB o altro un commento indignato o di umana pietà, una civile reazione di qualche minuto e poi passare ad altro. Magari, partecipare alla rituale manifestazione serale con fiaccole alla mano e intanto chiedere alla moglie “stasera che c’è per cena?”. Purtroppo, non ci si può indignare a cronometro e non si può continuare a chiedere “ma cosa è diventata la società?”. La società siamo noi e la nostra cinica abitudine a qualsiasi tragedia non può che peggiorarla. Peggiorarci. Allora che fare? Educhiamoci al rispetto, prima di tutto in famiglia e a scuola. Usando un linguaggio attuale, facciamo diventare il rispetto “virale”. Inculchiamo nella mente di tutti, ossessivamente, che il rispetto dei familiari, del prossimo è “fichissimo”. Forse è solo una speranza, ma è un passo oltre l’indignazione.

Infanticidio. Se Dio chiude gli occhi…scrive Nino Spirlì su “Il Giornale”. Martedì 11 marzo 2014 – San Costantino – A casa, a Taurianova. Insonne. Seduto in giardino su una sedia di ferro, coperto solo da un plaid. Col Mac sulle gambe e una gran voglia di sigaretta che non ho. Non so, comunque, se la fumerei o se la masticherei per rabbia. Stanotte, sto litigando di nuovo col Cielo. Era tempo che non accadeva. Anzi, negli ultimi anni siamo andati d’amore e d’accordo, Dio ed io. Una specie di matrimonio. Io, abbondantemente immerso nella preghiera già dal risveglio mattutino e fino all’ultimo saluto della notte. Lui, dentro di me, a placare i tumulti e consolare le afflizioni. Sì, ho concesso a Dio di possedermi e governarmi. E, così, anche quando sembrava che stessi decidendo io, in realtà era Lui a dirigere le operazioni. Stanotte, no. Stanotte non sono Suo e Lui è fuori di me. L’ho allontanato per poterGli urlare la mia umana rabbia. Piccola, in confronto alle Sue, ma grande quanto un grido di dolore. Dunque, infinita. Eh, sì! Guardo il cielo semicoperto dalle nuvole e mi rendo conto che deve essere comodo stare lassù, dove non arrivano le grida dei bimbi ammazzati. Oltre quella coltre, dove tutto deve sicuramente essere sereno. Molto più sereno che su questo immondo pianeta Terra, sul quale, ogni giorno, l’infanzia viene violata, mortificata. Uccisa. Dalle foreste dell’Africa, dove i cuccioli di Uomo vestono l’uniforme e sparano col mitra, alle catapecchie dell’Asia, dove cuciono palloni e abiti firmati, o lavorano nelle cave, o nei bordelli, fino ad arrivare alle tane delle Americhe, dove impastano mattoni di fango, coltivano coca, rubano in strada o sniffano colla e mille veleni. E, poi, in casa nostra. Nella “civilissima Europa”, culla di ogni orrore digerito e reso volutamente trasparente davanti alla Legge. Qui, i bimbi vivono nelle fogne di Bucarest, nei lager chiamati orfanotrofi di mezza Europa dell’est, oppure patiscono le ansie, le paure, le perversioni e le violenze di ingordi capitalisti stressati dalla loro stessa ricchezza. Anche nel nostro Belpaese. Omertoso. Superficiale. O, peggio, complice. E, se la denuncia è costante, la condanna lo è molto meno. Ieri, erano gli educatori senza scrupoli. Oggi, l’ennesima madre assassina. Non è la sola. Anzi…E questo non giustifica, non attenua, non scolora. Non è il mezzo gaudio! Anzi. Rende più densa e forte la disperazione. Le da corpo. L’infanticidio e il maltrattamento dei bambini non sono solo reati, ma sono, insieme, IL peccato. L’unico vero peccato, mi dico. E la lacrima trova la strada. Faccio una pausa. Riprendo fiato e forza. Per denunciare l’ennesimo dramma. Una donna stanca, sfiduciata, sola, non trova la forza per lottare. Si abbandona alla paura. Ingoia il mostro e gli offre la propria carne. E “quella cosa” avviene. Pochi attimi di possessione demoniaca, durante i quali la Mente diventa una piazza vuota da invadere, occupare, dominare. Pochissimi istanti di buio divino. Di assenza di Dio. Poi, il risveglio. La coscienza. E l’irreparabile morte. Dove ha guardato Dio, in quegli attimi? Dove ha posato i suoi infiniti occhi? Non sul mondo. Non sull’Uomo. Non su tre bambine che, nel sonno, hanno pagato per colpe non loro. Per chissà quale pensiero malato, nato nella mente di chi avrebbe dovuto amarle e proteggerle dai pericoli esterni. Per la follia di una moglie abbandonata, di una donna ferita. La lunga scia di sangue innocente si fa strada fra le debolezze di certi adulti. Cresciuti male. Frettolosamente divenuti padri e madri. Disattenti ai doveri genitoriali. Superficiali, o, nel peggiore dei casi, menefreghisti. Da Gravina di Puglia a Cogne fino a Lecco, tanto per evitare l’elenco lungo, i piccoli restano vittime di assenze o furori. Dio chiude gli occhi troppo spesso, rivolto verso l’Italia. Ed è un peccato tutto Suo. Che non Gli perdono. Né stanotte, né mai. Poi, il pensiero vola ancora. A quella villa degli orrori dei pedofili belgi, ai bambini asiatici venduti ai perversi occidentali, ai niños da rua delle favelas, fatti bersaglio anche dalle pistole della polizia, ai piccoli già tossici dei tombini di Bucuresti…Dunque, non guarda proprio. Non su questa Terra. Comincio a pregare, ma mi fermo. No. Stanotte, con Te non ci parlo. Aspetto che Tu apra gli occhi e non li chiuda più. Fra me e me, sfidando il Cielo velato da troppe nubi.

Sono circa 500 i bambini uccisi dai genitori dal 1970 ad oggi, e diecimila quelli che a causa della violenza di chi li ha messi al mondo hanno subito gravi lesioni o danni permanenti: è quanto rende noto Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani (Ami), che cita uno studio dell’Università La Sapienza di Roma, commentando la notizia del massacro di Lecco dove una madre ha ucciso le sue tre figlie. «L’infanticidio – afferma Gassani – è un fenomeno ancora più agghiacciante del femminicidio. «Le statistiche si concentrano troppo sulle morti degli adulti e troppo poco della mattanza dei bambini ad opera dei loro genitori. Non è vero che quando la coppia scoppia, la violenza e la furia omicida si proiettino soltanto nei confronti del coniuge o del convivente. Molto spesso il bersaglio sono i figli, che vengono uccisi per vendetta da chi non regge lo sconforto di essere stato lasciato dal partner». «Si sono fatte le leggi per combattere il femminicidio e ora – sostiene Gassani – con altrettanto vigore bisogna studiare misure per prevenire la mattanza dei bambini durante le separazioni e i divorzi. Innanzitutto non è più possibile pensare che le coppie che arrivano in Tribunale non possano usufruire gratuitamente di percorsi di psicoterapia o mediazione familiare. Ostinarsi nel ritenere che una causa di separazione sia soltanto una questione giuridica è quanto mai irresponsabile, valutando il livello di odio che può scatenarsi in una coppia che si sta disgregando». Infine, la proposta dell’Ami: «prima di arrivare davanti al giudice, i coniugi dovrebbero seguire un percorso gratuito finalizzato alla elaborazione del lutto che la fine di un rapporto può determinare. Urge pertanto una riforma processuale del diritto di famiglia e soprattutto una campagna di sensibilizzazione affinchè si prenda coscienza del fatto che i diritti dei bambini hanno una priorità su tutti gli altri».

Medea, l'assassina dei suoi figli. La tragedia di Medea e la sua sindrome perversa rivive nella follia della donna albanese che pochi giorni fa ha uccise le sue tre figlie. Pero Montanari su “Globalist”. "Le mie figlie sono tutta la mia forza" scriveva sul suo profilo Facebook la madre assassina di Lecco solo pochi giorni fa, una didascalia tenera e agghiacciante sotto una foto che ritraeva le sue tre bellissime ragazze di 3, 10 e 13 anni. E invece Edlira Dobrushi da Durazzo ha preso un coltellaccio e le ha sgozzate, come se fosse la cosa più normale del mondo. Simona, Keisi e Sidny non hanno avuto scampo: due morte accoltellate nel sonno e la terza, la più grande, dopo aver resistito lottando. L'abbandono del marito, che aveva scelto di separarsi per un'altra donna deve aver fatto scattare in lei la terribile sindrome di Medea. Medea è una tragedia di Euripide che faceva parte di una tetralogia della quale rappresentava il capolavoro assoluto del grande drammaturgo greco. La storia è questa. Moglie di Giasone, lo aiuta a conquistare il vello d'oro, per poi trasferirsi a vivere a Corinto, insieme al marito e ai due figli, abbandonando così il padre per per seguirlo. Dopo alcuni anni però Giasone decide di ripudiare Medea per sposare la figlia di Creonte, re di Corinto e mirare al trono della città. Medea dapprima simula condiscendenza, ma poi attua il suo folle piano di vendetta e gli uccide i figli, privandolo così anche della discendenza regale. La tragedia di Medea e la sua sindrome perversa rivive nella follia della donna albanese, che ci ripropone questo dramma in chiave moderna duemilacinquecento anni dopo Euripide. La donna abbandonata che uccide i figli come ultimo gesto di una terribile vendetta nei confronti del loro padre. Una profonda depressione, la totale anestesia di sentimenti materni in un cortocircuito maledetto e il distacco dalla realtà in quell'incomprensibile gesto finale.

Da Wikipedia. Medea (dal greco: Μήδεια, Mèdeia) è una figura della mitologia greca, figlia di Eete, re della Colchide, e di Idia. Era inoltre nipote di Elio (secondo altre fonti di Apollo) e della maga Circe, e come quest'ultima era dotata di poteri magici. Invece secondo la variazione del mito (Diodoro Siculo), il sole, Elio, ebbe due figli, Perse e Eeta. Perse ebbe una figlia, Ecate, potentissima maga, che lo uccise e più tardi si congiunse con lo zio Eeta. Da questa unione sarebbero nati Circe, Medea ed Egialpo. Figlia di Eeta, re della Colchide, è uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa "astuzie, scaltrezze", infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini. Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro, capace di guarire le ferite, custodito da un feroce e terribile drago a conto di Eete, lei se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre, così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Iolco con il Vello d'Oro. Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del Vello: Medea allora sfrutta le proprie abilità magiche e con l'inganno si rende protagonista di nuove efferatezze per aiutare l'amato. Convince infatti le figlie di Pelia a somministrare al padre un "pharmakòn", dopo averlo fatto a pezzi e bollito, che lo avrebbe ringiovanito completamente: dimostra la validità della sua arte riportando un caprone alla condizione di agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con erbe magiche. Le figlie ingenue si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre, tra atroci sofferenze: Acasto, figlio di Pelia, pietosamente seppellisce quei poveri resti e bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposeranno. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, offrendo così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Vista l'indifferenza di Giasone di fronte alla sua disperazione, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morire fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo la tragedia di Euripide, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli (Mermero e Fere) avuti con lui. Fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole trainato da draghi alati, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio, Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all'ultimo istante Egeo riconosce suo figlio, e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eete. Ovidio tratta del mito di Medea in due distinte opere: le Heroides e le Metamorfosi. Nel primo testo è la donna a parlare cercando di commuovere il marito, ma il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia e il suo completamento è possibile al lettore solo attraverso la memoria letteraria. La Medea delle Metamorfosi è ben diversa: essa oscilla tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendo, almeno in parte, la giovane tormentata dai rimorsi di Apollonio Rodio, divisa tra il padre e Giasone. Medea si dilania tra incertezza, paura, commozione e compassione. La metamorfosi avviene in modo repentino ed è possibile rintracciarla attraverso il confronto tra la scena dell'incontro con Giasone nel bosco sacro e il ringiovanimento del padre dell'amato: se nel primo caso appare come un medico antico, nel secondo utilizza esplicitamente la parola "arte" (vv.171-179) mostrandosi come una vera strega. Anche Ovidio riprende la scena del carro, presente già in Euripide e successivamente in Seneca, ma se in questi due casi l'episodio è inserito alla fine del racconto, Ovidio lo colloca a metà della narrazione: in tal modo Medea perde le sue qualità umane e il mondo reale cede il posto a quello fantastico. All'inizio della "Metamorfosi", Medea è la protagonista assoluta, ma pian piano cessa di essere un'eroina in cui il lettore può identificarsi e diviene un personaggio che appare e sparisce come per magia. La tragicità del finale non è sfruttata al massimo: Medea è divenuta una vera strega e quindi non soffre dell'infanticidio commesso né potrebbe soffrire di un'ipotetica punizione. Nella parte introduttiva Draconzio afferma di voler fondere tutti i motivi tipici del mito di Medea; lo fa invocando la Musa Melpomene e la Musa Calliope. Medea e Giasone appaiono tutti mossi dal destino e dalla volontà degli dei, legati come sono agli scontri tra Venere e Diana. Infatti la dea della caccia sentendosi tradita per il matrimonio della sua sacerdotessa scaglia una maledizione contro di lei, da cui si snoderà la morte del marito e dei figli. All'inizio Medea è descritta come una "virgo cruenta", ma viene definita maga solo a verso 343. Caratteristica di questo racconto è che è la donna a rubare il vello d'oro donandolo poi a Giasone, che appare per tutta la narrazione una figura passiva. Anche quando entra in scena Glauce l'eroe è semplice oggetto del desiderio, che la giovane otterrà anche a costo di rompere il legame matrimoniale che lo vincola. Entrambe le donne trasgrediscono così le norme morali: da un lato Medea tradisce la dea Diana, dall'altro Glauce porta al tradimento Giasone. Durante le nozze l'attenzione si concentra sulla coppia mentre Medea prepara la vendetta: sarà lei a donare a Glauce la corona da cui prenderà fuoco l'intero palazzo. Ma il punto culminante della tragedia è il sacrificio che Medea offre a Diana: i suoi figli, così che l'infanticidio non è più condotto per vendetta, ma come richiesta di perdono. Nella scena finale l'autore riprende l'episodio del carro, ma questa volta il volo della donna ha valore semantico e non narrativo: Medea si riunisce a Diana e ritorna la "virgo cruenta" dell'inizio della narrazione, lasciando a terra tutto ciò che era ancora legato a Giasone.

Madri che uccidono i figli, i casi d'infanticidio degli ultimi anni. Oggi a Lecco una mamma albanese di 37 anni ha accoltellato a morte sue tre figlie di 3, 10 e 13 anni. Poi ha cercato di togliesri la vita. Interrogata dai pm ha confessato: "Ero disperata". L'ultimo episodio di una serie di omicidi che vedono coinvolti madri e figli, scrive “Il Giorno”.

Lecco, 9 marzo 2014 - Questa mattina, a Lecco una mamma albanese di 37 anni ha ucciso a coltellate le sue tre figlie di 3, 10 e 13 anni. Poi, ha cercato di togliersi la vita. Interrogata dal pm, prima di essere operata, ha confessato tutto: "Ero disperata". Alla base del gesto, quindi, potrebbe esserci una forte depressione dopo essere stata lasciata dal marito e problemi economici. Ma questo è solo l'ultimo episodio di una serie di omicidi che vedono coinvolti madri e figli. Ecco i casi d'infanticidio degli ultimi anni.

30 GENNAIO 2002 - Il piccolo Samuele Lorenzi viene massacrato nella villetta di Montroz a Cogne, in cui vive con la madre, il padre e il fratellino. I soccorritori, chiamati dalla donna, Annamaria Franzoni, lo trovano con gravissime ferite alla testa: il piccolo morirà poco dopo. La madre viene accusata dell’omicidio ma nega e, dopo un calvario giudiziario, viene riconosciuta colpevole con sentenza definitiva dalla Corte di Cassazione.

12 MAGGIO 2002 - A Madonna dei Monti, frazione di Santa Caterina Valfurva, in Valtellina, una donna di 31 anni, Loretta Z., uccide la figlia di 8 mesi mettendola nella lavatrice alla quale fa compiere un ciclo di lavaggio. A trovare il cadavere, nel cestello della lavatrice, è il padre della bambina.

3 GIUGNO 2003 - Una peruviana di 29 anni, Helga R., strangola e poi affoga in un water dell’ospedale di Desio, in provincia di Milano, la figlia di tre mesi, che era ricoverata per una caduta dalla carrozzina.

7 LUGLIO 2004 - A Vieste, in provincia di Foggia, Giuseppina D.B., 33 anni, casalinga, uccide i suoi due figli, una bambina di 5 anni e un maschietto di quasi 2, soffocandoli con del nastro adesivo. Poi si suicida nello stesso modo.

18 MAGGIO 2005 - A Casatenovo in provincia di Lecco, Maria Patrizio, 29 anni, racconta di essere stata aggredita in casa mentre faceva il bagno al figlio di 5 anni, scivolato nell’acqua e morto. La notizia poi si rivelerà falsa: a uccidere il piccolo è stata la donna, che poi, due settimane dopo, confessa.

17 MARZO 2005 - Una neonata di due mesi viene trovata uccisa con una coltellata nella casa della Romanina, a Roma, dove vive con i genitori: anche qui la madre, 23 anni, dopo averla uccisa tenta il suicidio.

8 SETTEMBRE 2005 - A Merano un bambino di quattro anni viene ucciso a coltellate dalla madre, Christine Rainer, 39 anni, che poi tenta il suicidio gettandosi da una finestra del secondo piano del commissariato di polizia. L’infanticidio avviene in un appartamento di una palazzina di case popolari in via Wolkenstein, nei pressi dell’ippodromo di Maia. Quando gli investigatori arrivano sul posto si trovano davanti una scena agghiacciante: il bambino giace in una pozza di sangue nella cucina dell’appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti della prima colazione con un panino con la marmellata appena iniziato.

20 LUGLIO 2009 - A Parabiago, in provincia di Milano, un’altra mamma uccide il figlio di 4 anni, strangolandolo con un cavo elettrico. La donna, 36 anni, soffriva di depressione ed era in cura in un centro psicosociale della zona. A trovare il piccolo, agonizzante, sono la madre e la sorella della donna, che erano andate a trovarla perchè non rispondeva al telefono. La mamma viene trovata accanto al bimbo, in stato di choc.

26 AGOSTO 2009 - Appena un mese prima, il 26 agosto a Genova, una madre di 35 anni uccide il proprio bambino di appena 19 giorni, strangolandolo nel lettino con il cavetto di alimentazione del cellulare. Poi si suicida. La donna viveva da sola con il figlio e soffriva di depressione post-partum, condizione probabilmente aggravata dalla mancanza di lavoro e dall’assenza del padre del bimbo.

24 SETTEMBRE 2009 - A Castenaso, alle porte di Bologna, una madre di 36 anni, Erika M., uccide, accoltellandoli, i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di cinque. Poi si suicida gettandosi dalla terrazza della sua abitazione, al secondo piano di una palazzina di via Mazzini a Castenaso. I carabinieri trovano i corpi dei due piccoli sul letto matrimoniale. La donna soffriva di depressione per una separazione in vista dal marito.

19 FEBBRAIO 2010 - La tragedia si consuma in una casa di Ceggia, in provincia di Venezia: Tiziana Bragato 47 anni, uccide il figlio, un bimbo di appena sei anni, soffocandolo nel suo letto. Poi si uccide, impiccandosi. A scoprire i corpi è il marito, un 51enne.

22 OTTOBRE 2011 - A Grosseto viene arrestata la mamma di un bambino di 16 mesi morto annegato durante una gita in pedalò nelle acque della Feniglia. L’accusa è che sia stata proprio lei ad annegarlo.

25 OTTOBRE 2013 - Ad Abbadia Lariana, in provincia di Lecco, una donna uccide il figlio di tre anni. La donna , una 25 enne originaria della Costa d’Avorio, uccide il primo dei suoi due figli, Nicolò, infierendo più volte sul corpo del piccolo.

6 MARZO 2013 - Viene sottoposta a fermo Daniela Falcone, la 43enne di Rovito che ha ucciso il figlio Carmine di 11 anni con un paio di forbici. La donna aveva prelevato il figlio nella mattinata di sabato 1 marzo dalla scuola e lo aveva portato in una zona di montagna tra Cosenza e Paola uccidendolo con delle forbici. Successivamente ha tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita. I poliziotti del commissariato di Paola e della squadra mobile hanno rinvenuto nella mattinata di lunedì 3 marzo madre e figlio in auto, e la donna è stata trasportata in ospedale.

21 APRILE 2013 -  Alessia Olimpo, dentista di 36 anni, e la figlia sono state trovate senza vita nella camera da letto della piccola: a trovarle il marito. Un omicidio-suicidio: prima la donna ha accoltellato la figlia e poi si è tolta la vita, tagliandosi la gola.

Femminicidio: un’emergenza inesistente per nascondere le emergenze reali, scrive “La Crepa nel Muro”. Il dibattito, nelle ultime settimane, si concentra sull’istituzione del reato di femminicidio, per il quale, tra gli altri, si batte in prima linea la presidente della Camera, Laura Boldrini. Un reato specifico che punisca la violenza contro le donne. Anche parte della stampa e dei media porta avanti la campagna. I dati, però, sono in netta contrapposizione con quelli ufficiali diffusi dall’Istat e dal ministero dell’Interno. Secondo l’Istituto di Statistica la violenza che sfocia nell’omicidio di una donna, negli ultimi vent’anni, è in calo. Nel 1992 le vittime erano state 186, nel 2010 (ultimo anno disponibile) 131, per un calo del 29,57 per cento. La provocazione - E’ un altro, invece, il fenomeno in sensibile aumento: l’infanticidio, nella gran parte dei casi commesso dai genitori sui propri figli. Gli ultimi eclatanti casi: quello del padre che ha sparato e ucciso al figlio a Palermo, e la donna che ha lanciato i due figli dal balcone, a Busto Arsizio (i due piccoli sono gravissimi). I dati sull’infanticidio sono quelli diffusi dal Rapporto Eurispes Italia 2011: gli ultimi numeri disponibili sono relativi al 2010, quando è stato compiuto un infanticidio ogni 20 giorni. L’anno precedente la cadenza era di uno ogni 33 giorni, nel 2008 uno di 91 giorni. In numeri assoluti i casi sono stati 4 nel 2008, 11 nel 2009 e 20 nel 2010, e il trend è in costante aumento: complice la crisi e un quadro sempre più difficile, cresce il numero delle madri che compiono il folle e disperato gesto. Ed è qui che avanziamo la provocazione: perché al posto del reato di femminicidio non si introduce quello di figlicidio? ...liberoquotidiano.it (18.05.2013). Anche qui, uno dei nostri si è occupato di smentire il farsesco e tragicomico allarme “femminicidio” mesi fa – noi arriviamo sempre prima, dettiamo i tempi – e potrete trovare dati e numeri nonché riflessioni nei suoi articoli in basso. Vorrei fare però un ragionamento. Questa intelligente provocazione di Libero è tale e come tale va presa. Infatti né il cosiddetto “femminicidio” né l’assassinio di neonati da parte della madre sono eliminabili attraverso aumento delle pene. Una madre che uccide il proprio bambino non sta certo a ragionare sulla pena che ne seguirà, è semplicemente “malata”. Per lei la pena peggiore, sempre che torni mentalmente consapevole, sarà quello che ha fatto. Nessuna pena potrà aggiungere altro peso. L’analisi di Libero è anche sbagliata dal punto numerico: partendo da numeri minuscoli – 4 omicidi l’anno – basta molto poco per avere una triste impennata, e statisticamente non è sensato trarne conclusioni, tantomeno legate con la “crisi”, a meno di non separare gli “omicidi-suicidi” che possono avere svariate motivazioni, dall’infanticidio “puro” che non può avere altri fattori se non la follia. Esempio: una madre o un padre possono uccidere se stessi e il figlio sentendosi disperati, non uccidere il figlio per questo sopravvivendo loro. Sono due cose con motivazioni diverse. E anche il “femminicidio”, se per questo intendiamo gli omicidi passionali, è qualcosa che può essere limitato da pene detentive maggiori. Chi uccide “per amore”, è anche lui “fuori di sé” e in preda a demoni che di certo, non scompaiono per la minaccia penale. Anche qui, dal punto di vista sociale, “l’omicidio passionale” e quello da estranei hanno implicazioni e cause profondamente differenti. Se il primo è, come detto, qualcosa che capiterà sempre finché esisterà l’uomo, il secondo può essere limitato. Considerando quindi l’infanticidio “puro” e il “femminicidio” come omicidio passionale, siamo in presenza di avvenimenti connaturati all’esistenza dell’uomo. Sono “ineliminabili”, perché sono “naturali”, nel senso che sono parte dell’animo oscuro dell’uomo o causati da patologie psichiatriche spesso impossibili da essere previste. Sono reati non “eliminabili”, come non lo sono l’amore e la sofferenza. Non puoi sapere quando una mamma “impazzisce” e uccide il proprio figlio, puoi invece evitare che un clandestino con piccone giri per Milano la mattina presto. Quindi. Concentriamoci sui reati che possiamo “limitare” attraverso la prevenzione. Ad esempio rimpatriando i clandestini quando vengono arrestati. O evitando che orde di immigrati con lo stupro nel sangue entrino nel nostro paese. Tutto il resto è triste propaganda buona per rintuzzare carriere di politicanti al tramonto. I numeri poi ci dicono che le emergenze sono altre. E che queste emergenze sono facilmente limitabili al minimo. Abbiamo circa 3mila stupri in un anno commessi da immigrati – numeri in costante e vertiginoso aumento – a fronte di poco più di 100 cosiddetti “femminicidi”: un rapporto di 30 a 1, di un reato che sarebbe eliminabile semplicemente bloccando l’immigrazione. Ma siccome “non si deve dire”, meglio perdere tempo con fenomeni incomprimibili sempre presenti nella storia dell’Uomo, coniando termini ridicoli per emergenze inesistenti, all’unico scopo distogliere l’attenzione da emergenze e problemi reali. In tutto questo è impegnato il sistema dei media di distrazione di massa, e siccome è una campagna che vede tutti i media in perfetto schieramento, qualcuno ha dato l’input. E’ infatti una regola mediatica che non potendo soffocare a lungo una notizia, il metodo migliore per nasconderla è “superarla” con un’altra. Fittizia e creata ad arte.

PARITA’ DI SESSI E FEMMINICIDIO. SLOGAN O SPECULAZIONE?

LEGGIAMO I DATI. Femminicidi: i dati sorprendono...in Italia ne succedono di meno. Al di là dei dati statistici, che non ci vedono ai primi posti in Europa, perché si uccide la donna che si ama e perché poi l’assassino si suicida? Scrive Carlo Raspollini il 19-11-2018 su "Il Quotidiano del Lazio".

Quanti sono casi di donne morte per femminicidio. Continuano, giorno dopo giorno, i casi di donne morte per “femminicidio”, uccise il più delle volte da mariti, ex compagni o da partner dai quali si vogliono separare. Alla fine di novembre i dati della cronaca parlano già di 82 donne ammazzate dall’inizio dell’anno. Nel 2017 le vittime erano state 123, e nell’80,5% dei casi a ucciderle era stata una persona che conoscevano, nel 35,8% delle volte il loro partner. Gli ultimi casi di cronaca: a Boissano, in provincia di Savona, un operaio di 47 anni ha ucciso la moglie e poi ha tentato di togliersi la vita. L’uomo, Matteo Buscaglia, a seguito di un litigio, avrebbe soffocato la donna, Roxana Karin Zentero, peruviana, con un sacchetto di plastica, mentre i due bambini della coppia, un maschio e una femmina di 12 e 10 anni, dormivano nella cameretta. L’uomo ha tentato di uccidersi tagliandosi le vene ma è stato salvato dai Carabinieri. Altri recenti casi sono avvenuti in Campania, precisamente a Vairano Patenora (Caserta) il 15 novembre, un maresciallo della nanza, Marcello de Prata, di 52 anni, ha ucciso la moglie Antonella, insegnante di 45 anni, e la cognata, Rosanna Laurenza, prima di togliersi la vita. Ha sparato 15 colpi con la pistola d’ordinanza, nella cartoleria di famiglia delle donne, ferendo anche i suoceri, ricoverati in prognosi riservata. A Sala Consilina, nel Salernitano, il 3 novembre, Gimino Chirichella, 48 anni, con precedenti con la giustizia, ha cosparso, con due taniche benzina, l’abitazione dove viveva con la compagna e ha appiccato il fuoco. Violeta Mihaela Senchiu, di 32 anni, è morta per le tremende ustioni, nonostante il ricovero in ospedale; la coppia aveva 3 gli piccoli, che si sono salvati per miracolo solo perché erano in cortile. A Civitanova Marche, un macedone di 32 anni ha lanciato l’acido contro la moglie, romena di 29 anni e l’ha accoltellata all’addome e alla schiena, inseguendola in un ristorante in cui si era rifugiata, per sfuggire alla violenza del marito. L’uomo è stato arrestato dalla polizia, mentre la donna è in ospedale.

C’è davvero questa emergenza femminicidi in Italia? Questi casi ravvicinati, suscitano emozione ma non bastano da soli a giustificare l’allarme che da tempo registriamo attorno al fenomeno. Mi sembra sia venuto il momento di porci delle domande. C’è davvero questa emergenza femminicidi in Italia? E soprattutto c’è in relazione a quello che accade nel resto d’Europa e del Mondo, riguardo alla condizione delle donne? E poi, a prescindere se sia o meno una emergenza, quali sono le motivazioni che conducono un marito, un parente, un amante o, in meno casi, un amico, ad uccidere una donna che egli dice di amare o che ha amato e dalla quale ha anche avuto dei gli? Visto che oggi le opportunità legali (non quelle economiche) per una separazione e un divorzio, sono facilitate rispetto al passato, perché commettere un omicidio? Perché nel gesto criminoso spesso si coinvolgono i gli, in genere bambini anche molto piccoli? Un’ultima domanda riguarda uno degli esiti più ricorrenti del “femminicidio”, perché l’assassino poi si toglie la vita o tenta di farlo?

Da qualche tempo si sentono voci in disaccordo con l’emergenza del femminicidio. Chiarisco subito che non sono tra questi. C’è chi afferma che sono molti di più gli uomini a morire. Vero ma non per motivi familiari. Il problema per me è più qualitativo che quantitativo. Nel senso che i dati ci dimostrano che in altri paesi il fenomeno ha dimensioni ben peggiori, ciononostante va combattuto e soprattutto compreso anche da noi. Concordo innanzitutto con l’uso di questo termine, che a qualcuno dà fastidio. Un femminicidio è evidentemente l’omicidio di una donna, equiparabile in quanto tale a quello di un uomo e di qualsiasi altro essere umano di qualsiasi età. Ma con questo termine si vuole identificare un omicidio segnato dal senso di possesso della donna, della “propria” donna. Secondo una ideologia maschilista di riduzione a una “cosa” di proprietà il genere femminile. Vedremo come questa semplice equazione, che ha origini antiche nelle culture europee e medio orientali, tuttavia da sola, non basti a spiegare il fenomeno, in base ai dati che analizzeremo.

L’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Grazie ai dati comparativi internazionali raccolti dallo United Nations Ofce on Drugs and Crime (Unodc) e grazie all’archivio delle denunce per omicidio volontario del Ministero dell’Interno – certamente la fonte più ricca, affidabile e tempestiva su questi temi – dovremmo renderci conto che “l’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc.” Riporto qui quanto sostenevano il 27 agosto 2017 Giampiero Dalla Zuanna e Alessandra Minello su “Il Foglio”. Nell’articolo si faceva notare come fosse evidente una più alta percentuale di omicidi perpetrarti a danno delle donne in ex paesi dell’Unione Sovietica o negli Stati Uniti d’America, con incidenza almeno quadrupla rispetto all’Italia e, per restare in Europa, come fossero più a rischio le vite delle donne in paesi come la Finlandia o la stessa Francia e Germania. In sostanza l’Italia ha, nel corso dei decenni trascorsi, un dato abbastanza costante di femminicidi da parte di partner o parenti, con uno 0,23 donne uccise ogni 100.000 residenti. Un dato che corrisponde a meno della metà di quello di altri paesi europei e sarebbe anche in leggero calo!

Un primo dato interessante tuttavia è quello relativo alla proporzione di vittime donne per mano di partner o ex-partner sul totale degli omicidi in cui la vittima è una donna. Questa proporzione, secondo l’articolo del Foglio: “è aumentata nel corso degli anni, passando dal 39 per cento del 2002 al 51 per cento del 2016. Tuttavia, se invece di guardare alle percentuali si considera l’incidenza sulla popolazione, i tassi rimangono pressoché stabili, attorno a 0,25 donne ogni 100 mila uccise, ogni anno, per mano del partner o ex-partner. Quindi, in Italia la lieve diminuzione di omicidi di donne è dovuta al declino di incidenza di quelli perpetrati al di fuori del rapporto di coppia.” In buona sostanza diminuiscono gli omicidi di donne ma non quelli dentro la coppia! Infatti, secondo i dati del Viminale, in Italia, in tre quarti dei casi, l'omicidio di donne è questione di famiglia. 

Dai dati forniti dall’Istat emerge che il numero dei femminicidi si mantiene pressoché costante da diversi anni. Quest’anno, secondo il sito “inquantodonna”, abbiamo già raggiunto 82 femminicidi. Nel 2014 erano 136; 128 nel 2015; 150 nel 2016 e 123 nel 2017, pari allo 0.40% su 100.000 residenti. Nel 2017 l’incidenza in Lettonia era del 3,19, in Lituania del 2,95, in Ungheria dell’1,59, in Germania dell’1,13, in Francia 0,98 e in Finlandia 0,86. Nella comparazione dei decenni ultimi si è potuto osservare come, a fronte di una diminuzione di omicidi di uomini, che però restano sempre in numero maggiore rispetto alle donne, quelli delle donne rimanessero stabili. La distinzione è fondamentale perché nel caso degli omicidi di donne gioca un ruolo determinante il partner e la famiglia.

In Calabria il maggior numero di femminicidi e poi Friuli Venezia Giulia, Campania, Sardegna... In un’altra statistica Istat dove gli omicidi in Italia sono stati suddivisi per sesso, per regione e per relazione familiare con l’omicida, da parte della vittima, risulta che il maggior numero di donne in Italia, nel biennio 2015-2017 sono state uccide in Calabria e poi a seguire in Friuli Venezia Giulia, Campania, Sardegna, Toscana e via così. Però quando andiamo a osservare le vittime in base alla relazione col partner, al primo posto troviamo il Friuli Venezia Giulia e poi la provincia di Trento, il Piemonte, la Toscana, l’Emilia, la Lombardia e la Calabria scivola al decimo posto. Cosa dimostrano questi dati? Che il presunto machismo alla base del senso di possesso che determinerebbe il femminicidio e che dovrebbe essere caratteristico di regioni del sud, non trova conferma nelle statistiche. Bisognerebbe verificare se gli assassini di moglie e amanti delle regioni del nord fossero in realtà dei meridionali trasferiti. Questo dato non ce l’ho. Potrebbe essere una ipotesi da verificare. Per adesso mi è sufficiente stabilire che il femminicidio ha i suoi numeri più alti in paesi del Nord Europa e, per l’Italia, nelle regioni del nord. Due dati che potrebbero smentire la motivazione machista, di cui sempre si parla quando si commenta un femminicidio.

Recentemente, almeno per quanto riguarda l’Italia, un’ulteriore paura si è aggiunta alla sensazione di una emergenza di violenza sulle donne: la presenza degli immigrati extra comunitari, africani e arabi, albanesi o slavi dell’est Europa. Una forte campagna propagandistica ha portato sulle prime pagine di molti giornali, di orientamento conservatore e sui social network, l’immagine che stupri e violenze fossero appannaggio di questi immigrati. Anche questo dato è falso. Gli stupri sono dovuti a extra comunitari per non più dell’8%, il restante numero è dovuto agli italiani o comunque a cittadini europei. Anche per quanto concerne i femminicidi il dato schiacciante è che circa il 75% sono dovuti a cittadini italiani, nati e cresciuti in Italia e non acquisiti. Ne parla Marina Corradi sull’Avvenire del 3 agosto 2017, per sgomberare il campo dalla possibile accusa a culture diverse dalla nostra, considerate “più primitive” secondo i detrattori interessati. No, la ferocia che spesso si riscontra nelle modalità di uccisione non dipende dall’origine dell’assassino. Le donne assassinate da italiani sono state massacrate a botte, calci e pugni, inerendo con venti e più coltellate in ogni parte del corpo e sul collo o sul volto, oppure con un’ascia, con un punteruolo, strozzando con le mani la malcapitata o facendola soccombere sotto il peso di una pietra. In altri casi la donna viene uccisa con una pistola o con un fucile o gettata dalla finestra.

Noemi Durini di 16 anni di Specchia (Lecce) viene assassinata dal danzato di 17 anni a pietrate, lapidata perché voleva lasciarlo. Sebastiano Iemmolo di Rosolini in Sicilia, ha ucciso la moglie Laura Pirri di 32 anni, dandole fuoco. Il tutto per una lite su 20 euri che l’uomo chiedeva alla compagna. L’ha accusato il figlio di 10 anni che ha assistito alla scena. È una storia di sesso e di cocaina invece quella che ha travolto Tiziana Pavani di 55 anni, che ha conosciuto in una chat di incontri Luca Raimondo Marcarelli di 33 anni, il quale l’ha tramortita nel sonno con bottigliate in testa e poi, uscendo dalla casa, ha aperto il gas e provocato un incendio con cui voleva occultare le prove. Casi diversi, uomini e donne di età diverse, non c’è una ragione culturale, etnica, né regionale o dovuta a malattie mentali.

Si domanda la Corradi nel suo articolo: “Pazzia? Chi conosceva quegli uomini li considerava, no al giorno prima, del tutto normali. Un anno fa, dopo l’ultima raffica di donne uccise, chiedemmo a Eugenio Borgna, grande vecchio della psichiatria italiana e scrittore, se vedeva della pazzia in questa catena di sangue. Borgna disse di no. Disse, all’interno di una desertificazione dei valori, di una reificazione dell’altro e dell’altra, di un considerare la propria donna come una cosa. Di uomini che si sentono minacciati dall’abbandono, no a distruggere l’oggetto che sfugge dalle loro mani: come fa un bambino con un giocattolo che si è rotto. Un istinto arcaico, aggiunse il professore, ma non ebbe timore a chiamarlo per nome, quell’istinto: "malvagità", pronunciò.”

Siamo arrivati a una prima risposta. Quello che muove gli assassini è un sentimento profondo di “malvagità”, difficile da ammettere, perché non è un raptus, non è un momento di perdita di lucidità, la malvagità alberga sonnacchiosa nei nostri animi, pensiamo di esserne immuni, soprattutto verso la persona che amiamo. Ma spesso chi amiamo è proprio chi può farci più male, un male insopportabile, imparagonabile con quello di qualsiasi altro estraneo. È questo male che risveglia il senso di malvagità che dormiva in noi. Che non sapevamo neanche di avere. Che ci rende odiosa la persona amata, tanto amata e per questo tanto odiabile. Non voglio analizzare qui cosa intendo per amore, chiaramente mi riferisco al sentimento di cui tutti parlano e al quale pochi sanno dare il giusto significato di donazione, di comunanza di felicità per il benessere dell’altro. Dice una canzone di Sting “If you love somebody, set them free…” Se ami qualcuno lascialo libero. Ecco questo corretto concetto di Amore è l’esatto contrario di quello, invece più diffuso: “Se ami qualcuno tienitelo stretto tutto per te”. Da cui discende la gelosia, il senso di possesso, la riduzione a cosa di proprietà dell’altro, figli compresi.

Dice una canzone di Sting “If you love somebody, set them free...Ora ci dobbiamo domandare, dando valore alle statistiche, se i Lettoni e i Finlandesi siano più possessivi degli Italiani o dei Greci, che gurano in coda alle classiche dei femminicidi. Sembrerebbe così. A meno che il dato non sia fuorviante per altre motivazioni. Per esempio l’uso dell’alcool e per esempio la relativa facilità all’accesso ad armi come coltelli e pistole, in quei paesi, rispetto all’Italia. A questo dato nessuno ha ancora pensato. Bisognerebbe capire quale sia, se vi sia, una incidenza dell’uso dell’alcool nella decisione di ammazzare la moglie in quei paesi. Non c’è dubbio che nel Nord Europa l’uso di vodka, whisky, gin ma anche birra sia estremamente più diffuso che in Italia e che per molti sia l’unica reale possibilità di fuga mentale dalla alienazione quotidiana, nelle sere post lavoro e nei giorni di festa. Non c’è dubbio che un minimo di self control, già potrebbe scongiurare il ricorso a un atto scellerato, durante una lite coniugale o tra ex coniugi.

Un altro aspetto, che è stato invece analizzato, è il cambiamento del ruolo della donna, in questi ultimi anni. Consapevole dei suoi diritti, sempre più necessitata a esprimere la sua autonomia e il decisionismo, che prima le mancava, la donna oggi sembra passare attraverso tutte le dure prove della vita, per conquistarsi una indipendenza che non è solo economica, ma anche di personalità, di costruzione della propria esistenza. Oggi una donna è più capace di dire “no, non ci sto più”, non sopporto più le vessazioni, le umiliazioni, le violenze psicologiche, le minacce. Non ha più paura. In questo le donne del Nord Europa sono sicuramente più avanti delle donne del Sud. Ma il processo è in cammino, ovunque nel mondo e non solo in Occidente. Questa nuova immagine di femminilità, autonoma e decisionista, spiazza l’uomo che sente di non avere più margini di manovra, per ridurre la sua compagna alla costrizione che prima era possibile. Una donna che sa ribellarsi, che sa assumersi le responsabilità di sé stessa, dei gli, del futuro, di fatto elimina la funzione dell’uomo. L’uomo semplicemente “non le serve più”, quello che poteva fare l’ha già fatto, ora può anche sparire. La storia d’amore con le sue illusioni fiabesche è tramontata. I gli sono nati e ora rappresentano più responsabilità da assumersi che sogni da realizzare. Questa condizione pone l’uomo in difficoltà verso la donna convivente ma soprattutto, non va dimenticato, lo pone in difficoltà con gli altri uomini: amici, colleghi, conoscenti. Agli occhi degli altri uomini lui si sente un perdente, un fallito, svergognato dalla “sua” donna. Quando sorge il conflitto con il “lui” che reclama i suoi poteri, tuttavia la donna è già oltre. Sono due esistenze che vivono su piani diversi senza alcuna possibilità di comunicazione. Lei ha già fatto le valigie o meglio quelle dell’uomo, affinché si tolga di mezzo. Forse è questa nuova gura femminile che scatena la malvagità del partner, ormai senza più potere diventa come una bestia ferita. Una scoperta difficilmente sopportabile, specialmente se l’uomo è di mezza età e pensa di non avere più altre possibilità di ricostruirsi una vita affettiva.

Una volta commesso l’abominevole atto, che riporta la moglie, la danzata o la ex nell’alveo del potere dell’uomo/padrone, il maschio si accorge di aver perso la funzione e il senso della sua esistenza. Lei gli ha gettato in faccia la sua inutile presenza. Lui l’ha uccisa. Ha distrutto per sempre e senza rimedio la storia d’amore, e con la storia ha ucciso l’oggetto del suo desiderio, ha ucciso i gli, la speranza, il futuro. La vergogna invade il suo essere. Forse più della paura di una vita distrutta, con la mente bloccata su quei secondi, su quell’atto ultimo, micidiale: l’omicidio. Il dolore deve essere tale da non consentire neanche l’ipotesi di poter ricominciare a vivere: meglio finirla. Il suicidio è l’unica risposta possibile al nulla che ti pervade, al senso di vuoto e di angoscia che si è impossessato della sua mente. La malvagità mangia sé stessa nell’indurti al suicidio. Altro non può fare, ora che ha preso il sopravvento sull’umanità.

Ho tentato una spiegazione delle motivazioni alla base del comportamento degli autori di femminicidi. Mi sono basato sui dati statistici che dimostrano che non è solo un senso di possesso a determinarli ma una serie di fattori concomitanti: la situazione sociale, il senso di emarginazione, che può venire da una crisi professionale, ma anche la crisi matrimoniale stessa, soprattutto il senso di impotenza latente dell’uomo a confronto con il senso di potenza che si avverte invece nella donna di oggi. Non so se questa è la strada giusta per capire, certamente il processo è avviato e sta a noi, uomini e donne di questa epoca, rifletterci e riflettere su cosa vogliamo fare delle nostre vite, lasciando il più possibile libere di autodeterminarsi le persone che diciamo di amare e, in ultimo, forse si tratta di avviare un processo per imparare ad amare gli altri e soprattutto ad amare sé stessi.

Il femminicidio? Un business fondato su una “emergenza” che tale non è. Parola di donna, scrive “Tempi”. La giornalista Annalisa Chirico, esperta di giustizia, conferma: la legge e il «fiorente mercato» nati intorno a questa parola d’ordine sono frutto di «un’autentica ossessione». Smentita dai dati del ministero dell’Interno. La giornalista Annalisa Chirico, militante radicale e autrice di libri sulla (mala)giustizia, riprende in esame in un articolo apparso nel nuovo numero di Panorama il «cancan politico-mediatico» cominciato qualche mese fa sul femminicidio. «Intorno a questa “emergenza” – ricorda – è divampata una martellante campagna mediatica, alla quale si è uniformata quasi tutta l’informazione», campagna che si è poi concretizzata in una legge dello Stato (seguita al frettoloso intervento del governo Letta avvenuto «in piena estate con decretazione d’urgenza») e soprattutto in «un fiorente mercato fatto di giornali, libri, spettacoli teatrali». Non si contano più gli eventi organizzati sul tema: «Accorati appelli, flash mob di scarpe e foulard rossi per “rompere il silenzio” contro la violenza di genere». Ovvio che apparentemente nessuno avesse nulla da obiettare all’operazione. «Del resto come si può essere a favore della violenza?», domanda retoricamente Chirico. Tuttavia, prosegue la cronista, basta osservare i numeri in maniera obiettiva «per rendersi conto che la presunta emergenza si è trasformata, appunto, in un’autentica ossessione». Ma «l’Italia non è un paese di maschi stupratori e assassini» e sono proprio i dati del ministero dell’Interno a dimostrarlo. Elenca Chirico: «Dai dati ufficiali apprendiamo che dal 2007 a oggi non c’è stata alcuna escalation né impennata, termini ampiamente abusati da politici e giornalisti. Nel 2007 i casi di “female assassination” sono stati 103, il picco si è raggiunto nel 2009 con 130 episodi; se ne sono registrati 115 nel 2010, 124 nel 2011, 111 nel 2012 e 115 nel 2013». È chiaro perciò che «le dimensioni del fenomeno su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti non lasciano prefigurare alcuna apocalisse», osserva la giornalista di Panorama. Anzi, «gli omicidi sono calati e nel 2013 hanno fatto registrare il tasso più basso degli ultimi 150 anni. Lo scorso anno si sono consumati 470 omicidi volontari e la quota totale di donne ammazzate, di cui i femminicidi sono un sottoinsieme, rappresenta poco più del 30 per cento. I maschi continuano a essere ammazzati assai più delle femmine, il rapporto è di sette a tre». Se ne faranno una ragione le «teologhe dell’apocalisse»?

Il Femminicidio è uno slogan? Si chiede Mario De Maglie su “Il Fatto Quotidiano”. Ho già avuto modo di esprimere alcune riflessioni sull’utilizzo del termine femminicidio nei post L’insostenibilie leggerezza del rapporto tra media e femminicidio e in “Femminicidio, la sostenibile pesantezza del termine. L’esistenza di donne vittime di uomini, in quanto donne, è una realtà, un fenomeno che però può assumere proporzioni e significati diversi, a seconda del luogo in cui lo si analizza (Ciudad Juarez, città messicana dove l’uccisione e la scomparsa di donne è all’ordine del giorno, ad esempio, non è l’Italia). Personalmente utilizzo con molta cautela questa espressione, oggi ancor più di ieri. Il termine ‘femminicidio’ richiama quello di ‘genocidio’, termine coniato dal giurista polacco Raphael Lemkin per definire la distruzione di un gruppo nazionale o etnico. Veniva creata una parola per racchiudere gli orrori di due delle più grandi stragi della storia recente ossia l’Olocausto e il genocidio armeno. Genocidio significa quindi negazione del diritto di un popolo o di un determinato gruppo umano a continuare a vivere. Una negazione da cui segue la repressione e l’uccisione. Il femminicidio non ha alla base il presupposto di una deliberata e chiara intenzione di eliminare il sesso femminile, sebbene innegabili siano i danni di una cultura maschilista e patriarcale e, in certi contesti, la violenza esercitata dagli uomini sulle donne abbia assunto forme aberranti. Parlando della nostra realtà attuale, in Italia, non possiamo pensare che la quantità di vittime donne sia irrilevante per poter arrivare alla definizione più conosciuta del termine. Nulla si deve togliere all’atto in sé, uccidere un essere umano, in questo caso una donna, deve ricevere una condanna unanime in una società civile, non è questo in discussione. Una disamina sul termine “femminicidio” può essere anche interessante, ma a cosa serve in termini di prevenzione e contrasto al fenomeno? Sono convinto sia più utile, in questo momento storico, osservare l’uso del termine e trarne delle serie perplessità. Il numero di donne uccise negli ultimi anni non è variato in modo sostanziale rispetto al passato, ma tutto questo sgomento e scandalo è sorto solo recentemente. A fare la differenza è l’attenzione dei media e delle campagne pubblicitarie, il cui interesse, troppo spesso, è volto a giocare con l’emotività delle persone annullandone la lucidità. Cos’è questo femminicidio o cosa sta diventando se non uno slogan o un marchio in piena concordanza con il modello consumistico? E’ un prodotto da vendere e come tale viene trattato, ad esempio con la produzione e la diffusione di magliette con scritte come “Fermiamo il femminicidio” o altri slogan simili. Chi gira con la sua bella maglietta, con il suo bello slogan, con il suo bel gadget poi può tornare a casa certo di aver dato il suo contributo contro la violenza. Chi mai direbbe esplicitamente di essere a favore del maltrattamento e dell’uccisione delle donne? Sentiamo il bisogno di esplicitare scrivendolo quanto siamo diversi dai cattivi. Noi siamo i buoni: si deve sapere e chi ci sta intorno lo deve riconoscere. L’uccisione di una donna esce inevitabilmente fuori dalle mura domestiche e quindi viene scoperta con molta più facilità, mentre la violenza sulle donne è troppo spesso condannata a rimanere intrappolata in quelle stesse mura e quindi a rimanervi nascosta. Un problema serio, drammatico e antico che riguarda i rapporti tra uomini e donne sta diventando, se non lo è già diventato, un prodotto a uso e consumo del modello capitalistico imperante. In questo modo, togliamo la dignità a tutte le donne che hanno subito e stanno subendo violenze e anche a quelle che sono state uccise. Anzi, rinnoviamo sui di loro la violenza, le uccidiamo di nuovo, se tutto si riduce allo slogan. Non ci sono motti, con o senza sorrisi, che possano rendere l’idea della violenza subita da una donna, da un uomo, o da un qualsiasi essere umano. E non ci sono slogan che possano far sentire sulla propria pelle la tragedia vissuta da un’altra persona. Inoltre, tra le conseguenze dell’uso indiscriminato del termine “femminicidio”, vedo uomini che si allontanano ogni volta che sentono parlare del fenomeno identificandolo, in toto, con la violenza sulle donne. Questo fornisce loro la scusa pronta per non mettere in discussione le disparità di potere quotidiane che possono avvenire ed essere legate al genere. Questi uomini rifiutano di essere identificati con i “violenti” o “maltrattanti” che i mass media continuano a definire “da curare” e “da guarire”, illudendo chi ascolta di non essere responsabili dei comportamenti e del loro cambiamento. Occuparsi di femminicidio è ormai una moda, ognuno vuol dire la sua e spesso basta troppo poco perché possa farlo, nel migliore dei casi con buone intenzioni, ma tanta ingenuità, nel peggiore con l’obiettivo di avere una visibilità che altrimenti non si avrebbe. Che la si voglia criticare o meno, non sono questi i motivi per cui questa parola è nata.

Femminicidio? Ma se la vittima è un nonno nessuno ci bada. Mi indigna il clamore suscitato negli ultimi tempi dai cosiddetti femminicidi. Ma chiunque subisca violenza è meritevole di pietà e di protezione, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Premessa per placare le probabili ire dei sacerdoti del politicamente corretto. Stimo le donne quanto gli uomini, se a mio giudizio meritano. Talvolta mi è capitato di amare una signora, ma non ho mai amato un signore (e so che questo mi mette subito in cattiva luce: è un tributo che pago volentieri alla sincerità). Ciò detto, mi indigna il clamore suscitato negli ultimi tempi dai cosiddetti femminicidi. Leggendo i giornali che se ne occupano, come fosse un fenomeno sociale devastante, si ha l'impressione che gli italiani siano dediti per orrenda vocazione allo sterminio organizzato di mogli, fidanzate, amanti fisse e avventizie. Impressione che diventa certezza dopo aver seguito, tra uno sbadiglio e un altro, i talk show dedicati al tema. Tutti ci lasciamo influenzare dai media, e dalle loro campagne, cosicché formiamo le nostre opinioni non tanto osservando la realtà, bensì bevendo la descrizione che ne fanno - pur ignorandola - i giornalisti, compreso me. Si dà il caso che nell'anno in corso, 2013, siano fin qui state uccise 128 donne. Il dato non lo fornisco io, ma lo ricopio da la Repubblica, il quotidiano considerato la continuazione del Vangelo secondo Eugenio, ultimamente impegnato a colloquiare con Papa Bergoglio, avendo cessato di farlo direttamente con Dio, in cui non crede ma al quale dà del tu come se fosse suo cognato. Allora, 128 donne massacrate sono in assoluto troppe, ma relativamente ai 60 milioni di cittadini italiani, statisticamente parlando, sono pochissime. Non costituiscono motivo di allarme. Per andare giù piatti, se questi sono i numeri delle femmine vittime dei maschi, siamo nella media continentale. In effetti l'Europa non ci ha ancora multati perché accoppiamo più donne di quanto previsto da Bruxelles, notoriamente severa con noi. Va da sé che siamo contrari alla violenza, ma lo siamo sia che essa venga esercitata su quello che in altra epoca era definito sesso debole, sia che venga esercitata sugli uomini, sui vecchi e sui bambini. Chiunque la subisca è meritevole di pietà e di protezione. Di norma i prepotenti si accaniscono sugli esseri più deboli. E ad essere deboli non sono soltanto le ragazze e le ex ragazze. Tanto per fare un esempio, segnaliamo che, in pratica ogni dì, leggiamo cronache da brivido che narrano di pensionati rapinati in casa, malmenati, spesso ammazzati con raccapricciante crudeltà. Che dire poi degli anziani ricoverati negli ospizi (molti dei quali al centro di inchieste giudiziarie) i quali sono picchiati se non addirittura seviziati da infermieri privi di scrupoli? Non possiamo sorvolare sui bambini. Quanti sono quelli che nelle famiglie vengono maltrattati all'insaputa delle competenti autorità? Alcuni giorni fa un uomo ha impiccato due figli piccoli, poi si è tolto la vita, senza che nessun giornale iperdemocratico e progressista si sia stracciato le vesti. Episodi del genere sono all'ordine del giorno. Ma chi ci bada? È la moda, bellezza. Adesso è in auge il femminicidio. E giù paginate per dire che gli uomini odiano le donne. Se invece il nonno (o la nonna) crepa per le percosse della badante (magari extracomunitaria) chissenefrega. C'est la vie. Una breve a pagina 18 e via andare.

Facci: il "femminicidio è moda. C'è già chi ci vuole far soldi. In Paesi in cui la parità dei sessi è acquisita muoiono più donne che qui, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Quando le pazze del «femminicidio» scopriranno la verità, un giorno, questa moda - perché è una moda - sarà passata da un pezzo e il risveglio sarà amarissimo. Perché scopriranno, paradossalmente, che più questo Paese diverrà «civile» e più aumenteranno gli omicidi di donne: non il contrario. Capiranno, quel giorno, perché certi paesi evoluti come l’Austria e la Finlandia - ne citiamo due in cui la parità uomo-donna è palesemente superiore - hanno tassi di «femminicidio» tre volte superiori ai nostri. Comprenderanno, cioè, la verità innominabile: che più un paese è evoluto - e più la parità è pienamente raggiunta - e più gli omicidi tra uomini e donne tenderanno a equivalersi: non il contrario. Anche perché c’è un dato che forse non è chiaro a tutti: in Italia si uccidono meno donne rispetto a tutto l’Occidente, per cui inventarsi improvvisamente che il femminicidio sia una «vera emergenza sociale» suona quantomeno come falso. I dati sono i dati:  Istat, Onu e ministero dell’Interno dicono che il femminicidio è in calo, dunque parlare di «escalation», come fa anche la presidente della Camera Laura Boldrini, è sbagliato e punto. Quello che i dati non dicono, ma che sappiamo, è che l’Italia non brilla per emancipazione femminile: col risultato che le donne le ammazzano di meno anche per questo, perché contano meno, sicché, se le ammazzano, quando le ammazzano, spesso lo fanno specificamente perché sono donne, rapprese cioè in una visione femminile arcaica. Possiamo farci qualcosa? Possiamo o dobbiamo fare delle campagne di sensibilizzazione eccetera? Ma certo che possiamo e dobbiamo, anzi, siano benemerite. Va bene la legge sullo stalking del 2009, vanno bene le giornate contro la violenza sulle donne (se proprio piacciono) e va bene tutto, anche abolire Miss Italia, anche tuonare contro certi spot molto «latini» in cui emancipazione significa che le casalinghe lavano i pavimenti coi tacchi a spillo. Vanno bene persino le sette-pagine-sette che Repubblica ha dedicato all’argomento, ieri. Purché sia chiaro che, per una volta, il problema è davvero un altro, è davvero più complesso, e che la soluzione del problema femminicidio - termine che resta  fuorviante - sarà sempre vagone e non locomotiva, sarà sempre a strascico di un’evoluzione complessiva della società, sarà sempre la declinazione di una disparità tra generi che in Italia persiste più che altrove: è impensabile, dunque, trasformarla in una battaglia separata, che viaggi per conto suo, soprattutto ridondante autentiche e pericolose sciocchezze. Ci vuole lavoro ma anche tempo. Ieri, in un’intervista alla Stampa, Laura Boldrini ha detto che alcuni spot sono irreali: «In quale famiglie l’uomo torna a casa, si butta sul divano e aspetta di essere servito a tavola?». In moltissime, dottoressa Boldrini. «Perché usare il corpo di una donna», si è chiesta ancora, «per promuovere computer o mobili?». Perché funzionano, dottoressa Boldrini: il marketing pubblicitario soppesa le proprie campagne con attenzione maniacale, e smetteranno di farle quando non funzioneranno più, e non funzioneranno più quando il Paese sarà definitivamente cambiato: ci stiamo lavorando, ci sta lavorando anche lei, ma non accade dall’oggi al domani. Quello che non deve accadere mai, piuttosto, è che il «femminicidio» possa diventare un’aggravante dell’omicidio: c’è chi lo chiede. Altri hanno invocato che divenisse addirittura un reato a parte, introducendo una discriminazione di genere che peraltro è contro la Costituzione. Ieri Repubblica diceva che «i femminicidi costano 17 miliardi all’anno alla comunità»: ma che vuol dire? E gli altri omicidi? Lunedì c’è questa giornata contro la violenza, sarà per questo, ma i giornali di questi giorni sono scatenati. Un’associazione veronese si è costituita parte civile nel processo per l’omicidio di una donna, Lucia Bellucci: «Ogni femminicidio», hanno dichiarato, «non è fatto privato, ma fatto politico che offende non solo il diritto ad esistere della singola donna, ma di tutte le donne». Traduzione: ci sono delle donne che vogliono dei soldi perché hanno ucciso un’altra donna, anche se manco la conoscevano. L’omicidio di un uomo è meno grave, perché non è politico. Gli uomini ammazzati sono più del doppio delle donne (il rapporto è 7 a 3) ma almeno sono emancipati. Battutine inutili? Mica tanto, perché la legge sul femminicidio, appena approvata, non fa ridere per niente, e - approvata in fretta e furia, forse per ansia mediatica - contiene delle norme e delle aggravanti che paiono perlomeno discutibili. Discutibilissima, per esempio, è  l’irrevocabilità delle denunce: una volta fatte non si può più tornare indietro, quindi addio mediazioni, ripensamenti e possibili ravvedimenti; e conoscendo i livelli di conflittualità a cui può arrivare una coppia - laddove ad accuse vere se ne mischiano spesso di false, tanto per fare mucchio - il rischio di ingiustizie oggettivamente c’è. Così come un altro rischio, da Stato di Polizia, è quello per cui le forze dell’ordine possano disporre l’allontanamento dalla famiglia di un uomo (la legge parla solo di uomini) anche senza il vaglio di un giudice. Poi il decreto prevede due aggravanti in caso di violenza sessuale, una delle quali è «l’essere legato da relazione affettiva» con la donna aggredita: per esempio esserne il marito, anche separato o divorziato. In parole povere, la pur biasimevole violenza perpetrata da un marito, o ex marito, è doppiamente grave rispetto a uno stupro fatto per strada da uno sconosciuto: quest’ultimo rischia 6 anni, il marito 12. E nelle mani dei giudici abbiamo messo anche questo: stabilire le differenze tra affetto, desiderio, un misto tra i due, possessività, oppure follia, raptus, capacità d’intendere o di volere eccetera. Oltre ogni ragionevole dubbio.

Quel che non è femminicidio. Al di là del Buco. Verso la fine della guerra fredda (e pure calda) tra i sessi, scrive “Abbattoimuri”. Una femminista che è e resta femminista, che ha disertato le fila di quel che in Italia non condivide, e che è andata incontro alle fila nemiche perché curiosa di vedere se oltre il buco ci fosse qualcosa di misterioso, di strano, di interessante, di boh, qualcosa insomma…Diario di quel che c’è al di qua e al di là del buco con puntate didattico/pedagogiche su femministese e affini. Una cosa comunque la so: una volta fatto il buco… c’è vento! Entro la fine dell’anno con Bollettino di Guerra faremo una sintesi, con relativo elenco commentato, dei delitti che nel 2012 sono stati attribuiti alla categoria “Femminicidio”. E’ stato un anno pessimo, in realtà, certo anche per i delitti che è sempre bene non vi siano mai e che non hanno alcuna giustificazione, ma anche perché mai come quest’anno il tema è diventato oggetto di facili speculazioni politiche e carrieristiche che di conseguenza hanno svuotato di contenuto un termine che segnalava un fenomeno per farlo diventare un costrutto giuridico teso a realizzare una discriminazione. La stessa discriminazione che vedete perfettamente realizzata in basso. Analizzerò – di nuovo – le proposte di legge presentate sul “Femminicidio”. Terribili, rappresentative di una vera e propria deriva autoritaria, come quello di Bongiorno/Carfagna che stabilisce che ammazzare una donna sia più grave che ammazzare una qualunque altra persona, allungando i termini della carcerazione addirittura fino all’ergastolo, proposta bocciata e rispedita al mittente dalle stesse associazioni che si occupano di violenza sulle donne e che sanno perfettamente che la questione la risolvi con la prevenzione e non con la repressione. E prevenire significa analizzare il problema in ogni sua parte e significa anche smettere di creare allarmismo sociale per ricavarne una shock economy al fine di ottenere finanziamenti mirati a progetti che non sono quasi mai partecipati dal basso, i cui bilanci non sono trasparenti e che rappresentano una modalità assistenziale di riparare ad un problema che trova le sue concause nella gestione politica, culturale, sociale e soprattutto economica di uno Stato, del welfare, con divisione e attribuzione di ruoli tra uomini e donne che viene decisa dall’alto e non dal basso. Prevenire significa smettere anche di istigare al linciaggio, di fare diventare il tema di interesse delle persone più fanatiche che si trovino in giro che dalle ronde, reali e virtuali, al “salviamo le nostre donne”, al difendiamo la dignità delle donne e copriamo loro le cosce, allo strappiamo le palle a tutti gli uomini in via preventiva, riempiono oramai articoli, scritti, blog, social network, pagine facebook e ti imporrrebbero medicalizzazione e istituzionalizzazione del problema anche se tu non lo vuoi, al di là delle stesse scelte delle donne che si dice di voler difendere. Prevenire significa considerare il fenomeno in ogni sua componente e prevenire in senso antiautoritario significa fare la scelta certamente più complicata, che non ti permette di mettere in circolo cifre a casaccio così come fanno in tanti/e, ché non ci si può accapigliare sul fatto che esista o non esista il termine femminicidio, sconvolgendoci se c’è chi lo nega, come fosse un nuovo dogma, e mistificandone il contenuto per dargli maggiore consistenza e gravità. Non si può censurare e non si può neppure evitare di ragionarne in senso laico alla presenza di persone che mietono stigmi negativi, criminalizzazioni e galere virtuali per chiunque ponga un dubbio, ché di mestiere fanno i recintieri, recintiferi, piantano paletti, finanche nel cuore o nel culo a volte per stabilire i termini del discorso e definirne i confini dimodoché chiunque osi anche solo ragionarne un po’ più laicamente viene immediatamente etichettata come complice di criminali. Come si può chiamare chi ammazza il pensiero laico? Laicicida? Di fatto la discussione in Italia sta così: c’è un gruppo che ha un atteggiamento medioevale, con i propri tribunali dell’inquisizione, e che stabilisce la giustezza dei termini e degli argomenti da usare quando si parla di violenza sulle donne. Un gruppo apparentato con la peggiore estrema destra anche quando è di sinistra, giustizialista e forcaiola, ché non pensa, non ragiona, non analizza, non ammette dubbi e che non puoi neppure sussurrargli che le donne sono violente tanto quanto e che non c’è una divisione tra i generi stereotipata ché gli uomini non sono tutte merde e le donne non sono tutte sante, ché i delitti invece che dividerli per genere bisognerebbe dividerli per generi e ragioni culturali trasversali a tutti/e, perché i generi sono più di due e fare una distinzione tra maschi e femmine oramai è veramente anacronistico. Poi c’è chi se ne occupa ma assume un atteggiamento laico e vuole risolvere il problema prima che creare confini logici, discorsivi e teorici, perché tra la teoria e la pratica c’è sempre un mare di problemi da vedere quando si parla delle relazioni e le citazioni non aiutano una donna che è in difficoltà. L’aiuta la comprensione del suo sentire, per quel che è, e l’aiuta capire di che male è fatto il male che ha caratterizzato la scelta del suo assassino. Non l’aiuta la santificazione ma l’aiuta la fine della speculazione da cui traggono vantaggio per soldi, carriere e micropopolarità persone che della violenza sulle donne non sanno nulla o quel che sanno è una opinione diventata tesi priva di analisi calata nel concreto e priva di ascolto per le diversità. Conosco persone oneste, seriamente motivate e che fanno un gran lavoro quando si parla di violenza sulle donne ma queste persone spesso non fanno caciara su facebook e non si sconvolgerebbero per niente quando sottolineo il fatto che in questi giorni sono avvenuti due delitti. Un fratello ha ammazzato una sorella e Repubblica lo inserisce tra i femminicidi e una sorella ha ammazzato suo fratello e Repubblica lo inserisce in pagina locale tra i delitti per futili motivi. Entrambi i delitti, probabilmente, sono motivati da questioni di vile denaro o screzi familiari. Femminicidio non può voler dire uccisione della femmina perché se così fosse sarebbe ridicolo. Dunque vorrei capire perché Repubblica fa questa scelta e perché nessuna se ne lamenta. Qualcuna può spiegarmene la ragione? Perché so bene che il termine Femminicidio ha una sua origine e motivazione ma se qualcunasi permette di fare speculazioni irresponsabili e a qualcun altra viene il dubbio che sia calato sulle realtà a mo’ di colonizzazione epistemologica ad espressione dei fenomeni è anche per errori madornali come questi e chi non li sottolinea, mi spiace dirlo, ma non è credibile e sembra proprio che gonfi cifre non si capisce per quale ragione. Allora mentre il mondo intero si affatica a dire ciò che è Femminicidio facciamo che da ora in poi a me piacerà dire quel che Femminicidio non è. Perché, senza alcun dubbio, giacché c’è chi su questa cosa sta pensando anche di farsi campagna elettorale, sulla pelle delle donne uccise, e su questa cosa si rifà la faccia e ripulisce reputazioni, come certe ministre che tolgono lavoro anche alle donne e poi firmano vuote convenzioni che parlano di donne, giacché esiste chi al termine Femminicidio vorrebbe attribuire un’aggravante, che è più carcere, più pena, più stigmatizzazione in negativo, molto di più che per chi uccide qualunque altro essere umano, allora io sento la responsabilità di dover togliere casi di cronaca dalle grinfie di chi li brandisce come esempi per ricavarne la necessità di task force, vittimizzazione spropositata a carico delle donne e criminalizzazione a carico degli uomini. Perché essere femministe non vuol dire essere dalla parte delle donne anche quando fanno o dicono stronzate. Essere femministe e libertarie e antiautoritarie vuol dire anche non permettere che sulla pelle delle donne si realizzino e si diffondano simili mistificazioni che sono l’anticamera di altre discriminazioni, di autoritarismi ed ingiustizie.

Minori: oltre il femminicidio c’è anche il “Bambinicidio”. Più di 200 tra bambini e neonati uccisi in Italia, scrive “Impronta L’Aquila”. Non c’è solo il femminicidio, ma anche il “Bambinicidio”. Un termine che vogliamo utilizzare per indicare la strage dei bambini perpetrata spesso nel silenzio. Con 243 tra bambini e neonati uccisi – da adulti, spesso padri e madri – in Italia negli ultimi 10 anni. A ricordarlo è l’Associazione Meter Onlus di don Fortunato Di Noto con un comunicato diffuso oggi, rilanciando questo triste fenomeno alla luce dell’ultimo bambino di 11 anni ucciso dalla madre in provincia di Cosenza a Rovito e che già Meter negli scorsi anni ha fortemente denunciato. Dalle cronache non solo nazionali, ma soprattutto locali emerge un dato agghiacciante: emergerebbe che in Italia una madre o un padre ogni settimana uccidono o tentano di uccidere 3/4 figli con una media di circa (170 bambini vittime in un anno). Ovviamente sono numeri desunti dai fatti che vengono riportati dalla stampa, comunque inquietanti e da non sottovalutare. E’ in quantificabile dato che non esiste una banca dati sul fenomeno del bambinicidio, relegato soltanto a questioni di controversie familiari. In Italia accanto ai 113 bambini uccisi dai genitori (2004-2008, Eures) impressionano i numeri dell’infanticidio; nell’ultimo decennio 130 sono state le minorenni (bambine) uccise in Italia dai genitori. Se poi facciamo rientrare le violenze e gli abusi sui minori nel mondo i numeri aprono scenari drammatici: parliamo di circa 175 milioni di minori vittime di abusi sessuali. Sono stati segnalati in tutto il mondo da Meter negli ultimi 10 anni più di un milione e 500mila di siti a contenuto pedofilo e pedopornografico; parliamo di più di un milione di bambini coinvolti in abusi sessuali con adulti, di età tra i zero anni (infantofilia) e 12 anni. In media negli ospedali italiani 5/7 bambini vengono portati al pronto soccorso per vari tipi di abusi e violenze, una percentuale che non può lasciarci indifferente.

Quelli che, le donne sono violente come gli uomini. Quelli che minimizzano il femminicidio, scrive Mazzetta su “Giornalettismo”. Alcuni veri uomini e alcune donne curiose negano la strage delle donne, che invece non sarebbero meno assassine degli uomini. I femminicidi sono in calo e allora perché parlarne proprio ora? E com’è che non si parla della violenza femminile sugli uomini? E lo sapete che le donne violente sono tantissime e gli uomini loro vittime un numero sterminato? Se non lo sapevate, adesso c’è qualcuno che prova a raccontarvelo. L’anno scorso la palma di nemico delle donne l’aveva conquistata a mani basse Camillo Langone con un paio delle sue «preghiere» (così chiama i suoi pensierini) più agghiaccianti, incluso uno nel quale s’augurava una pena mite per l’assassino di una prostituta perché aveva «perso la testa», quest’anno invece la migliore candidata sembra la giovane Glenda Mancini. Subito inserita tra le beniamine di alcune associazioni maschili che si battono a favore degli uomini «vittime» di leggi che favoriscono le donne in caso di divorzio e d’affido e che spendono molte energie nel dipingere l’immagine di un’umanità al maschie vittima di feroci arpie. Arpie che esisteranno pure, ma che se non spiccano nelle statistiche è perché in effetti la violenza domestica di norma funziona con l’uomo che fa violenza sulla donna, qualche caso di segno contrario non può negare o sminuire il fenomeno, ma per certi maschietti evidentemente è propaganda lecita. Ecco allora che «L’uomo vittima di una donna carnefice», opera prima di Glenda Mancini edita da Book Sprint (un editore a pagamento), sta già riscuotendo un certo successo di nicchia ed è spesso esibito sui social network dai portatori dell’orgoglio maschio. Dice infatti l’autrice, ventiquattrenne neolaureata in Scienze dell’investigazione a L’Aquila: Lo scopo del libro é, infatti, quello di dimostrare che la violenza di genere, erroneamente da quanto spesso creduto e riportato anche dai mezzi di comunicazione, non vede sempre l’uomo nelle vesti di carnefice e la donna in quelle di vittima, ma accade frequentemente anche il contrario. «Paradossalmente», spiega l’autrice, «i dati dimostrano che i casi di violenza domestica ai danni del genere maschile sono superiori a quelli femminile, con la differenza però nel grado di ferimento che l’uomo riesce a infliggere alla donna». All’origine del mancato clamore che si crea intorno a questi casi di violenza che vedono gli uomini essere vittime delle loro aguzzine, anche un maggiore imbarazzo da parte delle persone di sesso maschile che non esternano i propri drammi, spesso familiari, per paura del giudizio del mondo esterno. «Molti di loro hanno subito una doppia umiliazione», aggiunge l’aspirante criminologa, «oltre a quella da parte delle donne, anche quella di aver trovato porte chiuse o risate in faccia da parte delle forze dell’ordine o delle persone con le quali hanno provato a confidarsi. A causa della nostra cultura maschilista, infatti, non è semplice per un uomo ammettere una simile debolezza e ad aggravare il tutto c’è anche che il 46 per cento delle querele vengono archiviate». Che gli uomini denuncino poco le violenze subite dalle donne,  può essere, ma il fatto è che è storicamente appurato che proprio le donne denunciano una percentuale minima delle violenze e persino degli stupri. Ma girando attorno a Mancini si finisce per intuire che la sua è una scelta di campo aprioristica e che tutto il suo agire si risolve nel cercare conferme a una tesi che ha già trovato un pubblico di riferimento, stanco del poter lamentare solo la terribile violenza psicologica come arma femminile in presenza di dati incontrovertibili per quella fisica. Dati che però Mancini ha trovato il modo di aggirare. Curiosa è infatti la metodologia impiegata nella ricerca condotta in prima persona da Mancini: «Così, non avendo competenze sociologiche, ho trovato un test già fatto e l’ho adattato al maschile, aggiungendo alcune domande che mi interessavano, e l’ho pubblicato su internet». Il questionario, a sorpresa della stessa promotrice, ottiene un ottimo riscontro arrivando a contare 696 anonimi partecipanti in un solo mese. Interesse che, con il sostegno di Fabio Nestola, presidente della Fondazione italiana per la bigenitorialitá, e di Paola Tomarelli presidente del centro antiviolenza uomo Dalla parte di Giasone, spingono la neolaureata a trasformare la sua tesi di laurea in un libro, pubblicato il 23 ottobre di quest’anno». In pratica quindi Mancini ha raccolto una serie di risposte a un test «adattato» e messo online, qualche centinaio di risposte «anonime» e senza alcun controllo sul campione sondato, che in teoria potrebbe essere anche stato costruito da pochissimi furboni, ma che già per come era stato concepito poteva attirare solo l’attenzione di uomini che hanno subito violenza o che hanno detto di averla subita, non stupisce l’alta densità di risposte positive, a prescindere dai dubbi sulla qualità dell’adattamento. E non stupisce che Mancini abbia a questo punto dismesso la strage di donne senza paragone maschile, come conseguenza del fatto che a parità di violenze le donne sono più fragili sotto i colpi degli uomini e meno forti nel colpirli. Normale quindi che muoiano più donne. Se poi si passa alla pagina Facebook di Glenda Mancini, ecco che la sensazione che proceda un po’ troppo selettiva nel suo cammino si rafforza decisamente. C’è persino riportata una notizia dal titolo «CASALINGHE FANNO SESSO CON RAGAZZINI 14ENNI: ARRESTATE. “LI ADESCAVANO SU FACEBOOK”» per chi non avesse chiaro dove l’autrice vuole andare a parare. Il rigore scientifico della novella criminologa spicca anche nella scelta di un post sul blog del Centro Documentazione Violenza Donne, che a dispetto del nome si propone di tenere conto della violenza che ha come protagonista le donne, «Uxoricidi – Centro Documentazione Violenza Donne – la Violenza sulle Donne è solo una parte del problema.» L’altra parte del problema sarebbe la violenza da parte delle donne, che è un po’ come dire che l’altra parte della persecuzione di ebrei, neri e zingari è che anche tra loro ci sono assassini. «L’obiettivo del blog è quello di costituire un centro di documentazione in grado di offrire stimoli e spunti di riflessione a donne e uomini liberi da concetti precostituiti. Nel condannare fermamente la violenza maschile, la collettività non può esimersi dal considerare il lato oscuro della Luna, quegli aspetti della violenza femminile costantemente ed inspiegabilmente sottaciuti». Il post indicato da Mancini con la commovente motivazione «Approfittiamo di questo giorno per ricordare anche queste vittime di violenza domestica, almeno ogni tanto», in realtà è una scombinata collezione di articoli di cronaca cominciata nel 2006 e che spazia per qualche decina di casi tra il 1973 e il 2013 e da Novosibirsk a Buenos Aires. Casi che hanno come unico comun denominatore la donna assassina, anche se poi nell’elenco compaiono anche casi abusivi nei quali gli assassini sono un uomo e una donna («Donna e amante uccidono il convivente di lei» o «Como: Ucciso imprenditore, arrestati madre e figlio»). Una robaccia malfatta e che non spiega o dimostra nulla, raccolta su un sito che si autodefinisce pomposamente “centro di documentazione” e che non fa mistero di aggrapparsi a qualsiasi cosa, pur di sostenere l’immagine di una donna assassina come strumento per sminuire la strage di donne, che poi se ci si affaccia all’estero come fa la lista, si trovano statistiche ancora più agghiaccianti. Probabile che Mancini trovi un posto al sole a breve, Costanza Miriano non basta a soddisfare la domanda che indubbiamente esise per storie del genere e Langone non è certo un’alternativa, così come poco servono le eruzioni estemporanee di qualche campione di misoginia isolato. Il suo libro ha già fato notizia ed è stato adottato come testo fondamentale da diversi veri uomini che se lo passano come una preziosa rivelazione, persino post come il commosso ricordo della violenza femminile e la buffa lista in allegato sono esibiti in giro sui social network come «prova» del fatto che il rumore sul femminicidio è un inganno e che così le donne assassine se la passano liscia a spese dei poveri uomini. Una narrazione conveniente, che anche se non potrà sovvertire la realtà diventerà un pezzettino di quella realtà alternativa nella quale uomini da poco si dipingono come vittime per non dover fare i conti con le proprie responsabilità.

L'Aquila, nasce il centro che difende gli uomini dalle donne violente, scrive “Libero Quotidiano”. Non sono solo le donne a subire violenze e maltrattamenti da parte degli uomini, ma accade spesso anche il contrario. Lo rivela uno studio dell'Università di Siena, che è stato rivolto a un campione di 1.058 uomini in un età compresa tra i 18 e i 70 anni. I dati parlano chiaro: la maggior parte degli intervistati ha denunciato violenze psicologiche o fisiche da parte del gentil sesso. Il centro - Per questo l’Associazione per i Diritti del Cittadino dell’Aquila ha annunciato l’apertura di un centro antiviolenza che aiuterà le vittime di entrambi i sessi, non solo le donne. "È emerso - spiega la coordinatrice del progetto, la dottoressa Sara Maddalena Cocuzzi - che tutti gli uomini ai quali è stato sottoposto il sondaggio abbiano dichiarato di aver vissuto almeno una volta nella vita un episodio di violenza da parte di una partner. Si tratta della prima indagine conoscitiva sul fenomeno realizzata in Italia, mentre in altri paesi il tema è oggetto di studi periodici". Vergogna - "Il motivo del mancato studio - continua la dottoressa - è da ricercare nella difficoltà dell’uomo italiano ad ammettere di aver subito violenza e di conseguenza a denunciarla. Difficoltà derivante dal non voler apparire agli occhi della società come vittima e anche dal fatto che spesso tali accadimenti si verificano all'interno delle mura domestiche e quindi ad opera di persone legate da vincoli affettivo/familiari. Di conseguenza, per anni, sia le istituzioni che le realtà scientifiche hanno ignorato il fenomeno."

Picchia e imprigiona il marito, poi riceve a casa gli amanti, scrive ancora “Libero Quotidiano”. Violenza familiare, questa volta al contrario però. Succede a Bussolengo, nel veronese. La moglie picchiava il marito, lo chiudeva in cantina lasciandolo anche senza mangiare e riceveva gli amanti. Una moglie che ha fatto passare cinque anni di inferno al marito. Dopo l'ennesima angheria, l'uomo si è deciso a denunciare la moglie, che adesso è indagata e in attesa di una perizia psichiatrica. Lei è una donna di 44 anni che secondo l'accusa dominava completamente il marito, al quale era precluso anche l'accesso al conto corrente. Il rapporto di coppia avrebbe cominciato a deteriorarsi cinque anni fa con le prime liti, passate rapidamente dalle parole ai fatti: secondo l'accusa, infatti, la donna avrebbe cominciato a picchiare il marito con calci e pugni e se osava ribellarsi lo richiudeva in cantina negandogli anche pranzo e cena. Fino all'ultima aggressione con un manico di coltello, da cui il marito è uscito con ematomi ed escoriazioni. Gli inquirenti avrebbero poi scoperto che la moglie era arrivata a imporre al marito la presenza di altri uomini, suoi amanti. Ora è indagata per maltrattamenti, ma il Gip Laura Donati ha disposto la perizia psichiatrica per accertare se la donna è capace di intendere e volere.

STUPRI, STOLKING E FEMMINICIDI. LA VIOLENZA SULLE DONNE.

Violenza contro le donne. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La violenza contro le donne è la violenza perpetrata contro le donne basata sul genere, ed è ritenuta una violazione dei diritti umani. Termine usato molto spesso per definire la violenza contro le donne è violenza di genere. La violenza di genere riguarda donne e bambine, ma coinvolge anche minorenni come ad esempio nel caso della violenza assistita. Questa terminologia è largamente usata sia a livello istituzionale che da persone e associazioni di donne che operano nel settore. In questi ultimi anni la violenza sulle donne è aumentata ed il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. In primo luogo si osserva che «Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza su donne e minori significa mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno in quanto […] manifestazione di un rapporto tra uomini e donne storicamente diseguali che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne.» e quindi come «[…] uno dei meccanismi sociali decisivi che costringono le donne a una posizione subordinata agli uomini.» La "Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne" del 1993[8] all'art.1, descrive la violenza contro le donne come: «Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata.» La violenza alle donne solo da pochi anni è diventato tema e dibattito pubblico, mancano politiche in contrasto alla violenza alle donne, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione. Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali, e a tutti i ceti economici. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita. E il rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici: vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro o di studio. Da diverse ricerche emerge che la violenza di genere si esprime su donne e minori in vari modi ed in tutti i paesi del mondo. Esiste la violenza domestica esercitata soprattutto nell'ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atteggiamenti persecutori, percosse, abusi sessuali, delitti d'onore, uxoricidi passionali o premeditati. I bambini, gli adolescenti, ma in primo luogo le bambine e le ragazze adolescenti sono sottoposte all'incesto. Le donne sono esposte nei luoghi pubblici e sul posto di lavoro a molestie ed abusi sessuali, a stupri e a ricatti sessuali. In particolare verso le lesbiche vengono praticati i cosiddetti "stupri correttivi". In molti paesi le ragazze giovani sono vittime di matrimoni coatti, matrimoni riparatori e/o costrette alla schiavitù sessuale, mentre altre vengono indotte alla prostituzione forzata e/o sono vittime di tratta. Altre forme di violenza sono le mutilazioni genitali femminili o altri tipi di mutilazioni come in un recente passato le fasciature dei piedi, lo stiramento del seno, le cosiddette "dowry death" (morte a causa della dote), l'uso dell'acido per sfigurare, lo stupro di guerra ed etnico. Va citato il femminicidio che in alcuni paesi, come in India e in Cina, si concretizza nell'aborto selettivo (le donne vengono indotte a partorire solo figli maschi, perché più riconosciuti e accettati socialmente) mentre in altri addirittura nell'uccisione sistematica di donne adulte. Esistono infine violenze relative alla riproduzione (aborto forzato, sterilizzazione forzata, contraccezione negata, gravidanza forzata. Nell'ambito del World report on violence and health l'OMS (Organizzazione mondiale della sanità), esaminando esclusivamente la violenza da parte del partner, ha pubblicato il seguente elenco di possibili conseguenze sulla salute delle donne: Fisiche; Sessuali e riproduttive; Psicologiche e comportamentali; Conseguenze mortali; Lesioni addominali; Lividi e frustate; Sindromi da dolore cronico; Disabilità; Fibromialgie; Fratture; Disturbi gastrointestinali; Sindrome dell'intestino irritabile; Lacerazioni e abrasioni; Danni oculari; Funzione fisica ridotta; Disturbi ginecologici; Sterilità; Malattia infiammatoria pelvica; Complicazioni della gravidanza/aborto spontaneo; Disfunzioni sessuali; Malattie a trasmissione sessuale, compreso HIV/AIDS; Aborto in condizioni di rischio; Gravidanze indesiderate; Abuso di alcool e droghe; Depressione e ansia; Disturbi dell'alimentazione e del sonno; Sensi di vergogna e di colpa; Fobie e attacchi di panico; Inattività fisica; Scarsa autostima; Disturbo da stress post-traumatico; Disturbi psicosomatici; Fumo; Comportamento suicida e autolesionista; Comportamenti sessuali a rischio; Mortalità legata all'AIDS; Mortalità materna; Omicidio; Suicidio. A partire dagli anni settanta del XX secolo il movimento delle donne e il femminismo in Occidente hanno iniziato a mobilitarsi contro la violenza di genere, sia per quanto riguarda lo stupro sia per quanto riguarda il maltrattamento e la violenza domestica. Il movimento ha messo in discussione la famiglia patriarcale e il ruolo dell'uomo nella sua funzione di "marito/padre-padrone", non volendo più accettare alcuna forma di violenza esercitata sulla donna fuori o dentro la famiglia. La violenza alle donne - in qualunque forma si presenti, e in particolare quando si tratta di violenza intrafamiliare - è uno dei fenomeni sociali più nascosti; è considerato come punta dell'iceberg dell'esercizio di potere e controllo dell'uomo sulla donna e si estrinseca in diverse forme come violenza fisica, psicologica e sessuale, fuori e dentro la famiglia. Già negli anni settanta le donne hanno istituito i primi Centri antiviolenza e le Case delle donne per ospitare donne che hanno subito violenza e che potevano trovare ospitalità nelle case rifugio gestite dalle associazioni di donne. I primi Centri antiviolenza sono nati solo alla fine degli anni novanta ad opera di associazioni di donne provenienti dal movimento delle donne, tra cui la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna e la Casa delle donne maltrattate di Milano. Ad oggi sono varie le organizzazioni che lavorano sui vari tipi di violenza di genere. I Centri antiviolenza in Italia si sono riuniti nella Rete nazionale dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne. Nel 2008 è nata una federazione nazionale che riunisce 65 Centri antiviolenza in tutta Italia dal nome "D.i.Re: Donne in Rete contro la violenza alle donne". D.i.Re fa parte dell'organizzazione europea WAVE, network Europeo dei Centri antiviolenza che raccoglie oltre 5.000 associazioni di donne. Recentemente si è assistito ad un dibattito più intenso sui media italiani in seguito all'introduzione del termine femminicidio e del provvedimento in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere. Tale legge è oggetto di critiche anche da parte di molte delle associazioni che si occupano di violenza di genere. Dal 2006 anche in Italia si stanno sviluppando campagne di sensibilizzazione dirette agli uomini e, più recentemente, promosse da uomini. Nel 2006, l'ISTAT ha eseguito un'indagine per via telefonica su tutto il territorio nazionale, raccogliendo i seguenti risultati: Le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiarano di essere state vittime di violenza, fisica o sessuale, almeno una volta nella vita sono 6 milioni e 743 000, cioè il 31,9% della popolazione femminile; considerando il solo stupro, la percentuale è del 4,8% (oltre un milione di donne). Il 14,3% delle donne afferma di essere stata oggetto di violenze da parte del partner: per la precisione, il 12% di violenza fisica e il 6,1% di violenza sessuale. Del rimanente 24,7% (violenze provenienti da conoscenti o estranei), si contano 9,8% di violenze fisiche e 20,4% di violenza sessuale. Per quanto riguarda gli stupri, il 2,4% delle donne afferma di essere stata violentata dal partner e il 2,9% da altre persone. Il 93% delle donne che afferma di aver subito violenze dal coniuge ha dichiarato di non aver denunciato i fatti all'Autorità; la percentuale sale al 96% se l'autore della violenza non è il partner. Nell'ambito di una precedente indagine ISTAT condotta nel 2004, il 91,6% delle donne che affermava di aver subito violenze dal coniuge aveva dichiarato di non aver denunciato i fatti all'Autorità. L'indagine ISTAT del 2004, a differenza di quella condotta nel 2006, distingueva tra violenze sessuali (non meglio definite) e molestie sessuali; entro queste ultime – oltre a molestie verbali, telefonate oscene, esibizionismo e pedinamenti – erano tuttavia classificati anche atti di natura prettamente fisica (donne avvicinate, toccate o baciate contro la loro volontà). Inoltre, nell'indagine ISTAT del 2006 non sono stati raccolti dati sulle molestie verbali, il pedinamento, gli atti di esibizionismo e le telefonate oscene. Per quanto riguarda specificatamente il femminicidio, l'Eures ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si registra in Italia un aumento delle uccisioni di donne del 14% nell'ultimo anno, dalle 157 nel 2012 alle 179 del 2013.

Cos’è la violenza contro le donne, scrive “Donne in rete contro la violenza". La violenza maschile sulle donne assume molteplici forme e modalità, sebbene la violenza fisica sia la più facile da riconoscere. Non esiste un profilo della donna-tipo che subisce violenza.

VIOLENZA FISICA. Comprende l’uso di qualsiasi atto guidato dall’intenzione di fare del male o terrorizzare la vittima. Atti riconducibili alla violenza fisica sono: lancio di oggetti; spintonamento; schiaffi; morsi, calci o pugni; colpire o cercare di colpire con un oggetto; percosse; soffocamento; minaccia con arma da fuoco o da taglio; uso di arma da fuoco o da taglio. Tali forme ricorrono nei reati di percosse, lesioni personali, violenza privata, violazione di domicilio, sequestro di persona.

VIOLENZA SESSUALE. Comprende l’imposizione di pratiche sessuali indesiderate o di rapporti che facciano male fisicamente e che siano lesivi della dignità, ottenute con minacce di varia natura. L’imposizione di un rapporto sessuale o di un’intimità non desiderata è un atto di umiliazione, di sopraffazione e di soggiogazione, che provoca nella vittima profonde ferite psichiche oltre che fisiche.

VIOLENZA PSICOLOGICA. Racchiude ogni forma di abuso che lede l’identità della donna:

attacchi verbali come la derisione, la molestia verbale, l’insulto, la denigrazione, finalizzati a convincere la donna di “non valere nulla”, per meglio tenerla sotto controllo;

isolare la donna, allontanarla dalle relazioni sociali di supporto o impedirle l’accesso alle risorse economiche e non, in modo da limitare la sua indipendenza;

gelosia ed ossessività: controllo eccessivo, accuse ripetute di infedeltà e controllo delle sue frequentazioni;

minacce verbali di abuso, aggressione o tortura nei confronti della donna e/o la sua famiglia, i figli, gli amici;

minacce ripetute di abbandono, divorzio, inizio di un’altra relazione se la donna non soddisfa determinate richieste;

danneggiamento o distruzione degli oggetti di proprietà della donna;

violenza sugli animali cari alla donna e/o ai suoi figli/e.

È importante ricordare che nei momenti di rabbia tutti possiamo usare parole provocatorie, oltraggiose o sprezzanti, possiamo agire comportamenti fuori luogo ma di solito seguiti da rimorsi e pentimenti. Nella violenza psicologica invece non si tratta di un impeto d’ira momentaneo ma di un tormento costante e intenzionale con l’obiettivo i sottomettere l’altro/a e mantenere il proprio potere e controllo.

VIOLENZA ECONOMICA. Spesso tale violenza è difficile da registrare come una forma di violenza. Può sembrare normale e scontato che la gestione delle finanze familiari spetti all’uomo. Si definisce violenza economica:

limitare o negare l’accesso alle finanze familiari;

occultare la situazione patrimoniale e le disponibilità finanziarie della famiglia;

vietare, ostacolare o boicottare il lavoro fuori casa della donna;

non adempiere ai doveri di mantenimento stabiliti dalla legge;

sfruttare la donna come forza lavoro nell’azienda familiare o in genere senza;

dare in cambio nessun tipo di retribuzione;

appropriarsi dei risparmi o dei guadagni del lavoro della donna e usarli a proprio vantaggio;

attuare ogni forma di tutela giuridica ad esclusivo vantaggio personale e a danno della donna (per esempio l’intestazione di immobili).

Tale forma di controllo diretto, che limita e/o impedisce l’indipendenza economica della donna, spesso non permette la sottrazione da una relazione distruttiva di maltrattamento.

STALKING. Indica il comportamento controllante messo in atto dal persecutore nei confronti della vittima da cui è stato rifiutato (prevalentemente è l’ex partner). Spesso le condotte dello stalker sono subdole, volte a molestare la vittima e a porla in uno stato di soggezione, con l’intento di compromettere la sua serenità, farla sentire braccata, comunque non libera.

MECCANISMI DELLA VIOLENZA. La violenza più diffusa, al contrario di quanto si pensa, è quella che avviene all’interno delle mura domestiche, ovvero in ambito familiare. La violenza domestica consiste in una serie continua di azioni diverse ma caratterizzate da uno scopo comune: il dominio e controllo da parte di un partner sull’altro, attraverso violenze psicologiche, fisiche, economiche, sessuali. Il meccanismo che meglio definisce le fasi di una condizione di violenza domestica subita da una donna viene chiamato “spirale della violenza” o “ciclo della violenza” ad indicare le modalità attraverso cui l’uomo violento raggiunge il suo scopo di sottomissione della partner facendola sentire incapace, debole, impotente, totalmente dipendente da lui. Le fasi della spirale della violenza possono presentarsi in un crescendo e poi “mescolarsi”. Isolamento, intimidazioni, minacce, ricatto dei figli, aggressioni fisiche e sessuali si avvicendano spesso con una fase di relativa calma, di false riappacificazioni, con l’obiettivo di confondere la donna e indebolirla ulteriormente.

Violenza sulle donne: tema e saggio breve svolto con dati sulla violenza di genere, scrive Tommaso Caldarelli il 24 Novembre 2016 su “Studenti.it”. Tema sulla Violenza sulle donne: riflessioni e dati per scrivere un tema o un saggio breve sulla violenza di genere, purtroppo sempre attuale. La violenza contro le donne da qualche tempo - fortunatamente - è sempre più al centro del dibattito pubblico. E il perché è presto detto: persino in un'epoca che si professa civilizzata come la nostra il fenomeno sta raggiungendo dimensioni che definire barbariche è poco. Come vedremo, i dati dimostrano che la modernità è arrivata quasi in tutto: nella tecnologia, nei trasporti, nelle comunicazioni, nell'alimentazione. Ma rapporti più civili sembrano essere ancora una conquista lontana. Statistiche sicure non ce ne sono. Si potrebbero contare le sentenze di condanna per fatti di violenza contro le donne ma non sarebbe un numero attendibile perché sono pochissime le donne che denunciano di aver subito violenza, e ancora meno poi i casi che arrivano a sentenza. L'ultimo studio ufficiale risale al 2014: è una ricerca dell'Istituto di Statistica italiano, l'Istat, che ha chiesto ad un campione di 24.761 donne di raccontare se negli anni precedenti avevano subito violenze o molestie. Risultato: le stime sono terribili. Dai risultati è emerso che "6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri" e ancora "Le donne subiscono anche molte minacce (12,3%). Spesso sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%)." Forse si può pensare che la violenza contro le donne sia soltanto lo stupro consumato, ma non è così. Quello è un reato, anche molto grave, ma non è l'unica forma di violenza contro le donne: l'associazione "Noi No, uomini contro le violenze", riassume il fenomeno in tre parole: "Minacciare, Umiliare, Picchiare": "La violenza di genere non è solo l'aggressione fisica di un uomo contro una donna, ma include anche vessazioni psicologiche, ricatti economici, minacce, violenze sessuali, persecuzioni. Compiute da un uomo contro una donna in quanto donna. A volte sfocia nella sua forma più estrema, il femminicidio": e nel solo 2016 sono morte 116 donne. Ecco che dunque bisogna ritenere violenza sessuale, o violenza di genere, qualsiasi forma di aggressione, vessazione, maltrattamento, minaccia, creazione di un clima pesante, di ricatto, di persecuzione, proveniente da un uomo e diretto ad una donna: tutti i comportamenti che non tengono conto della volontà della donna, che ha diritto a dire di sì e di no a qualsiasi idea o proposta come qualunque essere umano dotato di diritti e dignità, sono di per sé violenti. Stando ai dati, dunque, "in Italia ogni 7 minuti un uomo stupra o tenta di stuprare una donna. Ogni 3 giorni nel nostro Paese un uomo uccide una donna". Extracomunitari rabbiosi e un po' barbari? Ragazzi sbandati delle periferie? Malati di mente, tossicodipendenti, personaggi al limite della società? No: questi sono stereotipi sbagliati e pericolosi, e sono sbagliati e pericolosi perché impediscono di raccontare, affrontare e combattere la tragedia della violenza contro le donne. I dati dimostrano che i casi di violenza fra coppie che provengono da culture e paesi diversi dal nostro sono largamente minoritari e che "la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in Occidente e nel mondo è la violenza subita da familiari o conoscenti"; "una ricerca Eures-Ansa del 2010 ha rivelato che le violenze familiari sono la prima causa di morte nel nostro paese e le donne sono le vittime nel 70,7% dei casi": per sottolineare ulteriormente, il punto è che le donne morte nel 2016 sono state uccise principalmente da mariti, fidanzati, partner ed ex partner, nella maggior parte dei casi italianissimi. Per non parlare dei tanti, piccoli episodi di violenza quotidiana: donne che non possono uscire a fare quel che gli pare perché il marito o compagno glielo impedisce, ragazze che vengono rimproverate perché si vestono come gli pare, adescamenti in discoteca. Secondo Giulia Bongiorno, avvocatessa e politica che ha fondato una delle più combattive associazioni italiane per la repressione della violenza, molte donne arrivano a convincersi che i maltrattamenti siano semplicemente parte della propria vita di coppia. Frustrazione, non realizzazione personale dell'uomo, difficoltà sul lavoro o nella vita, insoddisfazione, sono solamente le motivazioni superficiali di questi eventi. Più in profondità si può trovare il mancato riconoscimento dell'identità delle donne e del fatto che esse hanno, al pari degli uomini, il diritto di realizzarsi e di decidere ciò che è meglio per loro stesse. Purtroppo ancora oggi è possibile trovare uomini che ogni tanto se ne escono con frasi come "l'uomo è fatto così" o "la donna deve lavare i piatti", o anche se non lo dicono, ci scherzano su, salvo poi comportarsi esattamente così. Gli anni '40 sono finiti da un bel po', ragazzi e ragazze, e il fatto che nostro padre/nonno/zio/cugino/cognato/amico più grande si siano (sempre) comportati con questo fare da bulli non ci autorizza a prendere questa strada o ad accettare che il nostro compagno la prenda: è una strada che non porta lontano. Due parole: prevenzione, coraggio. Prevenzione: quando vediamo che con il ragazzo conosciuto a scuola, nel rapporto di coppia, nel rapporto familiare, con gli amici, in qualunque contesto qualcosa sta iniziando a non girare per il verso giusto, bisogna immediatamente agire. Far presente che quella frase, quella avance, quel modo di fare non rispetta né la persona né la donna che siamo è il primo passo per evitare brutte conseguenze: bisogna mettere dei paletti ogni volta che è possibile, perché la violenza contro le donne è un fenomeno che inizia piccolo e quotidiano, e va fermato proprio a questo livello. Coraggio: se si è subita una violenza, bisogna ricordarsi il monito che ha lanciato Luciana Litizzetto da palco di Sanremo. "Un uomo che ci picchia non ci ama, o quantomeno ci ama male. Un uomo che ci picchia è uno stronzo, sempre, e dobbiamo capirlo al primo schiaffo": bisogna quindi lasciarlo immediatamente perché, come minimo, sta fuori di testa e deve riflettere sulla sua vita, su dove sta andando e su quali sono le sue priorità, e chiedere scusa. Se la questione è seria bisogna subito rivolgersi ad un centro antiviolenza (ce ne sono in ogni città) perché da sole non è possibile uscirne. Servono sostegno, facce amiche, aiuto anche legale: ma non è tutto qui. La violenza contro le donne è colpa degli uomini: bisogna che il ragazzo o l'uomo in questione si rendano conto di cosa hanno fatto. Per questo sono disponibili anche strutture apposite, come il Centro per gli Uomini maltrattanti di Firenze. Purtroppo, per ora non è previsto che la persona in questione venga costretta ad utilizzare queste strutture.

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2016, il cambiamento parte dai singoli, scrive Mario De Maglie, Psicologo psicoterapeuta, il 25 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Non è il sentire dell’altro che può ferire, quanto le azioni che, da quel sentire, possono scaturire. Non abbiamo in dotazione manopole in grado di calibrare quel che proviamo, così le sensazioni arrivano come e quando vogliono: bisogna pur fronteggiarle e talvolta scegliamo di farlo nelle forme meno opportune. Sottolineo la possibilità di scegliere perché, se è pur vero che non si scelgono le emozioni da provare, lo si può fare in merito alla loro espressione. Non è la rabbia dell’altro o la mia che può essere lesiva, ma la sua espressione quando si vuole deliberatamente provocare un danno, ferire, punire. Agire con violenza, all’interno di una relazione affettiva, significa aver scelto di utilizzare la propria forza per intimidire e indebolire l’altro e significa aver fallito nel riconoscere dignità al proprio sentire. Se si ha necessità di imporlo, non ci si reputa in grado di farci strada da soli verso l’altro, prima vittima di un’azione violenta. Si nega la possibilità di comprendere e di comprendersi: l’altro è il nemico, cela bisogni diversi che non ci si prende il tempo di conoscere, come se ci si reputasse sbagliati solo per il fatto di avere idee, pensieri e sentimenti che possono non coincidere con quelli di chi mi sta intorno. Gli altri e quel che di loro pensiamo spesso divergono, ma ci si ostina a voler far coincidere le due cose. La violenza di genere è diffusa e trasversale, la cronaca lo ricorda ogni volta che una donna viene ammazzata, non potendo dare la stessa attenzione a tutto quello che avviene nascosto quotidianamente all’interno delle mura domestiche. Quando parlo con gli altri uomini, riscontro una grande difficoltà nel far loro capire come il maltrattamento si nutra di tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che noi spesso applichiamo alle donne, molte delle quali, allo stesso tempo, purtroppo sembrano pretendere quasi un determinato tipo di uomo che abbia anche quelle caratteristiche perché, dal peso della cultura patriarcale nella quale si vive, non sfugge nessuno. La violenza sulle donne è un reato, probabilmente il reato più a lungo nascosto e giustificato nella nostra storia, un numero altissimo di uomini lo commette e solo una piccola parte di questi viene perseguita e ancora meno sono coloro che si rendono conto delle conseguenze che producono sulle loro partner o ex partner. Pensare di possedere l’altro è oggettivizzarlo, la prima forma di violenza dalla quale segue tutto il resto. Se voglio bene a una persona, tengo allo stare insieme a lei, tengo al fatto che mi pensi, tengo al fatto che non dedichi, ad altri, attenzioni che vorrei fossero solo per me, ma dovrei tenere altrettanto al semplice fatto che lei sia libera di poterlo scegliere. Quando si impone il controllo, la donna può accettare e rimanere in posizione passiva, per paura o per un insano condizionamento culturale che suggerisce che così deve essere, scambiando l’insofferenza per il giusto prezzo da pagare per non rimanere sola, oppure può ribellarsi e cominciare a pensare alla fuga da un tipo di relazione, in cui i suoi spazi e i suoi tempi non vengono rispettati. Se si cerca di controllare la partner, per timore che possa andare via, si aumentano le possibilità che decida davvero di farlo, a causa di quel controllo, profezie che si autoavverano. Le aspettative sono desideri sporchi di paura. Purtroppo non è lo scrivere di queste cose che cambierà gli uomini e le donne, non è una lettura che farà la differenza, non è una giornata come il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, per quanto importante. Le donne violate e ammazzate devono costituire uno stimolo di riflessione e di cambiamento prima che vengano violate e ammazzate. Non c’è indignazione che possa competere con il reale rimboccarsi le maniche. Di indignazione siamo pieni ed è forse il motivo per cui l’azione viene rimandata sempre al domani oppure ci si convince debba riguardare gli altri e non noi. Abbiamo bisogno di una volontà, di una visione e di un’azione politica che permetta a tutti coloro che si occupano della violenza di genere di farlo senza ostacoli, a tempo pieno e con le risorse adeguate. E’ la nostra società ad avere le mani sporche di sangue, ancor prima dei singoli individui, ma è dai singoli che deve partire il cambiamento, quando la collettività non ha ancora sviluppato l’autoconsapevolezza necessaria.

Comincia dagli stereotipi la lotta alla violenza sulle donne, scrive Paola Italiano il 25/11/2016 su “La Stampa”. Un tappo così innovativo che anche una donna riesce ad aprire la bottiglia. Un’auto talmente solida che si capirà la più valida ragione per acquistarla quando la moglie la riporterà a casa dopo un incidente. Sono immagini e slogan delle pubblicità del passato che oggi farebbero gridare immediatamente allo scandalo per il loro sessismo marchiano. Ma questo è frutto di una sensibilità costruita attraverso lunghe battaglie, e non è ancora un punto di arrivo: «La pubblicità italiana è considerata tra le più sessiste al mondo. Crea, sostiene e promuove stereotipi e modelli discriminanti», sostiene il pubblicitario Massimo Gastini, ed è da questa riflessione che si sviluppa oggi il dibattito al centro del convegno «Che genere di comunicazione» al Polo del ’900, alle 15. È solo uno dei tanti appuntamenti in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Perpetuare gli stereotipi, oltre a essere una grave forma di violenza, benché meno evidente, contribuisce ad alimentare la violenza. Infanzia e adolescenza sono i momenti in cui intervenire per agire sulla formazione di modelli discriminanti, e non a caso moltissime delle iniziative di oggi e dei prossimi giorni sono rivolte ai ragazzi, come quelle organizzate dal Comune in tutti i quartieri. In via Borgo Dora, al Balon, c’è una sorta di flash mob che coinvolge anche i bambini, a cura dell’associazione culturale Tékhné, a cui è stato chiesto di portare un abito che rappresenti un momento particolare del loro vissuto. Alcuni saranno sospesi in un’installazione che rimarrà visibile fino a domenica. L’arte è veicolo di espressione, riflessione e dialogo anche nelle opere e nelle foto della mostra «Apri gli occhi. Alza Voce» al «Centro Anch’io» di via Ada Negri 8, dove per tutta la giornata i ragazzi si confronteranno sul tema dell’aggressività e della violenza. Dall’arte visiva alla poesia. È un evento completamente al femminile «Donne in versi oltre il silenzio»: in corso Casale 212 alle 18,30 otto artiste proveniente da diverse parti del mondo si alterneranno con la loro arte oratoria e poetica, per celebrare la donna sotto tutti gli aspetti, dal quotidiano, al sentimentale, al tragico, all’ironico, e lo faranno coinvolgendo il pubblico. Ed è infine uno spettacolo di denuncia «Donne di Sabbia: il femminicidio di Ciudad Juarez, scritto raccogliendo testimonianze dirette delle vittime attraverso i loro diari o dai racconti dei loro familiari (alle 19 in corso Peschiera 193). E che gli stereotipi siano duri a morire, anche quelli che passano attraverso il linguaggio, lo dimostra anche il correttore ortografico del computer, che continua a sottolineare in rosso come scorretta la parola «femminicidio». 

Per fermare la violenza sulle donne bisogna educare gli uomini, scrive Christian Raimo, giornalista e scrittore, l'1 agosto 2016 “Internazionale. Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione. Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare. Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla). Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può: La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti. Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento. Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate. Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio: Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un intervento d’emergenza e primario per le vittime ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità. Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto). Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma: L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato. L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: “Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’”. È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti? D'altra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente. Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato. Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica. L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica. È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili. Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così: Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner. Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me. Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle. Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: “Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche”), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo. “La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale”, scrive Valcarenghi. E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti. Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.

LA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. ENNESIMA LITURGIA IPOCRITA.

Giornata contro la violenza sulle donne: ecco quando è nata e perché, scrive il 23 novembre 2018 Ski tg24. Dal sacrificio delle sorelle Mirabal alle scarpe rosse. Date, personaggi e momenti storici che hanno reso il 25 novembre il giorno in cui il mondo denuncia il femminicidio e gli abusi di genere. Il 25 novembre si celebra la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. In tanti Paesi, tra cui l’Italia, ci saranno manifestazioni, mostre, cortei, sit-in, convegni e installazioni per ricordare le vittime e per affrontare il tema della violenza di genere. Ma da dove ha origine questa ricorrenza? Quali sono i suoi simboli?

Chi l’ha istituita? E quando? A volere la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è stata l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre del 1999. L’intento dell’Onu era quello di sensibilizzare le persone rispetto a questo argomento e dare supporto alle vittime. Ogni anno, a partire dal 2000, in tutto il mondo governi, associazioni e organizzazioni non governative pianificano manifestazioni per ricordare chi ha subito e subisce violenze.

Perché è stato scelto il 25 novembre? Quando l’assemblea delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha scelto questa data in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal, avvenuta nel 1960 a Santo Domingo perché si opponevano alla dittatura del regime di Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, il 25 novembre del 1981 ci fu il primo Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche. Da quel momento in poi, il 25 novembre è stato riconosciuto in larga parte del mondo come data per ricordare e denunciare il maltrattamento fisico e psicologico su donne e bambine. La data è stata poi ripresa anche dall’Onu quando ha approvato la risoluzione 54/134 del 17 dicembre del 1999.

Chi erano le sorelle Mirabal? Patria, Minerva e María Teresa Mirabal, assieme ai loro mariti, erano delle attiviste del “Movimento 14 giugno”, un gruppo politico clandestino dominicano che si opponeva alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Nate tra il 1924 e il 1935, hanno trovato la morte nello stesso giorno: il 25 novembre. Le tre sorelle, a causa della loro militanza, nel gennaio del 1960 furono arrestate e incarcerate. La loro detenzione, però, durò pochi mesi. Cosa diversa per i loro mariti, che continuarono a rimanere nella prigione Puerta Plata. Il 25 novembre del ’60, Patria, Minerva e María Teresa, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro compagni in carcere in compagnia di un autista, furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e uccise a bastonate. Poi, una volta uccise, i militari di Trujillo rimisero i loro corpi in macchina e tentarono di simulare un incidente. All’opinione pubblica, però, fu subito chiaro che le sorelle Mirabal erano state assassinate. In molti cominciarono a ribellarsi. E di lì a poco il regime finì con la morte del dittatore Trujillo.

Qual è il colore della Giornata? In tutto il mondo il 25 novembre è celebrato con l’arancione, tanto che si parla anche di Orange Day. Un Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere, lo ha scelto come simbolo di un futuro in cui le donne si saranno liberate della violenza degli uomini. In Italia, però, dove la Giornata si celebra solo dal 2005, spesso all’arancione è preferito il rosso.

Le scarpe rosse. Soprattutto in Italia, il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne sono le scarpe rosse, lasciate abbandonate su tante piazze del nostro Paese per sensibilizzare l'opinione pubblica. Lanciato dall'artista messicana Elina Chauvet attraverso una sua installazione, nominata appunto Zapatos Rojas, è diventato presto uno dei modi più popolari per denunciare i femminicidi. Un'installazione che ha fatto il giro del mondo, toccando alcune delle principali città europee e italiane.

Un’altra surreale giornata dell’ipocrisia. La “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”, scrive Paolo Deotto il 25 novembre 2016 su riscossacristiana.it. Dopo aver lavorato anni e anni per creare una società intrisa di male e di violenza, gli stessi personaggi intonano ora le paraliturgie laiche contro il “femminicidio” e la violenza contro le donne. Di sicuro assassinano l’italiano, ma anche la matematica, visto che i due terzi delle vittime di omicidio sono di sesso maschile. Anzitutto bisognerebbe dare un’occhiata alle cifre, ma forse la matematica è “fascista”. Sta di fatto che se leggiamo gli ultimi dati forniti dalla Direzione Centrale di Polizia criminale (fonte: Ministero degli interni), scopriamo che i due terzi delle vittime di omicidio sono di sesso maschile. Ergo, sarebbe legittimo dire che, se c’è un’emergenza, questa è l’emergenza uominicidio. Sì, lo so, questa parola non esiste, ma se è per questo non esiste neanche “femminicidio”. Prima che fosse felicemente avviato il massacro dell’italiano, si parlava solo e unicamente di “omicidio”. La mania dei neologismi cretini sta trasformando la lingua di Dante in un mix di lingua-Basaglia con grugniti primordiali. Ma poi, visto che l’inarrestabile progresso ci ha svelato che esistono innumerevoli varianti al vecchio e stantio schema uomo/donna, sarebbe il caso di parlare anche di frocicidio, lesbocidio, queercidio e così via pazzerellando. Lasciamo perdere. Oggi, dunque, è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e quindi tutti, allineati e coperti, devono proclamare che questo è un problema terribile. Beninteso, finché continueremo ad esempio a portarci in casa torme di maomettani, uomini violenti e perlopiù primitivi (inevitabile, considerando le loro fonti educative – si fa per dire e culturali – si fa sempre per dire), questo problema diventerà sempre più serio. Però se una donna è violentata o uccisa da uno di questi bei soggetti, non si scatenano i deliri femministi, perché l’islamico è, lo sanno tutti, buono e mite. Erano buoni e miti anche gli islamici che lo scorso Capodanno trasformarono in incubo la festa, facendo la festa a moltissime donne a Colonia. In occasione di quello stupro di massa, la stampa laica-progressista-democratica-ecosìvia fu molto nell’imbarazzo…Ma lasciamo perdere anche questo. Restiamo a casa nostra, che già basta e avanza. Dunque, violenza sulle donne. Anche quest’anno le solite stucchevoli paraliturgie. Inutile tediarvi riportando le dichiarazioni tutte uguali. I vari telegiornali vi avranno già saturato e vi satureranno ancora stasera e domani. L’orgia del conformismo organizza manifestazioni varie e poi tutti a casa, tutti contenti. Ciò che francamente dà il voltastomaco è vedere che, come sempre, gli stessi soggetti che hanno demolito la nostra civiltà, già cristiana, ora hanno la spudoratezza di deprecare la violenza. Le prodi paladine e paladini dei “diritti della donna”, che a partire dal sessantotto hanno trasformato la donna in un oggetto sessuale, che hanno sfasciato la famiglia, che hanno “lottato” per il diritto all’omicidio del più innocente tra gli innocenti, il bimbo nel grembo materno, hanno la faccia di bronzo di parlare di violenza e di deprecarla. Questi personaggi hanno dedicato la loro vita alla creazione di una società malata di violenza e ora, poverini, sono tutti turbati dalla violenza che esplode nella società. Non sanno che la lunga convivenza col male porta solo malvagità? Non si ricordano che il dottor Jekyll, avendo giocato troppo con il male, a un certo punto perde il controllo della situazione e si trasforma nel malvagio mister Hyde, anche senza bere la pozione che lui stesso aveva inventato? Guardiamo alcune di queste persone, solo alcune. Sono più che sufficienti. Ecco la signora Bonino, ripresa nei suoi fasti giovanili (in alto a sinistra) e, nella gioiosa vecchiezza (in alto a destra), fotografata con uno dei suoi migliori amici. Ecco la signora Cirinnà (a sinistra), che dopo tanti anni passati a battersi per i diritti degli animali, ha pensato bene di adoperarsi per imbestialire le persone e ha posto la sua firma sulla legge che ha introdotto anche nell’Italia ex-cattolica il frociomatrimonio. Violenti contro le persone e violenti contro Dio. E ora, facce di bronzo che parlano contro la violenza. Basta, per favore, basta con questi stomachevoli festival della più demente ipocrisia, o della più ipocrita demenza. Signori e signore progressisti, guardate l’immagine qua sotto. È un morto assassinato. È di sesso maschile o femminile? Non si sa. L’unico dato certo è che è morto ammazzato, ma è altrettanto certo che i suoi assassini non conosceranno mai la galera, perché hanno agito sotto l’ombrello della legge che garantisce alla donna il “diritto” di abortire. Quella legge che voi avete voluto e che difendete a spada tratta, facendo ora il possibile e l’impossibile per abolire anche l’obiezione di coscienza dei medici. Questa è la realtà che voi avete creato. Una realtà omicida. Un incubo che si ripete ogni giorno, al ritmo di circa trecento, ripeto trecento, vittime al giorno. State almeno zitti e zitte; non avete alcun titolo per deprecare la violenza.

Femminicidio, il parroco: "È colpa delle donne". Sconcerto a Lerici per l'affissione del manifesto che "accusa" le donne di meritarsi il peggio per essersi allontanate dalla famiglia, scrive Sergio Rame, Giovedì 27/12/2012 su "Il Giornale". Polemica nel comune ligure di Lerici per un manifesto affisso sul portone della chiesa dal parroco don Piero Corsi. Sono bastate poche righe per scatenare una vera e propria bagarre: in un editoriale dal titolo "Donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?" viene infatti data alle donne parte della colpa dei femminicidi. Un'accusa pesantissima che ha gettato nello sconcerto il paese in provincia di La Spezia. L’estratto dalla lettera apostolica Mulieres dignitatem commentata dall’editorialista del sito Pontifex intitolato "Donne e il femminicidio facciano sana autocritica. Quante volte provocano?" affisso sulle porte della chiesa di San Terenzo ha scatenato la polemica tra i parrocchiani. Il volantino comincia con "l’analisi del fenomeno che i soliti tromboni di giornali e tv chiamano appunto femminicidi" e "accusa" le donne di meritarsi il peggio per essersi allontanate dalla virtù e dalla famiglia. "Quante volte vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e succinti? - si legge sul volantino - costoro provocano gli istinti peggiori e poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo, roba da mascalzoni). Facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercate anche noi?". La presidente di Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli ha subito chiesto alle massime autorità civili e religiose che si attivino perché il manifesto venga immediatamente rimosso. "È una gravissima offesa alla dignità delle donne", ha commentato bollando il messaggio come "una vera e propria istigazione a un comportamento violento". L'Italia è, infatti, il Paese con il maggior numero di femminicidi d’Europa e ha un altissimo numero di violenze consumate all’interno delle mura domestiche. Don Piero Corsi, che ha curato l’affissione del manifesto, non è nuovo a polemiche di questi genere. Negli anni passati era, infatti, già noto alle cronache per la sua passione al "tatsebao" avendo già dedicato fogliettoni satirici contro l’Islam e contro gli immigrati appesi alla porta della chiesa. Dopo le polemiche, il parroco ha rimosso il manifesto e ha chiesto scusa: "Voglio scusarmi con tutti per quella che voleva essere soltanto una imprudente provocazione. In particolare mi voglio scusare con tutte quelle donne che si siano sentite offese in qualche modo dalle mie parole". Domani incontrerà il vescovo: "Affronterò con serenità le decisioni della Curia. Chiedo ai giornalisti un po' di silenzio", conclude.

"Tv di Stato ipocrita sul femminicidio", scrive Sabato 12/05/2018 "Il Giornale". "Gentili presidenti di Senato, Camera e Rai, Siamo i parenti di Margherita Magello, barbaramente assassinata il 20 gennaio 1976 in casa sua da 59 coltellate. Per quell'efferato crimine è stato condannato a 18 anni di reclusione Massimo Carlotto, poi ingiustamente graziato dall'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per motivi di salute. Massimo Carlotto ha goduto e gode ancora oggi di ottima salute, è diventato uno scrittore di successo e ha ampiamente lucrato sulla vicenda che lo ha visto protagonista. Dal 18 maggio prossimo condurrà su Rai4 ben 24 puntate del format americano Real criminal minds che racconta le gesta di noti serial killer americani. La scelta di far condurre un programma che racconta ciò che hanno fatto dei pluriassassini ad un assassino, riconosciuto e condannato dallo Stato italiano, la riteniamo grottesca e profondamente irrispettosa. Ciò che ci indigna è che tale scelta sia stata fatta dalla tv di Stato, lo stesso Stato che ha condannato Massimo Carlotto per l'efferato omicidio di Margherita, che oggi chiameremmo femminicidio. Ci chiediamo come sia conciliabile che la Rai possa lanciare campagne di sensibilizzazione sul femminicidio e al contempo dare spazio, e immaginiamo anche retribuire, un assassino come Massimo Carlotto. Per noi familiari l'unica possibile scelta di coerenza che dovrebbe operare la Rai, ed è per questo che ci appelliamo a voi, e che sospenda la messa in onda del programma e scelga un diverso conduttore. Laddove invece questo nostro appello dovesse non sortire effetti e la trasmissione andasse comunque in onda, per noi familiari vorrà dire che il 20 gennaio di 42 anni fa Carlotto uccise Margherita con 59 coltellate e oggi la Rai le infliggerà la sessantesima". Matteo e Luca Oriani, Figli di Giancarla Zucchetti, cugina diretta di Margherita Magello

Limiti e ipocrisia delle battaglie per i diritti delle donne, scrive Federica Poddighe il 2 febbraio 2018 su gognablog.com. Limiti e ipocrisia delle battaglie per i diritti delle donne (donne che odiano gli uomini) (pubblicato su ariannaeditrice.it il 26 novembre 2017, fonte: Le Fondamenta). Assistiamo, da qualche tempo a questa parte, ad una strana contraddizione di cui, pare, nessuno rilevi l’effettiva e paradossale portata. Se, infatti, da una parte istituzioni, politica e media tendono a far sbiadire in maniera costante e progressiva le “differenze di genere”, smentendo la retrograda distinzione fra due soli sessi (quello maschile e quello femminile) a vantaggio di differenziazioni molto più variegate e fantasiose, dall’altra gli stessi organi si fanno portatori di una martellante campagna volta a costruire artificiosamente dei “distinguo”, tesi – questa è la pretesa – ad una maggiore tutela delle appartenenti al genere femminile. E così, nei giornali, nei proclami politici, nelle dissertazioni più o meno impegnate il tradizionale e femminile color rosa si tinge del nero della cronaca, per via delle violenze di cui le donne sarebbero quotidianamente vittime. Da qui l’orrendo neologismo, “femminicidio”, che individuerebbe il fenomeno, definito in preoccupante e costante aumento, dell’uccisione di una donna da parte di un uomo. Senza alcuna volontà di sminuire la portata di violenze e delitti, chiunque ne sia la vittima, sarebbe opportuno chiarire che, dall’esame dei dati statistici, emerge che il fenomeno – così come dipinto dai media e dalle vestali post-femministe – in realtà non esiste: il numero delle donne vittime di omicidi e violenze è di gran lunga inferiore a quello degli uomini, né è dato ravvisare un aumento esponenziale, nel corso degli anni, di reati e delitti che abbiano come vittima una donna. Non solo. La denuncia affranta e preoccupata di chi vorrebbe le donne destinatarie di comportamenti violenti, ossessivi e criminali da parte di uomini che quasi sempre sono fidanzati, mariti o ex compagni, ovvero spasimanti incapaci di accettare un rifiuto, passa inevitabilmente per la vulgata di un Paese, il nostro, retrogrado, maschilista e patriarcale, affetto da una mentalità che condanna la donna ad un ruolo subalterno e inferiore, che quasi la considera una pertinenza o una proprietà dell’uomo (padre, marito, amante che sia). Eppure, un’indagine svolta dall’Agenzia per i Diritti Fondamentali della UE nell’ambito di violenze e omicidi ai danni delle donne dai 15 anni in poi ha dimostrato che i Paesi mediterranei (e cattolici…) dell’Europa Unita possono vantare un numero di violenze sessuali e “femminicidi” inferiore a quello degli altri Paesi, con un numero di simili reati che cresce man mano che si sale verso il Nord del Continente e diventa preoccupante proprio in quelle illuminate socialdemocrazie scandinave che tutti immaginiamo all’avanguardia per mentalità e sviluppo sociale. Un altro atteggiamento pseudo-protezionistico nei confronti del “gentil sesso”, che vive la ribalta nella stampa e nelle discussioni politiche e intellettuali, è quello delle cosiddette “quote rosa”, ovvero delle quote minime di presenza femminile all’interno degli organi politici e istituzionali, elettivi o meno. È di questi giorni, ad esempio, la notizia che il consiglio regionale della Sardegna ha votato per l’inserimento del principio della “doppia preferenza di genere” nella legge elettorale statutaria e alle prossime elezioni regionali, dunque, i sardi avranno la possibilità di esprimere due preferenze (la seconda di genere diverso). La legge approvata introduce anche il principio che prevede la parità al 50% nella compilazione delle liste e, sempre a garanzia di una perfetta parità, un numero di candidati pari (maggiorato di un’unità) anche nelle circoscrizioni con seggi dispari. Il ragionamento che sta alla base di certe pretese è quello che vorrebbe le donne tradizionalmente svantaggiate nell’accesso a ruoli preminenti in politica, ovvero nelle istituzioni: in tale contesto, le “pari opportunità” si raggiungerebbero unicamente concedendo alle donne un oggettivo “vantaggio”, che le preservi dall’esclusione o dall’emarginazione da parte dei colleghi di sesso maschile. Il ragionamento non può convincere chiunque ritenga che il criterio di preferenza nell’ambito di una competizione elettorale, ovvero nella scelta di un candidato ad un ruolo istituzionale, possa e debba essere esclusivamente quello del merito. Un approccio alla politica condizionato dalla pregiudiziale delle “quote rosa” o della “doppia preferenza di genere” imporrebbe la necessaria presenza e rappresentanza femminile in determinati ambiti, anche a prescindere dell’effettiva legittimità in termini di preparazione, professionalità e credibilità di quella rappresentanza. Ragionando per assurdo, inoltre, si riterrebbe premiato il criterio delle pari opportunità laddove quella rappresentanza numerica di genere fosse raggiunta, sebbene – all’interno di quel partito, di quel consiglio di amministrazione, di quella pubblica amministrazione – un’ulteriore presenza femminile, anche al di là della “quota” stabilita, potesse garantire una migliore efficienza e una maggiore funzionalità. Senza considerare, peraltro, che il concetto di una quota riservata ad una categoria di individui e stabilita aprioristicamente non farebbe che incrementare la partecipazione alla vita politica e/o istituzionale di tante donne scelte fondamentalmente in quanto mogli di, amiche di, sorelle di, socie di…né più e né meno come nel corso degli ultimi anni – con rilievo squisitamente bipartisan – è successo. Ciò che sconforta di simili campagne che dovrebbero avere la finalità di tutelare il “sesso debole”, che vedono un coinvolgimento di tantissime personalità influenti, sia maschili che femminili, è il ritorno ossessivo su argomenti e problematiche che, a nostro avviso, nulla hanno a che vedere con i problemi reali e concreti delle donne italiane. Di tutte le donne, non di quella minoranza sfortunata (ma pur sempre minoranza) vittima di violenze, né di quella infinitesima porzione privilegiata che viene chiamata, da anfitrioni maschili più o meno disinteressati, a occupare ruoli di vertice e potere. Ci riferiamo a quelle donne che lottano ogni giorno – in casa e nel lavoro – per fare gli interessi della propria famiglia, senza alcun sostegno da parte delle istituzioni. Di quelle donne che hanno visto trasformarsi l’obbligo imposto alle loro nonne di stare in casa a vegliare sul focolare domestico nell’imposizione moderna di essere necessariamente lavoratrici, stante la necessità imprescindibile di concorrere col proprio guadagno ai bisogni della famiglia. Sempre che – come purtroppo assai spesso accade – la donna non sia l’unica della famiglia a lavorare, a fronte della situazione di cassa integrazione o disoccupazione del marito. Non fanno dunque notizia le vicende delle tante vedove, figlie o madri che hanno seppellito un marito, padre o figlio che ha deciso di togliersi la vita, sopraffatto dall’angoscia e forse anche dalla vergogna di non essere in grado di provvedere alla propria famiglia (quella dei suicidi per causa di indigenza o mancanza di lavoro è, questa sì, una vera emergenza del nostro Paese, in relazione alla quale, tuttavia, non si attivano campagne mediatiche, non si allestiscono task force, non si inscenano partecipati flash mob). Si tenga, peraltro, conto che certe prese di posizione e certe artificiose battaglie hanno lo scopo, nemmeno tanto nascosto, di creare ed esasperare le contrapposizioni – in questo caso fra generi – alimentando divisioni e disgregazioni e dirottando interesse e preoccupazione della pubblica opinione su false problematiche, al fine di distoglierla da problemi reali e ben più urgenti. È probabile che, più che dalle esponenti politiche, capaci di alzare voce e barricate unicamente a tutela delle proprie prerogative e dei propri privilegi, o di stracciarsi le vesti per emergenze artatamente sopravalutate, le donne italiane si sentano rappresentate da donne come Giuseppina Spagnoletti e Paola Clemente, rispettivamente di 39 e 49 anni, le braccianti tarantine stroncate da un malore e accasciatesi senza vita mentre erano al lavoro nei campi per pochi euro al giorno. O da Isabella Viola, 34 anni, madre di 4 bambini, che sosteneva col suo impiego la famiglia, alzandosi alle 4 del mattino e rientrando la sera tardi. Come molte altre, nella sua vita non ha avuto alcuna corsia preferenziale in quanto donna e anche lei è morta, non per mano di un uomo violento, ma stroncata da un collasso sulla banchina della metro, mentre – come tutte le mattine – si recava a lavoro.

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

Se il governo “femminista” ha tradito le donne svedesi, scrive il 30 novembre 2018 Roberto Vivaldelli su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Dopo oltre 90 giorni di trattative la Svezia potrebbe finalmente avere il suo governo. Nelle ultime ore, infatti, come riporta Il Post, la leader del partito di Centro svedese, Annie Loof, ha aperto alla possibilità di sostenere la candidatura a primo ministro di Stefan Lofven, leader dei socialdemocratici e primo ministro uscente. Se le trattative andranno a buon fine, lo si scoprirà il prossimo 5 dicembre con il voto di fiducia al nuovo possibile esecutivo. Il voto arriva dopo il fallimentare tentativo di Ulf Kristersson, leader del Partito Moderato, di formare un governo conservatore e di centrodestra con l’appoggio esterno dei Democratici Svedesi di Jimmie Åkesson, partito nazionalista ed euroscettico che alle ultime elezioni ha raccolto il 17,5% dei consensi. I centristi e liberali svedesi, infatti, si sono opposti alle aperture di Kristersson ai populisti di Åkesson. La stessa leader dei centristi, Annie Loof, aveva tentato di formare un governo di ispirazione moderata, anch’esso naufragato in poco tempo. E così la Svezia potrebbe tornare a essere governata da Stefan Löfven, che stavolta avrà bisogno dei Moderati dopo la disastrosa esperienza del precedente governo “rosso-verde”, quello che lo stesso Löfven aveva definito il “primo governo femminista del mondo”. Femminista forse sì, ma certamente incubo per le donne svedesi. 

I flop dei “rosso-verdi” svedesi che ora rischiano di tornare al governo. Come dimostrano i dati emblematici riportati dall’indagine sociologica svedese sul crimine (Ntu) e citati da Libero, il governo “femminista” formato da socialdemocratici e verdi, che ha governato la Svezia dal 2014 allo scorso settembre, non è stato minimamente in grado di tutelare le donne e la loro sicurezza. Dal 2014 in poi, infatti, tutti i crimini nel Paese sono cresciuti, e quelli relativi alla violenza a scopo sessuale più degli altri. Nel 2017, sono stati denunciati 22mila reati sessuali (+8% rispetto al 2016), mentre il numero degli stupri denunciati alla polizia è aumentato del 10% tra il 2016 e il 2017. Le persone più colpite sono donne di età compresa tra i 16 e i 24 anni. Eppure, nel Paese in cui il “femminismo” è diventato un vero e proprio mantra, i Ministri donna erano 12 su 23. E le ambasciatrici del Paese il 45%. Quando l’esecutivo si insediò – era il 2014 – le sedi diplomatiche straniere a Stoccolma ricevettero un fax che recitava così: “La nostra politica è femminista. E la vostra?”.

Il cortocircuito delle femministe svedesi. Quando si tratta di migranti, le femministe chiudono non un occhio ma due. Nel dicembre 2017, a Malmo, centinaia di donne sono scese in strada per protestare contro gli innumerevoli casi di stupri di gruppi registrati in città. Le proteste sono scoppiate, come racconta il Daily Mail, dopo che la polizia aveva invitato le donne a non uscire di casa sole all’indomani dell’ennesimo stupro di gruppo ai danni di una diciassettenne descritto come particolarmente brutale. In quell’occasione, le donne coinvolte chiesero alla polizia di fare di più per proteggerle dai criminali violenti e invitato il governo a promuovere una legislazione più severa in materia di stupro. Sara Wettergren, una delle promotrici della manifestazione, ha dichiarato: “Non avrei mai pensato che avrei avuto paura a camminare nella mia città natale”. Stupri che, secondo le autorità, sono commessi per la stragrande maggioranza dei casi da migranti o stranieri.

Quelle banlieue svedesi dove le donne hanno paura. C’è poi il famigerato sobborgo di Husby, a Stoccolma, diventato uno dei luoghi più pericolosi di Svezia, soprattutto per le donne. “Qui le donne non osano nemmeno indossare le gonne. Sentono di avere occhi su di loro e si sentono a disagio in metropolitana. È un posto dominato dagli uomini”, ha raccontato alla tv svedese l’attivista Nurcan Gültekin. Lo stesso accade a Rinkeby, sobborgo di Stoccolma soprannominato la “Piccola Mogadiscio” per la forte presenza di immigrati, soprattutto di origine somala, dove non mancano “reclutatori” vicini a organizzazioni jihadiste come Al-Shabaab. Un vero e proprio cortocircuito ideologico per i progressisti ben descritto dalla professoressa della Princeton University Rafaela M. Dancygier sull’autorevole Foreign Affairs: “Il problema centrale per la sinistra europea è questo: i gruppi di elettori immigrati più grandi e in rapida crescita provengono da paesi a maggioranza musulmana e spesso portano con sé le tradizioni socialmente conservatrici delle loro terre d’origine. Questo avviene proprio quando i partiti di sinistra si sono proclamati campioni di laicismo, cosmopolitismo e femminismo appellandosi alla loro base della classe media sempre più liberal”. Il risultato, osserva, “è uno scontro di valori, che si svolge più spesso nelle città, dove le comunità musulmane hanno replicato i legami del villaggio, le strutture patriarcali e le pratiche religiose dei loro paesi d’origine accanto a enclave laiche e progressiste della classe media. A Bruxelles, per fare solo un esempio, oltre l’80% dei musulmani pensa che le donne dovrebbero lavorare meno “per il bene della propria famiglia”, mentre solo il 37% dei non musulmani è d’accordo”. Se si vogliono tutelare veramente le donne, dunque, occorre rinunciare a certo “buonismo” e laissez-faireprogressista in termini di sicurezza e immigrazione. Difficile che una riedizione del governo precedente – più i moderati – possa garantire questo alla Svezia. 

Il nigeriano intercettato: "Deve far sparire Pamela, anche a costo di mangiarla". Metodi da mafia africana nelle parole di Desmond Lucky. La procura rivela che nei telefonini sono state trovate anche immagini di torture, scrive il 25/04/2018 l'Huffington Post. Sezionare un corpo "è una cosa di poco conto, un gioco da bambini". La frase choc, ha detto oggi il procuratore di Macerata Giovanni Giorgio, è stata pronunciata da Desmond Lucky, uno dei tre nigeriani arrestati per l'uccisione e lo smembramento della 18enne romana Pamela Mastropietro, durante una conversazione intercettata in carcere con Awelima Lucky, fermato per gli stessi reati: i due avrebbero parlato di come Oseghale avrebbe potuto disfarsi del cadavere. Desmond Lucky, uno degli accusati di omicidio, il cui Dna non è nella casa degli orrori (ma il suo cellulare sì), arriva a dire che "Oseghale avrebbe dovuto far sparire il cadavere tagliandone una parte a pezzettini da gettare nel gabinetto, e mangiando il resto, dopo averlo congelato". "Va tenuto presente - ha però precisato il procuratore Giorgio - che le intercettazioni non sempre sono rivelazione della verità. C'è da valutare bene le singole parole e spiegare se dette in liberà o corrispondenti al vero". Lucky ha detto ad Awelima di aver fatto parte in patria di un "gruppo criminale" e di aver compiuto "cose terribili". Tra le foto trovate nei cellulari, ha spiegato Giorgio, in particolare di Awelima, ce ne sono alcune di africani torturati e del sezionamento di un animale. "Quando ci saranno noti tutti i risultati dei prelievi - ha aggiunto Giorgio - trarremo le conclusioni. Non cerchiamo capri espiatori, o nigeriani perché nigeriani, ma solo gli autori dell'omicidio".

“Doveva mangiarla, un pezzo alla volta”. Caso Pamela, l’intercettazione shock, scrive Anna Pedri il 10 maggio 2018 su Primato nazionale. Una nuova, agghiacciante intercettazione, svela un altro tassello relativo al macabro omicidio di Pamela Mastropietro, la diciottenne fatta a pezzi a Macerata dal nigeriano Innocent Oseghale, che prima l’ha stordita e violentata. Cannibalismo. “Sarebbe stato meglio se l’avesse mangiata, magari cucinata a poco a poco in brodo, tenendo i pezzi del corpo in freezer”. Frasi di questo tenore sono state intercettate in carcere tra Desmond Lucky e Awelima Lucky, anch’essi nigeriani, finiti in carcere per l’omicidio di Pamela. Parlando di Oseghale, Desmond dice ad Awelima: “L’ha tagliata… l’ha tagliata, l’ha tagliata”, “Gli ha tolto l’intestino… è molto coraggioso”. Al che il compagno di cella risponde: “Quell’intestino forse l’ha buttato nel bagno”. Da qui segue una conversazione sconvolgente, fatta di consigli e suggerimenti su quale sarebbe stato il modo migliore per Oseghale per non essere scoperto. Se il loro connazionale avesse mangiato il corpo di Pamela, anche a pezzi, nel corso del tempo, avrebbe avuto l’unico problema di far sparire la testa.

Desmond: «L’intestino è lungo. Come puoi buttarlo dentro al bagno?!».

Awelima: «L’intestino poteva tagliarlo a pezzi».

D.: «Tagliarlo in pezzettini?».

A.: «Sì. Pezzi, pezzi. Così buttava a pezzetti. Così sarebbe stato più facile… Forse lui (inteso Innocent) ha già ucciso una persona così».

D.: «Gli ha tolto tutto il cuore».

A.: «Poteva mangiarlo. Perché non l’ha mangiato?».

D.: «Poteva metterlo in frigo».

A.: «Lo metteva in frigo e cominciava a mangiare i pezzi».

D.: «Così sarebbe stato meglio per lui mangiare il corpo».

A.: «Sarebbe stato meglio. Avrebbe avuto solo il problema per la testa, quella avrebbe dovuto buttarla. Tutto il resto invece lo metteva dentro il frigo e poi quando voleva lo cucinava.

D.: «Faceva il brodo».

A.: «Sì, continuava a mangiare il brodo poco a poco».

D.: «Se lui avesse avuto un congelatore grande, avrebbe potuto metterlo lì».

A.: «Poi lui quello che non riusciva a cucinare, lo buttava piano piano…».

D.: «Però lui ha detto che non è stata lui a tagliarla e forse per questo stanno ancora investigando».

A.: «Per questo stanno cercando qualcun altro».

La pista del cannibalismo era già stata battuta in seguito alle intercettazioni tra i due nigeriani finiti in cella insieme a Innocent Oseghale. Ma ora la diffusione delle intercettazioni e la loro trasmissione in tv, evidenzia il livello di disumanità degli assassini.

Di seguito il video pubblicato sulla pagine facebook della trasmissione Chi l’ha Visto, con le intercettazioni tra Lucky Awelima e Desmond Lucky.

"In fila per stuprare Desirée". Ecco il "gioco" dell'orrore. Gli stupratori della 16enne avrebbero atteso il loro turno per poterla violentare. Un rito macabro finito con la morte, scrive Franco Grilli, Domenica 28/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di Desirée Mariottini è stato crudele, osceno, una sorta di rito macabro. Dalle carte dell'inchiesta e dalle testimonianze su cosa è accaduto in quelle terribili 12 ore a San Lorenzo, emergono dettagli inquietanti. Uno dei testimoni ascoltati, un bulgaro, ha raccontato di aver visto la ragazzina disperarsi perché nessuno voleva darle una dose di droga. Non aveva soldi per pagarla. A questo punto entra in scena il branco che di fatto si mette in moto per mettere a punto il piano fatale. La ragazzina segue Youssef all'interno del container. Ma la scena è orribile. La ragazzina subisce la prima violenza. Poi dopo un'ora e mezza il bulgaro racconta di aver visto Paco che attendeva il suo turno per poter "consumare", pure lui, un rapporto con la 16enne: un altro stupro. Di fatto secondo quanto raccontato dal bulgaro c'era una vera e propria fila per poter abusare della povera Desy. Secondo i giudici in quel container c'era, come anche sottolinea il Tempo, un vero e proprio via vai per abusare del corpo di quella ragazzina. Dopo il primo stupro dunque, gli altri componenti del branco avrebbero atteso il proprio turno per far scempio del corpo di Desy ormai stordita da un cocktail di droghe e psicofarmaci. Poi è arrivata la morte. Nessuno, ormai dalla ricostruzione della procura è chiaro, ha chiamato i soccorsi. Anzi, ci sarebbero state minacce su chi era pronto a farlo. Questa storia si è chiusa con una frase pronunciata da uno degli aguzzini: "Meglio lei morta che noi in carcere". Il sigillo orribile su un rito osceno e fatale.

"Meglio lei morta che noi in cella". Così hanno lasciato morire Desirée. I tre immigrati le hanno somministrato un mix di droghe: erano consapevoli che l'avrebbero uccisa. Quando è stata male, hanno impedito i presenti di chiamare i soccorsi, scrive Sergio Rame, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Desirée Mariottini avrebbe anche potuto essere salvata ma i senegalesi Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il gambiano Yousif Salia, che l'avevano drogata e poi stuprata a turno fino a causarne la morte, non hanno fatto nulla per aiutarla impedendo persino che venisse soccorsa.

Tra le belve che l'hanno uccisa anche il fidanzato. "È meglio lei morta che noi in galera" è la frase choc, che secondo alcuni testimoni dagli inquirenti, avrebbero pronunciato tre dei quattro africani accusati dello stupro e dell'omicidio della ragazzina. Nelle quindici pagine di ordinanza di custodia cautelare in carcere il gip Maria Paola Tomaselli ha spiegato che Mamadou Gara e Brian Minteh e Chima Alinno hanno agito "con pervicacia, crudeltà e disinvoltura", dimostrando "una elevatissima pericolosità non avendo avuto alcuna remora a porre in essere condotte estremamente lesive in danno di un soggetto minore giungendo al sacrificio del bene primario della vita". Secondo la ricostruzione della procura, erano quasi due settimane che Desirée frequentava lo stabile abbandonato del quartiere San Lorenzo, dove si procurava la droga e la consumava. Andava e veniva da quel posto dove la notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana ha trovato la morte. Il pomeriggio del 18 ottobre la 16enne è tornata in via dei Lucani in cerca di droga, ha incontrato il gruppo e ha chiesto qualche stupefacente da consumare lì, come già successo in passato. Nel ricostruire l'intera vicenda, che ha portato alla brutale morte di Desirée, il giudice Tomaselli ha spiegato che "gli indagati hanno dapprima somministrato alla ragazza il mix di droghe e sostanze perfettamente consapevoli del fatto che fossero potenzialmente letali per abusarne". Quindi la hanno stuprata "lungamente e ripetutamente". È successo più volte e lo hanno sempre fatto in gruppo. La ragazzina non si è, ovviamente, opposta in alcun modo. Non poteva farlo perché non era in sé: non si reggeva in piedi mentre loro, senza nessuna pietà le erano addosso. Dopo gli abusi l'hanno abbandonata a terra, tremante, si sono allontanati e l'hanno lasciata morire. Nell'ordinanza di custodia cautelare si legge che le belve "la hanno lasciata abbandonata a se stessa senza adeguati soccorsi, nonostante l'evidente e progressivo peggiorare del suo stato". Il branco avrebbe addirittura "impedito ad alcuni dei presenti di chiamare i soccorsi esterni o la polizia per aiutarla".

Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” del 28 ottobre 2018. Desirée poteva essere salvata. Mentre la giovane era ormai incosciente, stordita da un miscuglio di droghe e psicofarmaci, i suoi aguzzini hanno impedito i soccorsi: «Meglio lei morta che noi in galera», hanno gridato a chi voleva aiutarla. Tra loro anche tre donne, un'italiana e due straniere che frequentavano abitualmente il palazzo occupato di San Lorenzo. Le loro testimonianze, così come quelle degli altri pusher e tossici che trascorrono le giornate in quel luogo infernale, ricostruiscono quanto accaduto tra il 17 e il 19 ottobre. E dimostrano che l'indagine non è affatto chiusa. Ci sono altri tre ricercati. Uno è italiano. Si chiama Marco, riforniva il gruppo di pasticche. Proprio quelle - antiepilettici e antipsicotici - utilizzate per «privare Desirée di capacità di reazione» e dunque ridurla «a un mero oggetto di soddisfazione sessuale», come scrive la giudice nell' ordinanza che lascia in galera i tre extracomunitari fermati a Roma con l'accusa di omicidio volontario e violenza sessuale pluriaggravate. Gli altri due stranieri - tuttora in fuga - potrebbero aver partecipato allo stupro. È stato uno degli arrestati a fare i loro nomi e la polizia sta cercando di rintracciarli. Ma non è finita. Perché tra i testimoni c' è anche una straniera che ha ammesso di aver «rivestito e poi aiutato gli altri a spostare Desirée» quando era ormai in fin di vita o forse già morta.

Dettagli di un orrore che appare senza fine. Si torna dunque al 18 ottobre quando la 16enne, che è arrivata nel palazzo già il giorno prima, è in cerca di droga. Non ha soldi, si rivolge ai tre stranieri che già conosce. I racconti di chi c'era ricostruiscono quanto accade. Narcisa «dice di essere giunta intorno alle 13,10 con due uomini e di aver visto la ragazza insieme a Ibrahim (Brian Minteh, ndr) steso su un giaciglio dove è stato poi rinvenuto il corpo della ragazza, nonché Youssef (Yusif Saila, fermato venerdì a Foggia, ndr) e Sisco (Chima Alinno, ndr). Quest' ultimo era intento a fumare, Desirée gli aveva chiesto eroina perché era in crisi di astinenza, ma lui aveva rifiutato». Poi riferisce quello che le ha detto Muriel, straniera di circa 35 anni. Scrive la gip: «Muriel ha raccontato che a Desirée è stato somministrato un mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche. Poi è stata violentata da Paco e Youssef, io li ho visti». Racconta ancora Narcisa: «Il giorno dopo ho incontrato Paco e gli ho detto "sei un pezzo di m..., hai dato i farmaci a Desirée per poterla stuprare. Lui ha ammesso che avevano fatto sesso, mi ha detto che le aveva dato solo pasticche». È Muriel ad ammettere di aver rivestito Desirée quando non era più in grado di muoversi, probabilmente morta. Lo fa con una lucidità che lascia agghiacciati. Poi indica un altro componente del gruppo, ancora in fuga. Scrive la gip: «Muriel racconta di essere giunta nel palazzo alle ore 20 del 18 ottobre chiamata da un certo Hyten che le chiedeva di rivestire una ragazza mezza nuda all' interno del container. Aveva trovato Desirée nuda dalla vita in giù e aveva provveduto trovando nei pantaloni una boccetta di Tranquillit mezza vuota. Riferiva di aver ritenuto che fosse stata violentata in quanto aveva pensato che nel caso in cui avesse avuto un rapporto consenziente avrebbe provveduto a rivestirsi da sola e che prima dello stupro le erano stati fatti assumere Tranquillit e Metadone». Muriel racconta anche di aver visto «il Tranquillit qualche giorno prima nella disponibilità di tale Marco, italiano frequentatore del palazzo. Marco le aveva riferito che i medicinali erano psicofarmaci per sua madre, sostitutivi del Seroquel». A confermare le sue dichiarazioni è Giovanna, una ragazza che sta spesso in quel complesso di San Lorenzo «che - come è scritto nell' ordinanza - ha riferito come fosse possibile reperire qualsivoglia sostanza stupefacente o medicinale, precisando come gli psicofarmaci fossero procurati da Marco». È proprio Giovanna, quando si accorge che Desirée è morta, a scagliarsi piangendo contro gli stupratori. Lo racconta Cheick, un altro testimone: «Piangeva e urlava. Diceva "voi l'avete uccisa, l'avete violentata" rivolgendosi ai tre uomini presenti nel locale. Li chiamava per nome, Paco (Mamadou Gara, ndr), Sisco e Ibrahim». Sono gli stessi che impediscono a chiunque di aiutare la 16enne. Scrive la gip: «Sin dal pomeriggio del 18 ottobre, la ragazza manifesta lo stato di stordimento strumentalizzando il quale gli indagati abusano di lei. Ma esso si aggrava così da tramutarsi in una condizione di dormiveglia prima e incoscienza poi che viene immediatamente avvertita dai presenti allorché trasportano il corpo della ragazza dal container al capannone». Spiega ancora il giudice che «è in tale fase che Youssuf, Ibrahim e Sisco, che pure sono presenti, ridimensionano la gravità delle condizioni della ragazza e impediscono che vengano allertati i soccorsi, assumendo lucidamente la decisione di sacrificare la giovane vita per garantirsi l'impunità o comunque qualsivoglia fastidioso controllo delle forze dell'ordine». L' ordinanza cautelare viene così motivata: «La pervicacia, la crudeltà e la disinvoltura con la quale i prevenuti hanno posto in essere le condotte contestate manifestano la sussistenza di un concreto e attuale pericolo di recidiva». Inoltre, trattandosi di «tutti soggetti che hanno dimostrato una elevatissima pericolosità e irregolari sul territorio nazionale, rispetto al quale non presentano alcun tipo di legame familiare e lavorativo, si manifesta un altrettanto inteso pericolo di fuga, eludendo agevolmente qualsivoglia controllo».

Desirée, gip convalida il fermo di 3 arrestati, solo uno parla, scrive l'Ansa il 28 ottobre 2018. Il gip di Roma, Maria Paola Tomaselli, ha convalidato il fermo dei tre indagati per la morte e lo stupro di Desiree Mariottini. Il giudice si è riservato di decidere nelle prossime ore in merito all'emissione della misura cautelare. In base a quanto si apprende l'unico a rispondere alla domande del gip è stato il senegalese Mamadou Gara, mentre il suo connazionale Brian Minteh e il nigeriano Alinno Chima hanno deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nei loro confronti la Procura contesta i reati di omicidio, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Stesso reati contestati al quarto fermato, Yusif Sali, un cittadino ganese, bloccato ieri a Foggia e trovato anche in possesso di 11 chilogrammi di droga. La sua posizione è al vaglio degli inquirenti per capire il ruolo che ha avuto nella vicenda. I primi tre fermati sono immigrati irregolari accusati di omicidio volontario, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Ascoltate in Questur, fino a tarda sera, alcune persone informate dei fatti. Il cittadino del Gambia sospettato di essere il quarto uomo implicato nella morte di Desiree Mariottini e bloccato a Foggia era in possesso di circa dieci chilogrammi di marijuana. Secondo fonti investigative, lo stupefacente era nella baracca dove è stato trovato l'uomo nella baraccopoli che circonda il Cara - Centro richiedenti Asilo politico di Borgo Mezzanone. L'uomo è stato trovato in possesso anche di una pistola giocattolo, di metadone e di qualche grammo di hascisc. All'arrivo delle forze dell'ordine si è barricato nella baracca ed è stato necessario sfondare la porta per arrestarlo. "La coesione sociale è il mezzo fondamentale per costruire il resto della comunità solidale. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e partecipazione. Bisogna essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico. "Non servono ronde, ma cose come il controllo di vicinato che stiamo già sperimentando. Un'attività corale che vede come perno i cittadini che forniscono indicazioni a supporto delle forze dell'ordine. Mi oppongo a qualunque tipo di visione che proponga l'uso della forza privata indiscriminata per risolvere questioni ordine pubblico e sociale", ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, riferendosi all'annunciata manifestazione di Forza Nuova domani a San Lorenzo.

LE INDAGINI SULLA MORTE DI DESIREE - I primi tre fermati sono due senegalesi, irregolari in Italia, Mamadou Gara di 26 anni e Brian Minteh di 43. Il terzo è un nigeriano di 40 anni. Hanno tutti e tre precedenti per spaccio di droga. I capi di imputazione sarebbero gli stessi: omicidio volontario, violenza sessuale di gruppo e cessione di stupefacenti. Mamadou Gara aveva un permesso di soggiorno per richiesta d'asilo scaduto ed aveva ricevuto un provvedimento di espulsione. L'uomo si era reso irreperibile. Era stato poi rintracciato dal personale delle volanti a Roma il 22 luglio 2018 ed era stato richiesto nulla osta dell'autorità giudiziaria per reati pendenti a suo carico. La Sindaca di Roma Virginia Raggi ha deciso di proclamare una giornata di lutto cittadino in concomitanza con i funerali. La giovane è stata drogata e poi abusata sessualmente quando era in uno stato di incoscienza. E spunta un testimone che all'ANSA racconta: "Quella notte ero nel palazzo. Ho visto Desirée stare male. Era per terra e aveva attorno 7-8 persone. Le davano dell'acqua per farla riprendere", racconta, dicendo di essere stato ascoltato in Questura. Il teste racconta anche che quella notte, attorno all'una, "qualcuno chiamò i soccorsi". "Ora voglio giustizia per Desirée, voglio che questa tragedia non accada ad altre", dice Barbara Mariottini, la mamma della ragazza. E in serata a San Lorenzo è stata organizzata una fiaccolata in memoria di Desirée.

Ronde in azione a San Lorenzo. "Stamani ci hanno chiamato da un pub - racconta Valerio, uno delle ronde - dove uno straniero infastidiva le ragazze che stavano andando a scuola. Abbiamo chiamato la polizia ed è stato bloccato". Valerio, corpo palestrato e pieno di tatuaggi, aggiunge: "Siamo una decina di persone. I giustizieri" dice ridendo. "Ma non abbiamo mai contatti, ci limitiamo a chiamare la polizia". La tragedia di Desirée "deve essere l'ultima che accade in Italia e a Roma, una città abbandonata, il degrado è evidente, morale e sociale, servono più controlli in città, servono più uomini e donne delle forze dell'ordine, soprattutto la notte", ha detto il presidente del Pe Antonio Tajani.

«La ragazzina bianca è tornata per la droga». Così scatta la trappola della banda dei pusher, scrivono Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 27 ottobre 2018. Si sono accaniti a turno sul suo corpo. L' hanno prima stordita con droghe e alcol, poi l'hanno violentata fino a farla morire. Erano quattro, o forse di più. Pusher stranieri che non hanno avuto per lei alcuna pietà. Un accanimento brutale, una spirale di orrore che ha inghiottito Desirée Mariottini per due giorni. Cercava stupefacenti questa ragazzina partita da Cisterna, ed era disposta a tutto pur di averli. Nella sua mente ormai perduta non c'era timore di entrare in quel luogo che spacciatori e tossici di varie nazionalità hanno trasformato in un inferno, con vecchi materassi buttati per terra in uno stanzone e il cortile ridotto ormai a una latrina. All' alba di venerdì scorso una telefonata ha segnalato al 118 «una persona che sta molto male». E quando i poliziotti del commissariato San Lorenzo sono entrati, lei era sotto una coperta lurida, vestita e senza alcun segno addosso. Ma nulla poteva essere più fatto, perché era morta almeno da un'ora. Una fine che nessuno ha voluto o potuto evitare, nonostante ci siano più di 12 persone che in quelle 48 ore hanno avuto a che fare con Desirée. Ci sono due ragazze straniere che l'hanno vista, avvicinata, le hanno parlato e in qualche modo hanno cercato di convincerla ad andare via. Ma ci sono anche tre uomini che in più occasioni hanno notato come le sue condizioni siano via via peggiorate. Ed è proprio incrociando i loro ricordi, frammenti di racconti sbiaditi o reticenti, che i poliziotti della squadra mobile - guidati dai capi della sezione violenza di genere Pamela Franconieri e della Omicidi Andrea Di Giannantonio - sono riusciti a ricostruire che cosa è accaduto dal momento della sua scomparsa. Si torna così a mercoledì 17 quando Barbara Mariottini denuncia di non avere più notizie della figlia sedicenne. «Vive con i nonni, è già scappata di casa varie volte», racconta. Non sa che in quel momento Desirée è già a Roma, nel palazzo occupato a San Lorenzo. È arrivata verso l'ora di pranzo per avere una dose di eroina. Non ha soldi e accetta di avere un rapporto con lo spacciatore. La giovane è stata lì altre volte nei giorni precedenti, ma questa volta è diverso, si sparge la voce che «la ragazzina bianca è tornata ed è disponibile». Scatta la trappola. C' è chi dice che Desirée si sia allontanata, chi pensa sia rimasta anche la notte, le testimonianze non sono precise. E invece diventano nitide per scoprire che cosa è accaduto nelle ore successive. Il 18 mattina Desirée è in evidente crisi di astinenza. «Chiedeva droga, ha preso di tutto», racconta una ragazza. Dice di averla esortata ad andarsene. «Che ci fai qui? Sei troppo giovane, devi andare via se vuoi salvarti». Lei non l'ascolta, entra nello stanzone e continua a drogarsi. Il gruppetto di spacciatori «che vengono dall' Africa centrale le sta sempre intorno, si alternano». Lei non si sottrae, non ce la fa. «Le hanno dato del vino con il metadone», ricorda un testimone. Passa ancora qualche ora tra dosi di crack e altra eroina, nel primo pomeriggio Desirée appare come in trance. Si accascia su un materasso, ormai è preda dei suoi aguzzini. Cominciano a violentarla a turno, si accaniscono su di lei. Sono in quattro, ma non è escluso che anche qualcun altro abbia abusato di lei. Saranno gli esami del Dna a rivelare ulteriori dettagli, analisi necessarie a individuare tutti gli stupratori. «L'ho vista, non era cosciente», giura un testimone. Altri confermano, ricordano come «gli africani l'avevano stordita per poi avventarsi su di lei». Una bambola quasi senza vita, ed è questo che rende tutto ancor più agghiacciante. Vanno avanti così per ore, fino alla notte. Verso le due del mattino di venerdì Desirée è ormai incosciente, ma neanche questo basta evidentemente a fermarli. Alle 4 arriva al 118 la telefonata da un numero privato con la richiesta di soccorsi. Quando entra l'ambulanza il palazzo è vuoto. Al cancello è rimasto qualcuno che indica il luogo dove c' è il corpo ma in quel momento non c' è nessuno disposto a dire di più. Si parla di overdose. Vengono prese le impronte digitali e poi via verso l'obitorio. Secondo la prima relazione la morta è Desirée Mariottini di anni 25. In realtà è stata lei a dare una falsa data di nascita quando è stata fermata dai carabinieri qualche settimana prima. E invece basta un controllo più accurato nei terminali per scoprire che si tratta proprio della ragazzina scomparsa da Cisterna. L' autopsia svela la violenza ripetuta, consegna i particolari di una fine orribile. Si apre la caccia agli aguzzini. Si torna nel palazzo e si individuano i testimoni. Si comincia dalle «assenze» dei pusher abituali e basta poco a capire che sono in fuga. Sbandati senza fissa dimora che nessuno è evidentemente disposto a «coprire». Il primo viene rintracciato in un palazzo abbandonato sulla via Tiburtina, l'altro è rimasto in zona e lo trovano in piazzale del Verano. Il terzo ha trovato rifugio in periferia, al Pigneto. La polizia sa che il quarto ha detto di voler andare a Napoli. In realtà le tracce lasciate dal telefonino dicono che già da domenica è a Foggia. Forse è il capo, certamente quello che Desirée conosceva meglio. La definizione usata dai pubblici ministeri nel decreto di fermo li inquadra: «Predatori che si sono accaniti su una giovanissima indifesa, senza alcuna pietà».

Lo strazio della mamma di Desirée: «Non si drogava, ma negli ultimi tempi era cambiata», scrivono il 25 Ottobre 2018 Monica Forlivesi e Claudia Paoletti su "Il Messaggero". Non faceva uso di droghe». Però c’è un episodio avvenuto pochi giorni prima che desta sospetto. «Un paio di settimane fa due ragazze - è la spiegazione che la mamma e l’avvocato forniscono - sono state fermate a Latina dai carabinieri perché trovate in possesso di due pasticche di “Rivotril”, uno psicofarmaco. I militari hanno chiesto loro da chi le avessero preso e loro hanno fatto il nome di Desirée. Era lì anche lei, alle autolinee di Latina, è stata perquisita, non aveva nulla, né addosso, né nello zaino, né pasticche, né soldi». Come si spiega la famiglia il fatto che Desirée fosse nella Capitale? «E’ stata una grande sorpresa per tutti» ammette l’avvocato. La madre assicura che «non c'era mai stata da sola, speriamo che abbiamo acquisito i video delle telecamere delle stazioni di Cisterna e Termini, almeno possiamo capire con chi era. Desy frequentava Cisterna, Latina, a volte Sezze... Quella mattina doveva essere a Latina, iscriversi al liceo Artistico, non si era trovata bene all’Agrario lo scorso anno, e poi era bravissima a dipingere, aveva una buona mano, ha anche vinto un premio». Di quella notte a Roma Barbara Mariottini non sa praticamente nulla, ha rivisto la sua bambina solo il giorno dopo, per il riconoscimento, dove è andata insieme all’avvocato Masci. «Abbiamo visto solo il volto, pulito, sereno, sembrava stesse dormendo. Non aveva tumefazioni e, a quanto pare, nemmeno segni di violenza esterni sul corpo. Era vestita, aveva la borsa ma non il tablet e nemmeno il cellulare». Sono momenti strazianti. La memoria della mamma va indietro, agli ultimi mesi, soprattutto nell’ultimo periodo si era preoccupata, Desirée non era più la stessa, non era più puntuale come prima, non aveva voglia di studiare, tanto che la decisione di iscriversi all’Artistico era stata accolta con enorme sollievo da tutta la famiglia visto che l’anno scolastico è iniziato da oltre un mese. Il padre di Desirée, Gianluca Zuncheddu, ha un passato turbolento, è stato arrestato per droga e attualmente è ai domiciliari. Non si dà pace. Vive nel quartiere San Valentino a poca distanza dalle abitazioni dei Mariottini. La madre e i nonni di Desirée da due giorni sono barricati in casa, non credono alle cose che hanno letto sui giornali. «Non sappiamo niente - conferma l’avvocato - neppure se ci sia stata violenza. Ci dicono che Desirée è stata trovata vestita, non mancava nessun indumento, era rannicchiata su un materassino come se stesse dormendo. Mancavano solo tablet e cellulare. Aspettiamo che venga depositato il referto del medico legale, siamo convinti che la Procura stia lavorando egregiamente e che ci saranno a breve delle novità». L’abitazione dei Mariottini ieri è stata presa d’assalto dai cronisti. La nonna Patrizia, dipendente del Ministero di Giustizia, alla notizia della morte della nipote ha accusato un malore, distrutto anche il nonno, Ottavio Mariottini, una vita spesa nel sindacato. L’unico a parlare, con un filo di voce, è suo fratello Armando, lo zio di Barbara: «Sono così addolorato da non avere più le forze. Se i fatti saranno confermati auguro a quei balordi la galera eterna. E spero che chi ha visto parli, non si può vivere con il rimorso di non aver aiutato la giustizia a far luce sulla morte di una ragazzina, di un angelo. Il mio angelo».

Desirée, Pamela, le vittime anonime degli stupri e l’invasione dei pessimi, scrive Nino Spirlì Venerdì, 26 ottobre 2018 su "Il Giornale". È un giorno sacro, per la mia Famiglia! Oggi festeggiamo, tutti insieme, la nostra Matriarca. Il suo compleanno, per noi, è un appuntamento dal significato potentissimo, profondamente consapevoli, come siamo, che Lei sia la nostra Radice! Mamma, Nonna, Bisnonna, Amica, Sorella, Complice, Guida… E tanto, tanto altro…In questa famiglia, quasi tutta al femminile, le donne sono il Cuore, la Testa, l’Anima. E noi, i miei cognati, i miei nipoti ed io, siamo ben felici di poter contare sulla Loro Presenza. Sulla Loro Essenza! Mamma è moderna, a ottanta anni passati. Comprende, si confronta. Accetta e accoglie. Ci ha educati alla Fede, all’Amicizia, all’Amore, all’Ospitalità. Alla cura dell’Altro. Al Bene… A tante cose, tutte belle. Da Donna, ci ha insegnato a rispettare le Donne e gli Uomini alla stessa maniera. Con la stessa intensità. Con lo stesso rigore. E, proprio nel rigore del rispetto e nel rispetto del rigore della Giustizia, non posso tacere tutto il mio dolore per tutte le vittime degli stupri, di ogni dove e di tutti i tempi. Io stesso l’ho conosciuto, subito, patito. Sembrava amore, era l’inferno. So cosa significhi sentire il calore del sangue in bocca, il furore della violenza nelle carni, la morsa della morte nella mente. So cosa significhi abbandonarsi, in un momento, al destino, qualunque esso possa essere… So. Io so. E per questo maledetta morte dentro che non mi abbandona mai, ad ogni stupro mi sento vittima. E vivo la croce nelle mie carni, che si straziano ogni volta alla stessa maniera. Pamela. Chi potrà mai dimenticarla? Adescata, drogata, violentata, fatta a pezzi, buttata per via come spazzatura. Forse, mangiata. Desirée, adescata, drogata, violentata, abbandonata alle ombre della morte…E mille e mille come loro. Stuprate nelle guerre, nelle invasioni, nelle case, nelle famiglie, nei dispetti, nelle malattie…Bambine, ragazzine, giovinette, donne, perfino anziane. Tutte da rispettare, da proteggere, da accompagnare. E, invece, sventrate come agnelli da sacrificio. Maciullate dai colpi di uomini impregnati di colpe. Inzuppati di colpe. Infangati di colpe! Che dolore! Oggi, qualcuno mi ha chiesto se conosco l’odio. Purtroppo, no! Non lo conosco. Non più. Ho disimparato a conoscerlo, abbracciando Gesù Cristo e accettando le ninnananne della Sua Santa Mamma. Però, so. So che non so perdonare. Questa pletora di maledetti assassini, non so e non voglio perdonarla. Questa canaglia di infami non deve conoscere pace. Non c’è purgatorio, per un peccato così scellerato. E, dunque, che inferno sia! A partire da questa vita terrena. Arrestateli, rinchiudeteli in una cella senza porte e consegnateli alle pene peggiori. Senza pïetas. Senza preghiere. Senza umanità. Ché, tanto, non la riconoscerebbero. Non la saprebbero apprezzare. E sarebbe sprecata. E, se è vero che i demòni non hanno un solo colore, non parlano una sola lingua, non professano una sola fede (se mai ce l’hanno), è vero anche che il nostro Paese stia pagando un prezzo altissimo per aver inscenato un’accoglienza scellerata e incontrollata di chiunque da ovunque. Senza controlli, senza verifiche, senza buonsenso. Italia, Paese aperto, tanto per citare il titolo di un film del nostro ricco patrimonio artistico. Paese per troppo tempo senza regole e senza ritegno, che ha venduto la propria dignità ai signori del denaro e dell’interesse. Alla malapolitica e al malaffare. Alla prostituzione morale. Schiavi della menzogna massomafiopolitica, abbiamo imbarcato tutti i balordi del mondo, liberandoli per tutto lo Stivale. Oggi, le carni delle nostre bambine ne pagano il peccato. Dio ci perdoni. Se può…

In memoria delle Donne uccise, scrive Sabato 4 ottobre 2014 Nino Spirlì su "Il Giornale". Potrei nominarne mille e mille, ma non ne nomino nessuna. Sono Tutte Una. Tutte le vittime di questi ultimi anni che, Donne, pagano la furia dell’Uomo. Muoiono per gelosia, possesso, sesso, “troppa emancipazione”, superficialità, e chissà per quanto altro. Cadono sotto ogni arma. Dalla pistola alla mano, dalla pietra all’acqua del lago, dall’automobile al burrone in montagna. Cadono come piume nell’aria, o come querce abbattute. Si spengono vite, sogni, sorrisi e urla. Restano attoniti, i figli. Le madri. I padri. A volte, i mariti. Sempre, gli amici. Vengono ingoiate, le donne, dal calendario, sempre più spietato verso di loro. Sembra non trovare pace, questo tempo di violenza spietata. Basta una meches, o una gonna più corta, o, a volte, un paio di orecchini più luminosi. Basta un’uscita con gli amici. O una risposta data male. Basta, ormai, solo essere donna per caricare l’arma e farla funzionare. Non sono mai stato “un femminista”: sono sempre dell’idea che non sia necessaria la lotta estrema. Già non la faccio per l’omosessualità…Ma ho sempre guardato con rispetto e devozione verso le donne. Ritengo che quel primo nostro progenitore fosse proprio più femmina che maschio. Altrimenti, non avremmo potuto esserci. Del resto, già nella Bibbia, quella vera e non manipolata da mille mani in malafede, si parla del primo creato, una sorta di essere ermafrodito, dal doppio bagaglio genetico…E molte delle prime divinità, lo erano. E, dunque, è così che mi piace pensare: che la radice di tutto sia stata femmina. Anche la nostra religione, tanto per non essere fraintesi, pone in alto, nei Cieli, a fianco al Padre e al Figlio, la regina degli uomini e degli angeli. Lei, Maria, sposa e madre di Dio, e, dunque, Dio Ella stessa. Ah, se potessero ricordarlo tutti quei folli che, della Donna, stanno facendo scempio ovunque. Vittime da vive e da morte. Puttane sfruttate, operaie maltrattate, madri dimenticate, mogli picchiate, morte umiliate e derise. Spesso, offese anche da cadavere. A fianco alle tante donne amate e rispettate, milioni di altre vengono schiaffeggiate dall’arroganza e dalla violenza di una società non ancora pronta a considerarle pari, se non superiori, agli uomini. A certi uomini, sicuramente. E il guaio è che, per molte donne, le peggiori nemiche siano proprio le altre donne. Schiave di millenni di sopraffazioni, hanno cervelli coi baffi e i testicoli. A danno della loro stessa femminilità. E di questa confusione muoiono. Cadono come frutta matura, che, toccando terra, diventa terra. Senza ricordo di ciò che è stato. Patisco le immagini dei tg, ma, soprattutto, la spietata ed irrispettosa cronaca inutile delle morti e delle sparizioni. Carne per i palinsesti, mai utile per stanare il colpevole. Patisco le mille pagine delle riviste a prezzo popolare, dentro le quali si intrecciano i finti amori dei finti fidanzati da finto scoop ai veri dolori di famiglie devastate dalla perdita di madri, figlie, amiche, compagne. Patisco il mutismo scellerato della Giustizia. Fra me e mia Madre, di cui son parte.

Desirée, Pamela, Sara e le altre: una mattanza senza fine, scrive Adriana De Conto giovedì 25 ottobre 2018 su Il Secolo d’Italia. Il corpo abbandonato su un lettino e una coperta tirata fin sulla testa. E’ stata trovata così Desiree Mariottini, la giovane di 16 anni morta in uno stabile abbandonato nel quartiere di San Lorenzo a Roma, una zona franca lasciata languire nel degrado. Una storia di droga, di spaccio, di fragilità e di immigrazione clandestina fuori controllo. Una vicenda che purtroppo riporta alla mente altre morti altrettanto tristi: le vittime sono tutte giovanissime. Una mattanza. L’ultimo episodio risale a meno di un mese fa. E’ il 3 ottobre quando nei bagni della stazione dei treni di Udine viene trovato il corpo di senza vita di Alice Bros, una sedicenne di Palmanova. E’ morta per overdose. Per la giovane proprio giorni fa la cittadinanza di Udine ha fatto sfilare ua fiaccolata, perché il suo ricordo non venga offuscato. Cinque mesi prima un’altra terribile morte: quella di Sara Bosco, 16 anni. L’8 giugno la ragazza di Santa Severa viene trovata senza vita su un lettino in uno dei padiglioni abbandonati dell’ospedale romano Forlanini. La morte sarebbe da ricondurre anche in questo caso a una dose letale. La giovane era fuggita da una comunità di recupero. Risale al 2 maggio il caso precedente, quello di Amalia Voican, 21 anni. In questo caso il corpo è straziato: divorato da topi e da altri animali. La ragazza, originaria di Civita Castellana, era scomparsa da casa da tempo. Anche lei muore in uno stabile abbandonato della Capitale, questa volta nel quartiere San Giovanni. E il degrado lascia il posto alla ferocia nella storia di Pamela Mastropietro: il 31 gennaio 2018 il corpo di Pamela, brutalmente sezionato da un branco di nigeriani, viene ritrovato in due valige nella zona di Pollenza, in provincia di Macerata. La 18enne romana si era allontanata dalla comunità di recupero per tossicodipendenti dove era in cura: ha trascorso le sue ultime ore nell’appartamento di uno spacciatore che ha abusato di lei prima o dopo la morte.

Desirée Mariottini, vittima due volte: stupro e femminicidio più strumentalizzazione politica, scrive il 25 ottobre 2018 Eretica su "Il Fatto Quotidiano". Desirée come Pamela. Se non ci fossero di mezzo gli immigrati se ne parlerebbe tanto? Se gli stupratori assassini fossero stati bianchi e italiani avrebbero dedicato a queste vittime di violenza di genere le prime pagine sui media? Gli italiani commettono più del 93% di stupri e gli immigrati meno del 7%. La maggior parte degli stupri avviene in casa, per mano di parenti, padri, zii, fratelli, ex fidanzati, ex mariti, conoscenti. Molti tra questi non sono neppure denunciati. Il sommerso è composto da cifre che almeno valgono il triplo degli stupri denunciati. Lo stupro è violenza di genere e non violenza etnica. E’ realizzata contro un genere al quale viene imposto il ruolo di oggetto sessuale ad uso di uomini di qualunque colore, etnia, religione. Quel che serve per prevenire questi crimini è prendere sul serio la cultura dello stupro e combatterla. Quella cultura è visibile ogni volta che una ragazza non viene creduta, quando si dice che dato che aveva bevuto se l’era cercata e se la sarebbe cercata anche se in minigonna, in giro ad ore sconvenienti, assieme a tanti bei fanciulli ciascuno dei quali viene supportato dalle famiglie e da tutti gli abitanti della cittadina, di volta in volta diversa ma esattamente con la stessa quantità di gente che intimidisce e minaccia e insulta la ragazza che ha denunciato. Quante volte abbiamo visto ragazze stuprate essere due volte vittima, la prima durante lo stupro e la seconda quando sono costrette ad essere processate in tribunale da parte di chi indaga sulle sue abitudini sessuali, sulla sua avvenente presenza o sulla sua presunta facilità nelle relazioni. Processi che si estendono ad ogni marciapiedi e ogni casa nei luoghi in cui famiglie arrabbiate stanno lì a proteggere i branchi di stupratori. Quante volte abbiamo visto che attorno a stupri che coinvolgono figli di papà, bianchi, etero, italiani, si realizza un silenzio orribile. Omertà, difesa a oltranza, amici e amiche degli stupratori che perseguitano la vittima sul web, nelle strade, ovunque, per farla demordere e farle attenuare le accuse. E’ successo anche questo, mille e più volte. L’unico momento che ha una ragazza per essere creduta è quando l’ha stuprata un branco di immigrati e, ovviamente, quando muore per mano degli stessi stupratori. A quel punto c’è chi strumentalizza, c’è chi usa i corpi delle vittime per diffondere allarmismo, psicosi, isteria collettiva. Per generalizzare, per fare in modo che si dica che tutti gli immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo, di qualunque età e sesso, farebbero meglio a crepare in mare giacché secondo i razzisti quelle persone sarebbero solo un branco di criminali. Quando un cittadino dice che “da un italiano posso accettarlo, da uno straniero no” nessuno si scompone. Ma l’idea di massima è questa. Gli stranieri – così dicono i fascisti – non devono toccare le “nostre” donne e, il senso della frase, si racchiude tutto in quel “nostre”. Dichiarando l’appartenenza di quelle donne si reitera la campagna di comunicazione che Mussolini & Company divulgava per giustificare la colonizzazione di paesi del Nord Africa. Che importanza può avere il fatto che i fascisti colonizzatori, italiani, da quelle parti, stuprassero delle bambine di dodici anni. La cultura dello stupro è quella contro cui combattiamo ogni giorno perché è così che si previene lo stupro. Quando i razzisti spostano l’attenzione sull’immigrato di fatto delegittimano la lotta contro la violenza di genere. Perché i razzisti negano l’esistenza di quel tipo di violenza e perché negano anche il fatto che lo stupro sia in primo luogo un delitto legittimato dai loro “la violenza di genere non esiste” o “la cultura dello stupro non esiste” o “le vere vittime sono gli uomini”. E quando si esercitano nella negazione di una violenza che le donne subiscono da secoli diventano complici e fanno di tutto affinché sia ripristinato il privilegio maschile. Da chi condanna ogni libera scelta delle donne, sulla gestione del proprio corpo, sulla propria sessualità, come quando i razzisti appoggiano mozioni contro l’aborto, contro la contraccezione e contro le famiglie omogenitoriali, cosa ci si può aspettare di più? Non c’è un vero interesse nei confronti delle donne violentate. Non sanno chiamare per nome un delitto che ha le caratteristiche del femminicidio. Non gliene frega un tubo di quello che ci succede e non si può biasimare chi dunque scorge della malafede nell’improvvisa attenzione dei leghisti e dei fascisti nei confronti di una vittima di stupro e femminicidio. Quello che appare chiaro è che tu, donna, per essere creduta devi essere stuprata da uno straniero, solo così fingono di crederti, solo così sospendono le critiche che in altre occasioni ti avrebbero gettato addosso, sulle tue abitudini, sul fatto che stavi lì, a quell’ora e che avevi assunto stupefacenti. Se lo stupratore fosse stato un italiano pensate a cosa avrebbero detto della vittima. Il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, è uno dei modi per alimentare la cultura dello stupro. Chi oggi sta usando la morte di queste vittime lo fa per legittimare le proprie scelte politiche, i divieti di sbarco, l’arresto del sindaco di Riace, la solidarietà diventata reato, l’assenza di empatia per le tante morti di uomini, donne e bambini nel mar mediterraneo. Perché preferiscono farli annegare che vederseli intorno. E tutto quel che fanno serve a far in modo che tu, tu e anche tu siate d’accordo. Se vi dicono che stanno arrivando gli stupratori voi direte che è un bene che non sbarchino nella penisola. Vi sentite con la coscienza a posto, anche quando i bambini figli di stranieri vengono discriminati e lasciati digiuni nelle mense scolastiche, anche quando viene rimproverato un prete che ospita rifugiati. Con Desirée c’è qualcosa di più: la destra da sempre avrebbe voluto gettare fango su femministe, militanti antirazzisti e antifascisti, e se è vero che “Gli unici neri che Salvini non sgombera sono quelli di Casapound” è anche vero che egli non vede l’ora di far sgomberare quegli spazi in cui la lotta di chi li attraversa, per rendere quel quartiere, quella città, un posto migliore, è prioritaria. D’altronde dissentono con le scelte del governo e non sono di destra. Dunque via anche loro.

Perciò prima Pamela poi Desirée servono a questo. A noi, le femministe, le antirazziste e antifasciste, che ogni giorno lottiamo contro stupratori di qualunque tipo, sapendo che tutti sono stati nutriti da sessismo e misoginia, a prescindere dai luoghi da cui provengono, fa veramente rabbia che non si dedichi davvero attenzione a queste vittime di stupro e femminicidio. Se Desirée fosse stata stuprata e uccisa da italiani avremmo visto Salvini in passerella, ad acchiappare un po’ di consensi elettorali? Io penso di no. E se ne parliamo in questo modo è per precisare che la prevenzione non passa per la cacciata dei “neri” o per gli sgomberi dei centri sociali. Il punto è l’esistenza della violenza di genere e della cultura dello stupro. Se chi ci governa non si impegna a lavorare su questi punti allora non c’è espulsione o sgombero che tenga. Cacciato via l’immigrato lo stupro resta sempre uno dei peggiori crimini realizzati per lo più al chiuso delle proprie case. La militarizzazione dei territori non serve. Vorrà mandare militari anche nelle case delle tante donne e ragazze e bambine stuprate da parenti e conoscenti? Quello che serve è racchiuso tutto in questo slogan: Le strade libere le fanno le donne che le attraversano e non i militari. Il securitarismo e la repressione non servono alle donne ma, soltanto, a chi fa della paura un’arma di controllo della gente. Il punto è che non possiamo permettere che qualcun@ metta le mani sui nostri corpi, chiunque esso sia. Che si tratti di stupratori o di chi strumentalizza quello che ci succede, i corpi sono nostri e guai a chi ci tocca. Perché se tocchi una di noi allora hai toccato tutte.

“E allora Pamela?” è diventato il nuovo “E allora le foibe?” Scrive laglasnost su Abbatto i Muri il 24 ottobre 2018. Lo stupro è stupro, chiunque sia a compierlo. Qualunque sia il colore della tua pelle, la tua cultura, la tua religione. Se stupri sei uno stupratore, punto e basta. La narrazione tossica di questi anni però è fatta di una strumentalizzazione fascista degli stupri commessi da stranieri (meno del 7%) negando ogni stupro commesso da italioti (un po’ più del 93%). Quello che la destra fa è disinnescare la potenza di chi combatte per difendere i propri diritti e metterti di fronte ad un vittimismo che riguarda proprio loro, gli uomini, quelli fascisti. Non mettono in evidenza le sofferenze della donna vittima di stupro ma continuano a difendere l’onore del maschio italico che difenderebbe le “nostre” (cioè le loro) donne. Lo considerano un attacco al pater familias, al marito, al fidanzato o all’estraneo che ti usa per fini ideologici. Giammai parlano delle donne e delle loro sofferenze, perché la loro empatia si ferma fino al punto in cui spicca il loro pene. Gli stessi che dicono “E allora Pamela?” poi ripetono fino all’ossessione frasi del tipo:

avevi la minigonna e te la sei cercata;

eri ubriaca e te la sei cercata;

sei femmina e dunque te la sei cercata;

varie ed eventuali.

Tutto ciò è stato scritto e riscritto, e non è mai abbastanza in fondo, ma ciò che mi fa imbestialire è il fatto che se io fossi Pamela li avrei fulminati da lassù tempo zero. Allora farò finta per un attimo di essere Pamela, chiudo gli occhi e non vedo il colore della pelle di chi mi ha massacrata. Vedo solo uomini, il loro bisogno di esercitare potere su di me, la totale assenza di empatia, il fatto che non mi guardano come persona ma come oggetto, il loro sessismo, la loro violenza. Tutto ciò è diffuso ovunque e riguarda uomini di qualunque nazionalità e colore della pelle. Le caratteristiche sono identiche per ciascuno di loro (non è vero che se stupra un bianco è più accettabile, come disse un leghista) così come il loro sangue è in ogni caso sempre rosso. Non c’è alcuna superiorità morale in un bianco, etero, fascista perché i valori da difendere quando si parla di stupro sono gli stessi di chi combatte la cultura patriarcale di cui il maschio bianco, etero, fascista, si fa portatore. La cultura dello stupro appartiene a molti uomini a prescindere da tutto. Il fatto che la bianchezza sia considerata segno di purezza è parte di una cultura razzista storicamente diffusa da bianchi che hanno colonizzato paesi stranieri per poi deportarne gli abitanti considerati senza anima né umanità perché di pelle scura. Ma la bianchezza non è un valore aggiunto. E’, casomai, solo un segno che contraddistingue chi possiede privilegi da quelli che non ne possiedono, se non per il fatto di essere uomini che pensano di essere superiori alle donne. Essere bianco, etero, occidentale è un privilegio e chi lo possiede ora dice che vuole la licenza di sparare al migrante e di stuprare le donne perché se stuprate da un bianco esse dovrebbero sentirsi felici. Perciò mi spiace davvero per Pamela, per l’uso sconsiderato che si fa della sua orribile storia, senza considerare la pena dei suoi parenti ma usando la vicenda per istigare odio contro gli stranieri, tutti gli stranieri. Sono tutti dei gran piagnoni questi fascisti e razzisti, perché non c’è giorno che non vengano sulla pagina di Abbatto i Muri, ogni qual volta in cui si parla di stupro e di cultura dello stupro, a dire “E allora Pamela?”. E non lo dicono per Pamela, la cui memoria rispettiamo e di cui abbiamo parlato (di lei e di tutte le vittime di stupro), ma lo dicono per fornire un argomento a supporto della loro necessità di ritenersi vittime delle terribili femministe. Quando dicono “E allora Pamela?” stanno dicendo in fondo “E allora noi?”. Ed è abbastanza per capire che il loro bisogno di attenzioni è tanto e tale da dover misurare più volte la distanza che bisogna prendere da loro. Se poi tenti di discutere con costoro alla fine la discussione si avvita su se stessa, perché sono in malafede e ovviamente ti sputano in faccia gli argomenti seri che tu stai mettendo sul piano della discussione dato che non sanno effettivamente cosa rispondere. Il fatto che essi abbiano madri, sorelle, amiche, non importa perché evidentemente non hanno loro chiesto quanto sessismo abbiano dovuto subire. Se abbiano più o meno paura a girare da sole per la città, non dico la notte, ma anche di giorno. Se e quanto faccia loro piacere stirare, pulire, lavare i piatti. Non fosse che credo la questione sia più complessa di così, giacché il razzismo è profondamente radicato in molte persone, non solo quelle ignoranti e quelli imbecilli, mi verrebbe da dire che il popolo tanto difeso dalla destra è pieno di gente frustrata che sfoga la propria frustrazione sugli stranieri. E’ un fatto che quelli che venivano chiamati terroni oggi votano Lega. E’ un fatto che non esista una memoria storica, anche grazie a chi fa del revisionismo alla Wilson Smith (Orwell, 1984) lo scopo della propria esistenza. E’ dai primi anni ’90 che dico che i leghisti e i fascisti non sono roba da riderci su, ma vanno presi sul serio perché pericolosi. Il fatto che si sia arrivati a questo punto è anche responsabilità di chi si sveglia solo quando vede l’emergenza razzismo, cioè oggi. Come se non ci fossero state aggressioni razziste o fasciste prima d’ora. E allora Pamela? Allora niente. Le ronde razziste non c’entrano niente con Pamela ma immaginano solo di poter controllare i corpi e la sessualità delle donne, non per niente sono antiabortisti e misogini convinti. Non parlateci più di Pamela come fosse la vostra arma per disinnescare l’antisessismo e l’antifascismo. E’ offensivo nei confronti di Pamela e di tutte le vittime di stupro. Grazie. Update: certe strumentalizzazioni fasciste toccano oggi purtroppo la sedicenne stuprata e uccisa a Roma. Esistono sciacalli senza pudore che usano la propria posizione politica speculando su tutto, anzi, su tutte.

DESIRÉE OFFESA: FEMMINISTE CON LE MUTANDE IN PIAZZA, scrive il 26 ottobre 2018 voxnews.info. La povera Desirée è vittima due volte. Prima degli stupratori africani col permesso umanitario, ora anche di chi se ne frega di lei se non nell’osceno tentativo di rovesciare la realtà, cercando di pasteggiare sul suo cadavere. Il meglio di questo peggio lo danno le presunte femministarde dell’associazione Non una di meno, che già l’altro giorno hanno difeso chi l’ha stuprata parlando di "discriminazione". Oggi hanno tenuto una piccola manifestazione a San Lorenzo: Con le mutande in mano dove hanno stuprato una ragazzina. Con deliranti tesi sul ‘patriarcato’: se ci fosse il patriarcato, Desirée non sarebbe finita come è finita. E’ proprio il mix esplosivo tra un Occidente decadente e la penetrazione di un’immigrazione patriarcale ad avere ucciso Pamela e Desirée. Non sono gli uomini che stuprano: sono gli immigrati. Lo dicono le statistiche. Tutta l’ideologia radical chic è una malattia mentale. E’ negazione della verità.

Ora gli ultrà dell'accoglienza vogliono imbavagliare Salvini. L'omicidio di Desirée è figlio dell'accoglienza indiscriminata e dei permessi facili. La sinistra, anziché fare mea culpa, se la prende con Salvini: "Sciacallo", scrive Andrea Indini, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". I fan dell'accoglienza si sono attaccati ai megafoni per sbraitare contro Matteo Salvini. Mentre l'Italia piange Desirée Mariottini, la ragazzina ammazzata da un branco di immigrati dopo due giorni di indicibili violenze e stupri, la sinistra se la prende con il vice premier leghista perché si sta spendendo in prima persona per assicurare alla giustizia le bestie che hanno ucciso la 16enne di Cisterna di Latina. Lo tacciano di essere "uno sciacallo" e gli consigliano addirittura di "usare l'amore anziché le ruspe" per riportare la sicurezza in Italia. E così, in un corto circuito senza precedenti, sul banco degli imputati anziché finire stupratori finisce il ministro dell'Interno. Davanti al corpo senza vita di Desirée, chi per anni ha fatto il tifo per l'accoglienza indiscriminata dovrebbe avere il ritegno di tacere. Il branco che la ha seviziata e ammazzata era formato da immigrati, tutti africani, senza permesso di soggiorno o con il foglio di via in tasca. Per un po' sono riusciti a rimanere in Italia grazie a un'invenzione della sinistra: una sorta di lascia passare per motivo umanitari che con il decreto Sicurezza da poco approvato Salvini ha stralciato. Poi hanno iniziato a delinquere a destra e manca e il permesso gli è stato stralciato. Ma loro non hanno lasciato l'Italia e hanno continuato a delinquere come se niente fosse, finché poi non sono stati arrestati per l'omicidio di Desirée. Quelli che per anni hanno predicato le politiche dei porti aperte e hanno regalato passaporti a chiunque, anziché fare mea culpa, se la vanno a prendere con Salvini. In primis Laura Boldrini che sui social network lo accusa di "trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook". "Vada a lavorare nel suo ufficio al Viminale - scrive l'ex presidente della Camera - e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza". La Boldrini non è certo l'unica a ribaltare la frittata. La lista dei detrattori è lunga e, più viene a galla la crudeltà con cui il branco ha infierito sul corpo di Desirée, più questi provano a distrarre l'opinione pubblica attaccando il Viminale. Questa mattina, per esempio, Matteo Orfini ha postato un tweet al vetriolo: "Salvini, smettila di fare lo sciacallo e inizia a fare il ministro, se ne sei capace". E, insieme a lui, tutti i dem il Pd stanno usando la tragedia di Desirée per sostenere che ci vogliono più controlli in città. Sono gli stessi che, quando Salvini aveva lanciato l'operazione "Scuole sicure" per contrastare lo spaccio nei licei, si erano opposti parlando di "militarizzazione dei quartieri". Cecile Kyenge, poi, se la va a prendere con chi "tenta di strumentalizzare a proprio vantaggio, attraverso beceri tentativi di propaganda politica". E ancora: mentre il ministro dell'Interno invoca la castrazione chimica per chi stupra e l'espulsione per gli stranieri, Roberto Fico parla di inclusione sociale. "Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe - spiega il presidente della Camera - ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Le piazze riflettono la stessa ideologia bieca della sinistra. Oggi l'Anpi ha marciato tra le vie del quartiere San Lorenzo non tanto per chiedere giustizia per Desiree, ma contro la "deriva fascista". Lo stesso avevano fatto i centri sociali, la rete studentesca e i movimenti femministi giovedì scorso, quando Salvini si era recato davanti allo stabile abbandonato, dove era stata ammazzata la 16enne, per deporre una rosa. "Sciacallo, sciacallo - hanno urlato gli antagonisti - vattene dall'Italia". Ai lati della strada, invece, i residenti lo avevano applaudito chiedendogli aiuto con un "Salvaci, Matteo! Il quartiere è con te" che sapeva di implorazione. Un'istantanea plastica della cecità della sinistra che, anziché vedere i problemi reali del Paese, se la prende con il suo antagonista politico.

Salvini adesso "spegne" Fico: "Serve amore? Sono bestie". Dopo lo stupro di una ragazza in un centro di accoglienza, interviene il ministro degli Interni: "Carcere ed espulsione", scrive Franco Grilli, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di una ragazza all'interno del centro di accoglienza di Ragusa ha riaperto le polemiche sui casi di violenza legati all'ingresso sul nostro territorio di immigrati. Di fatto dopo il caso di Desirée Mariottini stuprata e uccisa da un branco di immigrati a Roma e la violenza sessuale subita da una ragazza da parte di un mediatore culturale gambiano, arriva la presa di posizione dura del ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Ragusa, 'mediatore culturale' del Gambia arrestato per aver violentato un'ospite del centro immigrati e averla picchiata a sangue per non farla parlare. Grazie alla polizia di Stato per l'intervento. Se colpevole, per questa bestia (gli animali sono meglio) carcere duro ed espulsione, altro che risolvere il problema con amore, gessetti, girotondi o sorrisi...". Parole forti quelle del titolare del Viminale che di fatto ha anche risposto tra le righe anche alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico che sul caso di San Lorenzo ha espresso una posizione chiara riferendosi direttamente a Salvini: "La coesione sociale - ha detto Fico - è il mezzo fondamentale per costruire tutto il resto della comunità solidale e un'economia sana e forte. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Ora è arrivata la risposta di Salvini. E a quanto pare lo scontro tra il ministro e una parte dei Cinque Stelle resta aperto.

L'Anpi in piazza per Desirée? No, contro la "deriva fascista". La Meloni attacca i partigiani: "Sono allibita", scrive Angelo Scarano, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Iniziata la manifestazione organizzata dall'Anpi provinciale di Roma, insieme alle associazioni e ai movimenti territoriali di San Lorenzo. L'evento si sta svolgendo in Piazza dell'Immacolata e, come riportato dai partecipanti, mira ad essere una risposta concreta al clima di odio e violenza che si sta generando nel Paese. "Abbiamo preso questa piazza, assieme al movimento femminista e alle associazioni del quartiere di San Lorenzo, perché non tolleriamo più strumentalizzazioni di chi reagisce ai delitti, come quello della giovane Desirée, solo quando l'aggressore è straniero", dichiara il Presidente Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis. "Esprimiamo solidarietà alla famiglia della giovane ma non accettiamo le strumentalizzazioni dei movimenti di destra, di cui auspichiamo lo scioglimento, e neanche della politica". La discesa in campo dei partigiani non è piaciuta per nulla al presidente dei Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Che su Twitter ha scritto: "L'Anpi oggi in piazza a San Lorenzo. Per chiedere giustizia per Desirée, ammazzata e stuprata da un gruppo di immigrati? Ma no, contro la "deriva fascista". Sono allibita". Intanto, un gruppo di alcune decine di militanti di Forza Nuova, guidato dal leader nazionale Roberto Fiore, è partito dalla sede della formazione di estrema destra per una camminata in direzione San Lorenzo, per manifestare in memoria di Desirée Mariottini. Al termine della passeggiata si svolgerà un presidio a piazza di Porta Maggiore. Prima di partire ai militanti è stato rivolto un appello dai dirigenti del partito di "attenersi alle indicazioni ed evitare cori ed iniziative personali".

Centri sociali, collettivi e femministe, chi c'è dietro l'odio su Salvini. Attimi di tensione nel quartiere romano di San Lorenzo dove il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è stato bloccato da centinaia di militanti dei centri sociali. E sulla morte di Desirée i collettivi difendono i migranti: "Non è una questione di immigrazione", scrivono Alessandra Benignetti ed Elena Barlozzari, Mercoledì 24/10/2018, su "Il Giornale". “Che schifo quei quattro idioti dei centri sociali che dimostrano di preferire caos a ordine, spacciatori a poliziotti”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, commenta telegrafico la mattinata odierna e l’accoglienza ricevuta da centri sociali e collettivi universitari. San Lorenzo, d’altronde, è casa loro e non ci hanno messo molto ad organizzarsi. Verso mezzogiorno erano già ammassarsi davanti allo stabile di via dei Lucani, dove sabato scorso è stata trovata senza vita Desirée Mariottini, di appena sedici anni. Hanno aspettato il “fascista” e “dittatore” sotto il sole a picco con un solo obiettivo: “No pasarà”. Soprattutto nel quartiere simbolo della Resistenza. Chissà se Salvini, quando ha annunciato il sopralluogo in un post su Facebook, immaginava che razza di comitato di benvenuto si sarebbe trovato davanti. Probabilmente no, altrimenti non avrebbe portato con sé quel fiore bianco, convinto di riuscire a deporlo di fronte alla palazzina che ha inghiottito Desirée. Un gesto di umana pietà, ma anche un segnale: “Sono venuto qua per impegnarmi con la gente che non vuole lo spaccio e il racket”, ha detto. Ma di fronte alla cancellata degli orrori, il leader del Carroccio, non ci arriverà mai. Una barriera umana lo ha respinto, come un muro di gomma, da dove è venuto. Non lo vogliono. Lo chiamano “sciacallo” e “razzista” perché “è qui solo per raccogliere consensi accanendosi contro i deboli”. Ne è sicura una delle femministe di Non una di meno. Il movimento che, a livello mondiale, si batte contro la violenza sulle donne, non poteva mancare. Peccato che, invece di scagliarsi conto i carnefici di Desirée, la nostra suffragetta se la prende con il numero uno del Viminale. "È qui per soffiare sulle paure della gente - spiega Martina, ventiseienne studentessa di Lettere a La Sapienza - e il colore della pelle non c’entra, non c’entra neppure la cultura, né l’estrazione sociale". Insomma, sarebbe tutta una questione di genere: “La violenza – dice – la fanno gli uomini contro le donne”. Ragiona in maniera simile anche un’altra “compagna”. Per lei, il problema non sono gli immigrati, “poverini”. “Solo che vengono discriminanti dalla società, nessuno li aiuta e sono costretti a vivere allo stato brado: di conseguenza reagiscono come animali chiusi in gabbia”. Salvini, comunque, aveva messo in chiaro che “le bestie assassine, di qualunque nazionalità siano", sarebbero marcite in galera. Evidentemente non è bastato. Anche perché, sennò, l’Anpi (che oggi era in prima fila) contro chi scenderebbe in piazza? Ma c’è da scommettere che la cosa che meno viene perdonata a Salvini è quel piano sgomberi che ha fatto saltare sulla sedia i coordinamenti rossi che controllano la maggior parte delle occupazioni abusive della città. Oggi è tornato sull’argomento, non risparmiando una stilettata ai suoi contestatori, parlando di “100 palazzine in queste condizioni, con delinquenti che difendono le occupazioni abusive e lo spaccio”. L’atmosfera si raffredda solo quando il vicepremier si allontana. Hanno vinto una battaglia, ma la guerra non è finita. È lo stesso Salvini a lanciare il guanto di sfida: “Tornerò a San Lorenzo per incontrare i residenti”, promette. Stavolta però tornerà “con la ruspa”.

Desirée, la mamma di Pamela: «Qui i veri razzisti sono gli immigrati», scrive Venerdì 26 Ottobre 2018 Raffaella Troili su "Il Messaggero". Oggi si parla di Desirée ma il pensiero corre a Pamela. Drogate, stuprate entrambe. Lasciate morire. Era gennaio, la giovane romana era fuggita da una comunità di recupero di Macerata. A lei i carnefici, extracomunitari anche loro, non risparmiarono nemmeno lo scempio del corpo, fatto a pezzi e lasciato in una valigia sul ciglio della strada. Altro orrore da ingoiare, Alessandra Verni ha gli occhi verdi e lucidi. E un'idea da portare a termine. «Voglio parlare con la mamma di Desirée, perché so molto bene quello che sta provando in questo momento, perché so che posso aiutarla».

Dopo sua figlia, un'altra vittima. Anche stavolta hanno approfittato di un momento di fragilità.

«Un'altra ragazzina, speravo non succedesse più, spero che adesso qualcosa si muova davvero».

L'immigrazione spesso fuori controllo secondo lei ha portato a questo?

«Senta, qui si parla ancora di razzismo. Io e Pamela non eravamo razziste, ma quando mai. I razzisti sono loro, gli extracomunitari, che non si integrano. Noi li accogliamo, sono loro che non ci accolgono. In una intercettazione come dicevano? Abbiamo una bianca da stuprare. Una bianca capito».

E un'altra vita è stata spezzata, un'altra famiglia è distrutta. Fuorvianti secondo lei le connotazioni politiche di questa vicenda?

«Sì fanno tante manifestazioni antirazziste, ma piuttosto difendessero i nostri figli».

Come va avanti?

«Mi sta salvando la fede. Io Pamela la sento, mi manda segnali. Ora penso anche a Desirée, ridotta in quel modo. E alla sua mamma. Lo so solo io come sta».

Ridotta in quel modo nel cuore della città.

«Sì, appunto, a San Lorenzo: in un posto, in un contesto di degrado sociale che andava evitato, si poteva evitare. Anche stavolta non mancano gli imbecilli che dicono che se l'è andata a cercare, quasi che la colpa è della vittima e non del carnefice. Basta. Ora basta con lo giustificare questi atti, basta chiudere gli occhi di fronte a dati che sono oggettivi: sono tutti immigrati i protagonisti dei più orribili fatti di cronaca degli ultimi tempi».

Suo fratello, l'avvocato Marco Valerio Verni, parla del risultato di una politica migratoria fatta in modo criminale.

«Io credo che non si può morire nel centro di Macerata, a San Lorenzo a Roma, come a San Giovanni: ci siamo dimenticati della povera Amalia Voican, trovata morta a maggio in una casa demaniale abbandonata, il corpo decomposto, le hanno dormito accanto mentre gli animali le rosicchiavano il viso».

Da San Giovanni a San Lorenzo, una scia di orrore e giovanissime vittime.

«Due quartieri centrali dove esistono sacche di degrado paurose. È vergognoso. Questa non è integrazione. Stavolta è toccato a Desirée».

Tra un mese esatto è fissata l'udienza preliminare a carico di Innocent Oseghale, il pusher nigeriano accusato di aver ucciso sua figlia Pamela Mastropietro. Lei e il suo avvocato avete già espresso molti dubbi sul fatto che solo a lui siano stati contestati i reati di omicidio volontario, vilipendio, occultamento di cadavere e violenza sessuale.

«Ho chiesto più volte che indagassero più a fondo, sopravvivo per dare giustizia a mia figlia e ora me la aspetto davvero. Non mi arrenderò mai. Aspettiamo fiduciosi, anche se il tempo per studiare le carte è poco. E se avremo delle domande da fare in quella sede, siano tutti certi che le faremo».

E se ne rientra nel negozio, veloce, minuta, un sorriso triste e uno sguardo d'intesa. «Ah, stasera c'è la fiaccolata. Per Desirée, a San Lorenzo...».

Desirée, residenti contro centri sociali: "Non si azzardino a venire al funerale". Una settimana dopo la morte di Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora: da una parte gli attivisti dei centri sociali e dall'altra i residenti che stanno organizzando delle ronde per liberare la zona dai pusher, scrivono Elena Barlozzari ed Alessandra Benignetti, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Nel giorno dell’arresto in una baraccopoli di Borgo Mezzanone della quarta belva che ha stordito, stuprato e poi lasciato morire Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora. Da un lato ci sono gli attivisti del Nuovo Cinema Palazzo. Femministe e militanti dei centri sociali che puntano il dito contro il “patriarcato” e contro chi “strumentalizza” la tragedia della sedicenne di Cisterna di Latina. “Se sei dei Parioli o vieni dal Ghana non stuprare una donna”, si legge sui cartelli che sfilano per le vie di San Lorenzo, da piazza dell’Immacolata allo stabile abbandonato di via dei Lucani dove Desirée è stata trovata senza vita la settimana scorsa. Insomma, in questa vicenda “l’immigrazione non c’entra”, torna a ribadire la sinistra antagonista. I protagonisti di questa storia, però, sono tutti migranti. I senegalesi Mamadou Gara e Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il ghanese Yusif Salia, secondo gli inquirenti, sapevano che la dose fornita a Desirée sarebbe stata mortale. Quando la ragazza ha iniziato a stare male non l’hanno soccorsa. Anzi, hanno iniziato ad abusare di lei, per poi abbandonare il suo corpo esanime tra le mura squallide e sporche di quel vecchio cantiere. Appoggiati al muretto della chiesa di Santa Maria Immacolata, invece, ci sono i residenti. “Siamo venuti a vedere cosa fanno, ma noi con questi non ci mischiamo”, mettono in chiaro alcune donne. Ci sono anche loro in prima linea per liberare il quartiere dai pusher. Non sono “ronde” precisano. “Scenderemo più spesso in strada e se troveremo qualcosa che non va avviseremo la polizia o, nel peggiore dei casi, interverremo di persona”, spiega un uomo sulla cinquantina. Una delle sue figlie ha la stessa età di Desirée. “Certo che sono preoccupato per lei - ci confessa – qui è diventata terra di nessuno, spaccio e risse sono all’ordine del giorno”. “Nascondono la droga nelle nostre macchine, tra le ruote e i paraurti, conoscono i nostri orari ormai, per quello stanno tranquilli”, racconta una mamma. “Ti fermano per strada, danno fastidio alle ragazzine – continua un diciottenne della zona – a me hanno scippato la catenina d’oro e una volta mi hanno puntato un coltello contro”. Il clima nel quartiere dove la sedicenne di Cisterna è stata violentata e uccisa resta da Far West. E se il presidente della Camera, Roberto Fico, contrappone “l’amore” alle “ruspe”, i sanlorenzini non ci stanno e invocano più controlli da parte delle forze dell’ordine. “La polizia si vede solo di mattina, ma lo spaccio c’è a tutte le ore, soprattutto di sera”, denuncia Patrizia, la proprietaria di un bar all’angolo tra via degli Equi e via dei Volsci. È tra le ultime persone ad aver visto Desirée prima che morisse. “È venuta qui giovedì mattina a fare colazione, era lucida ma un po’ agitata perchè le avevano rubato il cellulare”, ci racconta. “Poi si è seduta qui fuori, sulla panchina, e dopo un po’ è andata via”. “Da donna ho paura”, ammette Patrizia che, tra un caffè e l’altro, ci rivela anche di tenere sempre un bastone a portata di mano sotto il bancone. “Qui resta pieno di balordi”, dice scuotendo la testa. “Ronde o passeggiate per la sicurezza non importa, se le fanno, fanno comunque bene”, è convinta. “Non serve tanto per riportare un po’ di ordine, bastano una ventina di persone robuste per cacciare gli spacciatori”, dice un ragazzo di zona. “Anche se loro sono tanti, noi - è pronto a giurare - non abbiamo paura di nessuno”. Per lui e per gli altri residenti, a speculare sulla tragedia di Desirée non sarebbe il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ma i centri sociali. “Come al solito hanno fatto una figuraccia, vengono qui a fare politica e non hanno nessun rispetto per la memoria di questa ragazza”, accusa la gente del quartiere. E c’è anche chi sostiene che la famiglia della giovane abbia già dato direttive precise. “Collettivi e femministe farebbero bene a non presentarsi al funerale di Desirée perchè – ci dicono – la famiglia non la prenderebbe bene, è già molto arrabbiata”. Ad una settimana dalla morte della sedicenne, l'atmosfera resta tesissima. E lo scontro politico rischia di infiammarsi ulteriormente nella giornata di oggi, con l’Anpi e il presidio “Con i migranti per fermare la barbarie” che si contrapporranno ai militanti di Forza Nuova, che hanno deciso di sfilare proprio a San Lorenzo nonostante polemiche e divieti.

Da Libero Quotidiano del 27 ottobre 2018. Il commento di Gad Lerner sulla tragica morte della 16enne Desirée Mariottiniha scatenato ferocissime polemiche sui social. Il giornalista ha scritto su Twitter: "Dopo Pamela Mastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée Mariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dell'odio razziale". Lerner ci ha tenuto a sottolineare che la ragazza fosse figlia di uno spacciatore italiano, come se il dettaglio potesse cambiare la gravità di quanto ha subito la ragazza, e solo a margine si ricorda di citare i "pusher immigrati", che sono i veri carnefici della giovanissima di Cisterna. In tanti lo accusano di aver scritto "una cosa vergognosa", "vomitevole", altri che accusano Lerner di giustificare gli stupratori dando più peso alle vicende familiari di Desirée. Tanto che qualcuno gli scrive: "Ci manca che scriva 'se l'è cercata' o 'alla fine vedete che è colpa sua'". L'ennesimo scivolone.

Boldrini, Lucarelli, Lerner e il grullismo ideologico, scrive Augusto Bassi il 28 ottobre 2018. Il sinistro raglio del catechismo nonpensante è ineluttabilmente arrivato, come annunciato. La patetica goffaggine del rovesciamento ideologico della verità, della realtà, ha il suono somaro della dissonanza cognitiva e guizzo nemertino nei riflessi pavloviani della Boldrini, di Lerner, della Lucarelli, serpeggiando pestilenzialmente fra i nostri avamposti multimediali. «Anzichè trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook, il Ministro Salvini lavori nel suo ufficio al Viminale e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza», scrive Laura. Il gelido ossequio alla vittima – femmina, minorenne, caduta sotto percosse maschili – portato di striscio, di sghimbescio, proprio dalla sposa dello spirito santo femminista, ci ha lasciato sorpresi e contrariati; nessun pensiero carezzevole per quella giovanissima anima sciagurata, nessun flagello verso i ripugnanti usurpatori; solo la foga uterina di chi, con risibile sforzo, cerca un falso colpevole. Per non trovare se stessa. E poi Selvaggia Lucarelli, su Facebook: «Quindi Cucchi che spacciava e si drogava vittima delle forze dell’ordine italiane era un tossico di merda, Desiree che era stata denunciata per spaccio e si drogava vittima di stranieri era un angelo volato in cielo. La doppia morale di tanti italiani». Distillato di grullismo ideologico, che piega la logica all’idea oca, rivelandosi più abbietto di qualunque bullismo. La storia di Stefano Cucchi è narrata in un film: «L’emozionante racconto degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi e della settimana che ha cambiato per sempre la vita della sua famiglia. Solo su Netflix. Primo mese gratuito». Il suo volto martoriato è già icona, effigie tumefatta di un martirio. Non la fine che si meritava un tossico di merda, Lucarelli, ma il martirio di un ragazzo sventurato, caduto tragicamente innanzi alla iattanza poliziesca. Senza dimenticare Carlo Giuliani, come Stefano vittima degli sbirri, che dà il nome a un’aula del Senato della Repubblica. Non un teppistello, ma un eroe della contestazione, un indomabile drago di fuoco giovanile, che oggi sarebbe civilmente in piazza a manifestare contro i fascismi, contro Salvini. Sulla sua storia si sono girati documentari, uno dei quali di F.Comencini; si sono scritti libri, su Giuliani. Perché nel sinistro pattume culturale post-sessantottino, che ha spalancato finestre di Overton sull’impensabile, ciò era possibile; di più: popolare. Mentre Netflix racconterà la storia di nessuna 16enne drogata, volata in cielo. Nessuna aula del Senato per Pamela o Desirée. Questa è doppia morale. Che scrivere, dunque, della tanto celebrata solidarietà femminile? Quando il senatore Vincenzo D’Anna invitava pubblicamente le ragazzine ad avere più cautela nel mostrare il proprio corpo, per non correre rischi inutili, veniva lapidato come gvetto maschilista, come stegosauvo del pensiero. Perché una donna sarà pur libeva di vestive come vuole senza esseve molestata! Ma quando una ragazzina audace di costumi – non un angelo, ma poco più di una bambina – viene mangiata viva da una clandestinità d’importazione che chiede a noi umanità… non un moto di pietà. Non un’invettiva verso la primigenia ferocia dei maschi. Una qualunque donna vittima di stupro e omicidio di gruppo da parte di cittadini italiani porta a magliette rosse e seminari sui femminicidi; grazie a Dio, aggiungiamo. Se poi è una fanciulla forestiera a essere preda dell’uomo indigeno, il caso diviene nazionale. Immantinente difesa, presidiata, consolata, anche fosse per un uovo in faccia, per una frittata democratica. I seminari di cui sopra, che ho ampiamente elencato nella puntata precedente, stimolano le ragazze a riconoscere un’insistenza patologica, un’avance potenzialmente pericolosa, la cinesica di un possibile pervertito. Eppure, le stesse allertate signore, leste a sporgere denuncia per una carezza sotto la coda o per un complimento inopportuno, così implacabili nei confronti della fallocrazia e dei suoi simboli, sembrano poi inconsapevoli dell’inopportunità di accogliere esemplari di maschio scarsamente avvezzi alla creanza, all’urbanità, alla parità fra i sessi; esotici gentiluomini forse troppo ruspanti, che vedono le femmine come bistecche da battere. E magari spezzettare. Selvaggia Lucarelli, cuore delicato, riguardoso, soccorrevole verso qualsivoglia femmina perseguitata, oppressa, nella vita reale come sul web – spesso più vivido e violento della vita stessa – neppure è riuscita a scrivere compiutamente il nome, di Desirée, tale la cura che le ha riservato. Perché con la furia irriflessa dell’ideologia, cretinamente à la page e sedicente “civile”, si è scaraventa dal Carrefour-gate al biasimo verso la doppia morale di tanti italiani. Cieca com’è di fronte alla sua. Per fortuna Oliviero Toscani ci salva da ogni aporia, intervenendo a Radio Capital. In studio, Vittorio Zucconi e un tragico buffone di cui dimentico sempre il cognome; pertanto non Giannini. Ci si affligge per la deriva pentaleghista, ma si parla soprattuto di ignoranza, sulla quale Toscani è effettivamente apprestato. Dopo aver caracollato nello sproloquio… Oliviero giunge alla stoccata: «Diciamolo una buona volta, chi insulta è un coglione!». E diciamolo. In questa fertile semenza di acutissimi analisti del pensiero urico, concludiamo in bruttezza con un’infiorescenza carnivora, Gad Lerner: «Dopo #PamelaMastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di #DesireeMariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dall’odio razziale». Oh my Gad, che prurigine! Supero il fastidio epidermico perché non è facile scrivere sotto l’assedio di parassiti ematofagi, arduo digitare mentre ci si gratta. Sì, ci suggeriscono qualcosa di più, Lerner: l’odio profondo, ragionato, coltivato, verso la viltà dei protervi, la stupidità degli adulteratori e l’opportunismo dei #farisei.

Differenza Sessuale Nell’accoglienza: Il Dono Che Dobbiamo A Desirée, scrive il 26 ottobre 2018 Marina Terragni. Ieri a Piazza Pulita si è parlato di Desirée. O meglio si è parlato di quasi tutto – degrado urbano, mercato della droga, quartiere San Lorenzo diviso tra salviniani e non salviniani, inerzia delle forze dell’ordine, quantum della manovra economica sul tema sicurezza, probabile imminente campagna elettorale per il sindaco di Roma - tranne che di Desirée. Per “parlare di Desirée” non intendo parlare della sua famiglia disfunzionale, del fatto che venisse bullizzata a scuola per un suo lieve difetto fisico, della sua eventuale tossicodipendenza o che le stesse capitando o meno di prostituirsi in cambio di un po’ di pasticche, fatto eventualmente non sorprendente. “Parlare di Desirée”, così come “parlare di Pamela”, o di Jessica ammazzata a Milano dall’uomo che le dava ospitalità, o di tante altre, significa parlare di ragazze martiri – nel senso etimologico di “testimoni” - della sessualità maschile violenta, dello stupro come dispositivo del dominio. Le vittime di femminicidio sono sempre donne che hanno fatto una mossa di libertà: che si sottraggono a relazioni malate, che disubbidiscono, che non si fanno tutelare da un maschio-padrone, che non si chiudono in casa quando fa buio, o che semplicemente si fidano di uomini e non accettano la parte della preda. Probabilmente Desirée si è fidata dei suoi aguzzini. E gli aguzzini hanno preso questa bambina senza padrone e l’hanno ridotta a cosa morta. Lo stupro è assassinio simbolico, è downgrade di una donna viva verso il non-umano. Qui all’assassinio simbolico è seguito l’assassinio reale, in una sequenza ancora non chiarita. Ma di che cosa si tratti è già chiarissimo: di violenza maschile, funzione del dominio. Su questo non servono ulteriori indagini. Su un’altra cosa va detta la verità (oggi dire la verità contro ogni tentazione di correctness, come insegna il #metoo, è precisamente la cosa che abbiamo da fare): l’immigrazione sregolata comporta dei costi, e uno dei costi che vanno nominati è un carico ulteriore di rischio e di violenza per le donne. Se è vero che il più della violenza avviene nell’ambito delle relazioni familiari, è vero anche che (dati Istat) in Italia il 40 per cento degli stupri viene commesso dall’8 per cento della popolazione, i cosiddetti “stranieri”, e questo è un fatto su cui ragionare. In Svezia – nazione europea con il più alto tasso di violenza maschile - il 95,6 per cento degli stupri commessi tra il 2012 e il 2017 è stato a opera di stranieri, così come il 90 per cento delle violenze di gruppo. Gli autori degli stupri provengono prevalentemente dal Medio Oriente, dai paesi africani e dall’Afghanistan (studio Jonasson-Sanandaji-Springare). Nel dicembre 2017 a Malmö le donne sono scese in piazza protestare contro l’ondata di violenze. Il primo ministro svedese e leader del socialdemocratici Stefan Löfven ha parlato di un “grande problema di democrazia” per il Paese e di un “doppio tradimento” nei confronti delle donne. Uno stupro è uno stupro è uno stupro, certo, chiunque lo commetta. Ma qui ci sono degli stupri in più. Qualunque discorso di accoglienza deve tenerne conto. Indire un corteo che rappresenta la San Lorenzo “solidale” mentre quella bambina attende ancora di essere sepolta non è una grande idea, soprattutto da un punto di vista femminista. Qualcuno potrebbe intendere che quella solidarietà è destinata ai clandestini spacciatori o ai mafiosi nigeriani (in prima linea anche nella tratta delle prostituite), e il malinteso procurerebbe solo altri problemi. Il femminismo non è ancella della destra, ma nemmeno della sinistra, soprattutto di una sinistra confusa e distopica. L’occasione casomai andrebbe colta per una riflessione sulla differenza sessuale nella migrazione e nell’accoglienza. Secondo uno studio della scienziata politica Valerie Hudson l’Unione europea sta accogliendo un numero sempre più alto di giovani maschi: il 73 per cento dei richiedenti asilo è composto da uomini. Circa l’87 per cento degli immigrati arrivati in Italia sono maschi di età compresa tra 18 e 34 anni, e quasi tutti sono arrivati da soli. Trend confermato dagli ultimi dati disponibili (Ministero dell’Interno): nel dicembre 2017 sono sbarcati 2.327 migranti, dei quali solo 255 donne; a gennaio 2018, su un totale di 4189 sbarcati le donne erano 600. In generale l’80-90 per cento dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da uomini giovani adulti. Favorire l’accoglienza delle donne comporterebbe molti vantaggi: per loro, anzitutto, ma anche per le comunità ospitanti, a cominciare dalle donne. Un buon lavoro femminista potrebbe essere proprio questo: lavorare perché le donne migranti - profughe e migranti economiche - godano di una corsia preferenziale. Chiedere che si tenga conto della differenza sessuale nelle politiche di accoglienza e di integrazione.  Quelle donne fuggono da guerre che non hanno dichiarato, da situazioni economiche e politiche che non governano, sono spesso oggetto di violenza sessuale, di sfruttamento e di tratta. In cambio dell’accoglienza portano in dono tutto il loro desiderio intatto di libertà e di un mondo più giusto.  Differenza sessuale nell’accoglienza! Lo dobbiamo anche a Desirée.

"Maometto era pedofilo". Ma la Corte europea: "Non si può dire". Secondo la Corte europea per i diritti dell'uomo non si può dire che Maometto era un pedofilo nonostante avesse sposato una bambina di sei anni, scrive Andrea Riva, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". La figura di Maometto è una delle più complesse della storia delle religioni. Della sua biografia, però, una cosa ha fatto più scandalo di altre, ovvero il suo matrimonio con una bambina di sei anni. Certo, obietta la narrativa musulmana, sei anni sono pochi, ma erano altri tempi. Ma sei anni sono sei anni, anche se, secondo le cronache Aisha, questo il nome della bimba, avrebbe consumato il rapporto a nove. Ovvero quando il profeta aveva 50 anni. E qui entra in gioco la storia di Elisabeth Sabaditsch-Wolff, un'attivista per i diritti umani che aveva definito pedofilo Maometto. L'accusa della donna, come riporta Libero, risulterebbe però infondata secondo una certa narrativa "in quanto i due erano ancora sposati quando lei aveva 18 anni. Pedofilo sarebbe chi sia attratto solo o principalmente da minorenni". Il punto è che la Corte europea per i diritti dell'omo ha detto che è la signora Elisabeth Sabaditsch-Wolff a sbagliare. In particolare - sottolinea Libero - "si stigmatizza tra l'altro la generalizzazione senza basi fattuali in cui è incorsa la donna".

“Non voleva passare per razzista”. Così la polizia ha coperto le gang, scrive il 24 novembre 2018 Eugenia Fiore su "Gli Occhi della Guerra". “Dovresti uscire di qua. Dovresti dimetterti. Figlio di puttana! Gli hai lasciato abusare di noi. Hai lasciato che uccidessero mia sorella!”.  A urlare queste parole in faccia all’ex commissario di polizia dello South Yorkshire, nel 2014, è Sarah Wilson, una della vittime dello scandalo di sfruttamento sessuale minorile di Rotherham: millequattrocento bambine stuprate da varie gang pachistane dalla fine degli anni ’90 al 2013.  Lei è una di quelle: prima adescata dalla banda e poi violentata per più di quattro anni di fila.  A volte anche da decine di uomini in una sola notte. Sua sorella minore, Laura, è morta invece in quello che viene chiamato il primo delitto d’onore del Regno Unito compiuto da un ragazzo di origine pachistana. Aveva 17 anni quando fu pugnalata e gettata in un canale da Ashtiaq Ashgar. Come riporta la Bbc, Wright darà le dimissioni qualche giorno dopo il confronto con Wilson. L’episodio è già di per sé molto evocativo di quanto accaduto nella cittadina inglese, dove le denunce degli abusi da parte delle gang sono stata ripetutamente ignorate e insabbiate per anni. Sono innumerevoli le testimonianze di genitori delle vittime a riguardo. “Abbiamo riportato più di 200 incidenti alla polizia. Con le prove. Le nostre denunce, però, sono state ignorate per anni”, afferma il padre di una delle ragazze a Gli Occhi della Guerra. “C’era da parte dei poliziotti la paura di essere identificati come razzisti, per questo preferivano lasciare perdere”.  Le stesse parole le abbiamo ritrovate parlando con due vittime delle gang. Questa realtà dai contorni a dir poco inquietanti trova riscontro nel numero di indagini sulla risposta da parte della polizia alle accuse di abusi sessuali. Come riporta il Guardian, infatti, sono circa un centinaio le indagini sulla polizia dello South Yorkshire da parte dell’Ufficio per la condotta della Polizia. Una scandalo nazionale, anzi mondiale, quello di Rotherham che eppure si è ripetuto più tardi a Huddersfield. Come abbiamo già riportato sugli Occhi della Guerra, in questa cittadina inglese sono 20 gli uomini, tutti di origine pachistana e anche in questo caso parte della comunità musulmana locale, condannati per stupro e sequestro di minori. Stesse modalità di adescamento. Stesse violenze. È poi di qualche giorno fa la conferma che, anche in questo caso, i campanelli d’allarme sono stati ignorati per anni. Come riporta il quotidiano locale Examiner Live, infatti, gli abusi perpetrati dalle gang pachistane si sarebbero potuti fermare almeno nove anni fa se solo la polizia non avesse ignorato le innumerevoli richieste di aiuto. “Avevano paura di essere chiamati razzisti. Il loro atteggiamento è stato molto legato a questo fatto”, racconta la madre di una delle vittime di Huddersfield. “Andavo a cercare mia figlia in non so quante città ogni sera e poi la recuperava davanti a case dove era stata violentata da diversi uomini in una sola notte”, aggiunge. “Le mie prove, però, non gli sono mai bastate”. Anche il deputato locale Barry Sheerman ha dichiarato alla Bbc che c’è stata una trascuratezza da parte delle autorità che non si può negare: “Siamo onesti. Le persone che avrebbero dovuto prendere tutto questo più seriamente, non l’hanno fatto”.

Intanto, però, anche in questo caso decine di bambine sono state sfruttate e stuprate. Per anni. 

L’orrore delle gang islamiche: migliaia di bimbe stuprate, scrive il 20 novembre 2018 "Gli Occhi della Guerra". Pervertiti e disumani. Sono solo due degli aggettivi usati dal giudice di Leeds per descrivere 20 uomini, tutti di origine pachistana, condannati a Huddersfield. Quella che apparentemente sembra una cittadina tranquilla nel cuore della Gran Bretagna nascondeva, e secondo diverse fonti nasconde tuttora, un giro di sfruttamento sessuale minorile inquietante. In altre parole, bambine anche di soli 11 anni sono state trasformate in schiave del sesso. Come? La gang adescava le prede per strada, all’uscita da scuola o alla stazione degli autobus. Apparentemente poteva essere un semplice invito a una festa. Ma qui, poi, c’erano gli alcolici. E dentro gli alcolici c’era la droga. Quello che succedeva dopo lo si può immaginare. “A un certo punto sono rimasta sola con uno di loro. Quella è stata la prima volta che mi hanno stuprato. E prima di quella notte non sapevo nemmeno cosa fosse il sesso”, racconta K., che per motivi legali deve rimanere anonima.  E poi aggiunge un dettaglio inquietante: “Spesso ci dicevano che noi non eravamo altro che spazzatura bianca”. Una volta che si entra nel giro, è praticamente impossibile uscirne. La quotidianità si trasforma, in qualche giorno, in un incubo a base di torture e minacce. Sì, perché se a 12 anni sei ricoperta dalla testa ai piedi di benzina e minacciano di darti fuoco, non dici di no. Ti lasci violentare. E se poi minacciano di dare fuoco pure a casa tua e alla tua famiglia, su quella macchina scura che ti aspetta davanti al cancello ci sali. Dai racconti delle vittime, oltre alle sfumature raccapriccianti, emerge infatti un fattore chiave: questi mostri riuscivano a controllare la mente delle adolescenti. È come se in qualche modo fossero diventate di loro proprietà. Proprietà dei loro stupratori. Solo per fare un esempio: la madre di una delle vittime ha raccontato che sua figlia ha rischiato di farsi male buttandosi giù dal balcone del primo piano di casa per uscire dopo che i suoi aggressori le avevano ordinato di incontrarli. Un’altra ragazza è invece riuscita a sfuggire agli abusi dopo che la gang pachistana ha dato fuoco a casa sua. La famiglia, di conseguenza, ha dovuto trasferirsi: “È stata la cosa migliore che potessero farmi, quella di dare fuoco a casa mia”.

“Usate e abusate a volontà”. Gli abusi hanno avuto luogo tra il 2004 e il 2011. I 20 uomini di Huddersfield, che fanno tutti parte della comunità musulmana locale, sono stati condannati alla Leeds Crown Court al termine di tre processi: hanno commesso oltre 120 reati ai danni di 15 bambine e ragazze. Ma, secondo quanto è emerso dalle carte, una cosa è certa: molti aggressori non sono ancora stati identificati. Stessa cosa vale per le vittime. E non è finita qua: risale al 16 novembre, infatti, la notizia che altre 30 persone dello stesso paese sono accusate di stupro, maltrattamenti, traffico di minori e droga. Andranno a processo tra un anno. Il leader della gang, Amere Singh Dhaliwal, un 35enne sposato con due figli, è stato condannato all’ergastolo. “L’entità e la gravità della tua violenza superano di gran lunga tutto ciò che ho visto in tutti i miei anni di lavoro”, ha affermato poco prima della sentenza uno dei giudici coinvolti. Le altre bestie del gruppo hanno preso invece dai cinque ai 18 anni. Utilizzavano tra loro nomi in codice come “Dracula”, “Bullo” o “Bestia”. Secondo quanto riportato da altri giurati di Leeds, gli aggressori, in particolare, predavano bambine e ragazzine giovani e vulnerabili. Una di loro avrebbe avuto infatti l’età mentale di un bimba di sette anni durante gli anni dell’incubo.

Orrore nazionale. Ma non è sol Huddersfield. È tutto il Regno Unito: è Rotherham, Oxford, Rochdale, Newcastle, Keighley, Halifax, Bristol, Aylesbury, Peterborough, Telford, Banbury, Derby. E certamente molte altre città. Dal 2005 ad oggi, circa 300 uomini sono stati condannati per stupro, traffico di minori e sequestro di persona. Di questi, il 99% fa parte della comunità musulmana locale.  In particolare si tratta nell’84% dei casi di persone di origini pachistane. Una più piccola fetta, invece, è di origine somala. C’è poi da considerare che molti processi e molte indagini sono ancora in corso. Inoltre, non è da escludere la possibilità che alcune di queste gang fossero collegate tra loro, considerando il fatto che spesso le vittime venivano portate dall’altra parte del Paese per poi essere vendute ad altri uomini. Questo crimine, fino a qualche anno fa, raramente veniva discusso nel Paese. Rappresentava una sorta di tabù. Questi abusi sessuali sono stati spesso ignorati o addirittura insabbiati. A Rotherham, infatti, dove 1400 bambine sono state stuprate e abusate per anni, la polizia si è scusata pubblicamente per avere ignorato per anni le innumerevoli richieste di aiuto da parte di ragazze e famiglie. Molti poliziotti hanno ammesso che avevano paura di essere identificati come razzisti affrontando l’argomento. E così, la protezione della reputazione istituzionale o della coesione comunitaria è venuta prima della tutela di queste bambine.

Gli orrori degli immigrati, scrive Andrea Indini, il 20 novembre 2018 su "Il Giornale". Quando in redazione sono stati chiari i numeri della portata dell’orrore perpetrato dalle gang islamiche negli ultimi quindici anni, è stato chiaro che bisognava andare fin nel cuore dell’Inghilterra per raccontare da vicino un dramma che, a mio avviso, è un campanello d’allarme per tutta l’Europa. Quello che per la prossima settimana gli Occhi della Guerra racconteranno, con un reportage a puntate firmato da Eugenia Fiore, è il viaggio in un abisso fatto di violenze, torture e stupri che, a ben guardarli, non sono una novità per quei Paesi (come anche l’Italia) che hanno ospitato centinaia di migliaia di immigrati senza mai ospitarli davvero. Un orrore che riecheggia gli stupri di Pamela Mastropietro a Macerata e Desirée Mariottini a Roma o le molestie sessuali della notte del Capodanno 2016 a Colonia. Rotherham, Rochdale, Banbury, Bristol, Calderdale, Halifax, Keighley, Peterbourgh, Rochester, Derby, Aylesbury, Oxford, New Castel, Telford e Huddersfield. A mettere insieme, puntellando la mappa dell’Inghilterra, tutte le cittadine dove queste gang di immigrati(soprattutto pachistani e somali) sequestravano le minorenni per poi torturarle e stuprarle, appare subito chiaro che non si tratta di casi isolati, ma di violenze che sono andate avanti per svariati anni e che, passate sotto traccia sulla stampa britannica e messe a lungo a tacere dalle autorità giudiziarie, si sono allargate a macchia d’olio contagiando tutto il Paese come un cancro inestirpabile. Le testimonianze delle vittime raccolte sugli Occhi della Guerra (guarda il video) sono un pugno nello stomaco che lascia senza fiato. Perché gli aguzzini sono uomini di ogni età, inseriti nel tessuto sociale ma mai integrati con la cultura europea. Molti di loro hanno anche mogli e figli. E pressoché tutti fanno parte della comunità musulmana locale. Dal 2005 a oggi ne sono stati arrestati ben 300, ma è possibile che la portata di questo scempio possa ulteriormente allargarsi. Solo a Rotherham si parla di 1.400 bambine stuprate. “Spesso – racconta una ragazzina di Huddersfield – ci dicevano che noi non eravamo altro che spazzatura bianca”. Le immagini degli Occhi della Guerra sono un campanello d’allarme. Per entità del dramma sono sicuramente un unicum in tutta Europa, ma negli anni passati ci sono già stati numerosi episodi che avrebbero dovuto farci aprire gli occhi. Lo è, per esempio, quanto accaduto la notte del 31 dicembre 2016 davanti alla stazione di Colonia. Nei giorni immediatamente successivi non fu facile ricostruire i fatti dal momento che la stampa tedesca (eccezion fatta dei tabloid) minimizzava la portata degli abusi e, soprattutto, nascondeva la nazionalità degli aggressori. Dopo qualche settimana, però, è venuto tutto a galla: decine di donne subirono pesantissime molestie sessuali da immigrati ubriachi per una sorta di gioco di rituale che in arabo si chiama taharrush gamea e che consiste nell’umiliare le donne per strada. Nel corso dei processi la portata degli abusi si è ridimensionata, ma ha comunque confermato un campanello d’allarme che i buonisti e il politically correct cercano continuamente di nascondere. L’Italia non è certo immune da certe violenze. Si tratta di casi isolati, per carità. Ma continuano a crescere. I report più recenti fotografano un quadro inquietante: gli stranieri sono molto meno di noi, ma commettono molti più reati. Questo perché negli ultimi cinque anni abbiamo assistito, senza muovere un dito, a un’immigrazione selvaggia (e irregolare) che non è mai stata canalizzata attraverso l’integrazione e il lavoro. “Il rapido e incontrollato incremento di flusso immigratorio – spiegava a giugno il sociologo della Sapienza Luigi Maria Solivetti – avveniva nonostante l’alto tasso di disoccupazione (circa 10% della forza lavoro 1995-2015), l’elevato livello d’ineguaglianza economica, la rigidità del mercato del lavoro e il basso livello della libertà economica: tutti aspetti sfavorevoli all’integrazione e al benessere economico degli immigrati”. La brutalità con cui è stato fatto a pezzi il cadavere di Pamela e poi buttato via sul ciglio di una strada, o le sevizie inaudite, a cui sono state sottoposte le vittime di Guerlin Butungu e soci sulle spiagge di Rimini, sono certamente figlie di questa mancata integrazione. Come lo è la fredda premeditazione del branco di africani, che hanno drogato, stuprato e ucciso Desirée in un rudere abbandonato. Molti di questi criminali non erano nemmeno in regola con i permessi di soggiorno. Il prerequisito è sicuramente la legalità ma, come dimostrano le inchieste inglesi, questa da sola non basta. Nella maggior parte di questi fatti di cronaca il problema è, infatti, culturale e deve inevitabilmente passare attraverso l’educazione (scolastica, ma non solo), il rispetto della donna e delle leggi italiane e, infine, la negazione definitiva di certe leggi non scritte che non possono (e non devono) trovare terreno fertile in Europa.

Boom di violenze sessuali, le donne tedesche si ribellano ai migranti e ai buonisti: ecco la campagna di 120db, scrive Francesca Totolo con fonte Il Primato Nazionale riportato da riscatto nazionale.org. "Riscatto Nazionale l'8 agosto 2018. Anche in Germania come in tutto il Nord Europa è emergenza violenze sessuali da parte degli immigrati islamici e dei sedicenti profughi. Ma le donne tedesche iniziano a ribellarsi, contro l’immigrazione selvaggia che ha riempito le città europee di terroristi, stupratori, spacciatori e criminali di ogni tipo, e contro i media di regime, che nascondono i reati delle bestie immigrate per non fomentare l’odio”. Ecco la campagna antistupro dell’associazione 120 dB. Roma, 8 ago – Non è una questione di razzismo e xenofobia contro gli stranieri, ma una battaglia di verità che cerca di portare l’attenzione su una piaga che sta diventando ormai un allarme in tutta Europa: il dilagare delle violenze sessuali sulle donne che vedono come responsabili gli immigrati. La campagna #120dB – 120 decibel è la frequenza emessa dall’intimo antistupro creato nel gennaio 2017 in seguito alle violenze commesse da parte dei richiedenti asilo contro le donne tedesche al capodanno di Colonia – è stata lanciata in Germania nel gennaio scorso da un gruppo coraggioso di donne, in risposta ai crescenti episodi di violenze commessi dagli immigrati in tutta Europa. Mia, Maria ed Ebba sono solo tre delle numerose vittime di questa continua violenza sulle donne, volutamente taciuta dalla stampa tradizionale per non «fomentare odio» e molte volte censurata per presunto hate speech. Alle accuse di xenofobia e di etno-sessismo avanzate dai soliti progressisti – che hanno invece sposato come una dottrina il movimento liberal #MeToo, primo tra questi il centro di ricerca Media Matter finanziato dalla Open Society Foundations di George Soros – le donne tedesche di 120 decibel hanno risposto così: «Questa sono false accuse. Non possiamo permettere che le voci delle vittime vengano soffocate solo perché gli aggressori sono gli immigrati. Non ci inchineremo a una falsa narrativa politicamente corretta. In Germania, troverete molte statistiche, che mostrano come esista una chiara connessione tra l’aumento dell’immigrazione e l’aumento delle denunce di violenza sessuale». Ma tale aumento non riguarda solo la Germania e la Svezia, dove – giova ricordarlo – le donne possono chiedere anche la scorta della polizia quando fanno jogging nei parchi, ma anche l’Italia. I quasi 20mila detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziari italiani rappresentano il 34% della popolazione carceraria totale (58.506). I principali reati commessi dagli stranieri, regolari e irregolari, riguardano lo spaccio (7.659), i crimini contro il patrimonio (9.176) e contro la persona (7.244 dove sono incluse anche le violenze contro le donne). Grazie a una ricerca del 2017 pubblicata da Il Sole 24 Ore, sappiamo che il 37,5% delle violenze sessuali in Italia sono commesse da stranieri. A tal proposito, ricordiamo che gli stranieri residenti regolari sono 5.047.028, più i circa 600.000 irregolari arrivati in Italia grazie alla rotta libica e tunisina. Quindi non è difficile capire l’allarme violenza ai danni delle donne in Italia causata dall’immigrazione non regolata: il 9%, ovvero la popolazione straniera regolare e irregolare presente in Italia, ha commesso il 37,5% degli stupri totali. Ovvero una donna su 2,7 è vittima di stranieri, spesso illegali. A chi giustifica tutto ciò con un «ma anche gli italiani», ricordo che il 37,5% delle donne non avrebbero subito alcuna violenza se quei criminali stranieri non si fossero trovati nel nostro Paese. Quindi da italiana, da donna e da ricercatrice specializzata sulle tematiche dell’immigrazione, senza inutile retorica e perbenista ipocrisia, appoggio la campagna tedesca 120 decibel (#120dB). Perché l’integrazione, se possibile, passa soprattutto attraverso il rispetto delle nostre leggi e del nostro stile di vita. E ovviamente attraverso i rimpatri immediati di questi criminali. Il #MeToo lasciamolo a chi vive nei castelli incantanti e ben fortificati.

“Migrante uccise mio figlio. La procura ha nascosto tutto”, scrive il 24 settembre 2018 Eugenia Fiore su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". “Sto lottando per avere giustizia. È questa l’unica cosa che mi tiene ancora in vita”. Mentre ci parla, Karsten Hempel ha due occhi che esplodono di rabbia e dolore. Fanno venire i brividi. Questo uomo sulla sessantina dal modo di fare delicato è un padre che ha perso il suo unico figlio. La cosa peggiore che possa succedere a un genitore, quindi. Ora la sua storia, dopo essere stata soffocata dall’omertà dei principali media tedeschi, arriva in Italia. “Il 29 settembre 2017 mio figlio è stato picchiato a morte da un richiedente asilo siriano davanti a un centro commerciale a Wittenberg. L’episodio – racconta Karsten – è stato ripreso dall’inizio alla fine da una telecamera di sorveglianza dell’edificio”. Dopo aver denunciato il fatto tramite i suoi legali, infatti, Karsten riceve dalla procura di Dessau una copia del filmato. Come si può vedere dalle immagini, la sequenza è piuttosto chiara. Il 29 settembre 2017 verso le 15 Marcus Hempel, 30 anni, arriva al centro commerciale insieme alla sua fidanzata. La coppia parcheggia le bici e si avvia a piedi verso l’ingresso. Intanto i quattro richiedenti asilo siriani sono fermi su un lato. Marcus è già oltre la porta quando uno di loro urla qualcosa. Il trentenne torna allora indietro innervosito. I due iniziano a discutere e a spingersi, fino a quando Marcus tira uno schiaffo al siriano. L’immigrato, a quel punto, si scaglia contro di lui e lo colpisce alla testa. Una, due, tre volte. Al terzo pugno Marcus finisce per terra sbattendo violentemente la testa. Morirà qualche ora dopo in ospedale. “La polizia ha rilasciato subito dopo un comunicato stampa. E questo comunicato stampa -spiega Karsten – corrisponde a quello che si vede nel video, è corretto”. Fin qui, quindi, tutto quadra. Ma ecco cosa succede in seguito. “Tre giorni dopo l’accaduto la procura di Dessau rilascia un comunicato stampa che contraddice completamente quello della polizia e cambia tutto ciò che si vede nel video”. Il pm di Dessau, infatti, archivierà il caso affermando che il richiedente asilo avrebbe agito per autodifesa. “Questo Makus Steeger (il nome del siriano, ndr) non è mai stato arrestato né messo in custodia cautelare. Niente, proprio niente”, spiega Karsten. Il richiedente asilo che ha picchiato Marcus, infatti, è libero e vive tranquillamente in Germania. La polizia l’aveva fermato per circa 24 ore il 29 settembre, ma poi il pm non ha convalidato la misura cautelare. “Io penso che il modo in cui il caso è stato presentato sia stato pianificato fin dall’inizio. Provate a immaginare se, da un momento all’altro, in una città con così tanti turisti si viene a sapere che un ragazzo tedesco è stato ucciso da quattro richiedenti asilo. Ecco, io credo che abbiano voluto nascondere come sono andate davvero le cose”. Secondo la polizia, dunque, Marcus è stato colpito da diversi colpi alla testa. Il pm di Dessau, invece, parla di un solo colpo. “Perché mi vogliono dire che una cosa è blu quando è verde?”, si chiede Karsten. E aggiunge: “Forse il pm non sa contare?”. Il rappresentate del Ministero della giustizia della Sassonia-Anhalt, Hubert Böning (CDU) si rifiuta di prendere una posizione sull’accaduto. L’otto giugno scorso il caso è stato presentato in Consiglio federale da alcuni esponenti dell’Afd. “Ha mai guardato il video delle telecamere di sorveglianza?”, è stato chiesto a Böning. Lui, però, non ha mai risposto a questa domanda. I mesi passano e, a un anno dall’accaduto, Karsten Hempel non è ancora riuscito a portare il caso a processo. L’indagine è stata ora consegnata alla Procura di Magdeburgo. Intanto i media nazionali restano in silenzio.  Alcune testate locali come il WittenbergerSonntag, invece, hanno attaccato Marcus Hempel definendolo un “nazista dichiarato”. Solo due settimane fa, un ragazzo tedesco di 22 anni è morto dopo essere stato coinvolto una rissa con due richiedenti asilo afghani. I media tedeschi parlano di un “decesso per arresto cardiaco” non direttamente collegato alle lesioni della colluttazione. Il 22enne, però, aveva delle costole rotte e il cranio fratturato.  A fine agosto, invece, un cittadino tedesco-cubano ha perso la vita dopo essere stato accoltellato. Per l’omicidio sono stati fermati due richiedenti asilo. Ma il 18 settembre l’immigrato iracheno – il principale sospettato – è stato rilasciato dalle autorità tedesche.  “Nessun testimone l’ha visto dare delle coltellate”, ha scritto il suo avvocato in una nota. 

Immigrazione e manipolazione: come i media tedeschi hanno falsificato la realtà, scrive Giampaolo Rossi il 4 agosto 2017 su "Il Giornale". È un atto di accusa senza precedenti quello contro i media tedeschi: nel pieno dell’emergenza migranti, tra il 2015 ed il 2016, i principali giornali della Germania hanno deliberatamente falsificato la realtà dando un’informazione unilaterale e acritica del fenomeno abbracciando esclusivamente il punto di vista della Merkel, del suo governo e dell’élite politica ed economica che voleva imporre all’opinione pubblica la “cultura dell’accoglienza indiscriminata”. L’accusa non viene dai soliti polemisti reazionari, da spudorati blogger di destra o dai sempreverdi xenofobi utili per liquidare qualsiasi opposizione al delirio del multiculturalismo ideologico. No. Stavolta l’accusa parte da una ricerca della Fondazione Otto Brenner e realizzata da un pool di ricercatori dell’Università di Lipsia e della Hamburg Media School, coordinati dal prof. Michael Haller; il titolo è “La crisi dei rifugiati sui media” ed è è “lo studio più completo e metodologicamente elaborato sul tema”.

La ricerca ha analizzato oltre 30 mila articoli dei principali giornali nazionali e regionali tedeschi tra il 2015 e il 2016. Oltre 200 pagine dense di numeri e statistiche su quello che hanno prodotto Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Die Welt, Bild, così come le pubblicazioni online e 85 giornali regionali. Dal 2015 al 2016 nessun giornale ha raccontato le preoccupazioni, i timori di una parte crescente della popolazione…La conclusione è devastante: mentre la Merkel imponeva la “politica delle porte aperte” nessuno degli editoriali o degli articoli che riguardavano il tema dell’immigrazione “ha raccontato le preoccupazioni, i timori e anche la resistenza di una parte crescente della popolazione”; in altre parole è come se per i giornali tedeschi, un pezzo (probabilmente maggioritario) dell’opinione pubblica del proprio Paese non fosse esistita. E le rare volte che i giornalisti collettivi hanno provato a raccontare quella parte di Germania preoccupata dall’immigrazione, l’hanno fatto “con un atteggiamento pedagogico” se non “sprezzante”. Chi non era allineato al mito dell’accoglienza era automaticamente xenofobo o razzista…I giornali non hanno saputo (o voluto?) distinguere tra le posizioni veramente xenofobe e razziste di una minoranza, con le legittime e realistiche preoccupazioni di pezzi importanti della società tedesca di fronte all’invasione di oltre un milione di immigrati voluta dalla signora Merkel. E quel sentimento di insicurezza, paura è stato trasformato in razzismo e intolleranza quando non di arretratezza culturale. Insomma il solito snobismo stupido dei menestrelli dell’élite europea.

Per capire il modo in cui i giornali tedeschi hanno manipolato l’opinione pubblica basterebbe qualche dato che emerge dalla ricerca: tra la primavera 2015 e la primavera 2016, nei tre quotidiani principali del paese, solo il 4% degli articoli è stata un’intervista e solo il 6% un report con dati oggettivi. Un articolo su cinque è stato un editoriale di commento che esprimeva ovviamente il parere delle redazioni, “una cifra insolitamente alta”. Nella classifica dei personaggi ascoltati o citati sul tema, due su tre sono stati politici di governo o di partiti favorevoli all’immigrazione; solo il 9% esponenti della giustizia (ufficiali delle Forze dell’Ordine, magistrati, giudici o avvocati) su temi legati all’ordine pubblico; appena il 3,5% studiosi o esperti di temi legati al multiculturalismo, al diritto di famiglia nelle società islamiche o al rapporto tra sunniti e sciiti.

Un caso emblematico è stata la narrazione costruita attorno alla definizione di “Willkommenskultur” o Cultura dell’Accoglienza tanto cara in Italia alla Boldrini, a Saviano e agli esegeti del pensiero sorosiano. I giornali hanno trasfigurato il concetto di Accoglienza, trasformandolo in una parola magica…Secondo lo studio, i giornali tedeschi hanno “trasfigurato il concetto di Accoglienza” trasformandolo in un “obbligo morale (…) una sorta di parola magica” per convincere i cittadini “a svolgere un’attività da buoni Samaritani verso i nuovi arrivati”. Per tutto il 2015 e buona parte del 2016, l’83% dei contenuti giornalistici ha enfatizzato il concetto di Accoglienza, nascondendo l’esistenza di una sempre maggiore fetta di popolazione scettica e dubbiosa sulla Willkommenskultur. E quando l’imposizione moralista non funzionava più, ecco pronta (come in Italia) la ricetta pseudo-economica da imporre come verità incontrovertibile dai soliti tecnici ed esperti: “la Germania ha bisogno di centinaia di migliaia di lavoratori per contrastare l’invecchiamento della popolazione”; ergo chi non vuole accoglierli fa il male della Germania. E così mentre i giornali sovraesponevano le manifestazioni di “benvenuto” agli immigrati, nascondevano le manifestazioni contrarie che si svolgevano in molte città tedesche.

Certo la ricerca ha dei limiti; per esempio non ha preso in considerazione l’informazione televisiva in quanto questo avrebbe richiesto uno studio molto più complesso sul rapporto tra immagine e parola. Ma l’idea di fondo è chiara. Secondo Michael Haller, il Direttore della Ricerca, i giornalisti tedeschi “hanno ignorato il loro ruolo professionale e la funzione informativa dei mezzi di comunicazione” utilizzando “troppo sentimentalismo buonista e troppo poche domande critiche ai responsabili di quelle decisioni”; e questo ha contribuito a generare una profonda divisione nell’opinione pubblica tedesca e un discredito totale verso il mondo dell’informazione. Jupp Legrand, Direttore della Fondazione Brenner, ha specificato che la ricerca mostra “la crisi strutturale del cosiddetto manistream” perché “la realtà descritta dai giornalisti è stata molto lontana da quella che tutti i giorni vivevano i loro lettori”. Un modo elegante e neutro per denunciare che le vere fabbriche di “fake news” in Occidente si trovano nelle redazioni dei grandi giornali del potere economico e culturale. Nei giorni in cui in Europa si sta svelando il fallimento del multiculturalismo progressista; in cui, anche in Italia emerge la stupidità con cui una classe politica irresponsabile e dolosa ha affrontato il tema dell’immigrazione; in cui il disegno criminale costruito attorno ai progetti di immigrazione indotta si fa sempre più evidente, il tema di una corretta informazione è vitale per la tenuta di una democrazia. Se una ricerca simile venisse fatta in Italia i risultati sarebbero forse simili; anche da noi, per anni, i grandi giornali hanno di fatto costruito una narrazione simile a quella tedesca criminalizzando chi non si adeguava al pensiero dominante o ignorando le tante voci di dissenso rispetto alla visione irenica dell’immigrazione. Ora però il clima sembra essere cambiato. Per carità quando i grandi giornali danno spazio agli intellettuali e alle loro profonde riflessioni, la irrealtà ideologica prende il come al solito il sopravvento scivolando quasi nella stupidità.

Ma quando si limitano a fare il loro mestiere, cioè a raccontare la cronaca e i fatti, allora la verità di questa nuova ed epocale tratta degli schiavi spacciata per destino storico, emerge impietosamente. E in questo caso non basteranno i Saviano e le Boldrini a inventarsi la realtà.

No, la Germania non è il paradiso: viaggio nel paese che nessuno racconta. Nello Stato più ricco d’Europa aumentano povertà e disuguaglianze. Mentre nel profondo Nord l'ostilità ai profughi è più forte dell'accoglienza. Siamo andati a scoprire la Germania fuori dai luoghi comuni, scrive Fabrizio Gatti il 26 aprile 2017 su "L'Espresso. La Germania è il tocco di un guanto di pelle sulla spalla. Ti svegliano così sul sedile dell’Eurocity 86 tra Verona e Monaco di Baviera. «Reisepass?», domanda il poliziotto della Repubblica federale. Poi sfoglia il passaporto e si sofferma sulla foto. L’epoca delle frontiere aperte è davvero finita, non solo per i profughi. L’uomo in divisa nera chiede i documenti perfino a due ragazzi e alle loro fidanzate biondissime, che stanno rumorosamente chiacchierando nel loro marcato accento bavarese. Forse lo fa giusto per evitare discriminazioni in pubblico: gli agenti italiani, saliti sul treno al confine del Brennero un’ora e mezzo prima, hanno controllato soltanto i passeggeri con la faccia scura. La polizia tedesca sembra molto più attenta al galateo multiculturale: o si controllano tutti i cittadini, o non lo si fa con nessuno. La Gleichheit, l’uguaglianza: è il primo filo al quale è appesa la società che Angela Merkel, 63 anni, sta consegnando alle elezioni federali del 24 settembre. Il secondo è la fiducia reciproca. Il terzo la sicurezza economica che, dove non c’è lavoro, è garantita da un sistema di protezione sociale ancora diffuso. Tre fili ben visibili nella vita quotidiana: insieme sostengono l’immagine di un popolo solido e apparentemente unito. Ma sono fili sempre più sottili: una crisi improvvisa, un nuovo attentato jihadista, il risveglio populista li potrebbe spezzare. Lo si nota chiaramente, girando in lungo e in largo questa nazione in cui, secondo dati pubblicati nel 2016, il 15,7 per cento degli ottanta milioni di abitanti è considerato a rischio povertà. E il 14,7 è già povero, con punte del 19 per cento tra i bambini. Da Sud a Est, da Nord a Ovest. Dalle Alpi alla Polonia. Dal Mar Baltico al Reno. Rigorosamente su treni regionali. E qualche Intercity. Oltre tremila chilometri. Questo è il diario di un viaggio sottopelle nel corpo della Germania e dell’Unione Europea. La Cancelliera di Berlino non è infatti soltanto la donna che governa da dodici anni, leader dell’Unione cristiano democratica, candidata per la quarta volta consecutiva. Angela Merkel rischia di essere l’ultimo robusto sbarramento europeo contro l’avanzata delle destre nazionaliste e sovraniste, a cominciare dalla Francia di Marine Le Pen. E può essere un rischio, sì: perché Frau Merkel è perfino umanamente più concreta di papa Francesco nell’accogliere i rifugiati, ma è più brutale di Margaret Thatcher nel difendere i dogmi economici. La sua dottrina contiene il bello e il brutto tempo. Industria galoppante a Ovest, Stato assistenziale a Est e nelle periferie delle grandi città. Disoccupazione intorno al tre per cento in Baviera e Baden-Württemberg, percentuali mediterranee sopra il dieci in quasi tutte le regioni orientali. La ricchezza media dei tedeschi per ora nasconde bene lo stress. Ma fino a quando reggeranno quei tre fili ai quali sono tutti appesi?

La stazione Centrale di Monaco è completamente aperta. Non ci sono controlli per accedere ai binari. Non ci sono camionette mimetiche e soldati nelle piazze, intorno alle chiese, davanti ai monumenti. L’attentato del 22 luglio 2016 al centro commerciale Olympia nel quartiere di Moosach sembra avvenuto in un altro mondo: 9 morti e 35 feriti, colpiti dalla pistola di Ali David Sonboly, 18 anni, genitori iraniani, passaporto tedesco, simpatizzante di estrema destra. L’arma con cui poi si è ucciso, Ali David l’aveva comprata da un amico afghano conosciuto in un reparto psichiatrico. Ma gli spari di quel pomeriggio di guerra non hanno scalfito la Vertrauen, la fiducia reciproca a cui partecipano tutti: tedeschi e immigrati. Noi italiani al confronto viviamo in uno stato d’assedio permanente. Non è solo questione di sicurezza. Non ci sono tornelli, sbarre, cancelli nemmeno per entrare o uscire dalle stazioni sotterranee della metropolitana. Un euro e quaranta il biglietto. E solo una persona ogni venti timbra l’ingresso. Gli altri? Avranno l’abbonamento, o forse no. Ma la fiducia è un collante sociale che vale molto di più di un euro e quaranta centesimi. Così nessuno ferma nessuno. Lo stesso filo riappare agli angoli di qualche strada o nelle piazze. I tedeschi non hanno mai smesso di leggere i giornali. E non dappertutto ci sono edicole. Bastano una scatola di vetro trasparente sul marciapiede, un coperchio sempre aperto, una feritoia per i soldi. Si infilano le monete e si prende il quotidiano. “Bild” costa 90 centesimi. Ma “Frankfurter Allgemeine” 2,70 euro al giorno, 2,90 il sabato, 4 euro la domenica. Chiunque potrebbe prendere il giornale o tutti i giornali senza pagare. Oppure forzare la cassetta e rubare i soldi. Soltanto “Süddeutsche Zeitung”, a pochi passi da Marienplatz, usa un distributore che rilascia una copia alla volta dopo aver infilato gli spiccioli.

La fiducia fa funzionare lo stesso sistema ovunque. Anche in campagna. Al posto dei quotidiani lì vendono prodotti della terra come zucche, sacchi di patate, frutta. Nessun agricoltore si sognerebbe di perdere tempo a fare il commerciante. Bastano un tavolo lungo la strada, un cartello con il listino prezzi e una cassetta: il cliente prende gli ortaggi e lascia il dovuto, senza che nessuno controlli. La sera passa il contadino e ritira l’incasso. Se questo rodato meccanismo sopravvive è perché i furti sono ancora una rara eccezione. Il sabato sera la Baviera è un viavai di trentenni, quarantenni, cinquantenni in calzoncini corti, calzettoni, bretelle e camicia a quadri. Non tutti indossano i costosi Lederhosen originali in pelle di camoscio. Va di moda la versione casalinga del pantalone vecchio di velluto, tagliato appena sopra il ginocchio. Vestirsi secondo la tradizione piace soprattutto agli uomini. Le donne agghindate con gonnellino e grembiule sono più rare. È anche un gesto politico il loro. Un po’ come se Matteo Salvini si vestisse da Brighella e gli industriali veneti da Pantalon. Alle undici di sera quasi tutti i ristoranti di Monaco hanno già le sedie rovesciate sopra i tavoli per le pulizie. L’Augustiner Klosterwirt, proprio davanti la cattedrale di Nostra Signora, è invece un frastuono di voci, gente in piedi e boccali di birra. Lì dentro tutti, proprio tutti, indossano Lederhosen e camicia a quadri. Camerieri e clienti. Al punto che è difficile distinguere a chi chiedere l’ordine: scambiare un imprenditore bavarese alticcio per il barman non provoca certo risposte amichevoli. Il desiderio di identità dei tedeschi del Sud ha il suo risvolto con gli immigrati turchi e arabi. La domenica pomeriggio vengono dalla periferia a passeggiare tra i negozi chiusi della centralissima Neuhauser Strasse. Davanti i bambini. Per ultimi i papà. In mezzo, le loro mogli rigorosamente avvolte nello chador nero. E di tanto in tanto qualche niqab, il velo integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi.

Passau, la città al confine austriaco dove confluiscono i fiumi Inn e Danubio, è la porta tedesca della rotta balcanica. Gli accordi con la Turchia e il filo spinato in Ungheria hanno ridotto il flusso di profughi. Quanti ne passano adesso? «Sempre troppi», risponde il poliziotto di pattuglia al marciapiede dove si fermano i treni in arrivo dall’Austria. Ousmane Gaye, 28 anni, è partito da Bamako in Mali, ha attraversato il Sahara e ha chiesto asilo in Germania. La qualità del sistema di accoglienza è dimostrata dal suo tedesco: in appena due mesi di corsi obbligatori, lo parla già discretamente. Stanotte ha lasciato il dormitorio per venire in stazione a raccogliere bottiglie: «Al supermercato c’è una macchina che ricicla la plastica. Per ogni bottiglia ti danno venticinque centesimi», spiega e va a rovistare nei cestini. Solo che ha la pessima idea di attraversare i binari, anziché scendere nel sottopasso. E due agenti, l’uomo di prima e una ragazza, lo bloccano. L’identificazione va per le lunghe. Proviamo ad avvicinarci. «Mi hanno fermato perché ho attraversato i binari», ammette Ousmane. Bella stupidaggine, attraversare i binari è pericoloso. «No, non è pericoloso», interviene il poliziotto, «è proibito». Le sue parole sono lo spartiacque della vita quotidiana di un tedesco. Non è necessario scomodare l’inflessibilità con cui la Germania mette periodicamente sotto accusa i bilanci di Stato italiani o greci. Basta fermarsi di notte davanti al semaforo pedonale di Karlsplatz a Monaco, all’angolo con il senso unico di Prielmayerstrasse. Non c’è traffico, non arrivano auto, sono solo pochi metri. Davanti al rosso si fermano gruppi di giovani tiratardi. Passare a quest’ora non sarebbe pericoloso. Ma tutti aspettano il verde. Il rigore teutonico costa a Ousmane 25 euro di multa: cento bottiglie da raccogliere e infilare nella macchina mangiaplastica.

Uscire dalla stazione di Chemnitz è un tuffo nel silenzio. Strade deserte, non si vedono auto né persone, anche se sono le quattro del pomeriggio. Durante la dittatura della Germania Est si chiamava Karl-Marx-Stadt e del periodo conserva la grande statua del filosofo, i casermoni di cemento, i vialoni tipici della megalomania comunista. Mancano però gli abitanti. Il trenta per cento delle case è vuoto. E lo si sente nella mancanza di rumore di fondo. Chi ha potuto, se ne è andato all’Ovest o si è avvicinato ad altre città della Sassonia, come Lipsia e Dresda. Chemnitz ha due anime. Una è luminosa e per molti irraggiungibile dentro le vetrine dei due grandi centri commerciali, che si fronteggiano sulla piazza del municipio. L’altra è l’anima cupa e disoccupata di Sonndenberg, il vecchio quartiere in cui i fili dell’uguaglianza, della fiducia e della sicurezza economica si sono spezzati da tempo. Superata la sede dei socialdemocratici della Spd e una sala slot-machine, si cammina tra gli isolati dei negozi turchi e arabi. Gli alunni di una classe attraversano il cortile della scuola: su otto bambine, sei indossano il velo. Già in quarta elementare in Germania bisogna decidere cosa fare da grandi: il Gymnasium, il liceo che apre le porte all’università, comincia a dieci anni. E qui in Sassonia si è ammessi soltanto se la media dei voti è almeno due, secondo una scala che attribuisce uno come punteggio massimo e quattro come sufficienza: una selezione che divide la società tra manager e operai fin da piccoli. Più su in cima alla salita, i caseggiati più vecchi. Giovanissime mamme tedesche escono dai portoni e spingono carrozzine e passeggini. Molte di loro costituiscono famiglie monogenitoriali, mantenute dai sussidi statali. La quantità di piercing, anelli al naso, tatuaggi sulla pelle degli abitanti tradisce il forte bisogno di identità. Questo quartiere popolare nasconde una diffusa rete neonazista. Come se ne incontrano ovunque a Est, alla periferia di Dresda. Oppure nei paesi agricoli tra Schwerin e Wismar, in Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il profondo Nord, bacino elettorale della Cancelliera: dove i commercianti mettono in vetrina riviste dai titoli “Califfato Germania” contro l’accoglienza dei profughi musulmani e “Merkel vattene”. A forza di minacce, ratti morti lasciati davanti alla porta e gavettoni di vernice contro le finestre, lo scorso inverno il partito di sinistra “Die Linke” di Chemnitz ha chiuso l’ufficio in Zietenstrasse 53, proprio nel cuore di Sonndenberg. Poco più avanti è apparsa una nuova vetrina con una macabra insegna: un teschio e i numeri otto e uno che nella numerologia estremista coincidono con le lettere H e A dell’alfabeto. Le iniziali di Hitler Adolf.

In una calda serata fuori stagione a Gera, nello stato centrale della Turingia, la polizia anticipa di qualche metro il corteo di duecento sostenitori di”Afd - Alternative für Deutschland”. Lungo la centralissima Leipziger Strasse gli agenti fanno rientrare nei loro negozi di alimentari i proprietari e i clienti dall’aspetto arabo o turco, perché i manifestanti non li vedano. Soltanto loro. Anche se abitano tutti a Gera. Come il fruttivendolo libanese a metà della via, residente e contribuente tedesco da oltre vent’anni. Una scena agghiacciante. Afd, il partito xenofobo, sta riunendo sotto un abbigliamento apparentemente borghese il consenso di “Pegida”, che tradotto significa “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”, e dell’Npd, il partito filo nazista: un fronte antieuropeo che raccoglie simpatie e voti dalla costa sul mar Baltico fino ai confini con la Repubblica Ceca, nei distretti berlinesi di Pankow, Marzahn e Treptow-Köpenick, ma anche nei piccoli paesi agricoli ricchi degli stati federali del Sud. «Fino agli anni Novanta, la Germania era ancora uno Stato che sosteneva l’economia sociale di mercato e l’equità. Per questo avevamo basse disparità di reddito, tanto da avvicinarci ai Paesi scandinavi», spiega il grande giornalista e scrittore Günter Wallraff, 74 anni, che ha raccontato la spregiudicatezza della società tedesca in libri come “Faccia da turco” o “Notizie dal migliore dei mondi”: «Oggi invece, secondo ricerche dell’Unione Europea, soltanto in due Paesi il divario tra redditi alti e bassi aumenta più velocemente che in Germania e sono la Bulgaria e la Romania. Le crescenti diseguaglianze, la retrocessione della classe media e la campagna contro i profughi minacciano la coesione sociale. Il dieci per cento dei tedeschi possiede i due terzi delle risorse nazionali. Mentre il cinquanta per cento della popolazione si divide soltanto l’uno per cento. Se si tratta di rispettare il semaforo verde, la Germania garantisce la certezza della legalità. Ma far valere diritti più importanti, come scoprono i lavoratori che si rivolgono ai Tribunali, è molto complicato. Nelle industrie tedesche vale la legge del più forte. Se ci fosse più uguaglianza tra classi, partiti come Afd non avrebbero questo consenso». Il risveglio dell’estrema destra sta provocando una reazione uguale e contraria. Tra Neukölln e Kreuzberg, quartieri multietnici di Berlino, una coppia di omosessuali dovrà cercare casa altrove. Da qualche tempo i vicini, soprattutto turchi, li prendono a sassate ogni volta che li vedono uscire. Katharina Windmeisser, giovane inviata del settimanale “Bild am Sonntag”, da anni racconta il dramma dei piccoli profughi siriani. Ma i bambini del suo quartiere berlinese a maggioranza musulmana la insultano per strada. Semplicemente perché è bionda: quindi tedesca. «La più grande paura di molti tedeschi oggi», racconta Sascha Rosemann, 39 anni, attore e produttore cinematografico, «è l’aumento degli estremismi sui tutti e due i fronti: antisemitismo, islamofobia, omofobia si mescolano». Lontano dalle ciminiere fumanti della locomotiva industriale tedesca che per settecento chilometri da Amburgo scende fino Mannheim e Stoccarda, c’è un paese simbolo di queste opposte paure. Lohberg, ex villaggio minerario, oggi quartiere di villini a mezz’ora da Duisburg, ha dato il nome alla brigata di polizia che nello Stato islamico si occupava di interrogatori e torture. La Gestapo di Daesh, l’hanno chiamata: venticinque jihadisti, la più alta concentrazione per numero di abitanti, undici partiti per la Siria, quattro già morti. All’uscita della notizia, per marcare la loro distanza dai musulmani, molti tedeschi di Lohberg hanno piantato in giardino la bandiera oro rossa e nera. E come risposta gli immigrati turchi, operai in pensione mai veramente integrati e i loro figli ancor più nazionalisti, hanno fatto altrettanto con la loro. Una divisione ridicola, perché perfino la filiale del terrore qui è multiculturale. Philip Bergner, 26 anni, il kamikaze che a Mosul ha ucciso venti persone facendosi esplodere, era tedeschissimo foreing-fighter del paese. Così come lo è suo cugino Nils, 28 anni, diventato collaboratore della polizia dopo l’arresto. Ma ancora oggi camminare sotto i platani silenziosi di Lohberg è un continuo passaggio di confini. Come a Risiko: la Turchia al centro, la Germania tutt’intorno. E quando si cominciano a piantare le bandiere per terra, non si sa mai dove si va a finire.

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

COME LA STAMPA CENSURA LE NOTIZIE SU CRIMINI DEGLI IMMIGRATI. IN GERMANIA (E IN ITALIA?). Germania: media e polizia censurano le notizie sugli stupri degli immigrati, scrive il 22 novembre 2016 Giovanni Coppola su "Primato Nazionale", riportato il 24/11/2016 da Nexusedizioni. Ormai le cifre sono più che drammatiche. Gli stupri del capodanno a Colonia, contrariamente a quanto assicurato dal governo tedesco, erano solo la punta dell’iceberg. Le violenze sessuali su donne e minori, infatti, si sono moltiplicate vertiginosamente negli ultimi tempi, sia tra la popolazione femminile dei centri profughi sia tra le donne autoctone: una spirale di violenza che rende la giusta cifra di una vera e propria invasione. Da quando la Merkel ha varato il grande piano di accoglienza dei sedicenti “profughi”, in Germania sono affluiti circa un milione di immigrati. E il conto da pagare, per centinaia di donne (ma non solo), è stato salato: stupri, ruberie, maltrattamenti, attentati, prostituzione coatta. Insomma, il paradiso terrestre sognato dalla cancelliera, dai media prezzolati e dai buonisti plaudenti alle stazioni con i cartelli refugees welcome (il “popolaccio razzista e xenofobo” li chiama in maniera sprezzante Willkommensklatscher) si è infine rivelato un inferno. Un inferno che, però, viene deliberatamente e sistematicamente camuffato, celato, rimosso. Sia la polizia federale che i grandi mezzi di informazione, infatti, censurano ogni notizia che riguarda stupri e molestie sessuali perpetrati da richiedenti asilo e immigrati, oppure non menzionano l’etnia degli attentatori. Non si tratta di complottismo, ma di una pratica rivendicata dai suoi stessi fautori. Il Consiglio tedesco della stampa (Presserat) per esempio, senza troppi giri di parole, impone ai media un “codice deontologico” che limita pesantemente le informazioni che i giornalisti possono utilizzare nei loro articoli. Al paragrafo 12.1 del codice possiamo leggere: “Nel riferire in merito ai reati penali, i dettagli relativi al background religioso, etnico o altre informazioni generali riguardanti le persone sospettate o i colpevoli vanno menzionati solo se assolutamente necessari per comprendere la notizia riportata. Va rilevato che riferimenti del genere potrebbero fomentare pregiudizi contro le minoranze”. In sostanza, i lettori non possono sapere l’origine dei criminali. Il caso più aberrante riguarda l’identità di un richiedente asilo somalo, tale “Ali S.” con alle spalle un’altra condanna a sette anni per stupro, che ha tentato di violentare una 20enne di Monaco, poi condannato a quasi cinque anni di carcere: una testata bavarese, nel riportare il fatto, ha chiamato l’attentatore “Joseph T.”, cioè con un nome autoctono. E poi si lamentano che il popolo li definisce Lügenpresse, cioè la “stampa delle menzogne”… Ma anche la polizia non è da meno. Come ha dichiarato Hendrik Cremer dell’Istituto tedesco per i diritti umani, “la polizia non fornisce informazioni ai media o all’opinione pubblica sul colore della pelle, la religione, la nazionalità o l’origine etnica di un sospettato. Può farlo solo se assolutamente necessario, ad esempio, quando sta cercando una persona sospettata”. Di qui la protesta, che rimane per ora minoritaria, di Arnold Plickert, capo del sindacato di polizia nel Land Nord Reno-Vestfalia: “La polizia non è interessata a stigmatizzare, ma piuttosto a educare l’opinione pubblica. L’impressione che si pratichi la censura è devastante per la fiducia dell’opinione pubblica nella polizia. Condividere le informazioni sulle persone sospette è importante per sviluppare strategie di prevenzione. Ci devono permettere di parlare apertamente dei problemi di questo Paese, come parlare dell’eccessiva presenza di giovani migranti nei nostri ordini di servizio”. Benissimo, ma quali sarebbero queste “strategie di prevenzione” per le donne che rischiano di subire violenze sessuali? Ebbene, tra i consigli diramati dall’Ufficio federale della polizia criminale (BKA) c’è quello di calzare scarpe da ginnastica invece dei tacchi per poter scappare più velocemente (sic!). C’è da scommettere che le tedesche si sentiranno ora più tranquille… Ma l’isteria ideologica dei sostenitori delle “politiche dell’accoglienza” raggiunge ormai vette ineguagliabili: il preside di un ginnasio bavarese, per esempio, non ha esitato a consigliare ai genitori degli alunni di non far indossare alle loro figlie scollature e minigonne per evitare “malintesi”. George Orwell evidentemente, quando scrisse della “psicopolizia” in 1984, deve aver avuto meno fantasia dei buonisti tedeschi.

Fin qui la Germania. Ma a Gennaio un comportamento simile ve lo abbiamo segnalato anche in Svezia, in prima linea nell'accoglienza dei profughi come la patria di Angela Merkel, tanto che nelle scorse settimane una ONG svedese ha addirittura girato un video che è stato accusato di fare una vera e propria propaganda a favore della "sostituzione etnica" degli svedesi: E in Italia? Alcuni fatti significativi ci vengono dalla cronaca recente: questa notte, come riportano giornali ed agenzie di stampa, si sarebbero verificati gravi atti vandalici nella città di Torino, nell'ex villaggio olimpico ora occupato da "profughi". Così riporta la notizia Il Giornale, che all'articolo dedica anche questa copertina nel suo sito web: Notte di tensioni al Moi di Torino, l'ex villaggio olimpico occupato dagli immigrati. Intorno alle 23 nelle palazzine di via Giordano Bruno sono esplose due bombe carte, lanciate da soggetti ancora non identificati. Gli immigrati, circa trecento, sono quindi scesi in strada riversando i cassonetti, sradicando alcuni cartelli stradali e lanciando sassi e bottiglie. Sul posto, oltre alla polizia, si sono recati anche i vigili del fuoco. La situazione sembrava essersi placata, ma stamattina la tensione è tornata alta. Tra i residenti regna la paura: "Fino a ieri eravamo soltanto stufi di questa situazione di illegalità diffusa. Adesso abbiamo davvero paura". Come riporta La Stampa, i profughi sono tornati in strada e hanno gettato cassonetti sulla via, lanciano oggetti contro alcune persone che, terrorizzate, si sono nascoste nei negozi costretti a chiudere. Sul Fatto Quotidiano, la notizia viene riportata diversamente e le bombe carta che avrebbero provocato la reazione degli ospitati nell'ex villaggio olimpico sono stati già individuati…Secondo una prima ricostruzione delle forze dell’ordine, si sarebbe trattato di un gesto messo in atto da un gruppo di ultras del Torino calcio, che attribuisce ai migranti che abitano abusivamente nel complesso edilizio la responsabilità di un atto vandalico compiuto domenica al bar Sweet di via Filadelfia, storico ritrovo della tifoseria granata. Questo l'articolo del Fatto, che a differenza del Giornale usa un'immagine di repertorio per parlare della notizia. Nel sommario, traspare però soprattutto un altro modo di mostrare la vicenda: si fornisce come prima informazione l'attribuzione dei primi atti vandalici agli ultras del Torino, e la non presenza di immagini delle violenze che facciano riferimento ad immigrati allontana la possibilità di associare i gravi fatti alla politica di accoglienza migratoria del governo, imposta agli enti locali. Potrebbe essere un esempio, tra i tanti, di applicazione anche in Italia della censura in atto in Germania? Un altro esempio in questa direzione, forse più grave, può essere un'altra notizia riportata dal quotidiano on line Il Primato Nazionale, ma a cui l'informazione nazionale non sembra aver dato particolare attenzione: si tratta di un tentativo di rivolta avvenuto venerdì 18 novembre nel carcere Mammagialla di Viterbo. Ad innescarla, due detenuti monitorati come integralisti islamici. Facendo una ricerca sul sito dell'ANSA, non se ne trova la minima traccia (vedi qui). Non sorprende, allora, se chi cerca informazioni deve farlo attraverso l'editoria in rete e realtà informative alternative, fino alla creazione di interi ma ignoti movimenti di opinione di massa come quello che, attraverso Breitbart di Steve Bannon e Infowars di Alex Jones, ha contribuito in modo significativo all'elezione di Donald Trump. [Redazione NEXUS]

Viterbo: la rivolta in carcere degli estremisti islamici di cui nessuno parla. Un tentativo di rivolta è avvenuto venerdì 18 novembre nel carcere Mammagialla di Viterbo. Come riportato dai sindacati di polizia penitenziaria, a guidarla sarebbero stati due detenuti monitorati come integralisti islamici. Si legge nel comunicato: “Nel primo pomeriggio di venerdì 18 novembre all’interno della casa circondariale di Viterbo, si è verificato un incendio doloso appiccato da un detenuto monitorato come integralista islamico, che dopo aver danneggiato i suppellettili della propria stanza detentiva ed essersi barricato, ha dato alle fiamme il proprio materasso. Immediatamente si propagava all’interno del reparto detentivo una densa coltre di fumo tossico che invadeva anche i corridoi adiacenti. Prontamente diverse unità di polizia penitenziaria si portavano sul posto soccorrendo i colleghi in difficoltà ed evacuando i detenuti presenti nonostante la quasi totale assenza di visibilità e respirazione. Durante le operazioni di evacuazione un altro detenuto integralista islamico cercava di incitare alla rivolta gli altri ristretti e tentava di aggredire i poliziotti che stavano cercando di spegnere le fiamme. Tutti i detenuti sono stati portati in salvo e nessun detenuto è rimasto intossicato gravemente. Il bilancio per la polizia penitenziaria è stato ben peggiore con 7 unità inviate al locale pronto soccorso di Belcolle, di cui due sono stati ricoverati per più di 24 ore per intossicazione da fumo, gli altri 5 dimessi con prognosi di 3-4 giorni”. Un avvenimento preoccupante, inserito in un contesto di cui si parla da mesi, ossia quello della radicalizzazione alla jihad dei detenuti nelle nostre carceri ed in quelle europee. Vale la pena ricordare infatti come molti degli attentatori jihadisti in Belgio ed in Francia, entrati nelle carceri per reati comuni, abbiano costruito proprio lì il loro percorso di radicalizzazione, uscendone con una laurea in terrorismo. Fenomeno, questo, da non sottovalutare neanche in Italia e da cui anche lo stesso Alfano ed il ministero della Giustizia ci hanno messo in guardia. Singolare invece il comportamento della stampa nostrana, la quale non ha dato alcun risalto all’episodio, riportato solo in cronaca locale, così come per quello di una rivolta avvenuta in un centro d’accoglienza del Verbano Cusio Ossola sempre nello stesso giorno, questa volta ad opera dei richiedenti asilo, con sette agenti feriti e quattro arresti. Di episodi come quest’ultimo purtroppo se ne verificano molti, quasi ogni settimana: danneggiamenti di suppellettili e di immobili, aggressioni ad operatori ed a mediatori culturali, rivolte in strada da parte dei richiedenti asilo ospitati a nostre spese nelle strutture d’accoglienza. Ma per la stampa mainstream, nulla di tutto questo sta accadendo. Ruggero Vero su "Il Primato Nazionale".

Per "La Repubblica" italiani razzisti. Ma si scorda dei reati degli immigrati. Per Rep c'è "un'escalation" di violenze contro stranieri e rom: "Dieci casi in tre mesi". Ma solo a settembre decine di reati e aggressioni degli immigrati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 11/09/2018, su "Il Giornale". L'allarmante titolo di Repubblica dice testualmente che in Italia “l’intolleranza” (verso gli stranieri, ovviamente) è ormai “legittimata”. A dimostrarlo ci sarebbero dieci aggressioni in tre mesi a sfondo razziale. Dieci. Significa più o meno tre casi al mese, e spiccioli di resto. Una “lunga estate di razzismo e intolleranza”, scrive Rep. Che però deve essersi persa qua e là un’altra (dura) verità, numericamente molto più consistente e preoccupante della presunta ondata xenofoba. Quella degli eventi delittuosi, delle risse, degli assalti, delle resistenze a pubblico ufficiale e delle violenze sessuali commesse dagli stranieri. I reati degli immigrati giustificano gli assalti razzisti? No. Anzi. Vanno condannati con durezza, raccontati, spiegati dettagliatamente. Ma farne un manifesto per paventare il ritorno di un’onda nera in Italia è sciocco. E spesso porta pure a distorsioni evidenti: ricordate il lancio xenofobo di uova? Dopo settimane di prediche sull’odio per il colore della pelle si scoprì che fu solo un fraintendimento. E che tra i giovani burloni c’era pure il figlio di un esponente Pd. Che smacco. Ecco perché parlare della "scia di odio” che “ha puntato contro migranti e rom” appare un'evidente esagerazione. Repubblica fa riferimento a “soprusi” addirittura “quasi quotidiani” (ma non erano 10 in tre mesi?), il tutto mentre l'Italia “per ordine” di Salvini fermava le navi cariche di profughi (ma che c’entra?). Forse è un modo per far credere a tutti, e maliziosamente, che “la deriva leghista e sovranista del governo giallo-verde sta facendo diventare gli italiani xenofobi”. In realtà, Rep nel pezzo ammette che “forse” non sono ancora i “numeri di un’emergenza”, ma nel titolo li presenta come se lo fossero. Eppure anche il sociologo Marzio Barbagli dice al giornalista che “non c’è un aumento dell’intolleranza” perché “non ci sono statistiche sufficienti per fare dei confronti”. Anzi: “l’insofferenza e l’ostilità” verso lo straniero - dice l'esperto - sono colpa della sinistra che non ha visto i problemi “che l’immigrazione portava” su welfare e sicurezza. Mica di Salvini. Per cui “l’escalation” di cui parla il quotidiano è frutto più di costruzioni giornalistiche che realtà quotidiane. A differenza, invece, dei tanti (troppi) casi di criminalità provocati da un’immigrazione incontrollata. Visto che c’è chi cita i “dieci casi in tre mesi”, allora è bene restare alla cronaca. E portare, solo per titoli, i motivi della preoccupazione (non “intolleranza”) di tanti italiani. Partendo da oggi, la polizia ha arrestato un 30enne di origine tunisine indiziato per aver stuprato una ragazza palermitana. Se le riforme contenute nel nascituro dl Salvini dovessero essere approvate, domani il giovane perderebbe la cittadinanza italiana che gli era stata concessa. Vedremo. E intanto andiamo oltre. A inizio settembre un’infermiera si è dovuta sentir dire “abbassa lo sguardo, sei una donna” da un musulmano entrato in un ospedale di Saronno. Pochi giorni prima a Mestre tre carabinieri sono stati feriti da un nigeriano restio a farsi arrestare: gli uffici della caserma, macchiati di sangue, sembravano un campo di battaglia. Il 9 settembre a Napoli un ghanese ha lanciato un manubrio di 10 kg addosso agli agenti che volevano solo sottoporlo a un controllo. Era irregolare sul territorio italiano. Due giorni prima, sempre durante la richiesta di documenti, a Macerata un nigeriano ha insultato e aggredito i poliziotti. Senza dimenticare i casi più famosi a Milano e Catania, finiti senza feriti solo grazie all’utilizzo del taser. Potremmo andare avanti all’infinito, altro che dieci casi in tre mesi. Dagli archivi di storie ne emergono a bizzeffe: c’è il pregiudicato marocchino espulso perché pestava la moglie incinta; c’è il ladro marocchino fermato per aver aggredito gli agenti; ci sono i tre immigrati che spacciavano cocaina ai minori; i 17 pusher stranieri che portavano avanti le loro attività illecite in spiaggia. Andiamo avanti? Non dimenticate il tunisino che manda in coma un malato di sclerosi multipla per derubarlo, le risse in Stazione centrale a Milano o quelle a Bisceglie, la guerra tra bande di nigeriani a Ferrara e la denuncia di una 74enne che sostiene di essere stata stuprata da un immigrato in casa. E ancora: il nigeriano che pesta due carabinieri (e subito viene liberato), il poliziotto massacrato in casa sua e trasformato da due migranti in una maschera di sangue, il marocchino armato di lametta che minaccia e rapina due 15enni e la rissa a Firenze a suon di cartelli stradali. Sono tutti casi che riguardano i primi 10 giorni di settembre. E basta. Vi sono sufficienti per parlare di “escalation”?

Circolare segreta del prefetto: ​"Vietato fotografare i migranti". Il documento (che doveva rimanere riservato) finisce sui giornali. Scoppia la polemica dei residenti nel Pesarese tra Borgo Santa Maria e Pozzo Alto, scrive Claudio Cartaldo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Una circolare che fa scoppiare la polemica. Siamo a Borgo Santa Maria e Pozzo Alto, due piccoli comuni nel pesarese che da tempo sono alle prese con la presenza dei migranti. Il prefetto Luigi Pizzi, di fronte alle tante proteste dei cittadini e alle continue denunce presentate dai residenti (anche corredate di foto), cosa ha fatto? Ha messo un freno all'arrivo dei migranti? No, ha emesso una circolare per prevenire "possibili confronti verbali e fisici fra residenti e migranti dei centri di accoglienza", vietando ai residenti "privi di qualsiasi legittimazione" di fotografare gli immigrati o di chiedergli le generalità. L'ordine del prefetto inviato ai vertici delle forze dell'ordine è chiaro: "Disponete servizi di vigilanza e di controllo del territorio, con impiego di tutte le forze di polizia, onde prevenire e reprimere con rigore qualunque condotta del tipo sopra segnalati". Il documento sarebbe dovuto rimanere ad uso interno, ma il Resto del Carlino lo ha pubblcato facendo scatenare le polemiche. "Io ho il dovere - ha spiegato il prefetto Pizzi all'Ansa - di tutelare l'ordine pubblico, dando disposizioni alle forze di polizia. Se il singolo cittadino nota persone o comportamenti che ritiene possano rappresentare un pericolo per la sicurezza è tenuto a chiamare il 112 o il 113, non a intervenire direttamente, perché non ha la legittimità a farlo". La pensa diversamente Francesco Coli, legale espertissimo, già difensore di Lucia Annibali, intervistato sempre dal Resto del Carlino: "Uno può tranquillamente chiedere il nome a un’altra persona - dice - senza incorrere in nessuna violazione. E l’altra può rifiutarsi di dare le generalità, a meno, ovviamente, che a chiederle non sia un pubblico ufficiale. Sulla privacy, poi, non ci vedo estremi di violazione facendo una foto, se è in luogo pubblico. Chiaro, che se poi ne faccio un uso diffamatorio, il discorso cambia". Attualmente a Borgo Santa Maria sono presenti 95 migranti. Troppi per i residenti. Giusti per il prefetto, che per evitare problemi ha deciso di impedire ai cittadini di fare foto o chiedere le generalità ai richiedenti asilo. E a chi sostiene che non ci sia niente di illegale nel fotografare qualcuno in zona pubblica, risponde che sono "interpretazioni del diritto su cui valuterà eventualmente la magistratura". "Siamo delusi - ribattono i residenti in una nota - Qui non vogliamo creare allarmismo, ma segnalare un disagio sentito da tutta la comunità del quartiere. La problematica dei migranti è reale, vogliamo creare un dialogo costruttivo con le Istituzioni per risolverla". Critici anche i sindacati di polizia, che considerano una perdita di tempo impegnare le forze dell'ordine a controllare chi scatta fotografie invece di concentrare le forze sulla prevenzione dei veri crimini. Difficile dargli torto.

PROFUGHI, I PREFETTI ORA DENUNCIANO: OBBLIGATI DA SINISTRA A FARE PORCHERIE, scrive il 2 settembre 2018. «È vero che ne abbiamo fatte di porcherie, però quando le potevamo fare», questa l’ormai famosa frase intercettata dell’ex prefetto di Padova e oggi di Bologna Patrizia Impresa, che spiega come funzionavano le cose al tempo dei governi PD: porcherie, tutte porcherie. La donna è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sullo scambio di favori tra la prefettura ed Ecofficina (oggi Edeco), la coop che vinceva tutti i bandi per l’accoglienza in Veneto. L’attuale prefetto di Bologna – che incredibilmente a differenza del suo sottoposto Aversa e del boss di Edeco Borile non è indagata – aveva anche avvisato Borile dell’imminente perquisizione dei CC. ha poi chiarito il senso generale delle sue parole spiegando che quando si è in emergenza a volte si fanno delle forzature: a quei tempi, eravamo in pieno governo Renzi, il governo inviava centinaia di profughi a settimana e a trovarsi la patata bollente in mano erano sempre i prefetti. Ora l’AP-Associazione Prefettizi, rappresentanza della casta più casta del Paese, esprime «piena» solidarietà a Patrizia Impresa a nome di tutti i colleghi: «Tutti i prefetti del territorio e i rispettivi collaboratori si sono trovati a doversi produrre in autentici salti mortali per dare esecuzione alle pressanti richieste di dare subito e comunque una sistemazione a grossi contingenti di migranti da parte degli uffici del Viminale che a loro volta sono sottoposti ad analoghe insistenze», ha scritto in una nota i presidente Antonio Corona. «I prefetti hanno dovuto sopperire a gravi criticità e inadeguatezze del Sistema Protezione Richiedenti Asilo immaginato per far fronte a qualche migliaio di persone e non a centinaia di migliaia. Amareggia quindi il poter essere messi alla gogna per alcune parole estrapolate dal contesto e dette in una conversazione colloquiale che non celavano alcuna malefatta bensì esprimevano un autentico grido di dolore. Accogliere o meno i migranti era e rimane una scelta esclusiva della politica, non dei prefetti. Ai quali andrebbe piuttosto appuntata una medaglia sul petto per essersi dimostrati pronti e affidabili al di là di ogni legittima aspettativa». Avete impestato l’Italia di clandestini, seguendo in modo pervicace gli ordini di un governo abusivo. Facendo quelle che la vostra esimia collega ha definito ‘porcherie’. Vi siete dimostrati affidabili sì, ma per gli obiettivi della mafia nigeriana: ovviamente, in modo inconsapevole. Fosse per noi, tutti i prefetti che hanno collaborato a questo scempio verrebbero licenziati. Si tratta comunque di una casta inutile e antidemocratica.

Operatrice sequestrata nel resort: "Ha calato i pantaloni e ha iniziato a fare le sue cose", scrive di Peppe Rinaldi il 2 febbraio 2017 Libero Quotidiano”. Secondo gli specialisti era affetto da «effervescenze psico-caratteriali» l’immigrato nigeriano che ieri non ce l’ha fatta più e, abbassandosi i pantaloni, ha tenuto in ostaggio per circa mezz’ora una donna in un centro di accoglienza. Si chiama Eboh Jude, ha ventisei anni e da tre - dice - non ha rapporti sessuali. Ora è in cella a Poggioreale, Napoli, in attesa dell’espulsione alla conclusione dell’iter giudiziario. Intanto deve rispondere di sequestro di persona e di violenza sessuale, fattispecie che scatta indipendentemente dalla consumazione materiale del fatto. Il focoso giovane nero, infatti, non ha toccato la signora, peraltro sessantaduenne, limitandosi ad «effervescenti» manifestazioni di desiderio sessuale, aggravate da una patita, lunga astinenza. Esiste chi sta peggio con la cronologia, pur senza esibire terga e genitali. Siamo a Varcaturo, un tempo meravigliosa litoranea flegrea nel territorio del comune di Giugliano, divenuta una specie di slum interraziale in un panorama di strutture turistico-ricettive spesso convertite in centri per immigrati. Come ovunque nel Paese. Il posto è uno di quelli de luxe, almeno a giudicare dalla presentazione web del complesso «Le Chateau». La struttura pare abbia avuto in passato problemi con l’autorità giudiziaria per questioni legate ai permessi a costruire, non proprio una novità da quelle parti. Ci furono i rituali sequestri seguiti da altrettanto rituali dissequestri. Oggi è, con ogni evidenza, soggetto interlocutore della pubblica amministrazione in tema di immigrazione. Dentro sono ospitati 85 extracomunitari a prevalente composizione africana, tenuto conto anche di un antico insediamento della popolazione di colore in tutto il comprensorio. Da anni. Ora parliamo dei nuovi flussi, quelli genericamente - ed erroneamente - definiti di profughi. Eboh Jude era a Napoli da settembre ma ieri gli ormoni hanno preso il sopravvento, spingendolo nell’ufficio di una operatrice del centro con la scusa di informazioni sulla pratica per il suo permesso di soggiorno. Una volta dentro il giovane ha chiuso la porta, s’è calato i pantaloni e, a distanza, ha spiegato alla esterrefatta signora il suo problema. Masturbandosi. È lei stessa a dirlo: «Non mi ha violentata, si è abbassato i pantaloni e ha fatto cose sue. Ha raccontato che non aveva una donna da tre anni e chiedeva chiarimenti sul suo documento, scaduto oggi. Certo rimanere chiusa con lui non è stato piacevole, a un certo punto ha battuto anche i pugni sul tavolo. Ma non mi ha violentata, questo no». A liberarla dall’incubo i carabinieri del posto, avvisati da una collega dell’operatrice che aveva intercettato il bigliettino d’aiuto che la donna sequestrata era riuscita ad infilare sotto la porta. L’irruzione, quindi le manette e il carcere. E poi le polemiche. Come quella tra Matteo Salvini e Roberto Saviano. In un primo momento s’era diffusa la voce di una violenza carnale consumata e il segretario della Lega aveva twittato parlando di castrazione chimica. Poche ore e Saviano si dà alle sue di «effervescenze», dando sfogo via social ad un ragionamento standard su razzismo e immigrazione, forte delle statistiche Istat sulla nazionalità di vittime e violentatori. «Io la disprezzo» è stato il pezzo forte di Saviano rivolto a Salvini. Che ha replicato: «Quel disprezzo è per me una medaglia».

Molestie sessuali a Capodanno, l'incubo di sei italiane a Innsbruck: "Le mani degli immigrati tra le gambe", scrive il 6 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Molestie sessuali in piazza con strategia "militare". Le sei ragazze italiane che hanno subito approcci violenti la notte di Capodanno a Innsbruck raccontano al Corriere della Sera quei minuti di terrore puro vissuti in Austria. Ad aggredirle un gruppetto di uomini tra i 20 e i 40 anni, immigrati afghani o nordafricani, ancora ricercati. "Erano in cinque o sei, ci hanno circondato - spiega una delle ragazze, tutte studentesse e turiste tra i 19 e i 25 anni, provenienti da Bolzano -. Ballavano e ridevano e sulle prime non ci siamo preoccupate. Eravamo tutti in piazza per divertirci e festeggiare in mezzo a migliaia di persone. Ma quello che subito sembrava uno scherzo si è trasformato in qualcosa d'altro. Molestie pesantissime. Si sono avvicinati stringendoci, toccandoci, richieste esplicite di sesso. A me hanno messo le mani sotto le gambe, strappandomi i collant. Mi sono divincolata, li ho spintonati allontanandomi. La stessa cosa ha fatto la mia amica. Poi siamo tornate in albergo. In totale le denunce sono state 18: molestate anche nove austriache, due tedesche e una svizzera. La notte di Innsbruck ha ricordato da vicino quanto successo un anno prima a Colonia e in tutta la Germania, con 1.200 donne vittime di aggressioni a sfondo sessuale da parte di immigrati. "Non abbiamo mai visto niente del genere", ammette Ernst Kranebitter, portavoce della polizia di Innsbruck. "Non riesco a ricordare un attacco di questo genere, di questa scala e con questo modus operandi. Una specie di strategia studiata che avrebbe permesso agli assalitori in primo luogo di non mostrare subito le loro reali intenzioni, facendole sembrare l'avvio di una specie di gioco. E poi di sparire alla svelta, in caso di grida o di reazioni decise".

Scena "mostruosa" la notte di Capodanno. Stuprate 80 donne: "da mille nordafricani", scrive il 5 gennaio 2016 “Libero Quotidiano”. Capodanno choc a Colonia. Il sindaco della città settentrionale della Germania ha convocato i vertici della polizia dopo le notizie di aggressioni, anche a sfondo sessuale, subite da 80 donne e in cui sarebbero coinvolti circa 1.000 uomini. Secondo il capo della polizia Wolfgang Albers, citato dalla Bbc, gli aggressori, ubriachi, erano all’apparenza arabi o nord-africani. Le aggressioni si sono verificate nella zona tra la stazione centrale e il maestoso duomo gotico. Gran parte dei reati denunciati alla polizia erano rapine, ma anche molestie, palpeggiamenti, e almeno uno stupro. Anche una volontaria della polizia ha subito molestie sessuali. Secondo i media locali la polizia è preoccupata del fatto che le violenze siano state organizzate: branchi di uomini ubriachi a caccia di donne in un’area già normalmente a rischio furti e borseggi, tanto che Albers ha parlato di "una dimensione di reato completamente nuova" lanciando un allarme in vista degli eventi di carnevale previsti tra il 4 e il 10 febbraio, durante i quali notoriamente si versano fiumi di alcol. Il numero delle aggressioni è stato forse ancora superiore, perchè si teme che molte donne non abbiano denunciato le violenze. È qualcosa di "mostruoso", ha commentato il sindaco Henriette Reker, che fu accoltellata a ottobre durante la campagna elettorale prima della sua elezione. "Sono attacchi intollerabili, tutti i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia" ha scritto il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas in un tweet. Secondo il portale di informazione Koelner Stadt-Anzeiger, i responsabili delle aggressioni sono già conosciuti dalla polizia, proprio a causa dei frequenti furti che si verificano nella zona intorno alla stazione centrale. Uno dei poliziotti in servizio nella zona ha detto al portale Express di aver fermato 8 persone: "Erano richiedenti asilo" ha specificato. Episodi analoghi si sono verificati anche ad Amburgo, nella chiassosa via Reeperbhan, nel quartiere a luci rosse di St.Pauli, e a Stoccarda. La reazione - Il governo tedesco promette di catturare e consegnare alla giustizia i responsabili degli abusi sessuali avvenuti a Colonia a Capodanno, nel quale sarebbero coinvolti numerosi migranti. "Si deve fare tutto il possibile per identificare quanto prima i colpevoli e punirli, da dovunque arrivino”, ha detto Angela Merkel. Il cancelliere ha espresso "indignazione" di fronte agli "attacchi ripugnanti e alle molestie sessuali, reati che esigono» una risposta compatibile con lo Stato di diritto".

Per essere intervistato da una donna, Muhammad Alfredo ha preteso che la giornalista Sara Giudice indossi l'hijab e si presenti senza trucco né profumo. Piazza Pulita su La7 il 13 marzo 2017 ha mandato in onda il faccia a faccia con l'integralista islamico italiano convertito nel 2010 che vuole spiegare com'è vivere nel completo rispetto della legge islamica, la Sharia. E lo spaccato offerto da questa visione fanatica è inquietante.

La femminista di sinistra: "I media occultano le violenze sessuali commesse da immigrati". Lorella Zanardo: "Da più parti mi viene consigliato di non diffondere la notizia della donna violentata in Puglia, caso di cui si è parlato pochissimo. La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un rifugiato", scrive il 3 Agosto 2017 “Il Populista". In Italia, come accade in altri Paesi europei dominati dal politicamente corretto, i crimini degli immigrati vengono minimizzati. Se risulta difficile omettere l’identità e l’origine del delinquente, almeno per ora, ecco che il sistema mediatico impone una sorta di silenziatore diffuso. Fino a poco tempo fa le malefatte nei confronti delle donne, dai casi di stalkeraggio a quelli di molestie e violenze sessuali, occupavano giustamente le prime pagine dei giornali sia cartacei sia online, lunghi servizi nei telegiornali, doverosi approfondimenti nelle trasmissioni televisive. Poi gradualmente la musica è cambiata. Ora succede che questi atroci reati, se commessi da immigrati, vengano relegati alle pagine di cronaca o a minuscoli riquadri nelle home page dei giornali più importanti. Anzi, ormai spesso nelle home page dei “giornaloni” non ci finiscono nemmeno per sbaglio. Guai a evidenziarlo però, pena il marchio infamante di razzista e xenofobo. Che non si tratti esattamente di fantasia populista o delirio leghista, lo conferma un pezzo di Lorella Zanardo comparso sul sito del Fatto Quotidiano. Stiamo parlando di una femminista di punta, autrice del celebre documentario “Il Corpo delle donne” e fautrice del movimento venato di antiberlusconismo “Se non ora quando”, nonché candidata alle ultime Europee per l’estrema sinistra con la Lista Tsipras. L’incipit è lineare e illuminante: “Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché?”. Ebbene sì, certa sinistra lavora per occultare notizie sgradite alla “narrazione” immigrazionista. Che stranezza. “Contrariamente a quanto accade solitamente”, scrive la Zanardo, “in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo”. Il motivo è semplice, anche se indicibile: “La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto”. La regista racconta che certa pulsione censoria e minimizzatrice, anche se di mezzo ci sono odiose violenze nei confronti delle donne, è un malcostume radicato nel tempo: “Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia – scrive la femminista - tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima”. Una denuncia coraggiosa, controcorrente. “Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti di sinistra”. Zanardo fu una delle poche, pochissime femministe a condannare con forza e senza ambiguità di sorta le violenze sessuali di massa commesse da immigrati a Colonia, nel Capodanno 2016. “Il voler ‘proteggere’ i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano (…) si possa fomentare il razzismo, è alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante”. Insomma i primi ad attuare discriminazioni in base alla provenienza delle persone, sono esattamente coloro che a parole combattono contro le discriminazioni: “Il popolo è pancia, mi disse fiera una nota intellettuale ‘di sinistra’ lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere”. E ancora: “E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi”. Zanardo parla della necessità di avviare programmi educativi sugli usi e costumi che regolano i rapporti tra i sessi “che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti”. Dalla retorica alla pratica, bypassando i dettami del politicamente corretto: “Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza?”.

La violenza contro le donne è sempre violenza, che la compia un italiano o uno straniero, scrive Lorella Zanardo il 31 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché? Contrariamente a quanto accade solitamente, quando cioè le notizie che riguardano stalking e violenze vengono commentate e diffuse sui social network da molte donne e anche uomini, in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo. La donna ha 76 anni e verrebbe da pensare che non se ne è scritto per una forma nemmeno tanto velata di discriminazione verso le anziane: “Tanto è vecchia”, pare essere il messaggio sotteso all’indifferenza; l’indignazione, quando c’è, è riservata al sopruso verso chi è giovane. Mi sono ribellata dunque a questa ipotesi e ho diffuso la notizia per scoprire, ancora una volta, che la reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. 

Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto. Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia, tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima. Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti “di sinistra”. Che una violenza sia commessa da un uomo italiano o da un migrante, vecchio o giovane che sia, non deve assolutamente cambiare la nostra reazione: la denuncia va sempre e comunque espressa. Certo spiegando, certo motivando. Ma condannando sempre con fermezza. Già ebbi modo di esprimerlo a inizio 2016 in occasione delle violenze a Colonia che vennero archiviate con l’esilarante raccomandazione per difendere le donne dalla violenza, espressa della sindaca della città tedesca: “Se i ragazzi nordafricani o mediorientali si avvicinano a voi, state loro a distanza “eine ArmeLange”, cioè teneteli a distanza di un braccio. Il voler “proteggere” i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano, esattamente così come faremmo per i crimini commessi dai cittadini italiani, ritenendo che così facendo si possa fomentare il razzismo, stanno alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante.

“Il popolo è pancia”, mi disse fiera una nota intellettuale di sinistra lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere. E allora quel popolo che viene valutato non in grado di comprendere con la propria testa che una violenza è sempre una violenza indipendente da chi la commetta, lo si mantiene al di fuori delle scelte democratiche. “Non diffondendo troppo questo tipo di notizie” come mi è stato più volte consigliato, perché non sarebbe in grado di comprendere. E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi. Mi ribello e invito a ribellarci al dualismo che ci viene oggi proposto come unica possibilità: o sei razzista o accetti tutti i migranti a prescindere dal loro comportamento. Esiste una terza possibilità ed è l’apertura e l’accoglienza mediata da regole e leggi, necessaria per qualsiasi democrazia che voglia davvero accogliere tutti e tutte senza alcuna discriminazione. Facciamo che questa opportunità esista e si diffonda, senza timore di essere criticate ed emarginate! C’è un ultimo punto, che è quello che mi sta più a cuore, ed è quello dell’educazione foriera di una buona convivenza. In Nord Europa e in Canada si stanno sviluppando ottimi moduli educativi per i cittadini migranti che oltre all’indispensabile introduzione alla lingua del Paese ospitante, mirano a far conoscere usi e costumi anche per quanto riguarda i rapporti tra i sessi, che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti. Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza? L’educazione, la conoscenza, l’abbattimento delle barriere linguistiche, il rispetto: tutti valori democratici e di sinistra sui quali invito a lavorare.

Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale".  Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.

"Lo strano mistero dello stupro di Rimini", scrive Pietro Senaldi il 27 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". I giornali non dicono la verità sugli stupratori di Rimini. O meglio, omettono che essi siano magrebini. Pietro Senaldi, a #90secondi, spiega perché al contrario Libero lo ha rivelato subito: "Non è nascondendo la verità che si evita l'odio sociale". La nuova prassi italiana, ma forse sarebbe più appropriato definirla terzomondista, per cui i carnefici si proteggono e le vittime si offrono alla piazza, si è arricchita di un altro capitolo. Dopo la solidarietà agli immigrati che avevano occupato abusivamente un palazzo romano di proprietà dei pensionati e la condanna dei poliziotti che, presi a bombole del gas in testa, li hanno sgomberati con la forza, il circolo mediatico votato al boldrinismo più fazioso si è cimentato in un altro fattaccio di cronaca. Una coppia di turisti è stata aggredita da una banda di ragazzotti sulla spiaggia di Rimini che hanno pestato a sangue lui e violentato ripetutamente lei. Sappiamo che le vittime sono polacche, che i delinquenti hanno poi riservato lo stesso trattamento a un trans peruviano e che la testimone chiave della vicenda è una prostituta romena. I particolari sono stati riportati da tutti, in certi casi perfino con disegnini illuminanti. Ma solo Libero, il Quotidiano Nazionale e i «giornalacci» della destra hanno evidenziato che secondo la polizia gli stupratori erano sì ubriachi, come hanno scritto tutti, ma anche immigrati, particolare ritenuto irrilevante invece dagli altri, per i quali era viceversa fondamentale la nazionalità delle vittime. Cautela? Può darsi, perché i criminali sono alla macchia e il rischio figuraccia c' è, ma non ci crediamo poi tanto. Dopo la cinquantesima riga infatti qualcuno l'ha anche scritto, in un sussulto di professionalità o confidando che il caporedattore non si spingesse fino a lì nella lettura, qual è l'origine degli aggressori, il che significa che è stata confermata da più fonti. Cionondimeno, anche ieri, i tg non hanno ritenuto di calcare sull' argomento. Insomma, è fondamentale che la prostituta sia romena e le vittime polacche e peruviane ma è un dettaglio da omettere chi abbia fatto loro la festa. Forse perché nessuno vuole che le lettrici e le telespettatrici si allarmino se vengono circondate di notte da una banda di immigrati. Meglio non instillare in loro il germe del razzismo e lasciare che girino, ignare e sicure, per le nostre spiagge e strade multietniche. Tutt' altro trattamento è stato riservato invece all' italiano che, multato per aver parcheggiato sul posto riservato a un disabile e da questi denunciato ai vigili, si è vendicato affiggendo un cartello infame in cui insultava il portatore di handicap rallegrandosi per la sua condizione. Un comportamento orribile, stigmatizzato anche da Libero ma che è valso al suo autore una gogna nazionale senza eguali. Di lui sappiamo l'età, l'auto, la professione, il titolo di studio e perfino il paese. Infatti non è un immigrato ma un italiano, addirittura un truce brianzolo, a cui forse Paolo Virzì, il regista di «Il capitale umano», sta già dedicando un film. Da stigmatizzare anche il silenzio del presidente della Camera, Laura Boldrini e, al momento della stragrande maggioranza delle paladine del femminismo. Evidentemente le donne si tutelano meglio se si costringono gli italiani a chiamarle avvocata o presidenta piuttosto che se le si mette in guardia dai rischi dell'invasione. D' altronde è cosa nota che per i nostri rappresentanti, e per i nostri media, un fatto non vale tanto per se stesso bensì per il significato politico che gli si vuole dare e per l'ideologia alla quale è funzionale. Il villano brianzolo, forse vicino di casa di Berlusconi, va messo alla gogna più dello stupratore nordafricano, del quale si sottolinea lo stato di ebbrezza, a mo' di attenuante, quando invece è un'aggravante, e non solo per il Corano ma anche per il nostro codice penale. Forse questa cortina di fumo viene messa per non alzare il livello di tensione sociale, come i tedeschi che non rivelano le nazionalità di chi commette attentati per evitare episodi di linciaggio. Forse siamo noi maliziosi nel voler vedere a tutti i costi la cattiva fede altrui e a sentire odore di ordini di scuderia in redazione. Ma la verità è che siamo allarmati e che chi nasconde l'identità degli stupratori immigrati ci fa quasi paura quanto questi. Nascondere, minimizzare, relativizzare i problemi, non aiuta a risolverli ma li aggrava rapidamente, fino a farli diventare ingestibili e portarli al punto di esplosione. Non si sa quando lo scoppio avviene, perché fino a un attimo prima la situazione è immutata e immanente, ma quando accade, è incontrollabile. È successo così con il traffico di uomini agevolato dalle organizzazioni non governative, molte delle quali, in combutta con gli scafisti, facevano i soldi spacciandosi per santi. È capitato con gli occupatori abusivi di case, a cui lo Stato fino al giorno prima aveva permesso di comportarsi come proprietari, consentendo loro di dare addirittura in affitto gli alloggi che abitavano illegalmente. Succederà anche con le violenze degli immigrati che nascondiamo sotto il letto come la polvere. Un giorno, improvvisamente, per vincere le elezioni, perché colpito in prima persona o per "impazzimento" individuale, qualcuno non ne potrà più, e sarà il caos. Ci auguriamo di no, ma lo temiamo.

Lo stupro innocente, scrive Antonella Grippo il 30 agosto 2017 su "Il Giornale". C’è stupro e stupro. C’è fallo e fallo. Quello immigrato, ad esempio, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica, persino nella sua massima e ruvida erezione. Non è che puoi fare la femminista, se non c’è di mezzo un maschio di Ladispoli, di Muro Lucano o di Busto Arsizio! Come fai a prendertela con il piffero magrebino? A ben guardare, è poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti di guerra e povertà. Si tratta di un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato, discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Vuoi mettere…Altro che la saccente protuberanza virile degli impiegati del catasto di Avellino, che, ancorché dimessa, si sollazza con lo stupro di suocere, colpevoli assertrici della secessione di Romagna. Per non parlare della fava dei benzinai di Matera, che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’intera arte operaia del Femminicidio. Tutto il resto non fa dottrina. Del resto, non si può pretendere che le Damine di San Vincenzo disertino i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, per occuparsi di femmine sfigate, perdippiù polacche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni africani, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima di Multimazza. Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza: Il cazzo non vuole pensieri. Contrordine, compagne: il pisello magrebino convoca tutta la storia del pensiero occidentale. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane. Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. In fondo, è un’innocenza analitica. Politically correct.

Stupri e immigrati, scrive Giampaolo Rossi il 31 agosto 2017 su "Il Giornale".

PREGIUDIZI E TABÙ. L’argomento è scottante e viola il rigido protocollo imposto dai talebani del politically correct. Certo, se decidete di affrontarlo, aspettatevi la solita accusa di essere i nipotini di Goebbels. Non vi preoccupate, fa parte del gioco; sopportate con santa pazienza e andate avanti perché il problema esiste e non va rimosso; e non solo sull’onda dell’emotività che la cronaca ci riserva: la giovane turista polacca stuprata a Rimini o l’anziana di Forlì violentata da un nigeriano o la 12enne di Trieste abusata da tre immigrati (solo per citare gli esempi più recenti). Quando un anno fa la piddina Debora Serracchiani, di fronte allo stupro di una studentessa italiana minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno, dichiarò: “la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”, un fiume in piena di scandalizzata indignazione si riversò contro di lei: colleghi di partito e immancabili intellettuali del Pensiero Collettivo. Allora proviamo ad affrontare il tema senza tabù e senza pregiudizi.

I NUMERI IN ITALIA. Stefano Zurlo, su Il Giornale, ha riportato una notizia scioccante: un’indagine di Demoskopika, realizzata elaborando dati del Viminale, ha svelato che “nel quinquennio 2010-2014, il 39 per cento delle violenze sessuali in Italia è stato compiuto da stranieri”. Un numero impressionante – nota Zurlo – se si considera “che nel 2014, solo l’8,1% dei residenti in Italia veniva da fuori”. Ovviamente Zurlo è molto cauto e sottolinea che non bisogna fare “generalizzazioni”, né “distribuire patenti di primogenitura”. Anche perché a distribuirle ci pensa il Ministero dell’Interno il giorno dopo, inviando una nota all’AdnKronos in cui spiega che nel 2016 i reati contro le donne compiuti dagli italiani sono aumentati (1.534 contro i 1.474 del 2015), mentre quelli degli stranieri sono diminuiti (904 contro i 909 del 2015, 4 in meno). Ma la stessa AdnKronos ammette che se si guardano le percentuali in rapporto alla popolazione (che è esattamente ciò che si dovrebbe controllare) le violenze commesse dagli stranieri sono maggiori. Anche perché al conteggio sfuggono ovviamente i casi non denunciati che è plausibile siano maggiori nelle comunità di immigrati perché una donna straniera (magari profuga e richiedente asilo, inserita in contesti comunitari chiusi) ha più timore a denunciare una violenza subita rispetto ad una donna italiana. D’altronde è un dato di fatto che la possibile correlazione tra l’esodo migratorio di giovani maschi e l’aumento delle violenze sessuali non sembra riguardare solo l’Italia. In tutti i paesi che hanno adottato politiche di accoglienza massiccia i reati a sfondo sessuale sono tra quelli con maggiore aumento, insieme ai furti.

I NUMERI IN GERMANIA. Il Rapporto annuale sulla “Criminalità nell’ambito della migrazione” pubblicato il 27 Aprile scorso dalla Bundeskriminalamt (BKA), la Polizia Federale tedesca, rivela che nel 2016, il numero dei reati a sfondo sessuale compiuti da stranieri è aumentato del 102%, passando da 1.683 violenze del 2015 alle 3.404 del 2016. In altre parole, da quando la signora Merkel ha aperto le frontiere ad oltre un milione di immigrati, avvengono circa 5 reati sessuali al giorno compiuti dai nuovi arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’aumento è stato del 500%. I reati comprendono molestie, stupri e abusi sessuali su bambini e minori; quest’ultimo reato (il più odioso) è quello che ha registrato il tasso di crescita più elevato, +120%. Il 71% degli immigrati autori di violenze sessuali ha meno di 30 anni (il 17% è in età adolescenziale). Soeren Kern analista del Gatestone Institute e studioso dei problemi connessi alla migrazione in Germania l’ha definita una “epidemia di stupri”.

IL CAPODANNO DI COLONIA. Il caso più eclatante avvenne la notte di Capodanno del 2015, quando circa 1200 donne subirono aggressioni e molestie sessuali in diverse città tedesche (600 solo a Colonia e 400 ad Amburgo). Un vero e proprio assalto di massa perpetrato, “nella stragrande maggioranza da persone che rientrano nella categoria generale dei rifugiati”, come dichiarò allora il Procuratore di Colonia Ulrich Bremer. Il Capo della Polizia Holger Münch dichiarò che era evidente “la relazione tra ciò che era accaduto e la forte immigrazione avvenuta nel 2015″. La polizia tedesca denunciò i fatti di Colonia come applicazione del Taharrush, una sorta di “molestia sessuale collettiva” (che a volte si conclude con stupri di gruppo) praticata in alcuni paesi islamici e venuta alla ribalta dei media occidentali durante le manifestazioni di piazza della Primavera Araba, quando si verificarono diversi casi di violenze ai danni di giovani donne musulmane. Da sottolineare che per mesi, i media tedeschi hanno nascosto la portata dell’accaduto secondo un comportamento coerente con la volontà di manipolare l’informazione sui temi dell’immigrazione; volontà denunciata da una clamorosa ricerca scientifica che inchioda la stampa tedesca alle proprie responsabilità. La situazione è divenuta di una tale emergenza sociale che il 7 luglio 2016 il Parlamento tedesco ha dovuto approvare modifiche al codice penale proprio sui reati sessuali, ampliando la definizione di stupro per consentire più facilmente l’espulsione degli immigrati colpevoli.

SVEZIA E FINLANDIA. Il tema dell’aumento dei reati sessuali in relazione all’immigrazione è stato analizzato anche in altri paesi come la Svezia e la Finlandia dove hanno fatto scalpore episodi cruenti di violenze operate da giovani immigrati. In particolar modo nel 2016, in Svezia venne a galla lo scandalo della copertura che la polizia operò sulle violenze durante un festival musicale a Stoccolma, quando diverse adolescenti svedesi furono aggredite da giovanissimi immigrati, per lo più afghani. Uno solo caso di stupro ma decine i casi di molestie sessuali e violenze. La legislazione svedese vieta di rendere note le identità etniche e religiose di chi commette reati; è quindi impossibile capire se l’aumento oggettivo di stupri negli ultimi 10 anni sia legato al massiccio aumento di immigrati dai paesi islamici o solo a modifiche dell’apparato legislativo svedese che ha allargato la definizione di violenza sessuale (come tendono ad affermare i difensori del modello multiculturale). In Finlandia il più recente rapporto della polizia denuncia un aumento dei reati sessuali del 23% nei primi 6 mesi del 2017 ed un calo del 5% di quelli commessi da stranieri. Ma la percentuale degli abusi sessuali commessi da immigrati continua ad essere altissima, quasi il 30%.

IL PROBLEMA C’È. Tutto questo cosa significa? Che esiste un’equazione immigrato = stupratore? Certo che no e se qualcuno lo pensa è un imbecille. Ma è un imbecille anche chi nasconde l’identità di uno stupratore quando è un immigrato, per non suscitare sentimenti razzisti. È evidente che l’immigrazione a cui l’Europa si è aperta, presenta enormi criticità che mettono a rischio la tenuta sociale ed economica delle nazioni e la loro identità culturale ed il loro sistema giuridico. Alcuni punti da sottolineare: Profughi e richiedenti asilo rappresentano una minoranza di coloro che entrano in Europa. Dalle guerre fuggono in genere donne e bambini, mentre l’Europa sta accogliendo prevalentemente maschi giovani di età compresa tra i 17 e i 30 anni in piena vitalità sessuale. Quando un processo immigratorio non è governato ma subìto, come avviene (grazie all’irresponsabilità dei governi europei e alla volontà criminale delle élite globaliste), è impossibile controllare chi accogli nei tuoi paesi. Gli immigrati provengono prevalentemente da paesi con culture che hanno una visione del “femminile” e dei diritti tra uomo e donna molto diversi dall’Occidente. In queste culture (soprattutto islamiche) la condizione di sottomissione della donna rende difficile stabilire i limiti legislativi all’interno dei quali definire cos’è un abuso sessuale o una violenza

Ovviamente il problema non è se gli europei stuprano più degli immigrati o se un immigrato che stupra è più colpevole di un europeo (anche se il principio dell’accoglienza e dell’ospitalità, implica l’obbligo della reciprocità e rende più odioso un reato commesso da un immigrato, su questo ha ragione la Serracchiani); il problema è sancire l’esistenza di un problema sociale e culturale senza rimuoverlo secondo quel meccanismo paranoico proprio dell’ideologia globalista, liquidando come razzista chi lo pone; problema che deriva da un’immigrazione non più sostenibile.

IL CASO GOREN. In Germania fece scalpore il caso di Selin Goren giovane portavoce di Solid, movimento di estrema sinistra; una ragazza impegnata in politica nei movimenti a favore dell’immigrazione. Una sera di Gennaio del 2016, in un parco di Mannheim, la ragazza venne violentata da tre uomini. Alla polizia dichiarò che i tre parlavano tedesco. Solo tempo dopo, convinta da una sua amica, ritrattò e affermò che i tre erano immigrati e parlavano arabo. In un’intervista a Der Spiegel spiegò che aveva mentito per non “aumentare l’odio verso i migranti”. Dopo essere stata violentata questa ragazza imbevuta di ideologia, si è auto-violentata in nome di un buonismo che rasenta la patologia sociale. Vittima due volte: di una violenza generata da altri e di una generata da se stessa. Ecco questa è l’immagine più chiara di come l’Europa rischia di finire: auto-violentandosi per non guardare in faccia la realtà.

Stupratori, il dato choc: stranieri quattro su dieci. I non italiani sono l'8% della popolazione. I nodi: espulsioni e controllo del territorio, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". I dati sembrano essere fatti apposta per rovinare il presepe del politicamente corretto, ma i numeri non possono essere ignorati. Le statistiche criminali, anche se incomplete e in ritardo, ci dicono che quasi 4 stupri su 10 sono commessi da stranieri. Tanti, tantissimi, ancora di più se si pensa che i non italiani rappresentano solo l'8 per cento della popolazione. Inutile voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere: la realtà è lì con tutto il suo peso a travolgere facili teorie buoniste, ingenue come le favole. Non si tratta di un atto d'accusa, ma di riflettere su un Paese che si sta slabbrando per tante ragioni, non ultima un'immigrazione senza griglie e controlli che sta regalando frutti avvelenati. L' indagine condotta da Demoskopika, elaborando le tabelle del Viminale, compone un quadro purtroppo inquietante: nel quinquennio 2010-2014 il 39 per cento delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61 per cento opera di italiani. Dal punto di vista delle proporzioni qualcosa non quadra, anzi stride: nel 2014 risiedevano nel nostro Paese 60,8 milioni di persone e di queste il 91,9 per cento era italiano e solo l'8,1, circa 4,9 milioni, veniva da fuori. Le quote non sono in linea. Anzi. Denunce e arresti si sono moltiplicati in quella direzione. Su 22.864 casi segnalati nel quinquennio (il numero vero delle violenze resta naturalmente sconosciuto) molto spesso gli investigatori hanno messo nel mirino individui con passaporto non tricolore: romeni, anzitutto, e poi albanesi e marocchini. Sia chiaro, non si tratta di assolvere frettolosamente i nostri connazionali: sappiamo benissimo che tante donne subiscono angherie, soprusi e molestie di ogni genere fra le mura domestiche: gli autori sono mariti, fidanzati, ex che non ne vogliono sapere di alzare bandiera bianca. E sappiamo altrettanto bene che la lista degli autori di questi crimini efferati, dallo stalking fino al femminicidio, comprende nomi che suonano e ci sembrano familiari. Dunque non pericolosi, secondo un'equazione che invece non torna. Ma questo è solo un capitolo del libro nero: poi c'è l'altro che ha a che fare, gira e rigira, con la qualità di chi arriva. L'Italia è diventata, anche se non è elegante sottolinearlo, una sorta di Bengodi per ceffi e delinquenti in fuga dai loro Paesi e convinti, come ha scritto un giudice, che qui sia possibile fare quel che si vuole. Nella più completa impunità. Poi c'è il nodo di un'immigrazione fuori controllo, regolata con superficialità o peggio, come per la Romania, sottovalutando sconsideratamente le obiezioni all'ingresso di Bucarest nella Ue. Ci sono pure paesi in cui la donna vale poco o niente e questo inevitabilmente non è un elemento neutrale. Tanti problemi che si sommano, quelle cifre sconfortanti da mettere in fila. I romeni sono solo l'1,8 per cento dei residenti, ma vengono loro addebitati l'8 per cento degli stupri. Numeri pesanti anche per albanesi, tunisini, marocchini. Nessuna generalizzazione, ci mancherebbe, e nemmeno distribuzione di patenti di primogenitura. È che il nostro Paese ha una politica criminale che fa acqua: si difende poco e male e cosi tutela ancora meno le donne, italiane e non. La terribile vicenda di Rimini, la caccia al branco che viene da fuori, riapre una ferita mai chiusa. E che tocca tanti nodi: il controllo impossibile del territorio, l'effettività della pena, gli ingressi senza semaforo e le mancate espulsioni, la lentezza e la farraginosità della nostra giustizia. Non e' con qualche formuletta multietnica che si affrontano questi temi, come non è con una legge a costo zero e con la solita retorica delle buone intenzioni che si può fermare la mattanza che insanguina le nostre case da troppo tempo.

Ogni anno mille stupri commessi da immigrati: 3 casi al giorno. Gli abusi sessuali non calano mai. Ogni anno mille casi da stranieri, che sono i violentatori nel 40% dei casi. E spesso gli stupri rimangono senza denuncia, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Ogni anno mille stupri commessi da migranti, regolari o clandestini. Un dato che allarma le autorità e gli italiani, sempre più spaventati dal rischio di finire vittime di un branco di stupratori come accaduto nei giorni scorsi a diverse coppie a Rimini. Le stime diffuse dall'Istati parlano chiaro e sono sempre numeri al ribasso, visto che solitamente solo il 7% degli stupri viene denunciato. L'istituto di statistica, come riporta il Corriere, spiga che nei primi sei mesi del 2017 le violenze sessuali sono state 2.333, allo stesso livello di quelle commesse nell'anno precedente, quando gli stupri furono 2.345. Tanti, anche se sottostimati. A sorprendere però sono gli autori denunciati di tali orribili atti: nel 2017 sulle scrivanie delle forze dell'ordine sono finiti i profili di 1.534 italiani e ben 904 stranieri. Divisione rimasta anche questa pressocché invariata rispetto all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini 1.474. A conti fatti, dunque, ogni anno mille migranti si macchiano dell'orrendo reato dello stupro. Vi sembrano pochi rispetto agli italiani? Non è così. Perché il calcolo va fatto considerando che gli stranieri regolari in Italia sono appena 5 milioni (secondo l'ultimo dato ufficiale) oltre ad un altro milione di irregolari. Questo significa che il tasso di incidenza sulla percentuale di stupri è molto più alta rispetto a quella dei cittadini autoctoni. La "società di ricerche Demoskopica - scrive il Corriere - ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010- 2014, secondo cui 'il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali'". I numeri sulle violenze carnali non sono incoraggianti. Secondo le stime il 21% delle donne italiane, ovvero 4,5 milioni di individui, almeno una volta nella vita è stata costretta ad avere un rapporto sessuale e almeno 1,5 milioni sono state vittima di volenze carnali più gravi: "653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro", scrive il Corriere. E spesso le violenze avvengono in famiglia, dove quasi il 40% delle mogli, figlie o fidanzate è stata vittima almeno una volta di aggressioni che hanno portato a ferite o lesioni.

Il dossier del Viminale: 2.438 denunciati per stupro o abusi. Secondo i dati sui primi sei mesi di quest’anno, sono 1.534 italiani e 904 stranieri, scrive Fiorenza Sarzanini il 31 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". È certamente uno dei reati più odiosi. Ed è anche l’unico a restare sempre uguale nel numero di segnalazioni, a fronte di un generale calo dei delitti. Segnalazioni che, peraltro, sono una percentuale minima rispetto alla realtà. Perché le stime diffuse dall’Istat dicono che appena il 7 per cento degli stupri viene denunciato, vuol dire che migliaia di episodi rimangono impuniti. Le donne hanno paura, visto che molto spesso la violenza la subiscono in famiglia. Oppure si vergognano, comunque temono le conseguenze. La conferma è nei dati forniti dal Viminale: tra gennaio e giugno del 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali, nello stesso periodo del 2016 furono 2.345. Basso anche il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 nei primi sette mesi di quest’anno. Tra loro, 1.534 italiani e 904 stranieri. Un dato che - come chiariscono investigatori e analisti - si deve però rapportare al numero degli abitanti e dunque all’incidenza percentuale rispetto alla popolazione. Nel 2016 sono stati 2.383 con una divisione che è rimasta pressoché invariata: 1.474 italiani, 909 stranieri.

6 milioni di vittime. È proprio l’Istat a fornire una fotografia drammatica. Secondo l’ultimo rapporto ben il 21 per cento delle donne italiane - pari a 4,5 milioni - è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro. Un intero capitolo è dedicato della relazione è dedicato agli abusi in famiglia: il 37,6% tra mogli e fidanzate ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. E in una catena di orrori senza fine si scopre che nel 7,5 % dei casi a scatenare l’ira del partner è la gravidanza indesiderata. Indicativo, secondo gli analisti, è lo stato di vessazione psicologica che riguarda ben 4 donne su 10. In questo caso viene sottolineata l’incidenza sui rapporti interpersonali di quello che gli esperti definiscono l’«asimmetria di potere» che «sempre più spesso sfocia in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni, «è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria».

Delitti in calo. I numeri forniti dal ministero dell’Interno a Ferragosto segnalano un generale calo - in alcuni casi molto evidente - dei delitti. Negli ultimi due anni c’è stata una diminuzione pari al 12 %: si è infatti passati da 1.463.156 reati denunciati nei primi sette mesi del 2016 a 1.286.862 nello stesso periodo del 2017. Scendono del 15,1% gli omicidi passando da 245 a 208; giù del 11,3% le rapine da 19.163 a 16.991; si riducono del 10,3% i furti (anche se pure in questo caso gioca soprattutto la diminuzione delle denunce) da 783.692 a 702.989. A rimanere stabile è appunto soltanto il numero degli stupri: la statistica parla di una riduzione dello 0,5% quindi, di fatto, inesistente. E a far paura è anche l’analisi di un fenomeno che coinvolge spesso anche i minorenni. Nel 2015 il ministero della Giustizia aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo.

Gli stranieri denunciati. Il numero di stranieri denunciati o arrestati è basso, ma diventa indicativo se si fa un raffronto con le presenze in Italia che - secondo le ultime stime - sono di circa 5 milioni di residenti e quasi un milione di irregolari. Nei giorni scorsi la società di ricerche Demoskopica ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010-2014, secondo cui «il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali». L’analisi per etnie delle denunce presentate dice che dopo gli italiani «ci sono i romeni, poi gli albanesi e i marocchini». Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, avverte: «Più che fare una differenza di cittadinanza, dobbiamo preoccuparci visto che sta passando un messaggio tremendo di impunità. Gli stupri in Italia sono all’ordine del giorno».

Quasi il 35% dei detenuti è straniero, scrive Damiano Aliprandi il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Secondo i dati del Dap, 6mila sono islamici. Il mondo politico e dell’associazionismo è diviso sulla proposta del ministro dell’interno Marco Minniti di rilanciare i Centri di identificazione ed espulsione. A proposito degli immigrati, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) dice: «Spero e mi auguro che le dichiarazioni di intenti del Viminale sulla annunciata stretta dei migranti irregolari in Italia trovi concretezza anche per quanto concerne le ricadute sul sistema penitenziario, dove oggi abbiamo presenti oltre 18.700 detenuti stranieri». Per il Sappe, «fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia». Però i dati sugli stranieri in carcere risultano un po’ più complessi. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha più volte spiegato che la presenza degli stranieri in carcere è dovuta al fatto che «subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali». Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. Sempre Gonnella ha spiegato il motivo: «I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità». In sostanza l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. Quindi i tassi di detenzione sono legati alla Bossi Fini, messa molto spesso in discussione da associazioni, movimenti politici e personalità che studiano il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu (Iniziativa e studi sulla multietnicità), gli stranieri residenti in Italia che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni), e dai cattolici (poco più di un milione). Passando alle religiose minori, i buddisti stranieri sono stimati in 182.000, i cristiani evangelisti in 121.000, gli induisti in 72.000, i sikh in 17.000, i cristiano- copti sono circa 19.000. L’indagine dell’Ismu evidenzia come il panorama delle religioni professate dagli stranieri è molto variegato e sfata il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’islam. Per quanto riguarda le incidenze percentuali i musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), i cristiano- ortodossi il 2,6%, i cattolici l’1,7%. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000). In Lombardia vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 277.000 presenze, seguita dal Lazio (152.000) e dall’Emilia Romagna (95.000). Per quanto riguarda la religione degli stranieri in carcere, la situazione rispecchia quella generale. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, i detenuti presenti al 31 dicembre 2016 erano 54.653, di questi 18.958 stranieri. Coloro che si sono dichiarati di religione islamica sono circa 6000. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che «la radicalizzazione nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo ed appartenenze di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati ad entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto darebbe invece la possibilità di portare nel carcere un Islam aperto e democratico». Per questo motivo apprezza la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di affidare al vicepresidente dell’Ucoii dei corsi per il personale di polizia penitenziaria. Sempre Gonnella ricorda che «la Camera ha già approvato il ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario dove si riconosce uno spazio ad hoc per la libertà di culto e vengono previsti una serie di diritti per i detenuti stranieri. Disegno di legge attualmente al Senato che, più volte, abbiamo sollecitato per un’immediata approvazione». Il presidente di Antigone infine conclude con un auspicio: «Va evitata la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione. Va evitata la sindrome della vittimizzazione. Va evitata la stigmatizzazione degli islamici che produce violenza e ulteriore radicalizzazione. Va evitato un sistema penitenziario affidato solo ai servizi di sicurezza. Vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione».

La confessione SHOCK del GIUDICE: “In ITALIA giustifichiamo i REATI degli IMMIGRATI! Ecco perché…” Si chiama Ignazio de Francisci, ed è procuratore capo di Bologna, che ha espresso molti dei suoi dubbi nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. Oggi, su “La Verità”, è uscita un’esclusiva intervista nel quale ha rilasciato dichiarazioni molto forti. Ha iniziato dicendo che in Italia “c’è un malinteso senso di accoglienza che disorienta i giudici” che quindi diventerebbero molto più clementi con i furfanti stranieri, rispetto a quelli italiani. Inoltre, secondo De Francisci, le nostre carceri sarebbero ricercate dagli stranieri “perché meno dure e perché si esce più in fretta”. In pratica, accade che a causa di una serie di regole europee, un immigrato che viene arrestato in un altro paese della comunità europea, può richiedere di scontare la pena qui da noi in Italia. E così le nostre carceri diventano quelle più ambite da una gran bella parte di furfanti immigrati di mezza Europa. Perché l’Italia è uno dei pochissimi paesi della Comunità Europea dove vige il principio della buona condotta, con enormi sconti di pena. Come se non bastassero i delinquenti nostrani, ci ritroviamo a carico dello stato anche migliaia di delinquenti stranieri!

Lo dice il pm: "Carcere comodo: criminali stranieri scelgono l'Italia". La denuncia choc del procuratore di Bologna, Ignazio De Francisi: "Qui carcere più vantaggioso, vengono soprattutto dall’Est", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 30/01/2017, su "Il Giornale". La denuncia non viene da un pericoloso razzista xenofobo. Ma dal procuratore generale della Corte di Appello d Bologna. Ignazio De Francisci, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha lanciato l'allarme riguardo le leggi troppo poco severe, le "carceri comode" e gli sconti di pena che spingono i criminali stranieri a venire in Italia dove hanno vita facile. Non è un segreto infatti che negli ultimi anni si siano impennati i reati commessi da stranieri, che spesso vanno a ingolfare le carceri italiane. Il 32% dei detenuti (17mila su 52mila) è straniero, sebbene la popolazione immigrata in Italia sia appena l'8,5%. Gli immigrati, in sostanza, delinquono in media 4 volte in più. "Agli occhi della criminalità dell’est Europa, la commissione di delitti in Italia è operazione più lucrosa e meno rischiosa che in patria - ha detto De Francisci - E alle loro carceri sono preferibili le nostre". Per gli "amministratori di giustizia", anche in Emilia-Romagna i problemi sono sempre complessi e, rispetto al passato, in parte più gravi. I mali della giustizia. Ma i problemi della giustizia non finiscono ovviamente qui. Ieri è arrivata anche una sferzata al "troppo precariato", l'allerta sui troppi reati prescritti, il boom dei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale che rendono la situazione "critica". A cui si è aggiunto il monito di De Francisci sulla "radicalizzazione" dei detenuti riguardo al terrorismo.

Gli intoccabili clandestini, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” il 2 Febbraio 2017. E perché mai dovremmo tacere sui reati e sui problemi che commettono e procurano gli oltre cinquecentomila clandestini, sbarcati forzatamente sulle nostre coste senza alcuna vera giustificazione? Fossero realmente dei poveracci che scappano da persecuzioni personali, familiari, razziali, perpetrate a loro danno nei loro paesi d’origine, potremmo anche cominciare a riflettere sulla possibilità di dar loro una mano. Ma sono quaglie grasse e arroganti, pretenziose e violente, senza nome e senza documenti che attestino la loro vera identità, nazionalità, fedina penale pulita; invece, no: spacconi, con le tasche piene di soldi destinati a caporali, scafisti, volontari venduti, capibranco e smistatori corrotti, tonache sporcaccione e nere come i fumi dell’inferno. Tutto un popolo, quello dei loro “difensori e padrini”, di delinquenti, massopoliticomafiosi, che sta costruendosi un futuro unto di sangue e merda, quanto e più dei nazisti che si spartivano gli ori raccattati nei lager. Bestie dalla faccia (ri)pulita dalla Comunicazione al soldo dei poteri occulti. Finti moralizzatori che vorrebbero imporci le loro sporche regole del silenzio, a danno della nostra onestà e libertà, costate la vita ai nostri nonni, ai nostri Eroi. No! Non resteranno impuniti o, peggio, occultati, gli orrori commessi dai clandestini sul suolo Italiano. Non taceremo sugli stupri, le violenze, gli accoltellamenti, le arroganze, le rapine, gli abusi, le pretese assurde. Non chiameremo solo delinquenti, gli zingari delinquenti che scippano quotidianamente migliaia di indifesi turisti e cittadini Italiani nelle nostre città d’Arte. Non chiameremo solo malfattori, gli africani malfattori che distruggono alberghi e case d’accoglienze, stuprano le volontarie, ammazzano la gente per strada sull’esempio di quel kabobo, che nel maggio 2013 seminò il terrore per le strade di Milano. Non saranno solo terroristi, o, peggio, malati di mente, gli islamici terroristi che stanno tritando carne umana Cristiana con le loro sporche bombe attaccate ai coglioni e fatte esplodere in mezzo alla gente ignara ed innocente. Non saremo onerosi, né stitici della lingua Italiana. Sarà pane, al pane. Nero al nero. Zingaro allo zingaro, che sia rom o sinti. Ci scandalizzeremo ancora a vedere gli Italiani che crepano di fame e si impiccano per la vergogna di essere rimasti senza lavoro e senza casa, mentre una pletora di beduini e neri scansafatiche dorme al caldo e si sveglia sui comodi letti degli hotel a 4 stelle, scia e gioca a pallone a nostre spese, mentre – per giunta – ci urla in faccia il proprio odio razziale. Difenderemo il diritto dei popoli occidentali di alzare gli stessi muri che esistono nel resto del mondo, per contrastare invasioni e malaffare. Così come difenderemo il diritto dello stato vaticano, sede non solo di vergogne e immoralità da enciclopedia, a mantenere e tutelare la bellezza e la ricchezza della cinta muraria medievale che lo preserva (e ci preserva), oggi, dalla possibile evasione del peggior papa della sua storia. Sorrideremo ancora tragicomicamente davanti ai cortei di femmine e femministe che urlano contro Trump, il quale cerca di difenderle, e restano mute davanti agli orrori e alle violenze dei paesi islamici, dove le donne valgono meno di uno sputo a terra. E continueremo a lottare perché il mare diventi muro e le navi militari, sentinelle. Perché i confini nazionali vengano rispettati, onorati. Difesi. Perché esista il nazionale e il forestiero. Lo straniero.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" il 29 Agosto 2017: le stuprate godono? È ciò che pensano gli islamici in Africa e Medio Oriente. Fosse solo un demente - un cretino, un idiota, scegliete voi - sarebbe meno grave: «Lo stupro è un atto peggio ma solo all’inizio, una volta che si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale». Ma non è solo un demente sgrammaticato: ad aver scritto che alle donne, in pratica, lo stupro piace - scritto su Facebook a commento della violenza di Rimini - è un 24enne che si chiama Abid Jee e che vive a Crotone anche se studia giurisprudenza a Bologna. Ma non è solo un demente sgrammaticato e immigrato che si presuppone minimamente istruito: è uno che, intanto, fa anche il «mediatore culturale e operatore sociale» in una cooperativa bolognese che gestisce migranti e che, l’anno passato, ha guadagnato 883.992 euro di utile: dunque costui, con questa mentalità progredita, sarebbe un pontiere tra la nostra cultura e un’altra. Quale? Ecco, ci siamo: perché costui non è solo un demente e un migrante istruito eccetera che viene pagato per gestire altri migranti e fa il mediatore culturale, ma la cultura che dovrebbe «mediare» è quella islamica, visto che è un pakistano di Peshawar (paese dove i musulmani sono il 98 per cento) e visto che a quanto pare frequentava una comunità islamica. Da qui, in sintesi, il giustificato sospetto che la sua considerazione della donna non sia tanto quella di un demente, ma semplicemente quella di un musulmano: quella, cioè, che la sua cultura e religione gli suggeriscono. Tipo che la donna sia inferiore, impari, sprovvista di tutti i diritti, una bambola in mano all’uomo, una a cui spetta meno quota di eredità, la cui testimonianza vale meno nei processi, una che non può decidere di divorziare, viaggiare, guidare, fumare, talvolta studiare o vestirsi senza celare il corpo. Questo è lo status femminile nei paesi più ortodossi, beninteso: laddove una 19enne saudita, per esempio, è stata violentata da un gruppo di sette uomini e però poi, a processo, è stata condannata a 200 frustate perché colpevole di trovarsi in un luogo pubblico senza un membro maschio della famiglia. Accadeva nel 2015. Ma qui per fortuna siamo in Occidente, dove esiste una «mediazione culturale» che ti permette di sostenere, al massimo, che alle donne piace essere stuprate purché abbiano la pazienza di aspettare che «entra il pisello». Ora: se per voi questa è una notiziola - come l’hanno trattata molti quotidiani online - per noi non lo è, perché sintetizza molte cose. Ovviamente è scoppiato un casino. Il mediatore culturale ha subito rimosso il suo commento da Facebook ma era comunque troppo tardi: tanto che la cooperativa Lai Momo di Sasso Marconi, nel pomeriggio, ha dovuto smarcarsi e ha detto di ritenere «gravissime» le sue dichiarazioni. Il ragazzo lavorava all’hub regionale di via Mattei dove si smistavano i migranti poi ridistribuiti in tutta la regione o in altre strutture di accoglienza della città: prima di essere assunto a tempo determinato, e di firmare il contratto, ha dovuto sottoscrivere un codice etico che a questo punto ci piacerebbe leggere. La decisione di sospenderlo è avvenuta solo dopo le polemiche politiche: non tanto quelle della consigliera comunale della Lega Nord Lucia Borgonzoni («gente così meriterebbe solo di stare in galera», mi aspetto «una presa di posizione dalla comunità islamica cittadina») ma solo dopo l’intervento dell’assessore bolognese al welfare Luca Rizzo Nervo: «Parole di una gravità inaudita da parte di un operatore sociale che opera nel campo della accoglienza dei migranti: è intollerabile». Sì, lo è. Se n’erano già accorti tutti da diverse ore. Ma l’assessore si è detto certo «che la cooperativa, che conosco per la serietà del lavoro che svolge, saprà trarre le conseguenze». Insomma, si sono telefonati. In serata sui social è poi circolato un cosiddetto «fake» (un falso) scritto da un presunto esponente del Pd, Alberto Neri: «Abid non ha detto nulla di sbagliato, a livello biologico ha ragione». Un falso, appunto. O - peggio - l’esito di una mediazione culturale.

Comunisti tolleranti contro i blasfemi, detrattori della fede e delle tradizioni nazionali e intolleranti contro il buon senso.

Colonia: a Capodanno donne aggredite da mille uomini ubriachi “di origini arabe o nordafricane”. La notte si è conclusa con oltre 90 denunce, una delle quali per stupro, anche se la polizia crede che aumenteranno nei prossimi giorni. Il sindaco Reker: "Quello che è accaduto è inaudito". E anche a Monaco si sono verificati episodi simili nella notte di San Silvestro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 gennaio 2016. Circondate, palpate, molestate e derubate la notte di Capodanno. A Colonia un migliaio di uomini ubriachi tra i 15 e i 39 anni e “di origini arabe o nordafricane” hanno aggredito decine di donne la notte di San Silvestro nei pressi del Duomo e della stazione dei treni. Il risultato: 90 donne che hanno denunciato furti e molestie, incluso uno stupro, anche se la polizia ritiene che le segnalazioni aumenteranno nei prossimi giorni. “Quello che è accaduto è inaudito”, ha detto il sindaco di Colonia Henriette Reker, accoltellata in ottobre alla vigilia delle elezioni per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana e oggi coordinerà l’unità di crisi che dovrà varare misure per tutelare in futuro le donne da violenze di questo genere. E anche Angela Merkel, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert, ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto. In una telefonata al sindaco di Colonia, la Cancelliera ha espresso il suo sdegno per le violenze, ha aggiunto Seibert, e ha chiesto che ogni sforzo venga indirizzato per indagare e condannare al più presto i colpevoli, senza riferimento alla loro origine. La dinamica – Gli uomini si sono radunati in piazza per poi dividersi in gruppi più piccoli, di 5 persone circa ciascuno, che hanno proseguito la caccia alle donne e hanno lanciato, secondo quanto raccontato dalla polizia, una quantità fuori dall’ordinario di petardi e fuochi d’artificio. E gli aggressori non si sono fatti impressionare neppure dall’intervento della polizia, sempre più massiccio. Intanto alcune vittime hanno raccontato ai media tedeschi la loro notte dell’orrore. La 27enne Anna ha descritto così allo Spiegel online il suo arrivo con il fidanzato alla stazione centrale: “L’intera piazza era gremita di soli uomini. C’erano poche donne isolate, impaurite, che venivano fissate. Non posso descrivere come mi sono sentita a disagio”. Ma Colonia non è stata l’unica città in cui si sono verificati questi episodi. Anche la polizia di Amburgo sta indagando su reati simili, sempre avvenuti nella sera di Capodanno. Nella città anseatica, luogo delle aggressioni è stata la Reeperbahn, la via nel quartiere St. Pauli famosa per i locali a luci rosse. Anche qui gruppi di uomini hanno circondato e molestato sessualmente donne che festeggiavano l’inizio del nuovo anno, derubandole di soldi e telefonini. Un portavoce della polizia ha spiegato che si indaga su 9 casi.

Stranieri e rifugiati siriani fra gli assalitori di Colonia. Il rapporto: «Le donne hanno dovuto attraversare delle forche caudine». Denunciate altre aggressioni sessuali dalla Finlandia alla Svizzera, scrive Elena Tebano l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A sera la piazza tra la stazione e la cattedrale di Colonia è quasi vuota, pochi lampioni a illuminarla mentre i passanti si affrettano sul selciato battuto dalla pioggia e sfilano tra i quattro poliziotti in tenuta antisommossa che presidiano l’ingresso principale ai binari. Un tentativo di mostrare che lo Stato c’è, mentre montano sempre di più le critiche per la risposta insufficiente delle forze dell’ordine alle aggressioni che la notte di Capodanno hanno trasformato il cuore della città in un inferno per «le donne che - come si legge in un rapporto della polizia - sole o accompagnate hanno dovuto attraversare delle vere e proprie forche caudine formate da masse di uomini pesantemente ubriachi». Intanto sono salite a 121 le denunce: «In tre quarti dei casi - ha affermato un portavoce della polizia - si tratta di reati a sfondo sessuale spesso avvenuti in concomitanza con furti o borseggi». Due denunce sono per stupro, le altre per «furti o lesioni». Sedici i sospetti identificati, «in gran parte uomini di origine nordafricana». Secondo il settimanale Der Spiegel ci sarebbero inoltre 4 fermati: due nordafricani accusati di furto e arrestati già a Capodanno, e altre due persone, in cella da quattro giorni, su cui le autorità non hanno dato informazioni e che sono invece accusate di molestie sessuali. La polizia assicura adesso di aver messo al lavoro sulle aggressioni ben 80 agenti (una task force chiamata senza nessuna ironia «Neujahr», «anno nuovo»), ma dal rapporto interno pubblicato ieri da Der Spiegel e dal quotidiano Bild emerge che gli uomini dispiegati l’ultimo dell’anno erano invece del tutto insufficienti ad affrontare il «caos» di «risse, furti, assalti sessuali alle donne» e che «le forze presenti non hanno potuto controllare tutti gli avvenimenti, gli assalti e i reati, perché erano troppi contemporaneamente». In alcune fasi non è stato possibile, scrive il funzionario rimasto anonimo, neppure verbalizzare tutte le denunce. Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto. Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti: «Non potete farmi niente - avrebbero commentato sprezzanti - domani vado a prendermene uno nuovo». Le molestie di Colonia non sono un fatto isolato: altre 70 aggressioni a sfondo sessuale sono state denunciate ad Amburgo, 12 a Stoccarda, sei nella vicina Svizzera, a Zurigo. Anche a Helsinki, in Finlandia, nella notte di Capodanno ci sono state molestie sessuali diffuse nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. In quest’ultimo caso i presunti aggressori sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Al momento non risultano legami tra quanto successo nelle diverse città, ma ci sono stati contatti tra le polizie europee e tra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è quella di una comune regia: forse da parte di gruppi xenofobi che potrebbero aver aizzato gruppetti di immigrati per poi cavalcare l’indignazione causata dagli assalti. Di certo a Colonia il problema furti e molestie non è nuovo: «Nella zona della stazione si aggirano bande di giovanissimi che sono arrivati da adolescenti in Europa da Tunisia, Algeria e Marocco, si spostano spesso da un Paese all’altro e vivono di espedienti - dice al Corriere un volontario che lavora con i migranti e chiede di rimanere anonimo -. È possibile che fossero tra coloro che hanno agito a Capodanno. In generale quando ci sono gruppi di soli uomini fatti o ubriachi, non conta da quale Paese arrivino, facilmente ne fanno le spese le donne. Di solito qui succede a Carnevale, che attira sempre una grossa folla. La polizia lo sa e arriva con gli autobus per arrestarli. A Capodanno però nessuno se lo aspettava».

Colonia, gli immigrati dopo le violenze: "Da qui non potete cacciarci, ci ha invitati Frau Merkel". "Persone di origine straniera hanno lanciato molotov". In un rapporto choc gli agenti di Colonia smascherano le violenze degli immigrati: "Capodanno fuori controllo". Ed emerge tutta l'arroganza degli stranieri nei confronti delle forze dell'ordine, scrive Andrea Indini Giovedì 07/01/2016 su “Il Giornale”. Il caos e il clima di violenza della notte di Capodanno, a Colonia, dove un centinaio di donne indifese sono state aggredite, molestate e derubate da un migliaio di immigrati ubriachi, avrebbero potuto "anche provocare dei morti". Il rapporto choc della polizia tedesca, di cui la Bild pubblica alcuni stralci, svela senza più ombra di dubbio le gravissime colpe degli immigrati che la notte di San Silvestro hanno tenuto in ostaggio Colonia. Nel dossier si descrivono fra l'altro gli attacchi con bottiglie molotov e oggetti contundenti contro la polizia a cui è stato del tutto "impossibile" identificare gli aggressori delle violenze denunciate da donne in lacrime a fatti ormai avvenuti. Mentre il bilancio dei sospettati sale a sedici, le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio. I principali sospettati non sono ancora stati identificati per nome, ma gli inquirenti li avrebbero già chiaramente riconosciuti attraverso le immagini video. Per vittime e testimoni oculari gli aggressori erano per lo più di origine nordafricana e araba. "Se emergesse che fra i responsabili ci sono anche dei richiedenti asilo - ha assicurato il ministro della Giustizia Heiko Maas - questi potrebbero essere espulsi". Anche per la cancelliera Angela Merkel è necessario trarre estese conseguenze da quanto accaduto. "Ad esempio - ha detto - dobbiamo valutare se finora sia stato fatto abbastanza per le espulsioni di stranieri macchiatisi di reati". Nel rapporto della polizia di Colonia ci sono, poi, le voci provocatorie di alcuni immigrati. Voci che provano il fallimento delle politiche buoniste della cancelliera. Ascoltarle è un ulteriore affondo a tutte quelle donne che, durante i festeggiamenti di Capodanno, sono state molestate e aggredite. "Sono siriano - ha urlato in faccia un profugo a un agente che lo aveva fermato - dovete trattarmi bene, mi ha invitato Frau Merkel". Un altro straniero, dopo aver stracciato il permesso di soggiorno "con un ghigno", ha sfidato il poliziotto deridendolo:"Non puoi farmi niente. Ne prendo un altro domani". Anche se non vi è alcun collegamento con i drammatici fatti di Colonia, a Weil am Rhein quattro siriani sono stati arrestati per aver violentato due adolescenti la vigilia di Capodanno. Le ragazze si trovavano nell'appartamento di uno degli immigrati quando sono arrivati il fratello 15enne e altri due 14enni e la situazione è degenerata. Le giovani sono state ripetutamente stuprate, per tutta la notte.

VIOLENZA SU 80 DONNE A COLONIA DA PARTE DI 1.000 “INTEGRATI”! IL SILENZIO ASSORDANTE DEI NOSTRI MEDIA, DELLA NOSTRA POLITICA RADICAL-CHIC E DELLA NOSTRA “INTELLIGHENTIA” (di Giuseppe Palma il 7 gennaio 2016). Circa 1.000 uomini (di origine nord-africana ed araba) hanno abusato, molestato e in alcuni casi violentato circa 80 donne! Al di là dei pesanti aspetti criminosi, che ovviamente riceveranno – si spera – un’adeguata risposta da parte della giustizia tedesca, il problema è tutto politico: la totale assenza dell’UE e l’ipocrisia della classe dirigente della maggior parte degli Stati europei, soprattutto di quella italiana. La nostra intellighenzia radical-chic (che poi è quella che vota Partito Democratico, SEL e Scelta Civica), sempre pronta a lavarsi la bocca con le parole “integrazione” e “ci vuole più Europa”, dopo i fatti di Colonia tace vigliaccamente! Su tutti, Laura Boldrini & Co., cioè quel manipolo di finte femministe, finte europeiste e finte sostenitrici dei diritti civili che – di fronte alle violenze poste in essere dai 1.000 immigrati di Colonia su 80 donne indifese – si sono nascoste dietro un silenzio assordante! Ma la storia è vecchia! Il manovratore (UE e capitale internazionale) e i politici che ne sono a libro paga non vogliono che il popolo si renda conto delle bestialità che stanno accadendo! L’immigrazione selvaggia serve all’€uro per poter abbassare i salari e le garanzie contrattuali/di legge del lavoratore! Quindi, bisogna a tutti i costi tacere! Vero, Laura Boldrini? Di fronte alle cene di Arcore (che Berlusconi pagava coi soldi suoi e dove mai nessuna violenza – di nessun tipo – fu fatta) tutte queste ipocrite femministe, ben appoggiate dalla solita e sporca intellighenzia di casa nostra, si scagliarono contro il “degrado” in nome della “moralità” e dell’ “immagine internazionale”. Oggi tacciono! Di fronte a qualche offesa verbale di qualche politico nostrano verso il problema dell’immigrazione, quelle stesse femministe e quegli stessi intellettuali (si fa per dire!) non si tirano indietro dall’etichettare tali episodi con parole come xenofobo, razzista, fascista etc…Il doppio-pesismo della sinistra italiana (e soprattutto dei post-comunisti e dei falsi buonisti) è qualcosa di vergognoso! Dove sono la signora Kyenge (eurodeputata PD) e il signor Chaouki (deputato PD)? Dove sono questi ipocriti benpensanti? Dov’è Niki Vendola (SEL)? Dov’è Gennaro Migliore (PD)? Dov’è Marianna Madia (PD)? Dov’è Simona Bonafè (PD)? Dov’è Anna Ascani (PD)? E soprattutto, dov’è Laura Boldrini? In tutto questo, anche i media hanno taciuto! Del resto, si sa: le linee editoriali dei giornaloni e delle TV italiane sono a favore dell’immigrazione selvaggia e dei crimini €uropei! Siamo rappresentati dalla peggiore politica e dalla peggiore intellighenzia!

Colonia: staccate la spina a questo schifo di Europa, scrive il 7 gennaio Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Barbari! Barbari approdati nella terra di nessuno, nella terra di niente, solo un corridoio per l’avvenire, solo una capanna per la pioggia, niente più. “Le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio”. Capodanno, Germania. Uomini contro donne. Prima di imparare ad essere altro, dovremmo ricordarci di essere noi stessi. Dove sono i cortei di sdegno del regime dei benpensanti? Non vedo Laura Boldrini ed accoliti, piangere, fissare un angolo silenziosamente, ansimare di dolore durante le dichiarazioni pubbliche post accaduto. Non sento il tonfo dei “buoni per davvero” del mondo omologato cadere a terra, svenuti. Non sento gridare alla fine, alla barbarie, al dramma più epocale nella storia del femminismo e dell’umanità. Non sento la rabbia, la voglia di cambiare, per davvero. Calano – gentilmente oggigiorno – i barbari, si ammosciano gli attributi. Che sia abbia il coraggio di ammettere che la situazione è fuori controllo, per Colonia? Non soltanto. Da un mese? da ben più di qualche mese. Mentre i sinistri nostrani scoprono che il dolore e l’errore provengono anche da dove non gli conviene guardare, risalgono gli echi delle “marocchinate”, dei marocchini deI Corps expéditionnaire français en Italie agli ordini del generale Alphone Juin, barbari immondi colpevoli – durante la Campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale – di migliaia di violenze ed omicidi compiuti ai danni di uomini, bambini, anziani e soprattutto, delle nostre donne, madri dei nostri figli. Colonia come le “marocchinate”, quando cominciò la vigliacca genuflessione dell’Occidente, mascherata da progresso. Tra Arabia ed Iran ai ferri corti, Schengen schifato da Paesi “liberalissimi”, tra gli esperimenti atomici koreani e l’impazzimento generale, abbiamo fior fior di ragazzoni, ipertecnologici tra le fila dell’esercito. Armi di quarantaquattresima generazione, addestrati al judo, al pugilato, al Krav Maga, finanche al Monopoly da competizione; abbiamo testate, contro testate, iper Consigli di sicurezza, abbiamo tecnologia come se piovesse. Poi miliardi di Euro di fondi da spendere in aerei supersonici, guerre, guerrette, democrazia in scatola e a domicilio ancora fumante. Abbiamo, abbiamo, abbiamo. Abbiam tutto, non abbiamo nulla. Abbiamo due guerre mondiali sulle spalle, svariate guerre di indipendenza, ribelli e ribellioni, anni di terrorismo interno, ancor prima che esterno, paure e crisi, rivoluzioni e tentate rivoluzioni e poi, e poi non riusciamo neanche ad evitare l’impensabile, a difenderci dalla brutalità di strada, come a Colonia, dopo non essere riusciti a difendere le nostre sovranità, i nostri figli, le nostre tradizioni, le nostre culture, genoma delle nostre identità. Non occorre scrivere quale sia il rimedio e neanche quale trattato invocare, quale linea di politica estera da seguire. Quale iniziativa, a mo di legge speciale stilare, né descrivere dettagliatamente a quale disastro totale stiamo assistendo. Viene solo da pensare che non ci sia più da star, poi, così tranquilli, a fermare il vomito, ormai incastrati in una marea fangosa di bulimia di informazione, si passa oltre, alla prossima notizia, con freddezza, come uno stupro. C’è tanta nausea, lo stupro è duplice. Fisico e spirituale. Come anime del purgatorio (per chi avrà la bontà di crederci) lagnanti, spaventate, inutili ed invisibili, ormai, irrinunciabilmente connesse all’orrore, dettaglio dopo dettaglio, con gli occhi aperti, come quel mattacchione di Alex nel capolavoro di Kubric, Arancia Meccanica, costretto a tenere gli occhi aperti di fronte a scene maligne, zeppe di massacro, così da provocarne rigetto. Colonia si poteva prevenire? Inutile dirlo, certamente. Colonia non si doveva neanche immaginare. Non occorre stare a dire chi aveva ragione e chi torto, capire che ne ha fino in fondo, non occorre stare a soppesare la dichiarazione minchiona del politico di turno, UE e non UE, Italì o non Italì. Fa solo venire il voltastomaco questo ragazzino presuntuoso, sciocchino e immaturo che l’Occidente, versante Europeo, è diventato. Da castrare, chimicamente, artificialmente, spiritualmente. Senza orgoglio civile, né appartenenza. Rabbia stoppata in petto, l’Occidente è politicamente corretto. Neanche alla calata dei Lanzichenecchi. Io non credo in questo, non voglio questo. Questa Europa fa schifo, senza mezzi termini. Dunque, che tramonti, si spenga pure l’Occidente insipido, ipocrita, malato di Alzheimer; vigliacco e guerrafondaio, che ha rinnegato la propria identità, che sputa sulla linearità della propria storia, che calpesta la purezza delle proprie culture genitrici. Che tramonti, questo Occidente, così da esser pronti a generarne un altro, senza sprecare neanche una vita, un’altra vita ancora. Che si plasmino le parole di Oswald Spengler, questo forse il più grande augurio da fare alla marmaglia di coinquilini ai lavori forzati che siamo oggi: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente”.

Le misure antimolestie sdi Colonia che penalizzano le vittime, scrive il 7 gennaio 2016 Giovanni Giacalone” su "Il Giornale. Le misure anti-molestie annunciate dal sindaco di Colonia, Heriette Reker destano serie perplessità in quanto non soltanto non risolvono il problema sicurezza ma paradossalmente sembrano penalizzare le stesse vittime degli abusi. E’ plausibile credere che la Reker voglia continuare a sostenere ad oltranza le sue politiche di accoglienza, ma davanti ad episodi del genere è necessario prendere immediati provvedimenti che facciano rispettare la legge e che tutelino l’incolumità del cittadino e non l’ideologia. Le linee guida del Primo Cittadino sembrano invece andare in ben altra direzione per sfociare addirittura nel contraddittorio, ad esempio: “Mantenersi a distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero”. La frase potrebbe far trasparire un certo razzismo, quasi a voler lasciar intendere che “straniero” equivalga a “molestatore”, paradossale per la ultra-tollerante Reker; oltre a ciò, il “consiglio” implica che la potenziale vittima debba girare per strada guardandosi continuamente intorno per scongiurare possibili molestatori. In poche parole, è la vittima che deve guardarsi le spalle e possibilmente evitare di girare sola, come suggerito da un altro consiglio, quello di “muoversi per le strade possibilmente in gruppo”. Fondamentale risulterebbe poi “evitare di assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di altre culture”. Decisamente agghiacciante! In questo modo non soltanto le vittime vengono colpevolizzate a discapito degli aggressori che, poverini, apparterrebbero a “culture” dove certi comportamenti “sarebbero ammessi”, ma limita palesemente la libertà di movimento della donna. Sono legali tali direttive? Qualche dubbio ce l’ho. Cosa significa poi quel “monitorare persone che potrebbero agire di nuovo”? Elementi sensibili e recidivi dovrebbero essere preventivamente messi in condizione di non nuocere, mentre sembra che diversi soggetti resisi responsabili delle aggressioni di Capodanno fossero già noti alle autorità. Davanti a episodi di questo tipo, che non dovrebbero neanche accadere, lo Stato ha il dovere di fornire risposte immediate ed efficaci per tutelare il cittadino, attraverso misure preventive e cautelative, ma nei confronti degli aggressori, non delle vittime. Segnali di debolezza e di non curanza da parte delle Istituzioni non fano altro che incentivare episodi come quelli di Colonia; speriamo di non dover assistere ad altri fatti del genere.

Germania, prove di sharia: immigrati islamici violentano, ma puniscono le donne, scrive “Riscatto Nazionale” il 6 gennaio 2016. Il sindaco della città annuncia una serie di regole per evitare il ripetersi delle violenze di Capodanno: vietato girare da sole e dare confidenza agli stranieri. L’amministrazione della città di Colonia ha annunciato che, a seguito delle violenze della notte di Capodanno, introdurrà un codice di comportamento per le donne e le bambine per scongiurare la possibilità che queste siano vittime di stupri o violenze. Ad annunciarlo è il sindaco della città Henriette Reker, che si è riunita ieri con i massimi esponenti delle forze dell’ordine locali, con i quali ha stabilito di introdurre nuove misure di sicurezza e dichiarato lo stato d’emergenza. La decisione è stata presa dopo che, durante la notte di San Silvestro, la stazione della città è caduta sotto il controllo di circa mille persone di origine mediorientale, che hanno importunato e derubato oltre 100 ragazze. “E’ importante prevenire questi incidenti” ha detto il sindaco. Il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”. Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più celebri e tradizionali della città che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato alle persone di origini mediorientali. Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti alle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti di asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”. Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.

Crolla la tesi buonista della sinistra: tra gli stupratori anche rifugiati siriani, scrive Guglielmo Federici venerdì 8 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Vi ricordate la tesi buonista della sinistra che invitava a una distinzione quasi filologica tra rifugiati in fuga da paesi in guerra come la Siria, migranti e clandestini? Da non confondere, per carità, da non mettere tutti in unico calderone ad uso e consumo della propaganda “xenofoba”, sostenevano con le chiavi della verità in mano.  Anzi, secondo le tesi di chi gettava e getta acqua sul fuoco sui pericoli di un’invasione migratoria dagli effetti che abbiamo potuto constatare, gli illuminati della sinistra spiegavano che proprio i clandestini erano quelli che con i loro comportamenti gettavano fango su chi aveva lo status di rifugiato. Insomma, secondo il buonismo dilagante la maggior parte degli italiani sarebbe stata vittima di una cattiva comprensione del fenomeno immigrazione. Distinguere e non condannare, era la loro parola d’ordine di civiltà. Sorpresa! Questa tesi crolla, si è sbriciolata sotto i nostri occhi. A Colonia (e non solo) c’erano anche dei rifugiati all’interno del branco di un migliaio di nordafricani e mediorientali che hanno seminato panico e paura a San Silvestro. Lo riporta il Corriere on line: «Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto della polizia», si legge sul quotidiano. Allora, continuiamo a distinguere, a capire, a minimizzare? «Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti – si legge – «Non potete farmi niente – avrebbero commentato sprezzanti – domani vado a prendermene uno nuovo», riporta l’inviato. I fatti di Colonia, purtroppo, stanno diventando un caso europeo. Non solo a Stoccarda e ad Amburgo si sono registrati episodi di violenze analoghi, sempre a Capodanno, ma altre denunce sono arrivate dalla Svizzera – sei da Zurigo – e anche dalla Finlandia: anche Helsinki la notte di Capodanno è stata funestata da casi di molestie sessuali nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. Brutta sorpresa anche qui per i “professionisti” dei flussi migratori, perché anche in quest’ultimo caso tra i presunti aggressori ci sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Insomma, le quisquilie dialettiche della sinistra, le distinzioni terminologiche tra immigrati bravi e cattivi, profughi, richiedenti asilo, rifugiati fanno ridere, non reggono alla prova dei fatti, non reggono alla prova di una realtà colpevolmente sottovalutata e minimizzata.

La Boldrini rompe il silenzio sugli stupri di Colonia ma non nomina i migranti, scrive Roberta Perdicchi giovedì 7 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. In un tweet del 15 ottobre 2015, Laura Boldrini solidarizzava con il nuovo sindaco di Colonia, fresco di accoltellamento xenofobo, salutando il nuovo corso “accogliente e tollerante” della cittadina tedesca. Il tutto con la solita enfasi della donna di sinistra che riconosce i semi di un mondo migliore, fatto di buoni che aiutano poveri disperati, e vuole darne notizia al mondo con i toni del messìa. Peccato che le cose, a Capodanno, siano andate in maniera un po’ diversa e che l’accogliente Colonia sia passata alle cronache per le violenze e i tentati stupri di massa degli immigrati ai danni di decine di donne tedesche. Dopo alcuni giorni di silenzio, il presidente della Camera ha finalmente sentito il bisogno di esprimere solidarietà, alle donne violentate, stavolta, non agli immigrati. Ma dimenticando di citare quel tweet nel quale la Boldrini spargeva demagogia ed enfasi sulla presunta convivenza multietnica e culturale di Colonia. «I fatti di Colonia sono molto gravi: quello che è accaduto è veramente inaccettabile e da parte nostra c’è la più ferma condanna», ha finalmente detto la Boldrini dopo che per giorni, sui social, era girato quel tweet imbarazzante e ridicolo, col senno di poi. «Io mi auguro che le autorità tedesche riescano quanto prima a fare chiarezza e le persone che si sono permesse questi atti di mancanza di rispetto, anche violenti – ha concluso – ne rispondano davanti alla giustizia». Mai, però, ha pronunciato la parola “immigrati”: come se quel termine, associato a una qualsiasi forma di violenza, fosse da nascondere, da occultare.

Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia. La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza? Scrive Claudia Sarritzu giovedì 7 gennaio 2016 su “Globalist”. Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l'accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne. La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate. Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride. Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell'integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno "pro-immigrazione". L'immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna. In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l'equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l'ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina. Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.

Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte di Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei diritti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.

Sul corpo delle donne no pasaran, scrive Lucia Annunziata su L'Huffington Post. Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro. Sull'Europa che si è riunita per affrontare la caotica situazione della immigrazione, le ripetute sospensioni di Schengen, pesa l'emozione di quanto è accaduto nella notte di Capodanno a Colonia: l'aggressione sessuale inflitta da "un migliaio di giovani arabi e nordafricani" a tutte le donne che hanno incontrato sul loro cammino. Una violenza le cui modalità rivelano un episodio ben più grave della notte di follia, della frustrazione estrema ed ormonale di maschi frustrati. Quel migliaio di giovani erano preparati, il loro assalto è stato organizzato ed eseguito come una operazione semi-militare. Assalto per altro ripetuto in altre due città. Erano tanti, usavano il numero come arma di annientamento, e l'accerchiamento come trappola: le donne prese in mezzo, inclusa una donna poliziotto, sono state toccate e passate dall'uno all'altro, senza nessuna cura di proteste e reazioni. "Urlavamo, picchiavamo con quello che potevamo, ma inutilmente" raccontano le testimonianze (incluse quelle di uomini che hanno cercato di intervenire). Una madre e la figlia quindicenne sono state bloccate e "palpate ripetutamente al seno e in mezzo alle gambe". Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania. La notte che ha inaugurato il 2016 nel paese che ha generosamente aperto le porte al maggior numero, circa un milione, di profughi dal Medioriente e da altre zone di guerra, è stata macchiata da quello che possiamo definire il primo episodio di scontro di civiltà, la prima sfida consapevole dei nuovi arrivati al nostro mondo. Un annuncio gravido di molte cose a venire. Tanto più grave perché qui non si tratta di Isis, qui non siamo di fronte a nessuna motivazione religiosa: anzi i giovani immigrati arrivati a migliaia di migliaia in Europa in questi mesi e generosamente accolti in Germania sono tecnicamente in fuga dalla guerra. Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo. Tutto questo lo sappiamo, ci conviviamo da anni, è stato al centro di tante nostre analisi e battaglie civili a favore delle donne in tanti e altri paesi. Ma negli ultimi venti anni, proprio sotto la spinta di guerre e rotture interne al mondo islamico, il rapporto fra Islam e donne si è metamorfizzato in una agenda culturale e politica di dominio, usata come arma, o anche solo espressione di potere, in una vastissima area sociale, la cui linea di rottura passa dentro lo stesso mondo mussulmano. Quel che voglio dire è che tutti ricordiamo gli stupri e le violenze in Iraq durante la conquista da parte dell'Isis, e i rapimenti di Boko Haram, la schiavitù sessuale imposta alle donne cristiane, yazide. Ma val la pena qui di cominciare a ricordare anche che il maggior numero di violenze viene usato nei confronti delle stesse donne musulmane. Vogliamo ricordare le condizioni in cui progressivamente stanno scivolando all'indietro tutte le società musulmane. Ricordiamo qui, ad esempio, il trattamento subito da centinaia di donne egiziane al Cairo durante la "primavera araba", come punizione per una partecipazione, o anche solo come occasione da non perdere. Ma andrebbe ora prestata più attenzione al fatto che questo modo di rapportarsi dell'Islam alle donne proprio perché deriva dalla politica non si ferma alle frontiere. Ci sono storie che solo le organizzazioni dei diritti umani seguono: nei campi profughi europei ci sono casi di violenze, e stupri. Queste violenze sono per altro la ragione per cui i cristiani quasi mai si sono uniti alle grandi migrazioni collettive di questi ultimi mesi. Ma è anche tempo di mettere in questo elenco l'aggressività, la mancanza di rispetto, che denunciano molte donne giovani ed anziane nei quartieri delle varie città europee, incluse quelle di molte città italiane: ricordate Tor Sapienza, la disperazione e la rabbia delle donne che raccontavano (inutilmente) le offese che subivano dai gruppi di giovani immigrati illegali parcheggiati in tutte le case di accoglienza? Tutto questo non è destinato a finire. L'attuale immigrazione non è un flusso ordinato. È il frutto di eventi traumatici, multipli e contemporanei, di guerre che hanno un'espansione globale e di lungo periodo. Non sarà aggiustabile secondo la logica di un progressivo assorbimento. La gestione di questa immigrazione è già da oggi uno dei maggiori problemi economici e sociali in Europa, il motore di uno sconvolgimento politico il cui impatto è già visibile. La sospensione di Schengen da parte di due degli stati da sempre più disponibili, la Danimarca e la Svezia, segnala che davvero si sta raggiungendo un livello di guardia. E indica anche come su questo tema la socialdemocrazia (e la sinistra) sia da tempo in difficoltà a mantenere una posizione "aperturista" a tutti i costi. Le formule con cui abbiamo fin qui vissuto si rivelano inefficaci di fronte alle nuove dimensioni. Ma dentro il problema di tutti con l'integrazione, c'è un problema specifico per noi donne, come stiamo vedendo. E credo tocchi anche a noi trovare una voce in merito. La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche. Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose. È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro. Integrare e integrarsi con le tante diversità è la più dinamica opzione della nostra società per crescere. L'accoglienza è un valore supremo. Ma senza definizioni, senza regole e senza domande è possibile che diventi la semplice riproduzione al nostro interno delle disperate periferie del mondo, la ricreazione di permanenti masse di profughi, senza che noi sappiamo cosa far né di loro né di noi stessi.

Colonia e l’attentato di massa: quanto è ancora depredabile il corpo femminile? Scrive Andrea Pomella il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano. Nella notte di Capodanno, mille uomini – la maggior parte dei quali giovani e stranieri – si sono radunati nei pressi della stazione ferroviaria di Colonia e hanno dato il via a un feroce attacco di massa. Un centinaio di donne sono state sessualmente molestate, aggredite e derubate, vittime di una strategia tanto coordinata da costituire, secondo il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, una forma di crimine “di una dimensione completamente nuova”. Sui giornali italiani tuttavia la notizia ha assunto una certa rilevanza solo a partire dalla mattina del 6 gennaio. I primi cinque giorni dell’anno li abbiamo passati a discutere di una bestemmia passata in sovrimpressione sulla Rai e dei sette (poi diventati ventidue) milioni di euro incassati dal nuovo film di Checco Zalone. C’è da farsi qualche domanda. Perché la notizia di mille uomini che in una sola notte aggrediscono cento donne in un luogo ristretto di una città che sorge nel cuore funzionale dell’Europa non suscita clamore né choc collettivo? Perché un evento di questa portata non riceve lo status giornalistico di “attentato di massa”? E perché la notizia non sfonda sui social network, ossia perché non fruisce neppure di quella spinta dal basso che nella contemporaneità spesso dà voce a fatti omessi dai media tradizionali? Faccio due considerazioni.

La prima: due mesi fa, a seguito degli attentati di Parigi, in mezzo al diluvio di notizie laterali, approfondimenti che approfondivano dettagli insignificanti (SkyTg24 il 15 novembre mandò in onda per tre ore, quasi ininterrottamente, un filmato che mostrava il panico a Place de la Republique, anche una volta appurato che si era trattato di un falso allarme), opinionismi più o meno autorevoli, più o meno centrati, ho impiegato tre giorni a capire – per dire – la dinamica dei fatti allo Stade de France. In pratica, la ricostruzione dei fatti non catturava l’interesse, non dico dello spettatore, ma degli stessi giornalisti che erano chiamati a farne una ricostruzione. Per chi appartiene a un pubblico d’antan e chiede semplicemente di essere informato, la vendita sentimentale delle informazioni sta diventando un problema. Così, in assenza di una ricostruzione emotiva, cento donne molestate in una notte non scaldano il pubblico dei lettori, e quindi non fondano una notizia degna di primo piano. La gravità di un fatto non è più data dal fatto in sé, ma da ciò che suscita.

La seconda: viviamo in un’era in cui è ancora radicato, anche a livello inconscio, lo stereotipo patriarcale secondo cui la molestia sessuale è il semplice risultato della natura umana. Se in uno strato più o meno profondo di coscienza collettiva l’idea del dominio maschile sulla donna non fosse ancora così consolidata, l’assalto di Colonia monopolizzerebbe l’attenzione dei lettori e quindi imporrebbe ai direttori di giornale, agli elzeviristi e ai divulgatori culturali di trattare la notizia con la rilevanza che merita. Il disinteresse generale, lo sbadiglio, la freddezza rappresentano invece l’agghiacciante risultato di un involontario test sulla coscienza popolare del cittadino europeo del Ventunesimo secolo posto di fronte al tema del corpo femminile, e alla provocatoria questione di quanto esso sia “ancora depredabile”. Credo che, anche per questo primo ventennio di secolo, ci stiamo assicurando una discreta riserva di mostruosità.

Zanardo: «No al silenzio sulle violenze di Colonia». La scrittrice e autrice de Il corpo delle donne sulle aggressioni nella città tedesca: «Pericoloso che le mie compagne siano intimorite nel prendere posizione dalla strumentalizzazione delle destre xenofobe», scrive Antonietta Demurtas il 07 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. Hanno attraversato la piazza della stazione centrale di Colonia nella notte di San Silvestro. E per loro è iniziato l'inferno: circondate, molestate sessualmente (uno stupro già accertato), palpeggiate, derubate di soldi e telefonini da circa mille uomini di origine nordafricana, ubriachi. Le vittime sono un centinaio di donne che nella città tedesca volevano solo festeggiare il Capodanno e che sono rimaste vittime di un attacco che ora le indagini iniziano a definire «premeditato» e messo in atto da «un'organizzazione proveniente dalla vicina Düsseldorf». Il ministro della giustizia Heiko Maas ha parlato di una «dimensione completamente nuova per la criminalità organizzata». C'è chi si è concentrato nel sottolineare che l’obiettivo delle aggressioni fosse il furto, e che le violenze sessuali fossero «solo un diversivo». Resta il fatto che le donne molestate e violentate a Colonia non hanno sinora ricevuto la solidarietà che in altri casi è stata manifestata alle vittime di violenza. Si è scritto: succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul, si è cercato di mantenere un basso profilo sull'accaduto per non alimentare razzismo, intolleranza e violenza nei confronti dei migranti, proprio in un momento in cui la politica dell'accoglienza si sta rivelando il più grande fallimento dell'Ue, incapace di gestire flussi migratori e spinte discriminatorie. Con il risultato che però, alla fine, «per l'ennesima volta le donne vengono strumentalizzate, comunque vada, ci violentino o meno», dice a Lettera43.itLorella Zanardo, scrittrice e autrice del documentario Il corpo delle donne, che da anni si batte contro la mercificazione della dignità femminile. «Una reazione che definirei miserabile», dice riferendosi al modo in cui sono stati racconti i fatti di Colonia, in alcuni casi silenziati dall'opinione pubblica politically correct e dall'altra esacerbati a soli fini xenofobi. E «per rendersene conto, basta vedere come si sta raccontando nel nostro Paese».

DOMANDA. Forse po' troppo a voce bassa?

RISPOSTA. Come viene gestita la questione in Italia è vergognoso. Se diciamo: siamo donne libere e così vogliamo restare, improvvisamente leggo sul web una serie di voci critiche secondo le quali se non vogliamo dare manforte alla destra razzista e xenofoba, dobbiamo in un qualche modo stare zitte. Lo trovo un consiglio mostruoso, miserabile.

D. Che cosa si dovrebbe fare: urlare e scendere in piazza?

R. Non è una questione di femminismo, credo che un certo modo di interpretare i diritti in Italia sia superato. Indignarsi è però un diritto e un dovere, e questo non vuol dire essere xenofobi: io sono assolutamente dalla parte dei profughi, sono per l'apertura delle frontiere, voglio un'Europa accogliente.

D. Ma?

R. Ciò non toglie che davanti ai crimini di Colonia, fossero essi stati compiuti da svedesi, cinesi o marocchini, la mia condanna è comunque fortissima. Io sto dalla parte delle donne. Questa è la prima cosa.

D. Non per tutte è così, c'è chi preferisce tenere un profilo più basso per paura di essere tacciata di razzismo.

R. In questo momento trovo molto pericoloso che le mie amiche e compagne siano un po' intimorite nel prendere posizione per la paura della strumentalizzazione delle destre xenofobe. Se noi non ci facciamo sentire questo nostro silenzio può essere penalizzante non solo verso le donne ma verso i profughi stessi.

D. Che cosa si aspettava?

R. Che dicessimo tutte forte e chiaro: noi donne condanniamo assolutamente gli episodi di Colonia, e condanniamo quanto detto dalla sindaca di Colonia.

D. Henriette Reker si è spinta a dettare un 'codice' di comportamento alle donne, invitandole a tenere «a un braccio di distanza» gli sconosciuti.

R. Io sono solidale con Reker, è stata persino accoltellata proprio a causa delle sue posizioni favorevoli all'immigrazione. La sua può essere stata una uscita mal meditata, detta in un momento di tensione ma comunque pericolosa.

D. Il suo decalogo è suonato come un'inversione della colpa a carico delle donne.

R. Per questo sono preoccupatissima: noi donne abbiamo lottato secoli, rischiando anche la vita, per essere libere di autodeterminare i nostri corpi, di metterci una minigonna, di uscire a mezzanotte, per quanto, purtroppo, sappiamo bene quanto questo nel nostro Paese non sia poi così facile.

D. Ora invece il consiglio è tenere gli uomini a distanza, diffidare, temere.

R. Sì purtroppo, e se non ci alziamo tutte insieme ora per dire: al nostro territorio di libertà non rinunceremo, la situazione diventerà ancora più pericolosa. Ma dobbiamo essere abili a non farci strumentalizzare: fuori la destra da questo dibattito, da chi ci vuole dare ragione solo per fini politici.

D. Al posto del decalogo che cosa avrebbe preferito sentire?

R. Tenere gli uomini a «un braccio di distanza» è quello che mi diceva mia nonna 50 anni fa. Dobbiamo fare più attenzione alle parole, al mondo che stiamo preparando per le nostre figlie.

D. Che cosa propone?

R. La politica giusta è apertura totale e allo stesso tempo condanna verso chi non ci rispetta. Se il criminale è marocchino, siriano, turco o svedese non ci deve interessare. Non prendere posizione ora sarebbe davvero come dire che siamo un po' delle imbranate, donne impotenti.

D. In che senso?

R. Dato che non ci vogliamo far strumentalizzare, tacciamo, minimizziamo? No, dobbiamo essere fortemente dalla parte delle donne di Colonia, che questo non avvenga mai più.

D. Insomma, essere politically correct non porta a niente?

R. No, inoltre che le violenze accadono tutti i giorni non rende meno grave l'accaduto. Il fatto è che sul corpo delle donne si sono fatte le guerre, anche molto recenti se pensiamo a quanto accaduto nella ex Jugoslavia. Per questo dobbiamo difendere il nostro territorio conquistato faticosamente.

D. Sta facendo discutere un articolo del quotidiano tedesco Die Tageszeitung e riportato da Internazionale, dove si legge che: «In tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, le donne devono affrontare una triste realtà...; che per certi maschi tedeschi, il carnevale o l’Oktoberfest non sono divertenti senza qualche palpatina; che succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul». Un modo per riportare l'attenzione al fenomeno generale della violenza e minimizzare l'accaduto?

R. Spero di no, anche perché se già queste cose succedono all'Oktoberfest o in altre manifestazioni, è gravissimo, non è che perché già accaduto è meno grave. Così come sarebbe grave se si scoprisse che i fatti di Colonia sono stati resi pubblici solo 5 giorni dopo solo per non strumentalizzarlo.

D. Così a essere strumentalizzate e dimenticate sono ancora una volta le donne.

R. E non solo a Colonia. In questi giorni arrivano appelli di nuove formazioni che stanno per nascere in Italia, partiti, partitini, associazioni, tra i nomi dei futuri leader papabili non c'è una donna. E in questi momenti si spiega perché.

D. Perché?

R. Noi donne non abbiamo coraggio. Arrivano uomini di ultima categoria che senza vergogna si propongono come sindaci, amministratori, ministri, ma non c'è una italiana che faccia lo stesso. Questo dimostra la nostra incapacità di essere concentrate sui nostri interessi di donne e su chi verrà dopo di noi, e il terrore di scontentare qualche formazione di sinistra racconta questa nostra incapacità. C'è un silenzio preoccupante.

D. Silenzio che si rompe per difendere le donne solo per ribadire che «non c'è posto in Europa per chi non rispetta le nostre leggi e la nostra cultura», come ha fatto Giorgia Meloni.

R. Eppure c'è una terza via. Io temo questo popolarismo italiano ignorantissimo che si basa su: o chiudiamo le frontiere o ci violentano. Dobbiamo rifiutare questo modello, basta guardarsi intorno.

D. Dove?

R. In Norvegia, un piccolo Paese di 4 milioni di abitanti che ha avuto un flusso migratorio importante e si è trovato persone che venivano da Stati dove obiettivamente la realtà e il rapporto uomini-donne è molto diverso; così hanno creato un progetto di introduzione al Paese dove gli immigrati vengono formati agli usi e costumi del posto. Una parte è dedicata a come viene vissuto il femminile e il maschile, l'altra alla sessualità nel Nord Europa.

D. Crede che questo sia sufficiente?

R. Io credo alla possibilità che le persone cambino, si trasformino, quindi per chi viene in Europa ci deve essere un percorso di introduzione e integrazione culturale. E c'è un compito anche per noi.

D. Quale?

R. Continuare a essere molto duri e dure nel condannare la violenza contro le donne, altrimenti nessuno ci garantisce che non avverrà ancora. Ma per fare questo non c'è bisogno di conoscere la nazionalità dei violentatori.

D. Anche perché, frontiere aperte o meno, nell’Unione europea una donna su due è stata vittima di violenze fisiche o sessuali e nella maggior parte dei casi sono conoscenti e famigliari a commettere questi reati dentro le mura domestiche...

R. Esatto. Inoltre facendo finta di niente potremmo anche alimentare uno stereotipo al contrario, ovvero: nel timore che la nostra critica venga stigmatizzata dalle destre, quando questi criminali sono immigrati stiamo zitte. Se fossero stati tutti tedeschi ubriachi ci sarebbe stata una sollevazione popolare da parte delle donne europee.

D. Una discriminazione al contrario...

R. Sì, dato che sei africano ti ritengo inferiore e chiudo un occhio. Per questo bisogna fare chiarezza e non farne un fatto di razza o etnia, ma condannare per i fatti in sè che sono gravi indipendentemente da cosa c'è scritto nel passaparto di chi li ha commessi.

Germania, una epidemia di stupri da parte dei migranti, scrive Soeren Kern il 21 settembre 2015. Traduzioni di Angelita La Spada pubblicata su Imola Oggi l’1 ottobre 2015. Dove sono le donne? Dei 411.567 rifugiati/migranti che sono entrati nell’Unione Europea via mare nel 2015, il 72 per cento è costituito da uomini. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai migranti e profughi perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Una 13enne musulmana è stata violentata da un altro richiedente asilo in un centro di accoglienza a Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco sono uomini (…) il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. – L’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk). La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata stuprata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi”. “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. – Un politico bavarese citato da Die Welt. Durante un raid in una struttura di Monaco che ospita rifugiati la polizia ha scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Nel frattempo, gli stupri delle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono sempre più dilaganti. Sempre più donne e ragazze ospiti dei centri di accoglienza per profughi, in Germania, vengono stuprate, molestate sessualmente e costrette alla prostituzione dagli uomini richiedenti asili, secondo quanto asserito dalle organizzazioni di assistenza sociale tedesche. Molti degli stupri avvengono nelle strutture che ospitano uomini e donne dove, a causa della mancanza di spazio, le autorità tedesche costringono i migranti di entrambi i sessi a condividere i dormitori e i servizi igienici. Le condizioni per le donne e le ragazze presenti in queste strutture sono talmente pericolose che le donne vengono definite “selvaggina”, occupate a respingere gli assalti dei predatori maschi musulmani. Ma gli assistenti sociali affermano che molte vittime tacciono, per paura di rappresaglie. Allo stesso tempo, un numero crescente di donne tedesche di tutta la Germania viene violentato dai richiedenti asilo provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Molti di questi crimini sono minimizzati dalle autorità e dai media tedeschi, a quanto pare per evitare di alimentare sentimenti contrari all’immigrazione. Il 18 agosto, una coalizione composta da quattro organizzazioni di assistenza sociale e di gruppi per i diritti delle donne ha inviato una lettera di due pagine ai leader dei partiti politici del parlamento regionale dell’Assia, uno stato federato della Germania centro-occidentale, informandoli di come la situazione delle donne e dei minori sia peggiorata all’interno dei centri di accoglienza. La lettera diceva: “L’afflusso sempre più crescente dei rifugiati ha complicato la situazione per le donne e le ragazze ospiti nel centro di Giessen (HEAE) e nelle strutture succursali. “Il fatto di fornire alloggio in grandi tende, la mancanza di servizi igienici separati maschili e femminili, di locali in cui non ci si può chiudere a chiave, la mancanza di rifugi sicuri per le donne e le ragazze – tanto per citare solo alcuni fattori spaziali – aumenta la vulnerabilità delle donne e dei minori dentro queste strutture. Questa situazione gioca a favore di quegli uomini che assegnano alle donne un ruolo subordinato e trattano le donne che viaggiano sole come se fossero selvaggina. “Di conseguenza, si verificano numerosi stupri e molestie sessuali. Stiamo ricevendo sempre più segnalazioni di casi di prostituzione coatta. Va sottolineato che questi non sono episodi isolati. “Le donne e le ragazzine raccontano di essere state violentate o molestate sessualmente. Pertanto, molte donne dormono vestite. E raccontano anche di non usare i servizi igienici di notte, per paura di essere stuprate o derubate. Anche di giorno, attraversare l’accampamento è una situazione terribile per molte donne. “Molte donne – oltre a fuggire dalla guerra – scappano per evitare i matrimoni forzati o le mutilazioni genitali. Queste donne che affrontano rischi particolari, scappano da sole o con i loro figli. Anche se sono accompagnate da parenti maschi o da conoscenti, questo non sempre garantisce loro una protezione dalla violenza, perché ciò può portare a specifiche dipendenze e allo sfruttamento sessuale. “La maggior parte dei profughi di sesso femminile ha vissuto una serie di esperienze traumatizzanti nel loro paese di origine e durante la fuga. Esse sono vittime di violenze, rapimenti, torture, stupri ed estorsioni – a volte per anni. “Essere arrivate qui sane e salve e poter muoversi senza paura, è un dono per molte donne. (…) Vi invitiamo pertanto (…) a unirvi al nostro appello per creare urgentemente delle strutture protette (abitazioni o appartamenti muniti di serrature) per donne e minori che viaggiano da sole…“Queste strutture devono essere attrezzate in modo tale che gli uomini non vi abbiano accesso, ad eccezione degli operatori del soccorso e del personale addetto alla sicurezza. Inoltre, le camere da letto, i salotti, e cucine e i servizi igienici devono essere interconnessi in modo da formare un’unità completamente autonoma e che può essere raggiunta solo attraverso un accesso dotato di serratura e monitorato”. Dopo che diversi blog hanno richiamato l’attenzione sulla lettera il LandesFrauenRat (LFR) Hessen, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle donne, ha reso pubblico il documento politicamente scorretto sul proprio sito web, per poi rimuoverlo all’improvviso il 14 settembre, senza spiegarne il motivo. In Germania, il problema degli stupri e delle molestie sessuali nei centri di accoglienza dei profughi è un problema a livello nazionale. In Baviera, le donne e le ragazze ospiti della struttura di Bayernkaserne, una ex base militare a Monaco, ogni giorno rischiano di essere stuprate e indotte alla prostituzione coatta, secondo i gruppi per i diritti delle donne. Sebbene la struttura disponga di dormitori femminili, le stanze sono prive di serrature e gli uomini controllano l’accesso ai servizi igienici. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco è costituito da uomini, secondo l’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk), che ha riportatola notizia che il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. Un assistente sociale ha definito così la struttura: “Noi siamo il più grande bordello di Monaco”. La polizia continua a dire di non essere in possesso di alcuna prova che nel centro si commettono stupri, anche se in un raid è stato scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Il 28 agosto, un 22enne eritreo richiedente asilo é stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di una donna curda irachena di 30 anni in un centro di accoglienza della città bavarese di Höchstädt. Il giovane ha avuto una riduzione della pena grazie agli sforzi dell’avvocato della difesa, che ha convinto il giudice del fatto che la situazione dell’imputato nella struttura era disperata: “Da un anno, egli se ne sta con le mani in mano senza pensare a niente”. Il 26 agosto, un 34enne richiedente asilo ha tentato di stuprare una donna di 34 anni nella lavanderia situata in un centro di accoglienza a Stralsund, una città nei pressi del Mar Baltico. Il 6 agosto, la polizia ha rivelato che una 13enne musulmana era stata violentata da un altro richiedente asilo in una struttura di Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale; e a quanto pare, lo stupratore era un loro connazionale. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai profughi e migranti perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Il capo della polizia Bernd Flake ha ribattuto dicendo che il silenzio era finalizzato a tutelare la vittima. “Noi continueremo con questa politica [di non informare l'opinione pubblica], quando i reati sono commessi nelle strutture temporanee per profughi”, egli ha detto. Durante il fine settimane del 12-14 giugno, una ragazza di 15 anni ospite di un centro di accoglienza di Habenhausen, un quartiere della città settentrionale di Brema, è stata ripetutamente violentata da altri due richiedenti asilo. La struttura è stata descritta come una “casa degli orrori” a causa della spirale di violenza perpetrata da bande rivali di giovani provenienti dall’Africa e dal Kosovo. Il centro, che ospita complessivamente 247 richiedenti asilo, ha una capacità di accogliere 180 persone, e una caffetteria con 53 posti a sedere. Nel frattempo, gli stupri sulle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono dilaganti. Qui di seguito alcuni casi di stupro commessi solo nel 2015. L’11 settembre, una 16enne è stata violentata da uno sconosciuto “uomo dalla pelle scura che parlava un tedesco stentato” nei pressi di un centro di accoglienza della città bavarese di Mering. L’aggressione è avvenuta mentre la ragazza si stava recando dalla struttura alla stazione ferroviaria. Il 13 agosto, la polizia ha arrestato due richiedenti asilo, di 23 e 19 anni, per aver stuprato una 18enne tedesca dietro una scuola di Hamm, una città del Nord Reno-Westfalia. Il 26 luglio, un ragazzino di 14 anni è stato molestato sessualmente nel bagno di un treno regionale, a Heilbronn, una città situata nella parte sudoccidentale della Germania. La polizia sta cercando un uomo “dalla pelle scura” tra i 30 e i 40 anni e “dall’aspetto arabo”. Lo stesso giorno, un 21enne tunisino richiedente asilo ha stuprato una ragazza di 20 anni, nel quartiere di Dornwaldsiedlung a Karlsruhe. La polizia ha taciuto sul crimine fino al 14 agosto, quando un giornale locale ha reso pubblica la notizia. Il 9 giugno, due somali richiedenti asilo, di 20 e 18 anni, sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere per aver violentato una 21enne tedesca a Bad Kreuznach, una città della Renania-Palatinato, il 13 dicembre 2014. Il 5 giugno, un somalo di 30 anni richiedente asilo chiamato “Ali S” è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 20enne di Monaco. Ali aveva già scontato una condanna a sette anni per violenza sessuale, e cinque mesi dopo il suo rilascio aveva colpito ancora. Nel tentativo di proteggere l’identità di Ali S., un quotidiano di Monaco ha fatto riferimento a lui chiamandolo con il nome più politicamente corretto di “Joseph T.”. Il 22 maggio, un marocchino di 30 anni è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 55enne a Dresda. Il 20 maggio, un 25enne senegalese richiedente asilo è stato arrestato dopo una tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza tedesca di 20 anni, nella piazza Stachus, nel cuore di Monaco. Il 16 aprile, un iracheno di 21 anni richiedente asilo è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per aver stuprato una 17enne al festival della città bavarese di Straubing, nell’agosto 2014. Il 7 aprile, un 29enne richiedente asilo è stato arrestato per la tentata violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni, nella città di Alzenau. Il 17 marzo, due afgani richiedenti asilo, di 19 e 20 anni, sono stati condannati a cinque anni di carcere per lo stupro “particolarmente aberrante” di una 21enne tedesca aKirchheim, una città nei pressi di Stoccarda, il 17 agosto 2014. L’11 febbraio, un eritreo di 28 anni richiedente asilo è stato condannato a quattro anni di carcere per aver violentato una 25enne tedesca a Stralsund, sul Mar Baltico, nell’ottobre 2014. L’1 febbraio, un somalo di 27 anni richiedente asilo è stato arrestato per aver tentato di stuprare una donna nella città bavarese di Reisbach. Il 16 gennaio, un immigrato marocchino di 24 anni ha violentato una 29enne a Dresda. Decine e decine di altri casi di stupro e tentata violenza sessuale – casi in cui la polizia sta cercando specificatamente stupratori stranieri (la polizia tedesca spesso li chiama Südländer ossia “meridionali”) – restano irrisolti. Qui di seguito è riportata una lista parziale di episodi commessi nell’agosto 2015. Il 23 agosto, un uomo “dalla pelle scura” ha tentato di violentare una donna di 35 anni a Dortmund. Il 17 agosto, tre uomini “meridionali” hanno cercato di stuprare una 42enne a Ansbach. Il 16 agosto, un uomo “meridionale” ha violentato una donna a Hanau. Il 12 agosto, un uomo “meridionale” ha stuprato una 17enne a Hannover. Lo stesso giorno, un altro uomo “meridionale” ha mostrato i genitali a una donna di 31 anni a Kassel. La polizia ha detto che un episodio simile si era verificato nella stessa zona l’11 agosto. Il 10 agosto, cinque uomini “di origine turca” hanno tentato di violentare una ragazza a Mönchengladbach. Lo stesso giorno, un uomo “meridionale” ha stuprato una 15enne a Rintein. L’8 agosto, un altro uomo “meridionale” ha violentato una 20enne a Siegen. Il 3 agosto, un “nordafricano” ha stuprato una bambina di 7 anni, in pieno giorno, in un parco di Chemnitz, una città della Germania orientale. L’1 agosto, un uomo “meridionale” ha tentato di violentare una 27enne nel centro di Stoccarda. Intanto, i genitori sono stati avvertiti di tenere d’occhio le loro figlie. La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata violentata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. La polizia ha inoltre consigliato alle donne di non recarsi da sole alla stazione ferroviaria essendo quest’ultima nelle vicinanze di un centro di accoglienza per rifugiati. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi” con i 200 profughi musulmani ospitati in alloggi di emergenza in un edificio vicino alla scuola. La lettera diceva: “I cittadini siriani sono per lo più musulmani e parlano arabo. I profughi hanno la loro cultura. Poiché la nostra scuola si trova proprio accanto la struttura in cui essi risiedono, le vostre figlie dovrebbero indossare abiti modesti per evitare malintesi. Camicette e top scollati, pantaloncini corti o minigonne potrebbero creare malintesi. Un politico locale citato dal quotidiano Die Welt ha detto: “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. L’aumento dei reati sessuali in Germania è alimentato dalla preponderanza di uomini musulmani nel mix di profughi/migranti che entrano nel paese. Una cifra record di 104.460 richiedenti asilo è arrivata in Germania ad agosto, facendo salire, nei primi otto mesi del 2015, il numero complessivo a 413.535. Il paese prevede di accogliere quest’anno 800.000 arrivi tra profughi e migranti, una cifra che si è quadruplicata rispetto al 2014. Almeno l’80 per cento dei migranti e profughi arrivati è musulmano, secondo una recente stima fornita dal Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zentralrat der Muslime in Deutschland, ZMD), un gruppo musulmano di copertura, con sede a Colonia. Anche i richiedenti asilo sono prevalentemente di sesso maschile. Dei 411.567 migranti e rifugiati che finora quest’anno sono entrati nell’Unione Europa via mare, il 72 per cento è costituito da uomini, il 13 per cento da donne e il 15 per cento da bambini, secondo i calcoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le informazioni sull’identità sessuale di chi arriva via terra non sono disponibili. Secondo le statistiche tedesche sulla migrazione, dei richiedenti asilo arrivati in Germania nel 2014, il 71,5 per cento di quelli di età compresa tra i 16 e i 18 anni era costituito da uomini; lo stesso dicasi per il 77,5 per cento di coloro che avevano tra i 18 e i 25 anni, così come per il 73,5 per cento di chi aveva tra i 25 e i 30 anni. I dati per il 2015 non sono ancora disponibili.

Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale? Scrive "gotquestions.org". Domanda: "Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale?" Risposta: La discriminazione sessuale avviene quando un genere sessuale, di solito quello maschile, domina sull’altro genere, di solito quello femminile. La Bibbia contiene molti riferimenti a donne che, visti dalla nostra mentalità moderna, sembrano discriminatori nei confronti delle donne. Dobbiamo tuttavia ricordare che, quando la Bibbia descrive un’azione, non necessariamente la Bibbia sta dicendo che quell’azione sia giusta. La Bibbia descrive uomini che trattano le donne come se fossero mera proprietà, ma ciò non significa che Dio approva quel modo di agire. La Bibbia ha più interesse a riformare le nostre anime e meno a riformare le nostre società. Dio sa che un cuore cambiato produrrà un comportamento cambiato. Ai tempi dell’Antico Testamento, quasi ogni cultura nel mondo aveva una struttura patriarcale. La condizione storica di quei tempi è molto chiara, non solo nella Scrittura ma anche nelle regole che governavano la maggior parte delle società. Quando quelle condizioni sono giudicate dai valori moderni e dal punto di vista del mondo, sono etichettate come sessualmente discriminanti. Dio ha stabilito l’ordine nella società, non l’uomo, e Lui è l’autore dei principi costitutivi di autorità. Tuttavia, come in ogni altra cosa, l’uomo caduto ha corrotto questo ordine. Ciò ha provocato l’ineguaglianza tra la posizione degli uomini e delle donne in tutta la storia. L’esclusione e la discriminazione che troviamo nel nostro mondo non sono una novità. Sono il risultato della caduta dell’uomo e dell’ingresso del peccato nel mondo. Quindi, possiamo giustamente dire che la terminologia e la pratica della discriminazione sessuale sono il risultato del peccato. La rivelazione progressiva della Bibbia ci porta alla cura della discriminazione sessuale e a tutte le pratiche peccaminose della razza umana. Per poter trovare e mantenere un equilibrio spirituale tra le posizioni di autorità volute da Dio, dobbiamo guardare alla Scrittura. Il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico e in esso troviamo in principi che ci indicano la giusta linea di autorità e la cura del peccato, che è il male dell’umanità, e che include la discriminazione sessuale. La croce di Cristo è il grande fattore equalizzante. Giovanni 3:16 dice “Chiunque crede” e questa affermazione inclusiva non lascia fuori nessuno a causa di posizioni sociali, capacità mentali o genere sessuale. Anche in Galati troviamo un brano che parla delle pari opportunità riguardanti la salvezza: “Perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:26-28). Non c’è discriminazione sessuale alla croce. La Bibbia non fa discriminazioni sessuali nella sua attenta presentazione dei risultati del peccato sia negli uomini che nelle donne. La Bibbia parla di ogni tipo di peccato: tanto la schiavitù e i legami quanto i fallimenti dei suoi più grandi eroi. Eppure ci dà anche la risposta e il rimedio per quei peccati contro Dio e contro il Suo ordine stabilito – un giusto rapporto con Dio. L’Antico Testamento anticipava il supremo sacrifico, e ogni volta che veniva fatto un sacrificio per il peccato, esso insegnava quanto fosse importante la riconciliazione con Dio. Nel Nuovo Testamento, “l’Agnello che toglie i peccati del mondo” nasce, muore, viene sepolto e risuscita e poi ascende al Suo posto in cielo da dove intercede per noi. Credendo in Lui si trova la cura per tutto il peccato, incluso quello della discriminazione sessuale. L’accusa che nella Bibbia c’è la discriminazione sessuale si fonda su una conoscenza superficiale della Scrittura. Quando uomini e donne da ogni epoca hanno rispettato i loro ruoli stabiliti da Dio e hanno vissuto in base al “così dice il Signore”, allora c’è stato un meraviglioso equilibrio tra i generi sessuali. Quell’equilibrio corrisponde a come Dio aveva stabilito le cose nel principio e a come Egli le stabilirà alla fine. C’è troppa attenzione dedicata ai vari prodotti del peccato e troppa poca attenzione alle sue radici. Solo quando c’è una riconciliazione personale con Dio attraverso Gesù Cristo troviamo vera uguaglianza. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32). E’ anche molto importante comprendere che, sebbene la Bibbia attribuisca ruoli diversi a uomini e a donne, ciò non equivale ad una discriminazione sessuale. La Bibbia rende molto chiaro che Dio si aspetta che siano gli uomini a condurre la chiesa e la casa. Ma ciò non rende inferiori le donne? Assolutamente no! Significa che le donne sono meno intelligenti, meno capaci o che sono considerate inferiori agli occhi di Dio? Assolutamente no! Significa è che, nel nostro mondo contaminato dal peccato, ci deve essere una struttura e delle autorità. Dio ha stabilito i ruoli di autorità per il nostro bene. La discriminazione sessuale è l’abuso di questi ruoli, non l’esistenza di questi ruoli.

L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]

1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,

2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.

3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.

4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.

5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.

6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.

7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.

Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262

Accoglienza e legalità. Serracchiani ha detto una pura verità: il tradimento dell’ospite ci ferisce di più, scrive Mario Ajello il 13 maggio 2017 su "Il Messaggero". Dante, che era il più saggio di tutti e naturalmente immune dalla demagogia savianea e dall’ipocrisia del politicamente corretto, avrebbe dato ragione a Deborah Serracchiani. L’Alighieri inserisce i traditori degli ospiti nel canto nono dell’Inferno e considera la loro colpa particolarmente grave. Anche gli americani, negli anni delle nostre grandi ondate di emigrazione, giudicavano i reati e le delinquenze, anche mafiose, compiute dagli italiani odiose al massimo grado.

“Dante parla dei traditori degli ospiti, non dei tradimenti degli ospiti”. Alla malafede o all’ignoranza non c’è mai fine. Nei miei testi e nei miei video mi astengo sempre dall’esprimere mie opinioni, potendo esser tacciato di mitomania, pazzia o ignoranza. Cito sempre le opinioni degli altri, ritenute meritevoli. Non mi astengo, però, se sollecitato, a far comprendere i concetti enucleati a chi non ha percepito il senso dei contenuti. Nello specifico il concetto non è il tradimento della fiducia nei confronti di parenti, amici, ecc.  Il concetto di Mario Ajello è l’ingratitudine e l’irriconoscenza verso i benefattori. Spiego meglio.

Dante e le figure retoriche.

L’allegoria (dal greco allon "altro" e agoreuo "dico" = "dire diversamente"), è la figura retorica (di contenuto) mediante la quale un concetto astratto viene espresso attraverso un’immagine concreta. È stata definita anche "metafora continuata". Tra le allegorie tradizionali è celeberrima quella della nave che attraversa un mare in tempesta, fra venti e scogli ecc.: rappresenta il destino umano, i pericoli, i contrasti ecc., mentre il porto è la salvezza. Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione. Esempi: Nella Divina Commedia, Dante racconta un viaggio immaginario nel mondo dell’aldilà, che significa allegoricamente l'itinerario di un’anima verso la salvezza cristiana. Tutto il poema è infatti visto come un’allegoria.

La metafora. - Figura retorica consistente nell'usare in luogo del vocabolo proprio un vocabolo diverso attinto ad altro campo semantico. Il trasferimento del vocabolo da un campo a un altro campo semantico (di qui il termine latino di translatio che designa tale figura, e il termine consueto di traslato) non deve tuttavia essere imposto dall'esigenza di designare un oggetto o un concetto mancanti di denominazione propria, altrimenti si verifica quella necessaria metafora chiamata abusio o catacresi. La metafora assume in Dante, fra le figure retoriche, un posto privilegiato, sia per essere enormemente profusa, sia per il fatto di costituire uno dei punti di forza del suo stile realistico e immaginoso insieme e il segno più evidente del suo modo di concepire tutto il reale intrinsecamente connesso da un'infinita serie di corrispondenze e di analogie.

XXXI Canto. Il cerchio nono è interamente occupato da un lago ghiacciato, il Cocito appunto, che scende verso il centro; la crosta di ghiaccio è cosi spessa e dura che neppure il crollo di un monte potrebbe minimamente scalfirla. Il lago è diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca; Dante e Virgilio attraversano in questo canto le prime due. I dannati sono i traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori, ossia i colpevoli di frode esercitata verso chi si fida; sono immersi più o meno profondamente, a seconda della loro colpa, nel lago ghiacciato diviso, appunto, in quattro zone concentriche: la Caina (traditori dei parenti), Antenora (tradito­ri della patria o della parte), Tolomea (traditori degli amici o degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori).

Canto XXXIII. Nel cerchio nono, nella seconda e nella terza zona (la Tolomea), l’unica zona in cui le anime possono cadere prima della morte fisica, sostituite sulla terra, nel corpo che vive ancora, da un demone.

Canto XXXIV. Ci troviamo nel cerchio nono, nella quarta zona, alle sette e mezzo di sera del 9 aprile 1330, sabato santo; nell’emisfero australe corrispondono alle sette e mezzo del mattino del 10 aprile. I traditori dei propri benefattori sono nella quarta zona, detta Giudecca, nome coniato da Dante ma in uso allora, in alcune città italiane, per designare il Ghetto. Battuti da un forte vento, provocato dalle ali di Lucifero, i dannati sono interamente confitti entro il ghiaccio, come pagliuzze attraverso il vetro, distesi o diritti o stravolti. Dante scorge Lucifero (il più grande ingrato e traditore verso Dio Benefattore) che sta in una buca da cui si discende al centro della terra, ed è sospeso nel vuoto: è mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla ed una nera.

Spero di essere stato esauriente ed utile. Ho spiegato che già ai tempi di Dante si condannava l’ingratitudine e l’irriconoscenza nei confronti dei benefattori, riportando i passi. La risposto con ripicca: «la teoria...il concetto...Dante…i gironi...alla fine sono tutte parole e basta. Una violenza è una violenza. I politici sono i politici. Gli stranieri sono gli stranieri. Le donne sono le donne. Gli uomini sono gli uomini. E’ tutta una miseria per creare scompiglio». Io, a differenza di chi è ideologizzato, non divido il mondo in maschi o femmine, immigrati o cittadini, cristiani o mussulmani, ecc. ecc. Gli interlocutori, per me, sono solo persone che meritano rispetto e che sono obbligati al rispetto, a prescindere dal sesso, razza, opinioni politiche o religiose. Quindi la violenza e l’offesa è sempre violenza ed offesa contro la persona. Poi da giurista dico che ci sono le aggravanti. Mi spiace sono un liberale e come tale aborro ogni forma di ideologia vetusta totalitaria e partigiana di divisione e distinzione. Sia di destra che di sinistra.

La Serracchiani e lo stupro: ma che c'entrano destra e sinistra? Le parole del governatore friulano sono state strumentalizzate a fini politici in un cliché che non ha senso di esistere, scrive Marco Ventura il 13 maggio 2017 su Panorama. "È evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra". Bisognerebbe spillarle sulla parete, in tutte le stanze di partito e in tutte le redazioni dei giornali, quelle parole di buon senso ma proprio per questo anarchiche di Giorgio Gaber. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia di sinistra. Il pacchetto di Marlboro è di destra, di contrabbando di sinistra. La minestrina di destra, il minestrone di sinistra. I blue-jeans di sinistra, con la giacca virano a destra. Il culatello è di destra, la mortadella di sinistra. "Destra-sinistra basta!", chiudeva il refrain finale di Gaber. La sua conclusione? Malgrado tutto, le ideologie non sono morte. Ma tra le finte contrapposizioni che Gaber elencava con quella sua ironia controcorrente, ce n’è una che suona più verosimile e attuale delle altre. “Il vecchio moralismo è di sinistra, la mancanza di morale è di destra”.

Specie se a "moralismo" sostituiamo "politicamente corretto". Che ovviamente è di sinistra. Tutte le volte che qualcuno viola il "politicamente corretto", viene subito arruolato nella "destra". È successo questo alla governatrice del Friuli, Debora Serracchiani, rea di avere introdotto l’aggravante morale e politica dello stupro, "più inaccettabile" se a commetterlo è un richiedente asilo. Per essere precisi, la Serracchiani sostiene che quell’atto "sempre odioso e schifoso" che è la violenza contro una donna, risulta però "moralmente e socialmente più inaccettabile quando è ottenuta da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese". E giù valanghe d’accuse, soprattutto dalla sinistra a cui la Serracchiani in teoria appartiene. "Solo parole di buon senso", si difende lei. E spiega come quel gesto sempre ignobile indigni ancora di più in un rifugiato, perché tradisce la fiducia e ospitalità della comunità che lo ha accolto e crea un vulnus anche agli altri richiedenti asilo che da quel comportamento di uno di loro risultano ingiustamente macchiati e penalizzati. In fondo, l’indignazione dell’opinione pubblica europea nel caso delle molestie di massa in Germania con protagonisti molti immigrati aveva lo stesso movente e appariva naturale. Nota bene: l’ospitalità è un dovere tradizionale soprattutto nei paesi dai quali i profughi provengono. Quella violenza è quindi un tradimento anche verso la propria cultura. Lo scandalo della violenza sulle donne si interseca col fattore politico dell’accoglienza dei migranti. E qui sorge il problema. Che è strumentale. L’errore della Serracchiani è stato quello di confondere le due cose, dando un giudizio di merito su un atto, un crimine, che è inaccettabile in modo assoluto e semmai si presta a aggravanti che nascono non da posizioni di debolezza quale potrebbe essere la condizione di rifugiato, ma da posizioni di forza (e quindi abuso) come le violenze di un capufficio o di un capo famiglia. L’errore invece di quelli che a destra come a sinistra sono intervenuti per condannare o arruolare la Serracchiani consiste nello strumentalizzare le sue “parole di buon senso”, inserendole in un cliché destra-sinistra che già Gaber aveva smascherato come “colpa”. Un cliché al quale dire “basta”. Quel cliché è sia di sinistra (Saviano invita la Serracchiani a candidarsi con la Lega), sia di destra (Salvini giustifica il suo “non sentirsi di destra” dicendo che quelle parole lui non le avrebbe mai pronunciate). Morale: è evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra. Destra-sinistra, sinistra-destra… Basta!

Profugo stupratore e la sinistra non sa se difendere lui o la vittima. Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio. L’insulto più carino è stato «sei una sporca razzista». Insomma, i compagni (Saviano in prima linea, non poteva mancare il moralista a gettone in una polemica così ghiotta) hanno stuprato lei, che essendo bianca, etero (immagino) e normotipo (tendente al carino) può essere aggredita senza alcuna remora. Io penso invece che la Serracchiani abbia detto un’ovvietà. Lo stupro è uno dei reati più vigliacchi e infamanti, indipendentemente da chi lo commetta. Ed è devastante e umiliante allo stesso modo per qualsiasi donna lo subisca. Ma sicuramente c’è un’aggravante morale, che lo rende ancora «più inaccettabile», se a compierlo è una persona a cui abbiamo salvato la vita mentre andava alla deriva sul barcone, che abbiamo sfamato, curato e al quale concediamo ospitalità nonostante probabilmente non ne abbia diritto secondo i trattati e le convenzioni internazionali. Da persone così uno si aspetterebbe riconoscenza e rispetto assoluto. Alla violenza e al non rispetto della donna si aggiunge invece l’ingratitudine. Chiedi di entrare in casa mia perché disperato e perseguitato e poi appena mi giro mi violenti la moglie: odioso nell’odioso. La sinistra invece si barcamena tra la donna violentata e l’immigrato: negare l’aggravante morale è già un passo comprensivo nei confronti del reo. E ci spinge a un centimetro dall’ammettere l’attenuante sociale. In fondo bisogna capirli questi profughi: hanno sofferto, sono soli e lontani dalle loro donne. Sembra questa una stupida provocazione, ma invito a riflettere sul fatto che alcuni giudici stanno già applicando «attenuanti culturali» in sentenze che riguardano immigrati, regolari e non. L’altra notte mi hanno svaligiato la casa, nulla in confronto a uno stupro (anche se al danno economico si aggiunge una non lieve violenza psicologica). Mi dicono che potrebbe trattarsi di una banda di immigrati sbandati che ha già colpito in zona. Il che mi rende il torto «ancora più inaccettabile», proprio come dice la Serracchiani. Che spero non faccia ipocrite retromarce. Non Saviano, ma gli italiani tutti la pensano come lei.

Profughi intoccabili, Serracchiani al rogo Mieli la difende: «Su di lei critiche rozze». Anche l'«Unità» attacca la vicesegretaria del Pd e «giustifica» lo stupratore, scrive Tiziana Paolocci, Domenica 14/05/2017, su "Il Giornale". La sinistra sceglie il profugo e ghigliottina un suo esponente. Prosegue il tiro incrociato contro Debora Serracchiani, governatrice del Friuli Venezia Giulia, messa alla gogna dal suo stesso schieramento per aver commentato in modo non politically correct, con tanto di comunicato ufficiale della Regione, il tentato stupro ai danni di una minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno. L'esponente dem ha fatto l'errore di sostenere che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre ma risulta socialmente e moralmente ancora più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese». Ed è stata immediatamente bacchettata da compagni di partito e d'area, che l'hanno invitata al «mea culpa». Dopo Roberto Saviano, oggi è arrivata perfino l'Unità a massacrarla in prima pagina parlando ieri di «orrenda frase». E ancora di «un discrimine che tra l'altro ridicolizza un istituto decisivo come lo status di rifugiato, che non comporta alcun obbligo in più, e semmai certifica e riconosce una vita vissuta con maggiori complicazioni». E, sebbene la frase sia seguita da una puntualizzazione («non è un alibi»), rispunta il solito vizio della sinistra di giustificare chi delinque, se appartiene a una minoranza disagiata. Una reazione, quella dei suoi compagni, che ha spinto anche la governatrice a trovare, di nuovo ieri, una scappatoia per allontanare i riflettori da lei e da una frase ovvia, che rappresenta il pensiero della maggior parte degli italiani. «Quando si parla di accoglienza dobbiamo mettere da parte le ipocrisie: se si vuole essere accolti bisogna rispettare le regole e questo noi dobbiamo chiedere - ha ribadito -. Chi non lo fa deve ovviamente pagarne le conseguenze. Non significa parlare di diversità di colore o provenienza: dico semplicemente che un furto in casa è sempre odioso, ma se lo compie la persona che ho accolto in casa mia il giorno prima, questo mi dà ancora più fastidio». «Le circostanze aggravanti e attenuanti esistono da sempre nel codice penale - afferma il segretario di Scelta civica, Enrico Zanetti - e nel comune sentire. Dire che essere un profugo accolto da un Paese rappresenta una aggravante, nell'istante in cui si commette un odioso crimine contro la persona, significa dire cose di pacifico buon senso». Dalla sua anche Paolo Mieli che parla di «un'Italia rozza e ignorante». «Il fatto che in Italia possa nascere una simile polemica - tuona - è orribile ed era impressionante leggere oggi (ieri, ndr.) alcune dichiarazioni. Ma è possibile che nel nostro Paese ogni occasione sia buona per saltarsi alla gola, per distruggere. Bisogna finirla bisogna voltare pagina e non continuare con questo stile orribile che porterà l'Italia nello sprofondo».

La Serracchiani contro lo stupratore profugo. E i buonisti la linciano. «Violenza più odiosa se commessa da chi chiede ospitalità». La governatrice Pd spacca la sinistra, scrive Anna Maria Greco, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". L'inciampo di Debora Serracchiani sull'aggravante per il profugo violentatore scatena proteste soprattutto in casa sua. Antirazzisti e femministe di sinistra si scagliano contro la presidente del Friuli Venezia Giulia, che fa dei distinguo sugli autori di uno stupro. «La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese», commenta mercoledì il vicesegretario del Pd, dopo il tentativo di stupro a Trieste su una minorenne di un iracheno richiedente asilo. La politica si sveglia in ritardo, prima gli internauti sommergono di critiche la Serracchiani sui social network. Poi su Twitter il guru Roberto Saviano la arruola d'imperio nel Carroccio: «Salvini saluta l'ingresso di Serracchiani nella Lega. Spero la candidi lui: se lo fa ancora il Pd, vuol dire che il Pd è diventato la Lega». Ed ecco il commento autentico del leader leghista: «La bella addormentata nel bosco... Peccato che lei e il suo partito siano complici di una invasione senza precedenti, e abbiano sulla coscienza ogni reato e ogni violenza commessa da questa gentaglia. P.S. A prescindere dalla razza, castrazione chimica e buonanotte, con buona pace di Saviani e Boldrine». La polemica si allarga a dem, ex dem e ultra dem, che insorgono contro la governatrice, già nota per le sue gaffe. «Le parole razziste di Serracchiani sono inaccettabili», per Roberto Fico. «Ragionamenti agghiaccianti. Serracchiani chiarisca e si scusi», aggiunge Elvira Savino di Fi. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala dice che le è «scappata» la frase «sbagliata», ma la polemica è «eccessiva». Lei cerca di ridimensionare la comprensione per «il senso di rigetto» verso colpevoli di «crimini così sordidi» e l'appello a interventi legislativi per l'espulsione dei colpevoli. Precisa in un tweet: «Non esistono stupri di serie A o di serie B. Sono tutti ugualmente atroci. In questo caso all'atrocità si aggiunge la rottura patto di accoglienza». Troppo tardi e troppo poco. Debora su Facebook ci riprova: «Ho solo detto una cosa di buon senso, anche se scomoda», perché vengono «traditi gli altri richiedenti asilo e tutti quelli che si battono per l'accoglienza dei migranti». Chi non se ne rende conto fa «il gioco dei razzisti». Ma la caccia è aperta. Per la dem Patrizia Prestipino la sua è «una dichiarazione uscita male perché lo stupro è stupro, c'è poco da discutere». Francesco Laforgia, di Mdp, vi legge non solo la «deriva di un partito», ma lo «scivolamento di un intero Paese sul piano della civiltà». Lo scivolamento del Pd, per Giulio Marcon di Si, è «verso destra». A Milano, i consiglieri dem si dicono «sconcertati». «Che il presunto colpevole sia italiano o straniero non fa e non deve fare alcuna differenza», sottolinea Maria Cecilia Guerra, di Mdp. Più cruda Celeste Costantino di Si: «Un conto è subire violenza dai nostri uomini, e un conto è subirla da un profugo. Prima gli italiani! Parola di Serracchiani».

Uomini soli verso l’Europa. In Italia 9 su 10 sono di sesso maschile, scrive Sara Gandolfi il 17 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Troppi uomini, soli e arrabbiati, bussano alla porta dell’Europa? La domanda si rincorre da giorni, dopo il caso Colonia. Scemata l’indignazione del momento, ora tocca ai ricercatori analizzare statistiche e precedenti, e i primi risultati sono allarmanti: l’Europa del futuro rischia di essere troppo «maschile» e di soffrire così, inevitabilmente, un brusco aumento del tasso di criminalità. Un pericolo non necessariamente dovuto alla fede dei profughi ma allo squilibrio di genere: il 73% degli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati dall’Economist, sono maschi contro il 66% del 2012. E l’Italia guida la lista, con il 90% di richiedenti asilo uomini.

Le statistiche dei crimini. In generale, l’80-90% dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da giovani uomini adulti. «Non sappiamo ancora abbastanza della situazione demografica attuale per trarre delle conclusioni sui fatti di Colonia», mette le mani avanti Andrea Den Boer, docente di politica e relazioni internazionali alla University of Kent. «Finora non è stata compiuto alcuno studio specifico nelle popolazioni migranti, ma le mie ricerche in India e in Cina (dove la politica del figlio unico ha provocato un netto calo nella nascita di femmine, ndr) confermano che gli squilibri di genere nelle popolazioni più giovani conducono a una maggiore instabilità sociale, tra cui un aumento della criminalità e della violenza, in particolare contro le donne».

La miccia dell’emarginazione. La ricerca di Den Boer ha provato anche che, sul lungo periodo, le società con un alto numero di uomini che rimangono ai margini della società — perché impossibilitati a sposarsi o a ricongiungersi con le famiglie, o perché disoccupati — sono più instabili e soffrono di un crescente numero di crimini, abuso di droga, gang fuorilegge. Il rischio di ripercussioni negative aumenta nelle società in cui il passaggio alla vita di coppia è ritardato — come avviene tra i profughi e i migranti soli in Europa. «I celibi sono più propensi a commettere atti criminali rispetto agli uomini sposati o impegnati sentimentalmente», conferma Den Boer. In più «i giovani uomini soli tendono ad unirsi in gruppo e, inevitabilmente, il comportamento di un gruppo è più antisociale di quello di un individuo solo». Come hanno dimostrato i fatti di Colonia.

L’allarme in Svezia. La Svezia ha accolto tre richiedenti asilo ogni 1000 abitanti tra settembre 2014 e 2015, in percentuale il Paese più «accogliente». Il 17% di questi sono giovanissimi, tra i 14 e i 17 anni (in Germania questa fascia contribuisce per il 6%); un numero che potrebbe alterare in modo permanente gli equilibri di genere nel Paese nordico: attualmente ci sono 106 teenager maschi ogni 100 femmine, se tutte le richieste di asilo saranno accolte la proporzione diventerà 116 a 100.

Gli esempi positivi. La migrazione di massa non è necessariamente un problema, e sono numerosi gli esempi nel passato di Paesi che sono stati in grado di assorbire un alto numero di uomini senza soffrire di instabilità sociale. La Germania, ad esempio, negli anni Settanta accolse oltre 2,6 milioni di lavoratori stranieri, in gran parte uomini: perlopiù si fermarono un paio di anni per poi tornare in patria e contribuirono enormemente alla crescita dell’economia tedesca. «La chiave è far sì che i migranti possano compiere la transizione, diventare partecipanti a pieno titolo della vita sociale ed economica dello Stato in cui vivono — conclude Den Boer —. La maggior parte dei migranti in Europa, invece, sta ancora cercando di ottenere l’asilo politico, o addirittura non rientra neppure nelle statistiche ufficiali dei richiedenti asilo. La Germania ad esempio sostiene di aver accolto un milione di migranti nel 2015, ma finora ha registrato solo circa 400.000 richieste di asilo». In base alle cifre di Eurostat sui richiedenti asilo, l’Italia ha la più alta percentuale di richieste «maschili», rispetto agli altri Stati europei. «Ad ottobre 2015, il 90% delle 82 mila richieste erano di uomini, per la maggior parte giovani tra i 18 e i 34 anni — conferma Den Boer —. Ma l’Italia dovrebbe essere in grado di assorbire i nuovi arrivati e mitigare le conseguenze di questi numeri». Sebbene di più, insomma, gli arrivi nel nostro Paese non dovrebbero alterare gli equilibri di genere come in Svezia, dove il numero di profughi è in percentuale molto più alto rispetto al totale della popolazione.

Sassari, capotreno molestata dal branco di nigeriani. La donna accerchiata da un gruppo di ragazzi a Porto Torres Mare. Aggredita, ora è sotto choc, scrive il Domenica 16/07/2017 "Il Giornale". Stranieri scatenati: ancora un'aggressione a bordo di un treno. Questa volta la vittima è una capotreno che alla Stazione marittima di Porto Torres (Sassari) è stata aggredita e molestata sessualmente da un gruppo di nigeriani. Subito dopo l'aggressione la donna si è rivolta ai medici del pronto soccorso di Sassari e ora è ancora in stato di choc. L'episodio è avvenuto ieri mattina su un treno diretto a Sassari. La capotreno ha subito l'aggressione durante un controllo dei biglietti. La Polizia ferroviaria ha identificato gli aggressori. La violenza è scattata dopo la richiesta dei ticket di viaggio. I ragazzi erano senza biglietto e così hanno deciso di accerchiare la donna per poi aggredirla e palpeggiarla. A denunciare quanto accaduto sono stati i rappresentanti sindacali della Fit Cisl: «Non si può continuare così, con i lavoratori dei trasporti in balia dei violenti - dichiara Antonio Piras, segretario generale di categoria -. Ormai registriamo un episodio di violenza al giorno e le lavoratrici e i lavoratori non possono essere lasciati soli. Chiediamo a Protezione aziendale di Trenitalia un incontro urgente per valutare ulteriori azioni e iniziative da mettere in campo per meglio tutelare l'incolumità fisica del personale di front-line». Insomma il personale che lavora a bordo dei treni tutti i giorni deve fronteggiare questi rischi che di fatto espongono i controllori a violenze gratuite. Gli fanno eco il segretario Fit Cisl Sardegna, Valerio Zoccheddu, e la responsabile del Coordinamento donne della stessa sigla, Claudia Camedda. Viene denunciata la sempre più crescente «solitudine» del personale di bordo e si chiede con forza alla direzione di Trenitalia Sardegna di farsi carico, con iniziative di prevenzione, «di salvaguardare l'incolumità dei lavoratori e delle lavoratrici che quotidianamente sono vittime di aggressioni fisiche e verbali». E a poche ore dalla diffusione della notizia dell'aggressione si rincorrono le reazioni politiche. «Anche oggi registriamo gravissime delinquenze perpetrate da clandestini. Tristi fatti ormai all'ordine del giorno. Questa volta la vittima è una capotreno aggredita e molestata sessualmente da nigeriani mentre svolgeva il suo lavoro. Non se ne può più, la situazione è insostenibile ma i colpevoli non sono solo chi concretamente ha commesso questi i reati, ma anche chi ha favorito l'invasione» dichiara il capogruppo alla Camera della Lega, Massimiliano Fedriga. «Una brutale aggressione nei confronti di una donna, un episodio gravissimo, purtroppo non l'unico, dinanzi al quale occorre una risposta con la massima determinazione» dice il coordinatore regionale di Forza Italia in Sardegna, Ugo Cappellacci che chiede il blocco degli sbarchi degli extracomunitari sull'Isola e il loro immediato rimpatrio.

Stupri, gli stranieri commettono più violenze sessuali: il record ai romeni, scrive Fausto Carioti il 23 Ottobre 2016 su "Libero Quotidiano". Si può invocare una maggiore apertura delle frontiere italiane, come fanno la presidente della Camera, Laura Boldrini, e altri esponenti della nostra classe dirigente, fingendo di non sapere che gli stranieri residenti nel nostro territorio, pari all’8% della popolazione, sono accusati del 39% degli stupri? È giusto che il dibattito sulla libera circolazione dei cittadini comunitari prescinda dal fatto che sui romeni, pari all’1,8% della popolazione residente in Italia, ricadono ben l’8,6% degli arresti e delle denunce per violenza sessuale? Poche cose riescono a essere più politicamente scorrette delle statistiche sulla criminalità, ma chi sceglie di non vederle lo fa sulla pelle della popolazione. L’istituto di ricerca Demoskopika ieri ha pubblicato un’indagine sulla violenza sessuale in Italia, che attingendo ai dati del ministero dell’Interno analizza gli episodi commessi nel quinquennio 2010-2014. Il documento si conclude con un sondaggio sull’orientamento degli italiani, un terzo dei quali chiede la linea dura - inclusa la castrazione chimica - nei confronti degli autori degli stupri. È un documento interessante, che lo diventa ancora di più se si mettono a confronto le nazionalità dei colpevoli e delle vittime con le statistiche sulla popolazione presente nel nostro Paese. È quello che ha fatto Libero, incrociando i numeri pubblicati da Demoskopika con le statistiche Istat relative al primo gennaio 2014. I risultati impressionano. Nel quinquennio 2010-2014 sono state commesse sul territorio italiano 22.864 violenze sessuali (questo è il numero desunto dalle denunce presentate: quello vero, ignoto, è inevitabilmente superiore). Solo in 16.797 casi è stato scoperto il violentatore, che quindi è riuscito a farla franca il 27% delle volte. Denunce e arresti hanno interessato gli italiani nel 61% dei casi e gli stranieri nel restante 39%. Sono quote molto distanti da quelle della popolazione residente in Italia, che nel 2014 era pari a 60,8 milioni di individui, dei quali italiani il 91,9% e stranieri l’8,1% (circa 4,9 milioni). Da un punto di vista statistico, significa che la popolazione straniera ha una propensione a commettere questo tipo di reato assai maggiore di quella degli italiani. Ovviamente la responsabilità criminale è individuale, non collettiva, ma è un dato di fatto che alcune nazionalità abbiano un peso nelle statistiche degli stupri di gran lunga superiore alla loro incidenza sulla popolazione. È il caso dei romeni, che in Italia risultano essere circa 1,1 milioni, pari all’1,8% del totale dei residenti. Sono la comunità d’immigrati più numerosa, ma i reati di stupro che vengono loro addebitati sono addirittura l’8,6% del totale. La seconda nazionalità straniera più rappresentata è quella degli albanesi, che sono lo 0,8% del totale della popolazione: anche nel loro caso, la percentuale dei responsabili di stupri è particolarmente alta, visto che su loro ricadono l’1,9% degli arresti e delle denunce. Statistiche peggiori le ha la comunità dei marocchini: sono lo 0,7% dei residenti e il 6% dei denunciati ed arrestati per violenza carnale. Discorso simile per i tunisini: la loro presenza in Italia è pari appena allo 0,2% della popolazione, ma l’1,3% delle accuse di stupro ricade su di loro. Per contro cinesi, ucraini e filippini, pur rappresentando quote importanti della popolazione immigrata, non hanno un peso rilevante nelle statistiche dei presunti responsabili di reati sessuali. Anche i numeri delle vittime confermano che la violenza sessuale è particolarmente diffusa in alcune comunità. Il 68% delle vittime sono italiane e il 32% straniere. E tra queste le più colpite sono le persone di nazionalità romena (il 9,3% degli stupri denunciati è commesso su di loro), marocchina (2,7%) e albanese (0,5). Non si tratta solo di donne, ovviamente: i numeri dicono che in Italia uno stupro su quattro avviene ai danni di un minorenne. Sotto l’aspetto territoriale è la Lombardia, con il 17,5% dei casi, la regione con il triste primato del maggior numero di violenze sessuali. Seguono Lazio (9,8%), Emilia Romagna (9,1%), Piemonte (8,3%) e Toscana (7,7%). Ma se il calcolo viene fatto in rapporto alla popolazione femminile residente, la classifica cambia molto: in questo caso, avverte Demoskopika, in testa c’è il Trentino Alto Adige, con 88 episodi di violenza sessuale ogni 100mila donne residenti. Seguono l’Emilia Romagna con 79 casi, la Toscana con 78, la Liguria con 75 e il Piemonte con 72. Il sondaggio conferma che gli italiani sono sempre più convinti che occorra la linea dura. Il 12% oggi è favorevole alla castrazione chimica degli stupratori, senza differenze rilevanti di opinione tra uomini e donne. Un altro 24,1% degli interpellati chiede pene comunque più severe. L’approccio morbido, orientato alla «riabilitazione» di chi ha commesso una violenza sessuale, è condiviso solo dal 3,6% dei nostri concittadini.

La fecondità degli immigrati e altre mezze bugie che non fermeranno la morte demografica del nostro paese, scrive il 21 Settembre 2014 Rodolfo Casadei su Tempi”. La verità è che sull’invecchiamento della popolazione italiana e sulla sostenibilità del nostro welfare le cose stanno anche peggio di come ce le raccontano. Intervista al demografo Gian Carlo Blangiardo. Lo sapevate che in Italia gli ultranovantacinquenni sono circa 100 mila, ma nel 2065 saranno la bellezza di 1 milione e 258 mila? Che la popolazione residente in Italia non supererà mai i 62,1 milioni, dopodiché scenderà fino a essere, nel 2065, la stessa di oggi, cioè 59,4 milioni, ma con la differenza che oggi meno di 1 cittadino su 10 è straniero, mentre nel futuro lo sarà 1 su 5? Lo sapevate che la famosa alta fecondità degli immigrati è un mito, considerato che nell’arco di appena cinque anni il numero di figli per donna fra le straniere residenti in Italia è sceso da 2,5 a 2,1? Che da più di un decennio il numero degli over 65 ha superato quello degli under 20 e che nel 2027 gli ultraottantenni saranno più numerosi dei residenti italiani sotto i 10 anni di età? E che in dieci anni (fra il 2001 e il 2011) la classe d’età degli attuali 25-29enni italiani ha perso 30 mila unità a causa dell’emigrazione dei cervelli e delle braccia giovani? Queste e altre poco incoraggianti cose ancora sapreste se aveste partecipato al piccolo incontro tenuto dal demografo Gian Carlo Blangiardo, ordinario di demografia all’Università di Milano-Bicocca, svoltosi durante l’ultimo Meeting di Rimini presso lo stand del Movimento per la Vita. Uno di quegli incontri di nicchia che sono una specialità della kermesse riminese, fuori dal programma ufficiale, ma ricchi e stimolanti come gli altri. Quel pomeriggio Blangiardo ha parlato e mostrato powerpoint spiegando altre cose ancora. Ha puntualizzato che in Italia dagli anni Novanta il saldo naturale, cioè la differenza fra le nascite e i decessi, continua ad essere negativo, e l’afflusso di immigrati non ha cambiato il panorama, perché il numero di figli che mettono al mondo annualmente e va a sommarsi a quelli generati dagli italiani non è sufficiente a coprire il numero dei morti. La popolazione continua a crescere leggermente grazie all’immigrazione di adulti, ma fatalmente l’età media aumenta (non lo ha detto Blangiardo, ma secondo statistiche americane l’Italia è il terzo paese più anziano del mondo dopo il Giappone e la Germania). Ha esemplificato l’effetto che l’invecchiamento della popolazione avrà sulla sostenibilità finanziaria della spesa sociale evocando i 7 miliardi di euro che costerebbe il solo assegno di accompagnamento per il milione e 200 mila ultranovantacinquenni nel 2065.Le affermazioni più forti hanno riguardato il contributo degli stranieri alla sostenibilità del welfare e del sistema pensionistico italiani, che secondo Blangiardo non rappresenta affatto la panacea che molti dicono ma solo un rinvio del problema che si presenterà aggravato, e la sottovalutazione dell’emigrazione giovanile, quando «si può stimare che la “perdita netta” di giovani italiani nell’arco del decennio 2001-2011 vada ben oltre le 100 mila unità». Per tutti questi motivi abbiamo voluto approfondire con Gian Carlo Blangiardo i vari argomenti.

Professore, pare di capire che il saldo migratorio, che in Italia è positivo dal 1991, non sia sufficiente a invertire l’invecchiamento della popolazione italiana. È così?

«Sì, è così. Il fenomeno dell’immigrazione è rappresentato da immigrati che nella grandissima maggioranza arrivano qui già adulti. Trascorrono alcuni anni e vanno ad aumentare il numero degli anziani. Non fanno tutto il percorso, da bambino ad adolescente a giovane, poi ad adulto e infine ad anziano, che fa chi nasce in Italia. Danno una boccata di ossigeno al ringiovanimento della popolazione nel momento in cui arrivano, ma poi, col passar del tempo se la riprendono quando diventano a loro volta anziani».

Si dice che gli immigrati hanno un tasso di natalità più alto degli italiani, mettono al mondo più bambini, e questo dovrebbe contribuire al ringiovanimento della nostra popolazione più del semplice arrivo di immigrati. Lei però afferma che la loro fertilità diminuisce rapidamente quando sono in Italia? In che misura, e perché?

«Gli immigrati danno un contributo in termini di natalità che è importante, ma che non rappresenta una soluzione miracolosa ai nostri problemi. I nati da donne straniere sono cresciuti rapidamente dagli anni Novanta ad oggi, da 10 mila sono passati ai circa 80 mila attuali. Si sono stabilizzati attorno a questa cifra annua, magari cresceranno un po’ in futuro ma solo perché crescerà la popolazione straniera totale. Una volta esaurita la fase dei grandi ricongiungimenti familiari al seguito delle sanatorie che li permettevano, gli immigrati piuttosto rapidamente sono passati da livelli di fecondità largamente superiori alla soglia di ricambio generazionale a livelli che permettono appena il ricambio generazionale. Nelle grandi città italiane, dove è più difficile gestire la presenza di figli, l’indice di fecondità della popolazione straniera è largamente al di sotto del tasso di ricambio generazionale. Questo avviene per il semplice motivo che le coppie straniere incontrano le stesse difficoltà che incontrano le coppie italiane ad avere figli, e spesso in forma ancora più esasperata».

Ma è vero che la loro la fecondità è di 2,1 figli per donna mentre fra gli italiani è 1,4?

«È 1,3 per le italiane per l’esattezza, e 2,1 per le donne straniere. Però non bisogna dimenticare che appena cinque anni fa per queste ultime era 2,5. Nell’arco di poco tempo c’è stata una consistente riduzione. In certe realtà locali il dato è inferiore ai 2 figli per donna anche fra gli stranieri: Milano, Roma, Napoli, Palermo. Il disagio di essere genitore in emigrazione è un qualcosa di chiaramente tangibile».

Il saldo naturale in Italia attualmente è negativo, e lo è da più di vent’anni nonostante l’apporto di nascite degli stranieri. Quando tornerà – se mai tornerà – ad essere positivo?

«La domanda mi dà l’opportunità di ricordare che il 2013 è stato un anno record nella storia della demografia dell’Italia unita: non c’è mai stato un anno con un numero di nascite così basso. In tutto sono state 513 mila. E la proiezione dei dati dei primi tre mesi del 2014 promette un quasi 10 per cento in meno per il dato finale di quest’anno».

Quindi il saldo naturale continuerà a restare negativo e sarà compensato solo dall’immigrazione?

«Sicuramente, per un motivo molto semplice. Essendo una nazione sempre più vecchia, non solo le nascite non crescono, ma le morti aumentano. Il numero totale dei morti, che oggi è di circa 600 mila all’anno, è destinato in futuro, a causa della struttura della popolazione, a salire a 700-750 mila».

La popolazione residente in Francia è di poco superiore a quella italiana, eppure lì i nati sono 750 mila all’anno, anziché 500 mila come da noi. Perché c’è questa differenza del 50 per cento?

«Perché i francesi prendono sul serio la demografia. È un’eredità storica, derivante dalla necessità di affrontare ad armi pari la Germania con cui si trovavano sempre in conflitto. Comunque sia, hanno sempre fatto più attenzione di noi alle dinamiche demografiche e, dove necessario, agli interventi a favore della natalità, per raddrizzare certe tendenze. La Francia è solita prendere misure economiche, che costano, per sostenere la natalità. Laicamente, non si preoccupa se le coppie sono sposate o no, ma fornisce supporti economici perché vengano messi al mondo dei figli. Loro eliminano le cause che in Italia impediscono di far nascere i figli che si vorrebbero avere. Perché, non dimentichiamolo, in Italia le inchieste ci dicono che le donne vorrebbero 2,19 figli a testa, ma nella realtà ne hanno solo 1,3».

Lei sostiene che non saranno gli stranieri a risolvere il problema pensionistico italiano, ma in un certo lasso di tempo diventeranno parte del problema. Su che dati si basa?

«Chi dice “abbiamo rinunciato a 100 mila bambini ma abbiamo imbarcato 100 mila immigrati e alla fine il totale quadra”, non ha capito come funziona la demografia. La sostenibilità del welfare dipende dal rapporto fra anziani e attivi. Quanto più si sbilancia verso gli anziani, tanto maggiore sarà la quota di Pil che va a finire in pensioni, nella sanità, eccetera. La fetta di welfare che vanno a mangiarsi gli anziani va a raddoppiare. È sbagliato fare la divisione fra quanti sono oggi gli stranieri che lavorano e quelli che sono in pensione, per concludere che il carico è bassissimo e tutto va bene: bisogna ragionare guardando al futuro. Devo mettere in conto che quelli che oggi sono lavoratori, alla fine saranno soggetti che beneficeranno delle prestazioni pensionistiche e sanitarie. Se noi prendiamo in considerazione gli anni di vita futura della popolazione, che per l’Italia sono 2,4 miliardi, e calcoliamo quanti di questi anni saranno spesi in formazione, quanti lavorando e quanti a carico del sistema, scopriamo che l’“indice di carico” degli immigrati, cioè la loro pressione sul welfare nel corso di tutta la vita, è identica a quella degli italiani. Non abbassano il valore complessivo, danno solo una boccata d’ossigeno per un certo numero di anni, che poi pagheremo successivamente. Ci sono modelli matematici che dimostrano che c’è un beneficio di una ventina d’anni per la sostenibilità del welfare. Se io, in teoria, tolgo di mezzo 200 mila nascite e ci metto 200 mila immigrati trentenni, succede che il carico per una ventina di anni si abbassa, poi nel momento in cui la popolazione diventa stazionaria, il carico è più alto di quello che sarebbe stato senza l’arrivo degli immigrati al posto dei nati».

Come influisce la crisi demografica sull’economia?

«Non sono un economista, ma è intuitivo che una popolazione che cresce è una popolazione che esprime una domanda di beni, quella domanda che oggi non c’è e tutti invocano. Se fossimo una popolazione in aumento, come accadeva negli anni del miracolo economico, avremmo una spinta alla crescita economica attraverso una serie di consumi che permettono alla popolazione di crescere e andare avanti. Nel momento in cui la popolazione invecchia, l’economia ne risente perché l’anziano fa manutenzione, non fa investimento. Allora si spera di fare una compensazione attraverso gli immigrati e i loro consumi. Ma è gente con redditi che viaggiano attorno agli 800 euro mensili, una parte dei quali mandano ai paesi di origine: non hanno tanta disponibilità al consumo. Quando si dice “gli immigrati contribuiscono un tot al Pil”, io resto un attimo scettico, perché mi chiedo come facciano con 800 euro al mese a dare questi grandi contributi al Pil, al gettito fiscale, eccetera. Mi sembrano discorsi demagogici».

Anche i dati relativi ai giovani che lei ha presentato sono preoccupanti. Sembra che ci siano classi d’età che scompaiono.

«Abbiamo due problemi. Il primo è che le persone che raggiungono l’età per essere definiti giovani provengono da coorti di nati che si sono via via ridotte. Il totale della popolazione giovane risente di una immissione di forze fresche che nel tempo è andata riducendosi. Il secondo, che viene poco considerato e molto sottovalutato, è l’emigrazione giovanile. Non è più quella delle valigie di cartone, di 100 o di 60 anni fa, ma un’emigrazione di giovani talenti che si spostano perché altrove ci sono condizioni per ottenere maggiore gratificazione da tanti punti di vista. Stiamo perdendo cervelli, non valorizziamo i nostri giovani e loro se ne vanno».

A Rimini lei ha detto che chiuso dentro a un cassetto della presidenza del Consiglio c’è un Piano per la Famiglia. Cosa c’è scritto in questo piano? E perché lei dice che alcuni suoi provvedimenti sono necessari ma impopolari?

«Il Piano contiene tante cose. Fu steso da una commissione creata sotto il governo Berlusconi, ma si trattò di un progetto condiviso da tutti, c’erano dentro anche i sindacati. Si lavorò dal 2009 al 2012, ne facevo parte anch’io. Il documento è stato presentato dal ministro Riccardi e approvato dal Consiglio dei ministri al tempo del governo Monti. Poi l’hanno congelato ed è finita lì. Contiene proposte di natura economico-fiscale e altre a costo zero o quasi. Introdurre il fattore famiglia vorrebbe dire tirare fuori 16 miliardi di euro: se non ce li abbiamo, non si può fare. Però ci sono anche altre cose che sono più abbordabili: favorire le strutture per gli asili nido dei bambini, un clima culturale più favorevole alle famiglie che hanno figli, iniziative che rafforzino la compatibilità fra maternità e lavoro: ci sono misure che non costano molto e che varrebbe la pena di riconsiderare».

Anche il “comunista” Fassina diventa sovranista. E fonda un nuovo partito, scrive Vittoria Belmonte domenica 9 settembre "Secolo D'Italia". Che il destino di Liberi e Uguali sia quello della lenta estinzione è fuor di dubbio. Non solo il leader Pietro Grasso è scomparso, non solo Laura Boldrini auspica un nuovo soggetto unitario della sinistra ma ora c’è anche una miniscissione. Stefano Fassina, deputato di Leu, ha infatti annunciato sui social la fondazione di una nuova creatura politica, “Patria e Costituzione”, la cui assemblea fondativa si è tenuta a Roma l’8 settembre. “Un’associazione – dice Fassina – di cultura e iniziativa politica, dalla parte del lavoro, per affrontare la domanda di comunità, di protezione sociale e culturale, per rideclinare il nesso tra sovranità, democratica nazionale e Ue, per definire strumenti adeguati per lo Stato per intervenire nell’economia”. Da sempre critico verso la globalizzazione e il mercatismo che rappresentano gli idoli dell’Unione europea, Fassina – da sinistra – riscopre la patria e i diritti del popolo sovrano. Un’imitazione del percorso seguito dalla destra di Salvini nel rifondare la Lega e nel dare nuovo slancio al centrodestra. Fassina ha anche ammesso, nel suo discorso dedicato alla nuova associazione politica, che solo la destra ha capito il bisogno di protezione, comunità, identità che si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale». 

No, in Svezia non è tutto come prima. E chi finge di ignorarlo sbaglia, scrive il 10 settembre 2018 Cristiano Puglisi su "Il Giornale". No, in Svezia, nonostante quanto affermato dal sistema mediatico mainstream, non hanno vinto i partiti tradizionali. È vero, le elezioni hanno visto ancora una volta al primo posto, con oltre il 28% delle preferenze, i socialdemocratici, come accade ininterrottamente dal 1917. Eppure questa volta sarà difficile per loro mettere insieme un Governo, dato che la coalizione di centrosinistra (che include anche la sinistra e i verdi) conta 144 seggi, contro i 143 della coalizione di centrodestra, costituita da moderati, liberali e cristiano-democratici. Insomma, nessuno ha una maggioranza. Forse determinanti saranno i seggi assegnati al partito nazionalista dei Democratici Svedesi, che con quasi il 18% delle preferenze incrementa notevolmente il bottino rispetto alla tornata precedente (oltre cinque punti percentuali) e che, pur non avendo vinto, ha fatto segnare un risultato più che significativo. Significativo perché, a prescindere da qualsiasi assurda valutazione tesa a sminuire il risultato finale della destra nazionalista, segnala che, anche nel Paese simbolo della socialdemocrazia nordica, della tolleranza, delle pubblicità politically correct di Ikea, l’immissione massiccia di immigrati degli ultimi anni (la Svezia è il Paese europeo che, in percentuale rispetto al numero di abitanti, ha accolto il maggior numero di richiedenti asilo) è stata rigettata dalla popolazione. Diversi sono i fattori da considerare per questa reazione. Non secondario è quello socio-economico. Sebbene in maniera magari inferiore rispetto ad altri stati del vecchio continente, grazie probabilmente al proverbiale ed efficiente welfare state, anche la Svezia ha sentito gli effetti della crisi economica globale. E così, mentre il PIL pro capite svedese non ha più raggiunto, dopo il grande crack della finanza del 2008, i livelli del periodo 2001-2008, e il PIL nominale è in costante calo dal 2014, la popolazione continua ad aumentare. Il motivo ce lo spiega la fondazione di studi europei GEFIRA: la continua immissione di migranti con alto tasso di fertilità. Secondo uno studio da loro condotto, infatti, l’alta fertilità delle donne svedesi (2,1 figli a testa, sopra il tasso minimo di sostituzione di due figli a coppia) sarebbe principalmente da imputare a donne nate all’estero. Le donne nate in Svezia, secondo un dato ufficiale, avrebbero infatti un tasso di soli 1,6 figli a testa, il risultato di 2,1 sarebbe dunque una media.

SOSTITUZIONE ETNICA IN CORSO. Si tratta, praticamente, di un processo di sostituzione etnica. Processo che ha subito un’impennata negli ultimi anni, con l’esplosione delle crisi migratorie. Se nel 2010, il 14,3% della popolazione svedese era di origine straniera, nel 2017, solo sette anni dopo, il dato è pari al 24,1%!

L’AUMENTO DEGLI STUPRI NON È CASUALE. I risultati di questo processo, ovviamente, si sono fatti sentire anche sul versante della sicurezza. Secondo dati del Consiglio Nazionale per la Prevenzione del Crimine, nel 2017 si sono avuti 7.230 casi di stupri, 667 in più dell’anno precedente pari ad un aumento del 10%. Chi sono questi stupratori? Secondo uno studio realizzato a ottobre 2017 dal ricercatore indipendente Patrik Jonasson, su 4.142 processi giudiziari relativi ad aggressioni sessuali nell’arco temporale che va dal 2012 al 2017 i dati parlano in maniera chiara: il 95,6% degli autori di stupri ha origini straniere (prevalentemente Medio Oriente e Africa) così come nel 90% delle violenze di gruppo. Insomma, che piaccia o meno al mainstream, i numeri dicono chiaramente che la scelta di importare un numero massiccio di immigrati in un breve lasso di tempo per “pagare le pensioni” non è sostenibile e ha un impatto devastante sulla coesione sociale di un Paese, per quanto questo possa essere all’avanguardia in termini di servizi sociali e qualità della vita. Figurarsi in quelli, come Spagna, Grecia o Italia, dove la situazione socio-economica ha subito un netto peggioramento negli anni della crisi.

L’EUROPA CHE SI GIRA DALL’ALTRA PARTE NON HA FUTURO. È chiaro, come già detto da queste colonne, che i partiti tradizionali dell’agone politico comunitario e anche il sistema mediatico loro connesso dovranno, in vista delle prossime consultazioni europee, dunque tenere conto di questo dato, piuttosto che liquidare come “populismo” o “razzismo”, qualsiasi istanza che chieda una rigida regolamentazione dei flussi migratori. In gioco, con l’emergere di movimenti nazionalisti, c’è la sopravvivenza del progetto geopolitico europeo, già vittima di notevoli squilibri economici. Continuare a non capire la situazione significherebbe consegnarlo definitivamente alla storia.

Parla Valentina Nappi: "Io, pornostar comunista. Sapete con chi voglio fare sesso?". Intervista di Alino Milan del 3 febbraio 2017 su "Libero Quotidiano”. Per far capire di chi stiamo parlando, Valentina Nappi è una che su Facebook ti accoglie così: “Per quelli che trovano il mio numero e rompono: sono misantropa, se siete fighi\e delle madonna mandate le foto, altrimenti evitate di rompere il cazzo. Cordiali saluti”. Insomma, Valentina Nappi non si sforza di piacere al prossimo. Poi, provate a intervistarla se vi riesce. Fa la spola tra l’Italia e gli Stati uniti, dove si trova anche ora, compare e scompare in sporadici contatti mail e soprattutto risponde a ciò che vuole. Quando non le piace la domanda, passa. Inutile insistere. Se però riuscite a far breccia nel suo cervello, e a quanto pare ne ha, la sentirete spaziare a tutto campo: dalla filosofia all’economia, dall’attualità alla politica. Senza trascurare ovviamente il sesso, dato che Valentina Nappi, 25 anni, di Scafati, lavora nel porno. E il 23 gennaio è stata vincitrice agli Avn Awards, in pratica gli Oscar dell’hard, nella categoria «migliore scena a tre» (per la cronaca, due donne e un uomo).

Valentina, dicono tu sia la pornostar italiana più pagata. Quanto guadagni? 

«Non lavoro sempre. Nei mesi in cui lavoro posso guadagnare dai cinque ai quindicimila euro lordi, da cui ovviamente vanno detratte spese e tasse. Non mi posso lamentare, ma non sono certo ai livelli di un qualsiasi personaggio del mondo dello spettacolo di fama pari alla mia».

Sulla carta di identità che c’è scritto alla voce “professione”? 

«Ho una carta di identità vecchia. A ogni modo un pornoattore è una via di mezzo fra un performer e un attore. In un certo senso è più di un attore, poiché è chiamato a muoversi sul confine tra rappresentazione e performance. Ma direi che attore va bene».

Valentina Nappi: attrice. 

«Sì, se facciamo riferimento a un’accezione sufficientemente ampia del termine, entro cui cada anche l’attore che improvvisa, l’artista performativo, il ginnasta e chiunque dedichi la propria vita alla ricerca della bellezza di un gesto pubblico».

Valentina Nappi ginnasta: il riferimento, immagino, è alle contorsioni…

«No: il riferimento, come detto, è alla ricerca della bellezza di un gesto».

Che ne pensi delle violenze sulle donne a Capodanno in Germania? Secondo te c’entra l’islam? 

«È una domanda mal posta sul piano logico. L’islam è una religione, è diffusa in contesti estremamente differenti tra loro, contesti il cui grado di modernità e sviluppo varia enormemente. A ogni modo io sono contro tutte le religioni».

Ma è in corso una battaglia di civiltà tra noi e l’islam? Quanto c’entra la libertà sessuale in questo discorso? 

«La battaglia di civiltà è tra la modernità e le forze, come ad esempio la religione cattolica, che provano a resisterle. La modernità è la morale autonoma kantiana, l’utilitarismo benthamiano, il positivismo, il futurismo e in futuro probabilmente il comunismo. Le forze che le resistono sono le tradizioni, le religioni, il conservatorismo sociale e il conservatorismo economico (che oggi è rappresentato dal nefasto neoliberismo che erode i diritti del lavoro)».

Il comunismo è il futuro?! Veramente mi sembra più il passato, e anche nefasto. O no? 

«Quello che dici è la banale vulgata di destra sull’argomento. Non intendo replicare perché il discorso sarebbe estremamente lungo».

Hai scritto su Facebook: “Io sono femmina, non sono donna. Perché alle donne piace abbuscare”, che poi in napoletano significa “prendere botte”. Me la spieghi?

«Donna viene da “mea domina”, è un lemma di origine stilnovista, non mi piace. Mi fa pensare ai ruoli di genere. E una che accetta i ruoli di genere come la porta aperta dall’uomo, essere servita prima al ristorante e cose così, dovrebbe essere coerente e accettare anche di abbuscare».

Fammi capire, dato che in un’altra occasione hai detto “han provato a farmi il baciamano, ho risposto baciami il culo”. Se una donna accetta una galanteria, è giusto che accetti anche uno sberlone? 

«Non è questo il punto. Il punto è che lo sberlone e la galanteria appartengono alla stessa cultura, che viene dal passato».

Valentina Nappi e i profughi: tu sei contro le barriere e i confini. Sei dunque contenta che il governo Renzi vuole togliere il reato di clandestinità? 

«Io non sono per la libertà di movimento di quelli che sono contro la libertà di movimento. Quelli li confinerei in uno Stato tutto loro e non li farei uscire».

Non credi che gli immigrati poveri e senza lavoro portano un maggiore tasso di criminalità? 

«Qualsiasi economista serio (un Giavazzi, per esempio) ti farebbe notare che gli immigrati costituiscono una ricchezza. Quasi in nessun caso c’è stato un aumento statisticamente significativo dei crimini nei Paesi che hanno aperto le porte all’immigrazione».

Una volta hai ammesso di avere fatto sesso con un profugo, è vero? 

«Ho fatto sesso con immigrati, ma credo si trattasse di immigrati regolari».

Sei anti leghista. Se uno vota Salvini tu lo banni e lo cancelli dai social. Perché? 

«Per dargli una sberla virtuale, sperando che si svegli».

C’è qualche politico che vedresti bene in un tuo film? 

«Passo. Che palle».

Dimmi allora che pensi del “bunga bunga” di Berlusconi. 

«Ci deve far vergognare. Ti rimando al mio video: “La do a tutti tranne che al capo”».

Il video è in rete, Youtube l’ha rimosso ma si trova facilmente. Dura 14 secondi, ci sei tu in costume che dici appunto questa frase. Stop. Cos’è, un invito alle donne a darla il più possibile, anche gratis, ma non al potente di turno? 

«Direi solo gratis. Quelle che la danno per interesse hanno tutto il mio disprezzo. Quanto alle meretrici, non sono proibizionista ma dovrebbero metterci la faccia e praticare prezzi accessibili anche all’operaio, altrimenti nella migliore delle ipotesi sono usuraie che sfruttano la frustrazione sessuale maschile. Ad ogni modo mi fa schifo che una possa avvantaggiarsi socialmente, economicamente o nella carriera per il semplice fatto che ha la figa».

Nel 2011 l’Agenzia delle Entrate disse che in Italia la porno-tax ha portato oltre 21 milioni di euro allo Stato. È una tassa giusta per te? 

«Il dato mi sorprende. Ma probabilmente vi si fanno rientrare molte cose (come la vendita di sex toys…). Sicuramente la parte che deriva dalla produzione e vendita di video sarà insignificante».

La Diesel di Renzo Rosso farà pubblicità sui siti porno, perché “lì la gente va a cliccare”. Che ne pensi? 

«È una buona notizia, dato che invece normalmente la pubblicità sui siti porno rende pochissimo».

Valentina, in Italia si parla di Unioni civili. Sei a favore? 

«Certo».

Due omosessuali devono poter adottare un bambino? 

«Assolutamente sì. Reputo assurdo che ci si ponga anche il problema».

Sabato però c’è stato il Family Day. Che pensi di quelle persone in piazza?

«Non tutti sono condannati a essere intelligenti».

Parliamo del tuo lavoro: una pornostar sul set fa finta di provare piacere? 

«I maschi secondo te godono davvero? E se i maschi godono davvero, perché le femmine non dovrebbero? La tua domanda è evidentemente sessista».

Non è sessista. D’altronde pesco da una tua vecchia intervista: “le donne che fingono l’orgasmo dovrebbero essere segnalate in una qualche lista pubblica!”. 

«Vuol dire che il fatto che fingano è un problema. È un po’ come la gente che ricorre all’adulazione, credendo di non far nulla di male ma alla lunga producendo più infelicità che felicità».

Massimo Boldi ti chiese: “Ma perché una ragazza bella come te fa porno?” e tu: “Per avere la possibilità di fare gang bang con dodici neri”. Al di là delle battute, mi dici davvero perché lo fai? 

«L’ho spiegato varie volte e quel tweet è in un certo senso una sintesi. Se preferisci che ti dia un’altra risposta, che magari non metta in crisi la tua visione del mondo, scrivitela da solo».

Nella mia domanda non c’era alcun giudizio morale. Ma come a me chiedono perché faccio il giornalista e rispondo, tu spiegami perché fai la pornostar.

«Perché ti dà possibilità di esplorare, ricercare, approfondire, anche grazie al rapporto con la cinepresa, che altrimenti non avresti».

Rocco Siffredi dice di essere guarito dalla dipendenza da sesso, a te spaventa questa patologia? 

«È una presunta patologia che non esiste. Non è riconosciuta dalla comunità medica. Su Rocco mi sono già espressa e non intendo tornare sull’argomento».

Quindi le cosiddette “cliniche del sesso” dove vanno anche i vip per disintossicarsi sono inutili? 

«Non le conosco».

Su Rocco non vuoi esprimerti, però lui ha lanciato una petizione on line per introdurre l’educazione sessuale a scuola. Tu la firmeresti?

«No, ma la spiegazione sarebbe estremamente lunga».

Cosa significa trasgressione per te? 

«È una cosa negativa. È una forma di incoerenza. Io sono per la coerenza col proprio punto di vista e se si è coerenti non si trasgredisce».

Mettiamo che giri sul set per otto ore, poi vai a casa e contempli l’idea di fare ancora sesso?

«Ci sono tanti modi di fare sesso. Al pilota di Formula 1 capiterà anche di guidare un’utilitaria in città o di fare una tranquilla gita fuori porta».

Hai fatto casting pubblici per pornoattori ma non hai ottenuto grandi risultati: significa che non sappiamo più fare sesso?

«Forse manca soprattutto chi prenda seriamente il mestiere di pornoattore».

Dimmi allora una caratteristica imprescindibile per fare il pornoattore. 

«La più importante è la testardaggine nel migliorarsi. Il pornoattore deve essere un po’ come un maestro di sushi o come un qualsiasi artigiano che lavori con la gestualità: deve provare e riprovare, vedere cosa viene fuori, modificare un po’ i particolari, cercare allo stesso tempo l’eleganza e la potenza dell’immagine trasmessa».

Il porno e la paura di contrarre malattie. Quanto ci pensi? 

«È ben noto che la gente sopravvaluta certi rischi e ne sottovaluta altri. Ad esempio, il rischio rappresentato dagli attentati terroristici è enormemente amplificato dalla percezione collettiva, mentre quello degli incidenti stradali è molto sottovalutato. Ecco: il rischio di contrarre l’hiv per un pornoattore è prossimo allo zero».

Con quelle acrobazie sul set, problemi fisici ne hai?

«Nessuno».

Già, sei giovane. Pratica sessuale preferita sul set e in privato?

«Non ho pratiche preferite. Sono un po’ come un cuoco: mi piacciono tutte le materie prime, poi tutto dipende dal “come”, non dal “che”».

Un giorno ti vedi mamma? Se sì che dirai a tuo figlio del tuo lavoro?

«Ti ricordo che il mio nome da pornoattrice coincide perfettamente col mio nome reale. Ad ogni modo, non voglio avere figli, anzi sulla Terra siamo in troppi e bisognerebbe entrare in una logica di controllo delle nascite».

E chi ci dovrebbe pensare?! 

«Ci stiamo organizzando, noi del Nuovo Ordine Mondiale».

Non tutte, però, si chiamano Valentina Nappi. Profughi, abusi sessuali su lavoratrici delle coop. Succede a Bagnoli. Donne molestate da alcuni ospiti: il primo cittadino e il sindacato fanno denuncia in Prefettura di Cristina Genesin, scrive il 12 marzo 2017 "Il Mattino di Padova". Violenze e abusi sessuali all’interno del campo profughi di Bagnoli, destinati a moltiplicarsi ogni giorno come si trattasse di un’eventualità da mettere in conto al pari di “un’attività ordinaria”. Compagna di lavoro ormai abituale la paura. Quella paura pronta ad assalirti ogni volta che varchi il cancello d’ingresso del posto dove lavori ben sapendo, per esperienza diretta o per esperienza della collega, che ti può capitare il peggio. E tu sei indifesa perché sei stata lasciata sola. E perché non c’è alternativa quando ti fanno capire che o ti va bene così oppure quella è la porta, libera di andartene. Le vittime. È il dramma che stanno vivendo un gruppo di donne, tutte residenti nella Bassa Padovana, dipendenti di alcune cooperative impegnate nel garantire lavori e servizi nel campo situato nella frazione di San Siro, oltre 800 ospiti “parcheggiati” in attesa di conoscere il proprio destino con il passaporto da rifugiati o con il “marchio” da indesiderati. Donne vittime di ripetute aggressioni sessuali. Nessuna al momento ha ancora presentato querela: hanno paura di essere lasciate a casa. Di essere licenziate. E non a caso: chiaro il messaggio ricevuto dopo aver informato dell’accaduto tanto il datore di lavoro quanto i vertici Edeco, coop che gestisce la struttura. La prefettura. Venerdì scorso incontro riservatissimo in Prefettura a Padova. Intorno al tavolo il vicario del prefetto con delega all’emergenza immigrazione, Pasquale Aversa, il sindaco di Bagnoli, Roberto Milan, e la sindacalista Elena Capone di Labor, sindacato autonomo che sta seguendo la delicatissima questione cercando di tenerla lontana da ogni forma di strumentalizzazione partitica. Sono stati sollecitati interventi e una maggior presenza di addetti alla sicurezza nel campo per tutelare chi lavora. Singolare circostanza: il sindaco sarebbe stato informato dell’accaduto proprio l’8 marzo, festa della donna. Per domani prevista un’assemblea con le dipendenti delle cooperative per decidere il da farsi. Doppia la parola d’ordine: tutelare la propria dignità di essere umano, ma pure il diritto al posto visto che, per la maggioranza delle donne, lo stipendio è indispensabile strumento per far quadrare il bilancio familiare. Uno stipendio che, però, non vogliono barattare passando sopra al principio del rispetto per se stesse. I fatti. Il caso è esploso negli ultimi mesi all’interno del centro dove stati trasferiti i clandestini approdati in Italia per lo più dal continente africano, tutti giovani o giovanissimi (poche le donne). Prima i comportamenti di alcuni stranieri si limitavano a qualche battuta in un italiano stentato, magari accompagnato da qualche gesto osceno. Poi dalle parole, si è passati alle vie di fatto. Così le lavoratrici sono state attese all’ingresso del campo; in qualche caso “scortate” nelle aree in cui dovevano lavorare oppure, vittima di un vero e proprio agguato, sono state sorprese e aggredite. Solo alcuni ospiti sarebbero responsabili dei ripetuti episodi. «Episodi gravissimi», riferisce un pubblico amministratore. Tuttavia ufficialmente, nessuno parla. Nessuno commenta. Introvabili il sindaco Milan e la sindacalista Capone, mentre la situazione è al limite. E ora, davvero, rischia di esplodere dentro e fuori la struttura. Tra l’ottobre e il novembre scorsi la tensione crescente si era tradotta in rivolte e sommosse nel centro di accoglienza che ha toccato punte di 900 profughi. Tanto da rendere necessario l’intervento della polizia in tenuta antisommossa. Allora il sindaco di Bagnoli Roberto Milan aveva commentato duro: «L’unico provvedimento possibile è quello di alleggerire il centro e distribuire i migranti in altre strutture, non certo creare delle nuove concentrazioni. Qui non abbiamo bisogno di slogan e passerelle, né di sparate populiste. Vogliamo soluzioni percorribili e su questo la Prefettura deve lavorare di più e meglio». Una richiesta ancora oggi reclamata da una popolazione sempre più sola.

IL SILENZIO SULLA VIOLENZA SUGLI UOMINI.

Le donne, gli uomini e il verbo violentare, scrive Valeria Della Valle. Riceviamo da un'attenta lettrice una domanda e una riflessione sulla definizione del verbo violentare data nel Vocabolario Treccani. Visto il merito e l'interesse dell'argomento, la risposta è affidata a Valeria Della Valle, coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008). Riportiamo, per esteso, il testo inviatoci dalla lettrice, Lea Vittoria Uva, seguito dall'intervento di Valeria Della Valle. Per caso ieri stavo leggendo la definizione che l'Enciclopedia Treccani offre del termine "violentare". Mentre all'inizio della definizione parla di "una persona", mi ha colpito in particolare come nell'ultima frase specifichi che il termine può implicare il significato di violenza "sessuale", che è assolutamente corretto ovviamente, ma lo fa specificando "v. una donna, un minore, una minorenne". Mi chiedo se non sia possibile rivedere il modo in cui la spiegazione di "violenza sessuale" è stata formulata. Al momento, illustra come questo termine abbia questo significato semplicemente associando la parola "violentare" a delle vittime. Allo stesso tempo, in questo modo, esclude e discrimina le vittime di sesso maschile, e in modo più subliminale, forse, anche le persone anziane. Come se "v. un uomo" non potesse avere il significato di violenza sessuale. A livello sociale, c'è un grande stigma associato alla violenza sessuale verso uomini e verso persone anziane. Questo porta nella maggior parte dei casi a vergognarsi, a non denunciare, a non ricevere le cure e il supporto adeguato. Anche se sicuramente questa non era la Vostra intenzione, escludere (anche involontariamente) queste categorie dalla definizione di "violenza sessuale" non può fare altro che rinforzare gli stereotipi e lo stigma. Se, come spero, siamo d'accordo che la violenza sessuale non è un problema che riguarda solo donne e minori nella qualità di vittime, mi chiedo se non sia possibile riformulare quell'ultima frase, semplicemente spiegando che "violentare" può anche (e al giorno d'oggi più spesso, credo) avere un significato sessuale, ma senza partire dalle vittime, o per lo meno senza escluderne alcune. Lea Vittoria Uva

Lea Vittoria Uva pone un quesito delicato e interessante a proposito del trattamento lessicografico del verbo violentare. Vediamo come stanno le cose. Nel Vocabolario Treccani il verbo è definito in questo modo: «Sottoporre a violenza, indurre una persona, con una coercizione di natura fisica o morale, o con la suggestione, ad atti e comportamenti contrari o comunque non consoni alla sua volontà, alle sue convinzioni». La definizione è seguita da esempi di fraseologia, cioè di frasi e locuzioni che documentano l’uso del verbo: «voglio agire come mi detta la mia coscienza, non voglio essere violentato. In partic., v. una donna, un minore, una minorenne». Da un punto di vista lessicografico, il trattamento del verbo rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle definizioni vaghe e reticenti presenti in molti vocabolari del passato, che si limitavano a spiegare il verbo in modo elusivo con un generico «costringere uno con la violenza». Nel Vocabolario Treccani, invece, si fa riferimento a una «coercizione di natura fisica o morale» nei confronti di «una persona». In questo modo si allude senza mezzi termini a una violenza esercitata contro individui di qualsiasi sesso. Il termine “persona” ha rappresentato, nelle definizioni dei vocabolari, una scelta innovativa e coraggiosa, che ha svincolato le definizioni e le esemplificazioni dal peso del conformismo linguistico che riferiva solo alla donna, in un’ottica maschile, tutto ciò che la vedeva soggetto passivo di usi e tradizioni ormai superate (del resto, proprio la voce donna è stata definita a lungo come «la femmina dell’uomo»). Ma Lea Vittoria Uva osserva che anche questo tipo di fraseologia è discriminante. Perché alludere a una donna e non a un uomo, come possibile oggetto di violenza, e perché non citare, tra gli esempi di persone sottoposte a violenza, le persone anziane? Di fronte a problemi di questo genere, i lessicografi cercano di mantenere un giusto equilibrio tra la necessità di documentare gli usi linguistici e le sollecitazioni che vengono dalla cronaca, anche le più negative. I casi di violenza sessuale riguardano, con maggiore frequenza, le donne, ma colpiscono anche gli uomini, le persone anziane, malate, emarginate, imprigionate, psichicamente instabili, indipendentemente dal genere di appartenenza. Se accettassimo la proposta di Lea Vittoria Uva, estenderemmo il significato del verbo a nuovi soggetti, ma continueremmo a escludere categorie di persone virtualmente sottoposte a violenza, ogni giorno, nelle varie parti del mondo. Chi scrive le voci dei dizionari cerca di documentare gli usi linguistici in base alla frequenza delle attestazioni (nella stampa, nei siti, nel web), e ne registra le espressioni e le locuzioni più comuni. Può essere utile, a riprova, consultare, sempre nel Vocabolario Treccani, la voce stupro: «Atto di congiungimento carnale imposto con la violenza (corrisponde al termine giur. violenza carnale): commettere uno s.; essere accusato di s.; denunciare il colpevole dello s.; essere vittima di uno s.; processo per s.» Anche in questo caso il lessicografo (o la lessicografa) ha registrato il significato del termine senza mai alludere a un tipo di violenza esercitata solo su donna, come del resto aveva fatto quando, esemplificando gli usi del verbo violentare, aveva citato anche «un minorenne». Mi sembra che le due voci, violentare e stupro, rappresentino lo sforzo fatto dai redattori di un vocabolario contemporaneo per conciliare la rappresentazione della lingua d’uso con il rispetto delle minoranze e delle categorie svantaggiate. Ma sono anche convinta che non sarà l’eliminazione dei generi grammaticali, o l’imposizione di forme pronominali non marcate sessualmente, o l’aggiunta del riferimento a nuove categorie di vittime, a modificare le rappresentazioni simboliche interiorizzate e i comportamenti sociali. Valeria Della Valle, Coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008)

Gli stupri contro gli uomini di cui nessuno parla, soprattutto le vittime. In molti fin dai 18 anni se non prima hanno subito violenza sessuale. Il 47% degli uomini bisessuali, il 40% degli uomini gay e il 21% degli uomini etero, scrive Mary Tagliazucchi, Martedì 29/09/2015, su "Il Giornale". Le vittime silenziose di stupri non sono soltanto, come la maggior parte delle volte accade, le donne, ma anche molti uomini. A confermarlo negli Stati Uniti un sondaggio nazionale sulle vittime di crimini a sfondo sessuale che ha rivelato un dato inaspettato. Su 40mila famiglie americane, il 38% dei casi di violenza sessuale sono avvenuti contro gli uomini. Allarmante situazione se si pensa che i casi di stupro e violenza sessuale contro gli uomini si collocavano al massimo tra il 5% e il 14%. Lara Stemple, che collabora al Progetto Salute e Diritti Umani presso l’Università della California ha incluso, nelle sue indagini, una nuova categoria di stupro, che comprende le vittime che sono state costrette a violentare qualcun altro con proprie parti del corpo, sia con la coercizione fisica, sia quando la vittima era ubriaca o altrimenti incapace di prestare consenso. Quando sono stati presi in considerazione questi casi, i tassi di stupro di uomini e donne si sono sostanzialmente equiparati, con 1 milione e 270mila donne e 1 milione e 267mila uomini che affermano di essere state vittime di violenza sessuale. La stessa ricercatrice, sostiene che l’esperienza di uomini e donne sia molto più vicina di quanto chiunque di noi creda. Questo anche per via di alcuni fattori che fano percepire meno la vittimizzazione sessuale sugli uomini. Come i detenuti in carcere, ad esempio, che vengono esclusi persino dalle statistiche, come se il fatto di essere violentati non costituisca un dato rilevante perché delinquenti. Difficilmente denunciati o registrati da statistiche ufficiali, sono quei numerosi casi di violenza sessuale perpetrata ai danni di uomini anche durante dei conflitti armati. Le testimonianze sono spesso difficili da ottenere, e chi le rilascia dirà di avere assistito a queste violenze, piuttosto che ammettere di averle subite in prima persona. Per questo, secondo Lara Stemple, c’è un reale bisogno di rivedere completamente le nostre ipotesi sulla “vittimizzazione sessuale" e in particolare la nostra convinzione per cui gli uomini siano sempre gli autori e le donne sempre le vittime. Una recente analisi dei dati del Bjs, infatti, ha rivelato che il 46% degli uomini che si sono dichiarati vittime di violenza sessuale, sono stati stuprati da una donna. È solo di qualche mese fa infatti la notizia di un tassista violentato da tre donne sulla ventina che, dopo averlo immobilizzato, legato, e drogato, hanno abusato di lui a turno per ore. Il fatto è accaduto a Nizhni Novgorod, un grosso centro nella Russia centrale. Il malcapitato, ora sotto choc, ha dichiarato che le tre ragazze l’hanno costretto a fare delle cose che mai si sarebbe immaginato. Voleva sporgere denuncia ma il codice penale russo contempla solo il reato di violenza carnale ai danni delle donne ma non degli uomini. Il rischio è che le tre violentatrici restino impunite.

Shia LaBeouf: "Sono stato stuprato da una donna", scrive “Libero Quotidiano il 30 novembre 2014. Altro giorno, altro stupro. Hollywood non conosce pace. Ma a rompere il silenzio della decenza per l’ennesima volta è un uomo. Shia LaBeouf, noto al mondo più per le sue provocazioni che per la carriera, ha rincorso una giornalista del Dazed solo per gridarle la sua indignazione. «Sono stato abusato», avrebbe detto, sciorinando dettagli raccapriccianti.  Il fattaccio, tuttora da confermare, sarebbe accaduto lo scorso febbraio, con l’attore di Nymphomaniac impegnato in un progetto artistico riassunto sotto l’hashtag #Iamsorry. Una performance al limite del reale, in cui LaBeouf non doveva far altro che stare immobile, silente al centro di una galleria di Los Angeles mentre a spettatori e curiosi era concesso pungolarlo in qualsivoglia modo. Con solletico, parole ed evidentemente molestie sessuali. «Una donna è venuta con il suo ragazzo», ha raccontato lui, «Mi ha frustato le gambe per dieci minuti, poi mi ha spogliato e stuprato. Se n’è andata via con il rossetto tutto sbavato». . Peccato solo che LaBeouf negli anni abbia abituato i media ad un «al lupo-al lupo» talmente costante da rendere quasi nulla la sua confessione odierna. (C. CAS.)

Le violenze sessuali sugli uomini, scrive “Il Post” il 14 febbraio 2014. Esistono e riguardano un numero consistente di persone, nonostante i luoghi comuni: nel Regno Unito una campagna del governo prova ad affrontare il problema. Quando si parla di violenza sessuale, e in particolare di stupro, generalmente ci si riferisce alla violenza di un uomo su una donna: è piuttosto raro, invece, pensare agli uomini come vittime di violenza sessuale, da parte di donne o di altri uomini, anche perché accade molto meno di frequente. Nel Regno Unito però se ne parla da qualche giorno, dopo che Damian Green, sottosegretario alla Giustizia, ha presentato un nuovo fondo di cinquecentomila sterline (circa seicentomila euro) dedicato al sostegno degli uomini vittime di violenza sessuale. Come ha spiegato parlando alla stampa, la decisione di istituire il fondo si deve al fatto che lo scorso anno in Inghilterra e Galles sono stati denunciati 2164 casi di violenza sessuale nei confronti di uomini dai 13 anni in su. Contestualmente all’annuncio del nuovo fondo per il supporto delle vittime di violenza Damian Green ha lanciato anche una campagna governativa chiamata #breakthesilence, “rompi il silenzio”, mirata a rendere più facile, anche per gli uomini, parlare e denunciare casi di violenza sessuale. Il fatto che comunemente la violenza sessuale si intenda come compiuta da un uomo verso una donna (perché è così nella maggior parte dei casi) costituisce uno dei principali problemi culturali nell’affrontare la violenza sessuale contro gli uomini. Fino a pochi anni fa, per esempio, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Come spiega un articolo pubblicato sul sito della CNN, è molto difficile per gli uomini riconoscersi come vittime di abusi sessuali. La questione era stata spiegata piuttosto chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan: «Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro». Ma c’è anche un secondo problema che rende difficile per gli uomini parlare delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. Aver subito una violenza di questo tipo viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere “meno uomini”, più fragili e dunque più simili alle donne (o meglio: agli stereotipi con cui vengono descritte le donne). Ma di cosa si parla? In primo luogo bisogna tenere presente che nelle varie giurisdizioni l’espressione violenza sessuale si riferisce genericamente a violenze diverse tra loro, che vanno dalla molestia fino allo stupro con penetrazione: riguardano quindi aspetti di violenza sia fisica che psicologica. In uno studio del 2009 dell’università californiana UCLA dedicato allo stupro degli uomini, Lara Stemple aveva cercato di dividere diverse tipologie di stupro sugli uomini mettendo insieme i dati disponibili. Nello studio vengono individuate tre situazioni in cui vengono perpetrate con maggiore frequenza violenze sessuali sugli uomini: nelle prigioni (negli Stati Uniti ogni anno circa il 5 per cento della popolazione carceraria subisce violenze sessuali), in regioni caratterizzate da conflitti armati (dove solo recentemente si è focalizzata l’attenzione su questo tipo di violenza sessuale) e, in generale, nei confronti dei bambini (un quarto delle violenze sessuali verso minori di 12 anni, negli Stati Uniti, è perpetrata su maschi). Tuttavia, come ha spiegato il New York Times, anche sugli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini pesano dei pesanti pregiudizi. In primo luogo, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria, ma «gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito». In secondo luogo, tendiamo a pensare che oltre una certa età, quando si smette di essere bambini, gli uomini non corrano più il rischio di essere violentati. C’è poi la questione degli uomini violentati dalle donne: se è piuttosto facile immaginare che una donna possa essere costretta da un uomo ad avere un rapporto sessuale, immaginare che un uomo possa essere forzato a un rapporto con una donna è più difficile. Si pensa insomma che gli uomini abbiano molto più controllo sulla loro erezione di quanto non sia vero e che comunque, essendo mediamente più forti fisicamente delle donne, potrebbero difendersi. Tuttavia i casi di uomini forzati ad avere rapporti sessuali penetrativi non sono rari – è molto comune per esempio che un’erezione venga scambiata per la volontà di avere un rapporto sessuale – e spesso si basano su un ricatto psicologico piuttosto che su quello fisico. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics ha mostrato come, a differenza di quello che ci potremmo aspettare e contrariamente a quello che succede tra i più giovani, per le persone con età compresa tra i 18 e 21 anni le percentuali di uomini e donne che hanno perpetrato una qualche forma di violenza sessuale almeno una volta nella loro vita sono piuttosto simili: il 48 per cento sono donne e 52 per cento uomini. Anche In Italia, come ha concluso una ricerca dell’università di Arezzo, la situazione è simile: «il fenomeno della violenza fisica, sessuale, psicologica e di atti persecutori, in accordo con la ricerca internazionale, vede vittime soggetti di sesso maschile con modalità che non differiscono troppo rispetto all’altro sesso».

Uomini stuprati dalle donne: i dettagli horror, cosa fanno ai maschi le donne predatrici", scrive “Libero Quotidiano il 2 dicembre 2016. Donne vittime ma anche donne carnefici. Che violentano sessualmente gli uomini. Una brutale (benché quasi incredibile) realtà fotografata nel questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention. Un articolo di Vice dà voce a Lara Stample, professoressa di diritto alla UCLA. Sono gli uomini che sono stati costretti a penetrare qualcuno - tramite la coercizione, l'uso di forza, o comunque in mancanza di consenso -: questo fenomeno entra nella categoria: "altre vittimizzazioni". Secondo la Stemple, "violenze come queste vengono minimizzate, sempre." Come riporta Dagospia, la terminologia vaga usata dal CDC per etichettare gli uomini vittime di violenze sessuali è sintomo di una tendenza preoccupante: "Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare," dice Stemple. "Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima". La studiosa da anni analizza il fenomeno, secondo lei sottovalutato, delle molestie sugli uomini. Nel 2014 ha pubblicato una ricerca sul tema degli uomini "costretti a penetrare". Un atto che come conseguenze negative può provocare: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Anche le donne, quindi, possono compiere abusi. "La gente pensa sia una cosa rara," dice Stemple. "Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile". Sono le "predatrici sessuali". Il 68,6 percento di uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di "stupratrici" donne. Un film con Demi Moore che "molestava" il suo subordinato, Michael Douglas, negli anni Novanta fece molto parlare su questo argomento.  Ci sono molti ostacoli per gli uomini che vogliono denunciare una violenza sessuale. Molti si vergognano, altri mentono e dicono di essere stati violentati da un uomo. Gli stereotipi non aiutano: gli uomini sono comunemente considerati "non stuprabili". Invece, a quanto pare, lo sono.

Congratulazioni al Regno Unito, che ha eliminato il problema della violenza sessuale contro gli uomini tagliando i fondi agli enti che si occupano di aiutare le vittime, scrive Mary Elizabeth Williams per “Salon” il 27 maggio 2015. “Survivors UK” è la più grande organizzazione del suo genere e ha ricevuto circa 70.000 sterline all’anno dal fondo per le vittime, stanziato dal Ministero della Giustizia, grazie ai servizi a sostegno di chi ha subito abusi sessuali, da piccolo o da adulto. Offre psicologi e specialisti nella zona di Londra e chat on line per gli individui più lontani, ma dal 31 marzo i soldi non arrivano più, cancellati dall’agenda di governo. L’organizzazione ha ora lanciato una campagna su “Change.org” chiedendo che venga riconosciuto il sostegno alle vittime maschili di violenza sessuale, dato che negli ultimi due anni, solo a Londra, sono cresciute del 120%, con 307 uomini violentati e 518 oggetto di serie molestie sessuali. A ricordarci che anche i ragazzi sono vittime di stupro c’è l’inchiesta sui 34 stupri e le 214 molestie perpetrate dal comico Jimmy Savile. Il portavoce Michael May dice che dall’ufficio del sindaco non è partita alcuna notifica sull’eventuale rinnovo dei fondi, ma l’ufficio del sindaco risponde che entro il 2016 saranno stanziate oltre 4 milioni di sterline per fornire supporto alle vittime di violenza domestica, incluse quelle maschili. Le aggressioni di uomini adulti e ragazzi da parte delle donne vengono spesso ignorate o sminuite. Anzi le vittime sono ritenute “fortunate”, come a dire che gli uomini non sono violabili e sono sempre consensuali. Lo stupro da uomo a uomo avviene spesso e le vittime, dopo il danno, vengono beffate e bullizzate. Vieni sodomizzato con una matita a scuola? Una bravata da ragazzi, rispondono i presidi. In America un detenuto su dieci viene violentato in cella, i bersagli preferiti sono gay, trans o bisessuali. Lo stesso accade negli ambienti militari. Eppure proprio non si riesce ad accettare l’idea che gli uomini possano essere offesi sessualmente. Quel giovane stuprato e picchiato così tanto da doversi sottoporre a una plastica facciale chiamò subito il centro anti-stupro per sentirsi rispondere: «Il servizio è solo per le donne». Gli hanno riattaccato. Bisogna garantire eguale trattamento a uomini e a donne. Nel 2014, tra Inghilterra e Galles, sono stati perpetrati 3.580 violenze sessuali su uomini. La vergogna è tale che solo il 2-3% dei maschi decide di denunciare, gli altri soffrono in silenzio.

Ci sono molti aspetti positivi nel questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention, spiega Lara Stample, professoressa di diritto alla UCLA. "Chi se ne occupa fa un sacco di domande e mette a proprio agio gli interlocutori," spiega. "In più, è un questionario che dà la possibilità di parlare apertamente del proprio corpo e stato di salute." Scrive Steven Blum per vice.com il 2 dicembre 2016. Ma nel questionario non viene data alcuna rilevanza agli uomini che sono stati costretti a penetrare qualcuno—tramite la coercizione, l'uso di forza, o comunque in mancanza di consenso: quei dati finiscono sotto la categoria "altre vittimizzazioni", insieme a esperienze un po' meno gravi come "molestie sessuali senza contatto fisico." "È inserito nella stessa categoria di un apprezzamento non richiesto, o di chi assiste a un atto di esibizionismo," dice Stemple. "Violenze come queste vengono minimizzate, sempre." La terminologia vaga usata dal CDC per etichettare gli uomini vittime di violenze sessuali è sintomo di una tendenza preoccupante, diffusa tra i ricercatori come tra chi aiuta le vittime di violenze e le forze dell'ordine, dice Stemple. L'implicazione è che "Per gli uomini, il sesso è sempre sesso." "Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare," dice Stemple. "Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima." Da tempo Stemple, decisa a contrastare la scarsa attenzione sul tema, studia le molestie sugli uomini. Nel 2014 ha pubblicato una ricerca sugli uomini vittime di violenza sessuale, in cui analizzava i questionari e scopriva che, se si considerano i dati sui rapporti sessuali non consensuali, gli uomini che "sono stati costretti a penetrare" non sono affatto una minoranza. La voce "costretti a penetrare" è diversa da come immaginiamo di solito una violenza sessuale, ha scritto la giornalista di Slate Hanna Rosin in un articolo sulla ricerca di Stemple. Ma può avere gli stessi effetti: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Mentre ancora non ci sono studi sufficienti per capire le conseguenze della violenza sessuale sugli uomini, la nuova ricerca di Stemple si concentra su chi compie la violenza. In un nuovo studio ha esaminato insieme ad altri due ricercatori tre sondaggi del CDC e del Bureau of Justice Statistics americani per capire il comportamento delle donne autrici di violenza sessuale, analizzando sia le vittime uomini che donne. Quello che hanno scoperto va decisamente contro l'idea che le donne non compiano abusi sessuali. "La gente pensa sia una cosa rara," dice Stemple. "Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile." La minaccia rappresentata dalle predatrici sessuali è sempre stata incompresa o minimizzata dalla comunità dei ricercatori. Anche se è dagli anni Trenta che si ipotizza che esista, studi sistematici sulla vastità e la natura del fenomeno non sono stati condotti fino agli anni Novanta. Ma anche allora sono stati limitati, e si concentravano principalmente sulle violenze sessuali ai danni di minori. Solo durante l'ultimo decennio le ricerche sul tema hanno iniziato a essere più estese. Il nuovo studio di Stemple, con la sua inclusività, interpreta gli ultimi sondaggi dei CDC facendo notare che il 68,6 percento di uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di stupratrici donne. E, tra gli uomini che dichiarano di essere stati costretti alla penetrazione—"la forma di rapporto non consensuale che gli uomini hanno più probabilità di esperire nell'arco della loro vita," secondo lo studio—il 79,2 percento fa riferimento a donne. Gli autori dello studio hanno anche cercato di individuare il modo in cui operano le donne che compiono queste violenze. Secondo i questionari del Bureau of Justice Statistics—che usano termini chiari come "pompini", cosa che secondo Stemple aumenta l'accuratezza della risposta—le detenute donne hanno più probabilità di essere violentate da altre detenute che dagli uomini del personale. Inoltre, l'80 percento delle violenze sessuali perpetrate dallo staff carcerario ha come responsabile una donna, e tra i minorenni questo numero sale addirittura all'89,3 percento. E forse il dato più sorprendente, considerato lo stereotipo della vita in carcere, è che lo stesso questionario ha rivelato che le violenze sessuali tra donne sono superiori a quelle tra uomini. Detto questo, è ancora più sorprendente il fatto che pochissime donne finiscano nel registro dei sex offender. Uno studio ha evidenziato che solo una quantità inclusa tra lo 0,8 e il 3 percento dei nomi sul registro sono di donne; altri dati sostengono che sia meno del 2 percento. È però vero che ci sono molti ostacoli per gli uomini che vogliano denunciare una violenza sessuale. Secondo lo studio di Stemple, alcuni si vergognano. Altri mentono e dicono di essere stati violentati da un altro uomo, o vengono convinti a minimizzare quello che è successo. Inoltre, gli stereotipi di genere per cui gli uomini sarebbero non stuprabili non aiutano. La maggioranza degli studenti universitari che hanno risposto a un questionario a riguardo nel 1992 non credeva che un "uomo forte e grande potesse essere stuprato da una donna", e più recentemente, nel 2012, partecipanti della stessa età hanno dichiarato che essere stuprati da una donna non sarebbe stata un'esperienza "così brutta". Le violenze attuate da donne su altre donne, poi, sono state studiate "anche di meno rispetto alle violenze sugli uomini," stando allo studio. "A causa della cultura sessista, lesbiche e bisessuali sarebbero vittime di abuso che passano quasi inosservate," si legge nello studio. "Anche se pochi centri anti-violenza hanno creato programmi orientati alla comunità LGBT, le donne lesbiche o bisessuali riportano che, in generale, le linee telefoniche, i gruppi di supporto e le organizzazioni di supporto legale sembrano indirizzate solo a casi in cui è l'uomo il colpevole." "Ho conosciuto un uomo che è stato stuprato da una donna da bambino," mi dice Stemple. "Ancora oggi, ha paura di rimanere solo in una stanza con una donna. Come puoi immaginare, non è facile per lui condividere questa paura con altre persone. Oggi ritiene di aver superato il tutto, ma è una rarità. Ed è facile capire che altri uomini condividono la sua paura ad aprirsi, soprattutto se il carnefice è una donna."

Inchiesta choc: ecco le donne che violentano gli uomini, scrive venerdì 2 dicembre 2016 "Diretta News". Da un questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention distribuiti in tutti gli Stati Uniti è emersa una realtà della quale si parla pochissimo, ma che invece è più diffusa di quanto si possa pensare. Gli stessi ricercatori tendono a sottovalutare il fenomeno che però ha numeri statisticamente rilevanti. Si tratta degli uomini che subiscono violenze sessuali da parte delle donne, uomini che, come spiega la Prof.ssa Lara Stample “sono stati costretti a penetrare qualcuno—tramite la coercizione, l’uso di forza, o comunque in mancanza di consenso”. Questi dati raccolti in forma anonima vengono solitamente messi sotto la categoria “altre vittimizzazioni”, insieme a esperienze meno gravi come “molestie sessuali senza contatto fisico”. “È inserito nella stessa categoria di un apprezzamento non richiesto, o di chi assiste a un atto di esibizionismo,” spiega ancora la Stemple. Secondo la professoressa che insegna diritto alla UCLA c’è “una tendenza preoccupante, diffusa tra i ricercatori come tra chi aiuta le vittime di violenze e le forze dell’ordine. Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare. Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima”. Gli effetti di chi viene obbligato a penetrare una donna sono simili a quelli di chi subisce violenze sessuali: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Ma chi sono le donne autrici di violenza sessuale? “La gente pensa sia una cosa rara,” dice Stemple. “Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile”. Si tratta delle cosiddette predatrici sessuali. La Stemple spiega: “Il 68,6 percento degli uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di stupratrici donne. E, tra gli uomini che dichiarano di essere stati costretti alla penetrazione—la forma di rapporto non consensuale che gli uomini hanno più probabilità di esperire nell’arco della loro vita, secondo lo studio—il 79,2 percento fa riferimento a donne”. La professoressa conclude ricordando un episodio significativo: “Ho conosciuto un uomo che è stato stuprato da una donna da bambino. Ancora oggi, ha paura di rimanere solo in una stanza con una donna. Come puoi immaginare, non è facile per lui condividere questa paura con altre persone. Oggi ritiene di aver superato il tutto, ma è una rarità. Ed è facile capire che altri uomini condividono la sua paura ad aprirsi, soprattutto se il carnefice è una donna”.

Violenza sessuale: quando ad essere stuprato è un uomo, scrive il 18 gennaio 2016 Nicola Maria Coppola su "Bossy.it". Smentiamo categoricamente che le vittime di violenza sessuale siano sempre e solo le donne. Ritenere che gli uomini siano sempre e solo gli assalitori e le donne sempre e solo le aggredite è fuorviante, tendenzioso, sessista e profondamente ingiusto. Nessuno vuole sottostimare la gravità e la drammaticità della violenza sessuale ai danni delle donne, anzi; i dati parlano chiaro, ed è cosa nota che la violenza contro le donne sia un fenomeno ampio e diffuso. Secondo l’Istat, sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subito stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Questi dati, che si riferiscono al solo 2015, sono agghiaccianti, e chi di competenza dovrebbe affrontare con ancora più serietà e con un progetto a lungo termine il fenomeno, al fine di porre in essere strategie di contrasto e campagne di sensibilizzazione tali da debellare questo abominio. È giusto, però, e intellettualmente corretto dire che anche gli uomini sono vittime di violenza sessuale. Sì, anche i maschi vengono stuprati, checché si pensi e si dica. E le situazioni e le dinamiche in cui avviene lo stupro sono esattamente le stesse in cui si consuma la violenza sessuale ai danni delle donne. Lo stupro non è di genere: è compiuto sia da uomini sia da donne, sia ai danni degli uomini sia ai danni delle donne, e come tale la questione dovrebbe essere affrontata. Diversamente da quanto previsto e garantito dalla legge alle vittime femminili, però, l’uomo trova oggettive ed obiettive difficoltà nel denunciare la violenza subita, poiché non esiste nessun centro di accoglienza, non è attivo nessun numero verde, non c’è nessuno sportello di ascolto pubblico o privato. Niente di niente! “Persino in commissariato – hanno fatto notare quei pochi ricercatori che si dedicano allo studio delle violenze sugli uomini – quando prova a sporgere denuncia, l’uomo che ammette di essere (stato) vittima di violenza carnale ha difficoltà ad essere creduto e si scontra con un atteggiamento di sufficienza, sottovalutazione del fenomeno, spesso anche derisione”. Gli uomini violentati, dunque, non subiscono soltanto danni psicologici e fisici, ma devono affrontare anche lo stigma di una società tendenzialmente omofoba e in cui i valori predominanti sono quelli legati al concetto di macho, di maschio, di homme viril. Gli uomini che sono stati stuprati tendono a tenere nascosta la violenza e non chiedono aiuto a nessuno perché, qualora la notizia dovesse diventare pubblica, verrebbero immediatamente bollati, additati come omosessuali, emarginati dalla comunità, e, probabilmente, abbandonati dalla famiglia. L’abuso sessuale diventa una colpa che pesa come un macigno e che fa male: molti uomini violentati finiscono addirittura per suicidarsi. È molto difficile per gli uomini vedersi – ed eventualmente accettarsi – come vittime di abusi sessuali. La questione è stata spiegata chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan in un’intervista rilasciata alla CNN e ripresa dal Post: “Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro”. C’è pure un secondo motivo che impedisce agli uomini di parlare apertamente o meno delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. “Aver subito una violenza di questo tipo – spiega ancora la Dottoressa Donovan – viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere meno uomini, più fragili e dunque più simili alle donne”. In una cultura come la nostra in cui l’uomo, solitamente, deve rispondere di fronte alla legge del proprio comportamento sessuale aggressivo, è assai difficile che riesca a trovare facilmente posto dall’altra parte della barricata e, quindi, come vittima. Ma la realtà è un’altra! Secondo alcuni studi, la percentuale degli stupri sugli uomini si aggira intorno al 50% del totale degli stupri, decimale in più decimale in meno. Per esempio, stando ai dati raccolti e diffusi da STIRitUP, un progetto di ricerca europeo che ha analizzato la violenza tra partner nei giovani e che è stato condotto in 5 Paesi europei, ovvero l’Italia, l’Inghilterra, la Bulgaria, Cipro e la Norvegia, in 3 Paesi su 5 (inclusa, ahinoi, la nostra amata Repubblica) il numero di vittime maschili di stupro è superiore a quello delle vittime femminili. Inoltre, un altro studio del 2015 sulla violenza tra partner realizzato in 6 Paesi europei – Portogallo, Grecia, Regno Unito, Germania, Austria ed Ungheria – ha mostrato che entrambi i sessi sono vittime di violenza sessuale in egual numero ed egual misura. Indagini effettuate in Paesi non-occidentali come l’Uganda e l’India hanno dato gli stessi risultati, mostrando chiaramente che il fenomeno non legato alla cultura locale ma è trasversale. Andando un po’ a ritroso nel tempo, uno studio del 2014 pubblicato sulla rivista dell’American Psychological Association Psychology of Men & Masculinity e riportato dettagliatamente qui, ha svelato che oltre 4 uomini su 10 (il 43%) di scuola superiore e università avevano vissuto una coercizione sessuale, che si era tradotta nella metà dei casi in un rapporto sessuale. Il 31% dei partecipanti allo studio aveva ricevuto coercizione verbale, il 18% coercizione fisica e il 7% coercizione tramite sostanze per sesso non consenziente, mentre il 26% ha riportato di aver ricevuto seduzioni sessuali non volute per lo stesso motivo. Il 95% degli intervistati ha inoltre riferito che i perpetratori di tali violenze fossero donne e l’1,6% che fossero uomini e donne contemporaneamente. Ancora, un altro studio comparso sull’American Journal of Public Health, che riprende i dati raccolti dal 2010 al 2012 dal Bureau of Justice Statistics, dai Centers for Disease Control and Prevention e dall’FBI, rivela che proprio l’FBI sostiene che le indagini federali rilevano un’elevata prevalenza di vittimizzazione sessuale tra gli uomini in molte circostanze simile alla prevalenza trovata tra le donne. “Abbiamo identificato i fattori che perpetuano percezioni errate circa la vittimizzazione sessuale degli uomini: la dipendenza dagli stereotipi di genere tradizionali, le definizioni obsolete e incoerenti, e i pregiudizi metodologici di campionamento che escludono i detenuti”. Fino a pochi anni fa, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Lo stupro veniva considerato e affrontato a livello legislativo come: “Conoscenza carnale – carnal knowledge – di una femmina con la forza e contro la sua volontà”. Nel 2013, però, la definizione è stata modificata, e oggi l’FBI chiarisce che lo stupro è: “La penetrazione, non importa quanto delicata, della vagina o dell’ano con qualsiasi parte del corpo od oggetto, o la penetrazione orale da un organo sessuale di un’altra persona, senza il consenso della vittima”. I pregiudizi e gli stereotipi che orbitano attorno al fenomeno dello stupro maschile toccano anche gli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini. Innanzitutto, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria ma, come ha fatto giustamente notare il New York Times “gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito”. In secondo luogo, si tende a pensare che superata una certa età, e quando, quindi, si smette di essere bambini, gli uomini non rischino più di essere violentati. Non è così, perché un dettagliato studio americano del 2012 su studenti universitari ha rivelato che il 51,2% era stato vittima di una qualche forma di violenza sessuale dall’età di 16 anni in poi. C’è poi la questione degli uomini stuprati dalle donne perché sì, ci sono donne che stuprano uomini. Come si può leggere in un paper pubblicato nel 2013 sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics e ripreso qui: “Non è raro credere che un uomo non possa essere stuprato da una donna. Gli stereotipi di genere possono rendere difficile immaginare una donna dominante costringere o forzare un uomo che non vuole a fare sesso. Di conseguenza, le vittime maschili di autori femminili sono giudicate più duramente delle vittime maschili di autori maschili. Inoltre, gli stessi comportamenti percepiti come sessualmente aggressivi quando commessi da un maschio possono essere percepiti come romantici o promiscui se commessi da una femmina. Ciò nonostante, i dati fisiologici suggeriscono che gli uomini possono essere stuprati; un’erezione non significa necessariamente eccitazione sessuale e può essere riflessogenica. Gli operatori sanitari per gli adolescenti hanno bisogno di valutare il potenziale dei propri pregiudizi di genere in questo settore in modo che possano essere più efficaci nell’identificare e nel trattare autori femminili e vittime maschili quando essi si presentano”. È bene smentire, dunque, la radicata convinzione che sia impossibile per i maschi rispondere sessualmente quando molestati sessualmente da donne: è stato dimostrato, infatti, che l’erezione può verificarsi in una varietà di stati emotivi, tra cui la rabbia e il terrore. Dunque, “L’induzione di eccitazione e l’orgasmo non indicano che i soggetti vittime di violenza abbiano acconsentito alla stimolazione. La difesa dei perpetratori costruita semplicemente sul fatto che la prova di un’eccitazione genitale o dell’orgasmo dimostri il consenso non ha validità intrinseca” e deve essere ignorata quando ci si trova dinanzi a un episodio di stupro maschile. Non è questa l’occasione per parlare di stupro maschile come strumento di guerra, ma è bene notare che durante i conflitti spesso vengono commessi stupri allo scopo di seminare il terrore tra la popolazione, di disgregare famiglie, di distruggere comunità e, in alcuni casi, di modificare la composizione etnica della generazione successiva. Come scrive Kirthi Jayakumar, avvocato specializzato in diritto internazionale pubblico e dei diritti umani, la violenza sessuale contro gli uomini in situazioni di conflitto ha l’obiettivo di distruggere l’essenza del “maschio” che dovrebbe essere custode della società, i capifamiglia di famiglie in un contesto sociale, e di sbriciolare la santità legata alla loro mascolinità. Che lo stupro nella sua dimensione generale e globale sia una piaga da debellare è noto a tutti. Che lo stupro ai danni delle donne sia un abominio lo è altrettanto. Che le vittime di stupro possano essere e siano uomini, invece, è un fenomeno ancora sottovalutato e sottostimato. Uomini e donne non sono poi così diversi: sono potenziali vittime di violenza sessuale allo stesso modo. Lo stupro maschile non vale meno di quello femminile e non deve essere taciuto, né come fenomeno tangibile né come evidenza possibile. Solo quando si comincerà ad affrontare con fermezza ed onestà intellettuale il problema della violenza sessuale ai danni degli uomini potremmo dire di aver compiuto un ulteriore passo verso l’equiparazione tra uomini e donne.

Sesso e psiche: quando le donne violentano gli uomini. Sono sempre di più gli uomini che denunciano violenze fisiche e psicologiche da parte delle compagne, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Uomini violentati, uomini perseguitati. Anche loro vittime di stalking. Oltre il 30% degli uomini subiscono danneggiamenti, pedinamenti, telefonate indesiderate da ex mogli o compagne. Non sono solamente le donne ad essere minacciate, violentate anche psicologicamente e ridotte in fin di vita da uomini malati d’amore e di desiderio di possesso. Dietro la violenza si nasconde anche la sofferenza di molti uomini. “La “normalizzazione” pubblica della violenza femminile attraverso messaggi pubblicitari, spettacoli  televisivi, cinema, stampa, video web sta creando assuefazione ed abbassando l’allarme sociale- spiega a Panorama.it, Sara Pezzuolo psicologa forense e autrice della ricerca “Violenza verso il maschile”- la scena di un uomo che schiaffeggia una donna in un reality suscita sdegno e scatena, giustamente, la condanna pubblica ma a ruoli invertiti, la stessa scena non suscita uguale sentimento ed uguali reazioni. Anzi, viene minimizzata diviene “normale”, perfino ironica”. Perché? Quali sono le differenze? E poi, gli episodi di violenza diventano “proponibili” anche pubblicamente, solo se ne sono vittime gli uomini? I dati della prima ricerca condotta in Italia sulle violenze sul sesso maschile sono sconcertanti, tanto quanto quelle sulle donne. Il 58,1% degli oltre mille uomini intervistati (1058), dichiara di subire violenze fisiche dalla propria partner con modalità tipiche maschili ovvero con percosse come calci o pugni. “Oltre il 63% degli uomini hanno dichiarato di subire la minaccia di violenze fisiche da parte della compagna e nel 60,5% dei casi, la violenza fisica risulta essere stata effettivamente messa in atto con modalità tipicamente femminili come graffi, morsi, capelli strappati - continua la psicologa – mentre il lancio di oggetti si attesta poco oltre il 50%”. Molto inferiore risulta la percentuale (8,4%) di coloro che dichiarano che una donna abbia posto in essere un’aggressione alla propria incolumità personale attraverso atti violenti che avrebbero potuto causare il decesso, come ad esempio il soffocamento, avvelenamento oppure ustioni. Resta però, l’utilizzo di armi proprie ed improprie che appare in circa un quarto (23,5% dei casi) delle violenze femminili. Il 15, 7% degli uomini di un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, invece, ha dichiarato di essere stato vittima di altre forme di violenza non contemplate nella ricerca come ad esempio: tentativi di folgorazione con la corrente elettrica, investimenti con l’auto, mani schiacciate nelle porte (in un caso nel cassetto), spinte dalle scale. Ma ad essere inquietanti per quanto sorprendenti sono i dati relativi alle violenze sessuali subite dagli uomini. Infatti, l’8,6% sono gli uomini vittime di violenza sessuale attraverso l’utilizzo della forza o delle minacce. In questi casi l’uomo denuncia di essere costretto ad avere rapporti sessuali in forme a loro non gradite come ad esempio rapporti sado-maso oppure rapporti nel periodo mestruale. Non solo, il 4,1% dei soggetti intervistati dichiara di essere stato forzato ad avere rapporti sessuali con altre persone incluso sesso di gruppo o scambi di coppia. “Ma ad essere risultate interessanti sono le note che hanno inserito negli spazi, previsti in ogni batteria di domande, per l’aggiunta facoltativa di ulteriori dettagli”, continua la psicologa. Tra le costrizioni sgradite, infatti, figurano alcune richieste “estrose”, ma vissute con disagio, vergogna o turbamento da parte degli uomini. E quali sono? La pretesa di accoppiamenti in luoghi aperti pur potendo disporre di un’abitazione, la presenza sul letto dei due gatti della partner, la richiesta da parte della moglie di solo sesso orale escludendo per 18 mesi la penetrazione. “Ed alcune richieste più “violente” in merito alle quali non sembra opportuno scendere nei dettagli - precisa Pezzuolo - ma che comunque comportano lesioni visibili, in alcuni casi permanenti come piccole cicatrici ed ustioni”. Solo il 2,2% degli uomini ha dichiarato di non aver mai subito alcun tipo di violenza sessuale. “Affrontando nella ricerca l’argomento della sessualità, risulta evidente come la difficoltà maschile nel riconoscere di aver subito violenza sessuale sia sensibilmente minore rispetto alla percezione di subire violenza fisica o psicologica - prosegue Sara Pezzuolo - infatti nessun item sulla violenza sessuale registra risposte positive in percentuali superiori al 50%”. La percentuale maggiore, il 48,7% dei casi, riguarda il rapporto intimo avviato ma poi interrotto dalla partner senza motivi comprensibili. “Gli uomini, pur riconoscendo alla donna la libertà di interrompere il rapporto sessuale in qualsiasi momento, riferiscono di rimanerne mortificati, umiliati, depressi. Nessun maschio afferma di pretendere la continuazione di un rapporto non più desiderato dalla donna, o tanto meno di costringerla a portarlo a termine; i soggetti intervistati esprimono la libertà di non essere costretti a fingere indifferenza e/o a negare la frustrazione che deriva dal rifiuto, nonché le conseguenze sul piano fisico ed emotivo.  La gamma di turbamenti riferiti va dal malessere fisico all’insonnia, dalla mortificazione nel sentirsi rifiutato al dubbio di non essere più desiderato; dal timore di non essere in grado di soddisfare la partner al dubbio che in precedenza la stessa abbia simulato un desiderio ed un piacere che non ha mai provato; dal dubbio del tradimento alla sensazione di inadeguatezza; dal timore per la stabilità della coppia al calo dell’autostima”. Insomma forme di violenza fisiche che violentano anche la mente. Ma la violenza che colpisce i 3/4 degli uomini è quella psicologica ed economica. Oltre il 75,4% dichiara di essere insultato, umiliato e di provare sofferenza dalle parole utilizzate dalla propria compagna. Ma quali sono le forme di “controllo e costrizione psicologica” più frequenti? Il 68,8% degli uomini subiscono limitazioni o impedimenti nell’incontrare i figli o la propria famiglia d’origine mentre il 44,5% per le attività esterne: sport, hobby, amicizie; il 39,5% denuncia imposizioni in merito ad aspetto e comportamento in pubblico; controllo sul denaro speso, quanto e come nel 32,9% dei casi. Ma la forma più frequente è atteggiamento ostile della donna qualora non avesse l’ultima parola sulle scelte comuni. E questo accade nel 68,2% dei casi. L’uomo è costretto a subire, a differenza delle donne, le “minacce trasversali” ovvero aggressione verso oggetti personali della vittima, persone care e persino animali domestici. “Altro fenomeno emergente rilevato dal questionario è quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza – conclude la psicologa Pezzuolo - tale problematica compare in 512 casi sul totale dei casi esaminati (48,4%) proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. La domanda che ha raccolto il maggior numero di risposte positive riguarda le provocazioni fisiche e verbali nel 77,2% dei casi”.

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta- che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”. Il fenomeno della violenza fisica, sessuale, psicologica e di atti persecutori, come è stato rilevato da numerose ricerche condotte in altri Paesi, anche in Italia vede vittime soggetti di sesso maschile con modalità che non differiscono troppo rispetto all’altro sesso. Non solo. “I dati dimostrano che le modalità aggressive non trovano limiti nella prestanza fisica o nello sviluppo muscolare - continua la psicologa - anche un soggetto apparentemente più “fragile” della propria vittima può utilizzare armi improprie, percosse a mani nude, calci e pugni secondo modalità che solo i preconcetti classificano come esclusive maschili”. Ma la maggior parte dei soggetti intervistati da Sara Pezzuolo che hanno dichiarato di avere figli, ha fatto emergere l’effettiva strumentalizzazione che i bambini hanno all’interno della coppia in crisi. “E’ proprio la separazione e la cessazione della convivenza, specialmente in presenza di bambini a costituire un terreno particolarmente fertile per comportamenti che implicano una violenza psicologica”. Quali sono le pressioni più frequenti attuate dalle donne che si trasformano in vere e proprie violenze? Il 68,4% del “gentil sesso” minaccia costantemente il compagno di chiedere la separazione, togliergli casa e risorse e di ridurlo in rovina; il 58,2% lo minaccia di portargli via i figli mentre il 59,4% di ostacolare i contatti con il proprio figli. Il 43,8% delle donne addirittura minaccia il compagno di impedirgli definitivamente ogni contatto con i figli. Ma questa violenza femminile talvolta non travolge solamente il compagno: “La violenza psicologica- continua Pezzuolo - si estende spesso all’interno ambito parentale paterno. La minaccia implica pertanto che i figli non potranno avere più alcun contatto non solo col padre, ma nemmeno con nonni, zii, cugini”. L’utilizzo strumentale dei figli come mezzo di rivalsa emerge in percentuali rilevanti, indifferentemente nelle coppie coniugate, conviventi o separate, sia prima, durante e dopo la separazione. Inoltre dall’indagine emergono tipologie di violenze psicologiche sul maschio anche nell’atto della procreazione. “La paternità imposta con l’inganno comprende perlopiù casi in cui la gravidanza non è frutto di un rapporto consolidato. La partner (114 risposte, in 21 casi la moglie o compagna stabile, in 93 casi una compagna occasionale) matura la decisione di procreare e ne tiene all’oscuro l’uomo - prosegue la psicologa - mettendo in atto strategie ingannevoli, mentendo sulla sua fertilità e/o sull’uso di anticoncezionali, per poi chiedergli di “assumersi le proprie responsabilità”. Questi atteggiamenti come vengono subiti e vissuti dagli uomini? “Tale assunzione di responsabilità, quando è frutto di una scelta unilaterale imposta all’altro con l’inganno, risulta essere vissuta - e descritta nelle domande aperte - come una grave forma di violenza e prevaricazione; va detto che in alcuni casi la descrizione avviene anche attraverso toni particolarmente aspri, rabbiosi, offensivi”. L’interruzione della gravidanza contro il parere paterno si verifica nel 9,6% dei casi, la paternità imposta con l’inganno nel 10,7% mentre l’attribuzione fraudolenta di paternità, o tentativo di attribuzione nel 2,7% dei casi presi in esame. Altro fenomeno emergente che il questionario ha rilevato è proprio quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza. Tale problematica emerge in 512 casi sul totale 1.058 casi esaminati proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. E la domanda posta agli uomini da Sara Pezzuolo che ha raccolto il maggior numero di risposte positive con il 77,2% riguarda proprio le provocazioni fisiche e verbali. Ecco alcune delle domande del questionario che Panorama.it, vi mostra con il numero dei soggetti e la percentuale di risposta.

1 - è capitato che una tua partner si sia arrabbiata nel vederti parlare con un’altra donna (Risposte: 726) 68,6%.

2 - è capitato che una tua partner ti abbia umiliato o offeso di fronte ad altre persone, trattandoti da sciocco, mettendo in ridicolo le tue idee o raccontando tuoi fatti personali (99) 66,1%.

3 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato sgradevolmente perché non riesci a guadagnare abbastanza(538) 50,8%.

4 - è capitato che una tua partner ti abbia invitato sarcastica a trovare un secondo o terzo lavoro (373) 35,2%.

5 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato perché le fai fare una vita modesta (526) 50,2%.

6 - è capitato che una tua partner ti abbia paragonato, irridendoti, a conoscenti, colleghi, mariti di amiche etc., che godono di posizioni economiche migliori della tua (405) 38,2%.

7 - è capitato che una tua partner abbia rifiutato di partecipare economicamente alla gestione familiare in maniera proporzionale al suo reddito (511) 48,2%.

8 - è capitato che una tua partner abbia criticato e/o offeso i tuoi parenti pur sapendo che questo ti ferisce (767) 72,4%.

9 - è capitato che l'atteggiamento di una tua partner sia diventato ostile quando non era lei ad avere l’ultima parola sulle scelte comuni (726) 68,2%

10 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per difetti fisici (bassa statura, calvizie, occhiali) (311) 29,3%.

11 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per abbigliamento, calzature, pettinatura, barba incolta, aspetto in generale (519) 49,1%.

12 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato per come ti occupi della casa o per come educhi i figli, ad esempio dicendoti che sei un incapace, un buono a nulla etc. (650) 61,4%.

13 - è capitato che una tua partner ti abbia ignorato, non ti abbia parlato, non abbia preso in considerazione ciò che dici o non abbia risposto alle tue domande (720) 68,1%.

14 - è capitato che una tua partner ti abbia insultato o preso a male parole in un modo che ti ha fatto stare male (798) 75,4%.

15 - è capitato che una tua partner abbia cercato di limitare i tuoi rapporti con la tua famiglia, i tuoi figli o i tuoi amici (728) 68,8%.

16 - è capitato che una tua partner ti abbia impedito o cercato di impedirti di fare sport, di coltivare un hobby o altre attività da svolgere fuori casa (471) 44,5%.

17 - è capitato che una tua partner ti abbia imposto o cercato di importi come vestirti, pettinarti o comportarti in pubblico (418) 39,5%.

18 - è capitato che una tua partner abbia messo insistentemente in dubbio la tua fedeltà e/o la tua sincerità (638) 60,3%.

19 - è capitato che una tua partner ti abbia seguito e/o abbia controllato i tuoi spostamenti (389) 36,7%.

20 - è capitato che una tua partner abbia controllato costantemente quanto e come spendi il tuo denaro (349) 32,9%.

21 - è capitato che una tua partner abbia danneggiato o distrutto i tuoi oggetti o beni personali, o minacciato di farlo (498) 47,1%.

22 - è capitato che una partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri figli (282) 26,6%.

23 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo a persone a te vicine (243) 22,9%.

24 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri animali domestici (85) 8,1%.

25 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di uccidersi, o altri gesti di autolesionismo (343) 32,4%.

26 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di chiedere la separazione e/o sbatterti fuori di casa e/o volerti vedere ridotto in rovina (724) 68,4%.

27 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di portarti via i figli (615) 58,2%.

28 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti più vedere i figli o di farteli vedere se e quando vuole lei (631) 59,4%.

29 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti avere più alcun contatto con i tuoi figli, nemmeno telefonico, escludendo definitivamente dalla loro vita te e la tua famiglia (464) 43,8%.

30 - è capitato che una tua partner ti abbia negato la paternità, interrompendo una gravidanza che tu avresti desiderato fosse portata a termine (102) 9,6%.

31 – è capitato che una tua partner ti abbia imposto una paternità con l'inganno (114) 10,7%.

32 - è capitato che una tua partner ti abbia fatto credere o abbia tentato di farti credere che fosse tuo un figlio concepito con un altro uomo (29) 2,7%.

33 - è capitato che una tua partner abbia provato a costruire false accuse di molestie e/o percosse nei tuoi confronti, nei confronti di tuoi familiari o nei confronti dei vostri figli (512) 48,4%.

34 - hai mai avuto l’impressione che una tua partner provasse a provocarti, verbalmente e/o fisicamente, con l’intento di scatenare una tua reazione (816) 77,2%.

35 – non ho mai subito violenze psicologiche o economiche da parte di una donna (22) 2,1%. 

DEL MASCHICIDIO MEGLIO NON PARLARNE.

Allarme maschicidi Gli uomini vittime quanto le donne Ma nessuno ne parla. Non solo femminicidi. Gli uomini uccisi in coppia, tra amici, vicini di casa e colleghi sono stati 120 l'anno scorso. Una cifra identica agli omicidi ai danni di mogli e compagne, scrive Barbara Benedettelli, Sabato 09/06/2018, su "Il Giornale".  Centoventi donne. Centoventi uomini. Sono le vittime di omicidi in famiglia, in coppia, tra amici, vicini di casa, colleghi di lavoro. Tante, troppe. Donne e uomini italiani uccisi in egual misura. All'interno delle Relazioni interpersonali significative (Ris), dove dovrebbero esserci amore, affetto, protezione e solidarietà, si muore di morte violenta più che in ambito criminale. Secondo gli ultimi dati del Viminale nell'Italia del 2017 sono state uccise volontariamente 355 persone: di queste, ben 236 nelle Ris. Le donne sono 120, gli uomini 116 più 4 ammazzati all'estero dalle loro partner che non avevano accettato la fine della relazione, o per soldi. Sono i drammatici dati che emergono dall'indagine «Violenza domestica e di prossimità: i numeri oltre il genere nel 2017», realizzata attraverso la ricerca dei fatti sulle testate web locali e nazionali. In occasione della stesura del pamphlet Il maschicidio silenzioso (Collana Fuori dal Coro, Il Giornale), e di 50 Sfumature di violenza (Cairo), mi sono posta semplici domande: perché, nonostante tutto quello che si fa per contrastare la violenza di genere, le donne muoiono in media nello stesso numero? Perché se alla base del fenomeno c'è una relazione, lo si guarda da un solo lato e con uno schema fisso e semplicistico che non tiene conto della complessità e della natura di ciò che si osserva? È nata così l'indagine di cui pubblichiamo parte dello sconcertante risultato. La raccolta dei dati, poi divisi con criteri in grado di dare a ogni omicidio la corretta collocazione, si è avvalsa dello stesso gioco di prestigio che i teorici del femminicidio fanno nel rilevare le vittime femminili: non tener conto del fondamentale rapporto vittima/carnefice e del movente, fondamentali, invece, per determinare le cause e intraprendere le giuste azioni preventive. E se facciamo lo stesso esercizio mistificatorio e la stessa deviazione culturale, potremmo dire che nel 2017 escludendo i delitti in ambito criminale - i «maschicidi» sono stati più dei «femminicidi»: 133 contro 128. Dati che emergono dai fatti e i fatti, per dirla con Hannah Arendt, sono ostinati. Ma si possono davvero chiamare così? Il numero emerge dalla somma tra gli omicidi avvenuti nelle Ris e quelli il cui autore è uno sconosciuto che ha ucciso persone innocenti: è la stessa somma fatta da chi sostiene a spada tratta il femminicidio, e che, per esempio, conta anche le donne massacrate in casa o in strada da chi voleva rapinarle. Ma non sono state uccise in quanto donne, semmai in quanto vulnerabili. In questo ambito muoiono soprattutto anziani e ragazzi, e in particolare sono i maschi a essere uccisi in modo sproporzionato: 17, contro 8 donne, nel 2017. Sproporzione che rimane anche negli omicidi di prossimità, quelli tra vicini di casa, conoscenti, amici, colleghi: le vittime maschili qui sono 39, 14 quelle femminili. La parità si raggiunge dove c'è un legame di sangue: 40 e 40. Però solo l'ingiusta morte delle donne suscita scandalo, orrore, impegno civile e politico. Per gli uomini assassinati all'interno delle stesse relazioni e per gli stessi motivi, niente pietas né phatos, niente liste tragiche con nomi e cognomi. Li abbiamo contati noi, per farli contare. Lo chiede la Convenzione di Istanbul, che riconosce anche le vittime maschili. Ottanta persone massacrate in famiglia: tra i carnefici anche 15 donne, che hanno ucciso più femmine (8) che maschi (7). Di queste, 8 sono madri (due suicidate), contro 3 padri (tutti suicidati); questi undici assassini hanno ucciso 16 minori: 8 maschi e 8 femmine, 3 delle quali, più un bambino, morti per mano di un solo papà. La moglie che maltrattava il suo compagno e i quattro figli era in cura, lui doveva occuparsi di loro e aveva smesso di lavorare, aveva problemi economici ed è entrato in una devastante depressione. Dov'erano le istituzioni? Proprio qui c'è un'inquietante parità di genere per le vittime e un'inquietante disparità: le madri uccidono di più, e più dei padri sanno sopravvivere al senso di colpa e all'orrore che hanno commesso. Anche in ambito cosiddetto passionale le donne, quando ammazzano o sono lasciate, difficilmente si tolgono la vita. Gli omicidi-suicidi in ambito familiare e di coppia sono 30: 28 uomini e 2 donne; i suicidi noti, dove la causa è legata alla fine di una relazione, sono 39: 32 uomini, almeno 8 dei quali disperati per il distacco forzato dai figli, e 7 donne, tra cui due bambine di 12 e 14 anni che soffrivano la separazione dei genitori. Ancora in ambito cosiddetto passionale, su 66 omicidi con vittime femminili quelli che tecnicamente si potrebbero definire femicidi sono 42 (esclusi 4 casi non risolti), di cui 14 commessi da stranieri provenienti soprattutto dai Paesi dell'Est e dal Nordafrica. Gli altri 20, in cui il movente non ha a che fare col genere, sono coniunxcidi (da coniunx= coniuge), neologismo adottato nell'indagine che vale sia per gli uomini che per le donne a differenza di uxoricidio (da uxor=moglie). Gli italiani che hanno perso la vita per mano di una donna che avrebbe dovuto amarli sono 19. Le assassine hanno agito tutte per difesa o perché maltrattate come retorica femminista comanda? No. Lo hanno sostenuto in 6, così come hanno fatto 5 uomini, in linea con i risultati di una meta-analisi che prende in considerazione le indagini fatte in diversi paesi: la media di questo movente varia in base alla nazionalità dal 5% al 35% quando a colpire sono le donne e dallo 0 al 20% quando sono gli uomini. In ambito omosessuale le vittime sono 2, mentre sono 20 (tra cui 2 minorenni) gli uomini massacrati dai rivali o dagli ex delle loro compagne: maschicidi che hanno a che fare con il senso di possesso e l'onore, dunque anche, ma non solo, con la cultura patriarcale. E anche qui gli autori stranieri sono tanti (12). Insomma, siamo di fronte a un'enorme costellazione d'orrore e di disperazione, che deve essere colta nel suo tremendo e allarmante insieme. In totale i morti sono 309 se contiamo anche i suicidi: 129 femmine e 180 maschi. Non riconoscere la psicopatologia, l'isolamento di coppie e persone sole di fronte alle difficoltà e ai drammi della vita, valutare solo le ragioni antropologiche e culturali, concentrarsi solo sulle vittime senza mai guardare, con rispetto, se hanno qualche responsabilità, tutto questo non permette di attuare azioni capaci di impedire scelte folli, che non vanno mai giustificate, ma devono essere studiate e comprese per quello che sono. Senza mistificazioni inique, né teoremi ideologici politicamente e scientificamente scorretti.

La strage dei qualunquisti tra jihad e femminicidi, scrive Giuseppe Marino, Venerdì 5/08/2016, su "Il Giornale". C'è la guerra del terrore, la guerra nelle famiglie e la guerra dei distinguo. Le prime due fanno vittime vere, di carne e sangue. La terza ci risparmia il dolore, ma a restare sul terreno è il buon senso. Il parallelo tra femminicidi e terrorismo jihadista, sdoganato ora anche dal Papa, è in realtà da tempo una costante dei commenti da bar o social network e ora approda pure sui giornali. Ogni volta che un uomo uccide una donna, specie se con modalità crudeli, si risveglia un fronte di commentatori pronto a rammentarci come in casa nostra sia presente una violenza in tutto e per tutto, secondo loro, paragonabile a quella dell'Isis. Questo fronte si fa forte di statistiche agghiaccianti sui femminicidi che parlano di 74 donne uccise nel primo semestre del 2016 e, su questo si può convenire, consola poco il fatto che il dato sia in netto calo rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Cifre che andrebbero scandagliate meglio, non per negare il fenomeno ma per cercare di averne un quadro obiettivo: sommano aritmeticamente delitti parimenti orrendi, e certo per chi perde una madre o una sorella poco conta che la molla sia il credo religioso, il sessismo o l'incapacità di gestire i propri sentimenti, ma anche delitti spesso molto diversi. È capitato ad esempio di veder includere negli elenchi di femminicidi la storia di una mamma e di una figlia uccise dal marito, trascurando il fatto che l'uomo in questione aveva sterminato l'intera famiglia, compreso il figlio maschio. È tutto uguale, non c'è differenza? Chi osserva dall'esterno dovrebbe restare lucido, se davvero vuole capire i due fenomeni. E invece, gli stessi commentatori che fanno fioccare i distinguo sul terrorismo islamico, diventano improvvisamente di bocca buona quando si tratta di uomini che odiano le donne. Se un giovane franco tunisino macella una folla pacifica sul lungomare di Nizza, questi «analisti» seguono un copione ormai fisso fatto di cavillosi distinguo: prima si tira fuori la cartella clinica, perché probabilmente è un pazzo. Se poi salta fuori che urlava Allahu Akbar e aveva programmato la strage nei dettagli, si precisa che in realtà era nato in Occidente, era uno di noi, l'Isis non c'entra niente. Se infine salta fuori che aveva una rete di complici e precisi ordini di morte, allora scatta l'esame di Corano: mica lo conosceva così bene, beveva pure alcol. Se invece un uomo uccide la moglie, la sorella o la figlia c'è poco da distinguere: tanto c'è una nuova voce del vocabolario creata apposta: è femminicidio. E improvvisamente anche la cartella clinico-psichiatrica non conta più. Che la religione abbia giustificato e istigato la violenza non è novità recente e non sorprende certo che il capo della più grande chiesa del mondo non ci tenga a sottolineare il nesso fede-sangue. Che a negarlo sia chi da sempre crede che la religione sia l'oppio dei popoli svela una partigianeria mentale che si rivela in tutta la sua flagranza quando poi si aggiunge che la violenza maschile è figlia della cultura cattolica. È una forma di sfruttamento delle donne a fini di polemica politica. Anche questo è cavalcare le paure, ma i populisti sono sempre gli altri.

Le donne italiane "portatrici sane" di pregiudizi maschilisti. Un’indagine rivela che spesso sono loro a coltivare stereotipi di genere su ruoli e opportunità nella famiglia e nella società, scrive Cristina Bassi, Domenica 10/01/2016, su "Il Giornale". Le donne italiane sono “maschiliste”? A quanto pare, sì. Almeno, coltivano una serie di stereotipi di genere, gli stessi e a volte persino di più dei concittadini maschi. Lo rivela un’indagine dell’Osservatorio Cera di Cupra. Alle domande dei ricercatori di Eikon Strategic Consulting il campione maschile e quello femminile hanno dato risposte spesso simili, a dimostrazione di avere visioni condivise e non antagoniste. Ma anche che le donne credono ancora in modo radicato nei tradizionali ruoli di genere, più o meno consapevolmente. L’indagine chiedeva di immaginare una storia con protagonisti un uomo e una donna che vivono varie fasi della vita. Ecco le risposte più significative. Professione: per la donna quelle citate più di frequente sono impiegata e insegnante, dal 40 per cento sia dei maschi sia delle femmine intervistate. Molto bassa la percentuale di risposte (minore nel campione femminile che in quello maschile) che assegnano alla donna un lavoro meno tradizionale, come imprenditrice, medico, informatica. Matrimonio: il desiderio di sposarsi, e quello di una famiglia tradizionale e stabile, è attribuito alla donna dalla maggioranza del campione maschile (52,8%) e femminile (43,4%). Mentre all’uomo si attribuisce di più la scelta della convivenza (la pensano così le donne nel 49,2% dei casi e gli uomini nel 53,6%). Vita domestica: sia le donne sia gli uomini intervistati credono nella collaborazione nei lavori domestici. Tranne che per lo stirare, considerato ancora prerogativa delle mogli: più dal campione femminile (76,5%) che da quello maschile (69,5%). L’eventualità che invece il marito possa fare il casalingo, cioè occuparsi da solo delle faccende, è considerata improbabile. Ancora una volta in percentuali maggiori tra le donne che tra gli uomini. Cura dei figli: nell’ipotesi immaginata dalla storia che nascano due gemelli, solo il 6 per cento del campione femminile risponde che può essere il compagno a prendersi una pausa dal lavoro per seguire i figli, contro il 14,3 per cento del campione maschile. Che sia la mamma a restare a casa per accudire i bambini è la risposta data dal 36,1 per cento degli uomini intervistati e, percentuale più alta, dal 41,2 per cento delle donne. Generazioni future: su quali saranno gli interessi dei figli della coppia sia gli uomini sia le donne indicano come scontate le preferenze “classiche” femminili per la figlia (danza, disegno, bellezza) e per il figlio quelle prettamente maschili: tecnologia, calcio, arti marziali. Gli stereotipi di genere così si trasmettono anche alle generazioni future. Sembra quindi che le stesse donne italiane non siano pronte a delegare ai compagni la cura della casa e dei figli. Ma se non si concepiscono ancora pari ruoli e opportunità in famiglia, è difficile immaginarli per l’intera società. E pare che gli ostacoli siano i pregiudizi radicati anche, e a volte di più, nelle donne. Il progetto dell’Osservatorio Cera di Cupra segue l’evoluzione del ruolo femminile. È arrivato alla sesta edizione, che per il 2015 si è occupato appunto di pari opportunità. L’indagine socio antropologica “Pari opportunità: un’educazione libera da stereotipi” si chiedeva se le donne sono pronte al cambiamento oppure sono “portatrici sane” di pregiudizi maschilisti. Il ha anche assegnato 12 borse di studio ad altrettante studentesse.

Femmine e maschi (cidio), scrive Eugenia Nicolosi su “Live Sicilia” Domenica 11 Agosto 2013. Quindi adesso in Italia il femminicidio è illegale. Mi raccomando, state attenti che mo' siete perseguibili per legge se uccidete una femmina. Ci voleva proprio una norma che finalmente spedisse di filato in galera chi le uccide, le femmine. Adesso sì che mi sento, da femmina, molto più sicura. Mica come prima, che i killer potevano andarsene in giro indisturbati a sparare o accoltellare le femmine senza rischiare nessuna pena o che il marito violento dovevamo tenercelo in casa e preparargli pure lo spezzatino, altrimenti oltre all'occhio nero dovevamo sorbirci anche la paternale del poliziotto all'antica e pro matrimonio. Le nuove norme prevedono infatti non solo che è possibile denunciare l'aggressione ma anche che, attenzione, la polizia, dietro richiesta della femmina, ovviamente, può buttare fuori da sotto il tetto coniugale il picchiatore. In effetti hanno fatto bene, è un'idea geniale definire il femminicidio emergenza nazionale. Stava diventando un Far West, questa Italia, paese in cui gli omicidi sono considerati giuridicamente diversi a seconda di chi sia la vittima. Altro che parità tra i sessi, uccidere una femmina è ormai cosa ben diversa, un vero e proprio reato. Ricapitoliamo quindi: le cose degli altri non vanno rubate, gli omosessuali non vanno offesi, le femmine non vanno uccise. Sarà difficile certo, quest'ultima è una consistente novità, ma cercheremo tutti di tenerla bene a mente. Anche se c'è un interrogativo che mi assilla, la femmina in questione è la femmina umana o hanno usato la parola 'femmina' per estendere il concetto alle femmine di qualunque specie? Nell'incertezza forse è meglio che stasera, se appiccico una zanzara al muro, mi accerti prima che sia una zanzara maschio. Comunque, facendo lo sforzo di parlare di cose serie, per una volta, e analizzando il decreto, ci sono delle falle di struttura che fanno pensare ad stesura quantomeno sbrigativa, per non dire inutile, maschilista e aggravante di una situazione religioso-culturale come quella italiana in cui la famiglia è considerata cosa sacra. Prima fra tutte è l'irrevocabilità della querela, l'irrevocabilità della querela non fa altro che dissuadere dal querelare. Sbagliato per quanto sia un qualcosa, l'aut aut non aiuta. Le donne continuano ad essere considerate diverse dagli uomini. Le donne continuano ad essere chiamate femmine dai 'maschi'. Il presupposto è che l'uomo non possa essere vittima di stalking, di violenza psicologica o fisica. Non tutti i cittadini sono pronti ad una novità simile. A volte possono essere sporte denunce prive di reali fondamenti e in quel caso, l'innocente querelato non avrebbe alcuna tutela. Non si fa cenno alla prevenzione o all'educazione alla non violenza. Parlare di punizione per il colpevole e non di aiuto per la vittima non è altro che nascondersi dietro il dito. Molte persone pensano che questa legge sia fumo negli occhi, un cavallo di Troia: sono inseriti all'interno del decreto nuove norme relative a sanzioni e pene per Ultras e No Tav. Cosa c'entra? È, dopotutto, il Decreto Sicurezza. Il mio word continua incredulo a segnarmi in rosso la parola femminicidio. Sì, esiste. Ultimo, ma più importante, punto: nel Codice Penale non si fa riferimento al maschicidio, questo significa che ho ancora tempo per risolvere quelle due cosine che c'ho in sospeso?

Femminicidio o Maschicidio? Scrive “Il Volo di Dedalo” martedì 10 agosto 2010. Si parla sempre della violenza contro le donne. Ogni omicidio o altra violenza contro le donne, raccontati dai media con morbosa enfasi, diventa sempre occasione per mettere il genere maschile sul banco degli imputati. "Gli uomini odiano le donne". A sentir parlare questi tromboni, pare chissà quale carneficina contro le donne stia accadendo in Occidente! Roba da WWF per la salvezza di una specie in via di estinzione ;-)Ma per fortuna non è così. Le donne non rischiano affatto l'"estinzione", anzi sono più numerose degli uomini e mediamente campano quasi 10 anni in più degli uomini (84 anni contro 75 anni degli uomini). Ma quante sono le donne che vengono uccise in Italia ogni anno "per mano maschile"? Vedendo i dati Istat tra il 2002 e il 2006 e facendo una media, vediamo che il numero medio di donne ammazzate ogni anno è 160, di cui 20 da altre donne. Dunque, 100 è il numero medio di donne ammazzate da uomini. Dato allarmante, certo, ma non tanto per poter affermare che la "prima causa di morte delle donne italiane è la violenza maschile". E comunque di uomini ammazzati ne sono oltre 500. Quindi: Per ogni donna ammazzata, vi sono almeno 3 uomini ammazzati. E ogni 4 morti ammazzati, 3 sono maschi. (Rapporto EURES-ANSA). Ciò significa che la "violenza maschile" uccide più uomini che donne. Tra l'altro non tutte queste 100 donne morte ammazzate mediamente ogni anno, lo sono state per motivazioni di cosiddetta "violenza di genere"(cioè ammazzate da ex mariti mollati e spennati o da ex fidanzati che non si sono dati pace della rottura non voluta del rapporto), ma anche per circostanze inerenti alla criminalità (ad es. rapine). Ma ammettiamo pure che tutte queste 100 donne ammazzate mediamente ogni anno da mano maschile lo siano state in circostanze di "violenza di genere"(che non esiste, ricordiamo), ciò non dimostra affatto i vari dogmi femministi sulla violenza maschile. Tra l'altro è assolutamente disonesto e cinico ostentare ed esibire (come fanno le femministe e simili), queste donne ammazzate dai loro ex, al fine di avvalorare questa assurda tesi sessista e femminista secondo cui gli uomini "odiano le donne" e che quindi le ucciderebbero per poter consolidare e riaffermare su di esse il "potere patriarcale e maschile". Perchè se si prova a fare una valutazione un pò imparziale e meno superficiale, si scopre che le prime vittime, in senso numerico, a seguito di una rottura di un rapporto sono proprio gli uomini. Infatti tutti parlano delle donne ammazzate dai loro ex, ma nessuno parla degli uomini che si suicidano a seguito della rottura non voluta del rapporto e di tutti i disagi e umiliazioni che ne conseguono. Se si guardano i dati, si vede che, in Occidente, il suicidio è un male maschile, cioè è molto più diffuso tra gli uomini che non tra le donne. E tra le principali cause di suicidio, oltre alla perdita (o mancanza) di lavoro(4), figura certamente quella sentimentale, cioè il non aver retto al dolore subito dall'abbandono della moglie (o fidanzata) e talvolta dalla conseguente umiliazione e disagio, in caso di divorzio, di vivere senza casa e/o di non poter rivedere i figli. Ogni anno, in Italia, mediamente, secondo i dati Istat, si suicidano circa 2500 uomini (al confronto di circa poco più di 700 donne). Quindi è assolutamente lecito pensare che almeno mille suicidi maschili siano scaturiti dall'essere stati abbandonati e soprattutto da tutti i disagi materiali (in caso di divorzio) che la separazione comporta. Certo, non si può affermare con sicurezza che ne siano almeno mille , ma di sicuro questo numero non può essere inferiore al centinaio(anche perchè tra l'altro, ed è accertato, solo il numero dei padri separati suicidi ogni anno è maggiore al centinaio, quindi mettendoci anche ex  fidanzati ed ex conviventi suicidi, si va ben oltre) Ad ogni modo, quindi, se fossero onesti, quando parlano delle donne ammazzate dai loro ex dopo la fine del rapporto, dovrebbero parlare anche e soprattutto degli uomini che si suicidano a seguito della fine del rapporto. Cioè se "L' Amore uccide", come dicono loro, e vero anche e soprattutto che "L'Amore fa suicidare". Come mai la vita spezzata di una donna ammazzata deve valere di più di quella di un uomo suicidato? Bella domanda. Molto semplice la risposta. A voi l'onore e l'onere di darla. D'altro canto, il tasso di suicidi ci dà un'informazione sul livello di sofferenza e disagio psicologico all' interno fetta di popolazione su cui è stato valutato. E il fatto che tale tasso sia fortemente sbilanciato sul genere maschile, significa che quest' ultimo, mediamente, vive in una situazione di disagio esistenziale ed interiore maggiore rispetto a quello femminile. Depressione, vagabondismo, e alcolismo sono tra le conseguenze più diffuse negli uomini che vengono lasciati dalle fidanzate e mogli. Ciò oltre a smentire la balla femministe secondo cui vivremmo in una società "androcentrica" caratterizzata da un "potere maschile sulle donne", ci dà anche un buon spunto per dare la chiave di lettura giusta al fenomeno delle tragedie post-separazione. Cioè se la maggioranza (80%) dei suicidi è maschile e una parte consistente parte di questi suicidi sono scaturiti dalla sofferenza di essere stati lasciati, ciò significa che, in genere, gli uomini vivono con dramma e profonda sofferenza, l'esperienza di una rottura non voluta di un matrimonio o fidanzamento, al punto che in taluni di essi, a volte si sfocia nel suicidio, e in casi, ancor più minoritari, nell' omicidio. E però si parla solo di questo ultimissimo, e minoritario, aspetto, trascurando tutto ciò vi è dietro. L'ideologia femminista è, evidentemente, più importante della vita di queste donne e uomini vittime, rispettivamente, di omicidio e di suicidio. Le donne, in genere, non possono capire ciò, perchè nell'ambito dei rapporti con l'altro sesso,  detengono il potere sessuale, sentimentale e legislativo: cioè sono loro che decidono con chi mettersi e a chi devono dare "due di picche"; sono loro che decidono a chi la devono dare e a chi no; sono loro che decidono di rompere il rapporto(fidanzamento o matrimonio); e infine sono loro che in caso di divorzio si vedono affidati i figli e quindi, di conseguenza, casa(anche se del marito), alimenti e mantenimenti vari, il tutto, ovviamente, a danno dell'ex marito. Però, talvolta, anche se raramente, queste situazioni possono capitare anche a parti invertite, cioè abbiamo casi in cui è lei a vedersi mollata, fregata e umiliata dal marito o fidanzato.  Ed ecco che in questi casi, anche nelle donne vediamo depressioni e strazio e suicidi, talvolta, anche casi di incallite e violente stalker. Solo che sono casi molto rari, o comunque minoritari, e pertanto non possono ingenerare nessun fenomeno esteso e generalizzato(6), come invece accade tra gli uomini. Si vorrebbe l'uomo come un robot, un giocattolo, cioè privo di sentimenti e pertanto obbligato a subire senza fiatare e senza batter ciglio lo strazio di un abbandono da quella persona con cui aveva condiviso per anni e anni sentimenti, cuore, anima e beni materiali, e spesso  l'umiliazione e la beffa-in caso di divorzio- di doversi vedere mandato via di casa(dalla propria casa, nella quale magari lei vive con la sua nuova fiamma) e di essere spennato economicamente e materialmente, nonchè essere precluso dal poter rivedere i suoi figli. Lo stato d'animo di quegli uomini che subiscono questo strazio e questa umiliazione non viene preso nemmeno in considerazione. "Gli uomini uccidono le donne per difendere il patriarcato!"  Questa è la beffarda spiegazione che ne danno tv, giornali ed "esperti". Anzichè, quindi, cercare di analizzare in modo imparziale e costruttivo questo fenomeno in modo tale da poter intervenire alla base per cercare almeno di arginare questo fenomeno, si opta per la stupidità ideologica, altrimenti poi non è possibile fare vittimismo gridando per tv e giornali e ai quattro venti che "gli uomini uccidono le donne". Ma al di là di tutto, tiriamo le somme. Prima abbiamo visto che ogni anno, in Italia, il numero medio di donne ammazzate da uomini si aggira sui 140/150. Ma abbiamo anche visto che, in generale, per ogni donna ammazzata vi sono oltre 3 uomini ammazzati e almeno (di sicuro di più) altrettanti uomini suicidatosi per non aver retto al dolore di essere stati lasciati (nonchè un esercito di milioni di depressi e distrutti moralmente e interiormente). Risultato: in Italia, per ogni donna uccisa, abbiamo almeno una decina di uomini uccisi tra omicidi e suicidi. Il rapporto è eloquente e significativo su chi tra i due generi, maschile e femminile, stia messo peggio in termini di morti violente e di disagio interiore e psichico. Ma sorge ancora un'altra questione. Ciò che molti, anzi quasi tutti, dimenticano è quello di chiedersi di quante vite di donne ogni anno, nel piccolo e nel grande, vengono salvate da uomini e quanti uomini muoiono, o comunque, si sacrificano duramente anche a scapito della propria salute, per salvare donne! Nessuno ne parla, ma per ogni donna ammazzata da un uomo, vi sono tantissime, un numero indefinito di donne salvate da un uomo, in sala operatoria, oppure in terapia, oppure tra le fiamme di un incendio (lode ai pompieri), oppure tra i rottami dell'auto distrutta dall' incidente, oppure tra le macerie di un terremoto o tra i flutti di un'inondazione, oppure tra le braccia del marito, e così via. E inoltre nessuno si chiede di quanti sono gli uomini che in guerra e nel lavoro (nella acciaierie, nelle fabbriche, nelle miniere, sulle impalcature, mentre le sculettanti e milionarie Barbara D'Urso varie si lamentano di essere "oppresse dagli uomini"), e in altre circostanze rischiose, perdono la vita al posto delle donne. I morti sul lavoro sono nella quasi totalità maschili (98%), ma ovviamente, non è politicamente corretto dirlo, altrimenti poi come si fa a parlare a vanvera descrivendo questa società come "maschilista e androcentrica"? In entrambi i casi, a parti invertite, eccetto, in pochi casi che pure ci sono e sono innegabili, non si può dire che succeda altrettanto, a meno che in questione non ci sia la propria prole (la tenerezza e lo spirito di sacrificio che può avere una madre nel sacrificare la propria vita per salvare quella della prole, è davvero grandiosa e commuovente). Quindi, in Occidente, per gli uomini, rispetto alle donne, al maggior numero di morti ammazzati e di suicidi, si aggiunge anche un numero indefinito, ma spaventosamente grande, di uomini morti e feriti per salvare donne e per svolgere ruoli e mansioni di utilità pubblica (costruire case, ponti, scavare, ecc) che nessuna donna svolgerebbe mai, oltre che uno stato di profondo abbattimento e disagio collettivo. Un vero e proprio Maschicidio, altro che Femminicidio! Tutti sappiamo come vanno le cose (anche chi fa finta di non saperle queste cose). Sin da quando è nata l'Umanità, il ruolo dell'uomo è sempre stato quello di proteggere la donna, e quindi anche morire per lei e al suo posto, a casa, come in guerra, come in situazioni di emergenza, come nel lavoro e quant'altro(8). Un ruolo che a me non piace, non mi è mai piaciuto, ma che le donne, da sempre, non solo hanno accettato, ma hanno anche voluto e recriminato con forza: richiedere la sicurezza fisica ed economica dal proprio partner uomo, e di essere dispensate dall'assumere i ruoli e mansioni più rischiosi, faticosi e usuranti, anche ai tempi di oggi, in barba alla loro tanto sbandierata "parità". Ed ecco che l'uomo ha sempre accettato questo ruolo, mai ribellandosi, ma assumendolo, a torto (secondo me), come un qualcosa di naturale, di obbligatorio, di ineluttabile. Ed ecco perchè nonostante ciò, molti uomini subiscono in modo compiacente le valanghe di infamie e calunnie che le becere femministoidi, intellettualini e intellualine da salotto, tv e giornali, lanciano contro il genere maschile, e anzi, pur di apparire "fighi" davanti alle loro mogliettine. Fidanzatine o donne da corteggiare, molti uomini sono disposti anche ad infamare, umiliare, e non poche volte, anche a massacrare e uccidere, altri uomini. Ecco, allora, che mi rendo conto che questo Maschicidio avviene anche un pò per colpa di una parte degli uomini stessi, oltre che dell'arroganza femminista.

Femminicidio meno diffuso del “maschicidio”. Anche in Italia. Scrive il 6/07/2016 "Notizie Provita". Anche Adnkronos riporta i dati cui abbiamo fatto cenno qualche giorno fa sul femminicidio. L’agenzia di informazione si concentra in modo particolare sull’Italia, dove circa 3,8 milioni di uomini hanno subito abusi da parte delle donne. Pare che anche tra i giovani, nel 2014, gli abusi (dallo stalking a reati sessuali) subiti dai maschi siano del 4%maggiori di quelli subiti dalle femmine. Tra l’altro il fenomeno dal lato maschile è più sommerso che dal lato femminile. Se i casi di violenza e femminicidio sono spesso non denunciati per vari motivi (paura, sentimenti contrastanti, debolezza, ricatto…), i maschi hanno in più una grande vergogna nel denunciare l’aver subito violenza da una donna. Prosegue Adkronos: “Su questo tema Stiritup, progetto europeo che tratta la violenza nelle coppie giovani, nel 2014 si è concentrato su cinque Paesi europei tra cui l’Italia. Il risultato è che il numero di vittime maschili di molestie supera quello femminile. I giovani uomini sembrano una categoria a rischio anche secondo la rivista dell’American psychological association che parla di 4 uomini su 10 che tra scuola superiore e università sarebbero stati costretti ad avere rapporti non consensuali. Nel 31% dei casi la coercizione sarebbe stata verbale, nel 18% fisica e nel 7% dei casi attraverso la somministrazione di droghe. Il 95% degli intervistati ha spiegato che a mettere in atto le violenze o le molestie sarebbero state delle donne”. Se dobbiamo, quindi, abbattere gli stereotipi e prevenire gli episodi di violenza, sarà forse il caso di piantarla con la “violenza di genere” e il “femminicidio”. Pensiamo ad educare al rispetto reciproco e alla pace le persone, i giovani e i meno giovani, a prescindere dal “genere”…

Maschicidio in Italia: i numeri di una strage nell’ombra, scrive giovedì 10/04/2014 Giorgio Rini su “Nano Press”. Il maschicidio in Italia rappresenta un fenomeno, di cui non si sente parlare molto e spesso, eppure gli ultimi dati a disposizione dimostrano come la questione sia sempre più in aumento, non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo. Parlando di questo argomento è facile cadere negli stereotipi, perché non si fa altro che associare la violenza ad una personalità più propriamente maschile, non pensando invece che anche le donne possono essere protagoniste di fatti di sangue non meno crudeli. Una strage nell’ombra, quindi, quella delle donne che uccidono uomini. Da un certo punto di vista potrebbe rappresentare l’altra faccia della medaglia, in questo caso l’altra faccia del femminicidio. Anche da parte dei media negli ultimi tempi c’è stata molta attenzione ai casi in cui le vittime sono state donne. Anche il maschicidio, comunque, merita di ricevere la giusta considerazione, soprattutto per comprendere più in fondo la società nella quale viviamo.

I numeri. La violenza delle donne sui mariti o sugli uomini in generale, che possono essere anche conviventi o amanti, dilaga in tutto il mondo, dall’Europa all’America. Basta tenere presente alcuni dati che sono emersi nel corso degli ultimi anni, per rendersene conto. In Germania, ad esempio, il Ministero della Famiglia ha scoperto che il 25% degli uomini ha subito una violenza fisica all’interno delle mura domestiche, il 15% è stato vittima anche di violenza psicologica. In Inghilterra un uomo su sei sperimenta abusi familiari, mentre negli Stati Uniti la violenza fisica tra partner è stata attribuita per il 30% alle donne. E’ da specificare, inoltre, che spesso gli uomini non denunciano i maltrattamenti, perché provano un senso di vergogna e di colpa, per la loro “debolezza”, che li porterebbe ad essere vittime. I casi di maschicidio:

ANA TRUJILLO – Ana Trujillo era la fidanzata del professor Anderson, Alf Stefan Anderson, professore universitario di Houston. E’ stata proprio lei a colpirlo con 25 colpi di tacco in faccia, in testa e sul collo. Un tacco 14, e le scarpe sono state ritrovate accanto al cadavere. Ana è stata condannata per omicidio alla pena dell’ergastolo. Una sera di giugno la coppia era uscita e aveva bevuto. Tornati a casa, verso le due di notte, è scoppiato un litigio. Lui sarebbe caduto a terra e la donna gli si sarebbe seduta di sopra, impedendogli ogni movimento. Poi si è tolta la scarpa e ha iniziato a colpirlo con il tacco. La 45enne è stata descritta come una persona piuttosto violenta, visto che anche l’ex fidanzato ha raccontato di essere stato aggredito precedentemente. Secondo la tesi della difesa, si sarebbe trattato soltanto di legittima difesa, ma i giudici non hanno creduto a questa versione.

MARIA ANDRADA BORDEA – Maria Andrada Bordea era la moglie del muratore rumeno Dimitru Bordea, il quale è stato ritrovato morto nella sua abitazione il 2 marzo. La gola e il torace erano stati trafitti da varie coltellate. La coppia viveva il dramma della disoccupazione. All’inizio si era pensato ad un suicidio, dovuto alle difficoltà della crisi. Le indagini, invece, hanno fatto ricadere le accuse sulla moglie, che è stata arrestata per omicidio. L’autopsia dell’uomo ha rivelato l’impossibilità dello stesso di autocolpirsi. Ad inchiodare la donna sono state le testimonianze dei vicini, i quali avrebbero riferito di averla vista uscire con gli abiti sporchi di sangue.

MARIA MASCETTI – La vicenda di Maria Mascetti è accaduta a Scalea, in provincia di Cosenza. La donna ha ucciso il compagno a coltellate. La vittima è Giuseppe Ronco, di 75 anni. La donna di 69 anni avrebbe tentato il suicidio, ferendosi e poi avrebbe chiamato i soccorsi, facendo arrivare i carabinieri e i vigili del fuoco. E’ stata la donna a confessare l’omicidio del compagno, che sarebbe avvenuto in seguito ad una lite.

ANGELA BARAN – Il 25 marzo a Torino è stata ricoverata in rianimazione una donna di origine rumena. Tutto è accaduto in seguito ad una lite violenta con il marito a San Luigi di Orbassano. La donna era stata percossa. Il marito è invece morto in seguito ad una coltellata che la donna stessa gli ha praticato sull’addome con un coltello da cucina. A quanto pare la 54enne potrebbe aver reagito dopo un’aggressione dell’uomo. A trovare i genitori è stata la figlia. Secondo le ricostruzioni dei fatti i due litigavano spesso.

L'indignazione oltre la statistica. I femminicidi riempiono i giornali, i femminicidi sono in calo. Due notizie entrambe vere, due notizie in apparente contrasto. Ma forse no, scrive Andrea Cuomo, sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". I femminicidi riempiono i giornali, i femminicidi sono in calo. Due notizie entrambe vere, due notizie in apparente contrasto. Ma forse no. Dall'inizio dell'anno sono state 59 in Italia le donne uccise in quanto donne. In quanto cioè esseri più deboli, in quanto persone che noi uomini vorremmo intestarci e invece ci sfuggono, ci lasciano, ci tradiscono, ci dicono di no, ci smentiscono. Che fanno insomma quello che ogni persona di qualsiasi sesso ha diritto di fare: scegliere. Anche quello che a noi uomini non piace. Cinquantanove donne uccise per il più diabolico alias dell'amore: la gelosia. Cinquantanove donne uccise dagli uomini sono pur sempre cinquantanove di troppo. Eppure non sono di più che negli anni precedenti, malgrado la nostra percezione ci dica il contrario e ci faccia pensare a un'epidemia di misoginia. Proiettando il dato su tutto l'anno porterebbe a 136 vittime nel 2016. Ovvero lo stesso numero di donne uccise da uomini nel 2014. Appena qualcuna in più rispetto al 2015, quando le vittime dell'omicidio di genere furono 128. Ma meno rispetto al 2013 (179) e al 2012 (157). Se poi allarghiamo il raggio temporale di indagine il dato è ancora più evidente. Nel 2003 ci furono 0,65 massacrate per la colpa di essere donne libere ogni 100mila abitanti, mentre nel 2014 il dato è sceso a 0,47. Nessun negazionismo, si badi bene. Il fenomeno resta angosciante e ingiustificabile. Ma i numeri sono numeri. I femminicidi stanno lentamente diminuendo proprio nel momento in cui sembrano aumentare. Com'è possibile tutto ciò? Questo certamente deriva dal difetto di prospettiva a cui ci induce l'orrore di alcuni episodi che - vedi quello di Roma - per le modalità raccapriccianti dell'assassinio e per l'ambiente «normale» in cui è maturato, colpiscono ciascuno di noi più di altri casi borderline, liquidati come frutto di contesti malati. La colpa naturalmente è anche di noi giornalisti, per cui a dispetto degli slogan grillini uno non vale uno. E poi purtroppo c'è una cinica legge dell'informazione, quella in base alla quale ci sono filoni di notizie che fanno tendenza, come fossero tailleur: e nella primavera-estate 2016 il femminicidio va su tutto. Ma l'emergenza non è di oggi. L'emergenza c'è da sempre. Certe cose non iniziano a esistere solo perché diamo loro finalmente un nome buono per titoli e sommari. Certe cose abitano nelle nostre teste al di là degli slogan, perché per tanti uomini ancora è inaccettabile pensare che la donna non sia come un'auto che si registra al Pra con il proprio nome, e poi guai a chi te la tocca. L'emergenza non è di oggi, dunque. Epperò è bene che ci sia questa lieve miopia per quanto parzialmente falsa. È bene urlare qualche titolo, inventare slogan, fare reportage, anche a costo di sembrare allarmisti. Perché questo non guarirà gli uomini ammalati di gelosia, ma magari aiuterà qualche donna a individuare nei comportamenti del suo uomo geloso, del suo marito mollato, del suo ex insistente i semi di ciò che oggi chiamiamo femminicidio e che un tempo chiamavamo follia. Forse così quei diminuiranno ancora. Fino allo zero.

Cinque milioni di uomini ogni anno sono vittime delle violenze femminili. È raro che uccidano. Ma ricattano, umiliano e distruggono economicamente i compagni, scrive Barbara Benedettelli, domenica 20/11/2016, su "Il Giornale". Senza nulla togliere alla gravità della violenza maschile sulle donne, credo sia giunto il momento di coniare un nuovo termine anche per il fenomeno opposto: maschicidio. Perché anche il maschio può essere vittima della violenza femminile. Di certo lo è dell'informazione unidirezionale e di una cultura dominante che procede per stereotipi e pregiudizi: la donna è sempre docile incolpevole vittima e l'uomo sempre carnefice e bastardo. Ma la verità sta sempre in mezzo. Dopo l'elezione di Donald Trump e l'apertura del vaso di Pandora sui media che nascondono, insabbiano o discreditano modificando la verità secondo ideologia (o stereotipi), è emerso il bisogno di autenticità. Di una verità tale a trecentosessanta gradi, la sola capace di darci gli strumenti per risolvere il gap culturale che permette ancora differenze sostanziali tra uomini e donne. E che può fornirci forse perfino la soluzione per diminuire il numero dei femminicidi, costante nel tempo nonostante i passi avanti anche legislativi. Non possiamo dunque non tenere conto, quando osserviamo il fenomeno del femminicidio, dell'altra faccia della medaglia: la condizione maschile, l'emancipazione psicologica dell'uomo, i pregiudizi legati al concetto di maschio e il tabù che riguarda la violenza femminile sul sesso opposto. Violenza che esiste - anche se raramente ha dinamiche omicidiarie - e che riguarda la psiche, il portafogli e perfino la sessualità. In Italia sono poche le indagini in questo senso. Una di queste - passata quasi inosservata - è stata effettuata nel 2012 da una equipe dell'Università di Siena su un campione di uomini tra i 18 e i 70 anni. La metodologia è la stessa utilizzata dall'Istat nel 2006, per la raccolta dei dati sulla violenza contro le donne e che ancora oggi vengono riportati con grande enfasi. Secondo l'indagine dell'Università di Siena, nel 2011 sarebbero stati oltre 5 milioni gli uomini vittime di violenza femminile configurata in: minaccia di esercitare violenza (63,1%); graffi, morsi, capelli strappati (60,05); lancio di oggetti (51,02); percosse con calci e pugni (58,1%). Molto inferiori (8,4%), a differenza della violenza esercitata sulle donne, gli atti che possono mettere a rischio l'incolumità personale e portare al decesso. Una differenza rilevante questa, che in parte giustifica la maggiore attenzione al femminicidio. Nella voce «altre forme di violenza» dell'indagine (15,7%) compaiono tentativi di folgorazione con la corrente elettrica, investimenti con l'auto, mani schiacciate nelle porte, spinte dalle scale. Come gli uomini anche le donne usano forme di violenza psicologica ed economica se pur con dinamiche diverse: critiche a causa di un impiego poco remunerato (50.8%); denigrazioni a causa della vita modesta consentita alla partner (50,2%); paragoni irridenti con persone che hanno guadagni migliori (38,2%); rifiuto di partecipare economicamente alla gestione familiare (48,2%); critiche per difetti fisici (29,3%). Insulti e umiliazione raggiungono una quota di intervistati del 75,4%; distruzione, danneggiamento di beni, minaccia (47,1%); minaccia di suicidio o di autolesionismo (32,4%), specialmente durante la cessazione della convivenza e in presenza di figli, spesso utilizzati in modo strumentale: minaccia di chiedere la separazione, togliere casa e risorse, ridurre in rovina (68,4%); minaccia di portare via i figli (58,2%); minaccia di ostacolare i contatti con i figli (59,4%); minaccia di impedire definitivamente ogni contatto con i figli (43,8%). Nulla di nuovo rispetto alle ricerche sulla violenza nell'ambito delle relazioni intime condotte in altri paesi, dove c'è una maggiore propensione a studiare il fenomeno tenendo conto di entrambi i sessi. In una ricerca effettuata nel 2015 nell'ambito del progetto europeo Daphne III sulla violenza nelle dinamiche di coppia e che coinvolge 5 paesi tra cui l'Italia, analizzando un campione di giovani tra i 14 e i 17 anni: le ragazze che hanno subito una forma di violenza sessuale variano dal 17% al 41% in base all'entità dell'aggressione e i ragazzi dal 9% al 25%. Allora, tenendo conto del fatto che la violenza femminile sugli uomini è di entità più lieve, non possiamo negarla. Dobbiamo prendere atto che il problema della così detta violenza di genere va affrontato da un nuovo punto di vista. Gli sportelli antiviolenza, per esempio, sono attualmente dedicati per lo più alle donne e, come afferma Luca Lo Presti, Presidente di Fondazione Pangea, non sono sempre in grado di gestire la richiesta di aiuto del sesso opposto. «Oggi siamo al paradosso - sostiene Lo Presti - che un uomo cosciente di avere un problema legato alla mancanza di controllo della violenza e che chiede aiuto perché ha paura di ferire a morte la compagna, si trova di fronte a muri altissimi. Quando si presenta in un centro antiviolenza ci sono casi in cui viene aggredito psicologicamente e criminalizzato come se dovesse pagare per tutti, in quanto ritenuto parte di una categoria di esseri umani sempre carnefici». Oppure capita che se un uomo è vittima di una forma di violenza e trova il coraggio di denunciare - nonostante il rischio di derisione perché dimostra una fragilità non consona allo stereotipo di virilità e forza -, allora non è creduto. Perché il cliché lo vuole capace di reagire al sopruso senza fare una piega. In un caso e nell'altro non c'è soluzione. Senza la capacità di ascolto e di aiutare gli uomini concretamente a gestire gli impulsi distruttivi o a risanare una ferita dovuta ad abusi subiti da una donna, non ci sarà mai la possibilità di risolvere un problema profondo e articolato come quello della violenza domestica. Oltre il genere però. Perché il centro di tutto non siano i maschi o le femmine, ma la persona.

Toh, c’è pure il “maschicidio”. E tanto…Campagne mediatiche ben orchestrate. Ma smentite dai fatti. La verità è che siamo tutti esseri umani, a volte sfrenatamente, stupidamente, violenti…scrive Rino Tripodi. Le bugie hanno le gambe corte. Le campagne mediatiche in malafede anche. Si è inventato un neologismo, “femminicidio”, per montare un ennesimo assalto alla Bastiglia, con lo scopo di invocare nuovi diritti, nuove leggi (si pensi, tra l’altro, alle famigerate “quote rosa”), a protezione di un “genere”, quello femminile, già ultratutelato, almeno nei paesi occidentali. Per non pensare allo scopo, da parte delle promotrici di tali campagne, di arrivare a un bello scranno in parlamento o ad altre “onorificenze” per aver condotto tali “nobilissime campagne” di odio e disinformazione. A sostegno argomentazioni e dati assurdi, quali la panzana della violenza maschile «prima causa di morte delle donne italiane» (per la smentita di questo e di altri dati e argomentazioni folli, si veda, tra gli altri, Femminicidio o maschicidio?, nel blog Il Volo di Dedalo). I fatti. Nel giro di pochi giorni due donne, una signora di Villapiana (Cosenza) – dapprima considerata, col solito pregiudizio, “vittima” del “maschio” – e un’altra, residente a Livorno, hanno ucciso i propri mariti. Particolarmente efferato il secondo caso, comprendente prolungate sevizie varie, tra cui genitali maciullati e sodomizzazione con un oggetto in grado di procurare la perforazione dell’intestino. Non vogliamo indagare sui motivi che hanno spinto le due donne a far fuori i propri partner. Avranno avuto le loro “buone” ragioni, che, però, non sono mai “buone”, quando si toglie la vita a un altro essere umano. La questione è che la violenza, l’aggressività, lo scatenamento e la realizzazione di istinti omicidi sono immondo “patrimonio” dell’umanità. Tutta. Senza differenze “di genere”. Del resto, non erano necessari gli ultimi due episodi per avere un quadro meno fazioso e arrogante della realtà. La Adama – nomen omen! – senegalese “violentata” in Italia, e immediatamente eretta a simbolo della Giornata mondiale conto la violenza sulle donne, si era inventata tutto; anzi, pare sia una mezza criminale. Molteplici gli episodi di omicidi crudeli e sadici compiuti da donne sui mariti, magari con la complicità dei propri amanti. Più in generale: ci si è dimenticati delle disumane violenze commesse in Iraq dalle soldatesse statunitensi? Nei pestaggi al G8 di Genova (vedi Giuseppe Licandro, La “macelleria messicana” che bagnò di sangue Genova, nel numero 77 di LucidaMente), quante erano le poliziotte? Chi ha mai evidenziato che, tra i quattro poliziotti condannati per il bestiale pestaggio – due manganelli spezzati sul corpo di un ragazzo – di Federico Aldrovandi a Ferrara, c’è anche una “Monica”? E, persino nelle mafie, considerate terreno solo “maschile”, si scoprono donne spietate che ordinano omicidi e delitti vari. Infine, volendo fare un po’ il Bruno Vespa della situazione, che dire della simpatica combriccola matriarcale di Avetrana? Della dolcissima Erika di Novi Ligure? Della amorevole signora Franzoni di Cogne? O della pacata Rosa di Erba, col suo amato Olindo? E Amanda, a Perugia, l’ha scampata per un pelo, o perché… Usa. La verità è che siamo tutti esseri umani. Imperfetti. Spaventati. Violenti. A volte bestiali (ma forse, a dir così, si offenderebbero gli animali). Da sempre una cultura “sinistrorsa” e “politically correct” manichea divide l’umanità in buoni e cattivi. Donne e uomini. Neri e bianchi. Poveri e ricchi. Operai e borghesi. Laici e credenti. Omosessuali ed eterosessuali. Di fronte al problema – “mistero”, per chi è, “religioso” – del male, della violenza, della brutalità, che ci accomuna tutti, non sarebbe meglio un po’ di raccoglimento? Senza altre parole. LucidaMente si è già occupata più volte di “discriminazione positiva” (vedi tutto il n. 61 del gennaio 2011 e, in particolare, I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti; La violenza è solo degli uomini?; Il caro femminismo iattura per tutte/i?, oppure «Io e la giustizia italiana: dalla condanna per pedofilia all’assoluzione»), nonché della questione della bigenitorialità, segnalando alcune iniziative (ad esempio, dell’Associazione Adiantum o del Comitato dei cittadini per i diritti umani-Ccdu). Rino Tripodi (LM EXTRA n. 28, 15 maggio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 77, maggio 2012).

Strana fine quella del fantasioso personaggio Agamennone, combatte dieci anni da eroe nella sanguinosa guerra di Troia e poi finisce morto per mano della moglie Clitennestra, scrive Rosa Mistica su Cattolici Liberi”. Doveva probabilmente sentirsi sicuro nella vasca da bagno di casa sua quando venne ucciso dalla sua consorte e dal suo amante. Ma d'altra parte Clitennestra deve cedere il passo ad Elena, molto più professionale di lei in quanto a danni sugli uomini, sulla sua coscienza la fedigrafa aveva il peso delle migliaia di vittime della guerra di Troia, però esce magistralmente dalla scena ritornando sana e incolume fra le braccia del marito becco, lasciandosi alle spalle anche la morte di Paride che muore miseramente ucciso dalle frecce di Filottete. Certo la differenza tra i due miti è abissale, Clitennetra per far fuori il marito qualche ragione umanamente comprensibile ce l'aveva, Agamennone le aveva sottratto la figlia Ifigenia per sacrificarla ad Artemide, niente di meno per la ragion di stato più ignobile: quella della guerra, e una donna, tra l'altro madre, non poteva metabolizzare una simile crudeltà. Diametralmente opposto il caso di Elena che di attenuanti ne aveva poche. Ora prescindendo dal fatto, che spesso le seduttrici la fanno franca, bisogna pensare che effettivamente Clitennestra non è molto funzionale al male come lo è Elena, questo perché l'attitudine al male nella donna è più nella seduzione che nella violenza. Dello scorso novembre 2013 è un libro dal titolo "101 modi per far soffrire gli uomini", lo stile e l'apparenza vogliono rimandare ad un saggio umoristico, ma i contenuti del testo fanno poco ridere e l'autrice prende molto sul serio la possibilità di far soffrire il sesso "concorrente" al fine di assoggettarlo. Il tentativo di satana di rovinare l'armonia che Dio aveva previsto tra l'uomo e la donna, ovviamente non è nuovo, ma i tempi attuali vedono un tentativo delle donne in satana (seduttrici e non) di distruggere antropologicamente l’'uomo in una maniera che ha caratteristiche diverse dal passato. La possibilità che offre il mondo attuale alle seduttrici è l’'immunità dalle critiche sul loro abbigliamento. In virtù del solito (e travisato) non giudicare che poi è un non giudicare di Satana, un travisamento   attraverso il quale il mondo vuol dire maliziosamente: "non ammonite i peccatori", quando invece, come ben sanno i cristiani, l'’ammonizione è opera di misericordia spirituale. Il mondo ha deciso, poi, di non condannare la smisurata voglia delle seduttrici di gestire le passioni per farsi dee in vanità, facilitando così il dominio del maligno sulla società e non quello di Dio. Tornando al paragone con la mitologia si noti che nella guerra di Troia operano come burattinai più vizi capitali e cattiverie, dalla discordia (di Eris) alla vanità (delle dee), dalla lussuria (di Paride) all’'ira (di Achille.) E' la catena ininterrotta dei vizi che si richiamano l’'un l’altro che determina lo spiegarsi delle violenze che caratterizza la guerra di Troia.  Certo stupiscono le intuizioni greche che in racconti sia pure puramente fantasiosi riescono a cogliere con grande acume l’'essenza della radice del male. In ogni caso bisogna prendere atto   che non è a breve che la condanna della seduzione femminile avverrà in una società fortemente anticristica. Per evitare, dunque, che le donne in satana creino danni, l’'uomo deve sapere che deve liberarsi dal machismo da trattoria e prendere consapevolezza di che tipo di debolezza ha nei confronti del male, quella debolezza che Dio stesso, poi, gli rivela nelle Scritture. Al di fuori dalla grazia di Dio, esiste nella donna (più che nell' uomo) il concretissimo rischio di una dolcezza in satana che cerca di ottenere spesso frutti che portano alla dannazione il proprio prossimo. Prossimo che poi magari è il marito, il fidanzato o semplicemente il ragazzo o il "maschio" che si vuole sedurre o circuire per ottenere comportamenti indotti che poi sono comodi ai propri scopi. Satana è una scimmia, uno squallido imitatore del Creatore, quindi, cerca di riprodurre perversamente la carità di Dio per veicolare le sue proposte di peccato. Le donne in satana altro non fanno che imitare quello che è il loro ispiratore comportamentale per farsi figlie di questo padre infernale loro maestro e strisciare al disotto dell'accusa formale del mondo, che condannerà sempre il visibile e mai l'invisibile, invisibile però che rimane tuttavia come macchia dell'anima e cancellabile quindi solo da Dio attraverso un percorso di conversione e pentimento come avvenne nell'adultera del Vangelo: "va e non peccare più". Tornando alla dolcezza in satana che danna: secondo San Tommaso D’aquino. Adamo pecca anche per un amore troppo accondiscendente nei confronti di Eva. Si noti che il santo non ritiene che il problema fosse l’'amore per Eva, ma quell'’amore che la fa preferire a Dio. L’'uomo cade più per la gentilezza di satana che per la sua violenza, stessa sventura infatti tocca a Sansone che imbattibile sul campo cade per mano della sua "amata" Dalida. Il cattolico non deve tanto guardare il suo nemico armato, ma deve sempre aver fisso il suo fine che è non cadere nel peccato e quindi lo sbaglio di Adamo gli deve tornare alla mente soprattutto se compagna gli è una che molto assomiglia ad Eva. Si illude l'uomo che vuole convertire la seduttrice decidendo al contempo di amarla", l'uomo deve fuggire l'occasione di peccato, perchè tenendosi vicino alla tentazione satana sempre vincerà e l'uomo perderà la sua anima. D'altra parte Berlicche che la sa lunga su come rovinare l'anima degli uomini, consiglia al diavolo Malacoda: "Poiché il matrimonio, quantunque invenzione del Nemico, ha le sue utilità. Vi devono essere diverse giovani donne nel quartiere che gli renderebbero la vita difficilissima, se tu soltanto riuscissi a sposarne una." Lewis, infatti, nel suo romanzo ci teneva a dirci che dal matrimonio, anche se consacrato, contratto con un’empia, Satana riesce a trovare molte sue utilità per rovinare l'anima del futuro marito e portarlo così alla dannazione. Questo perchè, se la dolcezza della donna non viene da Dio troppo spesso l’'uomo perde la sua anima. L'uomo, infatti, non ha tanto da temere da Clitennestra ma da Elena, con Clitennestra muore il corpo con Elena muore l’'anima.

C'E' CHI LA TROPPO PICCOLO? O C'E' CHI L'HA TROPPO LARGA? 

C’è chi l’ha troppo piccolo ma c’è chi l’ha troppo larga. Sotto le lenzuola siamo tutti ossessionati dalle misure. E ci sono femmine..., scrive Filippo Facci su Libero l'1 Febbraio 2018. Sto per scrivere di peni piccoli, ma non è la caratura della campagna elettorale ad ispirarmi: il punto è che non possiamo lasciare a Melania Rizzoli (una donna) l’esclusiva su un argomento che, pure, ha dimostrato di saper maneggiare con tutta l’esperienza (...) (...) che una vita da medico le permette. Sono certo che al suo articolo di ieri («Giovanotti ossessionati: ce l’hanno piccolo») altrettanti colleghi di Libero potrebbero replicare con più competenza di me, ma al solito, di fronte ai temi civili, preferiscono dedicarsi alla politica, nel loro piccolo: e sia, mi sacrifico io, al rischio di sentirmi professionalmente sottodimensionare. È anche una questione di orgoglio maschile. Che ne sa la Rizzoli? Cioè: ne saprà moltissimo (al pari di altre firme femminili: non voglio fare discriminazioni) e però che ne sa, la Rizzoli, di quel periodo tardoadolescenziale in cui noi tutti (ma tutti, dico tutti, proprio tutti) abbiamo temuto di averlo piccolo, a parte pochi proboscidati? Le sbirciate disinvolte, i confronti da spogliatoio, la demenziale convinzione che più grosso ce l’hai e più maschio sei: non è un’ossessione di questa generazione, non c’entra internet, è una costante degli homines sapientes da quando inventarono l’abaco. «Fuori spavaldi, dentro insicuri» lo siamo stati tutti: ma che ne sa una donna, che semplicemente aveva altri problemi e dilemmi?

LA LEVA. La Rizzoli parla di una generazione «cresciuta dopo l’addio alla visita di leva, la quale, salutato il pediatra, risulta latitante e in fuga da qualsiasi medico»: come se non fosse sempre stato così, visto che durante la visita di leva ti davano al massimo due pugnetti sul petto («sei sano») e il massimo approfondimento era chiederti «ti droghi?» (io risposi di sì). Poi cita il ritornello dei «padri assenti» (che peraltro, osservo, si alterna a quello dei padri troppo presenti e troppo amici) ai quali i giovani virgulti non mostrano più il pene (disdetta) e poi descrive, appunto, l’ossessione delle dimensioni, il timore di essere inadeguati, inferiori alla norma, il confronto segreto con gli amici, il possibile disagio psicologico che può scivolare verso la fobia e la straclassica ansia da prestazione, altra invenzione come minimo di Adamo. Ma è sempre stato così. Cita pure, la Rizzoli, la differenza con tante ragazze che spesso vengono sospinte dal ginecologo direttamente dalla madre, mentre i ragazzi probabilmente conosceranno l’andrologo solo dopo i cinquanta e cioè con la prostata già scarburata: vero, ma è sempre stato così, si rassegnino gli andrologi che hanno promosso l’ennesimo convegno sui giovani complessati da cui la Rizzoli ha attinto.

RASSICURAZIONI VANE. Insomma, ora possiamo anche chiamarla “dismorfopenofobia” (già il pronunciarlo fa afflosciare) ma qui non si reinventa nulla, tantomeno le insufficienti rassicurazioni da settimanale femminile che da sempre circolano sull’argomento: genere «ma no, è normale», anche se ce l’ha lungo due centimetri, o ancora «è stato bellissimo lo stesso» detto da lei prima che scoppi a piangere. Domanda: è internet che fa la differenza? Meglio: il perenne confronto con certe terze gambe di youporn.it sta peggiorando le cose? Può essere, ma non ci credo: noi avevamo i giornaletti (anche quelli li abbiamo guardati tutti) e ai tempi miei c’era già John Holmes coi suoi “30 centimetri di dimensione artistica”, roba da ritirarsi dalla carriera. Se il messaggio dev’essere “ragazzi, andate dall’andrologo” mi sta anche bene, perché in effetti non ci vanno, ma cercare relazioni tra l’odierno timore del pene piccolo e la virulenza di Gomorra non pare necessario, e anche sul massiccio ricorso ai vari viagra da parte dei giovani, come dire, i medici si rassegnino: il Viagra è il farmaco più rivoluzionario della Storia e serve ufficialmente alle disfunzioni erettili di chiunque le abbia, che siano fisiologiche da anziani o psicologiche da giovanissimi. E sarà sempre così anche questo, personalmente non vedo nessun «quadro sconcertante».

I COMPLESSI. Ma a Melania Rizzoli, infine, vorrei dire qualcosa a cui le donne in genere non pensano mai. Da una generazione all’altra, il problema delle dimensioni - è vero - se lo pongono soprattutto gli uomini coi loro complessi e i loro discorsi da palestra. Ma anche le donne possono avere un ruolo nell’accrescere i complessi maschili: la cattiveria non ha sesso. Il punto vero e sottaciuto, però, è che gli uomini negli anni tendono a rassicurarsi e tendono ad accettarsi per quello che sono: ma a molte donne succede il contrario, e perchè? Risposta: perché quello delle dimensioni (vaginali) diventa un problema femminile. In generale - non serve essere andrologo per saperlo - la giusta dimensione è una questione di proporzioni reciproche: a ogni uomo potrà esser capitato, voglio dire, di sentirsi superdotato con una tizia e poi appena sufficiente con un’altra. Spesso sono sensazioni, ma tante volte non è che l’uomo ce l’ha piccolo, è lei che ha la fossa delle Marianne. È anche naturale. Una pigmea probabilmente non ce l’ha come una lettone di uno e novanta, anche la lunghezza vaginale è variabilissima: sicché, se sovradimensionata, cioè anormale, finisce che l’anormale sembra lui. Per questo negli Stati Uniti va di moda la ginnastica vaginale: a parte il problema del parto, c’è il problema di non sembrare troppo usate, anche perché la vita sessuale delle donne si allunga: almeno quella. Ecco, a proposito: posto che i rimedi “enlarge your penis” sono tutte truffe, i complessati lascino perdere anche le favole sulla chirurgia allunga-pene di cui ogni tanto si fantastica: siamo ancora al medioevo, sono supplizi quasi sperimentali e dolorosissimi, pieni di complicanze: se va bene lo allungano di un centimetro e mezzo dopo sei mesi di stop, e possono anche aumentare la circonferenza, ma di poco. Confesso: anch’io, anni fa, pensai di rivolgermi a un chirurgo per modificare le mie inadeguate dimensioni. Volevo farmelo ridurre. Sentire una donna urlare dal dolore non è mai piacevole.

E se ce l’avessi troppo larga? Tutta la verità sulle dimensioni della vagina, scrive il 18 aprile 2011 su "saluteluielei.wordpress.com". Chi pensa che solo gli uomini abbiano problemi di “dimensioni” si sbaglia di grosso. Sono moltissime infatti le donne che hanno timore che la propria vagina possa essere troppo larga. Quindi, se ti stai chiedendo se la tua vagina per caso non sia troppo larga, non preoccuparti, non sei certo l’unica. Perché una donna arriva ad aver paura di avere una vagina troppo larga? Ci possono essere due casi. Nel primo, si tratta di un commento, riferimento, atteggiamento da parte del proprio partner, che più o meno velatamente lascia intendere che durante il rapporto vaginale non “sente” abbastanza. La frizione del pene con le pareti vaginali è ciò che crea la maggior parte del piacere sessuale sia nell’uomo, che nella donna.  Se il partner si lamenta di non “sentire” abbastanza, significa che sente di non provare abbastanza piacere durante la penetrazione vaginale. Una donna può anche aver paura che la propria vagina sia troppo larga perché magari nota che il partner ha una certa predilezione per il sesso anale: una penetrazione anale dà sicuramente all’uomo una maggiore sensazione di “frizione” e contenimento e molti potrebbero trovarla di per sé più piacevole della penetrazione vaginale. Questo per molte donne è totalmente indifferente, tuttavia per alcune questa “scoperta” ha un profondo impatto emotivo. Nel secondo caso potrebbe essere la donna stessa a lamentare una bassa sensibilità e a non provare sufficientemente piacere cosa che può portare all’anorgasmia, ossia l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo attraverso la penetrazione.

Sicure che il problema sia vostro? Le donne generalmente rispondono a questo problema, attribuendosene tutta la colpa. Tuttavia, farebbero meglio a domandarsi se non si tratti più che altro di un problema del proprio partner. Ci sono infatti molte possibili ragioni per cui il vostro lui potrebbe avere poca sensibilità durante la penetrazione vaginale. Ad esempio, potrebbe trattarsi dell’uso del preservativo: provate a verificare assieme l’opportunità di adottare altre forme di contraccezione o utilizzare un preservativo che assicuri un maggiore comfort o permetta una maggiore sensibilità. Se il vostro lui fa uso di alcuni farmaci, in particolare gli antidepressivi, fate attenzione: molti hanno la capacità di ridurre la sensibilità del pene. Infine, potrebbe trattarsi di una questione tutta psicologica, con lui che non riesce davvero a lasciarsi andare e inconsciamente scarica su di voi il suo problema.

Troppo larga per cosa? Inoltre, potrebbe essere una questione di “giusta combinazione”. Come nel caso del pene, anche le vagine hanno varie forme e dimensioni. Per quanto riguarda la lunghezza, questa va in media dai 7 ai 12 cm. Avere un partner che ha un pene molto lungo può essere drammatico e causare anche dolore durante il rapporto. Per altre, un partner di più modeste dimensioni può rivelarsi poco soddisfacente. Tuttavia, la verità è che ciò che risulta “piccolo” per una potrebbe essere perfetto per un’altra. Insomma, si tratta sempre di trovare la combinazione giusta.

La vagina non è un buco ma uno “spazio potenziale”. Per quanto riguarda l’apertura, invece, potete stare tranquille. La vagina non è un “buco” . E’ più che altro uno “spazio potenziale” che rimane intatto nonostante quanto sesso facciate e quale sia la dimensione del pene del vostro partner. La vostra vagina è perfettamente elastica è in grado di contenere il più grosso dei peni, così come farvi provare piacere anche quando il vostro lui ha un diametro più ridotto. Non è vero neppure che più sesso si fa, più la vagina diventerà larga. Le pareti della vagina sono estremamente elastiche e si possono allargare fino ad contenere senza problemi la testa di un bambino. Nemmeno il più grosso dei peni non riesce ad avvicinarsi a queste dimensioni.

Il segreto è nel muscolo PC. Quello che determina la capacità contenitiva della vostra vagina è il muscolo che la circonda, il muscolo PC (pubococcigeo). Più questo muscolo è tonico, maggiore sarà il controllo della vostra vagina che avrete durante il rapporto. Avere un buon controllo di questo muscolo consente di contrarre le pareti della vagina al momento e nella maniera giusta. Questo significa che anche voi giocate una parte fondamentale nel determinare le sensazioni che sia voi che il vostro partner proverete durante il rapporto sessuale. Questo tipo di controllo può essere raggiunto facilmente con gli esercizi di Kegel, un’attività piacevole da svolgere, che consiste nel contrarre e rilasciare ripetutamente i muscoli che circondano la vagina, gli stessi che si utilizzano quando si cerca di trattenere la pipì.

La mia vagina si è davvero allargata! E’ stato verificato che si può perdere tonicità del muscolo PC in seguito a veloce e consistenti modificazioni del proprio peso corporeo, modificazioni dei livelli ormonali o ad interventi chirurgici. La causa più comune della perdita di tonicità del muscolo PC è il parto. A volte servono mesi, e in alcuni casi varie ore di esercizi di Kegel, prima che la vagina torni allo stato iniziale.

Che fare se anche con gli esercizi di Kegel niente funziona? Molto probabilmente li stai facendo nel modo sbagliato. Inizia con il monitorare i tuoi progressi. Un modo semplice e veloce per sapere se stai facendo correttamente gli esercizi di Kegel è usare uno strumento chiamato Manometro di Kegel. Basterà infilarlo in vagina e stringere. Ti dirà quanto forti sono i tuoi muscoli. Ancora più importante, ti aiuterà a conoscere i progressi che stai facendo. Inoltre, verifica di farli nel modo giusto. Il metodo migliore è fare questi esercizi dopo aver inserito in vagina un dito o un sex toy. Questo aiuterà anche ad evitare la possibile ansia da prestazione che si potrebbe verificare nel momento in cui ci si approccia al rapporto sessuale vero e proprio. A tal proposito esiste il Kegelcisor, l’unico pensato appositamente per aiutare ad esercitare il muscolo PC nel modo corretto. 

FEMMINISTE, PURITANI, TALEBANI ED...OMBRELLINE.

La cancellazione delle ombrelline dalla F1? È pura ipocrisia. Dopo il caso Weinstein, la sacrosanta e doverosa battaglia contro le molestie ai danni delle donne rischia di tramutarsi in "moda". Quello delle ombrelline della F1 è solo l'ennesima presa di posizione ipocrita di un sistema maschilista, scrive Fulvio Giuliani il 2 Febbraio 2018 su "L’Inkiesta". Associarsi al coro di chi esulta per la cancellazione delle temibili ombrelline, dal mondo dorato e plasticoso della F1, è molto facile. Forse un po' troppo. In una realtà tradizionalmente testosteronica, in cui abbondano i riferimenti ai cavalieri (rigorosamente maschi) senza macchia e senza paura, eliminare le modelle dalla griglia di partenza mi appare la più classica, scontata e ipocrita delle operazioni di facciata. Certo, dai vertici del Circus si sono scelte le parole più giuste e difficilmente attaccabili, per spiegare l'ombrelline-ban. Chi può dirsi contrario, nell'era post-Weinstein, a una misura presa - hanno spiegato - per tutelare la dignità femminile e per assecondare la mutata sensibilità del pubblico? Un gioco fin troppo scoperto, però, per chi abbia voglia di uscire per un momento dalla morsa del politicamente corretto. Il tradizionale bigottismo americano, infatti, sta evolvendo, moltiplicato dallo scandalo Weinstein, in vere e proprie ondate di moralismo. La sacrosanta e doverosa battaglia, contro le molestie, la violenza fisica e psicologica, ai danni delle donne, rischia di tramutarsi in altro. Una moda, una sequenza senza fine di operazioni di facciata, di marce, di proteste da red carpet o griglie di Formula 1 (che farà, ora, la MotoGp?!). Un bailamme di dichiarazioni, mosse, hashtag, gesti, in cui rischiano di finire tritate proprio la dignità della donna e la lotta vera ai piccoli, drammatici soprusi quotidiani. Perché questa storia delle ombrelline fa acqua da tutte le parti: se cancelliamo loro, non si capisce perché possa continuare ad esistere l'intero universo delle modelle. Piuttosto che gli angeli di Victoria Secret's, potremmo far sfilare in mutande e reggiseno degli automi, preferibilmente asessuati. Dovremmo smettere di selezionare ANCHE sulla base della 'bella presenza', in decine e decine di professioni, arrendendoci definitivamente all'ipocrisia. Del resto, ormai, è una moda bannare anche le opere d'arte, se ritenute offensive. Ad esultare, gli stessi che si indignarono per le statue oscurate, quando si trattò di non offendere occhi iraniani. Fumo, tanto fumo, fra gli ombrelli delle ombrelline, mentre buona parte degli editorialisti e degli intellettuali corre ad applaudire acriticamente, perché se oggi non ti schieri subito dalla parte giusta, non ti vesti di nero e non rinneghi chi hai esaltato e idolatrato solo pochi mesi fa (nessuno sapeva niente, a Holliwood...) rischi di passare per insensibile, se non molto, molto peggio. Quando editorialisti e maitre a penser cominciano a scrivere e dire tutti le stesse cose, io mio preoccupo. E dovrebbero preoccuparsi soprattutto le donne.

Gli ombrellini della discordia…, scrive l'8 luglio 2017 Giulio Tandiod su "it.avoiceformen.com". Nei giorni scorsi è stata montata l’ennesima polemica inutile, nata da una fotografia scattata durante un dibattito pubblico in cui erano coinvolti esponenti politici del noto PD. In un paese normale i giornalisti sarebbero impegnati a raccontare fatti molto più importanti e non dedicherebbero nemmeno mezzo rigo ad episodi insignificanti com’era quello che ha fatto scoppiare la polemica. Ma nel clima di isteria in cui siamo immersi, alimentato quotidianamente dalla propaganda del più becero femminismo d’accatto, ormai episodi di pubblica indignazione basati sul nulla sono diventati la regola.

Volontarie intervenute durante un dibattito politico per riparare i partecipanti dalla pioggia. Galeotta è stata la foto che vedete al lato, raffigurante delle donne che mantengono degli ombrelli, intente a riparare dalla pioggia un gruppo di partecipanti ad un dibattito pubblico. Per qualsiasi individuo dotato di un minimo di raziocinio, la foto non costituirebbe un problema, né tantomeno sarebbe oggetto di scandalo. A maggior ragione se si considera che le donne raffigurate sono tutte volontarie, offertesi liberamente per permettere al dibattito di proseguire nonostante la pioggia. Eppure l’intera società civile si è indignata in coro, gridando allo scandalo e al sessismo. Non c’è stata nessuna voce dissonante. Giornali ed esponenti politici hanno cavalcato la protesta, avallata nei sui deliri addirittura da partiti che si definiscono di destra. Si è parlato anche di schiave.  Questo dovrebbe chiarire a che livello di condizionamento e plagio ideologico siamo arrivati, e ci porta a concludere che ormai l’ideologia femminista non è più appannaggio esclusivo di un parte della sinistra cosiddetta radicale, ma ha contaminato l’intero panorama politico italiano che appoggia all’unanimità qualsiasi iniziativa di questo nuovo culto sociale. Elemento di cui tenere conto quando saremo chiamati ad esprimere il nostro voto.

Ma cosa ha sconvolto tanto i femministi? Uomini che reggono ombrelli per proteggere le first ladies durante il vertice Germania Cina. Se a scandalizzarli è stato il ruolo ricoperto da quelle ragazze, considerato in sé un ruolo degradante, avrebbero dovuto montare la stessa polemica anche dopo aver visto questa foto, dove lo stesso compito è stato assegnato stavolta a due uomini, durante l’incontro al vertice tra Germania e Cina. Riteniamo che non ci sia nulla di degradante neppure in questa immagine, ma un movimento paritario, che si batte per l’uguaglianza, dovrebbe essere coerente nelle sue lotte, per quanto assurde possano essere. Tutto questo scandalo invece non c’è stato a parti inverse. Perché? Come è già successo per altri episodi, ancora una volta, l’indignazione dei femministi non è dipesa dal compito in sé, ma dal fatto che quel compito fosse stato assegnato a delle donne per proteggere dalla pioggia un gruppo di uomini. È stato il sesso degli interessati a determinare la valutazione del fatto, e non il fatto in sé a determinarne il giudizio di valore. Se al posto di quelle donne, a reggere gli ombrelli ci fossero stati degli uomini, o se viceversa, sedute a parlare ci fossero state delle donne, nulla sarebbe accaduto, nessuna polemica, nessuno scandalo, nessuna accusa di sessismo. Si sarebbe parlato piuttosto di gentiluomini o di empowerment femminile. Distinguere e valutare un comportamento in base a chi lo compie: cosa c’è di più sessista e antiparitario? Non è un paradosso che questa contraddizione venga alimentata e portata avanti da un movimento che si dice a favore della parità? No, non è un paradosso purtroppo. Il femminismo ci ha offerto ancora una volta un esempio lampante del suo modo di interpretare la realtà, profondamente influenzato dalla sua ideologia conflittuale che vede nello scontro perenne tra il maschile e il femminile, la sua ragion d’essere. Ecco un esempio lampante di come la teoria del patriarcato condiziona il modo di pensare e agire dei femministi e ormai dell’intera società civile, ed ecco perché il femminismo non potrà mai essere un movimento universale. Il suo punto di vista sarà sempre influenzata dal pregiudizio e le sue richieste non saranno mai realmente indirizzate ad una reale parità tra i sessi bensì costituiranno solo l’ulteriore pretesto per alimentare lo scontro.

Ossessione sessista. "Basta ombrelline in Formula Uno". Pensando candidamente a donne e motori, gioie e dolori. Forse è stato un modo sbagliato di crescere, di immaginare, di sognare. Siamo diventati grandi fantasticando di guidare automobili inarrivabili e abbracciare bellezze mozzafiato, scrive Benny Casadei Lucchi, Venerdì 15/12/2017, su "Il Giornale". Siamo cresciuti così. Pensando candidamente a donne e motori, gioie e dolori. Forse è stato un modo sbagliato di crescere, di immaginare, di sognare. Siamo diventati grandi fantasticando di guidare automobili inarrivabili e abbracciare bellezze mozzafiato. Molti di noi l'hanno fatto con ingenuità, senza malizia; di più, l'hanno fatto senza derive e convinzioni sessiste, ma solo perché affascinati da quel binomio profumato di fiaba. Colpa di mamma, una donna, e colpa di papà, un uomo. Entrambi non si sono mai presi la briga di spiegare a noi maschietti o a noi femminucce che dietro quell'accostamento diventato proverbio c'era un paragone sgraziato: una donna, un motore. Due oggetti. Oggi è la Formula uno a porsi il problema. Uno sport maschio ed emblema di quell'accostamento abitato però da molte donne che ricoprono ruoli di altissimo livello nei team. E lo fa dal proprio cuore: la griglia di partenza. La striscia d'asfalto dove l'attenzione del mondo è al massimo; là dove i piloti si preparano a sfidare la morte sistemandosi l'armatura come cavalieri del rischio protetti e accuditi dalle ombrelline, le splendide fanciulle colorate di vita e sensualità spesso con un ombrello in mano per dare loro sollievo sotto la pioggia o il sole. Donne e motori, gioie e dolori. I nuovi capi americani della F1 si domandano se sia il caso di proseguire con questa cerimonia laica e scosciata. Vogliono abolirla. Forse per l'onda purificatrice scatenata dallo scandalo Weinstein, forse per proprie ragioni. «Molte persone ritengono passata la tradizione delle ragazze in griglia. Altre la trovano qualcosa che deve restare. Quando avremo tutti i punti di vista, prenderemo una decisione per il bene dello sport...» dicono Chase Carey e Ross Brawn, ceo e direttore del Circus. Un paio di anni fa, a Monte Carlo, vennero schierati i grid boy; più di recente, in un altro Gp, i ragazzini mascotte. Sarà questa l'alternativa politically correct alle ombrelline: un'alternanza tra girls, boys e babies. Ma donne, uomini e bambini non farà mai rima con motori. Con gioie e dolori sì. Sempre. Però addio fiaba e addio sogni.

PURITANI. Formula 1, addio ombrelline: la nuova proprietà americana cancella le belle ragazze. Una scelta talebana, scrive il 31 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Niente più ombrelline in Formula 1: le ragazze che in minigonna o pantaloncini posavano accanto ai piloti prima della partenza dei Gran Premi spariranno dalle piste, fin dal debutto di Melbourne del 25 marzo. Lo ha annunciato la Liberty Media, nuova proprietaria del circo dei motori, spiegando che le grid girls "erano chiaramente in contrasto con le norme della società moderna". L'ondata moralista, insomma, travolge la Formula 1. I proprietari americani aggiungono: "Non riteniamo che questa pratica che va aventi da decenni sia appropriata o rilevante per la Formula 1 e per i suoi fan, vecchi e nuovi, nel mondo". Come ha spiegato Sean Bratches, managing director delle operazioni commerciali in F1, la misura fa parte di un pacchetto di novità che vogliono rendere le gare "più in sintonia con la nostra visione di questo sport". Anzichè ragazze succinte a tenere gli ombrellini per riparare dal sole o dalla pioggia i piloti, i momenti prima della gara diventeranno un’occasione di "celebrazione" con ospiti e artisti e uno spazio per sponsor e Paesi ospitanti che si potranno mettere in mostra. Anche la federazione internazionale delle freccette ha recentemente abolito l’usanza di avere gli atleti accompagnati da avvenenti ragazze al loro arrivo nell’area di gioco.

Motori senza donne, scrive Giovedì 01 febbraio 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". I padroni americani della Formula Uno hanno deciso di togliere dal circuito le ragazze con gonne millimetriche che facevano ombra ai piloti prima della partenza: le ombrelline. «Questa pratica è in disaccordo con le regole di base della società moderna», hanno detto. La società arcaica, che associa le donne ai motori da una vita, ha ribadito le sue regole di base sul web: «Erano l’unica cosa che mi teneva sveglio durante il Gran Premio»; «Puritani e ipocriti al soldo degli emiri!»; «Non sarà che questi americani sono tutti dell’altra sponda?»; «Ombrelline licenziate, il buonismo produce disoccupazione»; «Basta che adesso non arrivino gli ombrelloni». C’è ancora del lavoro da fare. Però per la prima volta si afferma il principio che la donna non ha il compito prioritario di eccitare gli spettatori. Chi regge la Formula Uno non si lascia certo guidare dagli scrupoli morali. Se ha deciso così, è perché sente che l’umore del pubblico pagante è cambiato. Il mondo dello spettacolo resta un covo di «ine», eppure il caso Weinstein ha prodotto un cambio di prospettiva senza ritorno, che va oltre i casi di molestie. Dopo decenni di inconsapevolezza, lo sfruttamento del corpo femminile viene improvvisamente notato, provocando un moto di imbarazzo e forse di fastidio. Parafrasando il pilota di un bolide volante che andava persino più veloce di una Ferrari, la scomparsa delle ombrelline potrebbe rivelarsi un piccolo passo per la donna, ma un grande passo per l’umanità.

Cancellare le ombrelline? Per Ecclestone una decisione «puritana». Il mondo dello sport si divide sulla decisione degli americani di Liberty Media di togliere le ragazze dalla griglia di partenza: gesto progressista o talebano? Scrive Fabrizio Corgnati giovedì 1 febbraio 2018 su Diario del web. Cancellare le ombrelline. Un gesto progressista e anti-sessista, come lo definisce oggi l'editorialista del Corriere della Sera Massimo Gramellini: «Per la prima volta si afferma il principio che la donna non ha il compito prioritario di eccitare gli spettatori. Chi regge la Formula Uno non si lascia certo guidare dagli scrupoli morali. Se ha deciso così, è perché sente che l'umore del pubblico pagante è cambiato»? Oppure un'ipocrita dichiarazione di puritanesimo e buonismo, all'insegna del politicamente corretto: «È evidente, dietro questa decisione – scrive Maria Elena Barnabi sul Messaggero – l'influenza dei movimenti del #MeToo e del #TimesUp, nati dopo lo scandalo Weinstein, per contrastare e denunciare le molestie subite dalle donne nello showbiz, nel lavoro, nello sport e in generale nella vita. La Formula 1 vuole dire che non è uno sport maschilista, che rispetta le donne e che non le considera un mero oggetto sessuale»? A dividersi sulla decisione di cancellare lo storico binomio donne e motori, insomma, non è solo il mondo dello sport, ma anche quello della cultura: la Formula 1 ha operato una svolta sull'onda degli scandali per le molestie sessuali, oppure si è solo riscoperta ancora più talebana e moralista? Il dibattito resta aperto, e non poteva che coinvolgere anche Bernie Ecclestone, l'ex patron del circus iridato che solo un anno fa ha ceduto il controllo del suo vecchio giocattolino agli americani della Liberty Media, autori appunto di questa rivoluzione copernicana. E Mr E, dal canto suo, non poteva che accogliere la decisione con un moto di sgomento: «Le ragazze facevano parte dello spettacolo – ha dichiarato ai microfoni del quotidiano inglese The Sun – I tifosi amano il glamour, ma il mondo oggi sta diventando un po' troppo puritano. Le grid girl dovrebbero essere concesse perché piacciono ai piloti, piacciono al pubblico e il resto non importa a nessuno. Non vedo come una bella donna che staziona sulla griglia di partenza, davanti a una monoposto, tenendo in mano un cartello con il numero di gara del pilota, possa essere ritenuta offensiva da qualcuno. Sono tutte vestite bene, altrimenti marchi come Rolex e Heineken non accetterebbero di essere rappresentati da ragazze non presentabili. Pensavo che ci fossimo dimenticati dell'idea che le donne non possano fare lavori da uomini e viceversa, che ormai fossimo tutti uguali. Le ragazze con i piloti facevano parte della preparazione e della tensione che precede lo show». Parole che, come del resto tutte le opinioni circolate a seguito di questo annuncio rimbalzato rapidamente in tutto il mondo, sono destinate ad alimentare ulteriormente la discussione: Ecclestone continua ad insistere una mentalità ormai anacronistica ed arretrata, oppure piuttosto è soltanto molto più sincero di chi comanda oggi il campionato?

Boldrinata nell’Endurance 2015: via le ombrelline dai circuiti, scrive Armando Haller l'11 aprile 2015 su "Primato nazionale". Niente umbrella girls nel campionato automobilistico endurance, ovvero le gare di durata tra cui figura anche la leggendaria 24 ore di Le Mans. A darne l’annuncio è stato Gerard Neveu, direttore del World Endurance Championship, durante la presentazione della nuova stagione: “dalla prossima settimana a Silverstone non vedrete più grid girl in nessuna gara” e ancora “per me è qualcosa che riguarda il passato, la condizione della donna è leggermente differente ora”. A fargli eco anche Anthony Davidson, già al volante della Honda in Formula 1 e campione Wec su Toyota: “ne ho parlato molto con mia moglie ed entrambi concordiamo sul fatto che si tratti di qualcosa ormai superato […] gli sport motoristici dovrebbero seguire più da vicino ciò che accade nel mondo”. Le corse come teatro scelto dagli alfieri della rieducazione gender, per la lotta senza quartiere al sessimo? Forse no, e proprio Neveu ha spiegato che l’operazione si inquadra in un più ampio progetto teso ad ampliare il pubblico di appassionati: “lo sport è lo sport, ma intorno a questo possiamo fare molte altre cose. Avremo un dj, intrattenimento e tante altre cose sulla griglia di partenza, lo spettacolo inizia là ma al centro ci saranno solo le auto e i piloti”. Non più le ragazze quindi, che tuttavia potrebbero aver perso il posto più per motivi commerciali che per una presa di coscienza, che si vorrebbe antisessista, da parte dell’organizzazione. E dal momento che più della passione è il denaro che ormai assicura la sopravvivenza al mondo delle corse, una strizzata d’occhio a paesi dove le gambe scoperte delle ombrelline potrebbero rappresentare una barriera non sarebbe poi così impensabile. Lo scorso weekend, per esempio, a Losail (Qatar) il brindisi dei piloti di Motogp è stato analcolico, proprio in ragione delle usanze del paese ospitante. In merito alla necessità di un tale provvedimento, il paragone fatto dal direttore del Wec con le partenze in corsa prima del 1969 non regge. In conferenza stampa Nevue ha infatti ricordato quanto inaspettato fosse lo stop delle partenze con la corsa dei piloti verso le auto, pronte a partire sul lato opposto della pista. In quel caso il cambio di rotta fu adottato per motivi di sicurezza e in seguito alla protesta di Jack Ickx, che nella gara di Le Mans del 1969 si avvicinò alla sua Ford GT40 camminando e, dopo aver allacciato le cinture, lasciò sfilare tutti gli avversari, prima di recuperarli e vincere la gara. In questo caso non registriamo la contrarietà delle ragazze a partecipare alle gare, né tantomeno mancanze di rispetto nei loro confronti che in diversi casi erano già (o sono poi divenute) le mogli di alcuni piloti, da Saarinen a Shenee fino a De Puniet e Stoner. Tanto per tornare alle due ruote, dove ci auguriamo di trovare direttori un po’ meno avvezzi a questo genere di boldrinate.

Via le ombrelline dalla F1. E se toccasse anche alle moto? Scrive Marco Gentili giovedì 1 febbraio 2018 su "dueruote.it". L'ipocrisia imperante vestita da buonismo ha portato all'abolizione delle umbrella girl dalla Formula 1. Una decisione inutile (se non controproducente) presa da un gruppo di uomini, che ha stabilito come le donne possono e devono disporre del proprio corpo. Ma che rischia di estendersi anche agli altri sport motoristici. L’altra metà del cielo, per gli amanti dei motori, è il mondo – decisamente più dorato – della Formula 1. Per chi non lo seguisse, dal gennaio 2017 il Formula One Group, il consorzio di aziende che gestisce il circus delle quattro ruote, è stato rilevato dall’americano Liberty Media Group. Che ha stabilito (non proprio a sorpresa, visto che se ne parlava da qualche mese) di abolire le grid girl con effetto immediato. “Questa pratica è in disaccordo con le regole di base della società moderna”, hanno detto i vertici della compagnia statunitense. Che, sulla scorta dell’ondata mediatica seguita alla campagna social #metoo, allo scoppio dello scandalo sessuale che ha coinvolto il produttore cinematografico Harvey Weinstein e alla rinnovata attenzione nei confronti dei diritti delle donne, ha deciso di inserirsi nel filone del politically correct e dell’ipocrisia imperante vestita da buonismo. Un cambio di paradigma che, al momento, non è stato recepito nel mondo delle due ruote dal Motomondiale alla SBK. E per fortuna, diciamo noi. La Dorna, su questo punto, è più tradizionalista: non a caso si è opposta fermamente alla richiesta della municipalità spagnola di Jerez de la Frontera di cancellare le ombrelline dal GP locale. 

Un gesto vuoto e poco utile. Le ombrelline offendono, mercificano, sviliscono il ruolo della donna? No di certo. Più semplicemente, sono parte dello spettacolo, del Gran Premio come celebrazione pagana della passione per i motori. Sono, più semplicemente, ragazze come le altre (di sicuro graziate da madre natura con un bell’aspetto) che frequentano l’universo delle due ruote in cerca di visibilità. E, in qualche caso, dell’amore della vita: nella storia del Motomondiale, tanto per fare un esempio, niente come il paddock ha funzionato bene come agenzia matrimoniale. Di certo, i diritti delle donne non si difendono con gesti simbolici e vuoti come quello messo in essere da Liberty Media. Se mai, è necessario un cambiamento culturale ed educativo che parte dal basso, in primo luogo dalla famiglia. E l’emancipazione non passa certo dalla decisione presa da un gruppo di maschi, che stabiliscono come le donne possono e devono disporre del proprio corpo. 

LA MOTOGP MANTIENE LE GRID GIRLS: “SONO NORMALI LAVORATRICI”, scrive l'1 febbraio 2018 "tuttomotoriweb.com". Liberty Media ha annunciato che le ragazze sulla griglia non saranno più presenti nei Gran Premi di Formula 1. Una notizia che ha lasciato attoniti gli appassionati del motorsport e non solo che non hanno gradito il cambiamento epocale. L’annuncio è arrivato da Liberty Media. “Mentre la pratica di utilizzare le ragazze sulla griglia d’ora è stato una costante nel Gran Premio di F1 per decenni, riteniamo che questo non va bene con i nostri valori ed è chiaramente contro le norme sociali moderne”. Secca la smentita dell’ex patron Bernie Ecclestone: “Nessuno si è mai posto il problema. Ai piloti piacevano e così ai fan. Sinceramente poi, non riesco a capire cosa ci possa essere di offensivo…”.

La risposta della Dorna. Ma in MotoGP ragionano diversamente e Ignacio Sagnier, Responsabile comunicazione di Dorna, ha subito ribadito che le umbrella girls non scompariranno dai circuiti del Motomondiale, perchè “godono della stessa considerazione che hanno tutti quelli che lavorano nel sistema MotoGP”, alla pari di meccanici, addetti alla sicurezza, promotori, ecc. “Anche se non vediamo niente di irrispettoso non ci interessa che siano ragazze o ragazzi… Inoltre molti bambini sono già venuti in griglia senza problemi, e con loro molti modelli o studenti o lavoratori. E’ un lavoro e il lunedì tornano alle loro cose. Persone che rispettiamo perché è un altro lavoro e con cui 500 o 1.000 uomini e donne sono fotografati senza problemi, quindi i team lo vogliono e vogliono continuare a farlo”.

Il parere del sociologo. Sul ruolo delle donne nello sport è intervenuto il dottore in Sociologia ed esperto di femminismo Andrea Garcia che ha spiegato all’agenzia stampa Efe: “Uno dei problemi principali è che le ragazze, quando vedono le competizioni, le uniche referenze femminili che trovano sono le hostess e questo è tutt’altro che motivarle ad essere atlete… Le donne presenti sui podi a consegnare trofei non sono solo una trovata pubblicitaria, ma, quando sono accanto ad un vincitore di sesso maschile, dimostrano di essere un ‘Premio donne’, una richiesta assolutamente oggettivata”. Una spiegazione che trova molte persone discordi…

La devastazione antropologica dell'addio alle ombrelline della Formula 1. Vista la monotonia di quel che avveniva in pista, erano loro l’unico motivo per stare incollati alla tv. Ma l’America è un posto in cui persino un pornoattore ormai lo fanno fuori dai galà di categoria per atteggiamenti inappropriati, scrive Maurizio Crippa il 31 Gennaio 2018 su “Il Foglio”. Non per rubare le parole di bocca a Eugenia Roccella, ma l’occidente ha compiuto un altro passo “verso la fine dell’umano”. E per una volta non è colpa di Marco Cappato. E’ non è colpa nemmeno di Bernie Ecclestone, vecchio satrapo, che il Circo Barnum della F1 lo aveva venduto per tempo, fiutando l’aria, alla Liberty Media, roba americana, per una badilata di miliardi. Sono loro che hanno deciso di abolire le ombrelline. Quelle ragazze da urlo che stavano lì per delle mezz’ore, in mondovisione, di fianco alle monoposto, immobili come altrettante Staute of Liberty dell’immaginario maschiocentrico. Vista la monotonia di quel che poi avviene in pista, l’unico motivo per stare incollati alla tv. Ma l’America è un posto in cui persino un pornoattore ormai lo fanno fuori dai galà di categoria per atteggiamenti inappropriati. Così, “nell’ultimo anno abbiamo notato molte aree dello spettacolo che hanno bisogno di essere aggiornate e adeguate a quella che è la nostra visione dello sport” (una visione che non fa luccicare gli occhi? O si preoccupano dei teenager che rischiano di diventare ciechi?) e dunque le ombrelline sono “in disaccordo con le regole di base della società moderna”. Le ragazze avevano persino tentato di difendersi: “Una grid girl non è lì solo per fare bella presenza, le più brave parlano anche”, che suona un po’ come certe dichiarazioni politiche. Ma la frattura antropologica del binomio donne & motori è compiuta. Al loro posto, i neopuritani minacciano di far scendere in pista dei “performer”. Se si azzardano con Marina Abramovicć, guardo solo il MotoGp. 

LE NEOFEMMINISTE.

Neofemministe ma sempre contro l'uomo. Tremate, tremate le streghe son tornate! Era lo slogan in voga fra le «cattive ragazze» degli anni '70. Le neofemministe hanno invece un piano per sconfiggere il sessismo, scrive Laura Tecce, Sabato 09/12/2017, su "Il Giornale". Tremate, tremate le streghe son tornate! Era lo slogan in voga fra le «cattive ragazze» degli anni '70. Le neofemministe hanno invece un piano per sconfiggere il sessismo. Ossessionate da una fuorviante visione della donna vittima e dell'uomo sempre carnefice, hanno sostituito i girotondi con i blog per insultare gli uomini, le marce per le rivendicazioni sociali con gli hashtag per denunciare presunte molestie. Non si battono più per il divorzio ma per essere chiamate «presidenta», non sono più orgogliose della loro prerogativa generativa ma affittano il loro apparato riproduttivo al miglior offerente in nome del diritto degli omosessuali alla genitorialità. Non vogliono più liberare il corpo ma permettono che esso sia velato in nome di un multiculturalismo ostentato. Il nemico è sempre e solo uno: il maschio bianco eterosessuale contro cui è in atto una subdola, strisciante guerra con la complicità di media compiacenti che assurgono a gigantesca macchina di controllo. È ora di non farsi più prendere in giro da una strumentale e pericolosissima volontà di contrapposizione fra i sessi in nome di una deriva politicamente corretta da operetta. 

Donne contro femministe: "Basta, i complimenti degli uomini non sono insulti", scrive il 26 Luglio 2014 Gemma Gateani su Libero Quotidiano". Adesso chi glielo dice a Lidia Ravera? Sono tantissime le donne che in questi giorni, su Twitter, contro il femminismo affermano splendide frasi, pure come versi di poesie e precise come motivazioni di sentenze, che perciò riportiamo letterali: «Non ne ho bisogno perché non sono una vittima»; «Non mi serve perché rispetto gli uomini»; «Non mi serve perché mette le donne contro gli uomini»; «Non mi serve perché se un uomo mi fa un complimento non lo considero un insulto»; «Non mi serve perché è stato confuso con la misandria che è negativa come la misoginia»; «Mi piacerebbe essere una casalinga e una mamma che sta in casa e non dovermi sentire come meno di una persona per questo» (commovente); «Distrugge le famiglie» (verissimo). E «I love the D.». Ovvero «I love the dick», ovvero, semplicemente, amorevolmente, «Io amo il pene». Insomma, il femminismo è finalmente morto e ad ucciderlo sono state proprio le femmine, utilizzando l’arma più innocua possibile, l’hashtag #womenagainstfeminism. Sono giovani, occidentali, belle, e ribadiscono il diritto di tornare a concepire il rapporto tra maschio e femmina tradizionalmente. Alleluia: quello del femminismo è il funerale meno doloroso della storia dei decessi, perché ormai soltanto le carampane rimaste agli anni Settanta e le loro giovani indottrinate credono ancora necessario «contrastare il potere dello sporco maschio», cieche dei reali danni procurati nei decenni, presso il povero maschio, dall’ipertrofia egotica di una femminista che, se riceve un sincero complimento da bocca maschile, inizia ad urlare di essere stata sottoposta a una discriminazione sessista o, peggio, lo accoppa con le mosse imparate al corso di autodifesa. Il problema, però, è che queste femministe militanti non sono poche. E nemmeno sole. Su Repubblica.it, increduli e sconfortati, commentano così la notizia dell’hashtag antifemminista che sta spopolando: «Anni di lotte e di rivendicazioni gettati alle ortiche. Basta un hashtag per fare dire alle donne che il femminismo è un capitolo chiuso. Il messaggio è affidato a un cartello». Forse avrebbero preferito una discesa in piazza, che avrebbe reso più facile una controffensiva stragista di queste benedette donne che non vogliono più odiare gli uomini, chissà. Eppure, coi cartelli nei selfie femminili a Repubblica andavano molto d’accordo quando, nell'autunno del 2009, ne raccolsero ben tremila, oltre a decine di migliaia di firme, con l’appello rivolto alle donne che volevano dire a Silvio Berlusconi di non essere «a sua disposizione». In quel caso, il cartello era un ambasciatore valido. Un tentativo di «boicottaggio» dell’incipiente rivoluzione antifemminista, il sito del quotidiano che sul femminismo (soprattutto antiberlusconiano) ha gozzovigliato alla grande, in realtà lo ha già messo in opera. Tra le 51 foto della galleria che ritraggono ragazze, che ribadiscono, timide e vere, a mezzo di cartello autografo, perché rifiutano il femminismo, ce ne sono quattro che veicolano messaggi femministi: «Non odio gli uomini. Semplicemente non ho nulla di buono da dire su di loro. Mai» (forse è muta, foto n. 15); «Non opprimermi coi tuoi ruoli di genere. Adesso fammiti dire come essere un vero uomo» (questa è quella che crede di essere Dio); «Un uomo con più educazione ed esperienza ha ottenuto l’impiego che volevo. Ecco perché ho bisogno del femminismo!» (questa è la furbastra che utilizza il sessismo come mezzo di potere, foto n. 48); «La donna non deve dipendere dalla protezione dell’uomo, ma deve essere capace di proteggersi da sola» (certo, e anche procreare, vivere e morire da sola, foto n. 50). Quando compaiono ci manca solo che parta Gli uomini non cambiano di Mia Martini, la canzone più vittimisticamente misandrica che ugola di femmina italica abbia mai gorgheggiato. Forse qualcuno a Repubblica.it deve aver pensato che se anche Pulcinella scherzando scherzando diceva la verità, allora anche loro potevano ribadire «la verità femminista» nella gallery antifemminista, in modo un po’ scherzoso, un po’ no. Cosa non si fa per determinare a tradimento un cortocircuito nella femmina antifemminista come me (e, per fortuna, come molte altre) mentre scorre, toccata da tanta saggezza, i selfie di benedette sorelle che amano gli uomini. Ma è inutile, noi stiamo con le antifemministe. D’altronde, ci sta anche Camille Paglia. Non è un caso, dato che si tratta di uno dei cervelli più intelligenti che esistano, una femminista che però si è resa conto del fatto che criminalizzare il maschio non porta ad altro che ad un indiscusso superpotere femminile che trasforma presunte assoggettate in effettive assoggettanti, e presunti assoggettanti in effettivi assoggettati, cioè in «maschi addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista». Anche quelli del Corriere, quando la Paglia rilasciò all’inserto La Lettura la nota intervista in cui, oltre che questo, disse anche tutto il peggio dicibile de «l’avvocatessa o la dirigente bianca laureata a Yale e Harvard, che non ha più nulla di femminile», nel novembre scorso, non devono essersi sentiti molto bene. Una riappacificazione di genere, tra uomini e donne, doveva arrivare. Ora non è più sotterranea, grazie alle antifemministe di Twitter. Speriamo che a Repubblica.it non s’inventino l’appello rivolto agli uomini che vogliono dire alle dolci antifemministe che non sono «a loro disposizione». Lo temiamo.

Le neofemministe sono semplicemente sceme. Parlano di diritti delle donne e calpestano quelli degli uomini. Ma non è così che si guadagneranno il rispetto della società, scrive Azzurra Noemi Barbuto su Libero l'1 Febbraio 2018. Odiano gli uomini, fanno le vittime (in qualche caso indossando persino gli abiti poco credibili delle santissime martiri), predicano la parità tra i generi e poi si fanno mantenere dagli uomini, si scandalizzano davanti alla foto di una donna in bikini (...) (...) su un manifesto pubblicitario, come è accaduto due giorni fa a Palermo, dove una modella è stata coperta con la scritta «questa è violenza sulle donne», salvo poi farsi selfie seminude da postare online, combattono per i diritti delle donne stando in panciolle sul divano ed attaccando sui social network uomini e donne che reputano «maschilisti», parlano di «rispetto dei diritti» e poi fanno giustizialismo mandando direttamente al patibolo qualsiasi essere di sesso maschile verso cui una signora punti il dito, ed hanno sostituito alle battaglie per le pari opportunità quella per le pari vocali, pretendendo l’aggiunta dell’astina ad ogni sostantivo maschile.

INVASATE. Le neo-femministe invasate hanno rotto le palle. E le hanno rotte soprattutto alle donne, quelle che lavorano dalla mattina alla sera; che non provano indignazione davanti ad una donna in bikini, ma semmai davanti ad una con il burqua; che hanno stima degli uomini, con i quali lavorano in perfetta armonia; che si mettono a ridere quando vengono chiamate “avvocata”, o “notaia”; che non danno la colpa dei loro fallimenti ad una società maschilista, ma che si assumono le loro responsabilità per migliorare la propria esistenza; che credono ancora in un principio cardine del nostro ordinamento, ossia quello della presunzione di innocenza, quindi non condannano a morte nessuno senza un equo processo (non mediatico); quelle donne che si fanno rispettare nella sostanza e non nella sintassi e che ti mettono alla porta quando non lo fai, senza piagnucolare, senza lamentarsi. Infine, quelle donne che sanno dire “no”. E che innamorano follemente gli uomini per il loro valore.

FRUSTRAZIONE. È preoccupante l’odio feroce nei confronti del sesso maschile nato in seno alla nostra società e sempre più manifesto. È una sorta di frustrazione patita per motivi personali da chi ne è portatrice e che trova nella causa femminista (non originaria) un motivo ed un’occasione di rivalsa: non è più tanto importante lottare per i nostri diritti ma lo è lottare contro l’altro sesso, diventato ormai sesso debole. I maschi sono sempre più discriminati per l’appartenenza al genere. Pensiamo ai padri separati, o a coloro che sono vittime della violenza femminile, spesso non considerati o addirittura derisi perché si sono fatti picchiare da una lei. Pensiamo agli uomini usati come bancomat da donne che li manipolano solo per ottenerne vantaggi. Dio ci salvi dal bigottismo a stelle e strisce e dalla peggiore forma di femminismo mai vista al mondo. Poveri uomini di oggi. Non solo ormai non faranno più un complimento alla collega vicina di scrivania per paura di beccarsi una denuncia per molestie sessuali, ma non saranno nemmeno liberi di fare apprezzamenti sulle graziose “ombrelline” quando sono sul divano con birra e sigaretta a guardarsi il Gran Premio. E, in questo caso, non è che non lo faranno per il terrore di ricevere una denuncia a distanza ma semplicemente perché non le vedranno più. Niente gambe lunghe e mini inguinali. Niente sculettanti fondoschiena e niente seni generosi che esplodono in top di tre taglie di meno. Niente chiome bionde. Niente sorrisi e sguardi ammiccanti. Niente di niente. Addio. Le ombrelline sono state cacciate dalla Formula Uno. A partire dalla prossima stagione Il manifesto che ha fatto infuriare le femministe a Palermo di tipo economico, o a quelli che sul lavoro si vedono scavalcati da una che ha deciso di farsi strada non sfruttando le sue doti intellettuali ma ciò che possiede dentro gli slip. Si dice che il mondo del giornalismo sia maschilista, ma io con l’odio degli uomini devo ancora scontrarmi. Persino nel mio giornale, accusato da tutti di sessismo, le donne hanno un posto d’onore e vengono. La decisione è stata annunciata in un comunicato da Sean Bratches, managing director della Liberty Media che si è comprata la Formula 1. «Nell’ultimo anno abbiamo esaminato una serie di aree per le quali ritenevamo necessario un aggiornamento per renderle più in sintonia con la nostra visione considerate risorse preziose dai direttori e dai colleghi. Allora questo maschilismo dov’è? È nella testa di chi lo vede ovunque, persino in un titolo che richiama un idioma diffuso come “patata bollente”. Ieri mi è giunto un messaggio da parte di un’utente di facebook: «Buongiorno Signora Barbuto, visitando il suo profilo ho constatato che spesso utilizza espressioni quali “avere le palle”, “senza palle”. Espressioni che ritengo siano legate ad un linguaggio maschilista ormai obsoleto. I testicoli sono ghiandole che producono spermatozoi. Di certo non fonte di coraggio e personalità. Se così fosse, le donne non potrebbero avere coraggio e personalità».

LEZIONI NON RICHIESTE. Sono stata travolta dalla tristezza nel leggere queste righe da parte peraltro di una persona che non è tra i miei amici e mi spia per muovermi critiche o fornirmi suggerimenti mai richiesti. Avrei dovuto ringraziare la donna per la sua utile lezione di anatomia sui testicoli, certo, ma ho preferito non rispondere, perché ho avvertito l’impossibilità di spiegarmi con chi partorisce certi arzigogolati passaggi mentali. Non potrei raggiungere mai tali vette. Io sono più terra terra ed utilizzo il termine “senza palle” non perché sono maschilista, ma solo maleducata e dico le parolacce. E ne avrei una proprio qui, sulla punta della lingua. Vabbè. Minigonna e tacchi a spillo, così si presentano le giovani “ombrelline” che affiancano i piloti alla partenza.

Se la femminista inciampa nel sessismo: l’importanza dell’autocritica, scrive il 19 ottobre 2015 "pasionaria.it". Oh, mi spiace: il mio femminismo sta interferendo con la tua misoginia? Nell’ultima rassegna stampa abbiamo citato il caso di Stefania Chisu, ormai ex presidente della commissione Pari Opportunità della Regione Sardegna, dimessasi dall’incarico a causa di uno stato nel suo profilo Facebook. Chisu ha infatti scritto, prima di rimuovere tutto: Vorrei esprimere tutta la mia disistima nei confronti di una certa categoria di donne, quelle che nascono, crescono e purtroppo non cambiano il loro essere amanti del pene di tanti uomini, per usare un eufemismo, come é nella mia buona educazione…. ma se per un attimo mi tolgo la corona e il titolo onorifico che ho di difesa delle donne, non cascherá il mondo!! Perciò lo scriverò come farebbe la mia amata sorella: chi ha nel dna l’essere una gran troia, rimarrà tale per sempre! Perché una donna che ha lavorato per anni e anni per sensibilizzare sul tema del sessismo, nelle istituzioni e nel linguaggio, si è abbandonata a uno sfogo così bassamente misogino? Non certo per ignoranza del peso delle parole utilizzate. Questo non vuole essere un attacco personale, bensì uno spunto di riflessione: non si tratta infatti di un caso isolato. Nonostante questo abbia suscitato maggiore scalpore per via del ruolo politico dell’interessata, non è raro leggere commenti basati su stereotipi di genere (a volte anche offensivi) scritti da femministe dichiarate. L’antisessismo non è solo critica sociale: prima di tutto è un percorso di autocritica. Si possono frequentare seminari, leggere libri, guardare documentari, seguire blog, ma non è abbastanza se non si acquisisce la consapevolezza che gli stereotipi contro cui si combatte sono ben radicati anche nella propria testa. Se non si rivolge lo sguardo all’interno, ammettendo di essere cresciute nello stesso ambiente che nutre il sessismo del resto delle persone, non si può ottenere un reale progresso. Non esiste la “femminista perfetta”, ma non c’è crescita se ci si autoconvince di essere esenti da critiche, di non sbagliare mai, di sapere già tutto sull’argomento trattato. Non ha senso dividere il mondo in sessisti e antisessisti e sentirsi legittimate in tutto ciò che si dice perché tanto si è dalla “parte giusta”: se basta uno scatto di rabbia per insultare una donna dandole della “troia amante del pene”, o ad un uomo della “femminuccia”, è il caso di riflettere su come liberarsi attivamente degli evidenti pregiudizi che ancora permangono nella propria visione del mondo.

QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.

Nyt: Asia Argento versa 380mila dollari al giovane attore che l'accusa di violenza sessuale. La rivelazione del New York Times sull'accordo con Jimmy Bennett, che interpretò suo figlio in un film. L'aggressione sessuale sarebbe avvenuta in un hotel in California 5 anni fa, quando il ragazzo aveva 17 anni, scrive il 20 agosto 2018 "La Repubblica". Da grande accusatrice ad accusata. L'attrice e regista italiana Asia Argento, tra le prime donne nel mondo del cinema a denunciare la violenza sessuale subita dal produttore Harvey Weinstein, diventata paladina del movimento #MeToo, nei mesi che seguirono le sue denunce dello scorso ottobre, si accordò per risarcire con 380mila dollari Jimmy Bennett, un giovane attore e musicista rock che disse di essere stato aggredito sessualmente dall'attrice in una camera d'albergo in California anni prima, quando aveva appena compiuto 17 anni. Asia Argento allora aveva 37 anni (oggi ne ha 42). Una vicenda che lo ha segnato profondamente e che ha influito negativamente sulla sua carriera. Lo rivela il New York Times che cita i documenti degli avvocati di Asia Argento e di Bennet, oggi 22enne, che ha recitato la parte di suo figlio in un film del 2004, "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa". Tra le carte ci sarebbe anche un selfie datato 9 maggio 2013 che ritrae i due a letto, oltre ai dettagli sui tempi dei pagamenti: 380mila dollari in un anno e mezzo, a partire da un versamento di 200mila dollari fatto ad aprile. Nell'articolo si legge anche che non è stato possibile avere un commento da Asia Argento sulla questione nonostante i giornalisti del Times l'abbiano ripetutamente cercata. Anche Bennett non ha voluto rilasciare interviste, e il suo legale si è limitato a dire che "Jimmy continuerà a fare ciò che ha fatto negli ultimi mesi e anni, concentrandosi sulla sua musica".

"La Argento accusata di violenza sessuale su minore. E lo risarcì con 380mila euro". L'accusatrice di Weinstein nella bufera per la rivelazione del New York Times. L'aggressione sarebbe avvenuta 5 anni fa: lui aveva 17 anni, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 20/08/2018, su "Il Giornale". "Me too" nel senso di "anche io". È questo il nome del movimento femminista sorto in seguito alla bufera che ha investito il produttore Harvey Weinstein e aperto una voragine nel mondo dello spettacolo Usa e non solo. Tra loro Asia Argento può forse essere annoverata come la paladina, uno dei simboli del #MeToo. Secondo quanto rivela il New York Times, Asia Argento avrebbe accettato di risarcire con 380mila dollari Jimmy Bennett. Questo giovane attore e musicista rock, infatti, l'avrebbe accusata di aggressione sessuale. Il tutto si sarebbe svolto in una camera di albergo in California, quando lui aveva appena superato la soglia dei 17 anni. Dunque era ancora minorenne e, a detta dei suoi legali, questo lo avrebbe traumatizzato. Il risarcimento richiesto nella denuncia sarebbe stato di 3,5 milioni di dollari per "aver intenzionalmente inflitto sofferenza emotiva e perdita di stipendio a seguito di un'aggressione sessuale". L'attrice e regista italiana, quando si sarebbero svolti i fatti, aveva 37 anni (dunque si tratta di cinque anni fa, visto che la Argento ora ha 42 anni). La Argento fu una delle prime a accusare Weinstein e dopo le sue denunce a ottobre, però, si sarebbe accordata per risarcire il giovane attore che la accusa. I due hanno condiviso alcuni mesi lavorativi nel 2004, quando lui recitò come suo figlio in "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa". Il New York Times porta a sostegno della sua tesi i documenti degli avvocati di Bennet e della Argento. La regista avrebbe versato i 380mila euro in un anno e mezzo e il primo versamento sarebbe stato fatto lo scorso aprile. Lei, per ora, non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti del Times che le chiedevano un commento. E lo stesso ha deciso di fare Bennet: "Jimmy continuerà a fare quello che ha fatto negli ultimi mesi e anni - ha detto il suo avvocato - concentrandosi sulla sua musica". Nelle carte ci sarebbe anche un selfie, datato 9 maggio 2013, in cui si vedrebbero la Argento e il ragazzo a letto.

Asia Argento accusata di molestie, lo shock del padre Dario: «Che cosa brutta», scrive Gloria Satta Martedì 21 Agosto 2018 su "Il Messaggero". La voce al telefono è decisamente affranta. «Che cosa brutta», esclama Dario Argento, il padre di Asia, investito dalla nuova bufera che vede protagonista la primogenita, molto amata e attrice in numerosi suoi film da La Sindrome di Stendhal a La terza madre e Dracula 3D. Il grande regista, 78 anni, ha finora appoggiato senza riserve le battaglie anti-violenza di Asia, apprezzandone pubblicamente il coraggio. «Ha paura perfino per la sua vita, nel caso Weinstein sono in gioco servizi segreti e potrebbero spararle», aveva detto in tv, ospite di Domenica In, «ma mia figlia va avanti per la sua strada, è sempre più convinta. È una donna pura accerchiata dai maiali... Povera Asia, quante ne ha passate». E oggi, mentre su media e social del mondo intero rimbalzano le nuove, clamorose notizie su Asia nell’inedito ruolo di «molestatrice», Dario non se la sente di sbilanciarsi: «Sono appena tornato a Roma», dice, «e non ho ancora sentito mia figlia. Non mi va di parlare di questo fatto finché non mi sono fatto un’idea precisa».

Asia Argento, parlano gli avvocati di Harvey Weinstein: "Incredibile ipocrisia", scrive il 21 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Non aspettavano altro gli avvocati del produttore cinematografico Harvey Weinstein. La rivelazione del New York Times secondo la quale Asia Argentoavrebbe pagato 380 mila dollari per risarcire l'attore Jimmy Bennett, all'epoca 17enne, dopo aver subito molestie sessuali, è stata solo la conferma dell'"alto livello di ipocrisia di Asia Argento", come ha detto uno dei legali di Weinsterin, Benjamin Brafman. "Quel che è ancora più stupefacente - ha aggiunto l'avvocato - è che mentre la signora Argento stava lavorando segretament per accordarsi in un caso di abusi su un minore, in pubblico faceva di se stessa una delle voci più violente dell'accusa contro Weinsterin, nonostante il fatto che la loro fosse una relazione tra due adulti consenzienti durata quattro anni". A questo punto il pool di avvocati non resta con le mani in mani e rilancia con il contrattacco, dopo mesi di fango: "La cristallina doppiezza della sua condotta è davvero straordinaria e dovrebbe almeno servire a dimostrare a tutto con quanta superficialità le accuse contro il signor Weinstein siano state verificate e di conseguenza lasciare spazio a un giusto ed equo processo e non a una condanna preventiva fondata sulla disonestà".

Matteo Salvini brutale su Asia Argento: "Mi dava della merdaa ogni giorno", scrive il 20 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". "Questa è la 'signora' che mi insultava ogni due minuti, e mi ha dato del razzista e della m...a??? Mamma mia che tristezza...". Lo scrive su twitter il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in merito alle ultime vicende che vedono protagonista l'attrice Asia Argento, accusata di molestie sessuali da un collega 17enne.

CHI DI COSCIA FERISCE, DI COSCIA PERISCE, scrive Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” 21 agosto 2018. Questa è grossa, mi viene da ridere a raccontarla. I lettori ricorderanno il pandemonio suscitato da Asia Argento mesi orsono, allorché denunciò un grande produttore cinematografico americano, Harvey Weinstein, accusandolo di averla molestata negli anni Novanta. Il fatto fu riassunto così: il cineasta la invitò in una camera di albergo dove lei si recò giuliva. Sennonché egli volle praticare il cosiddetto sesso orale. Asia, per timore di perdere lavoro o per riverenza, acconsentì e si fece baciare la passera. Venti anni più tardi si arrabbiò e mise pubblicamente alla berlina il leccator cortese. Scoppiò uno scandalo tardivo e un po' ridicolo. Polemiche, dibattiti televisivi, un putiferio giornalistico. Madame Argento si propose quale vittima di molestie e molte le credettero, specialmente le femministe d' accatto. Nulla di strano. Le porcellate divennero un argomento di moda. Varie donne si accodarono all' attricetta e a loro volta si dichiararono prede di uomini vogliosi. Vabbè, il costume si forma spesso in base a stupidaggini ingigantite dai media. Ma questo è niente. Ora si scopre che la figlia del regista noir, sempre negli Usa, si è fatta un ragazzotto diciassettenne. Il quale, applicando la legge del contrappasso, per tacere dell'amplesso, le ha chiesto ottendendolo un risarcimento di 380 mila dollari (pari a 330 mila euro). Pagare per le proprie colpe significa ammettere di averle. Per la fanciulla dedita al piagnisteo trattasi di sputtanamento cosmico. Una che frigna urbi et orbi per uno slinguazzamento subito, o accolto (saperlo), e poi risulta essere andata a letto illegalmente con un minore, dimostra di essere una squilibrata, in senso buono naturalmente. D' altronde, chi di coscia ferisce di coscia perisce. Noi non auguriamo ad Asia di perire bensì di rinsavire e magari di sparire dalla tivù, andando a riflettere in casa propria. Tra l'altro desideriamo difenderla. Il giovane con cui si è dilettata e che poi ha preteso di essere remunerato è uno sciocco. Spaventarti a causa di una passera che hai gradito e considerarla motivo di turbative psicologhe meritevoli di 330 mila euro, è da idioti o da furfanti. Argento non doveva dargli un centesimo. Fare l'amore non è una pena ma un piacere. Per lui e per lei. Ipocriti.

Massimo Gramellini per “il Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. Che la paladina delle vittime di abusi sessuali, Asia #metoo Argento, abbia versato 380 mila dollari a un attore di vent' anni più giovane per lenirgli il trauma di averlo sbattuto su un materasso a molle californiano quando era ancora minorenne è una di quelle notizie fatte apposta per scatenare reazioni di pancia. La prima rivolta a lei: ma guarda da che pulpito veniva la predica. La seconda a me: se a 17 anni, in piena tempesta ormonale, un'attrice fosse scesa dal poster della mia camera per possedermi, ne sarei rimasto «traumatizzato» come il toy-boy di Asia o galvanizzato come un mio compagno di scuola dopo il flirt con la supplente di disegno? Di quell' attore in erba Asia Argento era la mentore riconosciuta, tanto che lui la chiamava «mamma». Tra loro si era instaurato, a sessi rovesciati, lo stesso rapporto di subordinazione che il produttore hollywoodiano Weinstein intratteneva con le sue prede. Come nel Signore degli Anelli, il Potere altera le relazioni umane, facendo impazzire chi lo detiene, ma anche chi è disposto a tutto per ottenerne i favori. Solo un illuso può credere che nelle mani delle donne cambi natura: la Storia è piena di regine ninfomani e sanguinarie. Maschio Weinstein o femmina Argento che sia, chiunque eserciti un potere senza controllo finisce sempre per abusarne.

ARGENTO COME WEINSTEIN È LA VERA PARITÀ TRA I SESSI, scrive Vittorio Sgarbi per “il Giornale” il 21 agosto 2018. Io sto con Asia. L'incredibile vicenda, che rende la realtà più sorprendente di qualunque fantasia, deve farci riflettere sul Weinstein che è in noi. Uomini e donne. È vero che, dallo stalking, alle molestie la definizione dei reati sembra punire la prepotenza maschile legata alla forza fisica e alla natura stessa del sesso; ma è altrettanto vero è che in molti casi si manifesta una violenza psicologica che conta sulla remissività, la paura o la fragilità della vittima. E che, da questo punto di vista, le conquiste della donna l'abbiano resa, spesso, psicologicamente più forte del maschio. La consuetudine e il costume sono abbastanza eloquenti nel definire le parti in commedia. Io sono, da anni, che ormai fanno decenni, vittima di stalkeraggio, telefonico ed epistolare senza essermene mai lamentato, ed avendo risposto con un sorriso o con un atteggiamento di sufficienza. Ma chi guarda il mio telefonino troverà centinaia di messaggi da almeno una decina di donne, che non mollano l'osso, e insistono a proporsi con lunghi e sconvenienti ragionamenti. Sarebbe materia sufficiente per numerose denunce. Io respingo e non rispondo. D'altra parte, se io fossi palpeggiato su un tram da una donna, sorriderei, come per uno scherzo; ben diversa sarebbe la reazione della donna dalla provocazione di un maschio. Fino a ieri, salvo che per rarissimi casi di ragazzi minorenni con le loro insegnanti maggiorenni, sarebbe stato impensabile il caso Weinstein a rovescio, ovvero, il produttore infastidito, molestato, e perfino violentato, da un'attrice; e non perché non ce ne fossero ragioni psicologiche ma per difficoltà fisiologiche e anatomiche. Ma la parità conquistata con l'uomo glielo consente almeno sul piano psicologico. Dobbiamo ringraziare Asia Argento. Non potevamo sperare che fosse lei a vendicarci facendo due parti in commedia: la vittima e il carnefice. Dunque Harvey Weinstein ha una allieva, come un vampiro: Asia Argento. Ciò che abbiamo letto oggi è un capolavoro: la stessa persona che dopo vent'anni ha denunciato per violenza sessuale Weinstein, si era comportata esattamente come lui, in una situazione che mostra diversi lati di comicità, e che deve essere stata presa sul serio dal fragile giovinetto che, cinque anni fa, a diciassette anni, se l'è vista addosso forzandolo a un rapporto sessuale non desiderato. Difficile da praticare, in assenza di eccitazione. Il giovane fragile, tale Jimmy Bennett, attore e musicista rock, lamentò di essere stato violentato, ovvero forzato a un rapporto sessuale, a diciassette anni, nel 2013, quando Asia Argento ne aveva trentasette, e che la violenza lo segnò profondamente e influì negativamente sulla sua carriera. Non si può dire lo stesso per Asia Argento che deve successo e denaro all' amicizia con Weinstein. Bennett sembra non aver avuto alcun vantaggio da Asia Argento, ma solo conseguenze negative. Non si può escludere neanche che una violenza così forte abbia un provocato in lui una trasformazione sessuale, femminilizzandolo. Asia si è comportata con lui come un maschio con una femmina. Oggi esce questa incredibile storia. Il risarcimento negoziato con la vittima è piuttosto alto, quasi 400mila dollari, e il contrappasso è così straordinario e paradossale da far pensare che la rivelazione provenga dallo stesso Weinstein, quand'anche non sia proprio lui ad aver prestato ad Asia i soldi per pagare Jimmy. È meraviglioso che in Asia Argento ci sia contemporaneamente la vittima è il carnefice, ed è anche, non solo una vendetta per i maschi, ma la testimonianza di una vera raggiunta parità dei sessi. Quello che non funziona è la morale: così come io ho tentato di comprendere le ragioni di Weinstein, e l'ho difeso, allo stesso modo capisco le ragioni di Asia, e mi sembra ridicolo è penoso l'atteggiamento di Jimmy Bennett. In entrambi i casi vale la natura stessa della sessualità che presuppone la liberazione di istinti, oltre la ragione. Nel maschio è addirittura una questione antropologica: la seduzione presuppone avances, che spettano di norma al maschio, che nella schermaglia avanza mentre la donna resiste fino al punto di cedimento, legato alla formazione dei due sessi, alla mentalità prevalente, che ha sempre visto la donna indifesa. Quand'essa attacca, con il temperamento maschile che Asia ha sempre mostrato, l'effetto è imprevedibile e il risultato inatteso e liberatorio. Si stabilisca dunque un patto tra maschi e femmine, che garantisca ciò che oggi sembra definitivamente inibito: la libertà dell'istinto, che conduce ad atti spesso innominabili, ma inconsciamente desiderati. E siano rese grazie ad Asia Argento per il suo sacrificio.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. E ora, X Factor? La risposta sul destino televisivo di Asia Argento è arrivata sul finire di una giornata decisamente non facile per Sky. «Vogliamo essere molto chiari: se quanto scrive il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque - in pieno accordo con FremantleMedia - non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento». È stata questa la reazione, inevitabile, della pay tv alla notizia dello scandalo che nessuno si aspettava. Asia Argento, nuovo giudice del talent, fino a ieri rappresentava la vera novità di questa edizione del programma di Sky Uno. Ora, il suo volto potrebbe non andare mai in onda. «Sky Italia e FremantleMedia - si legge nella nota ufficiale - non hanno scelto Argento come giudice di X Factor Italia per il suo impegno nella campagna #Metoo né per le sue posizioni personali, bensì - come è sempre avvenuto per i giudici di X Factor Italia - per le sue competenze musicali e le sue capacità di gestire un ruolo televisivo in un programma di questo tipo. Competenze e capacità ampiamente confermate durante le puntate di audizioni, registrate nelle scorse settimane, come possono confermare le migliaia di persone che vi hanno assistito tra il pubblico». Come a ribadire che, sul campo, la decisione di affiancare l'attrice a Fedez, Manuel Agnelli e Mara Maionchi era stata vincente. Ma dopo ieri, tutto potrebbe essere ridiscusso. Un allontanamento con riserva, dovuto allo stupore della notizia dell'accordo economico tra Argento e Bennett, di cui la pay tv non era a conoscenza al momento della firma del contratto. Ora il debutto del programma è vicinissimo - il prossimo sei settembre - e le selezioni registrate nelle scorse settimane sono già quasi pronte per la messa in onda. Ma ogni cosa adesso potrebbe cambiare. In molti, anzi, se lo augurano, stando almeno alle chiacchiere da web. Da ieri contro l'attrice si abbattono critiche feroci, ma anche riflessioni sull' opportunità di un suo coinvolgimento nel talent. Si parla di vera parità tra i sessi, si invoca coerenza, si domanda come Asia Argento possa confrontarsi ora con dei concorrenti minorenni e si chiede dunque che venga trattata alla pari di altri nomi illustri (e maschili) a cui sono state rivolte più o meno le stesse accuse, da Kevin Spacey (una volta coinvolto nello scandalo, Ridley Scott ha cancellato le scene del suo ultimo film in cui compariva e le ha fatte ri-girare a Christopher Plummer) fino a Brizzi. Un frastuono mondiale impossibile da ignorare e che complica una faccenda già molto delicata. Quello di X Factor, in fondo, rischia di non essere il verdetto più pesante.

Asia Argento e le molestie al minorenne: 5 cose da sapere. Secondo il NY Times, l'attrice avrebbe risarcito Jimmy Bennett per averlo aggredito sessualmente. Ecco la replica di lei e le parole dell'accusatore, scrive il 23 agosto 2018 Panorama. Da capofila delle donne in rivolta molestate da Harvey Weinstein a presunta molestatrice. Asia Argento avrebbe aggredito sessualmente un minorenne suo protetto, secondo le rivelazioni del New York Times. Lei nega. Ma Jimmy Bennett, l'accusatore, rompe il silenzio. Ancor prima di cominciare, è quindi a rischio la partecipazione dell'attrice come giurata a X Factor 12. Ecco cos'è successo.

1) Le rivelazioni del NY Times su Asia Argento. Poche certezze e tante incognite. Stando a un articolo del New York Times del 19 agosto, Jimmy Bennett, oggi 22enne, avrebbe accusato Asia Argento di averlo aggredito sessualmente in una camera dell'albergo Ritz Carlton di Marina del Rey in California, nel maggio 2013, quando aveva appena compiuto 17 anni (mentre lei ne aveva 37). Il quotidiano statunitense cita documenti legali ricevuti da una terza parte non identificata. L'attrice avrebbe risarcito con 380 mila dollari il giovane attore per fermare l'azione legale da 3,5 milioni, per danni emotivi e finanziari. A differenza di quasi tutti gli altri stati americani, in California l'età del consenso è di 18 anni. Non è stata presentata alcuna denuncia per l'episodio e ancora non esiste un'indagine aperta, ma le autorità hanno detto che indagheranno e che Bennett sarà contattato.

2) La replica scioccata di Asia Argento. Asia Argento però non ci sta e dice che è tutto falso: "Nego e respingo il contenuto dell'articolo pubblicato dal New York Times che sta circolando nei media internazionali. Sono profondamente scioccata e colpita leggendo notizie che sono assolutamente false. Non ho mai avuto alcuna relazione sessuale con Bennett". Così l'attrice in una nota del 21 agosto nella quale parla esplicitamente di "una persecuzione". "Non ho altra scelta che oppormi a tutte le falsità e proteggermi in ogni modo". L'attrice però confermerebbe che Bennett fu pagato. Fu lo star-chef Anthony Bourdain, compagno di Asia fino al suicidio in Francia lo scorso giugno, a spingere per compensare il giovane perché smettesse di infastidirla. Con 380 mila dollari, appunto. "Non è l'ammissione di niente, nessun tentativo di comprare il silenzio, semplicemente un'offerta per aiutare un'anima torturata che cerca disperatamente di spillarti denaro", avrebbe scritto Bourdain a Asia in un sms ottenuto dal sito di gossip TMZ. Lei avrebbe resistito: "Non comprerò il suo silenzio per qualcosa che non è vero anche perché sono in bolletta". Ma poi, sempre secondo TMZ, in un altro sms avrebbe scritto: "Ero gelata, lui era sopra di me. Poi mi ha detto che sono stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni". Così continua la versione di Asia, che in molti punti coincide con quella del NY Times che aveva dettagliato le cattive acque economiche di Bennet: "Quello che mi ha legata a Bennett per alcuni anni è stato un sentimento di amicizia, terminata quando, dopo la mia esposizione nella nota vicenda Weinstein, lui (che versava in gravi difficoltà economiche e che aveva assunto iniziative giudiziarie anche nei confronti dei genitori con richieste milionarie), mi rivolse a sorpresa una esorbitante richiesta. Sapeva che il mio compagno, Anthony Bourdain, era percepito come uomo ricco e che aveva la reputazione da proteggere in quanto amato dal pubblico". Bourdain aiutò Asia, impegnata nella "battaglia" #MeToo, a gestire la vicenda, aveva scritto il Times. Nella nota diffusa da Asia Argento si legge: "Anthony insistette che la questione venisse gestita in privato e ciò corrispondeva anche al desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di venirgli incontro. Anthony si impegnò personalmente ad aiutare Bennett a condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita". Presunti sms scambiati da Asia con un amico, diffusi da TMZ, rivelano che l'attrice pensava che Bennett fosse infatuato di lei: "Ero la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni". E poi avrebbe definito Jimmy "un ragazzo arrapato che le è saltato addosso". Alla richiesta se fosse stato stupro, Argento avrebbe risposto: "Ho fatto sesso con lui ed era strano. Ma non sapevo che fosse minorenne fino alla lettera del ricatto". Quando l'interlocutore degli sms chiede ad Asia perché non avesse denunciato l'episodio, lei risponderebbe che ha sempre avuto pena di "questo povero ex attore bambino fallito, una vittima della macchina di Hollywood e dei genitori". 

3) Chi è Jimmy Bennett e cosa dice. Attore e cantante classe 1996, Jimmy Bennet ha un discreto curriculum alle spalle. Ancora bimbetto ha partecipato a numerosi spot pubblicitari. A 8 anni ha lavorato accanto ad Asia Argento, attrice e regista di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (2004). Asia interpretava sua madre, una mamma inaffidabile e violenta, prostituta che costringe il figlio a vestirsi da bambina per adescare clienti.  Ha quindi partecipato a Hostage (2005) con Bruce Willis, a Firewall - Accesso negato (2006) con Harrison Ford, è stato il piccolo James T. Kirk in Star Trek (2009) di J.J. Abrams. In tv è stato tra i protagonisti della serie No Ordinary Family. A spingere Bennett a minacciare causa contro Asia Argento, passati anni dall'incontro del 2013, sarebbero state le accuse di molestie e stupri rivolte in ottobre da Asia e da altre donne al boss di Miramax Harvey Weinstein. "Vederla presentarsi come vittima è stato troppo. Ha fatto tornare a galla memorie ed emozioni dell'aggressione subita", aveva scritto l'avvocato del giovane, Gordon Sattro, nei documenti esaminati dal Times. "Grazie all'esperienza sul set era nato un rapporto materno", si legge nei documenti degli avvocati. I contatti erano stati senza storia fino al maggio 2013: una volta in hotel Asia avrebbe fatto bere il ragazzo, l'avrebbe spogliato, avrebbe fatto sesso orale su di lui e quindi un rapporto sessuale completo. Avrebbe poi chiesto a Jimmy di fare una serie di foto, alcune delle quali sono incluse nella minaccia di causa. Solo tornando a casa il ragazzo si sarebbe sentito "confuso, mortificato e disgustato". Dopo la replica di Asia, finalmente anche Bennett parla. E il 22 agosto rompe il silenzio: "Ero minore al tempo degli eventi", ha detto al New York Times, spiegando che "un pregiudizio nella società" contro un uomo che si fosse trovato nella sua situazione lo ha indotto a tacere: "Non ero pronto ad affrontare le conseguenze se la mia storia fosse diventata pubblica". Confermando che il suo trauma "è tornato in superficie nel momento in cui lei è diventata una vittima" raccontando lo stupro subito da Harvey Weinstein, Jimmy ha reso omaggio ai "molti uomini e donne di coraggio che hanno raccontato le loro esperienze". Aggiungendo: "Inizialmente non ho parlato della mia storia preferendo gestirla in privato con la persona che mi aveva fatto un torto".

4) Le parole dell'avvocato di Weinstein. Da paladina del #MeToo e accusatrice numero uno di Harvey Weinstein, ora Asia Argento finisce dall'altra parte della barricata. Da vittima a carnefice. Tant'è che il 21 agosto arriva pronto il commento del legale di Weinstein, Ben Brafman: "Questo sviluppo rivela un incredibile livello di ipocrisia da parte di Asia Argento. Ciò che forse è più eclatante è il tempismo, che suggerisce come nello stesso momento in cui l'attrice stava patteggiando per abusi sessuali su un minore, si stava anche mettendo in prima linea fra chi condannava il signor Weinstein, nonostante la loro fosse una relazione sessuale fra due adulti consenzienti".

5) X Factor 12 a rischio. La partecipazione di Asia Argento a X Factor 12 in qualità di giudice rischia così di chiudersi ancor prima di cominciare. Le accuse piombate su di lei hanno avuto un impatto mediatico fortissimo e Sky è dovuta intervenire mettendo in discussione il suo ruolo a X Factor 12, al via il 6 settembre prossimo. Sui social si chiede a gran voce l'estromissione dal talent, di cui sono già state registrate le Audizioni. Ecco la nota dei produttori del programma: "Sky Italia e FremantleMedia Italia hanno letto oggi con attenzione e stupore quanto pubblicato dal New York Times su Asia Argento. Va ribadito che Sky Italia e FremantleMedia non hanno scelto Asia Argento come giudice di X Factor Italia per il suo impegno nella campagna #Metoo né per le sue posizioni personali, bensì – come è sempre avvenuto per i giudici di X Factor Italia – per le sue competenze musicali e le sue capacità di gestire un ruolo televisivo in un programma di questo tipo. Competenze e capacità ampiamente confermate durante le puntate di audizioni, registrate nelle scorse settimane, come possono confermare le migliaia di persone che vi hanno assistito tra il pubblico". Le prime puntate sono già state registrate ed è da escludere che Sky cestini tutto; il rischio più grosso è per i Live, previsti per metà ottobre.  Sky non ha dubbi: "Vogliamo essere molto chiari: se quanto scrive oggi il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque – in pieno accordo con FremantleMedia - non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento". Se Asia sarà allonanata da X Factor, chi la sostituirà in corsa? È presto per dirlo, ma già circola il nome di Malika Ayane e si ipotizza il ritorno di Arisa. 

Asia Argento, parla Jimmy Bennett: "Finora ho taciuto per vergogna". L'attore affida una dichiarazione al New York Times e per la prima volta dice la sua sulla vicenda. "Volevo risolverla in modo privato ma il trauma è riesploso quando lei si è dichiarata vittima", scrive il 22 agosto 2018 Repubblica. "Nei giorni scorsi non ho fatto dichiarazioni perché ero addolorato e mi vergognavo che tutto questo fosse reso pubblico. All'epoca dei fatti ero minorenne e ho cercato giustizia nel modo che a me sembrava più appropriato perché non mi sentivo pronto ad affrontare le conseguenze che questa vicenda, se resa pubblica, avrebbe potuto comportare". Jimmy Bennett parla per la prima volta, affida una nota al New York Times per dire la sua sulla vicenda che da giorni lo vede protagonista dopo la denuncia contro Asia Argento che, secondo quanto raccontato dall'attore, lo avrebbe molestato sessualmente quando aveva diciassette anni, nel 2013. La dichiarazione, rilasciata allo stesso quotidiano che aveva rivelato le accuse di Bennett e il versamento di 380 mila dollari al giovane, arriva nel giorno in cui il sito Tmz pubblica lo scambio di sms tra Asia Argento e il compagno Anthony Bourdain, messaggi in cui si parlerebbe dei rapporti sessuali che l'attrice avrebbe avuto con il giovane, oltre a una foto in cui i due sono ritratti al letto insieme. Negli sms l'attrice ammetterebbe dunque di aver avuto rapporti sessuali con Bennett, cosa che fin dal primo momento aveva negato. Grazie al movimento #metoo, scrive Bennett, "molte donne e uomini coraggiosi hanno parlato delle loro esperienze e ho provato stima per il coraggio che hanno avuto nel rivelare cose di quel tipo. All'inizio non avevo mai rivelato la mia storia perché avevo deciso di gestirla in modo privato con la persona che mi aveva ferito. Il trauma - scrive ancora Bennett - si è risvegliato in me quando quella persona si è dichiarata essa stessa vittima (delle violenze di Weinstein, ndr)". All'epoca dei fatti, continua la nota, "temevo che in quanto maschio le mie parole sarebbero state stigmatizzate. Non pensavo che qualcuno avrebbe compreso che cosa significa vivere quel tipo di esperienza da teenager. Ho affrontato molte difficoltà nella mia vita - conclude - e affronterò anche questa. Vorrei superare questa vicenda, e ho deciso di andare avanti. Ma senza rimanere più a lungo in silenzio".

Chi è Jimmy Bennett, l'attore pagato da Asia Argento, scrive il 22 agosto 2018 Repubblica tv. Jimmy Bennet, il giovane attore californiano di 22 anni che ha accusato Asia Argento di molestie, inizia a recitare quando è ancora bambino. All'età di sette anni è sul set del film di Asia Argento "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa" in cui i due intepretano un complesso rapporto madre-figlio. La videoscheda racconta la carriera di Jimmy dopo l'incontro con l'attrice di Scarlet Diva, dagli esordi in "Star Trek", nel ruolo del piccolo James T. Kirk, fino alla parte da protagonista nella serie "No Ordinary Family". Nel 2012 arriva il debutto come musicista nel videoclip del suo singolo "Everything About You", seguito da "Over Again". Negli ultimi anni, però, la sua carriera di attore subisce un tracollo e partecipa solo a serie tv e film minori.

FOTO E SMS, ASIA RIVELA: CI FU SESSO E BENNETT: HO TACIUTO PER VERGOGNA. Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2018. In un caso che si sta rivelando ogni giorno più contorto e imprevedibile, ecco che arriva la smentita della smentita. Jimmy Bennett, per la prima volta, esce allo scoperto con un messaggio consegnato al New York Times. «Sono stato in silenzio finora - dice l'attore - perché provavo vergogna e comunque avevo deciso di risolvere la questione in privato con la persona che mi aveva danneggiato». Ma, spiega ancora, «ero minorenne all' epoca e avevo paura. Il mio trauma è stato riportato alla luce quando lei si è atteggiata a vittima: ora ho deciso di andare avanti. Ma non più in silenzio». Il suo legale aggiunge: la versione di Asia Argento non corrisponde a verità. La nebbia su quanto successo nel 2013 - quando Bennett, all'epoca 17enne, sostiene ci sia stato un rapporto fisico tra i due, vissuto poi come un’aggressione, al punto che per questo avrebbe chiesto una cifra di risarcimento importante, scesa a 380 mila dollari nell'accordo firmato tra i due -, allontana l'arrivo a una versione ufficiale e condivisa su quello che è diventato, in poche ore, uno scandalo di portata mondiale. Una nebbia resa ancora più fitta dagli sms (tra cui uno in cui dice: «Ho fatto sesso con lui, è stato strano». E ancora: «Quel ragazzino arrapato mi è saltato addosso») e dai selfie pubblicati ieri dal sito americano Tmz. In quello che è stato raccontato come lo scambio di messaggi tra lei e un amico, l'attrice sembra confermare ciò che pubblicamente ha negato. Ma mentre si è ancora nel mezzo dei tornanti della vicenda, sono iniziate le prime fermate obbligatorie. Conseguenze, concrete, di quanto sta succedendo in questi giorni. La prima è che Asia Argento ha deciso di abbandonare uno dei suoi prossimi impegni artistici: quello di madrina e curatrice di un festival musicale olandese, il Le Guess Who? «A causa della natura imprevedibile delle accuse che la riguardano, la signora Argento - si legge in una nota degli organizzatori - ha scelto di ritirarsi dal suo impegno nell'edizione di quest' anno». Sul fronte X Factor, invece, tutto resta fermo. Il talent show di Sky Uno aveva fatto sapere di attendere chiarimenti prima di prendere una decisione ufficiale, anticipando però che se la versione del New York Times risultasse essere vera, diventerebbe inevitabile allontanare Argento dalla giuria dello show, il cui debutto è vicinissimo (il prossimo sei settembre) e di cui sono state già girate le prime selezioni, con lei presente. Nel frattempo, in molti hanno analizzato l'impatto di questo scandalo sul movimento #MeToo, di cui l'attrice era tra gli esponenti che per primi si sono esposti. E proprio il New York Times ha scritto di come l'attrice sia stata «messa alla gogna» dai media italiani, che l'avrebbero trasformata dall'essere «l'imperfetta portavoce di un movimento che in Italia già faceva fatica a prendere piede a una donna che potrebbe aver danneggiato la causa irreparabilmente, almeno nel suo paese». È forse anche per questo che Mira Sorvino - altra colonna del #MeToo - si è esposta nelle scorse ore. Oltre ad aver detto di sperare che le accuse contro Argento non siano vere, ha aggiunto su Twitter: «Il tempo chiarirà, forse sarà scagionata, ma se sono vere non ci sono lenti che le faranno sembrare migliori». E ancora: «L'aggressione sessuale di minori è un crimine vergognoso ed è contro tutto quello che il movimento #MeToo difende».

“HO AVUTO PENA DI QUELL’ATTORE BIMBO FALLITO”. Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2018. Ottanta pagine di ricerche compilate da un investigatore privato assoldato da Anthony Bourdain. Prima di pagare il suo accusatore Jimmy Bennett, Asia Argento e il suo fidanzato, il cuoco star suicidatosi a giugno, avevano collezionato una gran mole di informazioni su di lui. È una delle tante novità che si ricavano dalla lettura dei messaggi scambiati tra l'attrice italiana e un amico che forse tanto amico non è, visto che li ha passati al sito scandalistico Tmz. È anche così che si giocano i processi pubblici nel 2018, con gli screenshot rubati, e forse Argento avrebbe dovuto saperlo. Soprattutto perché da quei messaggi emerge la conferma, il giorno dopo del «non ho mai avuto una relazione sessuale con lui» di clintoniana memoria, che l'attrice e Bennett hanno invece avuto un rapporto. Lunedì il New York Times pubblica lo scoop: Argento ha pagato 380 mila dollari per fermare la denuncia dell'attore e cantante Bennett, il quale sostiene di aver subito violenza in una stanza di albergo di Marina del Rey cinque anni fa, quando lui aveva 17 anni (quindi sotto l'età del consenso in California) e l'attrice 37. La richiesta di Bennett era arrivata un mese dopo la denuncia di Argento a Ronan Farrow del New Yorker su Harvey Weinstein, che aveva fatto di lei un volto chiave del movimento #metoo. Asia smentisce con forza: «Sono profondamente scioccata e addolorata dal dovere leggere notizie assolutamente false. Non ho mai avuto alcun rapporto sessuale con Bennett». Ma le rivelazioni di Tmz mettono tutto in discussione. Prima, martedì, i messaggi scambiati dall' attrice con Bourdain, che qualcuno evidentemente vicino al cuoco ha mostrato al sito. Uno di questi sembra alludere a un rapporto: «Non è stato stupro ma ero gelata. Lui era sopra di me dopo avermi detto che sono stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni». Poi, ieri, dalla pubblicazione degli sms scambiati con l'amico, una ammissione ancora più diretta: «Il ragazzino arrapato mi è saltato addosso». È stato stupro, o un approccio sessuale?, le chiede l'interlocutore. «Ho fatto sesso con lui, è stato strano. Non sapevo che fosse un minore», risponde l'attrice, che dice di non essere stata consapevole, all'epoca, dell'età del consenso per la legge californiana (18). Nell'articolo di Tmz c'è anche la foto dei due distesi a letto, abbracciati, la testa sul cuscino. Una foto che secondo l'accordo era stata restituita da Bennett ad Argento. «Non ho detto niente prima perché mi sono sempre sentita male per questo attore-bambino fallito, una vittima dell'apparato, dei suoi genitori», si difende Argento parlando con l'amico (l'accusa dell' avvocato di Bennett è che sia stato invece il trauma della violenza a rovinarne la carriera facendone precipitare i guadagni): «Su di lui ho 80 pagine raccolte da un investigatore privato assunto da Anthony». Di una causa con i genitori aveva parlato il New York Times, che raccontava come Bennett avesse citato in giudizio sua madre e il suo patrigno accusandoli di avergli sottratto negli anni 1,5 milioni di dollari. Anche Bourdain, nei messaggi in cui invita la fidanzata a pagare, fa riferimento a una presunta instabilità mentale dell'accusatore: «Non stai pagando il suo silenzio. Solo la libertà da una seccatura. E per aiutare un povero stupido tormentato a rimettere la propria vita assieme». Bourdain, che frequentava Argento da un anno e mezzo, le è sempre stato accanto nella vicenda #metoo. L'ha difesa dalle accuse di ipocrisia per aver continuato a frequentare Weinstein dopo lo stupro, e ha tentato di proteggerla da Bennett, descritto come un povero diavolo «che vuole solo spillarti soldi». All'amico l'attrice scrive: «Tutte quelle mail di Anthony che mi spingeva ad accettare di pagare. Le mie mail con Carrie (il suo avvocato, Goldberg, ndr) in cui eravamo in disaccordo sull'idea...Carrie non ha mai voluto farlo, voleva andare subito alla stampa e mostrare il tentativo di estorsione nei miei confronti». Ma lei alla fine aveva scelto di seguire i consigli di Bourdain, che poi le avrebbe dato anche i soldi per pagare. Ora l'amico le dice di dimostrare che il denaro non veniva da lei, e se ha prove di avance precedenti. Ma lei no, non ne ha, a parte le foto nude non richieste che Bennett le avrebbe inviato negli anni «fino a due settimane prima della lettera dell’avvocato». Dagli scambi con l'amico Argento sembra incredula e spaventata: «Se perdo il lavoro andrò in Africa o nella foresta amazzonica. Voglio essere tra il 90 per cento del mondo che se ne frega di questa m..., non il connivente, malato 10% dei viziati occidentali».

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 23 agosto 2018. La presunta violenza sull' attore Jimmy Bennett rischia di avere conseguenze legali anche in Italia a carico di Asia Argento. Secondo quanto risulta alla Verità, infatti, l'attrice scomparsa dai social network ormai da un mese starebbe cercando un avvocato che possa difenderla da nuove accuse. Per di più non è ancora stata chiarita la sua posizione come futuro giudice di X Factor su Sky, altra vicenda che potrebbe scatenare nuove bagarre o dispute legali. Ma al momento di specialisti disposti a assisterla non ce ne sarebbero, soprattutto tra le esperte di diritto di famiglia più importanti, da Giulia Buongiorno fino ad Annamaria Bernardini de Pace. La situazione è delicata per la leader del movimento Me too, principale accusatrice dell'ex numero uno della Miramax Harvey Weinstein. Non ci sono solo le cause di risarcimento da svariati milioni di dollari che potrebbero cascarle sulla testa. Non a caso in queste ore di polemica, su Facebook e Twitter c' è persino chi arriva a tirare in ballo il tribunale dei minori sulla tutela dei figli dell'attrice italiana. La maternità della Argento, madre di due bambini (Anna Lou avuta da Marco Castoldi, in arte Morgan, e Nicola Giovanni dal regista Michele Civetta), è spesso stata oggetto di polemiche che lei stessa ha sollevato in interviste o dichiarazioni pubbliche. Come quando a Vanity Fair dichiarò di essere «una madre sola, con i padri che non aiutano: non parlo di soldi ma di presenza. Ho trovato due uomini su due che non si prendono le loro responsabilità: meglio sola con due bimbi meravigliosi che con un uomo fra le scatole». Poi ci fu anche una causa contro l'ex compagno Morgan, con tanto di polemica perché fu pignorata la casa all' ex leader dei Bluvertigo per i mancati alimenti. Il cantante rispose con una lettera, dicendo; «appena ho sgarrato mezza volta e non per mia volontà, allora ecco che subito arriva la notifica, il pignoramento, la chiamata a rispondere della condotta deplorevole, e per non parlare delle diffamazioni, le sputtanate a mezzo stampa. Ma sì, distruggiamolo quello stronzo, togliamogli tutto, figli, casa, dignità civile, che ci frega, anzi mi diverto. Dai massacriamolo, senza pietà, senza un minimo di rispetto! E non parlo del ricordarsi di aver detto "ti amo", ma del minimo rispetto di un essere umano». Ora la situazione potrebbe ribaltarsi. Molto dipenderà dall' indagine sulle presunte molestie a Bennett che il sito di gossip americano Tmz ha approfondito negli ultimi due giorni, tirando fuori fotografie e messaggi che proverebbero il rapporto sessuale tra i due. Per un adulto è un crimine in California fare sesso con una persona sotto i 18 anni. Il comunicato uscito ieri contro l'articolo del New York Times in cui si dava conto del risarcimento di 380.000 dollari a Bennett è stato diramato dall' avvocato Leonardo Proni. Lo stesso avvocato che molti giornali e quotidiani di tutto il mondo stanno cercando in questi giorni, ma senza ricevere risposte. Del resto la Argento è scomparsa. Nei messaggi pubblicati da Tmz ce n' è uno in cui scrive che se perderà il suo lavoro se ne andrà in Africa o in Amazzonia. Ma il problema di una tutela legale resta. Come raccontato ieri dalla Verità, Weinstein starebbe pensando a una causa milionaria contro la Argento. In Italia, però, la figlia del celebre regista horror ha fatto terra bruciata. A partire dall' attuale ministro per la Pubblica amministrazione Bongiorno, che finì sotto accusa proprio della Argento sia per il suo impegno in politica sia per la sua carriera professionale. A quanto pare l'attrice di Perdiamoci di vista, ex del cantante dei Bluvertigo Morgan, aveva confidato già lo scorso anno nell' aiuto della Bongiorno e di Michelle Hunziker, titolari dell'associazione Doppia difesa a sostegno delle donne che subiscono abusi, violenze e discriminazioni. Ma non ci sarebbe stato nulla da fare. A gennaio di quest' anno esplose la polemica. La Argento sui social la attaccò senza pensarci due volte: «L'avvocato Bongiorno aveva difeso il mafioso Giulio Andreotti («Assolto! Assolto! Assolto!») ma si è rifiutata di tutelare alcune vittime di violenza sessuale nell' industria cinematografica... #Doppiadifesa? Dissociazione totale». Poi scoppiò pure una polemica sull' associazione dopo un'inchiesta della giornalista del Fatto Quotidiano Selvaggia Lucarelli. Tra gli avvocati più noti in Italia che potrebbero difendere la Argento c' è poi Annamaria Bernardini de Pace, che alla Verità ricorda di «averla difesa tanti anni fa per recuperare la sua bambina rapita dal padre. Al buon esito non mi ha mai pagata...». E adesso? «Comunque non la difenderei neppure se ritornasse. Io difendo le vere vittime. Posso e voglio scegliere». A quanto pare anche altre esperte di diritto di famiglia avrebbero già sbattuto la porta in faccia all' attrice, tra queste Pompilia Rossi, esperta di diritto di famiglia e minori.

Argento vivo, scrive il 23 agosto 2018 Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Tutta questione di… scheletri nell’armadio. La notizia ha fatto il giro del mondo. Sono molti i media che ne parlano. D’altra parte, in Toscana esiste un detto: “il più pulito c’ha la rogna”. Direi che è perfettamente in sintonia con l’attivismo erogeno-oro-sessuale della nostra para-attrice. Nello stesso tempo, devo ammettere che, molto probabilmente, il personaggio non avrebbe avuto altra scelta che procedere così, come ha fatto, e non mi riferisco ai soldi elargiti affinché tutto venisse messo a tacere, ma all’azione in sé. Io ho una concezione della bellezza vetusta. Sono abituato al Rinascimento italiano e alla successiva elaborazione realistica del grande Caravaggio. Ecco perché, dal mio punto di vista, l’Argento vivo addosso non poteva procedere che violentemente, visto che da anni molte di loro (femmine umane mediatiche…) si trovano a concorrere con le drag queen. Ora tutti la criticano e l’abbandonano, ma certamente lei continuerà a dire la sua. A giusta ragione. Per altro, il fatto che lei sia accusata di violenza sessuale non cancella la violenza da lei subita, ammesso, a questo punto, che l’abbia davvero subita. In effetti, la notizia quanto meno offusca la sua credibilità. Il dubbio che possa essere stata sincera (nonostante le sue ultime dichiarazioni), anche se a distanza di anni, si fa ora sempre più strada nelle menti di quella popolazione mondiale ancora rimasta sana. E poi, parliamo di un minore, con il quale aveva stabilito un perverso rapporto madre-mantide-figlio. Insomma, la nostra presunta stupratrice sembra rispettare le polimorfe fantasie rappresentate nei suoi film, che evidentemente sembrano più documentari che performance. Infatti, non dobbiamo dimenticare il suo amore per il satanico, il peggio del peggio dell’umanità. Tutte cose che caratterizzano l’attiva-attivista signora. Però, tutto questo clamore è anche pubblicità e lei continuerà sicuramente a lavorare, e qualcuno ancora seguirà le sue performance. E questo è forse l’aspetto più grave della situazione. D’altra parte, il livello alfabetico-culturale della massa mondiale di individui è sempre più basso. E questo è utile, perché così la politica e i media possono proporci impunemente le loro nefandezze. Per concludere, direi però che Asia Argento è stata coraggiosa: non si sente molto frequentemente parlare di violenza sessuale femminile a danno del maschio. Proprio una virago, con qualche tendenza freudianamente interessante e da approfondire. Invece di metterla in giuria ad X Factor, proporrei alla produzione Sky di consegnare in mano alla “me too yeah” la conduzione di un programma di educazione alla pratica sessuale per giovani adolescenti. Un certo tipo di adolescenti, quelli figli dei bacchettoni sessantottini, tanto liberi allora quanto retrivi oggi. Chissà quanti argomenti di discussione serale!

Asia Argento, fino a che punto si abbassa Marco Travaglio per difenderla: "Ha molti nemici e...", scrive il 23 Agosto 2018 Libero Quotidiano. In soccorso di Asia Argento arriva in soccorso Marco Travaglio, il più grande manettaro d'Italia. Un paradosso, ma fino a un certo punto perché gli permette così di attaccare chi critica l'attrice italiana. Secondo il direttore del Fatto quotidiano il paragone tra la Argento, accusata di aver molestato un collega 17enne, e Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood di cui Asia, tra le prime, ha denunciato gli abusi sessuali, non è proponibile: uno potentissimo, l'altra regista di piccoli film. E quella di Jimmy Bennett, l'attore molestato dalla Argento, è una "accusa tardiva (giunta a 5 anni di distanza) e privata, con allegata una richiesta di soldi per non divulgare il fatto. Il caso vuole che Jimmy si sia svegliato proprio mentre Asia era impegnata nella battaglia contro Weinstein ed era fidanzata con un ricco e famoso chef francese, Anthony Bourdain". "Di solito - nota Travaglio - pagare il silenzio di un accusatore significa ammettere il torto. Ma non necessariamente in questo caso". Il perché è semplice: nell'America del dopo #metoo, "chi volesse ricattare un divo del cinema, o una testimone anti-Weinstein con false accuse troverebbe terreno fertilissimo". I casi sono tre, spiega Travaglio: "Asia ha fatto sesso con Bennett consenziente", e qualora partisse una querela rischierebbe grosso. "Moralmente, nulla di male, a parte la bugia raccontata l'altroieri", è il commento che lascia sbigottiti, perché per 10 anni Travaglio ha linciato Silvio Berlusconi per i presunti rapporti tra Silvio Berlusconi e la minorenne Ruby Rubacuori. Se invece Bennett non era consenziente, "resterebbe da spiegare come faccia una donna con quel fisico da colibrì a violentare un giovanotto di 17 anni e passa", senza però tenere conto delle conseguenze psicologiche devastanti di cui parla l'avvocato del ragazzo. Oppure, è la conclusione, la Argento "è rimasta vittima di un'estorsione fondata su una calunnia e ha pagato Jimmy per evitare lo sputtanamento di un'accusa falsa". Il guaio, conclude Travaglio, è che "Asia ha il brutto vizio di dire ciò che pensa e s'è fatta molti nemici, nella stampa e nella politica". Talmente tanti nemici che #metoo ha stravolto le regole di Hollywood e chi ha iniziato a sollevare la questione della "caccia alle streghe" è stato fatto passare per bieco maschilista. Ma Travaglio pensa all'Italia: vuoi vedere che la cospirazione è partita dalla redazione di Libero?

Asia Argento, la lezione di Barbara Palombelli: "Qualcosa di terribile". La "femminista" e i soldi, sputtanata, scrive il 24 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Lo scandalo di Asia Argento non è questione di "scelte private e libere trasgressioni". Il caso delle molestie sull'allora 17enne Jimmy Bennett, spiega Barbara Palombelli su Facebook, racconta "qualcosa di più terribile". "Davanti a un problema lei si è fatta aiutare dal suo fidanzato (lo chef Anthony Bourdain, che avrebbe pagato per lei i 380mila dollari chiesti da Bennett, ndr). Ecco: noi donne di una volta avremmo regolato la cosa senza chiedere soldi o aiuti a nessuno - scrive la conduttrice di Forum -. Mai preso soldi da uomini (dopo i 15 nemmeno dal mio amatissimo padre, rinunciando a tante cose e scegliendo di iniziare a lavorare molto giovane). Il femminismo si può anche schifare - e ora va di moda farlo - ma molte di noi lo hanno, lo abbiamo, vissuto (e pagato)".

Asia Argento, affondo di Mentana: "Improponibile portabandiera delle donne". Il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, pubblica su Facebook la sua opinione su Asia Argento e la bufera che ha colpito l'attrice, scrive Rachele Nenzi, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". Sulla bufera che ha investito Asia Argento si è detto e scritto di tutto: le accuse del New York Times, l'attrice che nega, il sito Tmz che pubblica sms tra Bourdain e la figlia del regista Dario e quelli tra la 42enne e l'accusatore Bennet. C'è anche chi ha taciuto come Laura Boldrini. E chi ha fatto sentire la sua voce e la sua opinione. È il caso di Enrico Mentana che dal suo profilo Facebook spiega con molta chiarezza e senza timore la sua opionione sullo scandalo. "Secondo quel che rivela - digita il direttore del Tg La7 - con tanto di carte citate, il New York Times, Asia Argento era ben conscia di avere pendente un'azione legale per molestie sessuali da lei compiute nei confronti di un giovane attore quando l'anno scorso lanciò le accuse a Weinstein per averla sottoposta allo stesso tipo di abuso". Mentana riferendosi ancora all'attrice prosegue nel suo pensiero: "Avrebbe dovuto ammetterlo nel momento stesso in cui puntava il dito contro il produttore, e non l'ha fatto". Ovviamente il giornalista non scagiona Weinstein, che definisce "un protervo senza scrupoli che ha imposto la sua legge del letto alle attrici che faceva lavorare, e per questo pagherà di fronte alla giustizia americana", né tantomeno priva dei meriti il movimento Metoo che "ha dato una sacrosanta spallata a pratiche che insultano la dignità delle donne". Più che altro punta il dito contro Asia: "Con la sua memoria selettiva riguardo alle colpe e alle denunce ne esce davvero male, e diventa improponibile come portabandiera di ogni diritto delle donne".

Laura Boldrini, la vergogna dopo lo scandalo su Asia Argento: la chiama il New York Times, imbarazzante, scrive il 23 Agosto 2018 Libero Quotidiano”. Alla fine anche la redazione del New York Times ha scoperto di che pasta è fatta l'ex presidenta della Camera, Laura Boldrini. Il quotidiano americano, dopo aver svelato il caso di violenza sessuale di Asia Argento ai danni del 17enne Jimmy Bennett, ha cercato di sentire le persone che sono state più vicine all'attrice durante le sue battaglie di denuncia delle molestie sessuali nel mondo dello spettacolo. Come dimenticare i cortei e i convegni paludati con la Argento e la Boldrini, chi meglio della ex presidenta quindi per avere un'opinione sull'amica e compagna di tante lotte. E invece niente da fare. Finché si tratta di attaccare il governo sull'immigrazione o indignarsi come un riflesso condizionato per l'ultimo caso di blocco dei porti, la Boldrini è fin troppo ciarliera. Sull'imbarazzante caso dell'amica Asia invece non apre bocca, neanche con il New York Times che ha dovuto incassare un "cortese rifiuto". Lo stesso quotidiano americano riconosce quanto poco popolare fosse la Argento in Italia, figuriamoci la Boldrini, e le sue battaglie: "La signora Argento non ha mai scaldato i cuori degli italiani - scrive il NYT - in parte riflettendo la persistente resistenza al progresso che il movimento #MeeToo ha aperto per le donne in alcuni paesi". Un bel danno per le femministe insomma era solo averla con loro. In più gli amici cominciano a sparire: "Persino alcuni di quelli che un tempo avevano difeso a gran voce la Argento hanno poco da dire". Come l'amicona Boldrini.

La vicenda di Asia Argento… Povero giornalismo! Asia Argento ha diffuso una nota, nella quale respinge tutte le accuse, accusa a sua volta il NYT di falso, e presenta la sua versione dei fatti, scrive Piero Sansonetti il 22 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Una quindicina d’anni fa al New York Times fu proposto uno scoop. Carte e fotografie nelle quali si sosteneva che nella prigione irachena di Abu Ghraib l’esercito americano avesse praticato sui detenuti un numero incredibile di torture e sopraffazioni, violando ogni legge nazionale e internazionale. Il NYT verificò, non trovò riscontri, respinse. Poi lo scoop lo fecero la Cbs e il New Yorker, e fu raccolto da tutti i giornali del mondo, sollevando un’ondata di indignazione contro la ferocia dei soldati occupanti. Ci vollero diversi anni per scrollarsi di dosso quella roba. La popolarità di George W. Bush non si riprese mai più. Il New York Times nei giorni scorsi è stato meno rigoroso sullo scoop- Argento. Non ha trovato riscontri ma neppure smentite e ha pubblicato: Asia Argento nel 2013 ha fatto sesso con un ragazzo di diciassette anni e mezzo (cioè con un minorenne) e poi, per mettere a tacere lo scandalo, ha comprato il silenzio del malcapitato con 380 mila dollari. Asia Argento ieri è stata sommersa di fango dalla maggior parte dei giornali italiani, felici di cavalcare lo scandalo che viene da oltreoceano. Soprattutto perché è stata proprio lei, Asia, qui in Italia, a guidare la protesta me-too, quella delle donne contro i maschi potenti e ricattatori sessuali, a partire dal produttore Winstein. Titoli a tutta prima pagina. Di questo tenore: «Asia Argento grottesca, la molestata molesta un minore”. Tutti i commenti, naturalmente, mettono in parallelo questo scandalo scoperto dal NYT con lo scandalo che ha messo in difficoltà il produttore Winstein, accusato da molte donne – in primo luogo da lei, Asia – di aver chiesto sesso in cambio di carriera. Sempre ieri, in serata, Asia Argento ha diffuso una nota per la stampa, nella quale respinge tutte le accuse, accusa a sua volta il NYT di falso, e presenta la sua versione dei fatti. Dice di non aver mai fatto sesso con il giovane ex attore (Jimmy Bennett), mai, e di avergli dato dei soldi (parecchi) su pressioni del suo compagno (il celebre chef Anthony Bourdain, morto suicida qualche mese fa) per aiutarlo, viste le sue difficili condizioni economiche. Non si capisce bene, dalla nota di Asia Argento, se il finanziamento sia stato, per così dire, spontaneo e filantropico (Bourdain era molto, molto ricco) o se invece ci sia stato qualche ricatto: a quanto sembra, comunque, se c’è stato un ricatto non era dovuto alla relazione sessuale tra Asia e il giovane Jimmy. Probabilmente non sapremo mai la verità. Sappiamo però che questo scoop ha azzerato in poche ore tutti gli effetti di mee-too. Che erano stati larghissimi: sull’opinione pubblica, sugli intellettuali, sull’establishment. E poi siamo sicuri di altre due cose. La prima è questa: sapere se Asia ha fatto o no l’amore col giovane Jimmy è fatto di interesse pari a zero, più o meno. Jimmy non era un bambino, era un giovane attore di diciassette anni e mezzo, era consenziente, non era ricattato, non era costretto. E’ molto probabile che sia vero quello che dice Asia Argento, e cioè che il rapporto sessuale non c’è mai stato. Anche se ci fosse stato non sarebbe una cosa clamorosa né un delitto atroce. E’ illegale? Vedrà eventualmente il tribunale della California. Al quale, però, non risulta nulla. La seconda cosa che sappiamo – e che già sapevamo – è che la campagna di me-too assunse, da un certo momento in poi, un tono di caccia alle streghe un po’ preoccupante. Una cosa è denunciare il modo nel quale una parte dell’umanità maschile usa il suo potere e opprime le donne, e le ricatta sessualmente, e le molesta e le violenta. E questa è una azione sacrosanta e necessaria, perché l’oppressione maschile, in tutti gli strati della società, è ancora molto forte e molto infame. Un’altra cosa è immaginare che un buon fine giustifichi qualunque mezzo. Perché allora una lotta si trasforma in una campagna giustiziera, e se c’è un sospetto piccolo così è bene bruciare le case, le suppellettili e tutte le persone che ci sono dentro. Questo non va bene, non è mai andato bene. Di solito sono le donne che ci vanno di mezzo nella caccia alle streghe, stavolta invece sono stati gli uomini. Fino a un certo punto. Poi, zac, e l’arma di rovescia e punta contro chi l’impugna. E la donna torna vittima. Anche ad Asia è successo così. Su questo il movimento me- too forse, dovrebbe un po’ riflettere. I modi e le passioni del giustiziere non portano mai giustizia: portano sempre nuova oppressione e fanno strame della libertà. Dopodiché torniamo al New York Times. E’ il più importante è il più serio giornale del mondo. Eppure ormai anche al New York Times si fa giornalismo in questo modo. Spiando la vita personale della gente e gettandola in pasto al pubblico, così, per qualche spicciolo, qualche copia, un pochino di rumore. Il gossip elevato ad arte dell’informazione. Il gossip come apice della cultura. Senza neanche preoccuparsi tanto di verificare, di controllare, di essere sicuri. Oggi, a quel che sappiamo, è molto improbabile che Asia Argento abbia fatto sesso con Jimmy Bennett, come ha scritto il NYT. E’ o non è un incidente clamoroso se le cose stanno così? No, non lo è. Lo sarebbe stato 15 anni fa, oggi l’opinione pubblica perdona, perché non è affamata di verità, di certezze (di informazione) ma vuole scandali che travolgano, e puniscano, i potenti e i ricchi o anche semplicemente i famosi. Magari è anche normale che sia così. E’ inquietante che persino i colossi dell’informazione, come il NYT, si pieghino, accettino questo gioco. Dimostrando quanto è vero quello che recentemente ha detto Mattarella, citando Alessandro Manzoni: «Erano tempi nei quali il buon senso si nascondeva, perchè aveva paura del senso comune». Quali tempi? Beh, questi.

Rose McGowan ad Asia Argento: «Sii la persona che avresti voluto fosse Weinstein», scrive il 28 agosto 2018 Stefania Saltalamacchia su Vanity fair. L'amica, e paladina del #MeToo, in un lungo comunicato fa sapere come è venuta a conoscenza dello «scandalo Jimmy Bennett» e si rivolge all'attrice e regista italiana: «Sii onesta, sii giusta. Lascia che la giustizia segua il suo corso». Rose McGowan prende ancora le distanze da Asia Argento. L’attrice americana, tra le prime accusatrici di Harvey Weinstein (insieme alla collega italiana) e paladina del #MeToo, ha scritto una lunga nota in cui racconta come ha saputo che Asia Argento avrebbe pagato 380 mila dollari a Jimmy Bennett, il giovane attore che l’accusa di violenza. A dirle che l’attrice e regista italiana ha ammesso di aver fatto sesso con l’oggi 22enne (e all’epoca dei fatti 17 anni) è stata la sua compagna, la modella Rain Dove, colei che ha appena dichiarato di essere stata lei «la talpa» che ha reso pubblici i messaggi-confessione di Argento (poi pubblicati dal sito di gossipTmz). Asia avrebbe anche detto a Dove di aver ricevuto foto di Bennett nudo fin da quando lui aveva 12 anni, ma di non aver mai preso alcun provvedimento a riguardo. McGowan fa sapere ora di non essere mai stata «collegata a questa vicenda, né complice». E ancora: «Asia [ai tempi della denuncia contro Weinstein] aveva accennato al fatto che venisse ricattata ogni mese da qualcuno che possedeva foto compromettenti e che chiedeva una considerevole somma di denaro, ma nessuno ha mai saputo chi fosse l’estortore. Adesso sappiamo che si stava riferendo a questo caso». L’ex attrice di Streghe ha poi aggiunto che la sua amicizia con Asia non le impedirà di difendere vittime come Bennett: «È triste perdere un legame di amicizia, ma cosa ancora più triste è quello che è successo a Jimmy Bennet», ha continuato nel comunicato, «Se la vicenda dell’estorsione è vera, non è giusta. È il tipo di cosa contro cui combatto da tanti. Ma non ci dovrebbe assolutamente essere alcuna tolleranza nei confronti di un’aggressione sessuale». La dichiarazione dell’attrice termina con una supplica ad Asia, l’amica le chiede di diventare la persona che avrebbe voluto fosse Harvey Weinstein: «Asia, eri mia amica. Ti ho amata. Hai rischiato molto per sostenere il movimento#MeToo. Spero davvero che tu possa trovare la via, in questa vicenda, per migliorare e per riabilitarti. Chiunque può essere migliore, spero possa esserlo anche tu. Fai la cosa giusta. Sii onesta, sii giusta. Lascia che la giustizia segua il suo corso. Sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein». Asia Argento finora non ha aggiunto altri commenti, dopo la nota in cui negava di aver mai fatto sesso con Bennett (dichiarazioni di fatto poi smentite dagli sms tra lei e Dove). Tutto è iniziato, ricordiamo, una settimana fa quando il New York Times ha scritto che l’attrice avrebbe promesso 380 mila dollari all’ex-attore Jimmy Bennett, in cambio del suo silenzio su un rapporto sessuale avuto nel 2013, quando lui era ancora minorenne (pratica illegale in California). La notizia ha subito fatto il giro del mondo, mettendo in discussione anche il ruolo di giudice di Argento nel talent italiano X-Factor.

Rain Dove, la compagna di McGowan ha tradito Argento: è lei ad aver diffuso gli sms, scrive il 27 agosto 2018 "la Repubblica". A pochi giorni dalla seconda accusa di molestie nei confronti di Asia Argento, da parte del comico britannico Jeff Leach, la compagna di Rose McGowan, la modella Rain Dove, afferma in uno scambio di tweet con svariati utenti di essere la responsabile della divulgazione del contenuto degli sms di Argento in cui l'attrice ammetteva di aver fatto sesso con Jimmy Bennett. "Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei", ha scritto la 27enne impegnata da tempo con McGowan, tra le prime ad aver accusato Harvey Weinstein di molestie. I messaggi confidenziali sono stati mandati a Rain Dove dalla stessa Argento, probabilmente per cercare conforto e consigli sul da farsi. Racconta la modella su Twitter: "Per prima cosa non volevo che Asia mi inviasse i messaggi. Quando mi hanno detto che c’era un reato, ho diffuso alcuni sms per supportare le mie azioni. Divulgare i testi che ricevo è un mio diritto avallato dalla legge". "Confesso a questo forum di essere stata io, perché al mio posto Rose veniva ingiustamente accusata", ha continuato Rain Dove in un altro messaggio. In un passaggio dello scambio tra Argento e Rain Dove la modella tenta di rassicurarla scrivendole "respira. Ci sarà giustizia per coloro che sono onesti", mentre l'attrice italiana replica "il mondo non funziona in questo modo". Ma lei insiste: "Io credo che in questo funzionerà". Questa sarà l'ultima battuta di Rain Dove prima di un ulteriore sms di Argento che le scrive: "Sei un mostro!". Il messaggio arriva a oltre due ore di distanza di tempo dal precedente ed è in quel lasso di tempo che, presumibilmente, la compagna di McGowan si è recata alla polizia. Sul social network Rain Dove racconta di aver inizialmente raccolto le confessioni di Asia Argento, aggiungendo però che "è stata lei a iniziare la conversazione, mi ha chiesto aiuto perché diceva di essere innocente", sottintendendo che quei messaggi non erano esattamente attesi né, forse, graditi. La modella, attivista e attrice Rain Dove Dubilewski, questo il suo nome integrale, ha negato di aver consegnato personalmente la conversazione a Tmz, che ha poi pubblicato il contenuto facendo esplodere il caso. Più precisamente, spiega di non averlo fatto in modo diretto ma che potrebbe essere stato qualche amico o suo collaboratore, cui aveva fatto leggere i testi, per capire come comportarsi. Si saprà solo più tardi, con la presa di posizione della sua fidanzata, che Rain Dove ha portato gli sms alla polizia. Sempre secondo Rain Dove anche l'ex di Argento, il cuoco, gastronomo e scrittore statunitense Anthony Bourdain, morto suicida lo scorso 8 giugno, era a conoscenza del fatto che la sua compagna avesse avuto un rapporto sessuale con Bennett. Intanto, dopo il lunghissimo thread di tweet che Rain Dove ha portato avanti per tutta la sera, rispondendo agli utenti del social network e aggiungendo nuovi tasselli al complesso puzzle di recriminazioni reciproche, si fa sentire anche Rose McGowan. L'artista, meglio conosciuta per il ruolo di Paige Matthews nella serie televisiva Streghe, prende ulteriormente le distanze da Asia Argento e le manda a dire di "diventare la persona che avrebbe voluto fosse Harvey Weinstein". "Fai la cosa giusta, sii onesta", afferma al termine di una dichiarazione l'attrice americana, ma nata a Firenze, che precisa anche di "non essere affiliata o complice" nell'"incidente" in cui Asia è stata accusata di aver fatto sesso con Jimmy Bennett. McGowan ha poi confermato che la sua partner, Rain Dove, ha sottolineato come Asia si sia confessata con lei svelandole di essere andata a letto con Jimmy, oltre però ad aver ricevuto foto nude del ragazzo "non richieste" da parte dello stesso e fin da quando lui aveva 12 anni. Argento, a quanto sembra, non avrebbe preso nessuna contromisura per fermare il giovane: "Non è andata alla polizia e non gli ha neanche detto di smetterla", scrive Rose". Poi, McGowan racconta nel dettaglio come il contenuto della conversazione privata tra la sua compagna e Argento sia divenuta pubblica: è stata proprio Dove, che inizialmente aveva negato il fatto, ad aver passato alla polizia gli sms di Asia, questo dopo che la modella ha pubblicato su Twitter lo screenshot con l'ultimo sms della Argento che l'accusa di essere "un mostro". "48 ore dopo gli sms erano sui giornali", ha detto Rose a proposito dei messaggi pubblicati da Tmz. McGowan ha scritto anche di aver fatto conoscere Asia a Rain tre giorni dopo il suicidio di Bourdain. In quella occasione Asia si aprì con lei e con Rain: "Raccontò che era stata vittima di una estorsione di una vasta somma di denaro ogni mese da qualcuno che la ricattava con una immagine provocante". Rose ha anche condiviso un suo messaggio a Asia: "Eri mia amica, ti volevo bene. Hai passato molto e rischiato molto per stare con il movimento #MeToo. Tutti possono essere meglio, spero che lo sarai anche tu". 

Asia Argento, “la talpa" è Rain Dove. Rose McGowan: "Sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein". Rain Dove ha confessato: “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”. Rose McGowan interviene in difesa della compagna e si rivolge all'ex amica, scrive il 28 agosto 2018 Stella Dibenedetto su "Il Sussidiario". Dopo che Rain Dove ha confermato di essere stata la "talpa" che ha diffuso i messaggi di Asia Argento, anche Rose McGowan ha deciso di intervenire sulla questione, rivolgendosi direttamente all'ex amica e paladina insieme a lei del movimento #MeToo: "Asia, eri mia amica, ti volevo bene. Hai fatto di tutto per difendere il movimento #MeToo. Ora hai l'opportunità per essere migliore di quello che è successo. Fai la cosa giusta, sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein". Nel frattempo, continuano a rimbalzare le voci riguardanti il futuro dell'attrice X Factor 2018, dopo l'accusa di molestie sessuali nei confronti dell'attore Jimmy Bennett, all'epoca dei fatti minorenne. Dopo le varie dichiarazioni di siti e giornali italiani, al momento non confermate dalla produzione di Sky e FreMantle Media Italia, giungono nuove indiscrezioni da parte della rivista americana Variety. Secondo quanto riporta il tabloid, la Argento sarebbe stata definitivamente esclusa dal talent show che esordirà su Sky Uno il prossimo 6 settembre. Citando fonti non ben precisate, Varity segnala che la Argento sarà protagonista delle audizioni registrate nei mesi scorsi, ma sarà sostituita da una collega durante la fase dei live. [Agg. di Dorigo Annalisa]

IL SILENZIO SOCIAL. Continua a riempire le pagine dei giornali il nome di Asia Argento e quanto accaduto con Jimmy Bennett. L'attrice e figlia del maestro dell'horror Dario Argento ha deciso però di chiudersi in un silenzio sui social network dove di solito è molto attiva ma dove nell'ultimo periodo ha deciso di fermarsi. L'ultimo post su Instagram è datato 23 luglio, più di un mese fa. Considerando la cadenza quasi giornaliera su Instagram della nota attrice è un particolare alquanto significativo in un momento molto delicato per lei, nel quale alcune parole hanno messo in dubbio tutto il suo lavoro fatto per l'associazione #MeToo. Asia Argento però non è una donna che si sottrae alle polemiche e alle critiche, rispondendo sempre in prima persona e anche con una decisa personalità. Cosa farà stavolta? Di certo ci si aspetta da lei qualche gesto per chiudere una polemica che sta diventando anche un po' troppo ridondante. (agg. di Matteo Fantozzi)

RAIN DOVE HA CONFESSATO. Rain Dove ha confessato: “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”. Colei che – in questi casi – viene comunemente chiamata “la talpa” è una modella 28enne americana. Ma non è solo questo. Ed infatti si tratta anche della compagna di Rose McGowan, grande paladina del #MeToo e molto affezionata alla Argento. Dopo averne parlato con i follower su Twitter, pare che sia stata proprio lei a girare alla polizia gli SMS dove la figlia di Dario Argento, ammetteva di avere fatto del sesso con Jimmy Bennett. Questo scambio scottante di messaggi poi, è stato successivamente pubblicato sul sito di gossip Tmz. Per quale motivo avrebbe fatto una cosa simile? A quanto pare non riusciva più a reggere tutte le accuse nei confronti della compagna McGowan: “Non ne potevo più di vedere la mia compagna accusata di aver tradito la fiducia di Asia. Sono stata io”, ha affermato. Dopo le imputazioni del New York Times, proprio la Argento avrebbe scambiato dei messaggi con Rain Dove. “Ha iniziato lei la conversazione, chiedendo il mio aiuto e dichiarandosi innocente”, racconta su Twitter. “Io ho iniziato a chiederle tutte le prove che aveva a disposizione per difendersi”.

ASIA ARGENTO RISPONDE A RAIN DOVE: “SEI UN MOSTRO!”. Rain Dove successivamente afferma di aver capito che le prove non esistevano. Ed infatti durante lo scambio, proprio Asia ammette di aver fatto sesso con Jimmy Bennett: “Asia, per la legge della California, aveva commesso uno stupro. Aveva violato le leggi sulla pornografia minorile, ricevendo immagini di nudo da Bennett senza mai bloccarlo o denunciarlo. E continuava a dire che era il New York Times a mentire. È stato ripugnante vedere qualcuno che confessa molteplici crimini e poi negarli pubblicamente”. Rain è andata dalla polizia per consegnare lo scambio di messaggi, dichiarandosi pentita solo a livello umano: “Mi sento un po’ in colpa. Ma la giustizia vale di più. Se qualcuno mi confessa un reato, io informo gli investigatori. Non capisco perché sia così difficile da capire”. La modella però nega di averli girati a Tmz e per lei, sarebbe opera di qualche “amico avido”. Sullo scatto al letto con Jimmy invece, non ha dubbi: “è stato lo stesso Bennett a inviarla, per 28 mila dollari”. Dopo avere letto l’articolo, Asia ha scritto un nuovo sms a Rain: “Sei un mostro!”. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

LO SPINOSO CASO. Lo spinoso caso di Asia Argento potrebbe costare all'attrice e produttrice la faccia e anche il suo posto nella giuria di X Factor 2018. Al momento non ci sono notizie a riguardo e mentre gli inquirenti americani sembrano lontani da un'accusa formale all'attrice, il mondo dello showbiz continua a dividersi. Questa volta a difesa della Argento si è schierata Lysette Anthony che al Sudany Times si è detta quasi offesa per il trattamento riservato alla più grande accusatrice di Henry Weinstein e ad uno dei volti del movimento MeToo: "Sarò scorticata viva per aver parlato, ma non posso stare zitta mentre Asia Argento viene scaraventata sotto un autobus. È stata straordinariamente coraggiosa contro Weinstein e ora viene punita. Lei è stata denigrata e maltrattata". Non è l'unica attrice a pensare questo e proprio nei giorni scorsi l'amica Rose McGowan che ha scritto: "Ho il cuore spezzato". Non si capisce bene se questo sia un punto a favore della Argento o meno, ma sembra che la questione sia destinata a far discutere ancora nei prossimi giorni. (Hedda Hopper)

UN NUOVO SMS PER BENNETT? Il caso Asia Argento continua a far discutere. Dopo aver accusato di molestie il produttore cinematografico Harvey Weinstein, Asia Argento è diventa a sua volta una presunta carnefice. L’attore Jimmy Bennett ha accusato la Argento di molestie sessuali dopo aver avuto una frequentazione con lei. La pubblicazione di tutti i messaggi che l’attrice avrebbe inviato a Bennett all’epoca dei fatti ha suscitato clamore in tutto il mondo. Nei messaggi, Asia Argento si mostrerebbe particolarmente interessata al ragazzo al punto da volerlo come protagonista di tutti i suoi film. Nelle ultime ore, però, è spuntato un ulteriore messaggio che sta facendo molto discutere. La Argento, infatti, in uno dei tanti twett inviati al giovane attore, gli avrebbe confessato la cotta della figlia Anna Lou (nata dal suo rapporto con Morgan ndr) per lui. “Jimmy, Anna ha 11 anni ora e per un lungo periodo se le persone le chiedevano “di chi sei innamorata?” lei diceva Jimmy! Lei ha avuto per te una cotta da quando aveva 2 anni”, sarebbe il testo del nuovo messaggio incriminato come rivela Bitchyf (cliccate qui per vedere il messaggio).

LE ACCUSE DELL’EX FIDANZATA A JIMMY BENNETT. Asia Argento, dopo essere scesa in campo accusando Harvey Weinstein e aderendo al movimento #MeToo in difesa delle donne, starebbe rischiando tantissimo per le accuse di Jimmy Bennett che, a sua volta, sarebbe stato denunciato dall'ex fidanzata- Come riporta Fanpage.it, Rachel Fox avrebbe presentato una denuncia contro Jimmy Bennett alla Corte Suprema della California – Contea di Los Angeles sostenendo di essere terrorizzata dall'attore. Rachel Fox e Bennett hanno avuto una storia quando lei aveva 17 anni e lui 18. Rachel, a sua volta attrice, è diventata famosa interpretando il personaggio di Kayla in "Desperate Housewives". "Da quando avevo 15 anni Jimmy non ha mai smesso di provare a chiamarmi, messaggiarmi o restare in contatto con me, in qualsiasi modo. Mia madre aveva provato ad avvertirmi che potesse essere un violento. Ha avuto problemi con la droga e abbiamo rotto quando io avevo 17 anni e lui 18, ma lui non ha mai smesso di importunarmi attraverso telefonate o altre forme di contatto”, spiega la ragazza che poi definisce Bennett come “un bugiardo, un manipolatore e un ladro, ruba perché la sua famiglia è in pessime condizioni economiche, avendo attraversato di recente pignoramenti e bancarotte”. I due non stanno più insieme da tempo e l’ultima volta che si sarebbero visti, Bennett le avrebbe mentito e fatto del male: “mi ha mentito, dicendo che i suoi avevano abusato di lui, chiedendomi di stare con lui. Dopo mi ha colpito più volte, successivamente non ha mai smesso di chiamarmi, messaggiarmi e contattarmi”. 

"Asia mi inviò un suo video in topless": ora spunta anche un altro "molestato". Jeff Leach, comico inglese di 34 anni, ha raccontato l'episodio lo scorso giugno e il Daily Mail lo ha ripescato. Ma l'attrice non rischia di finire in tribunale: ecco perché. Dopo Jimmy Bennett, che accusa Asia Argento di "aggressione sessuale" quando aveva 17 anni, spunta un altro uomo che racconta di quando Asia gli inviò un suo video in topless mettendolo in imbarazzo. Si tratta del comico inglese Jeff Leach, scrive Cinzia Marongiu su Tiscali il 27 agosto 2018. Niente di nuovo sotto il sole. Ma anzi la conferma che quando cadi in disgrazia in tanti si affrettano a prendere le distanze, a setacciare il tuo passato e a scovare qualsiasi cosa possa essere utilizzata contro di te. Così ora contro Asia Argento viene opportunamente ripescata dal Daily Mail un’altra testimonianza di un molestato. Stavolta ad aver subìto l’intraprendenza e l’esuberanza dell’attrice e regista italiana sarebbe l’amico Jeff Leach, comico inglese di 34 anni. È lui ad aver raccontato che Asia gli inviò sul cellulare un suo video in topless. Il racconto risale allo scorso giugno durante una discussione sul podcast “Legion of Skanks”. Ora quelle dichiarazioni sono state ripubblicate e la storia, che risale ad alcuni anni fa, è finita sul sito del Daily Mail e da lì rimbalzata in ogni dove. Così, dopo le accuse del giovane attore americano Jimmy Bennett, un'altra testimonianza arriva a sporcare Asia in quanto icona del Metoo, il movimento di denuncia delle molestie alle donne da parte di uomini di potere, dopo la sua denuncia al produttore americano Harvey Winstein per averla stuprata vent'anni fa.

Il racconto dello scorso giugno. Leach aveva detto di essere rimasto un po' interdetto quando aveva ricevuto il video da Asia Argento, anche perché in quel momento era con la sua ragazza e perciò si era arrabbiato e aveva scritto all'attrice che non poteva mandargli filmati hot. Lei gli aveva risposto, arrabbiandosi a sua volta, e dicendo che le capitava di mandare foto e video di lei nuda ai suoi amici, senza malizia o interesse. Al Daily Mail l'attore ha aggiunto che la Argento sapeva che lui fosse fidanzato allora, e che lei si era da poco divorziata dal regista Michele Civetta (il divorzio è del 2013, ndr). "Ora non dico che non è vero che è stata violentata o molestata”, aveva commentato il comico inglese, riferendosi alla denuncia contro Weinstein, “ma forse, in questo modo, non è tra le migliori portavoce di quel movimento". All'epoca, ricorda ancora il quotidiano britannico, Leach stava cominciando un percorso per riprendersi da una dipendenza sessuale che aveva raccontato alla Bbc e che lo aveva portato ad andare a letto con più di 300 donne quando aveva 27 anni.

Ecco perché Asia non rischia il processo. Comunque per quanto lo sceriffo di Los Angeles abbia aperto un’inchiesta per i fatti che coinvolgono Jimmy Bennett, Asia non rischia di finire in tribunale per aver violato la legge della California che fissa in 18 anni l'età legale per il consenso in un rapporto sessuale. Jimmy aveva 17 anni compiuti da due mesi all'epoca in cui sarebbe successo il fatto, il 9 maggio 2003 in una camera del Ritz Carlton di Marina del Rey. Nessuna denuncia formale è stata sporta allora nei confronti di Asia, e secondo l'avvocato di Los Angeles Alaleh Kamran, non coinvolto nella vicenda, sarebbe troppo tardi per aprire un caso: "In California il sesso con un minore può essere processato come crimine oppure misfatto e i termini di legge vanno solitamente da uno a tre anni". Inoltre, secondo un altro avvocato, J. Tooson, il selfie che ritrarrebbe Asia e Jimmy assieme a letto "indurrebbe a pensare che non c'è stata forza o intimidazione" perché i due sono ritratti teneramente abbracciati e sorridono.

Vittorio Feltri il 26 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano" su Asia Argento: "Si è costruita la trappola da sola". Caro Cicchitto, hai molte ragioni. Però la legge, anche se sbagliata, occorre rispettarla. Non si può scopare con un (o una) minore. Chi lo fa va (magari ingiustamente) punito. E la signora Asia Argento, dato che si è fatta un diciassettenne, deve essere perseguita. Berlusconi per lo stesso reato è stato linciato in Italia da tutti i media, processato e perfino condannato. Non vedo per quale motivo l'attrice meriterebbe l'assoluzione. Aboliamo la norma che vieta l'amore con un fanciullo benché consenziente. Sono d' accordo. Ma se è in vigore serve osservarla. Nel caso di specie, trovo ridicolo che un giovanotto debba ricevere un risarcimento perché è stato a letto con una donna: solo un cretino si spaventa davanti alla passera. Anche io in età minorile (ai miei tempi si era maggiorenni a 21 anni) ebbi un rapporto con una signora di 29 anni. L' indomani, dato che mi ero trovato bene, non mi recai in questura per accusarla, bensì mi precipitai dal fiorista onde inviarle un mazzo di rose. La mia impressione è che l'amante precario di Asia abbia copiato il comportamento stravagante di Asia stessa, la quale a distanza di decenni denunciò per molestie il noto produttore cinematografico, imputandolo di leccata illecita, quando chiunque sa che per leccare è necessario il consenso della leccata, altrimenti non ce la si fa per difficoltà tecniche. In pratica il ragazzino ha imitato la Argento, l'ha sputtanata con le stesse argomentazioni sceme usate da lei per sputtanare il cineasta. Egli è ricorso alle sue medesime armi improprie, cosicché siamo di fronte a situazioni fotocopia. Ovvio che la figlia del regista noir abbia rimediato una figura di palta tale da suscitare scandalo o almeno risate. Rimane il fatto che lui è un fesso, prima si trastulla e poi dice che ciò lo ha traumatizzato. Nossignori, era stordito anche prima di fare l'amore, suppongo con sommo piacere altrimenti non lo avrebbe fatto.

La circostanza che poi Sky intenda licenziare madame per tale incidente induce a pensare che i dirigenti della emittente abbiano perso la trebisonda come talebani qualsiasi. Non credo che l'abilità professionale e la morale risiedano esclusivamente nelle mutande. E quanto succede in quelle di Asia non mi importa nulla, così come spero nessuno si occupi di quanto accade nelle mie. Che però sono pulite. Vittorio Feltri

Asia ha cambiato avvocato. Riecco Heller, specializzazione: salvare le star. A Mark Jay Heller il mastino da tribunale che salva le celebrità, Asia ha affidato il compito di cambiare la sua, di narrazione, scrive Giulia Merlo il 6 Settembre 2018 su "Il Dubbio". “Capovolgere la narrazione” significa prendere una storia che danneggia la propria immagine e attraverso i media modificarne la lettura in modo da tramutarla in qualche cosa di positivo, o quantomeno instillare il dubbio nell’opinione pubblica che le cose non siano andate come è stato raccontato. Parola d’ordine in politica, in America è sempre di più un’arma anche sul fronte giudiziario. Nel caso di Asia Argento la prima versione della storia, pubblicata dal New York Times e condita di dettagli dai tabloid, racconta di una paladina del movimento # me-Too che passa da vittima a carnefice: da ventunenne abusata dal produttore Harvey Weinstein ad abusatrice di un ragazzino di 17 anni. Un ragazzino di cui, poi, Asia compra il silenzio con la promessa di 350 mila dollari (le cui rate vengono pagate dal suo compagno, lo chef Antony Bourdain, morto suicida qualche mese fa). Risultato: la storia azzera la credibilità di Argento, la quale viene, nell’ordine, messa alla porta dal movimento # meToo, cacciata da X Factor con un comunicato stampa che parla di codici etici, data in pasto ai giornali di mezzo mondo come adescatrice di minorenni. All’inizio lei sceglie il silenzio stampa, poi dichiara di non aver avuto rapporti sessuali con Jimmy Bennet ma viene sbugiardata da una serie di sms resi pubblici da una modella (Rain Dove, la compagna di un’altra animatrice del movimento # meToo, Rose Mcgowan), poi ancora diventa il bersaglio preferito del bombardamento social. Fino a quando in scena non arriva Mark Jay Heller. Heller è un avvocato del foro di New York e il suo viso squadrato col naso prominente, ma soprattutto il suo ruggito ai microfoni sono notissimi al grande pubblico, che lo conosce come opinionista televisivo ma soprattutto al fianco dei casi disperati nel pantheon di stelle cadute di Hollywood. Sul suo sito personale scrive di avere «più citazioni sui media di qualsiasi altro avvocato d’America» e l’elenco dei suoi clienti si divide in due categorie: personaggi famosi e assassini. Sul fronte della cronaca nera, sul suo sito spiccano i nomi del serial killer David Berkowitz; Colin Ferugson “l’omicida della ferrovia di Long Island” e Noella Allick, alias “la tata mostrusa”. Su quello del gossip, sono elencati Jessica White, la supermodella di Sports Illustrated (arrestata per lesioni personali contro una donna); l’ex moglie di Rod Stewart, Rachel Hunter (il cui divorzio è stato tra i più pagati della storia recente), ma soprattutto la cattiva ragazza di Hollywood per antonomasia: Lindsay Lohan, finita sotto processo per abuso di alcool e in riabilitazione almeno un paio di volte. A lui, il mastino da tribunale che salva le celebrità, Asia ha affidato il compito di cambiare la sua, di narrazione. E Heller è già partito all’attacco, con un comunicato stampa rimbalzato su tutti i quotidiani il cui titolo è già uno slogan: «Asia Argento lancia la “fase due” del movimento # me-Too». Il primo passo per il cambio di narrazione: trasformare Asia da traditrice del movimento ad attivista della sua fase due. «Questa è la seconda fase del movimento # me-Too. Una vittima che ha alle spalle una storia negativa deve avere il coraggio di uscire allo scoperto e dire “anche io sono stata vittima di violenza sessuale” e qualsiasi evento del mio passato non nega la verità di ciò che mi è successo». In altre parole, nessuno si dimentichi che prima di tutto Asia è una vittima. Il secondo passo, invece, è quello di intervenire direttamente sulla storia raccontata dai media. Ed ecco la nuova narrazione – quella “accurata” ma che i media hanno mal raccontato – offerta dall’avvocato: Asia non ha mai iniziato un rapporto sessuale con Bennet, come ha detto lei stessa al Nyt dichiarando di non aver mai fatto sesso con lui; è stato Bennet ad assalirla, come spiega la stessa Asia nei messaggi trapelati sui tabloid in cui si legge che «il ragazzino arrapato mi è saltato addosso e io sono rimasta gelata»; Asia ha deciso di non denunciare Bennet per violenza sessuale. Insomma, Bennet e non Asia dovrebbe difendersi dalle accuse. Quanto al pagamento, il denaro è estorto da Bennet a Bourdain: «Bennet sapeva che Bourdain era ricco e con una reputazione da proteggere, quindi gli ha chiesto dei soldi per non mettere in imbarazzo Asia e quindi indirettamente lo stesso Bourdain. Bourdain ha deciso di proteggere la reputazione sua e di Asia pagando Bennet, ma Asia era contraria a questa decisione, perchè sapeva di non aver fatto nulla di male visto che l’incidente è stato iniziato e portato avanti da Bennet contro di lei e non il contrario». Il terzo passo punta a mettere in dubbio la credibilità dell’accusatore di Asia. Heller ha scavato nella storia di Jimmy Bennet e ha trovato ciò che cercava: «È ironico scoprire che Bennet è stato accusato nel 2014 dalla Polizia di Los Angeles di “sesso illegale con minore”, “stalking” e “pornografia minorile” e la vittima ha sostenuto che Bennet la aveva manipolata, facendosi inviare alcune foto di nudo». Il quarto passo è ricostruire l’immagine positiva dell’accusata, e Heller lo fa rimettendola in sella al movimento che l’ha lanciata e che l’ha anche sbrigativamente ripudiata: «Asia crede che nella fase due del movimento # meToo tutti dovrebbero potersi fare avanti e raccontare la loro storia a prescindere dal loro passato. Un passato che, nel caso di Asia, riguarda un’interazione mal compresa dai media tra lei e Bennet e che è stata iniziata da Bennet. La società deve capire che nessuno è perfetto, ma che tutti hanno il diritto di essere ascoltati e la giustizia deve prevalere, temperata da compassione, pietà, perdono e comprensione». Una volta cambiata la narrativa, poi si passa al contrattacco. Heller ha dichiarato che «Asia non permetterà che nessun’altra rata del pagamento di 380 mila dollari concordato sia pagata a Bennett che ha già ricevuto 250 mila dollari» ma non intende citare Bennet in giudizio, «perchè è a conoscenza del suo sfortunato passato, della sua carriera d’attore bloccata e della sua causa contro i genitori per ragioni di soldi». Lei, dal canto suo «tornerà alla sua carriera internazionale, fatta di premi vinti e di acclamate performance come attrice, musicista e regista», non solo «continuerà a lavorare per le vittime sotto silenzio e promuoverà sia la fase uno che la fase due del movimento # meToo». Agli appassionati della vicenda, la sentenza sull’efficacia del “cambio di narrazione”. A noi nativi nei paesi di civil law sfugge come un avvocato possa scegliere il tribunale dei media per ingaggiare una battaglia legale, ma il caso Argento è la perfetta dimostrazione di come si operi un diverso paradigma giuridico, fondato proprio sull’obiettivo di non andare in tribunale. L’obiettivo di Heller è quello di spaccare l’opinione pubblica e di consumare a colpi di comunicato stampa la vicenda giudiziaria, dimostrando come gli stessi fatti possano essere letti sotto un diverso punto di vista, che tramuta la carnefice in vittima. E lui, come certificano la lista dei suoi clienti e il suo “screen time” nelle tv americane, a fare questo è il migliore.

Stai con Asia o con Mammona? Io sto con Musil…Parlo di Weinstein e penso a Moosbrugger, l’eroe nero de “L’uomo senza qualità”, scrive Gilda Policastro l'1 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Quest’estate abbiamo scoperto che gli scrittori under 40 non hanno letto Musil, figurarsi se l’hanno letto i commentatori compulsivi, che, essendo sempre su Facebook, non leggono mai. Ecco, L’uomo senza qualità è un libro in cui, tra una trattazione storico- filosofica e l’altra, si racconta la vicenda di Moosbrugger, assassino seriale su cui il narratore e la giustizia del tempo non finiscono di arrovellarsi: è o meno capace d’intendere e di volere un uomo che quando vede le donne, certe donne, non riesce a trattenere l’impulso di ucciderle? Moosbrugger diventa così l’eroe nero di alcuni personaggi femminili del romanzo, come ad esempio Clarisse, che ne sogna la libertà e la redenzione se non altro per compiacere Ulrich, il protagonista così appassionato al caso. Ci ho pensato in questi giorni di feroci polemiche sui social in cui non mi sentivo di sostenere incondizionatamente ed empaticamente il ruolo, in quanto donna, di “vittima” e mi veniva piuttosto da pensare al (presunto) carnefice, che qui d’ora in avanti chiameremo W. E non per costruirgli una leggenda romantica attorno, tanto più che non è nemmeno lontanamente paragonabile all’assassino musiliano, non solo per l’entità del capo d’imputazione, ma anche perché non mi pare sia reo confesso né che la giustizia lo abbia già condannato. Lo chiameremo W. solo per restituirgli, con l’indeterminatezza del nome, anzi cognome, puntato, la dignità giuridica di persona meritevole del beneficio del dubbio, come tutti gli imputati (o accusati) a tutte le latitudini o quasi, fino a prova contraria. La mia posizione è scomoda tanto quanto quella di chi giudica Moosbrugger in Musil. Ci si trova di fronte un uomo, un uomo come tanti, con le sue deviazioni alternate a lucidità e comportamenti comuni: com’è possibile che sia stato crudele al punto da assassinare delle povere donne? Queste donne, si dice a un certo punto, lo irritavano. Giravano di notte, lo stuzzicavano. Lui non voleva saperne, e loro insistevano. A quel punto, lui uccideva. Questo a Musil serve a suggerire al lettore che l’irritazione provocatagli da quelle donne valesse come attenuante? Nessuno lo pensa, mentre legge il romanzo. La letteratura, si sa, è il campo in cui si osa, a partire dalle origini classiche. Nella tragedia greca si va a letto con le madri, si ammazzano i padri e i figli. E siamo tutti a commuoverci, in teatro, dopo duemila anni e passa, mentre si autodenunciano, gli eroi pentiti o disperati, Medea accecata dalla gelosia, Oreste che non trova pace per essersi macchiato, del sangue materno, queste mani, le mie. E non vale solo per la letteratura antica: pure quella moderna è piena di personaggi immorali. Peggio ancora quando arriva l’autofiction, per cui il protagonista si chiama con lo stesso nome scritto in copertina e non sappiamo più quanto l’autore ne stia prendendo le distanze (succede al Mozzi de Il male naturale come al Siti di Troppi paradisi o dell’ultimo romanzo). Anche Carrère, ne L’avversario, si è posto il problema: lo scrittore non giudica, come la massa che legge la cronaca nera e ne parla con un misto di raccapriccio e di sollievo. Il mostro è isolabile, riconoscibile, infine punito, in ogni caso lontano, diverso da noi, altro. Entriamo, sembra dire invece Carrère, nelle ragioni perfettamente umane di un’azione riprovevole come quella di uccidere figli e moglie. La vita vera non è letteratura, si obietterà, dunque non c’è confronto tra le pagine di un romanzo e quello che sta capitando oggi a W. Cosa gli sta capitando? In sintesi: una serie di attrici, vent’anni dopo i fatti, denuncia, anzi, no, racconta ai giornali di aver subito abusi da lui, nel frattempo passato, come dice una delle principali accusatrici, «da produttore numero 3 a numero 200 del mondo». Noi non eravamo in quelle stanze d’albergo, in quegli ascensori, a quei festival, non l’abbiamo visto in accappatoio, non siamo stati molestati o ricattati da lui (né da tutti gli uomini di cui tutte le donne, sui social, si confessano a posteriori assediate o infastidite). Quindi rimaniamo a quello che ne scrivono i giornali. Che, com’è noto, non testimoniano e basta, ma ricostruiscono, interpretano, così come la letteratura finge, immagina, estremizza, spostando di volta in volta il limite del possibile e potendo arrivare a difendere un assassino seriale. Non sono un giudice, non sono nemmeno Musil, ma scrivo romanzi. Uno dei miei romanzi s’intitola Sotto e parla dei rapporti di potere e delle dinamiche di relazione uomo- donna all’interno di un sistema gerarchico come l’università. La mia non era una denuncia di comportamenti precisi e non aveva personaggi à clef: non desta clamore la riflessione senza scandalo, senza nomi, senza facce. Gli uomini calati nei ruoli specifici condannano o, se del caso, riabilitano; gli scrittori hanno come specifico di calarsi nell’umano in tutti i suoi aspetti, anche i meno presentabili e difendibili. All’attenuarsi del clamore, dell’odor di scandalo, del “dagli all’untore”, qualcuno, forse, darà voce a W., che da un giorno all’altro viene additato come “mostro”: d’improvviso tutto cambia, per lui, i ringraziamenti di rito per gli Oscar diventano accuse di molestie o peggio (perché nella confusione livellante dei media il capo d’imputazione si confonde con la violenza sessuale, lo stupro). Dopo decenni di vita fortunata e successo planetario, il suo volto e il suo nome si fanno sinonimi di oltraggio alle donne, contro di lui si combatte una battaglia antica e velleitaria: il sogno di trasformare tutti gli esseri umani in persone perbene, che non danno mai noia ai propri simili e vivono nell’armonia universale, senza accappatoi sbottonati e sguardi predatori. E siccome il W. letterario sarà idealista ( o moralista a sua volta) si chiederà, a un certo momento della storia: perché non è un magistrato a giudicarmi, ma la pubblica opinione, fatta di persone che nelle loro vite sono violente, sgarbate, evadono le tasse, si approfittano dei sottoposti, li fanno lavorare senza paga. Il mondo è pieno di aberrazioni e di soprusi ma a loro interesso io, i miei comportamenti deviati, la mia sessualità compulsiva. Chi mi condanna è più ossessionato di me, a partire da quelle donne, entrate sulle loro gambe nelle mie camere d’albergo, con lo sporco segreto custodito per anni. Intanto, mentre W. conciona e qualcuno, forse, si prepara a scriverne la storia, chi nei social non difende e non giudica ma semplicemente dubita, fino a prova contraria, si taccia di misoginia, fallocentrismo, istigazione al femminicidio. Perché il processo in rete prevede solo aut aut: con Asia o con Mammona. Ma ci sarebbe anche Musil, ad averlo letto.

Asia Argento ha fatto causa a Rose McGowan. Una volta scaduto l'ultimatum di 24 ore le minacce sono diventate realtà. Anche Rain Dove è coinvolta, scrive il 18.09.2018 tio.ch. Asia Argento ha fatto causa a Rose McGowan. Lo ha annunciato pubblicamente l'attrice e regista italiana con un messaggio su Twitter. «Il termine di 24 ore per ritirare le tue recenti false affermazioni su di me è scaduto. Devo informare te e Rain Dove (la compagna di McGowan, ndr) che ho dato istruzioni a Mishcon de Reya di farvi causa per inganno, frode, coercizione e diffamazione». «Si metteranno in contatto con voi a breve» conclude Argento. Mishcon de Reya è un noto studio legale con sedi a Londra e New York.

C'eravamo tanto amate. Asia e Rose dal MeToo agli avvocati. Argento sceglie le vie legali contro McGowan l'amica con la quale, fino a pochi mesi fa, condivideva la “battaglia anti-porco”, scrive Simonetta Sciandivasci il 19 Settembre 2018 su Il Foglio. Signori, a voler sceneggiare le ultime da Asia Argento e Rose McGowan, le due amiche geniali del #MeToo, verrebbe fuori uno strepitoso Carnage, ambientato non in un salotto altoborghese ma nella stanza del preside di un liceo (classico, naturalmente, chè mica teneva ragione Michele Serra). Ma accontentiamoci della realtà. Lunedì scorso, Argento ha ripreso Twitter (nelle ultime settimane aveva dato un taglio, a parte qualche retweet di X Factor) e ha inviato un primo ammonimento a Rose McGowan: “Cara Rose, è con sincero rammarico che ti concedo 24 ore per ritrattare e scusarti per le orrende bugie che hai scritto su di me il 27 agosto”. Altrimenti mi arrabbio? No, signori. Altrimenti “prenderò provvedimenti legali”. Un mondo di adolescenti over quaranta e giudici di pace, un pianeta Italia. McGowan se n'è rimasta zitta, così trascorse le 24 ore, Argento ha annunciato di aver affidato la faccenda a un avvocato, già a caccia di estremi per portare lei e la sua fidanzata in tribunale con l'accusa di frode, coercizione, inganno e diffamazione. Nessuna replica, almeno per ora. Ricorderete che, a fine agosto, è venuto fuori che, nel 2013, Asia Argento, allora trentasettenne, era finita a letto con uno stronzetto allora diciassettenne, tale Jimmy Bennett, uno di quelli a cui negli anni Novanta non avremmo dato una chance neppure a Meteore, al fianco del quale aveva recitato in Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa (2004). Essendo la liaison pornographique avvenuta in California, dove il sesso tra maggiorenni e minorenni è reato, lo stronzetto aveva di recente preso a ricattarla, annusando l'affare, e Argento aveva finito con il corrispondergli 380 mila dollari pur di farlo tacere. Argento ha negato tutto, poi ha negato solo che ci sia stato del sesso, ma poi ha ammesso i pagamenti (su consiglio del fidanzato Bourdain, che la esortava a liberarsi di quel ricattatore per ritrovare un po' di serenità). Effetti: molto sostegno dai giornali italiani (vede, Asia, a cosa porta la giustizia dei cancelletti?); quasi nessuno da quelli statunitensi (Argento non è il #MeToo! Si vada avanti senza di lei); X Factor la elimina dal programma; McGowan si dice, su Twitter, assai dispiaciuta e quella che, fino a poco prima, aveva chiamato sorella, diventa un elefante in salotto di cui liberarsi il prima possibile, una con cui “ho solo condiviso il dolore per aver subito molestie da Weinstein”. Secondo tempo. Diventano pubblici dei messaggi che Argento scrive a Rain Dove, fidanzata di Rose McGowan: è la stessa Asia, in quelle conversazioni, a dire di aver fatto sesso con Bennett. Poco dopo, si scopre che quei messaggi sono arrivati alla polizia grazie a Rain Dove. Il 27 agosto, McGowan usa Twitter per dire al mondo che Asia Argento è una minaccia per il movimento #MeToo e le consiglia di diventare migliore, di essere la persona che lei avrebbe voluto fosse Weinstein. Asia Argento si rivolge allo studio legale londinese che difese Lady Diana nel divorzio dal principe Carlo. Il 4 settembre, uno dei suoi nuovi avvocati fa sapere che presto verrà dimostrato che fu Bennet a violentare Asia. Vi siete persi? E cosa l'avete guardato a fare Beautiful se siete così poco allenati ai corsi e ricorsi della vendetta personale? Asia Argento ha scoperto troppo tardi e a sue spese che la giustizia si fa in tribunale. E qualsiasi sentenza in suo favore non le darà vittoria, né pace: non solo perché contro di lei ci sono due abili fabbricatrici di mostri più un movimento che chiama contraddizioni e/o reati le complicazioni della realtà, ma pure perché non c'è modo, ormai, di opporsi alla giustizia privata degli hashtag pubblici con quella civile. Senza rendersene conto, Asia Argento sta tentando di portare a processo, anche se ancora con i toni del Far West (ti concedo 24 minuti per rimediare) e della querelle televisiva (sennò ti querelo!), tutto quello che ha contribuito a creare. Il suo più grande mostro. E perderà, anche e soprattutto se dovesse vincerlo, quel processo (ammesso che riesca a farne istruire uno).  Bennett, il ragazzetto dello scandalo, sarà ospite di Massimo Giletti, il prossimo 23 settembre, all'Arena. La rivincita di quelli che neanche a Meteore: ma questo è un altro capitolo, lo scriveremo domani. 

Asia Argento, Rose McGowan si scusa: "Ho frainteso i suoi messaggi con Bennett". Lʼattrice e regista replica però su Twitter: "Adesso però smetti di ferire altre persone Rose...", scrive il 28 settembre 2018 Tgcom 24. "Ho frainteso i messaggi scambiati da Asia con la mia compagna Rain Dove che riguardavano le immagini spedite da Jimmy...". Con un twitter Rose McGowan, paladina del movimento #MeToo, fa dietrofront e chiede pubblicamente scusa all'ex amica Asia Argento: "Pensavo che Bennett avesse 12 anni all'epoca e non 17...". Asia accetta le scuse ma risponde secca: ""Adesso vai avanti, vivi la tua vita e smetti di ferire altre persone, vuoi Rose? Auguri". Dopo la minaccia di un'azione legale, che Asia Argento ha rivolto, pochi giorni fa, alla McGowan, nel caso lei non ritirasse le sue accuse a proposito della presunta relazione sessuale con Jimmy Bennett, ecco che, prontamente sono arrivate le scuse: "Cara Rose, è con sincero rammarico che ti do 24 ore per ritrattare e scusarti delle orrende bugie che hai detto il 27 agosto nei miei confronti", ha scritto la Argento. E, sebbene non proprio in 24 ore, ma il dietrofront da parte di Rose McGowan c'è stato. Un lungo post che formalizza le scuse ed è un ammissione di errore, in cui la donna spiega: "Il 27 agosto ho rilasciato una dichiarazione su Asia Argento, che ora realizzo conteneva una serie di fatti non corretti. Il più importante è aver detto che le immagini di nudi che Asia ha ricevuto da Jimmy Bennett, risalivano a quando Jimmy aveva 12 anni. Avevo frainteso gli sms scambiati con la mia compagna Rain Dove, che invece dicevano che Jimmy li aveva inviati solo dopo che si erano rincontrati, e cioè a 17 anni (ancora legalmente minorenne in California, ma cosa notevolmente diversa da un bambino di 12 anni...". La McGowan si dice quindi "profondamente pentita di non aver corretto l'errore a suo tempo" e chieda scusa a Asia. Azione legale scampata? Forse sì, ma, sempre su Twitter, Asia non scende a compromessi, accetta le scuse, ringrazia ma replica duramente: "Poteva pensarci prima che io perdessi il mio posto di lavoro a "X Factor" e venissi additata come pedofila". E poi aggiunge: "Adesso vai avanti, vivi la tua vita e smetti di ferire altre persone, vuoi Rose? Auguri". I confini tra vero e falso, finzione e realtà si fanno sempre più sottili, e tra accuse e dietrofront non si capisce più davvero dove si nasconda la verità.

Asia Argento, Jimmy Bennett in tv: “Mi ha violentato. Ha usato lo schema Weinstein. Sul set la chiamavo mamma”. L’attore e cantante rock californiano ha risposto così a Massimo Giletti che gli ha chiesto quale fosse il suo rapporto con l'attrice e regista, nell’intervista in onda in prima serata su La7, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 24 settembre 2018. “Asia? La chiamavo mamma”. L’attore e cantante rock californiano Jimmy Bennett ha risposto così a Massimo Giletti che gli ha chiesto quale fosse il suo rapporto con Asia Argento, nell’intervista a Non è L’arena su La7. Il ragazzo ha raccontato di essere stato molestato dall’attrice e regista che però nega tutto. “Mi ha violentato – ha aggiunto – Ha applicato con me lo schema Weinstein. Anche Asia ha abusato del proprio potere. Mi ha incontrato in un hotel, il Ritz Carlton di Marina Bay, California: io avevo 17 anni e non mi sarei mai aspettato una cosa del genere”. Bennett ha anche detto di essere stato “minacciato da Asia un paio di giorni fa”, ma di avere la necessità di “fare chiarezza” sull’intera vicenda. “Ero con un accompagnatore che è salito fino alla stanza dell’albergo – ha proseguito Bennett, ripercorrendo quel giorno – Asia era entusiasta e mi guardava dritta negli occhi, poi ha dato uno sguardo al mio accompagnatore e gli ha chiesto: “Ma tu chi sei?”. Lo ha fatto sempre sentire un intruso durante l’incontro e quindi il mio accompagnatore ci ha lasciato soli. Tutto poi accade molto rapidamente. Asia mi ha offerto dello champagne e ha iniziato a fumare una sigaretta mentre mi raccontava del film che intendeva girare con me”. Poi le avances si sono fatte più dirette, secondo il racconto del giovane attore. “Mi ha preso il viso e mi ha guardato e mi ha detto: ‘Mi sei mancato tantissimo’ e ha iniziato a baciarmi – ha raccontato, scendendo nei particolari – La mia interpretazione era che mi stesse mostrando il suo affetto. Il bacio si è prolungato e ho avuto l’impressione che non fosse un bacio amichevole ma che stesse cercando di esplorare la situazione. Dopo Asia ha appoggiato le mani sul mio corpo in modalità diverse e poi mi ha spinto sul letto e mi ha slacciato la cintura e i pantaloni”. E a quel punto Asia Argento avrebbe abusato di lui. I due, come raccontato in precedenza, si erano conosciuti anni prima e il loro rapporto era simile a quello di una madre e di un figlio: “Sul set di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (film del 2004 diretto da Asia Argento, ndr) – racconta tra l’altro l’attore e musicista californiano – Asia era come una seconda mamma, questo è il sentimento che ci ha legato dal primo giorno. Il nostro rapporto è sempre stato molto ravvicinato. Il legame tra me e lei era speciale. Asia era molto concentrata sul film e voleva incarnare il rapporto madre e figlio in modo che fosse più realistico possibile, ma sembrava andasse oltre l’aspetto professionale”. “Dopo il film del 2004 – spiega ancora Bennett – il nostro rapporto è continuato via sms, via mail, ma non l’ho più vista. Non c’è mai stato un altro incontro faccia a faccia per dieci anni. L’ho tenuta aggiornata sulla mia attività e lei si sentiva anche con mia mamma”. Successivamente “è stata Asia, nel 2013, a propormi l’incontro via Twitter e poi con mail private abbiamo stabilito di incontrarci. Non ero sorpreso, sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati ed ero contento di vederla. Mi parlava di un film italiano al quale lei volesse che partecipassi. Ricordo però che mi sentivo un po’ strano. Asia continuava a inviarmi delle foto e dei bigliettini che scriveva nella sua stanza di hotel. Per me c’è sempre stata una barriera culturale, non sapevo se il suo atteggiamento fosse una maniera di mostrare affetto e quindi non sapevo cosa aspettarmi. Per me – dice ancora Bennett – era come incontrare una amica”. L’attrice e regista, che ha accusato di stupro il produttore Harvey Weinstein, ha più volte dichiarato di non aver avuto mai una relazione sessuale con il giovane. Dopo le accuse alla Argento – diventata anche protagonista del movimento mondiale #MeToo, anche Bennet è stato a sua volta travolto da uno scandalo: in un report lo si accusa di uso di sostanze stupefacenti e anche di molestie. 

Jimmy Bennett si sente ridicolo dopo la sua denuncia per molestie nei confronti di Asia Argento. "Scusa, ma non sembri sconvolto o traumatizzato in questa immagine", dice il presentatore che ha fatto la prima intervista con l'attore da quando la sua accusa è stata resa pubblica, scrive il 25 settembre 2018 "El Pais". Jimmy Bennett sembra pronto a raccontare i dettagli del suo stupro, ma questo non significa che tutti sono disposti a credergli. Nella sua prima intervista dopo la sua denuncia contro l'attrice Asia Argento è diventato pubblico nel mese di agosto, il 22 - anno - old ha riferito alcuni dettagli che erano nascoste in passato e ha fatto sì che tutta questa situazione è stata molto difficile per lui. "E 'il difficile per me a parlare di questo in davanti a sconosciuti e persone che non conosco, ma voglio darmi il beneficio del dubbio e dire la verità, " ha detto Domenica nel programma della televisione italiana non e l'Arena. In un'intervista di quasi un'ora, l'ex attore ha affermato che Argento lo ha incitato a consumare bevande alcoliche e sessualmente aggredito in una stanza d'albergo nel 2013, quando aveva 17 anni. L'attrice, che è un esplicito sostenitore del movimento #MeToo e una delle prime donne ad accusare lo stupro di Harvey Weinstein, ha negato tutte le accuse contro di lei. Arrivò persino a dire che fu Bennett a saltarle addosso e che era "congelata".  Bennett aveva interpretato il figlio di Argento in un film del 2004 quando aveva 7 anni e disse che i due avevano avuto solo contatti sporadici fino a quel momento. Il giovane dice che è andato al Ritz-Carlton Hotel (California) quel giorno perché l'attrice italiana gli ha raccontato di un film che voleva fare con lui. "Mi sono fidato enormemente in Asia", ha detto l'attore ventiduenne, ma "ha abusato del suo potere". Secondo la testimonianza di Bennett, non appena ha visto l'attrice, gli ha dato dello champagne e ha iniziato a baciarlo. "Per prima cosa ho pensato che fosse qualcosa di amichevole, una dimostrazione del suo affetto, ma poi i suoi baci si sono allungati e ho capito che stava cercando qualcos'altro", ha spiegato il cantante rock. "Più tardi è stato quando mi ha spinto verso il letto, mi ha slacciato la cintura e mi ha tolto i pantaloni", ha assicurato. Quando è stato chiesto il motivo del suo silenzio dopo la presunta aggressione, Bennett ha detto che ha attraversato un periodo di grande confusione e temevo che nessuno avrebbe creduto sua versione dei fatti. Paradossalmente, è stato il movimento #MeToo a darle il coraggio di denunciarla. Ma l'ospite del programma, il giornalista Massimo Giletti, era scettico nei confronti della dichiarazione del giovane. "È difficile credere che una donna possa stuprare un uomo, un atto sessuale che è completato non può essere uno stupro", ha detto l'autista. Giletti arrivò addirittura a dire che era difficile credere che un "bambino sano di 17 anni" non avrebbe acconsentito all'incontro. L'età del consenso in Italia è di 14 anni e 18 in California. Nonostante l'ovvio disagio dell'ospite, l'ospite ha mostrato all'attore la fotografia in cui è visto accanto a Argento in un letto, presumibilmente dopo l'atto sessuale. "Mi ha chiesto di fare una foto", ha sottolineato. "Sì, era sul mio telefono, sì, è stato dopo aver fatto sesso."  "Mi dispiace, ma non sembri turbato, non sembri essere traumatizzato in questa immagine", replicò l'ospite. "Qui non sembri qualcuno che ha paura", ha esclamato l'autista, e subito dopo il pubblico è scoppiato in un applauso. Bennett fu chiaramente influenzato dal trattamento durante l'intervista e disse che era il motivo per cui non aveva parlato fino ad ora. "Avevo paura di stare di fronte ad un pubblico ed essere accusato di mentire sulla violenza che ho vissuto", ha detto il giovane. "Dopo questo [intervista], mi rendo conto che aveva ragione", ha condannato. Da parte sua, il suo avvocato Gordon Sattro, che è rimasto al suo fianco per tutto il programma, ha messo in dubbio se l'accordo fosse stato diverso nel caso in cui il suo cliente fosse una donna. "Come puoi interpretare ciò che stava accadendo nella tua mente o cosa provava il tuo cuore, solo per il tuo genere?", Disse l'avvocato. Secondo la versione dell'attrice, 42 anni, Bennett l'ha contattata alcuni mesi fa per chiedere un risarcimento economico in cambio del suo silenzio, qualcosa a cui lei ha acconsentito. Insieme al suo socio, Anthony Bourdain, hanno raggiunto un accordo per pagare al giovane oltre 310.000 euro per non continuare con la sua denuncia, ma secondo Argento, non l'avrebbero fatto come un segno di colpevolezza, ma per "aiutare" Bennett economicamente. 

"Jimmy Bennett pagato da Weinstein". E in un tweet Asia sembra annunciare il ritorno da giudice a «X Factor», scrive Jacopo Granzotto, Martedì 25/09/2018, su "Il Giornale". Sarà stato il look o lo sguardo poco convinto. Sarà stato lo scetticismo del conduttore. Sta di fatto che l'intervista da Massimo Giletti non sembra aver giocato a favore del 22enne Jimmi Bennet. La conferma in tv della sua versione, lo stupro all'età di 17 anni, sta scatenando un generale dibattito. Che vede Asia recuperare punti sul presunto molestatore. Sui social le reazioni sotto l'hashtag #jimmybennett sono per lo più a sostegno di Asia. L'ex musicista viene accusato di essere un «losco figuro» venuto in Italia ospite a La7 per cercare di recuperare qualche euro dopo il mancato accordo con Anthony Bourdain, il compagno della Argento morto suicida a giugno. Che è poi quello che pensano i genitori di Asia, i quali non vogliono neanche sentir parlare di stupro. La mamma Daria Nicolodi, che prima dell'intervista a Giletti aveva sempre evitato di commentare la questione, annota amareggiata su Twitter: «Quanti soldi ha beccato l'americano? A questo punto spero che lo stato italiano trattenga almeno un quarto del compenso di questo signorino e lo devolva ai bambini in carcere». Il padre Dario Argento, intervenuto su Radio1 a Un giorno da Pecora, vede un complotto. «Weinstein - sostiene il regista - ha pagato profumatamente Bennett per raccontare quella storia in modo da vendicarsi del polverone del movimento #MeToo, che ha visto mia figlia Asia in prima linea proprio contro Weinstein e, in generale, i molestatori nel mondo dello spettacolo». Non ha visto l'intervista a Non è l'Arena: «L'ho fatto per scelta - confessa Argento -. Ma me l'hanno raccontata gli amici. E ci sono una marea di menzogne, di volgarità, di sciocchezze. Per prima cosa non ho mai saputo di una ragazza che abbia violentato un ragazzo, è una cosa che non sta in piedi, c'è anche questo da dire». Dopo qualche ora, però, ritratta: «Non lo penso realmente, non ho alcuna informazione in merito al fatto che Weinstein abbia realmente pagato Bennett - fa dietrofront -. Non avevo alcuna intenzione di lanciare accuse contro di lui, ho risposto con leggerezza». Intanto cresce la petizione su Change.org per chiedere a Sky di reintegrare Asia Argento come giudice di X-Factor. La trasmissione sta andando in onda con le puntate registrate quest'estate prima dell'esplosione del caso. Sky e Freemantle preferiscono temporeggiare per annunciare il nome del nuovo giudice, dato in arrivo già la settimana scorsa. Ma a ridare speranza ai fan di Asia è un tweet misterioso della Argento. In risposta a un utente che dice di aver sognato la dark Asia ancora dietro il bancone, risponde: «Che strano, ho fatto anche io lo stesso sogno. I sogni son desideri». Sul fronte dei media britannici invece le critiche vanno alla trasmissione di Giletti: sia il Daily Mail che il Daily Beast titolano sul fatto che un impresentabile Bennett sia stato «ridicolizzato» per aver detto di essere stato violentato da Asia Argento.

Dario Argento: “Weinstein ha pagato Bennett, è vendetta contro Asia”. Poi ritratta. Lei parla a DailyMailTV: «Dopo il suicidio di Bourdain un vuoto incolmabile», scrive il 24/09/2018 "La Stampa". «Io non ho mai saputo di una ragazza che abbia violentato un ragazzo. Penso che Weinstein si sta vendicando e quindi scatena tutte le sue possibilità che aveva questa notizia di questo ragazzo e, pagandolo, l’ha lanciato contro Asia». Dario Argento parla a Un giorno da pecora su Rai Radio1 dell’intervista a Jimmy Bennett, l’attore che ha accusato sua figlia di averlo molestato quando era minorenne, da Giletti. «Non l’ho vista per scelta - aggiunge - ma ne ho letto sui giornali e me l’hanno raccontata gli amici e penso che ci sia una marea di menzogne e anche di volgarità, di sciocchezze». Alla domanda se, a suo avviso, Weinstein avesse ha pagato Bennett per raccontare quella storia la risposta di Dario Argento è perentoria: «Sì». Dopo le dichiarazion il regista di Suspiria e Profondo Rosso ritratta con una dichiarazione all’ANSA: «Sono state frasi rese al telefono in diretta nel corso della trasmissione umoristica. Rispondendo a una domanda, è stata la prima cosa che mi è venuta in mente», dice, rinunciando a parlare di una «vendetta» dell’ex boss di Miramax contro la figlia Asia. Intanto oggi DailyMailTV ha diffuso la prima parte dell’intervista ad Asia che ha rotto il silenzio sul suicidio del compagno Anthony Bourdain. Parlando della morte del super-chef e conduttore del programma della Cnn «Parts Unknown», ha detto che la scomparsa dell’uomo con cui ha diviso gli ultimi due anni di vita le ha lasciato dentro «un vuoto che nulla può riuscire a colmare». Asia Argento ha 43 anni, Bourdain ne aveva 62 al momento del suicidio lo scorso giugno in un hotel francese. L’attrice ha detto che la sua prima reazione alla morte del compagno è stata di «rabbia». Ora invece «la rabbia mi tiene viva perché altrimenti questa disperazione non ha fine», ha aggiunto. La Argento ha spiegato che la rabbia nasceva dal fatto che Anthony, togliendosi la vita, «aveva abbandonato me, i miei bambini». È la prima volta che Asia rivela quanto lo chef fosse stato vicino ai ragazzi. Bourdain per Asia aveva lasciato la figlia Ariane, 13 anni, avuta con la seconda moglie Ottavia Busia. «Così ero arrabbiata, si, perché ha abbandonato me, i miei figli, ma adesso questa rabbia è stata sostituita dalla perdita, da questo vuoto incolmabile», ha detto l’attrice. L’intervista è la prima di Asia non solo dopo la morte di Bourdain, ma anche dopo le accuse che l’ex attore bambino Jimmy Bennett le ha rivolto di aver fatto sesso con lui quando era minorenne. Le accuse hanno messo in crisi il peso della Argento nel movimento #MeToo di cui lei era stata leader dopo essere uscita allo scoperto accusando l’ex boss di Miramax Harvey Weinstein di stupro. DailyMailTv ha annunciato che l’attrice affronterà il caso Bennett e la sua relazione con l’altra testimonial del #MeToo, Rose McGowan, nella seconda parte dell’intervista in onda domani.

Asia Argento in tv: "La morte di Bourdain mi ha lasciato un vuoto incolmabile". L'attrice si confessa a Daily Mail tv e per la prima volta parla del suicidio del compagno. Nella parte che sarà trasmessa martedì si aprirà il capitolo sulle presunte molestie, scrive Silvia Fumarola il 24 settembre 2018 su "La Repubblica". Asia Argento ha rotto il silenzio sul suicidio del suo compagno, lo chef Anthony Bourdain, che si è tolto la vita a giugno in Francia. In un'intervista con DailyMailTV di cui è stata diffusa la prima parte - la seconda si vedrà martedì 25 settembre - Argento spiega che la morte del partner le ha lasciato "un vuoto che non può essere riempito da niente". Bourdain ha condotto una delle trasmissioni di viaggi e cucina più seguite, Parts Unknown, a cui aveva partecipato anche l'attrice: Cnn ha cancellato dagli archivi le puntate in cui appariva. Argento e Bourdain sono stati insieme per due anni, e Asia confessa: "La prima reazione alla notizia che si era tolto la vita, è stata rabbia. Ora la rabbia mi ha tenuto viva perché la disperazione non ha fine". Rivela di essersi sentita piena di rabbia per il senso di abbandono, perché Bourdain "aveva abbandonato me e i miei bambini". Per la prima volta l'attrice, madre di due figli, racconta quanto Bourdain fosse vicino ai suoi ragazzi (un maschio e una femmina). Bourdain ha una figlia di tredici anni Ariane, avuta dalla seconda moglie Ottavia Busia. Da mesi Asia Argento, paladina del #Metoo, è sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo dopo la denuncia di avere subito violenza da Harvey Weinstein. Poi il colpo di scena: il giovane attore Jimmy Bennett l'ha a sua volta denunciata di violenza sessuale, episodio che risalirebbe a cinque anni fa quando lui era minorenne. Domenica sera Bennett è stato ospite a Non è l'Arena su La7 dove è stato ridicolizzato per le sue accuse all'attrice, secondo i media stranieri. All'epoca dei fatti l'attrice aveva 37 anni, lui 17. Martedì sempre su Daily Mail Tv, Asia Argento darà la sua versione dei fatti. Intanto La7, che l'ha invitata, aspetta di sapere se vorrà essere ospite a Non è l'Arena. La parola fine deve ancora essere scritta.

Asia Argento parla per la prima volta di Anthony Bourdain: "Mi ha anche ingannato". L'attrice sostiene che molte persone l'hanno accusata di aver causato il suicidio dello chef americano a causa delle sue infedeltà, scrive il 25 settembre 2018 El Pais. L'attrice Asia Argento attraversa un complicato momento personale. È diventato uno dei leader del movimento METOO e dopo svelare se stessa come una vittima di Harvey Weinstein, ora la cifra è sul precipizio essendo stato accusato di abusi sessuali da Jimmy Bennett, un ex co-star in questi giorni ha fatto sì in un'intervista che "fidati completamente dell'Asia" in un caso che l'attrice cerca di confutare senza molto successo. A questo si unisce la morte dello scorso giugno dello chef Anthony Bourdain, che era stato suo partner negli ultimi due anni. Finora, Argento aveva appena parlato del suo rapporto con il cuoco; Aveva mandato solo una lettera da Rose McGowan, il suo (fino a quando ha saltato il caso di Jimmy Bennett ) caro amico, parlando delle devastazioni della depressione, la malattia che ha ucciso Bourdain. Ma ora Argento ha rilasciato un'intervista al quotidiano britannico The Daily Mail in cui si parla di suicidio cuoco, sull'abbandono si sentiva dopo il suo suicidio e infedeltà reciproci di entrambe. "La gente dice che ho ucciso Bourdain. Questo l'ho ucciso," dice con le lacrime agli occhi. "Capisco che il mondo ha bisogno di trovare una ragione. Anch'io vorrei trovare una ragione. Non. Si possono trovare un po 'di sollievo pensando che qualcosa è accaduto." Quelle parole vengono dopo le accuse che Argento ingannato il cuoco; pochi giorni prima della sua morte poteva vedere la mano attrice camminare di un amico. Tuttavia, lei dice che continuava a "una relazione adulta", e che sì, lei lo tradiva, ma era una cosa reciproca e intrinseca del loro rapporto: "Mi ha anche ingannato per noi non era un problema". Così, l'interprete afferma di capire che la gente la accusa di causare dolore a Bourdain: "Venne nel cuore di molte persone, venne nella loro vita, quindi capisco che vogliono vedermi come una persona negativa, come quella che li ha distrutti. ". Tuttavia, per lei queste accuse non sono altro che una confusione, un modo sbagliato di comprendere la loro relazione: "Anthony era un uomo molto intelligente, una delle persone più intelligenti che abbia mai incontrato." Saggia, profonda, ucciso da qualcosa del genere? Mi ha anche imbrogliato, non è stato un problema ", dice Argento. "Era un uomo che viaggiava 265 giorni all'anno, e quando ci vedevamo eravamo enormemente felici in compagnia l'uno dell'altro, ma non eravamo bambini, eravamo adulti, Anthony aveva 62 anni [sarebbe stato un paio di settimane dopo la sua morte] e I 42 Abbiamo avuto vite, eravamo sposati, avevamo figli. Non immagino Anthony come qualcuno che farebbe un gesto di tale portata per una cosa del genere." Asia Argento racconta anche nell'intervista sul suo partner che il giorno dopo la morte di Bourdain ha preso una decisione: "O vai al lavoro o non rialzarti mai più". Così, ha ripreso i suoi doveri di giuria dell'edizione italiana del telefilm Factor X."Durante le ore in cui ero sul palco ho ascoltato solo musica, per quegli artisti che stavano mettendo i loro sogni sulla scena, e io ero concentrato su quello, non nel mio cuore spezzato, ha funzionato, mi ha letteralmente salvato la vita e sarò sempre grato ". L'attrice, che nell'intervista è dispiaciuta e si rompe per piangere, dice che l'unica cosa che soffre per non aver visto "tutto il dolore" che Bourdain ha portato, e perché non l'ha condiviso. "Non l'ho visto, e mi sentirò in colpa per tutto il resto della mia vita."

Querelle Bennett- Argento e il furto del #MeToo. Molestie. Le polemiche dopo la partecipazione dell'attore allo show di Giletti. Il paragone della presunta violenza con Weinstein è un'operazione iperstrabica, scrive Mariangela Mianiti il 25.09.2018 su "Il Manifesto. Il punto non è se sia stata lei a slacciargli i pantaloni o lui a cominciare, il punto non è nemmeno se il rapporto ci sia stato. Il nocciolo dell’affaire Jimmy Bennett/Asia Argento che salta agli occhi dall’intervista che lui, affiancato dal suo avvocato Gordon Stratto, ha rilasciato domenica scorsa a Non è L’Arena, su La7, è il furto delle motivazioni che stanno alla base del movimento #MeToo. Bennet ha paragonato la Argento a Weinstein perché come lui avrebbe abusato di una posizione di potere. Anche se con quegli occhioni sgranati e l’aria sperduta sembra un pulcino bagnato, è difficile non pensare che dietro le sue accuse non ci sia un retroscena interessato. Le molestie e le violenze sessuali come ricatto sul lavoro sono state alla base della protesta femminile e globale scoppiata un anno fa. Le donne, e non solo le star, hanno preso parola per denunciare e dire basta a un comportamento maschile ricattatorio che usava, e in gran parte usa ancora, la propria posizione dominante per prendersi libertà e ottenere favori sessuali. Come ha scritto Lia Cigarini nell’ultimo numero di Sottosopra (disponibile presso la Libreria delle donne di Milano) Il valore simbolico e politico del #MeToo è rivoluzionario perché è una presa di coscienza collettiva che segna una nuova fase del femminismo, un punto da cui non si torna indietro. L’operaia, la commessa, l’impiegata, l’attrice, la giornalista, la ricercatrice che si vedranno fare delle avances pesanti da un capo ora sanno che possono parlare perché attorno c’è chi crede loro e le sostiene. Quando Bennett paragona la presunta violenza di Asia Argento agli atteggiamenti predatori e reiterati di Harvey Weinstein fa un’operazione iper strabica. Da una parte mette sullo stesso piano due eventi e comportamenti di peso ben diverso, dall’altra sminuisce la forza simbolica di un intero movimento. Non sono i maschi le vittime di questo andazzo, ma le donne. Dire «Anch’io sono vittima del potere come loro» equivale a infilarsi in qualcosa che non gli appartiene. Certo, il fatto di essere un ex bambino di successo che ha vissuto più tempo sui set che a casa può avergli creato insicurezze, il non lavorare né guadagnare più come un tempo può averlo segnato, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con il #Metoo. Casomai ha più attinenze con l’impietoso mondo di Hollywood e le regole del successo ed è con quelle che Bennett dovrebbe prendersela. L’altro aspetto che suscita molti dubbi è il denaro. Bennett dice di essersi reso conto che il rapporto con Asia Argento lo ha traumatizzato quando lei ha smascherato Weinstein. Invece di denunciarla, come hanno fatto le donne del #MeToo con i maschi, ha pensato di far scrivere al suo avvocato una lettera agli avvocati del compagno di lei, il celebre chef Anthony Bourdain, per chiedere un risarcimento di tre milioni e mezzo di dollari. Vuol dire che tutti quei soldi avrebbero placato il suo disagio? E che ferita è se accetta di stare zitta in cambio di un pagamento? Il #MeToo non ha mai chiesto una compensazione in denaro, ma un cambio di mentalità e atteggiamenti. Difficile, quindi, non dubitare che Bennett, o chi per lui, abbia voluto monetizzare su un incontro intimo. E veniamo al rapporto. Bennett scattò con il proprio cellulare alcune foto che, secondo quanto dice, lo ritraggono con la Argento subito dopo la presunta violenza. Si abbracciano con tenerezza e lui sorride con un’aria sognante. Ora, senza voler sfrucugliare, come ha fatto Giletti, sui dettagli del rapporto, se completo, o se è tecnicamente possibile che una donna costringa un uomo a fare l’amore con lei, a guardare quelle foto si fa molta fatica a pensare che lei sia una mantide e lui una vittima. Un mio amico con lunghe esperienze amorose, guardandole, ha detto: «E questo sarebbe il violentato? Tutt’al più lei lo ha aiutato a diventare grande». Se questa storia finirà in un’aula di tribunale, non è lì che si troveranno risposte svelanti. L’avvocato di Bennett insiste sul fatto che per la California, dove tutto è avvenuto, lui all’epoca era minorenne (17 anni e qualche mese). Se fosse successo a New York, dove la maggiore età è a 16 anni, l’argomento sarebbe già chiuso. Il #MeToo, quello vero, invece va avanti.

Bennet fa il suo show ma Asia ha già vinto…L’avvocato Gordon Stratto ha distrutto ogni credibilità del ragazzo, almeno per il pubblico italiano, con la frase: «L’importante è che si trovi un accordo e che Argento paghi il mio cliente», scrive Giulia Merlo il 25 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Fare processi sui media è un’arma a doppio taglio e Jimmy Bennett ho ha scoperto nel modo peggiore. Riassunto: Jimmy Bennett è un ex attore bambino di 22 anni e, lo scorso agosto, ha accusato la paladina del # metoo e sua ex mentore cinematografica Asia Argento di averlo violentato in una stanza d’albergo a Los Angeles, quando lui era minorenne. La storia, resa pubblica dallo stesso New York Times che aveva dato voce alle prime donne abusate dal produttore Harvey Weistiein, ha fatto cadere Argento dal suo piedistallo di accusatrice, trasformandola in accusata. Successivamente, è stato reso pubblico che il compagno di Asia, lo chef Anthony Burdain (morto suicida in giugno) stava pagando il silenzio di Bennett. All’inizio la posizione dell’attrice italiana è stata confusa (anche in seguito alla pubblicazione di sms compromettenti che sembravano avvalorare la tesi di Bennett), ora invece – complice il fatto che il suo nuovo legale, Mark Heller Argento smentisce categoricamente la ricostruzione di Bennett, ha sospeso ogni pagamento e reso pubblico il fatto che il ragazzo sia sul lastrico e abbia fatto causa ai genitori che hanno sperperato i suoi soldi. Domenica sera, in diretta sulla tv italiana e in esclusiva mondiale, Bennett ha deciso di raccontare «la sua verità», come ha spiegato Massimo Giletti, che lo ha intervistato per il suo programma Non è l’arena, su La7. Peccato che ad andare in scena sia stata una catastrofe comunicativa. E a distruggere la credibilità del racconto di Bennett è stato il suo avvocato, presente in studio e seduto accanto a lui, quando ha detto che «l’importante è che si trovi un accordo e che Asia paghi al mio cliente 3 milioni e 200 mila euro». In sintesi, l’intervista è stata la dimostrazione di cosa non fare in un caso che ha già raggiunto le proporzioni mediatiche di uno scandalo di media grandezza su scala globale. Jimmy Bennett si è presentato a raccontare la sua storia in una trasmissione di cui non parla la lingua: il risultato è stato una traduzione simultanea smangiucchiata, poco chiara e per nulla empatica. L’avvocato seduto a suo fianco, al quale Jimmy guardava spaesato ogni volta che non capiva le domande allusive di Giletti, ha fatto il resto. La diretta, poi, ha dato il colpo di grazia: ogni esitazione, ogni incomprensione sulla domanda posta, ogni grattata di capelli bianco- rosati, è stata inclementemente data in pasto agli spettatori. La frase dell’avvocato sul risarcimento, poi, ha chiuso almeno per il pubblico italiano (che su Twitter ha commentato passo per passo l’intervista) – ogni ragionevole dubbio sull’attendibilità del racconto. Se l’avvocato Gordon Sattro avesse detto la stessa fase in una televisione americana, infatti, l’effetto sarebbe stato opposto. In America, il principio del risarcimento del danno attraverso un accordo economico tra le parti, anche in caso di alcuni tipi di reati, è parte integrante del sistema giuridico. Ristorare la vittima è, per il sistema di common law, una sorta di ammissione di colpa che soddisfa chi il torto l’ha subito e fa salvo dal processo chi l’ha commesso. Per questo, la frase di Sattro serviva a spiegare che Bennett, in caso di risarcimento, si sarebbe dichiarato soddisfatto davanti agli inquirenti che attualmente indagano sul caso. In Italia, invece, la stessa frase – per di più pronunciata da un avvocato e dopo il resoconto a dir poco farraginoso (più per colpa della traduzione simultanea che di Bennett) – è suonata come una sorta di minaccia d’estorsione ai danni di Argento. Non a caso, al termine dell’intervista, lo stesso Giletti si è lasciato sfuggire il commento su come «voler dire la propria verità è un conto, ma poi chiedere tre milioni di euro…». La vera domanda, l’unica che andava fatta a Bennett, è per quale ragione abbia scelto il suicidio mediatico in una televisione per lui straniera, di cui nè lui nè il suo avvocato hanno dimostrato di conoscere lingua, linguaggio e regole. Alla fine, anche il ragazzo si è reso conto dell’errore e si è lamentato ormai tardivamente del tono dell’intervista, del fatto che lo studio fosse tappezzato di gigantografie sorridenti di Asia Argento e del fatto che «io pensavo di venire qui a raccontare la mia storia, non voglio accusare nessuno. Invece sta succedendo altro». Quell’altro, sono state le domande incalzanti di Giletti che gli ha chiesto «tecnicamente» come è possibile che un uomo venga violentato da una donna, inarcando le sopracciglia quando Bennett ha spiegato che si sentiva in sudditanza psicologica nei confronti di Argento perchè, poco prima di fargli le avances, aveva vagheggiato della possibilità di scritturarlo per un film in Italia. Anche in questo caso, purtroppo, Bennett ha scelto il paese sbagliato dove sostenere che un uomo possa essere violentato: ieri, la stampa americana si è molto indignata dell’applauso fragoroso del pubblico alla chiosa di Giletti, che ha spiegato come personalmente ritenga molto improbabile che sia possibile per un uomo avere un rapporto sessuale completo non consenziente. La frittata mediatica, però, era già stata servita. Risultato: il ragazzo, almeno per il pubblico italiano, è passato da vittima a millantatore di rapporti sessuali, pronto a estorcere ad Argento più di tre milioni di dollari, calcolati sulla base del suo reddito non realizzato in seguito al trauma causato dalla violenza (il solito avvocato Sattro ha spiegato limpidamente che la richiesta di risarcimento era stata calcolata sui guadagni di Bennett prima dell’incontro intimo con Argento, che poi si sono interrotti). Purtroppo, poi, gli scivoloni mediatici non passano mai impuniti. Argento, consigliata da un vecchio volpone dei media come l’avvocato delle star, Mark Heller, racconta «la sua verità» – per dirla con Giletti – alla televisione web americana DailyMail in una doppia puntata in onda ieri e oggi. Una doppia puntata registrata (dunque depurata di pause e sporcature), senza avvocati presenti, resa in inglese a una emittente americana cui Asia concede anche la prima esclusiva sul suo rapporto con il defunto Burdain, che in America era un volto notissimo. E la sua linea è chiara: confermare che non c’è stato alcun rapporto sessuale con Bennett (che le ha fatto già il favore non richiesto di questo autosabotaggio) e generare empatia con il pubblico, perchè la fase 2 del # metoo prevede di spiegare come «anche chi ha degli scheletri nell’armadio rimane una vittima» (come ha scritto Heller nel primo comunicato ufficiale sulla vicenda). A prescindere da qualsiasi verità processuale, che stabilirà un giudice in California se mai la vicenda arriverà davanti a una corte. La verità mediatica invece è stata scritta, e non in favore di Bennett.

Asia Argento, Travaglio: “Bennett? Non c’è denuncia né indagine. E non c’è una questione morale”, scrive Gisella Ruccia il 24 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Caso Asia Argento–Jimmy Bennett? Non ci sono questioni penali, non c’è una indagine, perché è necessaria la denuncia di Bennett e questa non è mai stata fatta, non c’è un processo, non c’è tantomeno una condanna. Ma non c’è nemmeno una questione morale”. Così il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, intervistato da Danilo Lupoper Non è l’arena (La7), si pronuncia sulle accuse dell’attore americano Jimmy Bannett nei confronti di Asia Argento. E spiega: “Fare sesso con una persona di 17 anni e mezzo, cioè di poco minorenne, può essere illegale in alcuni Paesi, ma non è immorale. Salvo che naturalmente ci sia stata la violenza, ma non basta la parola di qualcuno per asseverarla. Ci vogliono delle prove che vanno poi accertate e verificate solo in un processo. E questo processo non c’è”. Travaglio elenca le tre eventualità ipotetiche si sarebbero verificate: “La prima ipotesi è che Asia ha fatto sesso con Bennett, che era consenziente. Penalmente sarebbe illecito, perché in California l’età del consenso è 18 anni e all’epoca Bennett ne aveva 17 e mezzo. Dal punto di vista morale, non c’è assolutamente niente di male nel fatto che una persona maggiorenne faccia sesso con una persona di 17 anni e mezzo. Seconda evenienza: Asia ha fatto sesso con Bennett, che non era consenziente. Ora” – continua – “a parte la difficoltà anche fisica della violenza sessuale da parte di una donna rispetto a un uomo, è molto difficile che una ragazza col fisico da colibrì come Asia, che pesa pochi chili, riesca a inchiodare e a costringere a un rapporto sessuale un ragazzo di 17 anni, che con due ceffoni o un cartone la può spiaccicare al muro e allontanarla da sé, evitando il contatto che così “orrendamente” voleva scongiurare”. E aggiunge: “Tuttavia, è sempre possibile che dica la verità Bennett e che quindi Asia abbia abusato di lui contro la sua volontà, nel qual caso sarebbe un atto non solo illegale, ma anche immorale. Terza evenienza: Asia è rimasta vittima di una estorsione fondata su una calunnia, cioè non ha fatto sesso con Bennett e per evitare lo sputtanamento ha accettato di pagare, perché non venisse proprio fuori un’accusa che lei respingeva ma che non era in grado di documentare come falsa”.

Asia Argento, lacrime in tv: "Mi hanno detto pedofila, uno stigma. Voglio tornare a X Factor, accuse false". L'attrice ospite a "Non è l'Arena" su La7. L'autodifesa contro Jimmy Bennett: "Mi è saltato addosso, sembrava impazzito, io ero congelata", scrive Carlo Moretti il 30 settembre 2018 su "La Repubblica". "Vorrei tornare a X Factor, riappropriarmi della mia vita, perché i miei figli sono fieri di me, perché l'Italia mi vuole e perché non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata". Finisce così, con Asia Argento in lacrime e Massimo Giletti che per consolarla si accuccia accanto a lei, la puntata di Non è l'Arena a una settimana dalla trasmissione in cui la regista e attrice è stata accusata da Jimmy Bennett. Giletti, che pure di fronte all'autodifesa di Asia durante la trasmissione aveva anche detto "rimango stranito, ma tutto è possibile", ha chiesto la sua riammissione come giurata: "Sono convinto che sia un errore assoluto togliere Asia da X Factor" ha detto mentre lei continuava a piangere, "chi deve decidere che ci pensi bene" ha detto facendo poi il nome dell'amministratore delegato, Andrea Zappia. Asia ha condotto la sua difesa a tutto campo, ha ribattuto a tutto confessando che l'accusa che l'ha più colpita è "il fatto di essere stata chiamata pedofila, uno stigma, non so nemmeno come riesco a stare in piedi, dovrei stare bocconi. I miei figli hanno sofferto tantissimo, per evitare il bullismo ho mandato mio figlio a vivere negli Stati Uniti con il padre". Vestito nero accollato, scarpe con il tacco, Asia siede di fronte a Giletti, in piedi di fronte a lei. "Per lei non è stato un anno semplice, ma dopo che abbiamo ascoltato quella di Jimmy Bennett è giusto che sentiamo anche la sua verità". E Asia: "Ascoltare Bennett mi ha fatto arrabbiare un po' ma soprattutto mi ha fatto pena vedere i suoi occhi vitrei, non c'era espressione sul suo volto, mi ha ricordato il bambino che ho conosciuto e non ha proseguito carriera... un'anima persa insomma". Prima però la sua verità su Weinstein: "Farrow sul NYT ha scritto falsità, non vivevo con Weinstein, non sono mai andata a cena né ho mai dormito o vissuto con lui come Farrow ha scritto in un capitolo, ecco come il giornalismo può rovinarti. E non ho mai lavorato più con lui dopo lo stupro. Mi è saltato addosso, non è nemmeno un adone, come si vede da questa foto. Ho sentito che mi ha rubato la mia innocenza, di ragazza, in quel senso lui ha vinto". E sulle foto sorridente con lui: "Ad ogni prima dei miei film, a Toronto a Cannes a Venezia, si presentava con il suo fotografo, lui sapeva a chi aveva fatto violenza, era scaltro, e chiamava il suo paparazzo per immortalare una foto sorridente con la vittima. Era una specie di stalker che si presentava di notte alla porta: un orco, io avevo anche paura. Mi ha offerto gioielli, una pelliccia, un appartamento, ho sempre detto di no". Poi la denuncia per #MeToo: "Lo sapevo che avrei fatto la kamikaze ma era necessario perché quello che facevano le colleghe non era la ribellione politica di cui c'era bisogno. Ho pensato che non avrei più lavorato, ma avevo sentito tante donne da ottobre a maggio che mi raccontavano abusi sessuali, ero sconvolta. In privato un'attrice mi ha chiamata, ma non dico il suo nome, volevano che firmassi una lettera ma era una lettera di babbo natale, non si cambia il sistema senza fare i nomi". Quindi la difesa su Bennett, che la denuncia dopo la morte di Anthony Bourdain. "Per me era come un figlio perduto, verrò a Los Angeles mi disse, mi chiese di studiare un copione come ai vecchi tempi ma lui arriva e non l'aveva neanche portata. Non sapevo che fosse minorenne, pensavo fosse diciottenne perché me lo aveva anche detto. Non è vero ci fosse un accompagnatore, è salito da solo e aveva anche sbagliato ascensore, lo vedo ed è entrato un uomo, ecco perché gli ho preso il viso sì quello è vero, perché aveva la barba, non lo riconoscevo. Aveva sguardo vitreo, come tanti ragazzi che dopo i 13 anni non lavorano più, problemi con i genitori, li ha anche denunciati, mi ha messo tristezza. Gli ho proposto un piccolo ruolo per fare un ruolo in un film indipendente è lì che si illuminò e ci abbracciammo: lui, con ormoni da ragazzo, è impazzito" (e qui Asia ride più volte, ndr), "è difficile raccontare, rido ma è anche una cosa traumatica. Questo mi ha congelata mi è saltato addosso mi ha messo di traverso sul letto, ha fatto quello che doveva fare senza preservativo, sarà durata due minuti... come un coniglio... io gli ho detto come ti è venuta questa cosa, eri il mio sogno, e si è fatto questo selfie... io non ho reagito perché era impensabile, tutto pensavo tranne che questa cosa". Tutto finisce e Asia non riesce a capire come sia potuto accadere, lo invita a pranzo, Giletti incalza: "Ma anche andarci a mangiare, come ha fatto?", le chiede; "lo invitai a pranzo per normalizzare la situazione, cercando di normalizzare questo momento abnormale in cui ero stata assaltata. La foto? Sono più traumatizzata io... mi sono sentita usata, farà vedere che è andato con la milf di turno". "E la foto al ristorante abbracciati? - chiede Giletti - anche tu mi sembri serena": "Era tornato il bambino a cui volevo bene...".

Ora la Argento piange in tv "Io ferma, lui mi ha violentato". L'attrice da Giletti per respingere le accuse di Bennett: "Fece tutto lui". Poi scoppia in lacrime: "Fatemi fare X Factor", scrive Chiara Sarra, Lunedì 01/10/2018, su "Il Giornale". "Non sono pedofila, fatemi fare X Factor". Asia Argento ora piange in tv e rigetta le accuse di Jimmy Bennett che ha denunciato di essere stato violentato da lei quando era minorenne e poi pagato dal chef Anthony Bourdain perché stesse zitto. Ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, la Argento scoppia in lacrime. "Non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata", dice mentre il conduttore cerca di consolarla, "Il fatto di essere stata chiamata pedofila, uno stigma, non so nemmeno come riesco a stare in piedi, dovrei stare bocconi. I miei figli hanno sofferto tantissimo, per evitare il bullismo ho mandato mio figlio a vivere negli Stati Uniti con il padre". Esattamente una settimana fa, nello stesso studio c'era proprio Bennet: "Io la chiamavo mamma...", ha raccontato il giovane a Giletti. "Per lei non è stato un anno semplice, ma dopo che abbiamo ascoltato quella di Jimmy Bennett è giusto che sentiamo anche la sua verità", ha detto il giornalista presentando la sua ospite. Vestito nero e scarpe col tacco, la Argento ha raccontato la sua versione: "Per me era come un figlio perduto", racconta, "Verrò a Los Angeles mi disse, mi chiese di studiare un copione come ai vecchi tempi... Ma lui arriva e non l’aveva neanche portato. Non sapevo che fosse minorenne, pensavo fosse diciottenne perché me lo aveva anche detto". Poi ha assicurato che il giovane si è presentato da lei da solo: "Lo vedo... L'ultima volta era così ed è entrato un uomo, ecco perché gli ho preso il viso, perché aveva la barba, non lo riconoscevo", dice, "Aveva sguardo vitreo, come tanti ragazzi che dopo i 13 anni non lavorano più, problemi con i genitori, li ha anche denunciati, mi ha messo tristezza. Gli ho proposto un piccolo ruolo per fare un ruolo in un film indipendente è lì che si illuminò e ci abbracciammo: lui, con ormoni da ragazzo, è impazzito. È difficile raccontare, rido ma è anche una cosa traumatica". Quindi il presunto stupro. Che nelle parole di Asia è praticamente ribaltato: "Questo mi ha congelata", dice, "Mi è saltato addosso mi ha messo di traverso sul letto, ha fatto quello che doveva fare senza preservativo. Io ero ferma e immobile, lui mi è saltato letteralmente addosso. Sarà durata due minuti al massimo... come un coniglio. Io gli ho detto: Come ti è venuta questa cosa. E lui: Eri il mio desiderio sessuale da quando avevo 12 anni". Il giovane si è poi scattato un selfie: "Quel selfie mi ha riportato alla realtà. Mi sono sentita usata, farà vedere che è andato con la milf di turno. Io non ho reagito perché era impensabile, tutto pensavo tranne che questa cosa". Poi l'invito a pranzo "per normalizzare la situazione, cercando di normalizzare questo momento abnormale in cui ero stata assaltata. Sono più traumatizzata io...". E la foto che li ritrae al ristorante abbracciati? "Era tornato il bambino a cui volevo bene...", replica lei. "Rimango stranito, ma tutto è possibile", sottolinea Giletti. Quindi le lacrime: "Vorrei tornare a X Factor, riappropriarmi della mia vita, perché i miei figli sono fieri di me, perché l’Italia mi vuole e perché non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata", dice. Così anche Giletti ha lanciato il suo appello a "chi deve decidere" perché "ci pensi bene": "Sono convinto che sia un errore assoluto togliere Asia da X Factor", ha sottolineato il conduttore. Nell'intervista non è mancato un riferimento alle accuse che la stessa Argento ha lanciato a Harvey Weinstein: "Farrow sul New York Times ha scritto falsità", ha detto, "Non vivevo con Weinstein, non sono mai andata a cena né ho mai dormito o vissuto con lui come Farrow ha scritto in un capitolo, ecco come il giornalismo può rovinarti. E non ho mai lavorato più con lui dopo lo stupro. Mi è saltato addosso, non è nemmeno un adone, come si vede da questa foto. Ho sentito che mi ha rubato la mia innocenza, di ragazza, in quel senso lui ha vinto. Ad ogni prima dei miei film, a Toronto a Cannes a Venezia, si presentava con il suo fotografo, lui sapeva a chi aveva fatto violenza, era scaltro, e chiamava il suo paparazzo per immortalare una foto sorridente con la vittima. Era una specie di stalker che si presentava di notte alla porta: un orco, io avevo anche paura. Mi ha offerto gioielli, una pelliccia, un appartamento, ho sempre detto di no".

Marco Travaglio, Asia Argento e il sesso con Jimmy Bennett: "Aveva quasi 18 anni, non...". Si fa ridere dietro, scrive il 25 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Il doppiopesismo di Marco Travaglio raggiunge livelli comici, probabilmente insuperabili. Il direttore del Fatto quotidiano è stato intervistato da Non è l'Arena per fornire a Massimo Giletti un punto di vista alternativo sul caso Asia Argento-Jimmy Bennett. Si parla di molestie sessuali su un 17enne ad opera di una donna di 37, in posizione emotiva, economica e professionale decisamente "dominante". A parti invertite, ricorda da vicino il Silvio Berlusconi, Ruby Rubacuori e il Bunga bunga, con una "sottile" differenza: in quel caso, la vittima era tale solo per la magistratura, visto che mai si è sognata di denunciare o accusare l'allora premier di alcun reato. Eppure..."Non ci sono questioni penali, non c'è una indagine, perché è necessaria la denuncia di Bennett e questa non è mai stata fatta, non c'è un processo, non c'è tanto meno una condanna. Ma non c'è nemmeno una questione morale". "Fare sesso con una persona di 17 anni e mezzo, cioè di poco minorenne, può essere illegale in alcuni Paesi, ma non è immorale - sottolinea a sorpresa al microfono di Danilo Lupoper -, salvo che naturalmente ci sia stata la violenza, ma non basta la parola di qualcuno per asseverarla. Ci vogliono delle prove che vanno poi accertate e verificate solo in un processo. E questo processo non c'è". E quando non c'era, nell'attesa, ci pensava il Fatto a condannare Berlusconi. Salvo poi scoprire che il tribunale vero lo avrebbe poi assolto, a sputtanamento ormai completato.

Asia Argento contro Salvo Sottile: "È meglio che tu stia zitto, cog...", scrive Federico Ursitti C. lunedì 1 ottobre 2018 su Blogo. Lo scontro su Twitter tra Asia Argento e Salvo Sottile si sposta tra i messaggi privati. Il conduttore però pubblica tutto: "Stai zitto, cog...". Lo scontro a distanza tra Asia Argento e Jimmy Bennett, combattuto sul terreno di gioco di Non È L'Arena, monopolizza il dibattito delle ultime settimane. E come ogni dibattito scatena opinioni, commenti e parteggiamenti per una o per l'altra parte. A prendere posizione, spesso, sono anche vip del piccolo schermo, come ha fatto ieri sera il conduttore di Rai 3 Salvo Sottile. Durante la puntata di ieri sera del talk show di La 7 il conduttore di Mi Manda Raitre ha affidato a Twitter alcuni suoi pensieri sparsi sul caso Argento-Bennett, approfittando dell'intervista dell'attrice da Massimo Giletti. Ecco le due esternazioni: Ma possibile che tutti ti saltano addosso e tu resti immobile? E poi dopo il sesso con uno ci torni a prendere il caffè (weinstein) e con l’altro, ragazzino infoiato, dopo che si è rivestito dici: dai prendi il copione...Semplice no?

E ancora: Logica vuole che se uno abusa di me contro la mia volontà dopo il sesso ‘forzato’ non ci faccio un selfie insieme con gli occhi languidi ne ci vado dopo a mangiare. Gli do semmai due calci nel sedere. I due interventi hanno attirato in pari misuri risposte di apprezzamento e risposte contrarie, a conferma del fatto che il tema è molto divisivo e molto commentato sui social. Il primo tweet inoltre ha avuto anche la risposta proprio di Asia Argento, che ha affidato ad un laconico "Pacchiu di tu soru" (un commento poco lusinghiero sulla sorella, mettiamola così!) la sua opinione in merito. I due tweet però non devono essere davvero andati giù alla giudice/ex-giudice di X Factor, che ha contattato privatamente su Whatsapp il conduttore facendogli presente di non aver apprezzato le esternazioni: "È meglio che ti stai zitto" - tradotto dal dialetto siciliano - più un'altra parola poco carina che non riportiamo che ma che potete leggere da voi. Salvo Sottile infatti ha pubblicato il messaggio ricevuto dalla Argento, approfittando per chiarire ulteriormente la sua posizione: Il conduttore ha quindi ribadito la propria libertà di espressione e rispedito al mittente le intimidazioni dell'attrice, giocando a carte scoperte. Inoltre - nonostante la distanza di pensiero riguardo al caso molestie - ha auspicato per l'attrice un ritorno dietro al tavolo dei giudici nel talent show di Sky Uno. La Argento risponderà ancora alla provocazione?

Argento minaccia Salvo Sottile: "E' meglio che stai muto". Lui pubblica i suoi messaggi, scrive l'1 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Salvo Sottile si permette di criticarla sul caso Jimmy Bennet e Asia Argento passa subito agli insulti e alle minacce. "Mi sono svegliata solo per dirti questo prima di bloccarti anche sul cellulare: E' megghiu ca ti stai mutu, cugghiuni", gli scrive in tono mafioso nel messaggio che il giornalista Mediaset mostra sul suo profilo Twitter. Ma Sottile la mette subito a posto: "Cara Asia Argento non ho accusato né insultato nessuno, ho sentito la tua intervista e ho scritto un mio pensiero che era a difesa delle donne molestate. Non mi spaventano le tue minacce, né quelle pubbliche né quelle private. Per il resto ti auguro di tornare a X Factor".

Così il #metoo riscrive il diario di Bridget Jones. Helen Fielding rivisita parti del celebre diario: "Oggi Mr Fissatette sarebbe licenziato", scrive Gaia Cesare, Lunedì 01/10/2018, su "Il Giornale". «Mi piace molto essere molestata sessualmente da Daniel Cleaver», confessava dalle pagine del suo diario parlando del capo, al cinema il bello e spietato Hugh Grant. Che nel frattempo, in ufficio, commentava via chat la gonna troppo corta di lei e ci provava con successo, a differenza dell'altro capo, il signor Fitzherbert, un imbranato di mezza età, da lei soprannominato «Signor Fissatette». Oggi? «Niente del genere sarebbe possibile». Nemmeno il ruolo di Richard Finch, il boss che la assume in tv e non perde occasione di farla riprendere dalle telecamere scomposta, seno e didietro in vista, per farla apparire bella e senza cervello. «Oggi entrambi perderebbero il lavoro, senza dubbio», dice la nuova Bridget. Sì, perché 23 anni dopo la sua creazione e 22 dopo la pubblicazione, la ex single più nota e sfigata del mondo, protagonista della rubrica settimanale di Helen Fielding sull'Independent, poi divenuta un best seller editoriale e un successo cinematografico in cui si sono identificate milioni di giovani donne sole, a caccia di marito, in lotta contro peso/sigarette/ birra, insomma l'indimenticabile Bridget Jones torna a scrivere sul suo Diario. Da ex single a mamma, da giovane a caccia dell'amore eterno nell'era post-femminista di metà anni Novanta a donna reduce dal grande sconvolgimento del #metoo, Bridget prova adesso a spiegare al figlio maschio come liberarsi dal sessismo e creare relazioni efficaci con le donne dopo il terremoto Weinstein. Lo fa per mano della sua creatrice, Helen Fielding, che ha regalato nuove parti del Diario di Bridget Jones a Feminists Don't Wear Pink (and Other Lies), raccolta di 52 contributi femminili (ed. Paperback) in uscita nel Regno Unito e con cui Scarlett Curtis, la curatrice, prova a capire cosa è successo al femminismo dopo il #metoo. Inutile dire - ma la Curtis lo fa eccome - che i passaggi più spassosi e rappresentativi (alcuni stralci riportati dal Sunday Times) sono proprio quelli che raccolgono le nuove parti del diario di Brigdet, ormai icona della donna-media. Imperdibile, per esempio, il passaggio in cui la bionda ricorda la frase preferita di Shazzer, l'amica capace di chiamare le cose con il proprio nome: «Chiunque sia veramente capace di andare a letto con Harvey Weinstein merita un Oscar». Cosa è cambiato per Bridget? «Riguardando i vecchi diari del 1996 - scrive sulle nuove pagine - credevo che femminista fosse un'altra cosa intimidatoria che dovevi diventare per forza, insieme con l'essere magra, fidanzata, madre e imprenditrice di te stessa mentre scivolavi agevolmente da una persona all'altra alle feste come Tina Brown». Ora invece - ammette Bridget - il femminismo «è un'altra cosa. Non è più appannaggio di intellettuali solenni e che si sentono superiori. Adesso è di ogni donna». Ecco il Bridget-pensiero rivoluzionario. È la consapevolezza che non sarebbe più possibile, come fece Bridget, «accettare la parte e il pacco di avere un lavoro in cui il capo fissa liberamente i tuoi seni, non conosce il tuo nome e ti chiede di mettere un vestito attillato per fare un discorso idiota». Ora Bridget lo sa. Come farà a insegnarlo al figlio? Intanto gli propone di vedere Thelma e Louise, il film «per imparare come trattare le donne e cosa succede se non lo fai alla pari». «Stai parlando di sessismo e parità di genere?» gli chiede Billy. «Sì - spiega mamma Bridget - è davvero la piaga del futuro e...». Lui la interrompe: «È cosa vecchi. Se hai la nostra età, mamma, il sessismo semplicemente non è una questione». Ed è la prova che i tempi sono cambiati. Parola, o speranza, di Bridget Jones.

Asia Argento news. Tutto quello che c’è da sapere sul caso Asia Argento-Jimmy Bennett. L'attrice italiana è stata coinvolta in uno scandalo sulle molestie sessuali dopo un articolo del New York Times. Ecco tutto quello che c'è da sapere sul caso, scrive il 19 Settembre 2018 TPI. Asia Argento è stata coinvolta in uno scandalo sulle molestie sessuali dopo la pubblicazione di un’inchiesta del New York Times, secondo la quale avrebbe versato dei soldi a Jimmy Bennett, il giovane attore che l’aveva accusata di violenza sessuale. L’attrice, paladina del movimento Me Too contro la violenza sulle donne, ha negato di aver mai avuto rapporti sessuali con Bennett, che l’ha accusata di violenze sessuali risalenti al 2013, quando lui aveva 17 anni. Secondo quanto rivelato dal New York Times, Asia Argento avrebbe concordato di risarcire con 380mila dollari l’attore e musicista. Il giovane, oggi 22enne, sostiene di aver avuto dopo quella presunta violenza un crollo emotivo talmente forte da aver condizionato la sua carriera. Asia Argento è stata tra le prime donne nel mondo del cinema a denunciare le molestie subite dal produttore Harvey Weinstein. Per questo, lo scandalo svelato dal New York Times che ha travolto l’attrice italiana ha suscitato molte critiche e reazioni inaspettate anche da donne come Rose McGowan, che in passato l’hanno affiancata nelle sue denunce.

Chi è Asia Argento e quanti anni ha. Figlia del maestro di film horror Dario Argento e dell’attrice Daria Nicolodi, Asia Argento è nata a Roma il 20 settembre 1975 e ha 42 anni. Sin da giovane decide di seguire le orme dei genitori. Inizia la sua carriera nella recitazione ma successivamente lavora anche come regista. Ha esordito nel 1984 in Sogni e bisogni di Sergio Citti, poi è stata scelta da Moretti per Palombella rossa. Tra i film più importanti in cui ha recitato ci sono Le amiche del cuore (Michele Placido, 1992), Perdiamoci di vista (Carlo Verdone, 1994), Compagna di viaggio (Peter Del Monte, 1996, David di Donatello per Cora, la ragazza che pedina Michel Piccoli), Viola bacia tutti (Giovanni Veronesi, 1997), New Rose Hotel (Abel Ferrara, 1998), cui seguono molti film americani e francesi. Dal 2001 al 2007 è stata sentimentalmente legata al cantante dei Blu Vertigo, Morgan, da cui ha avuto una figlia, Anna Lou, che recentemente è stata denunciata per aver imbrattato un autobus dell’Atac. “Mi ero illuso che potessimo creare una famiglia, un qualcosa di edificante. Per questo io ero infelice”, ha dichiarato in un’intervista a Rai 3 l’ex cantante dei Bluvertigo. “Per l’esasperazione sono arrivato a pesare 45 chili. Non mangiavo più, mi buttavo a terra e stavo tre giorni sul pavimento. Per cosa?”, conclude Morgan, ricordando la storia d’amore tormentata. Nel 2008 ha sposato Michele Civetta, regista di videoclip italo-americano, da cui ha avuto un altro figlio. I due hanno divorziato alcuni anni fa. Asia Argento è stata legata sentimentalmente allo chef Anthony Bourdin, fino alla sua morte per suicidio a giugno 2018.

Le accuse. Il primo versamento è avvenuto secondo il New York Times ad aprile 2018, dopo che Asia Argento si era esposta denunciando le molestie di Harvey Weinstein.

La violenza sessuale ai danni di Jimmy Bennett sarebbe avvenuta in una camera d’albergo in California, cinque anni fa, quando l’attrice italiana aveva 37 anni e il giovane ne aveva appena compiuti 17. Il quotidiano statunitense cita i documenti degli avvocati dell’attrice e del ragazzo, che in un film del 2004 intitolato “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” vestì i panni del figlio di Asia Argento. Tra le carte della documentazione ci sarebbe anche un selfie del 9 maggio 2013, in cui l’attrice e Jimmy Bennett vengono ritratti a letto. Ma non solo: come si legge sul New York Times, ci sarebbero anche i dettagli sui tempi del risarcimento. Asia Argento avrebbe pattuito di versare 380mila dollari in un anno e mezzo, a partire da un versamento di 200mila dollari fatto ad aprile. Intanto, una portavoce del dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles fa sapere che sul caso non sarà aperta nessuna indagine ma “verranno fatti degli approfondimenti”. Le intenzioni dei detective sarebbero di parlare con Bennett che però non risulta essere stato ancora sentito dalla polizia.

La versione di Asia Argento. Asia Argento nega il contenuto dell’articolo pubblicato dal New York Times, definendo le notizie “assolutamente false” (qui le sue dichiarazioni). In particolare, non nega di aver corrisposto dei soldi a Bennett. La parte della notizia contestata da Argento è quella sui presunti rapporti sessuali con il giovane attore americano.

Ma come mai allora Asia Argento ha pagato Bennett? Ecco la sua versione: “Quello che mi ha legata e Bennett per alcuni anni è stato solo un sentimento di amicizia terminata quando, dopo la mia esposizione nella nota vicenda Winstein, Bennett (che versava in gravi difficoltà economiche e che aveva precedentemente assunto iniziative giudiziarie anche nei confronti dei suoi stessi genitori rivolgendo loro richieste milionarie) inopinatamente mi rivolse una esorbitante richiesta economica”, prosegue la nota. “Bennett sapeva che il mio compagno, Anthony Bourdain, era percepito quale uomo di grande ricchezza e che aveva la propria reputazione da proteggere in quanto personaggio molto amato dal pubblico”. “Anthony insistette che la questione venisse gestita privatamente e ciò corrispondeva anche la desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di gestire la richiesta di aiuto di Bennett in maniera compassionevole e venirgli incontro. Anthony – prosegue l’attrice – si impegnò personalmente ad aiutare Bennett economicamente. A condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita”. Asia Argento conclude la nota con queste parole: “Dunque, questo è l’ennesimo sviluppo di una vicenda per me triste che mi perseguita da tempo e che a questo punto non posso che contrastare assumendo nel prossimo futuro tutte le iniziative a mia tutela elle sedi competenti”.

Le dichiarazioni di Jimmy Bennett al Nyt. La sera di giovedì 23 agosto Jimmy Bennett ha rotto il silenzio sul caso, inviando una nota al New York Times. “Nei giorni scorsi non ho fatto dichiarazioni perché ero addolorato e mi vergognavo che tutto questo fosse reso pubblico”, ha affermato l’attore e musicista. “All’epoca dei fatti ero minorenne – spiega ancora Bennett – e ho cercato giustizia nel modo che a me sembrava più appropriato perché non mi sentivo pronto ad affrontare le conseguenze che questa vicenda, se resa pubblica, avrebbe potuto comportare”. “Molte donne e uomini coraggiosi hanno parlato delle loro esperienze e ho provato stima per il coraggio che hanno avuto nel rivelare cose di quel tipo”, continua l’attore, riferendosi al movimento Me Too. “All’inizio non avevo mai rivelato la mia storia perché avevo deciso di gestirla in modo privato con la persona che mi aveva ferito”, si legge ancora nella nota. “Il trauma – scrive ancora Bennett – si è risvegliato in me quando quella persona si è dichiarata essa stessa vittima”, scrive riferendosi alle accuse delle violenze mosse da Asia Argento al produttore Weinstein. “Temevo che in quanto maschio le mie parole sarebbero state stigmatizzate. Non pensavo che qualcuno avrebbe compreso che cosa significa vivere quel tipo di esperienza da teenager”, continua l’attore e musicista. “Ho affrontato molte difficoltà nella mia vita e affronterò anche questa. Vorrei superare questa vicenda, e ho deciso di andare avanti. Ma senza rimanere più a lungo in silenzio”.

Jimmy Bennett a sua volta accusato di molestie dall’ex fidanzata. Jimmy Bennett era stato a sua volta accusato di molestie dalla sua ex fidanzata nel 2015. A riportare la notizia è il sito Daily Beast, entrato in possesso degli atti legali in cui si spiega che la ragazza era stata pedinata e minacciata dall’ex fidanzato. La donna aveva denunciato la sua situazione di pericolo alle autorità californiane. “Alle spalle ha alcune storie di droga, potenzialmente poteva essere un violento: per questo io e mia mamma non ci sentivamo al sicuro”, si legge nella denuncia presentata dalla giovane. Nello stesso documento si legge che Bennett era stato accusato di “stalking” e “pornografia minorile”. Il ragazzo inoltre è stato accusato di aver fatto sesso con la ragazza quando lei era ancora minorenne: “Avevo 17 anni e non lo avevo mai fatto, lui mi ha convinta. Si è fatto strada nella mia vita, mi ha manipolata fino a farsi mandare delle mie foto nuda: questo mi ha creato danni emotivi”. Il 17 luglio del 2015 i giudici della Corte Suprema di Santa Monica avevano emesso una misura restrittiva temporanea nei confronti di Bennett.

Gli sms tra Asia Argento e Anthony Bourdain su Jimmy Bennett. Il sito web di gossip Tmz ha pubblicato le conversazioni intercorse via sms tra Asia Argento e il compagno recentemente scomparso Anthony Bourdain sul caso di Jimmy Bennett. Sarebbe stato proprio Bourdain ad insistere per pagare Bennet, con soldi che avrebbe sborsato di tasca sua. “Ero gelata. Lui era sopra di me. Poi mi ha detto che ero stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni”, avrebbe scritto l’attrice al compagno riportato in esclusiva dal sito online americano. Negli sms Bourdain e Argento parlano di Bennett come di un “asino” e Anthony scrive che il pagamento “non è l’ammissione di niente, nessun tentativo di comprare il silenzio, semplicemente un’offerta per aiutare un’anima torturata che cerca disperatamente di spillarti denaro”.  I 380mila dollari — che Bourdain avrebbe pagato di tasca sua — per chiudere la vicenda non sono, avrebbe scritto lo chef, “un’ammissione, un modo per comprare una copertura, solo un’offerta per aiutare un’anima tormentata che cerca di spillarti soldi”. Oppure, conclude, puoi “mandarlo a farsi f… In ogni caso, sono con te”. “Non comprerò il suo silenzio per qualcosa che non è vero, anche perché sono al verde”, avrebbe scritto l’attrice al compagno (qui l’articolo completo).

Il selfie di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett. Il sito web di gossip Tmz ha pubblicato in esclusiva la foto di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett (qui la foto). Il selfie è tra i documenti ricevuti dal New York Times tramite un’email criptata, che è la fonte dell’inchiesta sullo scandalo. Nell’inchiesta del quotidiano infatti si legge: “I documenti, che sono stati inviati al New York Times tramite e-mail criptata da una fonte non identificata, includono un selfie datato 9 maggio 2013, dei due a letto.Come parte dell’accordo, il Sig. Bennett, che ora ha 22 anni, ha dato la fotografia e il copyright a Ms. Argento, ora 42. Tre persone che hanno familiarità con il caso hanno detto che i documenti erano autentici”.

Gli sms di Asia Argento a Rain Dove. Dopo aver pubblicato un selfie di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett, il sito di gossip statunitense Tmz ha diffuso anche alcuni sms in cui l’attrice ammetterebbe di aver fatto sesso con il giovane collega, all’epoca 17enne. Inizialmente non si era a conoscenza del nome dell’interlocutore a cui Asia Argento aveva inviato gli sms, ma il 27 agosto Rain Dove, la compagna di Rose McGowan, ha confessato di essere la protagonista dello scambio di sms. “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”, ha detto Dove, che sostiene di aver parlato degli sms alla polizia ma di non averli dati alla stampa. Nei messaggi Asia Argento scrive: “Ho fatto sesso con lui, mi sono sentita strana. Non sapevo fosse minorenne”. “Non è stato uno stupro, ma io ero gelata. Lui era sopra di me e mi ha detto che ero la sua fantasia da quando aveva 12 anni”, scrive Argento. L’attrice italiana ha inviato poi al suo contatto la foto di un bigliettino che Bennett le avrebbe lasciato dopo il rapporto sessuale, sui cui c’è scritto: “Ti amo con tutto il mio cuore”. Rain Dove ha 27 anni, è statunitense e fa la modella. È conosciuta soprattutto per essere la compagna di Rose McGowan, altra grande protagonista del movimento #MeToo, oltre che grande amica di Asia Argento. Dopo la rivelazione, l’attrice statunitense Rose McGowan ha rivolto un appello all’amica Asia Argento: “Fai la cosa giusta, sii onesta”. Qui il testo completo della lettera.

La denuncia per stalking della ex di Bennett. Rachel Fox, ex fidanzata dell’attore che accusa di molestie Asia Argento, avrebbe presentato una richiesta di ordine restrittivo scritta proprio nei confronti di Jimmy Bennett, che definisce “bugiardo, manipolatore e ladro”. Gli atti – pubblicati da Fanpage.it – risalgono a quando lei aveva 17 anni e lui 18. Rachel Fox ha presentato la richiesta alla Corte Suprema della California – Contea di Los Angeles. La ragazza, anche lei attrice, nel documento si dice “terrorizzata dal fatto che Jimmy Bennett o il suo patrigno Frank Pestorino possano farle del male”.

I commenti alla vicenda. Molte personalità pubbliche si sono espresse sul caso, eccone alcune:

Rose McGowan. L’attrice statunitense Rose McGowan ha scritto un tweet in cui dice di avere “il cuore spezzato” per lo scandalo che ha coinvolto l’attrice italiana Asia Argento, con la quale ha condiviso le denunce di molestie nei confronti del produttore americano Harvey Weinstein, contribuendo alla crescita del movimento #MeToo. Asia Argento e Rose McGowan erano scese insieme in piazza a Roma, al corteo contro le violenze dell’8 marzo scorso. Dopo la morte dello chef Anthony Bourdain, compagno di Asia Argento, McGowan aveva preso le difese della collega dalle accuse sul web. “Ho conosciuto Asia dieci mesi fa. A unirci è stato condividere la sofferenza di essere state aggredite da Weinstein”, ha scritto McGowan su Twitter. “Il mio cuore è a pezzi. Continuerò il mio lavoro accanto alle vittime”. L’attrice, nota per aver interpretato – tra gli altri – il ruolo di Paige Matthews nella serie televisiva Streghe – sembra quindi prendere le distanze dalla compagna di lotte del movimento contro le violenze. Anche se poi sottolinea in un altro tweet: “Nessuno sa la verità, sono sicura che ancora molte cose verranno fuori. Siate gentili”.

Dario Argento. In difesa di Asia Argento è intervenuto il padre, il noto regista Dario Argento. “Io credo si siano inventati tutto. Potrebbe essere un complotto”, dice Dario Argento, che ritiene sia “poco plausibile” la versione pubblicata dal New York Times. “Mia figlia avrà sempre il mio appoggio, comunque vadano le cose e qualunque sia la realtà. Sono convinto che sia tutta una montatura, tutto un imbroglio”, dice Dario Argento.

Ma perché qualcuno avrebbe dovuto complottare alle spalle di Asia? Secondo Dario Argento, la figlia “nel suo esporsi ha dato fastidio a molte persone, anche diversi politici importanti, e ora immagino un gruppo di loro che si è inventato tutto questo contro di lei”.

Sky Italia. Sky Italia ha preso posizione in merito alla vicenda sugli abusi sessuali in cui è stata coinvolta Asia Argento. “Se quanto scrive oggi il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque – in pieno accordo con FremantleMedia – non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento”, ha fatto sapere l’azienda. Asia Argento è una dei quattro giudici della nuova stagione X Factor, che partirà il prossimo 6 settembre su Sky Uno. Molte delle puntate, quelle delle audizioni e dei BootCamp, sono già state registrate quindi non è chiara la soluzione che si troverà per far fronte al problema. Tra i nomi dei possibili sostituti di Asia Argento tra i giudici di X Factor, c’è quello di Simona Ventura ma non solo: in lizza anche Nina Zilli, Baby K e Malika Ayane.

Matteo Salvini. Il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è intervenuto su Twitter sullo scandalo. “Questa è la ‘signora’ che mi insultava ogni due minuti, e mi ha dato del razzista e della m…a? Mamma mia che tristezza…”, ha scritto Salvini sul suo profilo ufficiale, accompagnando il tweet con un articolo nel quale si racconta la vicenda in cui è coinvolta Argento. Qualche settimana fa il ministro e l’attrice erano stati protagonisti di un polemico botta e risposta sui social. Argento era intervenuta contro Salvini nella polemica tra il leader della Lega e lo scrittore Roberto Saviano, a sua volta difeso dalla deputata Laura Boldrini. Dopo che Boldrini aveva espresso solidarietà a Saviano, Salvini aveva scritto su Twitter “Che coppia”, e Argento aveva commentato con l’hashtag “Salvinimerda”. “Dai Asia, secondo me non sei così cattiva, se ti va ti offro un caffè (meglio una camomilla), mi racconti i problemi che hai e vedo se posso aiutarti”, le aveva risposto il ministro. Poco dopo, era arrivata la controreplica dell’attrice: “Il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’interno del Governo si diletta a sbeffeggiarsi di me. Ha così tanto tempo da perdere? Non ha niente di più imperativo da fare, da sistemare, da risolvere, meeting da attendere? Che piacere prova a trollare le donne?”.

Harvey Weinstein. Tra chi si è espresso per criticare l’attrice c’è anche Benjamin Brafman, l’avvocato di Harvey Weinstein. In una dichiarazione a Fox News, l’ha accusato Asia Argento di “un incredibile livello di ipocrisia” e ha aggiunto che il caso “dovrebbe dimostrare a tutti quanto malamente le accuse contro Weinstein siano state effettivamente controllate”. Il produttore statunitense si è dichiarato non colpevole di stupro e molestie.

Movimento Me Too. Secondo Tarana Burke, una delle fondatrici di Me Too, solo attraverso il tipo di conversazioni difficili che suggerite da storie come quella di Asia Argento che il movimento può effettivamente avere successo. “Un cambiamento può avvenire”, ha scritto Burke su Twitter. “Questo movimento sta creando dello spazio affinché ciò avvenga. Questo potrà succedere solo se apriremo il vaso di Pandora e ci abitueremo alla scomoda realtà che non esiste un solo modo di perpetrare e non c’è una vittima modello”. “Siamo tutti esseri umani imperfetti e dobbiamo rendere conto per il nostro comportamento individuale”, aggiunge Burke. “Le persone useranno queste recenti notizie per cercare di screditare il movimento – non lasciamo che ciò accada. Questo è ciò di cui parla il Movimento”. “Persone ciniche useranno singoli esempi di cattivo comportamento delle donne per sostenere che le molestie sessuali e l’aggressione non fanno parte della misoginia strutturale, anche se tali abusi non hanno alcun genere”, ha twittato la scrittrice femminista Moira Donegan in risposta alle notizie su Asia Argento. “Ignorate queste persone; hanno scarso interesse per la giustizia”.

Mira Sorvino. Mira Sorvino, attrice statunitense che ha vinto un Oscar per il film di Woody Allen La dea dell’amore e, più di recente, ha recitato nella serie televisiva Falling Skies, è tra le dive che hanno denunciato le molestie subite dal produttore Harvey Weinstein. Ed è diventata una paladina del movimento Me Too. “Sono stata davvero male per le accuse contro Asia Argento”, ha scritto Mira Sorvino su Twitter. “Il tempo chiarirà le cose e forse lei verrà scagionata, ma se è vero, non c’è punto di vista che lo renda migliore. L’abuso sessuale sui minori è un crimine odioso ed è contro tutto ciò che io e il movimento MeToo rappresentiamo”, aggiunge. “Continuerò a combattere per tutte le vittime e cambiare la cultura che incoraggia l’abuso di potere nelle relazioni sessuali”.

Enrico Mentana. “Secondo quel che rivela, con tanto di carte citate, il New York Times, Asia Argento era ben conscia di avere pendente un’azione legale per molestie sessuali da lei compiute nei confronti di un giovane attore quando l’anno scorso lanciò le accuse a Weinstein per averla sottoposta allo stesso tipo di abuso”, scrive sul caso il direttore di La7 Enrico Mentana. “Il movimento Metoo ha dato una sacrosanta spallata a pratiche che insultano la dignità delle donne; ma Asia Argento con la sua memoria selettiva riguardo alle colpe e alle denunce ne esce davvero male, e diventa improponibile come portabandiera di ogni diritto delle donne”, aggiunge Mentana.

Vittorio Feltri. Il commento del giornalista Vittorio Feltri: “La molestata Asia Argento molestò un minore americano. E rimedia una figura pazzesca. Ma è pazzesco anche che un diciassettenne si spaventi davanti alla passera”.

Marco Travaglio. Travaglio ha scritto un lungo editoriale in cui difende Asia Argento: “Stento a capire l’equazione Harvey Weinstein-Asia Argento formulata in questi giorni dalle migliori gazzette”, dice il direttore. “Uno è un potentissimo produttore, considerato il padrone di Hollywood, influentissimo sulla giuria dell’Oscar e dei maggiori premi cinematografici mondiali: a chi fa l’attore conviene averlo amico e soprattutto non averlo nemico. L’altra è un’attrice che ha fatto anche la regista di piccoli film”. Le denunce dell’attore Jimmy Bennet secondo il direttore del Fatto non sono paragonabili a quelle che sono state mosse dalle attrici riunite nel movimento #MeToo.

Maurizio Costanzo. Il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che ha avuto un rapporto di amicizia con Dario Argento, regista e padre dell’attrice, ha voluto dedicare al caso Asia Argento-Jimmy Bennett le pagine settimanali che scrive sulla rivista Chi. “Non riesco a schierarmi. Per alcuni anni della mia vita ho frequentato Dario Argento e sua figlia Asia. L’attrice avrà avuto 10 anni. La ricordo molto sveglia e intelligente”, scrive Costanzo. “Sarò sincero, non riesco a dare un giudizio, a schierarmi”. “Asia pare avere malumori, ansie interiori che la portano a vivere in modo diverso, discutibile”, scrive Maurizio Costanzo. “Credo che solo un bravo psicoterapeuta possa riuscire ad aiutarla. Non certo il polverone mediatico”.

Il discorso di Asia Argento a Cannes. A maggio 2018 Asia Argento ha tenuto pubblicamente un discorso contro Weinstein proprio al Festival del cinema di Cannes, durante il quale ha detto: “Nel 1997 sono stata stuprata da Harvey Weinstein qui a Cannes. Avevo 21 anni. Questo festival era il suo territorio di caccia. Voglio fare una previsione: Harvey Weinstein non sarà mai più benvenuto qui. Vivrà in disgrazia, escluso dalla comunità che un tempo lo accoglieva e che ha nascosto i suoi crimini. E perfino stasera, seduti tra di voi, ci sono quelli che ancora devono essere ritenuti responsabili per i loro comportamenti contro le donne, che non sono accettabili in questo settore. Sapete chi siete. Ma soprattutto noi sappiamo chi siete. E non vi permetteremo più di farla franca”.

Chi è Jimmy Bennett. Da bambino Jimmy Bennett era considerato una baby star. Era talmente bravo da essersi conquistato l’ammirazione di star del calibro di Harrison Ford e Bruce Willis. A sette anni, il giovanissimo Jimmy Bennett viene scritturato per “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, film del 2004 diretto, scritto e interpretato da Asia Argento. Lì, in quel lontano 2004, ebbe inizio lo stretto rapporto con l’attrice e regista italiana. La carriera di Bennett, però, sembra essersi fermata al 2013. L’anno in cui l’attore sostiene di aver subito l’aggressione sessuale da parte di Asia Argento. Da allora, Bennett pare aver avuto un crollo emotivo talmente forte da averlo condizionato sul set. Oggi riveste ruoli marginali in puntate di serie tv.

Il compleanno di Asia Argento: alla scoperta dell’attrice più discussa, scrive Notizie musica. Alla scoperta di Asia Argento: dalla carriera di attrice al banco di X Factor passando per le polemiche e la vita privata. Asia Maria Vittoria Rossa, conosciuta semplicemente come Asia Argento, è nata il 20 settembre del 1975. La ragazza è una nota e apprezzata attrice che ha fatto spesso parlare di sé dividendo l’opinione pubblica. Andiamo alla scoperta di Asia Argento, la paladina delle donne e la vittima dei media.

La carriera di Asia Argento. La carriera da attrice di Asia Argento inizia quando lei era solo una bambina e difficilmente la sua strada avrebbe potuto prendere una via diversa visto che altro non è che la figlia di Dario Argento, uno dei massimi registi italiani, e di un’attrice, Daria Nicolodi. Oltre alla passione per il cinema, che la porta a recitare in film come Palombella Rossa, Asia si appassiona anche alla danza e alla regia. Diventa una delle attrici più ambite del cinema italiano e internazionale, lavora con Carlo Verdone e Michele Placido, tanto per citarne due, e vince due David di Donatello, prestigiosi riconoscimenti per gli attori. Se le qualità di attrice non sono in discussione, i comportamenti di Asia hanno spesso diviso l’opinione pubblica. La ragazza ha posato nuda in diverse occasioni ed è stata protagonista di alcuni coloriti battibecchi con personaggi pubblici. Famosissima la lite tra Asia Argento e Meloni, con l’attrice che aveva definito la politica una lardosa fascista prima di porgere le sue scuse per una frase fuori luogo e poco rispettosa. Asia Argento a X Factor Nel 2018 Asia è entrata nella squadra dei giudici di X Factor. La scelta dell’attrice ha lasciato perplessi molti fan del programma che hanno messo in dubbio le capacità di giudizio della ragazza che nel mondo della musica non ha lasciato il segno. Asia è stata poi sollevata dal suo incarico dopo le accuse di violenza sessuale a causa di Jimmy Bennett, ma la produzione del programma ha deciso di mandare comunque in onda le audizioni registrate con Asia che ha convinto il pubblico al punto che è nata una petizione spontanea per chiedere la reintroduzione di Asia anche per le puntate live.

La vita privata di Asia Argento: Morgan, i figli, gli amori e le polemiche. Asia Argento ha avuto una lunga storia con Morgan, cantante dei Bluvertigo e padre di Anna Lou, nata nel 2001. La storia è finita ufficialmente nel 2007, poi è andata avanti a lungo tra alti e bassi fino al 2017, quando l’attrice ha pubblicamente accusato l’ex compagno di non essersi interessato della figlia né dal punto di vista affettivo né da quello economico. Intanto nel 2008 Asia Argento è stata legata a Michele Civetta e dal rapporto tra i due è nato il secondo figlio di Asia Argento, Nicola Giovanni. Chiusa anche questa storia, l’attrice ha iniziato un rapporto con lo chef di fama mondiale Bourdain, tragicamente scomparso nel 2018, quando si è tolto la vita per cause ancora da chiarire. La relazione tra Asia Argento e Anthony Bourdain è stata a lungo criticata dai media per la differenza di età tra i due. L’attrice, regista e cantate è molto attiva sui social. Asia Argento su Instagram ha pubblicato anche foto sensuali e provocanti, secondo alcuni al limite della censura. Dopo le accuse di Bennett ha preferito prendersi una pausa allontanandosi dalla piazza telematica per qualche mese.

Caso Weinstein: Asia Argento paladina delle donne… prima delle accuse di Bennett. Nel 2018 Asia Argento diventa una delle paladine delle donne per il suo impegno nella lotta contro le molestie sulle attrici da parte di attori, registi, manager e produttori. La bufera porta alla caduta di Harvey Weinstein, accusato di molestie sessuali. L’attrice, inizialmente accusata e criticata dai giornali, diventa per molti un punto di riferimento anche se, a distanza di pochi mesi, finirà a sua volta nella bufera per le accuse da parte di Jimmy Bennet, secondo il quale la donna lo avrebbe forzato ad avere rapporti sessuali quando lui era ancora diciassettenne. Hanno fatto molto discutere le parole di Vittorio Feltri su Asia Argento per quanto riguarda il caso Bannett: “Trovo ridicolo che un giovanotto debba ricevere un risarcimento perché è stato a letto con una donna: solo un cretino si spaventa davanti alla passera – scrive Feltri dalle colonne di Libero. E continua così: “Anche io in età minorile (ai miei tempi si era maggiorenni a 21 anni) ebbi un rapporto con una signora di 29 anni. L’ indomani, dato che mi ero trovato bene, non mi recai in questura per accusarla, bensì mi precipitai dal fiorista onde inviarle un mazzo di rose”. Argento malattia: forse non tutti conoscono il suo vero dramma, scrive Andrea Paolo il 20 settembre 2018 su Urban Post. Di Asia Argento si sta parlando tantissimo nell’ultimo anno.  Da capofila delle donne in rivolta molestate da Harvey Weinstein a presunta molestatrice. Asia Argento avrebbe aggredito sessualmente un minorenne suo protetto, secondo le rivelazioni del New York Times. Lei nega. Ma Jimmy Bennett, l’accusatore, rompe il silenzio. Ma quest’ultimo sarebbe stato accusato da una sua ex di avere abusato di lei. Insomma, un vortice senza fine. Per Asia Argento, appena all’inizio del cammino, è quindi finita l’avventura dell’attrice come giurata a X Factor 12. Bourdain – morto suicida da pochi mesi – aiutò Asia, impegnata nella “battaglia” #MeToo, a gestire la vicenda, aveva scritto il Times. Nella nota diffusa da Asia Argento si legge: “Anthony insistette che la questione venisse gestita in privato e ciò corrispondeva anche al desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di venirgli incontro. Anthony si impegnò personalmente ad aiutare Bennett a condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita”. Ma come dicevamo, non è questo l’unico dramma della vita di Asia Argento. 

Asia Argento malattia: il dramma che (forse) non tutti conoscono. Una sindrome controversa, sia nella diagnosi che nelle cure, ma certamente terribile: Asia Argento soffre di una malattia chiamata fibromialgia, che affligge chi ne soffre con dolori cronici diffusi. E’ la stessa attrice ad averlo annunciato, ormai anni fa, pubblicando sul proprio profilo Instagram una foto che la ritrae, con gli occhi chiusi e le occhiaie scavate, mentre tiene in mano un manuale, proprio sulla fibromialgia. La malattia interessa particolarmente il mondo scientifico, che non si trova concorde nel definirne cause e terapie. L’attrice si è avvicinata a questo complesso argomento scientifico che la interessa (suo malgrado) da vicino, cercando di capire la sua malattia anche nei suoi aspetti scientifici, ma senza rinunciare alla chiarezza e alla semplicità. Per questo, il manuale che mostra di leggere è intitolato: “Fibromyalgia for dummies”, ossia fibromialgia per principianti.

Asia Argento malattia: la stessa di Lady Gaga. La malattia di cui soffre Asia Argento non è facilmente curabile, ed è certamente capace di impedire a chi ne soffre di continuare a vivere la propria vita come niente fosse. La foto di Asia Argento su Instagram ha commosso i followers di tutto il mondo, pronti a lasciare un messaggio di conforto e una testimonianza della loro esperienza. I sintomi? Lady Gaga dice che è come essere su un “ottovolante”: “Mi sento stordita. Sai quella sensazione quando sei sulle montagne russe e stai per scendere da un pendio davvero ripido? Quella paura e il vuoto nello stomaco? Il mio diaframma si blocca. Poi ho difficoltà a respirare, e tutto il mio corpo va in uno spasmo. E inizio a piangere “, ha spiegato l’artista.

Guida ragionata ai tatuaggi di Asia Argento. La regista e attrice ha fatto del suo corpo, come ha affermato lei stessa, una mappa che racconta la sua vita e le fa ricordare sempre dove si trovi, scrive di LinkPop il 20 Settembre 2018 su L’Inkiesta. Sulle dita conta la speranza (Hope) ma su un avambraccio porta la fermezza (Firmeza). Riconosce, sull’altro, di essere stata salvata (Saved) e col tempo – e un laser – ha trasformato un ricordo un po’ pazzo, quello di Panos (“Una persona che ho incontrato solo una volta nella mia vita, ma che ha avuto un impatto fortissimo”, dichiarò anni fa alla Bbc), in “Pausa” (paused), a indicare una sosta precisa, un momento di quiete necessario. I tatuaggi di Asia Argento sono tantissimi. Forse una trentina, forse di più. Segnano, come ha dichiarato lei stessa, “i passaggi della vita, come se il mio corpo fosse una mappa: ogni cicatrice resta sempre con me e dirà dove sono stata, come per gli animali”. Il primo, ricorda, lo ha fatto a 14 anni, ed era un occhio tatuato sulla scapola della spalla sinistra. Poi ha continuato, spaziando per forma, modi e colori. Il sito Stealherstyle ne conta 22 (conosciuti) e li mette tutti in fila.

Si parte dal più celebre, cioè l’angelo sul ventre. Un tatuaggio antico (del 1992), fatto da giovanissima e “restaurato” nel 2013 dal suo tatuatore di fiducia, Marco Manzo. Il suo significato non è mai stato svelato, ma è un angelo (anzi, un’angela) “che torna per la vendetta e per la protezione”. Non a caso è accompagnato dalla parola portoghese Proteçao.

Si continua con le nocche delle dita della mano sinistra, che portano i nomi dei suoi musicisti preferiti: “Bob” per Bob Marley; “Syd” per Syd Barrett e “Moz” per Morrissey, con in più “Joe”, riferito a Joe Coleman, un artista suo amico che in passato le ha fatto un ritratto. Tutti opera di Michele Agostini. (Sul lato si nota la scritta “Saved”): Mentre su quella destra reca scritto, una lettera per dito, la parola “Hope”, speranza. Sull’indice ha anche uno staurogramma (cioè la sovrapposizione di due lettere greche, “tau” e “rho” a forma di croce). Il motivo è anche qui religioso: insieme all’immagine la regista/attrice ha aggiunto questa citazione, un passaggio dalla Prima lettera ai Corinzi, 11-13: “Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”

Sull’avambraccio destro, invece, ha un cerchio: simbolo del matriarcato. Su quello sinistro il logo della cantautrice Cat Power, sua amica (fatto nel 2013).

E ancora: sull’interno del braccio destro la croce patriarcale (all’incontrario, così quando la guarda è rivolta verso di lei) e la parola “Firmeza”, ancora in portoghese, che richiama un inno religioso. (Questo: “Firmeza firmeza no amor / Firmeza firmeza aonde estou /Eu estou firme com meu Jesus / Eu estou firme nesta luz / Aonde estou”). Sul braccio sinistro, invece, una stella di David. Con la scritta, sempre in portoghese, “Verdade”, cioè verità.

E ora si passa a quelli più spettacolari.

Sul fianco destro una enorme e stupenda rappresentazione del fiore yagé (usato per la preparazione dell’ayahuasca) da cui parte una spirale di triangoli (opera del maestro Marco Manzo).

Su quello sinistro un altro fiore, la Psychotria viridis (anche questo usato per l’ayahuasca), da cui si diramano forme geometriche meno definite.

Sul petto, il disegno enorme e raffinato di una collana in stile vittoriano. L’opera ha richiesto almeno 15 ore per essere completata.

Che prosegue sulle due spalle, continuando con altre geometrie (il tutto è disegnato da Francesca Bonis e realizzato da Marco Manzo).

Sulla schiena, invece, domina una sorta di scudo, una “Warrior Mermaid” che copre tutta la superficie, con fiori di loto e geometrie di varia natura. Anche questo è opera del duo Boni/Manzo.

Mentre sulla coscia sinistra, dal 2016, c’è una peonia coloratissima, in stile giapponese. E non è un caso: anche l’autore, Akilla, è di Tokyo.

E sull’avambraccio sinistro c’è anche un corrispettivo: un altro fiore (stavolta un miz tra peonia e crisantemo). 

Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento denunciata per aver imbrattato un bus Atac. Guai giudiziari per la figlia 17enne di Asia Argento e Morgan. L’azienda dei trasporti della Capitale ha spedito un esposto alla magistratura, scrive il 29 agosto 2018 "Il Corriere della Sera". Aveva chiesto scusa pubblicamente Anna Lou, la figlia 17enne di Asia Argento e Morgan - per aver sfacciatamente pubblicato su Instagram le foto dei sedili di un bus appena imbrattati con un pennarello -, ma all’azienda dei trasporti della Capitale le scuse non bastano e ora dovrà rispondere legalmente per la «bravata».

Multa fino a 1.000 euro. Anna Lou Castoldi dovrà infatti rispondere dell’accusa di aver imbrattato un bus della città di Roma e di essersene poi vantata sul social. L’Atac, secondo Il Messaggero ha anche mandato l’esposto in procura e la 17enne potrebbe addirittura dover pagare una pena pecuniaria di circa 1.000 euro per il reato previsto dall’articolo 639 del codice penale. Il fatto è accaduto meno di un mese fa e le sue foto scatenarono un coro di offese e insulti sul web e per questo Anna Lou si affrettò a fare mea culpa chiedendo di essere perdonata: «Gli errori li commettiamo tutti – aveva scritto in un post su Ig Stories – Gli adolescenti, poi, sono una miniera di sbagli».

Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento e Morgan denunciata per aver imbrattato un bus: la reazione è scomposta…, scrive il 31 agosto 2018 Edoardo Montolli su Oggi. La diciassettenne rischia una multa di mille euro. Le immagini scatenarono polemiche sul web e lei aveva chiesto scusa a tutti. Ma all’azienda dei trasporti le scuse non sono bastate Nuovi guai per Asia Argento. L’attrice italiana ex paladina del #metoo, dopo essere finita nella bufera mediatica per il caso Jimmy Bennett, le ulteriori accuse del comico Jeff Leach e quelle gravissime dell’amica Rose McGowan, deve ora occuparsi anche della bravata della figlia diciassettenne Anna Lou Castoldi, avuta dal cantante Morgan.

LA BRAVATA - La ragazza è infatti stata denunciata dall’azienda di trasporti Atac per aver imbrattato i sedili di un bus, postandone successivamente le foto su Instagram per vantarsene. Il guaio nel guaio è che la reazione della ragazzina è decisamente scomposta: accusa il mondo e la società dio non offrire abbastanza possibilità agli adolescenti. Che quindi, sarebbero costretti… a imbrattare i bus.

LE SCUSE - L’episodio risale al mese scorso. Il post scatenò numerose polemiche e Anna Lou fu pesantemente attaccata sui social. Alla fine si scusò pubblicamente, con un nuovo post su Ig Stories: “Gli errori li commettiamo tutti. Gli adolescenti, poi, sono una miniera di sbagli”.

LA MULTA - Ma, a quanto risulta al Messaggero, le scuse all’Atac non sono bastate. Tanto da aver deciso di inoltrare un esposto alla magistratura. Ora Anna Lou rischia una multa di circa mille euro, in base all’articolo 639 del codice penale.

FIGLIA CONTESA - Anna Lou, che vive con Asia, è stata al centro di una lunga disputa legale per la custodia tra i genitori. Il contrasto tra i due si acuì con l’esplosione del caso di Harvey Weinstein e le accuse di Asia nei confronti del produttore. Morgan intervenne sostenendo che Asia aveva parlato tardi e che non era un “buon modello di madre”. Quest’ultima ricordò che aveva fatto pignorare la casa del cantante in quanto in ritardo sul pagamento degli alimenti, in un botta e risposta al veleno. 

La figlia di Asia Argento rompe il silenzio dopo aver imbrattato il bus: "Non ditemi che ho fatto una cosa strana". Dopo essersi vantata di aver imbrattato i bus dell'Atac, la figlia di Asia Argento e Morgan chiede scusa, ma "giustifica" i suoi errori, scrive Anna Rossi, Mercoledì 1/08/2018 su "Il Giornale". La figlia di Asia Argento e Morgan l'ha fatta grossa e ora prova a chiedere scusa. Per chi se lo fosse perso, la ragazzina ha imbrattato un pullman dell'Atac, ha pubblicato sui social il fattaccio e si è vantato sui social. Il motivo di tanto vanto? Forse essere andata contro le regole. E ora la 17enne prova a chiedere scusa. Prova, appunto. La figlia di Asia Argento e Morgan, dopo essere stata duramente criticata e segnalata alle autorità per aver imbrattato gli autobus a Roma, ha scritto sui social un lungo sfogo. "È vero, ho fatto una cosa di cui non mi vanto, un errore, lo capisco, ora lo vedo, ho sbagliato e chiedo scusa - scrive Anna Lou Castoldi -. Chiederò scusa in modo sincero col cuore e con la testa alle persone che ho offeso, non a chi non ha nulla a che fare con quello che è successo e che parla solo per offendermi, ma non c'entra nulla, non sa nulla di me, non è minimamente toccato da questo fatto, non sa nulla di mio padre e mia madre, di cosa possa significare essere figlia loro, se un privilegio o una condanna, non certo una colpa. Chi non sa cosa significa avere 17 anni oggi, in questo mondo privo di tenerezza, di esempi gentili, violento e disumano". E dopo queste premesse, la figlia di Asia Argento parla degli errori che commettono i giovani. Gli adolescenti come lei. "Gli errori li commettiamo tutti -. Non venitemi a dire però che quello che ho fatto è una cosa strana per la mia età. Non è altro che una 'ragazzata', ma ciò non mi giustifica e per questo chiedo personalmente scusa". E dopo un colpo alla botte e una al cerchio, la figlia dell'Argento e Morgan pubblica tra le storie di Instagram tutti quelli a cui chiede scusa: a chi deve pulire, a chi si è sporcato, a chi lavora sui mezzi pubblici, a tutti i contribuenti, alle persone che per colpa sua hanno subito un disservizio. Poi alla mamma e al papà: "Ai miei genitori per aver dato un'altra occasione per criticarli".

ANNA LOU CASTOLDI, rimosso il suo profilo Instagram? La figlia di Morgan e Asia Argento si scusa ma...Il rimosso di Anna Lou Castoldi, figlia di Morgan e Asia Argento, è stato rimosso: dopo le polemiche per avere imbrattato un pullman dell'Atac, la 17enne ha tentato le scuse ma..., scrive il 2 agosto 2018 Annalisa Dorigo su "Il Sussidiario. Gran brutta figura per Anna Lou Castoldi, la figlia di Morgan e Asia Argento, che dopo aver imbrattato un pullman dell'Atac a Roma, se ne è vantata nelle sue Instagram Stories. Le foto da lei pubblicate hanno scatenato un gran polverone mediatico, che forse ha stupito la stessa ragazzina. Per questo a distanza di poche ore, Anna Lou ha deciso di intervenire nuovamente nel suo profilo tentando di spiegare le ragioni del suo gesto, da lei considerato una ragazzata, e scusandosi per l'accaduto: "Gli errori li commettiamo tutti. Non venitemi a dire però che quello che ho fatto è una cosa strana per la mia età. Non è altro che una 'ragazzata', ma ciò non mi giustifica e per questo chiedo personalmente scusa". Parole dispiaciute anche nei confronti dei genitori, chiamati in causa dal popolo del web e accusati di non seguire la figlia come dovrebbero: "Chiedo scusa ai miei genitori per aver dato un'altra occasione per criticarli". Anna Lou ha cercato di rimediare al grave errore commesso ma le sue parole non hanno affatto convinto i suoi followers. A continuare ad essere oggetto di critiche è soprattutto parte del lungo sfogo da lei scritto: "Chiederò scusa in modo sincero col cuore e con la testa alle persone che ho offeso, non a chi non ha nulla a che fare con quello che è successo e che parla solo per offendermi, ma non c'entra nulla, non sa nulla di me, non è minimamente toccato da questo fatto, non sa nulla di mio padre e mia madre, di cosa possa significare essere figlia loro, se un privilegio o una condanna, non certo una colpa". A distanza di qualche ora da tale commento e in risposta al polverone mediatico che forse ha stupito l'intero clan Castoldi, è stata quindi presa una decisione radicale: il profilo Instagram di Anna Lou è stato rimosso in attesa che le tante polemiche vadano nel dimenticatoio. E anche Morgan e Asia Argento, solitamente molto attivi nei social, evitano di esprimersi...

Chi è Anna Lou Castoldi? La 17enne imbratta i bus di Roma, ma finisce nella bufera per essere la figlia di Asia Argento e Morgan, scrive l'1/08/18 Giulia Galletta su Sportfair.it. Anna Lou Castoldi al centro delle polemiche per aver imbrattato i bus dell’Atac di Roma ed essersene vantata sui social: se non fosse stata la figlia di Morgan ed Asia Argento la ragazza sarebbe finita lo stesso su tutti i giornali? Anna Lou Castoldi è uno dei trend topic del web della ultime ore. Il nome della ragazza forse non vi dirà un granché sulla sua identità, ma vi basterà sapere che la 17enne è figlia del cantante Morgan e dell’attrice Asia Argento, per capire come ogni cosa da lei fatta diventi di dominio pubblico. La ragazza sui social ha postato dei video che l’hanno portata al centro dell’attenzione mediatica. Anna Lou, che su Instagram vanta 33mila follower e mostra di sé un’immagine ribelle e dark, si è immortalata mentre imbratta i bus dell’Atac di Roma con bombolette spray e pennarelli. I video, poi prontamente rimossi dalla 17enne, mostrano il gesto condannabile della giovane donna, ma che a lei, a differenza di molti altri writer, è costato ‘la prima pagina’ di tanti giornali. “La mela non cade mai lontano dall’albero”, sostengono in molti che si sentono liberi di dare giudizi a caso su una giovane ragazza cresciuta tra dispute per il mantenimento e genitori separati. Per una volta potremo provare ad erigerci un po’ meno salvatori della Patria, soprattutto se l’imputato è una ragazzina di 17 anni?

Da popcorntv.it. Anna Lou Castoldi: ecco chi è la figlia di Asia Argento e di Morgan Bella, indipendente e dalla forte personalità: Anna Lou Castoldi ha un carattere che è un bel mix tra quello della mamma Asia e quello del papà Morgan 0 Frangia tagliata corta, lunghi capelli che spesso tinge dei colori più strani e una pelle che ricorda le bambole di porcellana: ecco chi è Anna Lou Castoldi, figlia di Asia Argento e dell'ex frontman dei Bluvertigo Marco Castoldi, in arte Morgan, che si è resa protagonista di una bravata che ha deciso di postare anche sul proprio profilo Instagram, ossia quello di imbrattare dei bus dell'Atac di Milano, che ha scatenato non poche polemiche sui social. PUBBLICITÀ Chi è Anna Lou Castoldi Classe 2001, Anna Lou Castoldi è originaria di Roma. Fin da piccola ha sempre respirato non solo il profumo del cinema, essendo nipote del regista Dario Argento, ma anche le vibrazioni della musica del padre, anche se Anna Lou ha sempre avuto un carattere ribelle e indipendente che rispecchia in pieno quello di entrambi i genitori. All'età di 14 anni, inoltre, per la primissima volta ha messo piede su un set cinematografico prendendo parte alla pellicola Incompresa, diretta dalla mamma Asia Argento e che è stato presentato anche al Festival di Cannes. Quello è stato l'unico film, fino ad oggi, a cui ha preso parte. Su Instagram, invece, Anna Lou è una vera e propria celebrità e lo testimoniano i numerosi followers che la seguono da tutto il mondo.  Anna Lou Castoldi: vita privata Della vita privata di Anna Lou non sappiamo moltissime cose, anche se siamo a conoscenza che ha frequentato il liceo linguistico di Roma e ha due fratelli: Nicola Giovanni Civetta, nato dalla relazione della mamma Asia con Nicola Civetta, e Lara Castoldi, figlia del papà Morgan insieme alla compagna Jessica Mazzoli.  5 curiosità su Anna Lou Castoldi 1) Anna Lou ha ammeso che la scrittura è la sua più grande passione 2) Ama viaggiare tantissimo 3) Non tutti lo sanno ma Anna Lou pratica la boxe 4) Asia Argento avrebbe vietato ad Anna Lou di potersi fare un tatuaggio fino ai 18 anni 5) Ha un piercing al naso.

Chi è Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento e Morgan, scrive vipegossip.com il 29 maggio 2018. Un po’ cosplay, un po’ gipsy, un po’ dark “ma sensibile”, ecco chi è Anna Lou Castoldi la figlia di Asia Argento e Morgan, ex frontman dei Blu Vertigo nonché nipote del regista horror Dario Argento.

Chi è Anna Lou Castoldi. Classe 2001, ha 17 anni ed è la figlia di Asia Argento e Morgan. Nata quando la coppia stava per lasciarsi, è cresciuta prendendo un po’ da entrambi i genitori: l’aria ribelle della mamma Asia e lo stile dark/punk del papà. Il gusto del gotico invece, lo ha ereditato dal nonno Dario Argento. Anna Lou ama la musica di qualsiasi genere, passione ereditata dal padre, ma soprattutto dalla madre. Ama la scrittura che definisce la sua vera passione, viaggia tantissimo, pratica boxe ed ha un profilo Instagram con oltre 26000 followers. All’età di 12 anni, nel 2014, è attrice protagonista in Incompresa, film della mamma Asia Argento che lo ha presentato al Festival di Cannes. L’esperienza davanti alla cinepresa non deve esserle piaciuta troppo. Da allora, infatti, Anna Lou si è allontanata dai riflettori, rifugiandosi su Instagram dove è diventata un’icona dark/punk per i millenials. Anna Lou frequenta il liceo Linguistico a Roma ed ha altri due fratelli: Nicola Giovanni Civetta, 5 anni, figlio di Asia Argento e Nicola Civetta e Lara Castoldi, 5 anni, figlia di Morgan (Marco Castoldi) e Jessica Mazzoli. Con i suoi fratellini minori, Anna Lou ha un rapporto speciale: “provo la stessa immensa quantità di amore per entrambi ed è bellissimo”.

Com’è il rapporto tra Anna Lou e i genitori? Il rapporto tra Anna Lou e la mamma è ottimo. Asia Argento addirittura le ha vietato di tatuarsi fino alla maggiore età. Le ha permesso però di farsi un piercing al setto nasale. Asia con Anna Lou è molto protettiva e premurosa. Col papà Morgan i rapporti sono più freddi, frutto forse delle ripetute diatribe con la ex moglie che rivendicava una maggiore presenza da parte del padre. Ora pare che i rapporti tra la ex coppia siano tornati molto buoni. “Io ed Asia siamo ottimi amici” ha dichiarato recentemente l’ex frontman dei Bluvertigo. Questo riavvicinamento ha fatto rafforzare anche il legame tra Anna Lou e Morgan. Anna Lou Castoldi è senza ombra di dubbio una ragazza che sta cercando di diventare un’artista poliedrica, le sue passioni per la batteria, l’ukulele, la moda, il grapich design, Marylin Manson, i Beatles, il make up, la scrittura e la fotografia, hanno contribuito a darle una personalità artistica tanto contraddittoria quanto lineare. Ecco chi è Anna Lou. È una ragazza curiosa e frizzante, dark ma solare, o, come direbbe lei #DarkMaSensibile.

Anna Lou, imbrattali tutti (e goditi la tua adolescenza). La canea social, complice il caldo e la noia, si scaglia contro la figlia di Morgan e Asia Argento: come se nessuno avesse mai avuto 17 anni. Come se i problemi degli autobus romani fossero quattro tratti di pennarello, scrive Grazia Sambruna l'1 Agosto 2018 su "L'Inkiesta". Dateci oggi la nostra indignazione quotidiana. Una di quelle indignazioni futili, per riempir la bocca di punti esclamativi sotto la cappa di calore e umidità estiva che si scontra con l’asfalto creando una trappola di noia e sudore. Del resto è agosto, la politica è in vacanza, salvo qualche tweet, e anche le manifestazioni contro il razzismo dilagante vengono rimandate a settembre, come le conference call coi clienti, pure quelli più demanding. In buona sostanza ad agosto non succede un cazzo ma, anno del Signore 2018, siamo incappati in una grande, storica svolta: abbiamo capito quale sia il problema di Roma, l’unico, il principale, quello per cui indignarsi una volta per tutte: Anna Lou Castoldi, figlia di Asia Argento e Marco Castoldi, in arte Morgan. La ragazza, 17 anni compiuti a giugno, si è resa protagonista di quello che è stato definito, a partire dal sito “Roma fa schifo”, un atto di deprecabile “vandalismo”. Geneticamente “ribelle per forza”, la creatura avrebbe osato imbrattare i sedili di un bus Atac con il proprio nome, pardon, il suo tag, ovvero la firma che si è scelta come nomignolo con gli amici. Di base, uno scarabocchio leggibile quanto un geroglifico in comic sans. Ma siamo figli d’arte, oltre al font c’è di più: una volta ultimato lo scempio, l’ha immortalato in una storia Instagram della durata di ore 24 e sono in molti a interrogarsi sulle conseguenze che questo abominio subculturale potrebbe scatenare nelle giovani e malleabili menti dei suoi 30mila follower. Sono usciti articoli che titolano, tronfi, “la mela non cade mai lontano dall’albero” (Dagospia), altri invece, pur usando il condizionale, lasciano intendere che questa Anna Lou l’avrebbe proprio fatta fuori dal vasino rendendosi protagonista di un atteggiamento inqualificabile, sbagliato, ma del resto “con due genitori del genere cosa ci si poteva aspettare” tuonano già i primi haters benpensanti a commento di qualunque foto social della ragazza, di sua madre e se il loro cane avesse ig, probabilmente tenterebbero l’impresa di moralizzare pure lui, tanto per essere sicuri che il messaggio di indignazione, sia esso di un luminare in psicologia o, molto più probabilmente, di Beppe l’imbianchino, arrivi forte e chiaro ai diretti interessati. O a chiunque legga quell’italiano zoppicante per piazzargli una heart reaction di sostegno. Ora, una volta posato il fiasco, vediamo di fare un quadro della situazione: lo sappiamo che fa caldo, che gli argomenti notiziabili ad agosto sono sempre meno, che non si può fare un giornale parlando solo di Temptation Island o di Bobo Vieri che diventa papà.

Però. Però qui, davvero, non è successo niente. Chi scrive non abita a Roma ma possiede un account Twitter in cui ogni giorno impera l’hashtag #atacmerda. Ne emerge nitidamente l’idea che se il pendolare medio della capitale avesse un indelebile tra le mani non scriverebbe certo il proprio nome sul sedile di un bus, ma piuttosto una sequela di bestemmie ad hoc per ogni veneratissimo santo del calendario. E se non lo fa non è per senso civico, ma perché sta stipato in una carrozza fatiscente dove lo spazio vitale è ridotto a un quarto di ciuffo di Marco Castoldi in arte Morgan e anche solo scrivere “Sto arrivando” su Whatsapp è un’operazione complessa che si può compiere solo sotto l’arcata ascellare di uno sconosciuto con gravi problematiche di igiene personale. Per questo viaggio in prima classe, l’eroico pendolare medio di cui sopra, ha aspettato, se va bene, minuti trentatrè sotto questo sole dove forse sarebbe stato bello, sarebbe stato meglio, pedalare. Lo stesso vale per le metro e qualunque altro mezzo di trasporto pubblico capitolino. Però, oggettivamente, in questa splendida cornice, non si può negare che un mezzo scarabocchio sul sedile sia fastidiosissimo, nonché il vero cuore del problema. Prima di scagliare l’uniposca contro una diciassettenne che sì, ha sbagliato, ma non risulta si stia facendo pere di eroina negli occhi, potremmo fare una rapida rassegna mentale dei nostri diciassette anni, di quelli di ognuno di noi. Non si è mai parlato molto di Anna Lou Castoldi. Anche perché, Dio la benedica, non ha ancora scelto di infestare la nostra tv sfruttando il cognome che porta. Certo, una parte di ognuno di noi, la più gossippara, è sempre stata curiosa di vedere come sarebbe venuta su la creatura di Asia Argento e Morgan. Ebbene, dal suo profilo Instagram (ora reso privato causa bufera mediatico-graffitara) salta fuori, oltre ad un’innegabile bellezza, il profilo di una ragazzina con gli occhi azzurri e le pose un po’ darkettone, sempre preferibili, almeno secondo chi scrive, a quelle con la bocca a deretano di galliforme da pollaio.

Il guaio è che un giorno magari ingrasserà e usciranno degli “articoli” a farglielo notare, il mese successivo posterà un selfie coi capelli rasati o in compagnia dell’unicorno che ha ricevuto in dono dai genitori, quello dopo ancora chissà. Prima di fare uscire la “notizia”, però, sarebbe opportuno mettere da parte il livello di maggiore o minore simpatia che possiamo provare nei confronti dei due che l’hanno messa al mondo (senza averci preso manco un caffè insieme, tra l’altro) e lasciarla vivere, crescere, compiere idiozie (perché sì, scrivere sui sedili, sui muri e così via è un’idiozia nonché un reato, va bene, che la si multi) senza un’eco mediatica che lei stessa non vuole (altrimenti sarebbe già in tv o il suo faccino svetterebbe sulla cover di un disco) e non merita (non avendo ancora fatto una cippa di mediaticamente “interessante”). Infine, prima di scagliare l’uniposca contro una diciassettenne che sì, ha sbagliato, ma non risulta si stia facendo pere di eroina negli occhi, potremmo fare una rapida rassegna mentale dei nostri diciassette anni, di quelli di ognuno di noi. Personalmente, non so voi, pur non essendo figlia d’arte, ero piuttosto certa di essere un vampiro, cantavo a squarciagola “Supereroi contro la municipale” dei Meganoidi anche se non avevo ancora la patente e il mio tag (sì, esistevano già allora, prima dei social) era “Maybe”. Arrestateci tutti. Ma venite in macchina che coi mezzi non arrivate più.

I comunisti, la morale e la prostituzione minorile, scrive Guido Prussia il 19 luglio 2014 su Il Giornale. I comunisti, la morale e la prostituzione minorile. Tutto si può riassumere in un episodio della mia vita. Aereo che va verso Cuba, all’interno una massa di sinistroidi arrapati per l’avvicinarsi dell’arrivo nell’isola dove il sogno comunista si è fatto realtà. Mi domando: Ma come sarà’ questo sogno comunista che si è fatto reale? La risposta arriva il giorno dopo sulla spiaggia. Gli stessi sinistroidi arrapati che erano con me sull’aereo avevano finalmente una faccia meno arrapata e più soddisfatta. Ed era vero, il sogno comunista diventato realtà aveva permesso a questi militanti di poter finalmente scopare delle meravigliose ragazzine cubane in cambio di pochi dollari. Fu una rivelazione. Non è vero che il comunismo non è servito a nulla. Milioni di uomini vivono ancora oggi, non nella nostalgia dei discorsi di Berlinguer, ma nella nostalgia dell’impero Comunista che anziché moltiplicare pane e pesci (miracolo troppo populista) ha trasformato milioni di calze di nylon in milioni di trombate.

"Sesso orale in fascia protetta": Mara Venier, prime grane a Domenica in, scrive il 17 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Mara Venier torna su Rai1 a Domenica In ed è subito polemica. La puntata della trasmissione è nel mirino del piddino Anzaldi per alcuni passaggi del talk su Asia Argento e le molestie sessuali. "Come cambiano i tempi, una volta alle due a Domenica In il buon Pippo giocava col pubblico osa si parla di sesso orale...", cinguetta un utente. "Alle 2.10 mentre mangio la braciola... Posso mai sentire ste cose a Domenica In? Bah! Passera, sesso orale e altre cose belle...", gli fa eco un altro. E c'è chi addirittura teme che Mara Venier, andando avanti di questo passo, non riesca ad approdare a domenica prossima: "Mara torna in Rai da 6 minuti e già è stato nominato "sesso orale" e la "passera". Arriverà alla seconda puntata".

"Sesso orale dalla Venier", si mette male per Mara: istruttoria in Rai, la brutta voce, scrive il 20 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Non si placano le polemiche sul sesso orale da Mara Venier (ovviamente solo parlato). Durante il talk show a Domenica In dedicato al caso di Asia Argento si è parlato di “passera” e “cunnilingus” alle due del pomeriggio. Michele Anzaldi, il deputato Pd aveva sollecitato l’attenzione dell’Ad Fabrizio Salini e dell’Agcom sulla trasmissione per i temi a sfondo sessuali in fascia protetta. Anzaldi aveva annunciato un’interrogazione in Vigilanza.  Il nuovo amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini - si legge sul Fatto - ha inviato questa mattina una lettera al deputato Anzaldi, nella missiva visionata dal quotidiano Avvenire, Salini scrive che l’episodio “nel rispetto dell’autonomia editoriale, è già stato portato all’attenzione delle strutture aziendali competenti”. Si apre dunque una istruttoria, dunque. Mara, dalla sua, ha gli ascolti. La spunterà?

Verifica Rai su Domenica in, pronunciati i termini “passera” e “cunnilingus” in fascia protetta. La Rai ha fatto partire un’indagine interna sulla nuova Domenica in di Mara Venier su sollecitazione del deputato Pd Michele Anzaldi che aveva chiesto verifiche all’Ad Fabrizio Salini dopo il talk in stile Arena andato in onda nella puntata del 16 settembre 2018. Mentre si dibatteva sul caso di Asia Argento sono state pronunciate più volte le parole “passera” e “cunnilingus”, scrive il 19 settembre 2018 Stefania Rocco su Fan Page. A meno di una settimana dal debutto, Mara Venier si ritrova ad affrontare la prima bagarre in merito alla nuova edizione di Domenica In che porta la sua firma. Nel corso del talk show iniziale in stile “Arena” che è andato in onda nella prima parte della puntata del 16 settembre 2018 si è discusso in studio del caso Asia Argento. Riflettori puntati su alcuni dei termini pronunciati in fascia protetta (erano le 14 circa), tra i quali “passera” e “cunnilingus”. A sollevare il caso è stato il deputato del Pd Michele Anzaldi che aveva biasimato l’accaduto e sollecitato un intervento dell’Ad Fabrizio Salini e dell’Agcom. Nella lettera il parlamentare aveva anticipato un’interrogazione in Vigilanza dopo avere riportato “le lamentele di diversi telespettatori, attraverso i social network, per la trattazione di tematiche riguardanti il sesso, anche con valutazioni esplicite, in piena fascia pomeridiana, quando spesso le famiglie sono riunite di fronte alla tv a tavola o dopo pranzo”.

Il commento piccato di Asia Argento. Nemmeno la Argento aveva manifestato apprezzamento rispetto al talk allestito in fascia protetta sul caso delle presunte molestie a Jimmy Bennett. A poche ore dalla messa in onda e in riferimento all’episodio in questione, l’ex giudice di X Factor aveva twittato: “Sinceramente sono abituata a NON GUARDARE questi processi consumati in squallidi salotti televisivi e giocati sulla mia pelle”.

La replica di Mara Venier ad Anzaldi. Al Corriere della Sera, la Venier ha replicato all’interrogazione richiesta da Anzaldi: “Non conosco Anzaldi, ma sono felice di incontrarlo quando vorrà e sono pronta a farmi dare delle indicazioni. Si scandalizza se uno dice passera? Si è parlato anche di cunnilingus? Non l’ha capito nessuno a cosa si riferisse, è una parola che non conosce nessuno, si vede invece che Anzaldi la conosce molto bene”. Intanto, l’Ad Salini ha risposto ad Anzaldi mediante una lettera in cui fa sapere che quanto accaduto “nel rispetto dell’autonomia editoriale, è già stato portato all’attenzione delle strutture aziendali competenti”. Ha concluso specificando che “la programmazione della Rai deve sempre necessariamente distinguersi sotto il profilo della qualità”, anticipando quindi l’apertura di un’istruttoria che valuti il caso.

Marco Giallini contro #Metoo: Avvelenati i pozzi dei rapporti tra uomini e donne, scrive il 20/09/2018 Blasting News. L’attore romano critica i metodi e i risultati ottenuti dal movimento in difesa delle donne nato negli Usa. Secondo marco giallini il movimento #Metoo, nato negli Usa allo scopo di difendere le donne da molestie e violenze sessuali, ha ottenuto il risultato di rovinare i rapporti tra Uomini e donne, visto che ormai non è più possibile nemmeno fare una “battuta” nei confronti del gentil sesso. Il rischio, infatti, è quello di vedersi denunciare per molestie. L’attore romano, intervistato dal quotidiano La Verità, rischia così di spaccare, con le sue parole, il movimento formatosi dopo l’esplosione del caso Weinstein, rappresentato da attrici famose e discusse come l’italiana asia argento. La denuncia contro i metodi e i risultati ottenuti dal movimento #MeToo arriva da dove meno ci si aspetta, da quel dorato mondo del cinema che si è dichiarato più volte compatto nella difesa delle donne, ma anche degli omosessuali, dai predatori sessuali annidati tra registi, produttori ed attori di Hollywood e dello star system in generale. È infatti l’attore romano Marco Giallini, classe 1963, a lanciare il sasso nello stagno, senza però ritirare la mano. Il protagonista della fiction Rocco Schiavone, in onda in questo periodo su Rai 2, si lascia intervistare da Antonello Piroso per La Verità, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Sollecitato a dire la sua sul caso #Metoo, Giallini non ha peli sulla lingua e critica non solo gli “uomini laidi” presenti nel mondo del cinema, ma anche tutte quelle donne con “pochi scrupoli” che usano il loro corpo per fare carriera. Basterebbe infatti rifiutare le avances di questi ‘predatori sessuali’, a parole oppure con “un paio di sberle”, mentre, invece, in molti casi, le vittime non parlano e non denunciano. Insomma, per colpire poche persone, sono stati “avvelenati i pozzi dei rapporti tra uomini e donne”. In pratica, conclude Giallini, ormai è divenuto rischioso persino rivolgere una battuta o un apprezzamento nei confronti del gentil sesso, perché il rischio di essere accusati di molestie è troppo elevato. L’attacco di Marco Giallini è rivolto al #Metoo, movimento di matrice femminista, diffusosi in tutto il mondo dall’ottobre 2017, dopo le rivelazioni sulle presunte molestie sessuali compiute dal potente produttore Harvey Weinstein. Al Me Too hanno aderito diverse star del cinema, le quali hanno dichiarato pubblicamente di aver subito violenze. Tra queste, le più famose sono Gwyneth Paltrow, Ashley Judd, Jennifer Lawrence, Uma Thurmane la nostra Asia Argento, in seguito travolta da altre polemiche per le presunte molestie messe in atto da lei stessa contro un altro attore, stavolta maschio: Jimmy Bennett.

Sky caccia Asia Argento. È il nuovo sexmaccartismo. Asia Argento non sarà più giudice di X Factor, finita stritolata nella gogna pubblica che, quando lei era nel “metoo”, aveva già travolto attori e registi, scrive Angela Azzaro il 6 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Ora è ufficiale: Asia Argento non sarà più giudice di X Factor. Sky, che produce il talent musicale, l’ha scaricata dopo le accuse di violenza sessuale mosse contro di lei dall’attore Jimmy Bennett. Le puntate già registrate andranno in onda, ma entro qualche giorno si saprà il nome di chi la sostituirà. Da accusatrice di Harvey Weinstein ad accusata, anche Asia Argento è finita stritolata nella gogna pubblica che, quando lei si trovava dall’altra parte della barricata del “metoo”, aveva già travolto attori e registi. Il suo (ormai quasi ex) collega Manuel Agnelli, anche lui giudice di X Factor, si è detto «addolorato». Penso, ha sottolineato, che «tutta questa vicenda abbia raggiunto dei vertici di distorsione pericolosi. Il New York Times non può essere il tribunale. Se non c’è un’accusa, se non c’è un’indagine, se non c’è un processo e non c’è una sentenza, non ci può essere una condanna pubblica così violenta, così mostruosa. È stato uno schifo!». Tra la fine degli anni 40 e i primi anni 50 gli Stati Uniti d’America furono travolti dal “maccartismo”, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthy. Si veniva perseguitati e censurati con l’accusa di essere comunisti: gli attori e i registi che finivano nella lista nera venivano allontanati da Hollywood come se fossero appestati. Nella rete di accuse false e caccia alle streghe finirono alcuni grandi nomi dell’epoca, tra cui Humphrey Bogart, Artur Miller, Lauren Bacall, Bertolt Brecht, Carl Foreman, Joseph Losey. Oggi l’accusa non è più quella di essere comunisti. Il reato è legato alla sfera sessuale, ma il meccanismo è lo stesso: basta il sospetto o l’accusa, anche se non verificata, per venire processati dall’opinione pubblica ed essere cacciati: una sorta di lapidazione virtuale dagli effetti, come ha detto Manuel Agnelli, mostruosi. Kevin Spacey, dopo 5 straordinarie stagioni di House of cards, la serie culto sul potere politico, è stato “cancellato”. La sesta stagione sarà senza di lui. Ad aver scatenato le ire maccartiste di Netflix sono state le dichiarazioni di alcuni attori e alcuni membri della tropue che hanno accusato Spacey di averli molestati sessualmente. Non c’è stato (se mai ci sarà) un processo, ma la sentenza è definitiva: via Spacey dalla serie che lui ha contribuito a far diventare un successo mondiale. E via il suo volto dal film di Ridley Scott dedicato al rapimento di John Paul Getty III. Tutte le scene in cui l’attore compariva sono state rigirate e in Tutti i soldi del mondo di lui non c’è la più piccola traccia. La mannaia del “processo mediatico” non ha risparmiato un altro grande della scena contemporanea: Woody Allen anche lui travolto, di riflesso, dallo scandalo Weinstein. Su Allen pesa il sospetto di aver abusato della figlia, Dylan Farrow. Nel ‘ 91-’ 92 si svolse una indagine che si concluse con un nulla di fatto contro di lui. Ma dopo il caso Weinstein la figlia e la madre, l’attrice ed ex moglie di Allen, Mia Farrow, hanno rilanciato le accuse. Tanto è bastato perché Amazon, che ha prodotto gli ultimi suoi lavori, abbia preso la decisione di bloccare l’uscita di A rainy day in New York. Il film, già finito, non verrà distribuito e Allen si è preso una pausa, che sembra forzata, dal set. Meno remissivo è stato Roman Polanki, che è stato fatto fuori dall’Accademia delle Arti e delle Scienze del cinema americano. La decisione è arrivata sull’onda del “metoo” ma i fatti che incastrerebbero Polanski risalgono a quasi 50 anni fa, quando il regista premio Oscar fu accusato di aver abusato di una ragazza minorenne. Lui, però, ha reagito e ha denunciato l’Academy. In Italia abbiamo il caso Fausto Brizzi. Questa volta c’è un prima e un dopo. Il prima: alcune attrici, tramite il programma le Iene, raccontano di avere subito violenza o molestie da parte di Brizzi. La risposta della Warner Bros, che ha prodotto il film natalizio Poveri ma ricchissimi, è durissima: decide di non farlo partecipare neanche alla promozione natalizia e rescinde il contratto con il regista. Il dopo: tre delle attrici sporgono regolare denuncia e a, seguito dell’inchiesta, le accuse vengono archiviate. Per Brizzi la strada è ancora in salita, ma i meccanismi dello Stato di diritto è come se avessero messo un freno alla gogna pubblica, ne hanno ridefinito i confini, instillando almeno qualche dubbio. Ah, ad aver fomentato l’opinione pubblica contro Brizzi, è il giornalista Dino Giarrusso, poi candidato non eletto del Movimento Cinque stelle, ora incaricato dal Miur di vigilare sui concorsi universitari… Nessuno si sarebbe immaginato che anche Asia Argento fosse travolta dallo stesso problema, accusata di aver costretto ad aver un rapporto sessuale l’allora giovane attore Jimmy Bennett, al quale ha anche versato del denaro perché il caso non diventasse pubblico. L’attrice sta, purtroppo, imparando direttamente sulla sua pelle che cosa significhi subire un processo mediatico. La condanna è certa, la difesa viene considerata un orpello. Il popolo ha già deciso. E con il popolo decidono anche le case di produzione che di quel popolo hanno bisogno per guadagnare. Asia Argento, quando stava sulla cresta del “metoo”, diceva che il garantismo è roba “medievale”. Oggi forse ha capito che è esattamente il contrario: niente è più barbaro di questa nuova gogna, anche e soprattutto quando si parla di un tema delicatissimo e complesso come la violenza contro le donne.

Asia conquista X Factor e il web vuole salvarla…Successo per lei nella prima puntata registrata. Su Twitter sono partiti appelli per farla rimanere tra i giurati, scrive Giulia Merlo l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Il web ha detto sì: dopo averla massacrata, ora sta con Asia Argento. La giudice a tempo determinato di X Factor è riuscita nel paradosso del gatto di Schroediger, che nella scatola è contemporaneamente vivo e morto. Lei, nella scatola di X Factor, è contemporaneamente fuori e dentro. Dentro per le sette puntate registrate, la prima delle quali è andata in onda ieri con un messaggio di Sky in cui si spiega la sua esclusione «per il bene dei concorrenti» (ma non era stata scelta per le sue competenze musicali e non per il suo ruolo pubblico nel # metoo?). Fuori, per le successive otto in diretta live. Chi la sostituirà è ancora un mistero: si rincorrono nomi, solo per venire smentiti o considerati non all’altezza. Eppure, una gestione del programma che potrebbe sembrare frutto di totale assenza di controllo, potrebbe non avere nulla di casuale e nascondere il vero segreto della costruzione di un format di successo. Durante la serata della prima puntata, come tutti gli anni, si è verificato il fenomeno della “second screen experience”, gergalmente detta “mentre guardo un programma televisivo twitto forsennatamente le mie impressioni”, che ha generato un flusso di decine di migliaia di tweet. Fin qui nulla di strano, se non che la giudice squalificata e addirittura malamente oscurata in tutti gli spot pubblicitari è piaciuta a tutti, ma proprio tutti. Lei era ovviamente l’osservata speciale del pubblico, complice il suo già annunciato licenziamento, e piano piano il consenso nei suoi confronti è montato. Tutti si sono stupiti del fatto che intervenisse in modo appropriato, avesse competenza musicale, fosse giusta nei giudizi, piangesse come gli altri giudici per una performance emozionante. Risultato: sono spuntati già i primi hashtag per impedirne la cacciata dal tavolo dei giudici e i commenti contro di lei sono spariti nel flusso di chi già annunciava che senza di lei l’X Factor di quest’anno non avrebbe senso. E siamo solo alla prima puntata. E qui il (forse) genio degli autori di X Factor, che di mestiere fanno prodotti di intrattenimento e non moralità pubblica. Se in due mesi di puntate registrate (e di polemiche sulle molestie sgonfiate) Asia fosse diventata la beniamina del pubblico, potrebbero anche tornare – benevoli – sui loro passi, anche perchè il sostituto non è stato nemmeno annunciato. O almeno è quello che spera il volatile popolo del web, svelto a condannare senza appello Asia come molestatrice ipocrita, quanto a riabilitarla appellandosi al beneficio del dubbio appena ne intravede il volto umano, mentre piange su una cover ben riuscita di “Io che amo solo te”.

Fabrizio Corona e Asia Argento, quando una «coppia» brucia in fretta, scrive Stefania Saltalamacchia su Vanity fair il 29 Novembre 2018. Un mese o poco più. Tanto sarebbe durata la relazione tra l'ex fotografo e l'attrice romana. Anche se lei adesso minimizza: «Ci siamo visti quattro volte in un mese e non so da dove è nata l'idea della storia d’amore». I baci «incappucciati», a voler prendere in prestito la definizione di mamma Daria Nicolodi; le storie di Instagram in auto, tra musica a tutto volume e «amore, vieni qui»; le dichiarazioni in tv in cui si sottolineava l’identico «tormento interiore»; il caffé di Gramellini; il soprannome «Bonnie e Clyde». Il (tanto) discusso amore tra Fabrizio Corona e Asia Argento è durato solo un mese, o poco più. I «titoli di coda» li vediamo scorrere, come spesso accade di questi tempi, via social. Con la figlia di Dario Argento che scrive una frase carica di significato: «La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta’ giostra», fa sapere lei. L’ex re dei paparazzi, invece, sceglie una canzone, Quando finisce un amore di Riccardo Cocciante, e la fa ascoltare ai follower. The end, insomma. Una serie di indiscrezioni indagano sui motivi dell’addio: Corona sarebbe concentrato sul nuovo processo che l’attende. Nell’ultima udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Milano, l’accusa ha infatti sostenuto: «troppe violazioni alle regole imposte dal tribunale di sorveglianza. Sconti in cella il resto della pena», alludendo alla recente incursione nella casa del Gf Vip, con lite con la padrona di casa Ilary Blasi, le frequenti ospitate in tv, le serate di lavoro in giro per l’Italia. Dopo l’ultimo periodo in carcere, da cui è uscito lo scorso 21 febbraio, il fotografo era stato affidato per un periodo a una comunità di Limbiate per curare la sua tossicodipendenza, e adesso dovrebbe rispettare gli orari e le prescrizioni dei giudici. Ma così, si sostiene, non è. E tutto questo, pare, l’avrebbe anche allontanato dalla «fidanzata». Che, dopo l’ultimo incontro a Milano, sarebbe tornata a Roma dicendo «basta». Versione confermata dalla stessa attrice in un’intervista a Repubblica, in cui dichiara di non aver apprezzato la continua esposizione mediatica: «Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media e ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona. È una chiusura senza alcun risentimento, perché in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso. Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato», ha fatto sapere. Asia, poi, minimizza. Lei e Corona, aggiunge, in questo mese di dirette social e ospitate in tv, si sono visti solo quattro volte. «Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro», continua, «io ero stata una grande amica di suo padre Vittorio. Però già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip. Il gossip non mi riguarda, mi fa orrore. Ho vissuto tutta la vita in maniera riservata, riparata». Delle «tantissime cose in comune» non c’è più traccia.

Asia Argento, schiaffo a Fabrizio Corona: la fotografia oscena, che schiaffone, scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Asia Argento, terminata la sua storia d'amore con Fabrizio Corona, durata un mese, si scatena sui social. L'attrice 43enne pubblica una foto in cui è praticamente nuda, si copre solo con una corazza. Pubblica la foto su Instagram, ma non scrive niente. La love story è finita dopo pochissime settimane di fidanzamento. Asia Argento ha ammesso di essere scesa dalla giostra per sottrarsi a questo "circolo mediatico"; Corona ha replicato dicendo che lui non ha costretto nessuno a salire su questa giostra e che evidentemente ad Asia piaceva questa situazione. Tant'è che ha rimediato diverse ospitate televisive.

Asia Argento dimentica Corona così: FOTO senza veli su Instagram, scrive la redazione di Blitz Quotidiano il 30 novembre 2018. La storia tra Asia Argento e Fabrizio Corona è finita qualche giorno fa e Asia Argento si mostra senza vestiti su Instagram. Dopo la rottura tra i due si è parlato di un contratto da 100mila euro, soldi che Corona avrebbe dato alla Argento e categoricamente smentiti dall’ex re dei paparazzi. L’unica cosa certa al momento è che l’attrice sembra essersi fatta già una ragione sulla rottura tra i due. Su Instagram, infatti, Asia si mostra coperta solo dal calco di una statua. Lo scatto, condiviso per pubblicizzare la pagina di un fashion designer, restituisce l’immagine di una Argento spensierata e già lontana dai tanti gossip che l’avevano travolta nelle ultime settimane. Fabrizio Corona, nei giorni scorsi ha smentito a Mattino Cinque l’esistenza di un contratto tra lui la figlia del regista dell’horror. Ecco cosa ha detto Corona all’inviato del programma di Federica Panicucci che lo ha intercettato sotto casa: “Diciamo che è una storia un po’ complessa. L’unica cosa che ci tengo a dire, a parte gli scherzi, è che quello che hanno scritto i giornali sul contratto che ci sarebbe è una grandissima stronzata”. “Ma quale contratto. Ma uno può scrivere una roba su un sito e viene ripresa da tutti i giornali? Ma secondo voi siamo due tipi da fare un contratto? Io ho bisogno di dare 100 mila euro a lei??  Viviamo in un Paese dove funzionano soltanto le fake news e i populismi, come andare con le ruspe e con il cappello davanti agli zingari”, ha concluso Corona. 

Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati. Tribunale: “Troppe violazioni…” e lui rompe con la fidanzata. Asia Argento e Fabrizio Corona si sono lasciati e secondo gli ultimi pettegolezzi sembra che alla base di tutto ci sia il “vizio” di lui di cercare altre donne, rispunta Zoe Cristofoli? Scrive il 28.11.2018, agg. il 29.11.2018, Hedda Hopper su "Il Sussidiario". La storia tra Fabrizio Corona e Asia Argento è durata anche meno di quanto ci si poteva aspettare. “La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta’ giostra”, aveva fatto sapere lei. Il catanese invece, si lascia cullare da “Quando finisce un amore” di Riccardo Cocciante. Corona pare essere troppo concentrato sul nuovo processo. Ed infatti nell’ultima udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Milano, l’accusa ha infatti sostenuto: “troppe violazioni alle regole imposte dal tribunale di sorveglianza. Sconti in cella il resto della pena”, accennando alla recente scorribanda nella casa del Grande Fratello Vip, con tanto di litigio in diretta televisiva, con Ilary Blasi. L’ex agente fotografico poi, ha continuato ad andare in TV come se niente fosse, portandosi a casa, una serata di lavoro dietro l’altra, in giro per l’Italia. Dopo l’ultima fase in carcere, da cui è andare fuori lo scorso 21 febbraio, il fotografo era stato consegnato per un periodo a una comunità di Limbiate per curare la sua tossicodipendenza, e adesso dovrebbe onorare gli orari e gli ordini dei giudici. Ma pare che – ancora una volta – non stia andando esattamente in questo modo. Per questo trambusto, pare che abbia allontanato Asia che, dopo l’ultimo faccia a faccia in quel di Milano, avrebbe detto “basta” tornando a Roma. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

“SONO UN’ARTISTA…” Asia Argento e Fabrizio Corona si sono ufficialmente lasciati. La conferma è arrivata sui social, per la precisione su Instagram, con un’addio scritto dall’attrice e regista: “La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta giostra”. Nessun risentimento da parte dell’attrice che, intervistata da Repubblica ha dichiarato: “in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso. Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato”. L’Argento ben presto si è resa conto che la situazione le stava sfuggendo di mano: “già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip. Il gossip non mi riguarda, mi fa orrore. Ho vissuto tutta la vita in maniera riservata, riparata. Non esco per non essere fotografata, non mi dà eccitazione che la gente faccia speculazioni sulla mia vita privata. La terza volta che l’ho visto, c’erano ancora e sempre i paparazzi, ho capito che questo tipo di situazione non potevo viverla. Non mi ci riconosco. Sono un’artista, mi interessa quello”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

FRECCIATINE TRA I DUE. La storia tra Fabrizio Corona e Asia Argento è ormai finita e, a quanto pare, anche in malo modo. A prendere la fatidica decisione è stata Asia Argento che, con un’intervista rilascia a La Repubblica, ha voluto fare un chiarimento ben preciso: “Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, perfino il mio ingaggio all’Isola dei famosi, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media e ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona.” Ma queste dichiarazioni ben poco sono piaciute a Fabrizio Corona, che ha replicato pungente contro la sua ex: “Dice che l’ho portata sulla giostra, a me pare che ci sia voluta salire lei. Ci sono andato io o lei a fare le ospitate? Mi pare che ne abbia fatte 5.” Tra i due c’è un’aria molto tesa, fatta di frecciatine che potrebbero cessare non così presto. (Aggiornamento di Anna Montesano)

“FABRIZIO MI HA RIDATO IL SORRISO MA…” Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati, la storia d’amore del momento è durata veramente pochissimo. I due protagonisti sono decisamente stanchi di tutte le voci che i media hanno rilanciato nelle ultime settimane e così hanno deciso di prendere una netta posizione. Asia ha pubblicato su Instagram uno screenshot di una sua intervista in cui dichiarava: “Fabrizio Corona mi ha ridato il sorriso, ma non sono fatta per il gossip e la nostra storia finisce qui”. A commento spiega: “Su La Repubblica di oggi. Stop al gossip, alle notizie false e alle speculazioni. Arrivederci e grazie”, clicca qui per il post e per i commenti dei follower. Il pubblico però non si accontenta e vuole sapere qualcosa di più di quanto realmente accaduto tra i due. Mentre in molti pensano che il loro sia stato un avvicinamento di facciata, per far parlare di loro, c’è chi pretende di capire altro visto che da personaggi pubblici sono in parte “obbligati” a dare delle spiegazioni. (agg. di Matteo Fantozzi)

FRECCIATINA E POLEMICHE. Asia Argento ha parlato della sua storia (finita male) con Fabrizio Corona. La regista romana infatti, ha chiarito il punto della situazione intervistata da Repubblica. Queste dichiarazioni naturalmente, sono state prontamente visionate dall’ex re dei paparazzi che, non ha potuto fare a meno di commentare anche in maniera polemica: “Anche La Repubblica fa gossip e pubblica in prima pagina spacciato come cronaca, inserendo due domande obsolete e oggi inutili. Tutto, ma proprio tutto ormai gira intorno a questo. L’onestà intellettuale non esiste più, ma giornalisti capaci di fare una domanda ce ne sono ancora? Cazzo l’evidenza, cazzo l’oggettività! Ma si sanno raccontare le storie?”. Proprio questa mattina il catanese, era stato raggiunto dalle telecamere di Mattino Cinque, che l’attendevano sotto casa. “Asia ha fatto cinque ospitate televisive, ci sono andato io o c’è andata lei? Non l’ho portata sulla giostra, c’è salita. Insomma, ha fatto cinque ospitate televisive, quindi evidentemente la giostra le piaceva”, ha confidato. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

STORIA D’AMORE O GOFFO TENTATIVO? È finita tra Asia Argento e Fabrizio Corona. La “coppia” si era fatta travolgere dalla passione per un paio di settimane ma poi, è tornata alla vita di sempre. Dopo essere stati “casualmente” paparazzati tra le pagine del settimanale Chi, i due hanno deciso di mettere fine alla loro relazione. L’ex re dei paparazzi, l’aveva perfino fatta conoscere al figlio Carlos Maria e tra i due, era già nata una intesa speciale. Lei invece, aveva pensato bene di presentarlo a papà Dario e le indiscrezioni di gossip parlano di una intesa immediata, creando un rapporto di amicizia istantaneo. Sembrava tutto perfetto e forse lo era fino a quando… sempre la rivista diretta da Alfonso Signorini, ha fatto sapere della decisione di Corona, di mettere da parte questo amore per mancanza di serenità. Dopo il silenzio, Asia ha detto la sua intervistata su Repubblica. “Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, perfino il mio ingaggio all’Isola dei Famosi, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media. E così ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona. È una chiusura senza alcun risentimento, perché in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso”, ha confessato la regista. Poi ha aggiunto: “Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui, né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato. Ci siamo visti quattro volte in un mese e non so da dove è nata l’idea della storia d’amore. Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro. Io ero stata una grande amica di suo padre Vittorio, un grande dell’editoria, a 19 anni scrivevo nei suoi magazine. Però già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip”. Nessuna storia d’amore quindi, ma solo un goffo tentativo… (Aggiornamento di Valentina Gambino)

CORONA-ARGENTO, CAPITOLO CHIUSO. Fabrizio Corona sembra aver già chiuso il capitolo Asia Argento parlando di altre donne e sorridendo a Mattino 5 alla domanda su Zoe Cristoli, ma rimane il fatto che è stato il gossip a montare un vero e proprio caso. Due persone come Asia e Corona si sono incontrate, hanno condiviso qualche copertina e qualche palco in tv, magari qualche volta sono stati a letto insieme, e la storia d’amore che tutti hanno sognato eccola lì a favore di flash e riflettori. E adesso? Dopo un mese passato tra Roma e Milano, sono i diretti interessati a gettare un velo pietoso su questa storia e liquidando tutto come un incontro di sensi, qualche incontro furtivo, niente di più. La stessa Asia Argento parlando di quello che è successo in un’intervista a La Repubblica, ha rivelato: “E’ stato brevissimo, ci siamo visti 4 volte in un mese e non so da dove è nata l’idea di una storia d’amore. Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro, in un momento di grande solitudine, in cui non pensavo di avere rapporti”. Tutto è cambiato già dalla seconda volta – racconta Asia Argento – da quando si è accorta che ad ogni incontro c’erano i paparazzi pronti ad aspettarla/i e così ha capito “che non potevo vivere una situazione di questo tipo. Non mi ci riconosco. Sono un’artista, mi interessa quello”. A quanto pare tutto questo è stato più forte del loro feeling visto che a lei non piace stare al centro del gossip mentre lui vive di questo “il nostro rapporto non ha avuto il tempo nemmeno di crescere, è stata un’amicizia, tutto qui”. Capitolo chiuso quindi?

IL VIZIETTO DI CORONA HA ROVINATO TUTTO? Sono lontani i tempi dei cuoricini sulle dirette Instagram, Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati ed è tutto ormai ufficiale. In un primo momento sembravano rumors nati da una serie di pettegolezzi ma, soprattutto, da un messaggio Twitter in cui proprio la bella attrice e regista aveva condiviso lasciando intendere di essere pronta a “scendere dalla giostra” e parlando di uno spettacolo di cui non avrebbe voluto fare più parte. In un primo momento Corona stesso aveva un po’ liquidato tutto lasciando credere che non ci fosse alcuna crisi con Asia Argento ma solo ieri, con l’arrivo del comunicato di Chi, c’è stata la conferma. Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati e oggi a Mattino5 si parla proprio di questa ennesima bomba scoppiata nella vita dell’ex re dei paparazzi. Secondo quanto si evince sembra proprio che a rovinare tutto sia stato il “vizietto” di Corona ovvero quello delle donne, forse una come Asia Argento non gli bastava? Abbiamo qualche dubbio in merito ma alla base della rottura tra i due potrebbe esserci un’altra donna.

IL RITORNO DI ZOE CRISTOFOLI. Secondo gli ultimi rumors sembra proprio che tra i due sia spuntata nuovamente Zoe Cristofoli. In particolare, si parla di uno scambio di messaggio o di una chiamata di lui alla sua ex ed è questo che avrebbe fatto infuriare Asia Argento che, proprio a Milano da lui in quei giorni, avrebbe preso il treno per Roma e gli avrebbe detto addio. Al momento non ci sono ancora conferme su tutto questo e anche il giornalista di Mattino 5 che è riuscito ad intercettare nuovamente Corona non è riuscito a strappargli un’altra dichiarazione a riguardo. L’ex re dei paparazzi alla domanda di Zoe Cristofoli non risponde e stuzzica il pubblico e la stessa Federica Panicucci rilanciando: “Se aspettate un’oretta scende un’altra ragazza da casa”. L’unica cosa certa è che la storia tra i due è finita e che Zoe potrebbe essere solo la scusa, almeno a detta di tutti coloro che non hanno mai creduto in questa storia d’amore.

FABRIZIO CORONA A MATTINO 5 SU ASIA ARGENTO. Francesco de Luca, il giornalista di Mattino5 è riuscito ad incettare Fabrizio Corona e non le ha chiesto solo di Zoe Cristofoli ma anche di Asia Argento e della telefonata che potrebbe cambiare la sua vita. In particolare, proprio riguardo alla questione giudiziaria ribadisce: “Ma non rilascio interviste, non dico nulla, ma non è un momento facile soprattutto perché sono in attesa di una telefonata che potrebbe cambiare la vita. Penso di aver fatto tutto in maniera giusta… se ci sarà modo ne parleremo in tv dopo che tutto sarà finito”. Riguardo alla sua neo fiamma, invece, Corona conferma la fine della loro storia ma smentisce il fatto che lui l’abbia costretta a salire sulla giostra che, a suo dire, lei avrebbe gustato e non poco. In particolare, rivela: “Asia Argento ha lasciato un’intervista a La Repubblica ma l’unica domanda che avrebbero dovuto farle è: chi è andato in tv a parlare della vostra storia d’amore, lei o io? Ha fatto cinque ospitate televisive, le piaceva forse la giostra…

Asia Argento ha spiegato perché #MeToo è un capitolo chiuso. Ne ha parlato in un'intervista a Repubblica: «Sto cercando di guarire dalla mia sofferenza e non riesco a farmi carico di quella delle altre. Devo pensare alla mia vita», scrive il 29 novembre 2018 Lettera donna. È passato poco più di anno da quando è scoppiato lo scandalo Weinstein. Un anno di denunce da parte di centinaia di donne, un anno di manifestazioni femministe, di dibattito sulle molestie sessuali, di testimonianze a suon di #MeToo. Il percorso è complicato e lunghissimo, ma qualcosa è certamente cambiato. E cambiata completamente, da ottobre 2017 a oggi è anche la vita di Asia Argento. Prima la confessione della violenza da parte di Weinstein a Ronan Farrow, i mesi in prima linea come paladina del movimento. Poi il suicidio di Anthony Bourdain, lo scandalo Bennet, l'esclusione da X Factor. E la liaison con Fabrizio Corona - durata meno di un mese - che ha spiazzato tutti. Asia Argento ha parlato di tutto questo in un'intervista rilasciata a Repubblica, dove ha spiegato che il mondo del gossip non fa per lei, e ripercorso l'esperienza intensa vissuta con #MeToo, da cui però si è allontanata.

«DEVO PENSARE ALLA MIA VITA». «Ha aperto un discorso importante sull'abuso di potere non solo nel cinema ma su tanti luoghi di lavoro. È una grande rivoluzione femminile, ma per me questo capitolo è chiuso. Il mio contributo l'ho dato. Non mi sento di poterne parlare più perché devo pensare alla mia vita, che è stata molto scossa. Quando apri le porte per prima ricevi un sacco di bastonate. Poi la gente passa attraverso questa porta con facilità e magari con vestiti d'alta moda e una spilletta sul petto. Io ho beccato le bastonate e mi devo riprendere», ha dichiarato la Argento. Si dice «fiera delle donne che combattono e continuano», ma spiega di non riuscire più a essere come loro: «Voglio leggerezza ora nella mia vita. Il rapporto con Fabrizio significava questo per me. Cerco solo cose che mi fanno ridere e che mi entusiasmano, la musica, i dj set. Sto cercando di guarire dalla mia sofferenza e non riesco a farmi carico di quella delle altre».

Asia Argento, Pietro Senaldi: ora se ne frega delle molestie, vuole la pace, scrive Pietro Senaldi il 29 Novembre 2018 su Libero Quotidiano. "La donna è mobile" canta il Rigoletto di Giuseppe Verdi. Asia Argento, in questo, è molto donna. Ha la contraddizione nel dna. Il mese scorso si era messa con il re dei paparazzi, Fabrizio Corona, e si era fatta immortalare dalla rivista patinata Chi. Con il bel pregiudicato formava la nuova coppia maledetta. Fatti suoi, certo, ma la madre l'aveva messa in guardia: «Non fa per te». «Zitta troia» è stata la risposta. Ieri ha dato ragione a mamma, annunciando di averlo scaricato. Motivo? È insofferente al gossip. Sarà per questo che ha concesso un'intervista a tutta pagina per raccontare gli affari suoi: come l'ha conosciuto, cosa si sono detti, cosa provava. Esilarante. Non è questo però che ci sta più a cuore. La parte interessante dello sfogo è quando Asia dichiara ufficialmente «un capitolo chiuso, perché ho dato il mio contributo» il suo impegno, da sedicente molestata, a favore delle donne abusate. Ma come? Ha girato le piazze agitando il pugno e invitando le donne a non mollare e ad accusare chi le violenta, ha dato il la a un movimento globale femminile di denuncia, il cosiddetto #metoo, e ora abbandona tutte come se nulla fosse? Casualmente scende dal carro proprio quando nel movimento si intravedono le prime crepe e, anche tra le donne, si apre il dibattito se la caccia al maschio violento non abbia prodotto un'isteria planetaria facendo di ogni erba un fascio e rovinando uomini che non avevano fatto nulla di male. Sono centinaia nel mondo anglosassone i manager licenziati su due piedi sulla base di semplici accuse; molti di loro sono stati sostituiti da esponenti del gentil sesso, quasi con significato riparatorio. Non siamo fissati con Asia. Ci ostiniamo a non lasciarla nel suo brodo in quanto una sua fan ci ha fatto causa e l'Ordine dei giornalisti ci ha censurati a causa di un articolo sulla sua vicenda titolato "Prima la danno via e poi piangono". Non potevamo immaginare come si sarebbe concluso lo show e non abbiamo aggiunto "e alla fine se ne vanno pure lasciando tutti a leccarsi le ferite". Rimediamo oggi. La signora afferma di aver necessità di voltare pagina perché ora vuole «leggerezza nella sua vita». La troverà, la sua storia le dà speranze. Oltre vent'anni fa ha seguito il produttore americano Weinstein in una camera d' albergo e non è riuscita a sottrarsi alla richiesta di questi di leccarla tra le gambe. A suo dire, ne è rimasta sconvolta per due decenni e passa, il che non le ha impedito di lavorarci e frequentarlo a lungo anche privatamente. Un peso insopportabile, poi, sono le parole dell'attrice oggi, «un giornalista chiama e fa una domanda» e lei vuota il sacco. Così, per caso.

UN POLVERONE - L' animo umano segue vie imprevedibili. Ne nasce un putiferio, lei piange, insulta, denuncia, mobilita mezzo mondo. Infine, un giovane attore, tale Jimmy Bennett che la chiamava «mamma» accusa lei di averlo violentato e Asia perde il posto a Sky. Si scopre perfino che la signora gli ha liquidato 300.000 dollari per rabbonirlo, ovviamente su consiglio del fidanzato defunto, si giustifica lei. Da attrice esperta, capisce che è il momento di far calare il sipario sul bordello che ha scoperchiato e ritirarsi dalla scena. Ne ha diritto, ma sulla scena si contano feriti e altro. Weinstein è rovinato per sempre, molti potenti d' Oltreoceano pure. Nel nostro piccolo, in Italia, abbiamo processato e messo al bando senza prove il regista Fausto Brizzi, salvo poi riabilitarlo in omaggio alla nostra cialtroneria nazionale. Centinaia di migliaia di donne sono state illuse dalla loro paladina, il fidanzato americano di Asia, il cuoco di fama mondiale Anthony Bourdain si è tolto la vita, il giornalista francese con il quale Asia si è fatta fotografare sempre da Chi mano nella mano prima del suddetto suicidio è sparito, Corona è stato mollato. A noi di Libero in fondo è andata bene: incrociare Asia ci è costata soltanto un'ammonizione nella speranza non arrivi di peggio. Un anno fa, quando scrivemmo l'articolo per il quale siamo stati condannati dall'Ordine, sostenemmo che Asia Argento non era la persona ideale per incarnare il simbolo delle donne abusate dagli uomini e portarne avanti la battaglia. Oggi, lei stessa ci dà ragione: «Non riesco a farmi carico della sofferenza delle altre» è la frase con cui si sfila dal #metoo. Con tanti saluti alle compagne che le avevano creduto. Ma le signore abusate si consolino, certi testimonial è meglio perderli che trovarli. Salvo che dopodomani l'attrice non decida di cambiare ancora parte. Pietro Senaldi

FAUSTO BRIZZI: IL FATTO NON SUSSISTE. E #METOO SI SBRICIOLA, scrive l'1 agosto 2018 Davide Stasi su "Stalkersaraitu.com". Ha fatto comprensibilmente il giro del web, suscitando più di un’isteria, la notizia che per le accuse di violenza sessuale mosse al noto regista Fausto Brizzi è stata fatta richiesta di archiviazione “perché il fatto non sussiste”. Cioè non esiste, non c’è reato, non c’è crimine, zero, niente, nisba. Hanno voglia “Le Iene” ad acchiappare questa o quella ragazza che ha finito per non lavorare, o per lavorare meno di quanto atteso, e tirar fuori storie risalenti al pleistocene per accusare un professionista di malefatte orripilanti. Chiacchiere, ciaccole, fuffa… Ma d’altra parte ci si ricorderà della fanciulla tutta compresa, seria seria, che in TV, nonostante il pressing della D’Urso, dichiarò candidamente: “in fondo non mi ha fatto niente…”. Niente appunto. Anche per questo il fatto non sussiste. Sì, ma nel frattempo il regista è stato sputtanato, smerdato, insudiciato su tutti i media, gli sono stati negati contratti e tolto il nome dai titoli dei film. Ma d’altra parte lo scopo del movimento #MeToo è questo: non ottenere giustizia, ma vendicarsi e schiacciare uomini-simbolo, magari dopo aver preteso e ottenuto da questi, in tutto o in parte, favori e prebende. Fortuna che gente come Weinstein ha il pelo sullo stomaco e ora, unico davvero finito a processo per le accuse delle befane a caccia di stregoni, parla chiaro stracciando il velo dell’ipocrisia. Fortuna che Brizzi ha avuto accanto moglie e famiglia, che l’hanno sostenuto, nel silenzio e nella riservatezza. Ora però sarebbero opportune tante tante scuse diffuse al regista. A cui aggiungo una mia preghiera personale: se le motivazioni per l’archiviazione lo consentono, contro-denunci per diffamazione e calunnia. Subito e senza pietà, senza farsi intenerire o persuadere dal pensiero: “vabbè, lasciamo perdere e andiamo oltre”. In un paese civile tale contro-denuncia dovrebbe essere automatica, prevista per legge, ma così ovviamente in Italia non è. Dunque provveda lei, Brizzi, se può. Resta una domanda: davvero il regista ha fatto con le aspiranti starlette lo stesso mercato che faceva Weinstein? Per la magistratura no, ma chissà… Nel caso, va detto che scambiare lavoro con sesso è pratica abbastanza svilente. E lo è anche anche dal versante di chi scambia sesso con lavoro, ben inteso. Perché lì siamo: il mercimonio di questo tipo c’è, da sempre, in alcuni settori più che in altri. Televisione, cinema, politica, pullulano di carriere fondate su lenzuola sudate, su cui decidono di adagiarsi indistintamente uomini e donne. Si tratta di scelte personali, sia accettare lo scambio che rifiutarlo rinunciando a una possibile carriera. Il movimento #MeToo ha però innovato questo tipo di mercato inaugurando una terza via, da attuarsi a distanza di tempo: ottenere ribalta sputtanando quello che in precedenza era stato un socio in affari nell’ambito dell’equo scambio carriera-contro-sesso e viceversa. Una vera infamia supportata da mass media che, arrivati al fondo dell’assenza di scrupoli, da tempo hanno cominciato a scavare. Un’infamia che è durata fin troppo e che a suon di sentenze e di saturazione dell’opinione pubblica speriamo termini presto. Per poter essere ricordata infine con le stesse sagge e schiette parole di verità pronunciate a suo tempo da Luca Barbareschi: “quelli del #MeToo sono dei mentecatti”. Bentornato Brizzi, e buon lavoro.

I messaggi d’amore per Weinstein annientano le femministe del #metoo, scrive il 5 agosto 2018 Matteo Carnialetto su "Gli occhidellaguerra.it". Alla fine, tutto il movimento #Metoo potrebbe rivelarsi un’enorme bolla di sapone. Il legale di Harwey Weinstein, secondo quanto riporta Il Messaggero, avrebbe mostrato i messaggi della principale accusatrice del produttore in cui la donna mostra una certa affinità con il “mostro”. “Spero di vederti appena possibile”. E ancora: “Apprezzo tutto quello che fai per me, mi manchi omone mio. Ti amo, ti amo sempre, solo mi dispiace essere una semplice distrazione occasionale”, si legge. Messaggi che proverebbero – almeno questa è la linea portata avanti dalla difesa – una certa affinità tra i due, anche dopo il presunto stupro compiuto dal produttore. E, soprattutto, mostra che i due avrebbero continuato ad incontrarsi. Ma c’è di più. La donna avrebbe chiesto a Weinstein di incontrare sua madre perché “era molto ansiosa di fare la sua conoscenza”. Un incontro che, a quanto si legge, sarebbe andato molto bene, tanto che la madre sarebbe rimasta “molto ben impressionata”. Sia chiaro: è ormai acclarato che Weinstein abbia approfittato della sua posizione in cambio di favori sessuali. Ma da quello che appare da questi messaggi sembra anche che le donne (certamente non tutte, ma la gran parte sì) fossero contente di passare del tempo con lui, anche e soprattutto pensando ai futuri benefici lavorativi. Al di là della colpevolezza o meno di Weinstein, che dovrà comunque essere stabilità dai giudici di New York, quello che emerge è la debolezza del movimento #metoo, che ormai predica bene (e razzola male) in ogni angolo del globo, dagli Stati Uniti alla Cina. Il grande architetto del movimento non è una donna, ma un uomo, Ronan Farrow, figlio di Woody Allen e Mia Farrow. Giovanissimo, classe 1987, ha lavorato per Hillary Clinton e, soprattutto, ha realizzato l’inchiesta (oltre un anno di lavoro) che incastrerebbe Weinstein. Un enfant prodige che ha deciso di dedicare la sua vita alla lotta alle molestie. 

Le follie del movimento #metoo. Il caso Weinstein ha lanciato il #metoo. Lo ha fatto diventare un vero e proprio totem che ha colpito tutti, compreso, tragica ironia della sorte, il padre di Farrow, Woody Allen. Nel tritacarne mediatico è finito pure il regista italiano Fausto Brizzi, il cui caso è stato archiviato perché “il fatto non sussiste”. Ma la spinta del movimento ha toccato perfino la legislazione di alcuni Paesi, come la Francia, dove si potrà pagare fino a 750 euro di multa in caso di molestie per strada, ovvero fischi e commenti osceni nei confronti di una donna. 

IL MINESTRONE DEL LUNEDÌ: MALA TEMPORA CURRUNT, scrive il 6 agosto 2018 Davide Stasi su "Stalkersaraitu.com". Brizzi fa il gentiluomo. Io no. – S’è detto dell’archiviazione delle accuse di violenza sessuale per il regista Fausto Brizzi. Dagli scambi di messaggi del suo cellulare è emerso che le fanciulle non solo erano pienamente consenzienti, ma pure un bel po’ coinvolte, dunque il fatto non sussiste. Io, ma non solo io, ho auspicato che contrattaccasse con una denuncia per diffamazione e calunnia, ma a quanto pare, se ci saranno margini, chiederà solo un risarcimento danni in sede civile. Animo nobile, Brizzi. Come molti uomini calunniati e diffamati, messi in grossi guai giudiziari da false accuse, al termine del calvario decide di andare oltre e di “risparmiare” chi invece ha tentato di distruggerlo senza pietà, riuscendoci anche in buona misura. Non è probabilmente consapevole che la sua archiviazione, così come la resistenza pisana dell’Assessore Buscemi, hanno reinnescato la guerra. Una guerra ferocissima, portata avanti senza scrupoli dai nemici della giustizia, ovvero essenzialmente Rosa Nostra e le vagine armate nelle loro varie declinazioni. Dunque ciò che non vuol fare lui, lo farò io. Al rientro dalle ferie depositerò presso la Procura di Roma un esposto quale persona informata sui fatti (chi non lo è?). Alla luce dell’archiviazione delle accuse al regista, chiederò alla Procura di indagare per diffamazione e calunnia coloro che l’hanno denunciato. Dicono i suoi legali “è molto complicato dimostrare che le querelanti fossero consapevoli della sua innocenza al momento in cui si è presentato agli investigatori”. Secondo me no, anzi è piuttosto semplice dimostrarlo. Se poi tra i miei lettori c’è qualche avvocato che vuole assistermi in questa cosa, ben venga. E’ ora di finirla. Brizzi vuol fare il galantuomo, d’accordo. Ma è una guerra sporca, solo finita la quale ci sarà necessità dei gentlemen.

E nel frattempo Harvey… – Fausto Brizzi era stato soprannominato “il Weinstein italiano”. Avanti così e Weinstein verrà soprannominato il Brizzi americano. Sì perché il suo avvocato ha depositato un bel mucchio di email tenere, amorose, affettuose partite dalle accusatrici, attrici o aspiranti tali, e indirizzate proprio al mostro. Erano tutte sul PC del lavoro di Weinstin, sotto sequestro per la bancarotta della sua Miramax: il giudice fallimentare gli ha permesso di accedervi e da lì si sta scoperchiando la verità. Messaggi mica da niente lì dentro: “ti amo e ti amerò sempre”, “non mi è mai piaciuto tanto stare con una persona come con te, tu mi sai capire”, e via con il solito armamentario della donna che la dà per mercato ma cerca alibi per non sentirsi e non apparire zoccola. Meravigliosa la mail di una che l’ha accusato di stupro: “Sarebbe fantastico vederci ancora”, scrive la traviata di turno, in un periodo di poco successivo alla violenza da lei stessa denunciata. Qualcosa del genere doveva essere nella posta e nel cellulare di Brizzi, e com’è finita si sa. Per Weinstein le cose potrebbero essere più difficili: il sistema giudiziario americano è una pura follia, quindi tutto è possibile. Ma intanto l’avvocato del grande violentatore di Hollywood ha parlato chiaro al procuratore che sta accusando il suo cliente: “forse ha agito in modo un po’ affrettato… ma d’altra parte era sotto una pressione senza precedenti”. E viene in mente la copertina del New York Daily News con la foto di Weinstein incorniciata tipo far west e un bel “Wanted” sopra. Quello è il tribunale del #MeToo. Quello vero funziona diversamente. E la resa dei conti è prossima.

Il califfato rosa in Francia. Anzi no. – Ah, la France, le baguettes, la Tour Eiffel, la soupe d’onion, il Louvre e l’escargot! Quei bei week end romantici al suono della fisarmonica e di canzoni in quella lingua antipatica ma oggettivamente sensuale… Tutto da dimenticare. Da questo autunno in poi il territorio dei cugini d’oltralpe diventa califfato rosa. La ministra della Parità tra donne e uomini (ahahahah!!!) Marlène Schiappa (nomen omen) ha fatto passare una legge che multa con un ammenda da 90 a 750 euro chi “molesta” una donna per strada. Un fanatismo che Lolito Macron ha fatto suo, appoggiando l’iniziativa del suo ministro. I detrattori dicono che è una legge insulsa, perché non ci sono fatti oggettivi per riconoscere la molestia. Sai che novità. Dunque a breve un sorriso sugli Champs Elysées o una strizzata d’occhio passeggiando nei Jardins du Luxembourg saranno molestie? Sì, se la fanciulla le ritiene tali. A bientot Stato di Diritto anche in Francia, insomma. E chissà se questa norma varrà anche a Pigalle… Dunque il califfato rosa è giunto in Francia? Parrebbe. Se non fosse che la stessa legge, nella tipica schizofrenia femminista, stabilisce in 15 anni il minimo dell’età per esprimere consenso al rapporto sessuale (con penetrazione). Se il fatto avviene prima, si incorre nel reato di “violazione”. Attenzione: non “stupro”, ma il molto meno grave “violazione”. Una disposizione contestatissima, su cui la Schiappa ha tenuto duro, avendola poi vinta. Magari nel frattempo pensando alla trama del suo prossimo romanzo erotico a sfondo pedofilo, chissà.

Gli scivoloni delle femministe rosse… – Non piace alle vagine armate italiane, che strillano ogni giorno su quanto sia pericolosa l’Italia per le donne, ma il dato di fatto resta: il paese più pericoloso d’Europa per le fanciulle è la civilissima Svezia. Là dove la parità di genere è quasi religione, il numero delle violenze sessuali è altissimo, in gran parte attribuibile a immigrati. E qui si tocca un punto delicato anche in Italia: pare infatti che le violenze di vario genere fatte sulle donne siano più gravi se l’autore è nostrano. Se è importato no, se ne parla meno, in quel caso Rosa Nostra strilla poco o punto, pur davanti all’evidenza delle statistiche. Se interrogate, su questo fatto, le pasionare de noantri sfuggono, svicolano, fanno orecchie da mercante. A parlare per loro ci ha pensato la socialista e femminista Barbro Sörman, che in un tweet ha scritto: “è peggio quando è uno svedese a struprare, rispetto allo stupro fatto da un immigrato”. Oibò e perché mai? Gliel’ha chiesto mezzo mondo. Lei ha provato a rispondere: “gli svedesi crescono con standard culturali più alti rispetto alla parità, gli immigrati hanno standard più bassi”. Al sessismo ha aggiunto razzismo implicito. Non male per una socialista… Naturalmente il suo profilo è stato seppellito da una shitstorm colossale, che l’ha costretta prima a cancellare il tweet poi direttamente l’account. Probabilmente è espatriata in Finlandia e ora si nasconde in qualche foresta lappone dove arringa le renne affinché non si facciano più schiavizzare da quel capitalista e maschilista di Babbo Natale. In ogni caso, in Svezia come in Italia e nel resto del mondo, la gaia attivista ha stracciato il velo: gli stupri degli immigrati sono marachelle, dai… Poveri, sono mezze bestie ignoranti. Quelli dei bianchi invece non hanno scusanti. Come si dice nei quartieri alti di Goteborg: e sticazzi?

Ma quanto sono belli i #MeToo arrabbiati? – Lo schema a cui gli attivisti #MeToo erano abituati sembrava ormai chiaro e definito. Primo passo accuse sui media (tassativamente mai in tribunale) all’uomo che per qualche ragione si vuole rimuovere o far saltare. Ne segue massacro mediatico. Istantaneamente, massimo un paio di giorni, l’uomo accusato si dimette o viene licenziato (ultimo e più recente crimine registrato è stato contro il direttore d’orchestra Daniele Gatti a cui va la mia solidarietà), e poco dopo costretto a scusarsi pubblicamente o a fuggire in qualche giungla del Sud-Est asiatico. Talvolta lo si porta anche al suicidio, se ritenuto necessario. Il tutto in un lasso di tempo brevissimo, roba che la migliore amministrazione giudiziaria del mondo se la sogna. La procedura però si sta inceppando sempre di più, a partire proprio dalla patria del #MeToo, gli USA. Leslie Moonves, capo del network CBS, è stato oggetto di accuse di palpeggiamenti e roba simile, eppure è ancora al suo posto. Lui nega, è ovvio, e a dargli manforte le sue dirigenti donna, che smentiscono le accuse. Così il Consiglio di Amministrazione ha deciso di fare un’indagine interna e di lasciarlo a svolgere il suo incarico. Questo ha scatenato subito l’armageddon tra gli attivisti del #MeToo, isterici e frustrati nel vedere che la pallottola è sempre più spuntata. Moonves ci mette poi del suo, difendendosi con uno degli slogan più simbolici di quel movimento mafioso: “Ho sempre capito, rispettato e ho aderito al principio del no significa no”, ha dichiarato. Lesa maestà: un maiale da rimuovere dal suo posto di potere che si appropria di uno slogan del genere? Ancor più ora che l’asticella è stata alzata e non siamo nemmeno più al “no significa no”, ma al “sì significa sì”. Cioè puoi approcciare una fanciulla solo se lei acconsente esplicitamente, magari mettendotelo per iscritto, e non più solo se non si oppone. Bene, per tutto questo il #MeToo americano è fuori di sé. Ed è uno spettacolo da vedere. Quel muro mafieggiante è sempre più pieno di crepe. Compito nostro è continuare a picconare e poi stare a guardare, sperando che tutti i criminali che l’hanno eretto finiscano sotto le macerie.

Il potere in rosa – “Ah, quanto sarebbe più in pace e onesto il mondo se fosse governato dalle donne!”. Quante volte avete sentito questa stupidaggine? Che è tale solo perché dà per scontato che gli uomini siano tutti dediti alla guerra e alla criminalità. Però è su ragionamenti del genere che si fondano le recriminazioni beote sulle “quote rosa” e simili. Il tutto contro l’evidenza delle cose, che talvolta, quando proprio non se ne può fare a meno, esce anche sui media. Settimana scorsa è stata sgominata in Calabria un’organizzazione criminale collegata alla ‘ndrangheta e votata al far grana pilotando esiti di consulenze o perizie per vari tribunali locali. A capo dell’organizzazione, ora accusata di corruzione in atti giudiziari e intralcio alla giustizia, una donna, Angela Tibullo. Di mestiere criminologa. Dunque un’esperta del settore, e come tale ospite frequente di trasmissioni televisive (“La vita in diretta”, “Un giorno in Pretura”), che però pare avesse deciso di cambiare parte della barricata. Sempre in Sicilia, a Messina, finisce ai domiciliari Emilia Barrile, ex presidente del Consiglio Comunale, a quanto pare implicata in giri di affari e favoritismi non conformi alla legge. Tutte cose che non ci si attenderebbe da una donna, essere di una natura che ci viene raccontata come sempre linda, onesta, pulita, cristallina e rigorosa. Invece basta leggere cosa le due donne citate avevano imbastito per capire che il male non ha genere. Per questo il potere deve essere gestito non per “quote”, bensì per “quozienti” d’intelligenza, merito e magari di onestà.

La triste storia della povera Zoe – Zoe è australiana, ha solo 7 anni. E’ in viaggio in auto con mamma e papà e vede un cartello: “Linemen at work”, ossia: “Uomini al lavoro sulla linea elettrica”. Imbronciata osserva che magari c’è qualche donna che vorrebbe fare quel lavoro e quindi non è giusto scrivere “linemen”. Sfortuna vuole che Zoe abbia una mamma idiota e narcisista, che scrive su Twitter l’ingenua osservazione della figlia e ottiene così i suoi cinque minuti di notorietà. L’azienda elettrica locale, per non rischiare accuse di sessismo, asseconda la scemenza e cambia il cartello con “Line-crew at work” (squadra al lavoro sulla linea elettrica). Dedichiamo dunque un pensiero solidale alla piccola, povera Zoe, che si ritrova una madre simile e un padre probabilmente succube. Il quale avrebbe dovuto togliere e buttare via il cellulare alla moglie ed esercitare correttamente la sua funzione educativa verso la figlia dicendole teneramente: “Zoe, amore di papà, non dire cazzate: nessuna donna mai vorrà fare quel mestiere, perché è molto pericoloso, ci si muore facilmente, e le donne vogliono lavori comodi e sicuri, da cui poter recriminare liberamente sulla parità di genere e di salario…”. La versione Rosa Nostra di questa storia è reperibile qui.

Infanticida e libera – Qualcuno avrà notato che c’è una new entry nel conteggio infame, che per il resto è abbastanza fermo (essendo gli asili chiusi e le operatrici degli ospizi in ferie, è normale…). Si tratta della madre di Terni che ha abbandonato, con palesi intenti omicidi, il suo bimbo appena partorito di nascosto. Arrestata dai Carabinieri, ha accampato una serie di scuse che i media hanno amplificato a suon di poverin poverina, contribuendo così al rilascio di un’infanticida. Perché sì, non stupitevi, nonostante l’omicidio, è stata messa in libertà. Tra i commenti reperibili sui social ci sono ovviamente quelli misericordiosi, che ricordano alle donne di tutta Italia che possono liberarsi tranquillamente di un figlio senza ammazzarlo, semplicemente abbandonandolo in pieno anonimato in un cassonetto differenziato (“per il frutto del peccato”, cit.) predisposto in ogni ospedale. Il corrispondente maschile di un atto del genere potrebbe essere il non-riconoscimento del figlio ma… provateci a farlo. Ti prendono, ti ingabbiano, ti estorcono il DNA e se il pupo risulta davvero tuo o lo riconosci o finisci in carcere. Il che è la tipica procedura di una società patriarcale, giusto?

Discriminazione intima – Spulciando il sito del Senato mi sono imbattuto in questa proposta di legge: riduzione dell’aliquota IVA per i prodotti d’igiene intima femminile. Non è chiaro, perché il testo della proposta al momento non è ancora disponibile, se si intendano saponi, cremine, balsami e quant’altro le donne usino per fare manutenzione alla propria arma di distruzione di massa. Solitamente quando si parla di queste cose si intendono essenzialmente gli assorbenti intimi. E in effetti è qualcosa ad uso esclusivamente femminile. Ma esclusivamente maschili lo sono anche i preservativi che, oltre a proteggere uomo e donna dalle malattie sessualmente trasmissibili, aiutano gli uomini a non finire in qualche trappola ben orchestrata di stampo gestazionale. Quindi è quasi uno strumento di difesa, che andrebbe detassato del pari. Oppure, volendo fare della politica sensata e non scioccamente finalizzata ad acchiappare il consenso femminile, gli assorbenti intimi dovrebbero essere iper-tassati, con un’IVA al 40%. Questo perché dannosi per le mucose genitali femminili, perché il loro impatto ambientale è semplicemente devastante e dunque il loro uso andrebbe disincentivato. Sì, ma allora come si fa? Basterebbe detassare vicino allo zero metodi alternativi ben più sostenibili, come la mooncup, che però non permetterebbe più alle femministe di lagnarsi, e questo può essere un problema per chi ne vuole acchiappare i consensi. Rimane la questione della possibile detassazione dei profilattici, che essendo cosa maschile non verrà mai attuata. Consiglio allora di fare come noi a Genova: per risparmiare, dopo l’uso li laviamo e li stendiamo e poi li riutilizziamo almeno un altro paio di volte.

Le furie di Genova – Ed è forse per questa pratica di eccessiva parsimonia (basta ridere, dai… un giorno vi dirò come usiamo il Viagra qui a Genova…) che una donna del capoluogo ligure ce l’aveva su con un uomo. Così tanto da costringerlo a denunciarla. Contando forse sul pussy-par-tout (l’incolpevolezza a prescindere per chi è portatrice di vagina), se n’è fregata della denuncia, ha raggiunto l’uomo mentre si beveva una cosa al bar con un’amica, chiedendo manforte a sue due simili. Armate di casco e cinghia hanno provato a farlo nero. L’uomo e l’amica sono riparati all’interno del locale e le tre Madri Terese devono essersi dette: ok, ci è scappato, ma eravamo qui per pestare qualcuno quindi… quindi se la sono presa con una coppia che passava di lì, del tutto estranea ai fatti. Arrestate, e forse ancora non paghe, in Questura una di loro ha pensato bene di provare a staccare a morsi una mano a un poliziotto. Proprio vero che la violenza di genere in Italia è agita solo da donne, porca miseria. Anzi: belìn!

TELEFONO ROSA LA SPARA GROSSA E BONGIORNO STRAPARLA, continua il 6 agosto 2018 Davide Stasi, su "Stalkersaraitu.com". Fine settimana scorsa, Telefono Rosa manda tutti in ferie con un bel tarlo in testa, da recuperare poi al rientro, annunciando a reti unificate di aver ricevuto in sei mesi la bellezza di 444 telefonate al numero di emergenza 1522 (gestito da privati ma pagato con soldi pubblici) solo dalla città di Roma. Nel 2017, dice, ne avevano ricevute 587, segno che finalmente le donne sono sensibilizzate e chiamano per chiedere aiuto. A stretto giro prova a calare il carico da undici, tornando a impicciarsi di affari che non la riguardano, l’avvocato Giulia Bongiorno, teoricamente Ministro della Pubblica Amministrazione. E lo fa per spararla ancora più grossa: le donne denunciano di più grazie all’effetto #MeToo-Weinstein.

Il Ministro sembra non interessarsi tanto della pubblica amministrazione e subito deraglia: lei e la sua associazione Doppia Difesa, dichiara, hanno sensibilizzato alcuni pezzi grossi del Governo, anzitutto il Ministro della Giustizia Bonafede, della necessità di istituire un “codice rosso” per i tribunali che, come negli ospedali, dia priorità alle denunce di donne, perché sennò nel frattempo vengono uccise dai loro uomini aguzzini. Non paga, sparge anche un po’ di terrorismo, consigliando alle donne di non cedere all’invito all’ultimo incontro chiarificatore perché “spesso si può trasformare nell’ultimo momento di vita”. Nientemeno. Da lontano, le fa eco un collega, il magistrato bollito Fabio Roia, che si è costruito un bel business sul filone pro-donne, e che ritiene (sul sito “Letteradonna”, appunto…) di negare l’alienazione parentale, ricevendo un’ottima risposta a tono sul Fatto Quotidiano.

Tutto questo bailamme salta fuori, guarda caso, dopo la richiesta di archiviazione delle accuse di violenza sessuale per il regista Fausto Brizzi. Un colpo mortale proprio per il MeToo italiano. Citare quel movimento mafio-criminale per spiegare le tante chiamate a Telefono Rosa vuol dire darsi la zappa sui piedi, visto che proprio Weinstein, come si è detto stamattina, è sulla buona strada per finire assolto, grazie ai documenti che sta producendo in tribunale. Che sia poi un avvocato a menzionare un movimento che processa sui media prima che in tribunale rende tutto fin troppo grave, oltre che paradossale.

Bongiorno in realtà ignora, cioè finge di ignorare, alcuni fatti. Non slogan o peti mentali, ma fatti. Ovvero che in media la bellezza dell’82% dei procedimenti di donne contro uomini, per casi variegati di violenza, finisce in archiviazione o assoluzione. Che sono più uomini a chiedere aiuto ai servizi sanitari d’emergenza per aver subito violenza domestica. Che ad oggi sono la ridicola cifra di 44 le donne uccise da partner o ex partner, in contesti che non hanno nulla a che fare con “l’ultimo appuntamento chiarificatore”, ma anzi più spesso con l’immigrazione. Bongiorno parla di qualcosa che non esiste, un po’ come la sua associazione Doppia Difesa, quella che non risponde al telefono né alle email, ma ai bandi per acchiappare soldi pubblici sì. E parla di qualcosa di perfettamente inutile: il suo codice rosso velocizzerebbe al massimo archiviazioni e assoluzioni di accuse nella maggior parte dei casi eccessive o false (vedi appunto Brizzi, Weinstein e gran parte di quell’82% di archiviazioni-assoluzioni).

Come sostiene Piercamillo Davigo, ben più saggio sarebbe trovare il modo di disincentivare l’impulso alla “denuncia facile” che sta saturando procure e tribunali, con un picco straordinario proprio per i casi che riguardano le donne. Ma questo toglierebbe visibilità a quella roba posticcia che è l’emergenza donna in Italia e soprattutto minerebbe il business che vi è collegato. Telefono Rosa e Doppia Difesa sicuramente sanno di cosa parlo. Soprattutto ostacolerebbe il piano di ispanizzazione previsto per l’Italia, come avrò modo di spiegare mercoledì. Un piano dove Telefono Rosa, con tutte le sue tentacolari propaggini nelle istituzioni e nei media, gioca una parte importante, con i suoi dati e i suoi allarmi di mezza estate.

Perché Telefono Rosa, esattamente come Doppia Difesa e tutti gli altri centri antiviolenza e similari, ha il potere di autocertificare i dati e le dichiarazioni che manda in giro. Tutti ripresi paro paro dai media, senza mai fare “la seconda domanda”, e nemmeno la terza o la quarta. Cose del tipo: avete le registrazioni di tutte le telefonate? Esiste un ente terzo che le classifichi o ne controlli la classificazione, tipo che se chiama una per dire che il marito l’ha mandata a quel paese, non si tratta di violenza e non va conteggiata? Esiste un database unico dove vengono registrati gli accessi, cosicché se la stessa donna chiama due o tre volte non viene registrata due o tre volte, ma solo una? C’è modo di capire quale assistenza concreta è stata data a quelle segnalazioni e se sono state risolte? In sostanza: potete dimostrare che quelle telefonate esistono davvero e non ve le siete fatte da sole o non le avete sparate a caso? Rispondo io a tutte le domande: ovviamente no.

Non c’è nulla che comprovi come verosimili le cifre di Telefono Rosa o dia ai deliri di Bongiorno o Roia un qualche fondamento. I pochi dati che ci sono, e non mi riferisco alle stime dell’ISTAT ma ai dati reali del Ministero dell’Interno e della Giustizia, più magari quelli dei pronto soccorso, accertano che si sta parlando del nulla. Di un gigantesco Truman Show che, sebbene sia stato svelato ormai da tempo, fa di tutto per continuare a sopravvivere sulla pelle di un intero genere e, cosa non irrilevante, dei minori. Sullo sfondo di questo rinnovato battage farlocco, secondo alcuni, c’è anche un inizio di battaglia contro la riforma di separazioni e affidi, il DDL Pillon appena depositato. Io non ne sono convinto. Per me è solo un tentativo di riaffermazione di un “regime” che con il nuovo Governo non pareva prioritario. Un tentativo che serve a preparare il terreno a una nuova iniziativa infame, per la quale rimando ancora all’articolo di dopodomani.

In conclusione non posso che ribadire le mie domande da sempre inevase a Telefono Rosa. E l’invito che ho già espresso a Bongiorno di occuparsi di ciò per cui è stata nominata, ossia la funzione pubblica, lasciando stare argomenti per lei e la sua associazione fin troppo scivolosi. A margine: che non si vanti troppo di essere l’autrice della legge anti-stalking. In quanto avvocato dovrebbe vergognarsi di aver concepito una norma che sovverte lo Stato di Diritto. Se lei, come Telefono Rosa e le altre della cosca di Rosa Nostra vogliono la Spagna in Italia, facciano armi bagagli e si spostino loro là. Saranno accolte a braccia aperte. Quanto all’Italia, si mettano il cuore in pace: no pasaràn.

PARLA DA FEMMINISTA, MA NON PARLARE A NOME MIO, scrive il 7 agosto 2018 Anna Poli su "Stalkersaraitu.com". Sinceramente di femministe che parlano a nome di tutte le donne ne ho un po’ piene le tasche. Il caso Brizzi, per come si è risolto, non poteva che scatenare maremoti di umoralità e piagnistei e, si sa, quando ci sarebbe solo da tacere, qualcuno che non vede l’ora di dire la sua viziatissima opinione si trova sempre. Il 31 luglio è uscita su Letteradonna, il “forum delle donne attive”, un’intervista alla scrittrice Giulia Blasi, lanciatrice l’anno scorso (se non ve lo ricordate, non doletevene) dell’hashtag #quellavoltache, diventato poi un libro che narra di episodi di molestie quotidiane subite (neanche a dirlo) da donne. Non ho la benché minima intenzione di parlare a nome di tutte le donne, viceversa ho la precisa intenzione di parlare direttamente a te, Giulia. Nella tua intervista ti dici sconcertata riguardo il caso Brizzi poiché la sua archiviazione crea (parole tue) “un precedente pericoloso. Così si dice a una vittima di molestie che nessuno le crederà”. No, invece, non si dice assolutamente questo e sarebbe importante che un personaggio pubblico che nei suoi libri si rivolge al mondo degli (ma soprattutto delle) adolescenti lo riconoscesse. Si dice a una donna vittima presunta di molestie che, nel caso specifico, non è affatto vittima. Si dice che le si è creduto eccome, si è indagato e si è dichiarato il fatto da lei denunciato non sussistente. Si dice a una presunta vittima di molestie che le si crederà solo se quello che dice è vero e non che è vero a prescindere solo perché lei è donna e perché il fatto che racconta è un brutto fattaccio. Se è una balla o una verità rivista o un cambio di idea in differita fa senz’altro meglio a tacere e ad astenersi dal demolire la reputazione di qualcuno. Il caso Brizzi crea, in effetti, un pericoloso precedente. Questo chiacchierato caso ancora una volta ci palesa come sia facile mettere un uomo alla gogna, processarlo in termini mediatici su pubblica piazza, turbarne la quiete privata che difficilmente ora potrà tornare ad essere la stessa, il tutto senza neanche aver accertato i fatti. E’ una vicenda che scopre le carte di un gioco sporco e contro il quale io femmina (mai femminista!) mi schiero. Un gioco di terminologie strumentalizzate che conclamano la vittima solo se è donna. Conseguenza della violenza di genere, d’altronde, non poteva che essere la vittima di genere. Se la vittima è uomo, per lui non sono previste tutele. Nella tua intervista, poi, dici che “molte delle persone che hanno aderito alle campagne anti-molestie non si erano mai rese conto di quanto avevano subito fino a quando non avevano sentito altre donne parlarne”. Occhio, Giulia, che il fenomeno della massa come amplificatore emotivo è stato largamente studiato e sono abbastanza sicura che se ti chiedessi di riconoscerlo tra gli uomini che urlano sugli spalti di uno stadio non faticheresti ad individuarne la matrice villana e sgarbata. Di certo non mi proporresti la prassi spersonalizzante che il gruppo sistematicamente reca con sé come garanzia di veridicità di un fatto, anzi sarebbe proprio quella la variabile per cui mi diresti (presumo io) di imporre maggior cura e attenzione nel discernere qualcosa di realmente accaduto da qualcosa di inventato sulla base della suggestione e dell’affinità di clan. Quindi quando dici che quello che è successo è una “sconfitta per il femminismo poiché il messaggio che passa è che non si andrà mai a processo perché non è successo niente”, in realtà vuoi dire che non si andrà mai a processo SE non è successo niente. Esattamente come è giusto che sia. E se l’applicazione della giustizia è una sconfitta per il femminismo, di certo è una vittoria per il buon senso, per la cultura e per me, che non appartengo al tuo “noi”. Sul tuo sito personale, alla voce “Chi sono”, dichiari che fra le cose che ti irritano di più al mondo c’è la gente che dice “noi” per indicare una squadra di calcio (sono parole tue queste). Condivido ma ti invito a fare caso a quanto tu ti contraddica poi nei fatti. Tra le cose che irritano me, per esempio, c’è la gente che dice “noi” per indicare una categoria in cui sono dentro anch’io. Nella fattispecie tu. Parla da femminista, se non puoi farne a meno, ma non parlare a nome delle donne. Il femminismo è una malattia dilagante della nostra società, l’ennesimo -ismo che vorrebbe totalizzare le teste con la forza dell’arroganza e dello scherno. La femminista parla per verità che non si discutono, come ogni assolutista che si rispetti. Dice, non chiede. Utilizza la disperazione e il piagnisteo per travestire da drammi i suoi argomenti, poi, pervasa dal riso sarcastico, sfotte. L’uomo o è un coglione, perculato e deriso, utile solo quando ci sono barattoli da aprire, oppure è un mostro, un molestatore potenziale dal quale guardarsi. E nel dubbio, sempre meglio querelare. Tu dici che “noi dobbiamo iniziare a mettere sotto accusa i molestatori, a svelarli. Perché sono loro il problema, non noi”. E invece siamo noi eccome. E con noi intendo solo quelle che la pensano come te, quelle che spacciano questa visione tossica e inquinata come la realtà del pericoloso contesto che ci circonda. Dunque, chiarisci bene quando ti esprimi: non parlare a nome mio. A me gli uomini piacciono, io li stimo. Mi indigno di fronte alla demonizzazione gratuita e assurda che i media contribuiscono ad alimentare nei confronti di un’intera categoria. Detesto i molestatori, ma per davvero, non per comodo. I molestatori che contrappongono un noia un loro così da sembrare meno carnefici solo perché si professano vittime. Quando parli da femminista a nome delle donne ricordati di tenere presente che esistono donne a cui il femminismo fa schifo. E quando dici “abbiamo un governo con 6 donne su 39. A raccontare il mondo sono gli uomini” ricordati di dire anche che le donne che vorresti al governo sono quelle che la pensano come te. Perché se una di quelle donne al governo fossi io sono certa che non ne gioiresti affatto.

Perché non sono Femminista. Un manifesto femminista di Jessa Crispin. “Agile, bellicoso, trascinante [...] L’autrice non rigetta il femminismo in sé, ma la vuota e impotente «nuova era del femminismo superficiale».” Negli ultimi anni assistiamo sempre più di frequente al fenomeno di attrici, cantanti e celebrità che proclamano la loro adesione al femminismo; contemporaneamente, sui social network e sui mass media sono sempre più all’ordine del giorno gli scandali legati alle molestie e le campagne contro i comportamenti sessisti. Ma qual è esattamente la natura di questo «femminismo» che tanto spesso viene chiamato in causa? Davvero basta condannare gli abusi sessuali e credere nel semplice principio che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, per potersi dichiarare femministe? Questo pamphlet agguerrito e provocatorio ci mostra come il femminismo moderno, nel suo sforzo di essere il più inclusivo e universale possibile, abbia perso la sua carica rivoluzionaria, la capacità di legare la lotta per l’emancipazione femminile a una più ampia battaglia per il rovesciamento dello status quo, e come dietro il cosiddetto girl power si celi in realtà l’accettazione degli stessi valori del sistema patriarcale che crea l’ingiustizia e le disuguaglianze: il denaro, il potere, la sopraffazione del più debole in nome della realizzazione di sé. Recuperando le teorie del femminismo del Novecento, Perché non sono femminista tenta invece di immaginare nuovi valori e nuove pratiche per costruire un progetto completamente diverso, insieme collettivo e radicale: «una rivoluzione totale in cui alle donne non sia semplicemente permesso di partecipare al mondo come già è, ma in cui siano parte attiva nel riformarlo».

Una terza via per il femminismo. Incastrato tra la sua versione storica e “indignata” e l’ultima incarnazione diluita e uber-pop, per il movimento femminista è arrivato il momento di immaginare nuove strade, scrive il 31 maggio 2018 Virginia W. Ricci su "Rollingstone.it". Femminismo è un termine-leviatano che ci capita di sentire almeno una volta al giorno e che allo stato attuale è in grado di ricoprire una superficie di significati talmente ampia da mandare in tilt parecchi cervelli ogni volta che qualcuno lo utilizza. Poco tempo fa mi è stato chiesto di presentare un saggio appena pubblicato in Italia di un’autrice americana. Il libro ha un titolo provocatorio, Why I Am Not a Feminist: A Feminist Manifesto (Perché non sono femminista. Un manifesto femminista – Sur, traduzione di Giuliana Lupi) e devo dire che il titolo non è l’unica provocazione a cui l’autrice Jessa Crispin è ricorsa nella stesura del saggio. Il punto di partenza e l’arteria che percorre tutto il discorso di Crispin è un interrogarsi, anche in maniera abbastanza impietosa, sullo stato attuale del femminismo: dal logoramento del suo significato originario all’utilizzo del termine come strumento di marketing, il cosiddetto femminismo POP che vediamo su Instagram e su molte T-Shirt. È un dato di fatto che un certo modo di intendere il femminismo, quello più legato al concetto di empowerment (il tuo corpo è bellissimo, you can do it, puoi arrivare ovunque tu desideri, devi volerti bene eccetera eccetera) sia di gran lunga più vendibile rispetto a una concezione più radicale ed estrema, più marcatamente politica. Il femminismo dei reggiseni bruciati, degli aborti clandestini e delle rivendicazioni di classe è stato messo in ombra da un suo figlio più docile e individualista, perfetto per diventare uno slogan legato a qualche marchio di cosmetici o a una maglia Dior da $700. Tempo fa leggevo sul New Yorker un articolo molto interessante che parlava di Reddit, in cui i Social Network venivano definiti come una festa: all’inizio gli invitati sono pochi e tutti amici dell’organizzatore, tutti quanti appartengono alla stessa bolla e si presuppone che la pensino più o meno allo stesso modo. Poi la festa si allarga e va fuori controllo. L’autore faceva questo esempio per raccontare di come Reddit ai primi tempi fosse un luogo prediletto unicamente da smanettoni – programmatori, designer, gente di Cupertino insomma – e adesso è stato costretto a infrangere la sua promessa di mantenersi sempre un luogo di assoluta libertà d’espressione per via di qualche suo subreddit degenerato pericolosamente in roba di sesso con animali, razzismo, sessismo, ma soprattutto per via delle accuse di essere il luogo d’incontro e proliferazione di alcune espressioni di estremismo politico che pare abbiano addirittura influenzato le ultime elezioni americane. Fortunatamente nel femminismo non è accaduto niente di così greve, ma anche in questo caso la festa ha iniziato ad attirare così tanti invitati che adesso il senso originario è per forza di cose sommerso dalla popolarità. Un po’ come quando ci lamentiamo che il nostro artista del cuore non è più lo stesso perché si è svenduto. Jessa Crispin esordisce ponendo una netta distinzione tra ciò che per lei significa essere femminista e ciò che invece appartiene a una sfera interpretativa che allontana, più o meno colposamente, il concetto dal suo senso e dalla sua funzione politica. “Perché il femminismo sia gradito a tutti,” scrive, “bisogna fare in modo che i suoi obiettivi non inquietino nessuno; quindi le donne che si battevano per un radicale cambiamento della società sono fuori. Eppure lo scopo del femminismo era proprio inquietare. Perché una persona, o una società, operi dei cambiamenti drastici, deve avvenire un cataclisma mentale o emotivo. Bisogna sentire, e forte, l’esigenza di cambiare perché ci si adoperi per il cambiamento. E un femminismo in cui tutte sono a proprio agio è un femminismo in cui ognuna lavora per il proprio interesse personale, anziché per quello collettivo. Perciò, mentre il femminismo è ormai di moda, la concreta azione femminista per creare una società più equa è malvista come sempre.” Ci troviamo di fronte a un paradosso, qui scoperchiato in maniera anche abbastanza perentoria da Crispin: da una parte il movimento femminista tende naturalmente a universalizzarsi, a includere in sé opinioni e visioni che non hanno nulla a che vedere con l’intento programmatico di ribaltamento delle logiche patriarcali che stava alla base del femminismo radicale. Dall’altro lato lo stato attuale del femminismo di lotta è per molti versi respingente, soprattutto per via di quella “cultura dell’indignazione” che va per la maggiore su Internet e sembra essere l’espressione più frequente del femminismo meno pop. L’indignazione, come giustamente fa notare Crispin, è spesso rivolta verso un caso particolare: un individuo, un gesto, un commento infelice, un’uscita ignorante di qualche troll, un fischio per strada. Si ricorre alla forza collettiva (quella di un hashtag, per esempio) per denunciare singoli casi di molestia fisica o intellettuale, ma questo modo di procedere risulta in fin dei conti inefficace: “Ormai ci sono soluzioni rapide all’indignazione,” scrive Crispin. “Uno viene licenziato, un altro bandito da Twitter, un altro ancora costretto a ipocrite scuse pubbliche – e la gente sta imparando a tacere. Non dire una battuta sessista non significa che il sessismo di fondo non esista più. La gente è soltanto diventata più brava a nascondere i suoi pregiudizi.” Un’altra conseguenza paradossale è che l’esigenza delle donne di mettersi al sicuro finisce per essere strumentalizzata da forze politiche che la indirizzano verso problemi sociali che vorrebbero eliminare a prescindere (vedi alla voce immigrati che stuprano). Non si agisce sulle cause scatenanti della violenza o del sopruso, piuttosto ci si arma per rimuovere i suoi effetti più scomodi per tutti. “Alla fine,” obietta Crispin, “le cause non affrontate troveranno modi nuovi di manifestarsi sotto forma di problemi. Strappate le erbacce finché volete, ma se non estirpate l’intera radice torneranno a spuntare sempre.” Sembra insomma che la rimozione del problema di fondo, che sia operata dal femminismo pop per cui va tutto bene, you can do it, oppure da quello per cui per così dire non va bene niente, si limiti a spostare l’attenzione dal nodo problematico di fondo, che Jessa Crispin, come altri autori le cui opere sono state pubblicate in Italia recentemente (penso a Realismo Capitalista di Mark Fisher, tradotto da Valerio Mattioli per Nero Editions) individuano nel capitalismo stesso, con il suo individualismo metodologico sotteso a logiche di successo e insuccesso legate alla struttura patriarcale della società. Tendiamo a chiuderci in una bolla e a riportare ogni problematica ai suoi confini, senza vedere che in questo modo ci condanniamo a un’autoreferenzialità che non è in grado di cambiare le cose, ma finisce per conformarsi alle dinamiche che denuncia. Questa procedura è ben evidenziata da Crispin anche quando si parla di terminologie di lotta. “Con il pubblico femminista che enfatizza così tanto l’uso del linguaggio e della terminologia giusti, e bada così poco alla legittimità e alla forza delle idee sotto la superficie, il dibattito femminista è diventato vacuo,” scrive parlando della demonizzazione di chi sbaglia a parlare, rendendo molto difficile l’accesso al dibattito non solo a chi ha punti di vista discordanti, ma anche a chi non possiede un bagaglio culturale e lessicale sufficiente. Il paradosso che il femminismo contemporaneo deve affrontare è quindi duplice: se da un lato è fin troppo aperto e universale, dall’altro finisce inesorabilmente per parlarsi addosso. È la vecchia storia dei tre orsi di Riccioli D’Oro: una minestra è troppo fredda, l’altra troppo calda. Peccato che nel nostro caso la terza ciotola non sia pervenuta. Pur non esistendo una risposta definita, trovare questa terza strada sembra essere l’unico modo per evitare di sovraesporre semanticamente il termine femminismo e allo stesso tempo rendere accessibile la lotta anche a chi non mastica tomi di Gender Studies. Servono nuovi simboli in cui riconoscersi collettivamente, un nuovo linguaggio e nuovi strumenti di analisi e reazione. Personalmente sono convinta che la diffusione culturale e l’inclusività siano fondamentali per riscrivere collettivamente le regole del gioco, ma allo stesso tempo non si può rinnegare il lato più controverso, incazzato e doloroso della battaglia (ad esempio invitando Asia Argento ai David anziché affidare a Paola Cortellesi e altre attrici co-firmatarie dell’utilissima lettera contro le molestie un siparietto semi-comico che ha più o meno la stessa efficacia della bandiera arcobaleno per la pace nel mondo) perché con gli slogan sulle magliette si rischia di coprire le ferite aperte anziché curarle. La soluzione, come fa notare giustamente Crispin, non sarà comoda e forse non sarà nemmeno così gratificante, dato che gli effetti delle nostre battaglie probabilmente non saranno visibili che dalle prossime generazioni: “Dobbiamo capire il nostro potere, capire che non siamo in balia di questa cultura. Ne facciamo parte. Possiamo modellarla. Ma ciò richiede dell’attività concreta, non il semplice commento dell’esistente. Smettiamo di reagire agli ingranaggi. Rivolgiamo il nostro attacco alla macchina stessa.” Questo è un buon momento per iniziare una rivoluzione, ma come dice il nostro amico Gil Scott-Heron “The Revolution Will Not Be Televised”, quindi teniamo conto di dovercela sudare, di dover studiare, pensare e parlare molto più a fondo di quanto abbiamo fatto finora, e di farlo tutti insieme.

Così gli hippy e il femminismo hanno cambiato anche il sesso. Con la Contestazione, la famiglia tradizionale è entrata in crisi Ma in Italia ha prevalso una visione più marxista che libertaria dell'eros, scrivono Francesco Alberoni e Cristina Cattaneo Beretta, Martedì 24/07/2018, su "Il Giornale". Oggi con l'espressione «Il '68» si designa un'epoca di profonda trasformazione della vita sociale e politica creata dai movimenti giovanili fra gli anni 1960 e 1970. Tutto è cominciato nei primi anni '60 in California col gruppo Evergreen ed ha avuto la sua prima manifestazione politica a S. Francisco nel free speach movement del 1964, poi si è articolata in diverse correnti: alcune anti Vietnam, altre per la liberazione dei neri, ed una che voleva il rinnovamento della vita quotidiana sessuale ed emotiva «qui ed ora». Una corrente che chiameremo per semplicità hippy ed è da questa più che da ogni altra che è venuta la rivoluzione sessuale. La prima conseguenza della rivoluzione sessuale fu la rottura dei legami di coppia. Era il modello stesso dell'amore di coppia ad apparire improvvisamente superato, malato e paralizzante e fu naturale pensare di sostituirlo con un modello più ampio e libero: un ideale di appartenenza al gruppo, di fratellanza che sfociava in un rafforzamento dei legami erotici comunitari. Si diffuse la convinzione che non era bene legarsi a una singola persona, perché i legami legano e una persona sola non esaurisce mai il mondo dell'altro, per quanto ricca sia la sua personalità e i suoi talenti. Questo processo rivoluzionario è avvenuto all'interno di un processo più ampio politico, sociale culturale. Di quegli anni di grande fervore ricordiamo anche grandi affollamenti come Woodstock, ma ne avvenivano un po' ovunque, anche in Italia: erano ritrovi dove i giovani stavano nudi come se fossero vestiti e facevano l'amore liberamente senza l'idea di possedersi e senza obblighi. Avevano il senso di una liberazione sconfinata, non solo dai legami ma dalle responsabilità della vita. Di colpo si era liberati dal peso dell'ingresso nell'età adulta: un taglio netto dall'oppressione della società che costringeva i giovani, dopo la breve parentesi degli anni universitari, a perdere le energie migliori per tuffarsi in matrimoni tediosi, lavori tristi e marmocchi piangenti. Non la si voleva più quella vita già finita prima di iniziare: non si voleva la responsabilità, l'impegno, la fatica fisica, gli obblighi sociali, le pappe e i pannolini. Quella generazione guardava con commiserazione il mondo dei suoi genitori, così privo di eros e di spontaneità e creava un futuro nuovo, libero ed esaltante. Ma sbaglieremmo a legare la rivoluzione sessuale al solo mondo hippy. Nel 1966 usci il libro La mistica della femminilità di Betty Friedan. La Friedan attacca e deride l'ideologia americana della donna che sogna di realizzarsi nel matrimonio e nella cura del marito e dei figli rinunciando ad ogni progetto professionale e di inserimento nel mondo politico. Chiuse nelle loro villette suburbane le giovani donne americane che spesso avevano studiato al college, morivano di noia mentre nel frattempo le loro compagne si scrollavano di dosso matrimonio, famiglie, lavoro per vivere liberamente il sesso, la musica e la droga. L' incontro fra il messaggio colto della Friedan e la vita concreta hippy ebbe un effetto esplosivo da cui nacque il movimento femminista. Questo processo di trasformazione arrivò in Italia con alcuni anni di ritardo, verso il 1966 come cambiamento nel campo dell'abbigliamento del costume e dello svago (rock, cappelloni, locali piper, musica dei Beatles etc. ), poi, improvvisamente nell'autunno del 1967 sul piano politico con la nascita, fra L'università Cattolica e la Statale di Milano, del movimento studentesco marxista. Anche il femminismo per molto tempo in Italia è stato declinato in termini marxisti, l'uomo come il capitalista proprietario che sfrutta il lavoro delle femmina operaio. Questa corrente di pensiero vedeva nell'esaltazione della grazia e dell'eleganza femminili una delle cause più forti della sua sottomissione. Sino a che la donna avesse accettato di abbellire e impreziosire il suo corpo, come le veniva insegnato a fare sin dalla più tenera età, sarebbe sempre rimasta un oggetto di desiderio e soddisfacimento del maschio padrone, perdendo così la propria capacità di svilupparsi come un soggetto pensante, libero e autonomo. L'educazione alla bellezza è stata per lungo tempo ritenuta uno dei fattori che maggiormente avevano storicamente contribuito a tenere le donne in condizione di quasi servitù, disinteressate allo studio e incapaci di riflettere, salvo poche eccezioni. Vi fu anche un vero attacco all'innamoramento, che predisponeva le donne alla rinuncia di ogni ambizione personale per amore e un attacco alla coppia monogamica. Nelle comuni marxiste doveva valere il comunismo erotico: le donne dovevano accoppiarsi coi compagni maschi che lo desideravano senza pretese di esclusività e quindi senza gelosie, poi dedicarsi alle attività politiche e sociali. Poi, con il trionfo della moda Italiana in tutto il mondo, questo atteggiamento è stato abbandonato e la bellezza e la valorizzazione del proprio corpo è stata vista come un mezzo di emancipazione sul maschio, La tradizionale antinomia bellezza intelligenza è del tutto caduta. E oggi? Buona parte di ciò che accade ora è la conseguenza dei processi che abbiamo descritto. Gli ordini del passato sono saltati e siamo in una fase di sperimentazione, dove coesistono sia relazioni di tipo tradizionali, e nuove forme di famiglia allargata e ricostruita, erotismo senza amore e con amore. La sessualità e diventata sempre più precoce come l'uso di droghe. Si stanno diffondendo anche forme di amicizia erotica più leggere e promiscue. Il maschio dopo una fase di smarrimento si è reso conto di poter trovare nella donna non solo una concorrente agguerrita, ma anche una partner intelligente e capace sul lavoro e nella vita La caduta dei pesanti tabù sessuali ha fatto scoprire a entrambi il sesso piacevole e privo di rischi. Non possiamo prevedere il futuro, possiamo segnalare solo alcune tendenze in atto. Il sesso precoce si accompagna alla bisessualità, la separazione fra sesso e amore porta a nuove tensioni amorose. La crisi della coppia genera una caduta della natalità.

Raccolta dei migliori aforismi e delle frasi più interessanti sul femminismo e sulle femministe. In appendice, alcuni slogan femministi, la maggior parte dei quali coniati negli anni '70 del Novecento. Secondo una definizione abbastanza articolata di Umberto Galimberti, il femminismo è un "movimento socioculturale teso a effettuare una ricognizione dell'identità femminile in contrapposizione agli stereotipi ideologici consegnati dalla tradizione storica e determinanti la condizione attuale della donna, dove è leggibile, più ο meno esplicitamente, lo scenario delle repliche della subordinazione della donna all'uomo e la sua conseguente esclusione dal mondo delle decisioni storiche. A questa esperienza collettiva corrisponde l'esperienza più intima e individuale di una presa di posizione critica della donna rispetto a ciò che assume la fisionomia di un destino sessuale: di qui l'esigenza di un raffronto di taluni atteggiamenti e ruoli che si presumono istintivi e connaturati alla, femminilità on le diverse mozioni culturali che scavano dialetticamente il vissuto femminile". [Dizionario di psicologia, UTET 1992]. Come introduzione a questa raccolta di citazioni sul femminismo, riportiamo una riflessione di Maria Venturini: "Si può essere felici di vivere in un mondo in cui una buona metà degli esseri viventi è considerata violentemente o blandamente inferiore a causa del proprio sesso? Il femminismo nasce da questa domanda, diventa filosofia non da oggi − risalgono alle donne monacate a forza fin dal sedicesimo secolo dopo Cristo le prime forme di autocoscienza e di rifiuto di questo grande sopruso della storia − scrive attraverso molti protagonisti, donne e uomini, pagine teoriche di straordinaria efficacia e bellezza, ma ancor oggi è costretto a confrontarsi con l'impermeabilità di un'opinione pubblica che scambia una grande rivoluzione di pensiero con incomposte manifestazioni di piazza. E può una donna cosciente di tutto ciò vivere felice accanto ad un compagno conosciuto ed amato nell'equivoco ante-femminismo? Molte furono le separazioni, le rotture di legami matrimoniali considerati solidissimi, nel momento dell'ultima ventata femminista, agli inizi degli anni '70; ed erano le donne ad andarsene. Avevano sperimentato tutta la verità delle parole di John. Stuart Mill "Al di sotto di ogni uomo, anche il più reietto, c'è una donna che subisce"; una dominazione che "differisce da tutte le altre perché volontariamente accettata". Ne conseguiva inevitabilmente che il privato era "politico" e si cercava, attraverso la rottura, una propria nuova dignità. Molte donne hanno evitato il trauma della separazione e si sono dedicate all'educazione femminista delle proprie figlie, e dei figli maschi, convinte che si può essere felici anche consapevoli di vivere dentro una rivoluzione incompiuta. Del resto, quanti sono, realisticamente, i casi di felicità totali ed assolute? [Dizionario delle felicità, 1998]. 

Su Aforismario trovi altre raccolte di citazioni correlate a questa sui diritti delle donne e sull'emancipazione femminile.

Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce ha bisogno di una bicicletta. (Irina Dunn)

Ho sempre avuto ben chiaro che dovevo lavorare, perché non esiste femminismo che si rispetti che non sia basato sull'indipendenza economica. Isabel Allende, Il mio paese inventato, 2003

Il femminismo è la teoria, il lesbismo è la pratica. Ti-Grace Atkinson (attribuito)

Cosa succede, a una civiltà, per passare in meno di cent’anni dalle gonne sotto al ginocchio della Lenglen ai body di Serena Williams? Per dire, è un fenomeno ascrivibile alle conquiste del femminismo, o al trionfo del maschilismo? Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, 2013

Colgo l’occasione per annotare il precetto femminista per cui non bisognerebbe usare l’articolo davanti ai nomi di donne – la Merkel, la Woolf – è una boiata pazzesca. Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, 2013

Il femminismo che vedo intorno è avido di via trita. C’è molta agitazione, ma le idee sono sbiadite e poche. Mentre le bambine schiamazzano i lupi hanno già fatto tutto. Guido Ceronetti, La carta è stanca, 1976

Uno degli impliciti, seppur non ammessi, pilastri del femminismo è stato un fondamentale disprezzo per i maschi. Wendy Dennis (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

L'emancipazione della donna e il femminismo sono prodotti tipici del mondo e della cultura borghese, uno sciagurato appiattimento del femminile sul modello maschile. Massimo Fini, Dizionario erotico, 2000

Anche il sesso femminile sviluppa un complesso edipico, un Super-io e un’epoca di latenza. Gli si può attribuire anche un’organizzazione fallica e un complesso di evirazione? La risposta è affermativa, ma la situazione non può essere identica a quella del maschio. La richiesta femminista di una parità di diritti per i due sessi non può su questi temi andar molto lontano: la differenza morfologica non può non riflettersi in disparità dello sviluppo psichico. Parafrasando un detto di Napoleone, possiamo dire che “l’anatomia è il destino”. Sigmund Freud, Il tramonto del complesso edipico, 1924

L'evento più rivoluzionario del XX secolo è stato l'inizio del movimento femminista e il tramonto della supremazia maschile. Non va però dimenticato che la lotta per la liberazione delle donne è appena agli inizi, e che la resistenza opposta dagli uomini non deve venire sottovalutata. L'insieme dei loro rapporti con le donne (compresi quelli sessuali) si è basata e si basa sulla loro presunta superiorità, e già gli uomini cominciano a sentirsi estremamente a disagio e ansiosi di fronte a quelle donne che si rifiutano di inchinarsi al mito della superiorità maschile. Erich Fromm, Avere o essere?, 1976

L'esercizio del potere su coloro che sono più deboli costituisce l'essenza dei patriarcato attuale, come pure del dominio sulle nazioni non industrializzate e sui bambini e gli adolescenti. Il sempre più vasto movimento femminista può rivestire un'importanza enorme proprio perché costituisce una minaccia contro il principio di potere su cui si fonda la società contemporanea. Erich Fromm, Avere o essere?, 1976

Secondo me non è vero che gli italiani sono antifemministi. Per loro la donna è troppo importante, specialmente la mamma. Giorgio Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica, 1998-2000

Essere una casalinga è una professione illegittima. La scelta di servire ed essere protetta, e di pianificare una vita familiare è una scelta che non dovrebbe esistere. Il cuore del femminismo radicale è di cambiare tutto ciò. Vivian Gornick, discorso, Università dell'Illinois. 1981

Ci sono cose, dentro al femminismo, che mi ricordano l'intolleranza delle religioni. Billie Jean King (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

Il femminismo non è fatto degli strilli delle oche sempre contente di salvare il Campidoglio. Alle sue origini c'è studio e conoscenza del pensiero femminile e femminista. Maria Antonietta Macciocchi, su Amica, 1988

Che è successo, in Italia, in questi ultimi anni? Dove sono finite le conquiste femministe? È possibile che le donne accettino con rassegnazione la regressione profonda della società e il ritorno di dichiarazioni e atteggiamenti maschilisti o reazionari? Michela Marzano, Sii Bella e Stai Zitta, 2010

Per secoli, si è preteso che, a differenza dell'uomo, capace per sua natura di contribuire allo sviluppo della vita pubblica e all'organizzazione della società, la donna dovesse accontentarsi del ruolo di moglie e di madre, per essere l'angelo del focolare obbediente e sottomesso. Non è un caso che l'obiettivo principale del femminismo e di molte intellettuali consista, ancora oggi, nel decostruire queste immagini stereotipate della femminilità. Michela Marzano, Sii Bella e Stai Zitta, 2010

Il femminismo, quante sciocchezze. Sono gli uomini a essere discriminati. Non possono fare figli. E nessuno può porvi rimedio. Golda Meir (attribuito)

Che cos'è il femminismo? È la convinzione che le donne debbano essere libere quanto gli uomini, per quanto siano stupide, tonte, illuse, malvestite, grasse, pigre, compiaciute o con i capelli un po’ radi. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Femminismo. Sì: credo che sia giusto, prima di far fare un figlio a una donna, domandarle se lo vuole. Jules Renard, Diario, 1887/1910 (postumo, 1925/27)

Il femminismo è non contare sul Principe Azzurro. Jules Renard, Diario, 1887/1910 (postumo, 1925/27)

Vengo tacciata di «femminismo» tutte le volte che esprimo sentimenti che mi distinguono da uno zerbino o da una prostituta. Rebecca West (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

Per la setta femminista, le donne non sono l'ispirazione, ma la materia prima nel senso peggiore della definizione. Sono oggetti convenienti utili allo scopo di infiammare l'odio contro la religione cristiana, contro gli uomini, contro la bellezza delle donne, contro l'equilibrio delle famiglie. Il femminismo è questo, e posso garantire che è così perché ci stavo dentro! Sara Winter, XXI sec. (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

C'è un femminismo estremista che non amo. [...] Soprattutto per due suoi aspetti. Il primo: l'ostilità verso l'uomo. Mi sembra che nel mondo ci sia già troppo ostilità – bianchi e neri, destra e sinistra, cristiani e non cristiani, cattolici e protestanti – che non c'è bisogno di creare un altro ghetto. [...] Il fatto di considerare che sia un progresso per la donna moderna mettersi nella stessa condizione dell'uomo moderno – il manager che fa affari, il finanziere, il politico – senza vedere il lato assurdo e anche inutile di queste attività. Marguerite Yourcenar, intervista di Elisabetta Rasy, su Panorama, 1982

Ho delle grosse obiezioni nei confronti del femminismo quale si presenta oggi [...] La donna sembra aspirare alla libertà e alla felicità del burocrate che se ne esce di casa ogni mattina con una cartella sotto il braccio o dell'operaio che timbra il cartellino in fabbrica. Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti: conversazioni con Matthieu Galey, 1982

Sono in rotta con il femminismo che ancora parla di uguaglianza, mentre è la disuguaglianza che importa. Adriana Zarri, su Corriere della Sera, 1989

Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società. Anonima, su Manifesto di Rivolta femminile, 1970

Il femminismo è l’unico esempio, nella storia, d’una rivolta dei padroni contro gli schiavi. Anonimo (citato in Gesualdo Bufalino, Bluff di parole, 1994)

La parte più divertente di essere una femminista è senza dubbio quella di terrorizzare gli uomini. (Julie Burchill)

Una buona parte − e senza dubbio la parte più divertente − di essere una femminista è quella di terrorizzare gli uomini. [A good part − and definitely the most fun part − of being a feminist is about frightening men].

Julie Burchill (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

Ogni donna deve essere desiderosa di essere identificata come una lesbica se vuole essere completamente femminista. Sheila Cronan (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

Le femministe sono tutte contente perché, a sentire loro, hanno ottenuto la parità. Bella parità, dico io. Almeno, una volta, gli uomini si alzavano in tram, per cederci il posto. Adesso, invece, restano seduti e ci guardano con aria strafottente, quasi a dire: "L'hai voluta la parità? E allora resta in piedi che ti fa bene!". Luciano De Crescenzo, Croce e delizia, 1993

Le femministe, mettendo l'uomo continuamente alla gogna, rischiano di farne un martire. Roberto Gervaso, Il grillo parlante, 1983

Ciò che, in fondo, le femministe vogliono è la ribellione dell'uomo a se stesso. Roberto Gervaso, Il grillo parlante, 1983

Per le femministe, ogni uomo è un maschio. Roberto Gervaso, Il grillo parlante, 1983

Sono le antenate selvagge delle moderne femministe e dimostrarono che le femmine, essendo capaci di uccidere alla pari dei maschi, avevan gli stessi diritti degli uomini. Domenico Giuliotti e Giovanni Papini, Dizionario dell'omo salvatico, 1923

La prima femminista del mondo a bruciare il reggipetto è stata Giovanna D’Arco. Makaresko-Trani (fonte sconosciuta - segnalala ad Aforismario)

È tecnicamente impossibile per una donna non dirsi femminista. Senza il femminismo non avreste il permesso di dibattere su quale sia il posto della donna nella società, perché sareste troppo impegnate a partorire sul pavimento della cucina mordendo un cucchiaio di legno per non disturbare la partita a carte degli uomini in salotto, per poi tornare a sturare il water. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Ecco un breve test per scoprire se siete femministe. Mettetevi una mano dentro le mutande e fatevi queste due domande: a) Hai una vagina? b) Vorresti poterla controllare? Se avete risposto «sì» a entrambe, congratulazioni! Siete delle femministe. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Negli ultimi anni ho spesso interpellato le femministe moderne affinché rispondessero alle domande che mi attanagliavano, ma mi sono resa conto che quella che fu una delle rivoluzioni più entusiasmanti, più incendiarie e produttive di tutti i tempi si è ormai ridotta a pochi argomenti, sempre più deboli, dibattuti da una ventina di accademiche all'interno di libri che soltanto altre accademiche leggono e sono disposte a discutere nei talk-show in seconda serata. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Non credo basti usare la parola «femminista» in sé; io voglio affondare la lama e riportare in auge il termine accompagnandolo all'aggettivo «accanita», che rende l’espressione molto più affascinante. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Un uomo femminista è uno dei prodotti finiti più splendidi dell’evoluzione. Caitlin Moran, Ci vogliono le palle per essere una donna, 2011

Non credete all'uomo femminista. È solo un espediente per scopare di più. Davide Morelli (Aforismi inediti su Aforismario)

Per secoli gli uomini hanno ammesso che le donne fossero più sante di loro e le hanno consolate per la loro inferiorità affermando che la santità era più desiderabile del potere. Alla fine le femministe decisero che volevano e santità e potere, giacché le pioniere credevano sì a tutto ciò che gli uomini avevano detto circa i pregi della virtù, ma non credevano affatto a ciò che essi avevano detto circa lo scarso valore della supremazia politica. Bertrand Russell, Elogio dell'ozio, 1935

Tutti, femministe e femministi, sono d’accordo nel ritenere che la generica superiorità intellettuale – qualora rilevabile – dell’uomo sulla donna nella maggior parte dei campi del sapere umano, sia dovuta esclusivamente a fattori socio-culturali. Ciò è ormai fuori discussione. Resta soltanto un dubbio, e cioè come mai in migliaia di anni di storia della civiltà, tutti questi fattori socio-culturali siano andati sempre a favore dell’uomo e mai della donna. Giovanni Soriano, Malomondo, 2013

La questione è molto semplice, ogni donna deve essere desiderosa di essere identificata come una lesbica se vuole essere completamente femminista. Anonima, National NOW Times, 1988

Non più puttane, non più madonne, finalmente donne. (Slogan femminista)

Immagine: We Can Do It!: Possiamo Farlo!, J. Howard Miller, 1943

Slogan femministi

Col dito, col dito, orgasmo garantito!

Donna, non stare lì a guardare, scendi in piazza e vieni a protestare!

Donne riprendiamoci il nostro corpo.

Io sono mia!

L'utero è mio e lo gestisco io!

Le donne hanno le loro colpe, gli uomini ne hanno solo due: tutto ciò che dicono e tutto ciò che fanno.

Non più puttane, non più madonne, finalmente donne. 

Per ogni donna stuprata e offesa siamo tutte parte lesa.

Se prendi un uomo, ributtalo indietro. 

Se gli uomini potessero restare incinti, l'aborto diventerebbe un sacramento.

Tremate, tremate, le streghe son tornate!

Un figlio? Lo voglio, ma quando voglio!

Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce di una bicicletta.

Ai maschi proibito sedersi a gambe aperte su bus e metro di Madrid, scrive l'8 giugno 2017 "Il Corriere della Sera". Maschi spagnoli e di tutto il mondo: se salite su un mezzo pubblico di Madrid, attenzione a rimanere composti; una campagna avviata dalla municipalità retta dalla «alcaldesa» (sindaca) Manuela Carmena, eletta nelle liste di Podemos, inviterà infatti gli uomini a non sedere a gambe aperte su bus e vagoni della metro per rispetto delle donne che potrebbero trovarsi accanto a loro. Il contatto tra le gambe del passeggero maschio e della donna potrebbero infatti configurare secondo la municipalità di Madrid, una forma di molestia. «Hombre despatarrado» è la definizione della postura messa al bando dall’ordinanza; a partire dalla prossima settimana compariranno sui mezzi pubblici icone che consigliano di mantenere una postura adeguata. Lo ha annunciato il dipartimento comunale per le politiche di genere e per la diversità, dopo una petizione raccolta da alcuni collettivi di femministe: «L’obiettivo delle nuove icone è ricordare la necessità di mantenere un comportamento civico e di rispettare lo spazio di tutti a bordo degli autobus» fanno sapere i promotori dell’iniziativa che ricordano anche come analoghi comportamenti siano vietati sulle reti di trasporto di New York e Tokyo. Sempre secondo i promotori dell’iniziativa, l’«hombre despatarrado» trasmette un’idea di dominazione e di conquista nei confronti del genere femminile. «Gli uomini nella maggior parte dei casi aprono eccessivamente le loro gambe mentre le donne tendono a sedersi in maniera composta» fa notare su «El Pais» Susana Fuster in un commento alla notizia.

Vietato sedersi a gambe aperte su autobus e metrò, Madrid dichiara guerra ai maschi, scrive Costanza Cerasi su “Il Tempo” l'11 Giugno 2017. Vietato sedersi a gambe aperte. Ecco l'ultimo cartello che comparirà, in ordine di tempo, su autobus e metrò di Madrid accanto a quelli che vietano di fumare e di sporcare. La "x" gigante sul fumetto di un passeggero uomo seduto sul sedile con le gambe allargate ricorderà agli utenti che quello è un comportamento scorretto e inaccettabile. Ad annunciarlo è stata l'Agenzia di transito della capitale spagnola per obbligare i cittadini ad occupare a bordo dei mezzi pubblici un solo posto. "L'obiettivo è quello di ricordare ai passeggeri uomini di mantenere un comportamento civile in autobus", ha spiegato la società di trasporto comunale di Madrid. "L'immagine del divieto è simile a quella già esistente in altri sistemi di trasporto in tutto il mondo e indica il corretto utilizzo del sedile", ha dichiarato l'Agenzia di transito. "La città di New York ha già preso una posizione riguardo al fenomeno di manspreading ed è bene che adesso un'altra delle capitali più metropolitane del mondo lo faccia" ha detto la conduttrice del programma americano "Mashable" parlando della notizia. La decisione dell'Agenzia di transito spagnola è stata presa dopo mesi di campagne di sensibilizzazione da parte dei gruppi dei diritti delle donne. All'inizio di quest'anno "Mujeres en Lucha" aveva avviato sui social la campagna #MadridSinManspreading (#MadridWithoutManspreading) contro "l'invasione machista dello spazio".

I maschi non piangono, ma anche sì. Come allevare figli femministi. I consigli del “New York Times” ispirati a Obama: primo, dare il buon esempio, scrive Francesca Sforza il 27/06/2017 su "La Stampa". È passato quasi un anno da quando l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama, in un intervento sul magazine Glamour, scriveva che la vita delle sue figlie era decisamente migliore di quella delle loro nonne, e aggiungeva: «Lo dico non solo come presidente, ma anche come femminista». L’espressione «presidente femminista» fece il giro del mondo, associata a una foto che ritraeva il giovane Barack con un cappello di paglia, sorridente e scanzonato. Ma come si fa a crescere un figlio femminista? A chiederselo, e a tentare una risposta in forma di regole semplici ma non facili, è Clair Can Miller, giornalista del New York Times, che osserva come l’educazione di bambine toste e consapevoli sia più avanzata di quella dei bambini, rimasta invece ancorata a modelli ancora troppo simili a quelli dei loro nonni. L’ultimo bestseller di genere - Storie della buonanotte per bambine ribelli, di Cavallo e Favilli - lo conferma: le ragazzine lo leggono e si appassionano a quelle storie di piccole scienziate, acrobate, cicliste che riescono a realizzare i loro sogni a dispetto di epoche e varie ostilità. Un analogo per bambini non è ancora uscito - chissà se uscirà - e il fatto, al di là delle scelte editoriali, impone di chiedersi se non si stia facendo un superlavoro sulla consapevolezza delle nostre figlie, ma si stia trascurando quella dei figli maschi. Il risultato potrebbe essere quello di costruire - involontariamente - un futuro molto più conflittuale, con ragazze sempre più determinate e combattive, e ragazzi che, non provvisti di nuovi strumenti di relazione, potrebbero faticare a tenere il passo (e arrabbiarsi per questo).  

1. Lascia che pianga. Piangere significa lasciarsi andare, liberarsi, tirare fuori la fatica, la stanchezza, la rabbia, il dolore. In futuro, chissà, significherà essere capaci di confessare le proprie debolezze senza per questo sentirsi sminuiti.

2. Lascialo essere se stesso. Perché se una figlia chiede di mascherarsi da Batman la maggioranza dei genitori lo consente (e sotto sotto lo trova anche gratificante) mentre se il maschio chiede di mascherarsi da ballerina, nel migliore dei casi si corre da uno specialista dei disturbi infantili? La stessa cosa vale per i giochi: si possono costruire collanine senza che questo sia necessariamente indicatore di futuri orientamenti sessuali. Finché si incoraggeranno le figlie a giocare a calcio, ma non i figli a sperimentare, per esempio, un corso di ballo, ogni discorso sull’uguaglianza di genere sarà meno credibile.

3.Il prendersi cura. Come ha scritto Anne-Marie Slaughter, ceo (ad) di New America, «Insegniamo ai nostri figli a cucinare e mettere in ordine la casa così come ci aspettiamo che le nostre figlie sappiano tenere le redini di un ufficio». E apriamo loro le porte del baby sitting, della cura dei più piccoli, della custodia degli animali: dove cresce l’empatia, l’aggressività diminuisce.

4.Il buon esempio a casa. Certo è che se un bambino vede la mamma tutto il giorno in cucina o intenta a lavare e stirare, e il papà che torna stanco la sera e si mette a leggere il giornale coi piedi sul divano, qualsiasi discorso egualitario sarà inutile. L’ultimo studio della Harvard Business School conferma ciò che l’esperienza già suggerisce: «I figli cresciuti da madri che lavorano hanno maggiore predisposizione all’uguaglianza di genere».

5. Incoraggiare amicizie femminili. Niente di meglio, per rinforzare gli stereotipi di genere, che far stare maschi con maschi e femmine con femmine. I bambini che hanno molte amichette, invece, apprendono meglio a comunicare, a mediare, a confrontarsi. E quando saranno più grandi, non troveranno per niente naturale considerare le coetanee prede da conquistare.

6. Il potere delle parole. Usare termini come «femminuccia» in senso dispregiativo, lasciar passare espressioni razziste o discriminanti («Tanto sono bambini»), e anche non insegnare l’importanza di dire sì o no di fronte alle richieste di contatto fisico, non aiuta. Dalle parole passa la nostra visione del mondo.

7. Leggere tutto, e trasformarlo. Si sa, le bambine sono brave in italiano e i bambini in matematica. No invece, proviamo ad appassionare i figli al fascino delle storie così come iscriviamo le bambine ai corsi di informatica. E quando vediamo che le narrazioni indugiano sugli stereotipi di genere, facciamo loro domande: «Perché la mamma indossa sempre il grembiule? Ogni tanto potrebbe avere anche i pantaloni» «Perché i protagonisti sono sempre maschi?». Tanto per smuovere l’attenzione, la curiosità, la vigilanza sulle tante possibilità del mondo.

8. Il bello di essere maschi. L’uguaglianza non passa per il misconoscimento del genere maschile: la forza, l’energia fisica, la messa alla prova sono tutte cose da promuovere. Importante che siano tirate fuori per essere riconosciute, non per essere usate contro qualcuno o qualcosa. Così come il loro istinto di protezione: va incoraggiato perché si eserciti, senza trasformarsi in pretese di sottomissione. Facciamoli correre, arrampicare, sfogare. Per liberare energie, emozioni e sentimenti.

L'astuzia e il potere delle donne. C'era una volta un orfanello che viveva con una sorella sposata. Un giorno, nonostante fosse ancora poco più che adolescente, le disse di volersi sposare. La sorella non era affatto d'accordo, perché, e suo dire, era troppo giovane e non abbastanza maturo per il matrimonio. Il ragazzo insisteva e questa fu costretta a fornirgli un esempio molto istruttivo per mostrargli quanto le donne possono essere potenti e spietate. Gli ordinò di andare al mercato e di comperare un pesce. Quando il ragazzo ritornò con il pesce, lei lo nascose sotto le vesti e insieme si recarono nei campi dove il marito stava arando per portargli il pranzo di mezzogiorno. Mentre il marito mangiava la moglie disse: "Stanotte ho fatto un sogno, sognavo che avremmo fatto una bella festa", poi di nascosto mise il pesce in un solco. Finito il pranzo, l'uomo riprese il suo lavoro mentre lei e il fratello si incamminavano verso casa. "Venite qui" gridò, guardate che cosa ho trovato, Dio ci aiuti, ho trovato un pesce nel solco. Vai a casa prepara tutto, invita i vicini, faremo una bella festa". "D'accordo" disse la moglie. Andò a casa, cucinò il pesce, se lo mangiò con il fratello e nascose le lische. Quando il marito tornò a casa con gli invitati, chiamò la moglie e le chiese se aveva preparato tutto. La moglie si finse stupita e disse: " Hai forse comprato cibo e bevande? Con che cosa volevi festeggiare?". Ma non, ti avevo dato quel pesce che ho trovato nel solco mentre stavo arando?", gridò il marito. La donna si rivolse ai vicini: "Vi prego aiutatemi quest'uomo è impazzito, avete mai sentito che si trovino pesci nei campi?". I vicini le diedero ragione e legarono il marito. "Gettatelo in cantina" disse la donna "in modo che non mi possa far del male". I vicini eseguirono e se andarono. Quella sera la donna prese la macina di pietra e si sedette sopra la botola della cantina a macinare fagioli. L rumore che faceva sembrava il rombo di un tuono. Con la fiaccola passava di tanto in tanto davanti alle fessure, di modo che il marito credesse che fossero i lampi. Infine versò molta acqua sopra l'apertura ed egli dovette rifugiarsi in un angolo per non bagnarsi. La mattina ritornano i vicini per chiedere all'uomo come stava "Grazie a Dio", disse, "Sto bene, anche se cercano di farmi passare per matto. Ma, dettemi come sono ridotti i campi con tutta quella pioggia? Deve aver rovinato tutto!" Allora quelli gli dissero: "Che Dio possa rinsavirti, pover'uomo!". Ormai tutti credevano che fosse davvero pazzo e lo fecero uscire dalla cantina solo dopo due settimane. Il giovane rifletté a lungo su quello che aveva fatto la sorella e decise che non si sarebbe mai sposato.

Il potere delle donne. Libro di Maria Latella. A quante di voi è capitato di essere corteggiate da un collega (o da un capo) che proprio non vi piaceva? È successo anche a Fernanda Contri, famosa avvocato, poi giudice della Corte Costituzionale, che in questo libro spiega il brillante sistema con cui mise al suo posto l’improvvido. “Da allora andò in giro dicendo che ero una donna molto spiritosa.” Capita a tutte di rimanerci male perché hanno promosso un altro. È successo perfino alla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, quand’era ancora una giovane dirigente di Banca d’Italia. In questo libro vi racconta come ha fatto in modo che non succedesse una seconda volta. Capita a tante donne di tornare a casa, la sera, e di vedere soltanto un attimo i bambini perché è tardi e devono andare a letto. I sensi di colpa, poi, rosicchiano il cuore. Succede anche a giovani madri privilegiate come Barbara Berlusconi o la ministra Marianna Madia. In questo libro condividono la lista dei dilemmi che pesa quando si combatte per tenere insieme famiglia e lavoro. Maria Latella accompagna le tappe comuni alla vita di tutti, dal tempo della scuola all’ingresso nel mondo del lavoro, dalle sconfitte alle grandi gioie, attraverso le confessioni esclusive di donne che ce l’hanno fatta. Si raccontano, tra le altre, l’attrice Paola Cortellesi e l’avvocato più richiesto dai potenti d’Italia, Paola Severino, la ministra della Difesa Roberta Pinotti e la presidente della Camera Laura Boldrini, la magistrata Lucia Aielli minacciata dalla camorra e la stilista Frida Giannini. Donne Alfa, si dice oggi. “Da ciascuna di loro ho imparato un trucco per vivere meglio,” scrive l’autrice. In fondo, è lo scopo di questo libro, scritto da una giornalista che da anni segue con attenzione sia le giovani donne che stanno per entrare o sono appena entrate nel mondo del lavoro, sia le loro madri o sorelle maggiori (e i loro padri e fratelli). Chiunque sia curioso e interessato a cambiare qualcosa, a cominciare da se stesso.

Amanti e regine. Il potere delle donne. Libro di Benedetta Craveri. Docente di Letteratura francese all'Università della Tuscia e all'Istituto Universitario di suor Orsola Benincasa, Benedetta Craveri concentra la sua attenzione in questo libro su Versailles e affronta una questione centrale nel corso di tutto l'Ancien Régime: quella legata al potere delle donne. Per secoli è stato infatti predicato che affidare a una donna una qualsivoglia responsabilità di governo fosse "cosa ripugnante alla natura, contumelia a Dio, sovvertimento del retto ordine e di ogni principio di giustizia". Eppure, questo potere a loro ostinatamente sottratto le donne se lo sono arrogato, vanificando di fatto le leggi e le consuetudini. Lo dimostrano le storie di Caterina de' Medici, Maria Antonietta, Diana di Poitiers e tante altre.

Matriarcato e potere delle donne. Libro di Ida Magli. La ricerca condotta in questo libro si svolge essenzialmente in due direzioni: liberare i “fatti” sul piano storico da tutti i dubbi che vi si sono accumulati e al tempo stesso cercare di capire i motivi di quello che è il vero “fatto” storico: la costruzione mitica sul matriarcato. La curatrice del volume ha inteso mettere a disposizione tutti gli elementi “certi” per giudicare della condizione della donna nei confronti del potere, sia con un’analisi di quali siano le fonti del potere nelle società etnologiche e storiche antiche, sia con la presentazione sistematica dei tratti costitutivi del potere in tutte le società a diritto matrilineare. Un quadro etnico–geografico essenziale, che non era mai stato tentato e che porta a conoscenza del tipo di vita e del posto occupato dalle donne nelle società più diverse, da quelle “primitive” dell’Africa e dell’Australia a quelle storicamente famose dei germani e degli sciti. Nell’ultima parte una breve ma significativa raccolta di testi degli autori più discussi illustra i punti centrali della polemica sul matriarcato, attraverso la costruzione “ideale” di Bachofen, le discussioni giuridiche di H. Maine e di L. Dargun sul diritto matrimoniale romano e germanico, e il tentativo originale di Grosse di delineare il tipo di famiglia connesso con le varie fasi di sviluppo dell’agricoltura.

Cosa significa essere femministe e perché tutti dovremmo esserlo. Cosa significa essere donna nel 2017? Rispetto al passato sono stati fatti molti passi avanti verso una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, ma le disparità e le contraddizioni continuano ad esistere, scrive Melissa Puleio il 12/07/2017 su Palermomania.it. Cosa significa essere donna nel 2017? Rispetto al passato sono stati fatti molti passi avanti verso una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, ma le disparità e le contraddizioni continuano ad esistere. Forse è proprio per questo che molte donne oggi stanno rivalutando il concetto di femminismo e non hanno paura di definirsi delle femministe moderne. Ma questo non vale per tutte. Quando una donna si definisce femminista in pubblico, si può vedere qualcuno guardarla con sospetto e pensare “vade retro satana!”. Ma perché? Perché alcune donne sono spaventate dall’idea di definirsi femministe? La risposta sta nell’errata interpretazione che si dà a questo termine. Negli ultimi tempi il femminismo sembra aver conquistato maggiore forza e affermazione nella società, anche grazie ad una più ampia diffusione attraverso i social media e internet in generale. Tuttavia si fa ancora confusione nell’individuare l’esatto significato di questa parola, che spesso viene intesa con un’accezione negativa. Proviamo allora a spiegare cos’è il femminismo sia linguisticamente, paragonandolo al termine maschilismo, sia storicamente. Il maschilismo è essenzialmente una forma di sessismo, cioè una discriminazione nei confronti delle persone basata sul genere sessuale. Si tratta di un atteggiamento basato sulla convinzione che gli uomini siano superiori alle donne. Partendo da un’innata differenza biologica, la minore forza fisica femminile, il maschilismo stabilisce una gerarchia tra uomini e donne, in cui le donne sono considerate “naturalmente” inferiori anche sul piano intellettuale, sociale e politico. Il femminismo, invece, è tutt’altra cosa. Innanzitutto non è un atteggiamento psicologico basato su alcune convinzioni: non è un comportamento basato su una presunta superiorità della donna sull’uomo. Il femminismo è invece un movimento, che ha una nascita ben precisa, più di due secoli di storia e soggetti che lo hanno portato avanti. Tuttavia non c’è stato un gesto eclatante che lo abbia inaugurato e non ha una precisa data di inizio né una data finale. Spesso si scrive che è un movimento carsico, che appare, scompare e poi appare di nuovo all’improvviso. In realtà, secondo alcune pensatrici è più corretto dire che il femminismo è un processo che in alcuni momenti storici si decompone: le protagoniste della sua storia non sono un soggetto politico permanente inserite in un contesto sempre uguale. Nel femminismo ci sono stati momenti di lotta organizzata, identificabili e molto riconoscibili, mentre altri no, e senza che questo significasse mai la dispersione dell’eredità politica e teorica precedente. La terza specificità del femminismo rispetto ad altri movimenti storici è che nel corso del tempo e dei luoghi geografici in cui si è sviluppato ha avuto modi, pratiche, parole e itinerari sempre differenti tra loro, molto articolati e complessi tanto che si preferisce parlare di femminismi al plurale. Quello che si può affermare con certezza è che il femminismo è nato da una semplice e concreta constatazione: appartenere al sesso femminile, nascere donne invece che uomini, significa trovarsi al mondo in una posizione di svantaggio, di difficoltà e di inferiorità. I femminismi si sono, infatti, prodotti nel corso della storia a partire dai processi di esclusione a cui le donne sono state sottoposte. Semplificando, potremmo dire che è perché è sempre esistito il maschilismo, che è cresciuto il femminismo. La differenza col maschilismo è dunque il suo nascere da una condizione storica di non libertà e di non parità, non dall’auto-attribuzione di una presunta superiorità basata sul genere. Qualche tempo fa sul New York Times, la modella e attrice ceca Paulina Porizkova ha scritto una lettera in cui dice di essere femminista e spiega quando e perché lo è diventata. Racconta che inizialmente pensava che la parola femminista fosse superflua e antiquata. Arrivata in Svezia dalla Cecoslovacchia quando aveva nove anni si era accorta da subito che in Svezia il suo “potere era uguale a quello di un maschio”, che i compiti domestici erano divisi equamente, che le relazioni sessuali tra uomini e donne erano equilibrate, che la libertà sessuale di una donna non era considerata disdicevole o motivo di giudizio da parte degli altri, che a scuola durante l’ora di educazione sessuale le avevano spiegato la masturbazione e le avevano insegnato che la maternità è una scelta che le donne potevano fare o non fare. In questo contesto la parola femminista le sembrava antiquata. Porizkova racconta poi che aveva trovato le cose molto diverse in Francia e in America dove, dice, “il corpo di una donna sembrava appartenere a tutti tranne che a lei stessa”: la sessualità apparteneva al marito, la sua opinione su di sé apparteneva ai suoi ambienti sociali e il suo utero apparteneva al governo. Doveva essere madre, amante e donna di carriera (ma con una retribuzione inferiore) pur rimanendo eternamente giovanile e magra. In America, gli uomini importanti erano desiderabili. Le donne importanti dovevano esserlo”. Un’errata convinzione che si è diffusa negli anni è che l’obiettivo del femminismo sia quello di affermare una “supremazia delle donne”: niente di più sbagliato. Oggi è certamente sempre più raro sentire o leggere che “le donne sono inferiori rispetto agli uomini”, ma è molto diffuso, invece, un anti-femminismo che secondo alcune pensatrici non è altro che una forma mascherata di maschilismo: si chiede dunque o di superare la parola femminista o le si attribuiscono significati che quella parola non ha mai avuto. Laurie Penny, giornalista britannica che collabora con il Guardian e che è molto attenta alle questioni di genere, ha provato a spiegare la questione della resistenza al femminismo e delle numerose critiche anti-femministe come una nuova forma di negazione: “A nessuno piace una femminista. Da uno studio è emerso che le persone ancora sono aggrappate ai tipici stereotipi sulle attiviste femministe, stereotipi come “odiatrici di uomini” e “poco igieniche”. Questi stereotipi sembra stiano seriamente limitando la possibilità, per le donne, di abbracciare l’impegno per la liberazione della donna come una scelta di vita […] Il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Lo stereotipo della brutta femminista che nessuno “si farebbe mai”, esiste per una ragione: esiste perché è ancora l’ultima, migliore linea di difesa contro qualsiasi donna che è un po’ troppo forte, un po’ troppo interessata alla politica. Allora le si fa notare che se va avanti così, nessuno la amerà mai”.

La storia del femminismo. La storia ufficiale del femminismo inizia nell’Ottocento ed è stata divisa in tre diverse fasi, dette “ondate”, che corrispondono ad altrettante generazioni di donne decise a battersi per i propri diritti. Ma esiste anche una preistoria del femminismo. Basti pensare alla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, voluta dalla femminista ante-litteram Olympe de Gouges nel 1791, in piena Rivoluzione Francese.

La prima ondata: le suffragette e il diritto di voto. Il termine “femminismo” viene coniato nell’Ottocento per battezzare il neonato movimento per l’emancipazione delle donne. A incarnarlo erano le suffragette, che lottavano per ottenere l’allargamento del diritto di voto anche alle donne. L’epicentro delle loro battaglie è la Gran Bretagna: è qui che nel 1865 nasce il primo comitato per l’estensione del diritto di voto. All’epoca solo gli uomini potevano partecipare alla vita politica, mentre le donne erano relegate in casa, e l’immagine delle suffragette britanniche che marciano su Manchester e Londra per rivendicare il diritto di partecipare alla dimensione pubblica desta grande scalpore in tutta Europa. In Italia ancora non esiste un movimento strutturato, ma alcune donne, ad esempio Clara Maffei e Cristina Belgiojoso, partecipano attivamente al Risorgimento, dimostrando di avere tutte le carte in tavola per contribuire alla vita politica del Paese. Quasi ovunque, però, le suffragette devono aspettare decenni per vedere risultati concreti: il suffragio viene esteso alla popolazione femminile solo nel ‘900. In Europa il primo Stato a permettere alle donne di votare è la Finlandia nel 1906.

La seconda ondata: gli anni Sessanta. Il movimento femminista si risveglia negli Stati Uniti negli anni ‘60 del Novecento. I temi cari alle femministe della seconda ondata sono nuovi e spesso scandalosi per l’epoca: si parla di sessualità, di stupro e violenza domestica, di diritti riproduttivi, ma anche di parità di genere sul posto di lavoro. Sono anni di cambiamenti rivoluzionari: basta pensare che nel 1961 negli Stati Uniti viene messa in commercio la pillola contraccettiva, che permette alle donne di controllare la propria fertilità in modo facile, discreto e soprattutto autonomo. Anche in Italia il movimento femminista prende forma e per la prima volta assume dimensioni di massa. Negli anni ‘70 le piazze del nostro Paese vengono invase dalle donne, decise a rivendicare diritti ancora negati, come quello di divorziare o di interrompere una gravidanza indesiderata. Le battaglie per l’aborto e il divorzio sono le più famose, ma non le uniche. Le femministe italiane si battono anche per modernizzare il diritto di famiglia, ad esempio rimuovendo il cosiddetto “delitto d’onore”, che assicurava pene ridotte agli uomini che assassinavano la moglie adultera. Inoltre, la seconda ondata mette al centro della discussione non il concetto di parità ma quello di differenza: sostiene che solo attraverso l’accettazione delle differenze tra i generi si possa raggiungere una vera uguaglianza.

La terza ondata: gli anni Novanta. Convenzione vuole che negli anni ‘90 sbocci una nuova era per il movimento femminista. Siamo in un’epoca in cui, sulla carta, uomini e donne dei Paesi occidentali hanno pari diritti e pari opportunità, tanto che qualcuno parla di “società post-femminista”. Ma le discriminazioni non sono affatto scomparse, soprattutto nel mondo del lavoro. Le femministe continuano quindi a lottare perché il divario salariale tra uomini e donne venga riconosciuto e colmato, segnalano le difficoltà che le professioniste incontrano nel fare carriera e si battono perché venga istituita una legislazione contro le molestie sul lavoro. Il femminismo somiglia sempre più una rete di femminismi, complice anche l’allargamento a Paesi che avevano vissuto in modo marginale le battaglie degli anni ‘70. Ben presto si affacciano le prime femministe islamiche, e il movimento deve fare i conti con le critiche delle donne di colore, deluse da una battaglia che pur professandosi universale, spesso sembrava guardare solo alle esigenze delle donne bianche. 

Il femminismo oggi. Nonostante anni di battaglie e lotte di rivendicazione dei propri diritti, tantissime ragazze, ancora oggi, sono cresciute pensando che a definirsi femministe fossero solo donne perennemente arrabbiate e piene di risentimento verso gli uomini. Ma non è così. Le femministe oggi, sono giovani donne ironiche e superconnesse, alcune di loro pensano che “una donna senza un uomo sia come un pesce senza bicicletta”, ma anche che per cambiare le cose bisogna lottare insieme agli uomini. Sono piene di riconoscenza per le conquiste di chi le ha precedute, ma non si accontentano: vogliono ridurre il divario salariale tra uomini e donne e conquistare congedi familiari capaci di dare un significato concreto alle parole “conciliazione tra vita e lavoro”; vogliono camminare per strada di notte senza essere molestate ed essere prese sul serio per quello che sono, senza dover rinunciare alla loro femminilità; vogliono che la società capisca che la maternità è una scelta e non un obbligo etico o un compito a cui adempiere. A lungo le donne dei Paesi avanzati hanno pensato di aver conquistato tutto il conquistabile: credevano che le loro società fossero paritarie e che per i tasselli mancanti del puzzle dell’uguaglianza fosse solo questione di tempo. E così all’inizio del nuovo millennio le donne che si definivano femministe erano poche, soprattutto tra le più giovani: nel 2001, secondo un sondaggio, solo il 16 % delle studentesse universitarie americane si descriveva come femminista. Tredici anni dopo, il Times ha proposto di archiviare la parola “feminist”, ma la redazione della rivista è stata sommersa da critiche e ha fatto marcia indietro. Oggi basta una ricerca su Tumblr o Twitter per scoprire migliaia di post taggati #feminism. Insomma negli ultimi anni il termine femminista sembra aver riconquistato terreno, perdendo quelle incrostazioni che lo avevano trasformato in una parolaccia. Ma perché? Alcuni pensano che sia solo una moda. E in effetti questa presa di coscienza collettiva è passata anche da momenti molto pop, come quando Beyoncé si è definita pubblicamente “una femminista moderna”. Ma a spingere tanti giovani a rivalutare il femminismo è stata anche l’esperienza. Nella nostra società i ruoli di genere sono ancora stereotipati: come quando si ha bisogno della pillola del giorno dopo e si fa fatica a ottenerla, oppure quando ci si sente dire che le donne non possono fare carriera perché prima o poi vorranno un figlio. E così si è lentamente formata una nuova ondata, la quarta dai tempi delle suffragette, che ha delle caratteristiche nuove: le nuove femministe sono più tecnologiche, usano internet e i social network per far sentire la loro voce e per sensibilizzare il pubblico. E se il femminismo vecchia maniera è stato accusato di essere troppo bianco e borghese, quello odierno è più sensibile alla questione razziale e ai problemi di gay e trans. Perché essere donna è difficile, ma essere donna ed essere nera, lesbica o transessuale lo è ancora di più e in modo diverso. Lo chiamano femminismo intersezionale, ed è quello fatto proprio, tra gli altri, da Emma Watson, l’attrice 25enne della saga di Harry Potter ora ambasciatrice delle Nazioni Unite. Emma è anche la promotrice della campagna HeForShe, che invita gli uomini a mettere in discussione il sessismo insieme alle donne e non per puro altruismo: anche loro, ha detto l’attrice, sono “imprigionati negli stereotipi di genere”. La definizione di femminismo scelta dall’attrice fa riferimento al cosiddetto “femminismo paritario” o “femminismo di stato”, che deriva a sua volta dalla prima ondata del movimento delle donne, quello dell’emancipazionismo suffragista ottocentesco. “Vengo dall’Inghilterra – dice Emma durante il suo discorso alle Nazioni Unite - e penso che sia giusto che io, come donna, sia pagata lo stesso di quanto sono pagati i miei colleghi uomini. Penso che sia giusto che io possa prendere delle decisioni riguardo al mio corpo. Penso sia giusto che ci siano donne coinvolte per mio conto nel processo politico e decisionale del mio Paese. Penso che sia giusto che mi sia dato lo stesso rispetto che è riservato agli uomini. Ma purtroppo posso dire che non c’è un singolo Paese in tutto il mondo dove le donne possono aspettarsi di ricevere questi diritti. Nessun Paese del mondo può dire di aver raggiunto la parità di genere. […] Nemmeno gli uomini hanno la parità di genere. Non parliamo spesso di uomini imprigionati dagli stereotipi di genere ma io vedo che lo sono, e che quando ne sono liberi, le cose cambiano di conseguenza anche per le donne”. Nel corso degli anni noi donne abbiamo conquistato importanti diritti, basti pensare alla pillola anticoncezionale che ci permette di avere il controllo sul nostro corpo e sulla nostra sessualità. Ma c’è ancora molta strada da fare. Ad esempio, perché ancora oggi una ragazza che vive liberamente la propria sessualità è vista come una “ragazza facile”? Perché un uomo single è uno “scapolo” spesso “appetibile” mentre una donna dopo una certa età è vista come una zitella che non troverà mai nessuno? Perché una donna forte, in grado di imporsi al lavoro è una “rompipalle”, frigida con cui nessuno vorrebbe mai stare? E perché se un uomo ha uno scatto di rabbia è semplicemente un “cazzuto” mentre una donna che fa lo stesso è considerata emotiva e vittima delle sue emozioni? Finché non saranno superate tutte queste contraddizioni, che possono sembrare banali ma che continuano ad alimentare le differenze di genere, non si potrà dire di aver raggiunto la parità. Il primo passo da fare è smettere di avere paura di parole come “femminismo” e cominciare a combattere gli atteggiamenti sessisti e maschilisti, ed è un percorso che uomini e donne devono intraprendere insieme, perché, per riprendere le parole di Emma Watson, “se non noi, chi? Se non ora, quando?”.

TREMATE TREMATE I MASCHI SON TORNATI è il titolo de L’Espresso questa settimana in edicola, scrive Marina Pivetta il 17 luglio 2017 su "Womenews.net". Non è soltanto la violenza dei femminicidi, o delle aggressioni con l’acido a giustificare questo titolo. Sono modalità di comportamento diffuse e spesso accettate dalle stesse donne perché convinte che la loro forza, il loro altruismo, la loro emancipazione, la loro presunta libertà le tenga lontane da ogni discriminazione, da ogni forma di autoritarismo, da ogni condizionamento. Cosa falsa che le porta, senza accorgersi, a sottostare al volere maschile, minimizzandolo. A parlare di questo fenomeno che ormai sta sotto i nostri occhi sono Natalia Aspesi, Federica Bianchi, Manuela Cavalieri, Francesca Mannocchi, Sabina Minardi, Donatella Mulvoni, Valeria Parrella, Chiara Saraceno, Gayatri Spivak. Non rendersi conto di questo mutamento dei comportamenti ci fa tornare indietro. Così rischiamo che vengano cancellate non solo quelle conquiste ottenute in decenni di lotta, ma anche le basi della democrazia e di una cultura dell’uguaglianza dei diritti. Valeria Parrella inizia il suo pezzo ricordando le militanti del PD reggere gli ombrelli ai loro compagni, atteggiamento che ha fatto storcere il naso a molti definendo la cosa maschilista. Come maschilista era la famose frase della Lega “Ce l’ho duro”. Ma il termine maschilista continua Parrella non può essere utilizzato per le due situazioni. E’ necessario dunque fare dei distinguo che l’autrice articola ampiamente nel suo pezzo che conclude con la speranza che oggi ci siano uomini capaci di correggere certi comportamenti che i loro padri più o meno consapevolmente avrebbero voluto trasmettere. Natalia Aspesi si sofferma invece sul potere, soprattutto nei luoghi della politica. Gli uomini quando concedono alle donne certe poltrone queste sono poche e spesso insignificanti se hanno la certezza di gestire il potere con una certa sicurezza. Quando invece le cose si ingarbugliano e per loro diventano ingovernabili ecco comparire la loro generosità. Lasciano così libero il campo alle donne sottolineando la loro magnanimità. Sembra invece disillusa Chiara Saraceno che amaramente sottolinea che il vero problema è che non cambia mai nulla. Se da una parte la Disney dopo anni di sdolcinate principesse ha dovuto proporre figure libere e autonome con un destino diverso da quello imposto dei ruoli sociali, dall’altra parte c’è stata l’offensiva del neo sindaco di Verona, Federico Sboarina, che ha minacciato di mettere al bando alcuni libri gender dalle biblioteche scolastiche. Per battere il sessismo sostiene Gayatri Spivak , docente alla Colunbia University e esperta di studi post coloniali, occorre superare differenze di reddito e di istruzione a livello planetario,  con Trump si sta tornando tragicamente indietro. Il suo governo è di tipo assolutistico. Mentre Federica Bianchi sostiene che le femministe dovrebbero ringraziare Trump visto che dopo la sua elezione si sono rafforzate. Centinai le nuove iscritte alle organizzazioni, aumentate del 40% le donazioni e sono riuscite a manifestare scendendo in piazza in centinaia di migliaia: la famosa marcia del 21 gennaio 2017. Nello speciale dell’Espresso, Francesca Mannocchi ricorda il dramma delle donne nella Mosul appena liberata. Violenza prima, sotto il Califfato, violenza ora!

Donne non caschiamoci: il potere che ci tocca è solo una presa in giro. E' sempre un gruppo di maschi magnanimi che decide se dare una qualsiasi carica a una donna. E non perché sia brava. Ma solo per necessità burocratica: tra venti capi uomini ce ne vuole almeno una per fare parità, scrive Natalia Aspesi il 17 luglio 2017 su "L'Espresso". Signore state in guardia, soprattutto se siete videogeniche e attorno ai 40. I maschi come sempre tramano contro di voi, e qualche ingenua ci è già cascata. All’erta, all’erta! Se per caso simpatizzate stoltamente per un partito o movimento o ancor peggio vi fate parte, oppure se un vicino di casa, un parente, il vostro salumaio, il compagno di università di vostra figlia, o addirittura un pezzo grosso della politica, vi stanno circuendo, lusingando, muratevi in casa, oppure fuggite in chador dove alle donne è proibito anche guidare la macchina. Che libertà! In ogni caso siate furbe e forti, lo siete sempre state nei secoli, per salvarvi. Sappiate dire fermamente di no con la scusa che essendo donne, non meritate simili onori né sareste in grado di esercitarli: parlamentare, governatore, sindaco, ministro, sottosegretario, addirittura premier o capo di Stato? No grazie, sbrigatevela da voi, uomini di potere, il  casino è vostro, voi vi siete dimenticati del paese che sta imparando ad arrangiarsi senza e a non darvi più fiducia, mentre litigate per cose che non sfiorano nessuno, le alleanze, le scissioni, le correnti, in continuo fermento, le elezioni ogni giorno spostate, o domani o tra un anno, e soprattutto in quella che un tempo si chiamava sinistra ogni giorno c’è uno che salta su tutto contento per dire che no, lui è contrario: a qualsiasi cosa. E magari il governo attuale qualcosa di positivo lo sta facendo, ma il fragore di chi è già oltre e sta guerreggiando per il prossimo, è così invadente, che non si riesce a saperne quasi nulla. E intanto non un pensiero per noi che poi dovremmo votare, e siamo oltre le mura, in un polveroso deserto dei tartari. La situazione sarebbe meno oscura se anche le donne si facessero sentire? Nel mondo, le donne si impegnano di più, occupano cariche di grande importanza non solo politica: e per esempio 9 sono capi di governo, 10 capi di Stato. È vero, ma non è detto che le signore che governano il Bangladesh o il Nepal assicurino con premura materna una vita migliore al loro popolo, né che quelle della Birmania o della Polonia siano contente del loro eventuale potere e lo possano esercitare con una certa autonomia. Certo, Angela Merkel è il più potente personaggio politico d’Europa, e anche il migliore. Certo Theresa May, rieletta premier d’Inghilterra, pur fustigata per la Brexit, rappresenta liberamente, se non quietamente, il suo potere, e così Nicola Sturgeon della Scozia, e Ada Davidson, lesbica dichiarata, che è la diretta rivale della May nel suo stesso partito, quello conservatore. Forse gli italiani e le italiane sono diversi, più familisti, più antichi, più ateo-cattolici? Le donne più pigre, gli uomini più presuntuosi? In ogni caso è sempre un gruppo di maschi che decide se dare una qualsiasi carica a una donna: che non è mai la prima persona a venire in mente anche se bravissima, ma una necessità burocratica: tra venti capi uomini ci vuole almeno una donna per fare parità e democrazia! In tutto, anche nell’esercizio della politica. Capita pure che una donna venga proposta come specchietto per le allodole: carina, intelligente, con una sua professione, docile, anche coraggiosa, tanto da accettare una carica pericolosissima che nessun maschio furbastro vorrebbe, e lei,  sprovveduta, per ambizione o stoltaggine, invece dice di sì, tutta contenta: sa che i suoi l’aiuteranno, anzi faranno tutto loro, lei dovrà solo apparire in giro ben pettinata e se sindaco, con la fascia tricolore, e ripetere sempre lo stesso discorsetto senza mai cambiare espressione. I suoi sanno che potranno manovrarla come vogliono, governare senza esporsi, se poi non funziona, si sa, è una donna! Però il progresso c’è: anni fa se una donna si opponeva a qualcosa c’era sempre il furbone che diceva, per forza, ha le sue cose! E non è passato molto tempo da quando tra i nostri uomini di governo c’era chi accusava gioiosamente la Merkel di essere una culona. Ancora oggi in Italia una culona, fortunatamente per lei, difficilmente verrà presa in considerazione per affidarle un ruolo importante, decisionale: perché, lo sappiamo, le culone non saprebbero farlo, sotto lo sguardo contrariato degli uomini. In tutto il mondo, nei paesi provvisti di parlamento, la media delle donne elette è del 22%; nei paesi nordici è del 41%; però in Italia non sono poche, il 31,4%. Ma non è un gran segnale, pensando che ci sono più donne che uomini nei parlamenti del Ruanda e della Bolivia. In quanto ai ministri, se nel governo Renzi le donne erano 8 su 16, cioè la metà, nel governo Gentiloni i ministri sono 18, le donne 5. Meglio così, meno fastidi, meno grattacapi, meno insulti sessisti, come invece deve ancora sopportare la presidente della Camera Laura Bodrini, bella, brava e paziente. Dove se ne stia andando un’Italia furibonda non si sa, l’informazione comunque pare molto contenta perché, dicono, il disastro le giova. Ma è proprio in questi momenti incomprensibili, nell’emergenza o nella fine, che la verità viene a galla: a parlare, gridare, dire la sua, arringare, minacciare, insultare, litigare, attaccare, sono solo o quasi soltanto, uomini, anche i dimenticati, i pensionati, quelli che avevano giurato di occuparsi solo di bimbi africani o di Sacre Scritture. In questo momento pare che il parere delle signore, di qualsiasi carica godano, non sia essenziale, non partecipano al mega e inconcludente dibattito: e qui sta il pericolo, perché quando il ginepraio sarà irrisolvibile del tutto, e governare impossibile, come sempre hanno fatto in passato per professioni scadute socialmente ed economicamente, gli uomini, magnanimi libereranno il campo e verrà chiesto alle donne di rammendarlo, erano tanto brave in passato a farlo con le calze! No grazie. 

Perché le femministe devono ringraziare Trump. "Lei è in forma splendida", così Donald Trump ha elogiato l'aspetto di Brigitte Macron, première dame francese, durante la sua visita all'Eliseo in compagnia della moglie Melania. L'apprezzamento, catturato durante la diretta Facebook trasmessa sul profilo ufficiale di Macron, ha subito scatenato critiche e commenti negativi sui media e sui social network perché giudicato sessista. Se non fosse stato per il maschilismo cosmico del Presidente, le americane non sarebbero mai state costrette a prendere le misure della propria situazione reale, scrive Federica Bianchi il 17 luglio 2017 su "L'Espresso". Si diverte ad afferrare le donne per i genitali. Offende il loro aspetto. Ne ridicolizza talento e intelligenza. E lo fa in modo seriale. Con un riflesso incondizionato. Poi, consciamente, manovra nel Congresso per impedire loro di abortire e sogna di riportarle tra il forno e la camera da letto. Donald Trump, il presidente americano, è diventato sinonimo di maschilismo cosmico: per molti è l’esatto opposto dell’americano vero, un insulto a anni di conquiste civili. Eppure incarna perfettamente quel maschilismo del pioniere coraggioso, bianco e cristiano che l’intellighenzia democratica americana, nonostante mezzo secolo di battaglie, non è riuscita a estirpare e che ha ora ritrovato legittimità. Tanto più forte è l’uomo al potere tanto più bella e passiva deve essere la donna che gli sta accanto. Se brilla è di luce riflessa. Come la moglie Melania, da povera ragazza dell’Europa dell’Est a First Lady d’America. Ma anche come la figlia Ivanka, priva di meriti se non quelli di sangue, sistemata al “tavolo dei potenti”, come è accaduto nel recente G20, quando la conversazione verteva su questioni ritenute minori o fastidiose. Non è un caso che l’anno scorso, quando il settimanale “Time” lo aveva nominato “persona dell’anno” lui si fosse lamentato e avesse ribadito che tante donne avrebbero preferito la dicitura di “uomo dell’anno”. Il leader, nella sua definizione, è naturalmente uomo. Oggi che, grazie a Trump, gli Usa non sono più costretti a essere il faro del mondo e a impartire lezioni di civiltà ai selvaggi d’Asia e ai vecchi d’Europa, possono tornare a mettersi le dita nel naso: nepotismo, razzismo e maschilismo sono tutte sfaccettature dell’altra America, quella che, eletto Barack Obama, sembrava sconfitta. E che invece, colpevole la superba miopia liberale, non ha mai smesso di fare capolino. Secondo un sondaggio condotto tre anni fa su oltre duemila adulti americani tra i 18 e i 34 anni - la generazione dei millennials, nella nostra testa associata al progresso, all’istruzione, al futuro - solo un terzo non si sente messo a disagio dall’idea di avere una donna come presidente, solo il 34 per cento non ha problemi con le donne nel ruolo di ingegneri e solo il 35 per cento accetta una donna a capo di un’azienda Fortune 500. Aveva ragione Hillary a dire che il maschilismo c’entrava e come con la sua mancata elezione. Eppure non fosse stato per il maschilismo cosmico di Trump le americane non sarebbero mai state costrette a prendere le misure della propria situazione reale. Avrebbero continuato a commiserare le casalinghe siciliane e a commuoversi per quelle afghane. A ignorare di essere l’unico Paese dell’Ocse in cui le donne non hanno diritto alla maternità ma sono costrette a lasciare il lavoro per fare figli. La nazione in cui il diritto all’aborto, dopo 45 anni, è ancora pericolosamente precario ma in cui fino a pochi anni fa le cure mediche relative alla maternità erano escluse dall’assicurazione sanitaria (e potrebbero tornare ad esserlo dovesse passare la riforma voluta da Trump). Avrebbero continuato a sottovalutare la differenza tra il loro salario e quello degli uomini a parità di mansione: intorno al 20 per cento, superiore alla media europea. Non fosse stato per “il Maschilista in capo” non si sarebbero nemmeno rese conto che uno dei motivi per cui il 53 per cento delle donne bianche ha votato per Trump (difensore dichiarato dei “veri” americani) e non per Hillary è quella storica frattura tra donne bianche e donne di colore che le rende cittadine di due schieramenti opposti. Dunque in guerra, divise e deboli. E allora ben venga lo schiaffo di Trump. «Ha fatto rinascere l’intero movimento femminista», spiega Stephanie Schriock, presidente dell’Associazione di Emily, il cui obiettivo è far entrare le donne in politica: «È un momento straordinario». Tra l’elezione di Trump e oggi 15mila donne si sono iscritte ai loro seminari: 16 volte in più che nei due anni precedenti. Il gruppo pro-abortista “Pro-choice America” ha registrato un’impennata dei membri del 40 per cento e delle donazioni del 500 per cento. Discorso simile vale per “Planned Parenthood”, organizzazione bersaglio dei repubblicani, che ha visto quintuplicarsi le donazioni. Dalla famosa marcia del 21 gennaio le donne, di destra e di sinistra, hanno preso a organizzarsi a centinaia di migliaia in gruppi e comitati nuovi. Si sono rese conto che è ora di non dare più nulla per scontato. Come ha detto Hillary a Christiane Amanpour in una recente intervista: «È questo il momento di finire il lavoro che abbiamo cominciato».

L'Espresso denuncia il ritorno del maschilismo: e i "maschi" se la prendono con l'Espresso. La nostra ultima copertina dedicata al potere degli uomini, mai sparito ma oggi persino diventato ancora più arrogante nella sua manifestazione, ha scatenato le ire di molti. A dimostrazione che il tema è ancora tabù, scrive il 17 luglio 2017 "L'Espresso". I maschi sono tornati, abbiamo scritto sulla copertina dell'Espresso di questa settimana. E infatti, da quando la cover è stata annunciata, molti di loro, “i maschi”, hanno iniziato ad attaccarci. Il servizio di copertina composto dal lavoro di nove tra giornaliste e scrittrici punta il dito contro discriminazione, autoritarismo e violenza di genere che, pur senza essere mai scomparsi, negli ultimi tempi hanno ripreso a manifestarsi con maggiore arroganza, come svariati esempi dimostrano: dalle “ombrelline” fotografate a tenere al fresco alcuni politici impegnati in un dibattito pubblico fino a certi comportamenti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Un lavoro dalle diverse sfaccettature e con interventi di professioniste di settori diversi che ha scatenato le ire del macho nostrano, impegnato da alcuni giorni a intasare le caselle mail della redazione con lo stesso messaggio copincollato o a commentare e insultare sulla nostra pagina Facebook. Critiche che, come da tradizione del nostro settimanale, accogliamo sempre con piacere ma che, in questo caso, sono spesso sfociate nello sfogo sessista che abbiamo voluto denunciare. Come altro si potrebbe definire il commento: «Ehi, femminucce, se l'Italia e gli uomini italiani non vi piacciono, la soluzione esiste ed è la seguente: trasferirsi altrove. Magari nei "paradisiaci" paesi sudamericani», seguito poco dopo da un altro commento assai più illuminato: «Pretendo le immediate scuse da parte delle stupide galline che per frustrazioni personali generalizzano contro gli uomini». Gli insulti alle giornaliste e autrici del servizio non si contano: «Meritate di essere licenziate in tronco, voi femministe che avete scritto questa fogna» o «Quante donne ci vogliono per scrivere stronzate? Basta vedere in quante hanno scritto st'articolo?». Fino al suggerimento di darsi fuoco: «Siete la feccia, il maschio è stato annientato da merde come voi, la virilità è diventata un crimine. Datevi fuoco». Non manca chiaramente la fronda complottista: «Spettabile redazione dell'Espresso, da cittadino (ahimè maschio), vorrei gentilmente chiedere questo: economicamente, quanto vi rende promuovere le varie campagne governative di diffamazione mediatica dei cittadini di sesso maschile? Spero che lA nostrA spettabile (scusate non riesco a convertirlo al femminile "puro") presidentessA della Camera Laura Boldrini vi stia ringraziando adeguatamente». E per chiudere, dall'insulto al puro delirio il passo è breve. Difficile definire il altro modo questo messaggio arrivato via mail: «Vedo solo donne alle guide di grosse macchinine e gli alberghi tutto esaurito da signore sugli ente che si rilassano col ragazetto (testuale ndr) di turno eppure ho ancora fiducia delle tante mamme e tanti papà purtroppo chi in genere è trascinato e subisce sono i padri che subiscono di continuo false accuse da donne che arrivano ad usare i figli per estorcere denaro i profitti ma abiamo (testuale ndr) scoperto come smascherarvi il vostro è uno dei tanti modi per far soldi mi fate schifo se poi volete affrontare il problema dicendo la verità con dati alla mano non aspetto altro un consiglio andate a fare la calzetta».

Sì, il maschilismo è ancora un problema di cui vale la pena parlare. “Femminismo d’accatto”: il Fatto vs Boldrini, Fedeli, celano la loro “inettitudine”, scrive la Redazione di Blitz Quotidiano il 2 luglio 2017. Da Cronaca Oggi, notizie da Italia e mondo scelte da Marco Benedetto. Un divertente e formidabile quasi violento affondo contro il “femminismo d’accatto” tipo Laura Boldrini o Valeria Fedeli è stato tirato da Silvia Truzzi, giornalista molto brava e donna (finora Boldrini & C. non ci hanno ancora fatto cambiare, per i maschi, la finale del nostro mestiere, che è a, e quindi per loro femminile, in o, giornalisto. Ergo la precisazione è d’obbligo). L’articolo è uscito su un giornale come il Fattoche di sinistra certo è…e anche parecchio femminista, almeno per gli altri (il Fatto, come Repubblica, predica molto bene, ma se cercate donne nel vertice del giornale, non dell’azienda, non ne trovate tante). Divertente e anche coraggioso e anche controcorrente, perché finora non sono pervenuti grandi segni di non ossequio pedissequo mieloso e opportunista, nei confronti delle due icone, diciamo così. Lo spunto: un attacco di Oscar Farinetti, un genio del marketing e altro non ci appulcro a Marta Fana, ricercatrice di economia. La Fana aveva “accusato Farinetti di sottopagare i suoi dipendenti e anche parlato dello sciopero con cui questi avrebbero protestato per le loro condizioni contrattuali”. Le accuse della Fana a Farinetti, basate su quanto di dominio pubblico, sono state anche più articolate, ma le lasciamo ai siti che le hanno riportate, vedessi mai che Farinetti ci querela come ha promesso di fare con la Fana. O che finiamo sbranati da qualche agente del Pd, come ha fatto il deputato Michele Anzaldi. Se lo avesse fatto un berlusconiano ai tempi della Standa, sarebbe venuta giù l’Italia. Il punto dell’articolo di Silvia Truzzi non è costituito comunque dalle imprese di Farinetti o dagli exploit dei suoi difensori. Il punto che Marta Fana, che non concorre al Grande Fratello ma lavora presso l’istituto di studi politici di Sciences Po a Parigi, si occupa di politica economica e in particolare di economia del lavoro e disuguaglianze. Collabora con il Fatto e con la rivista Internazionale. A far saltare la mosca al naso a Silvia Truzzi è stato il fatto che Farinetti furioso si sia rivolto per tutta la trasmissione alla Fana con l’appellativo di “signorina”. Nossignore, ruggisce Silvia Truzzi: il suo titolo è “dottoressa”: “Dovrebbe saperlo Natale Farinetti detto Oscar”, che per rimediare al fatto di non essere laureato come ambivano i suoi genitori ha sbandierato ai quattro venti una laurea ad honorem della Università di Urbino. “In quel “signorina” c’è tutto il disprezzo dei potenti verso chi non lo è: l’aggravante è che Farinetti vuole pure venderci la favola dell’imprenditore illuminato, del nuovo Olivetti”. E qui c’ la morale del discorso: “È davvero stupefacente che a fronte di questo trattamento riservato a una ricercatrice, pienamente titolata a discutere delle materie che studia, nessuna ministra, nessuna sindaca, nessuna sottosegretaria abbia battuto ciglio, quando ormai qualunque obiezione si faccia a queste nostre rappresentanti è bollata come sessismo. Nemmeno un tweet dalla paladina dei diritti lessicali delle donne Laura Boldrini o da Valeria Fedeli, la cui frase più significativa resta quel monito a un incauto giornalista: “Potrebbe chiamarmi ministra, o è complicato?”. Quello che è accaduto in tv prova che questo femminismo da accatto, quando non è un’arma per celare la propria inettitudine, è una bandierina finta, agitata per distrarre e subito ammainata quando, dalla cosmetica, si passa alla politica. Resterà negli annali della Repubblica italiana la messinscena orchestrata quattro anni fa da Laura Boldrini, che ha costretto la Camera a una apertura straordinaria, nemmeno ci fosse da dichiarare la guerra, per fare approvare in agosto invece che un paio di settimane dopo la quasi inutile legge sul femminicidio.

Massimo Fini: "Vi spiego perché le donne non muoiono più dopo gli uomini". 20 Ottobre 2014. "Le donne hanno fatto un altro passo avanti sulla strada della parità. Prima morivano 7 anni dopo gli uomini, adesso questo scarto si è dimezzato: 3,8. Ben gli sta". Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano mette nel mirino il gentil sesso e spiega perché la speranza di vita delle donne si è accorciata nel corso del tempo. In un lungo commento sul Fatto Fini afferma: "Hanno voluto entrare nel mondo del lavoro maschile e ne hanno assunto tutto lo stress, fumano, bevono, si fanno di coca". A questo punto Fini affonda il colpo: "Nella competitività sul lavoro – altra fucina di nevrosi – non hanno rivali. O, per essere più precisi, li hanno: sono le loro colleghe, soprattutto le brutte. Per non retrocedere allo status di “brutte” sono costrette ad acrobazie faticosissime. Già la manutenzione del corpo di una donna impegna un paio di ore al giorno, fra maquillage, capelli, depilazioni, abluzioni accuratissime. Adesso si sono aggiunte palestra, acquagym, jogging (pratica particolarmente insensata: nessuno ha mai pensato seriamente che le gambe delle donne siano fatte per camminare tantomeno per correre)". "Uomo femminilizzato" - Fini poi nel suo attacco al mondo in gonna parla anche della "mascolinizzazione della donna" e dell'uomo che "è ormai femminilizzato": "Mentre infatti la donna oggi marciano su tacco 12, l'uomo si femminilizza". Il commento di Fini ha creato non poche polemiche nella redazione del Fatto Quotidiano. E così la risposta arriva da Silvia Truzzi che sempre sul Fatto attacca Fini. Risposta al veleno - Femminismo alla mano, la risposta della Truzzi è al veleno: "Massimo Fini periodicamente attacca le donne (...) L’autonomia economica ha concesso al “secondo sesso” di non dover dipendere dal primo (padri, mariti, amanti). Con il conseguente effetto collaterale di scegliere come, dove e con chi stanno bene". E ancora: "Fini ci accusa di fare un doppio lavoro. Quello in ufficio e quello a casa. Forse se mariti e fidanzati dessero una mano autentica a casa – invece di spaventarsi perché lei ha un buon lavoro e farle pagare ogni ritardo con frasi colpevolizzanti, tipo “Noi hai ancora cucinato la cena?” – tutto sarebbe più facile". Infine la Truzzi invita al "dialogo" Fini: " Al di là di anacronistiche incazzature di genere e cliché scontati, si potrebbe semplicemente venirsi un po’ incontro. E magari chissà, perfino recuperare un po’ di incanto (magari funziona anche per i sagaci polemisti)".

 CARE DONNE SCUSATE, È ANCHE COLPA VOSTRA. Massimo Fini per il “Fatto quotidiano” 20 ottobre 2014. Le donne hanno fatto un altro passo avanti sulla strada della parità. Prima morivano 7 anni dopo gli uomini, adesso questo scarto si è dimezzato: 3,8. Ben gli sta. Hanno voluto entrare nel mondo del lavoro maschile e ne hanno assunto tutto lo stress, fumano, bevono, si fanno di coca. Eppoi nella competitività sul lavoro – altra fucina di nevrosi – non hanno rivali. O, per essere più precisi, li hanno: sono le loro colleghe, soprattutto le brutte. Per non retrocedere allo status di “brutte” sono costrette ad acrobazie faticosissime. Già la manutenzione del corpo di una donna impegna un paio di ore al giorno, fra maquillage, capelli, depilazioni, abluzioni accuratissime. Adesso si sono aggiunte palestra, acquagym, jogging (pratica particolarmente insensata: nessuno ha mai pensato seriamente che le gambe delle donne siano fatte per camminare tantomeno per correre). Le donne sono le prime vittime della modernizzazione. Fanno un doppio lavoro. Quello in ufficio e quello a casa. L'antropologia non si può ingannare, l'accudimento dei figli spetta a lei e per un periodo piuttosto lungo perché il cucciolo dell'uomo è il più tardivo a svezzarsi. Forse per questo riluttano a farli. Ma arrivate vicino alla quarantina sentono che manca loro qualcosa e sono prese dall’angoscia. Perché i figli non vengono quando ti pare. In linea di massima ci vorrebbe un partner stabile, ma anche lasciando perdere questo trascurabile particolare l’età della massima fecondità della donna sono i 27 anni, a 37, 38, 40 le cose si fanno più difficili. Eppoi quegli ex feti, quegli esseri misteriosi sparati fuori dalla loro inquietante vagina hanno una vitalità impressionante, che per essere governata ha bisogno di una vitalità altrettale, che a vent'anni si ha, a quaranta molto meno. Sono perennemente insoddisfatte. A parte quelle che lamentano “depressioni cupissime”, “solitudini infinite”, non ce n'è una fra le mie amiche, quelle comprese fra i 25 e i 55 anni (oltre diventa inutile discutere, perché nessuno le scopa più, se non per dovere d'ufficio) che non sia attratta da esoterismi, Osho, Milarepa e altre stronzate orientali. Segno che manca loro qualcosa, qui in Occidente. Il maschio. Mentre infatti la donna si mascolinizzava (guardatele camminare: non camminano, marciano su tacco 12) l'uomo si femminilizzava. Peraltro all'uomo sono venute a mancare le situazioni per far valere la propria virilità. Non c'è più la guerra, non ci sono più ideologie un po' truculente come il comunismo o il fascismo, la tecnologia ha reso superflua la forza fisica. E l'uomo ha bisogno di dimostrare se non la forza almeno il proprio coraggio. La donna no, preparata ai dolori del parto il coraggio ce l'ha, ma quando serve, altrimenti è capace di svenire se un topolino di campagna le passa fra le gambe (e questo la rendeva deliziosa). Ma anche in questo campo assistiamo a un rovesciamento straordinario, in particolare nel mondo musulmano: le donne vanno a fare la guerra come ci raccontano le cronache dall’Iraq (prima gli mettevano il burqa, adesso gli permettono di combattere). È una distorsione totale dell’universo femminile. La donna, che dà la vita, ha sempre avuto orrore di queste carneficine ai suoi occhi insensate, per l'uomo la guerra è sempre stata il grande gioco, “il gioco di tutti i giochi”, che gli permetteva di appagare il suo oscuro istinto di morte. Infine se dovessimo dare un minimo credito di intelligenza ai “padroni delle ferriere” dovremmo pensare che l'emancipazione femminile l'hanno inventata e foraggiata loro. Prima lavorava uno solo e ci manteneva tutta la famiglia. Adesso devono lavorare tutti e due e spesso non basta. Ergo: paghi uno e prendi due. Elementare Watson.

CARO MASSIMO, SULLE DONNE I FINI NON GIUSTIFICANO I MEZZI. Silvia Truzzi per il “Fatto quotidiano”. Periodicamente Massimo Fini, che questo giornale ha la grande fortuna di ospitare dalla sua nascita, scrive un’invettiva contro le donne. Nel 2010 il titolo era: “Le donne sono una razza nemica”. Tocca qui rispondergli, oggi come allora, perché la sua rubrica Battibecco esce il sabato, Fatti di vita la domenica: proveremo a farlo, cercando di non incorrere in uno dei molti capitali difetti dei quali c’incolpa. Nel 2010 la prima lamentela che si muoveva al nemico in gonnella era che le donne vivono sette anni più degli uomini. Apprendiamo che il gap si è dimezzato, passando a 3,8 anni. “Ben gli sta. Hanno voluto entrare nel mondo del lavoro e ne hanno assunto tutto lo stress”. In effetti, oggi più che mai le donne lavorano per hobby, non per necessità di portare uno stipendio a casa. Senza dire che l’autonomia economica ha concesso al “secondo sesso” di non dover dipendere dal primo (padri, mariti, amanti). Con il conseguente effetto collaterale di scegliere come, dove e con chi stanno bene. “Nella competitività sul lavoro – altra fucina di nevrosi – non hanno rivali. O, per essere più precisi, li hanno: sono le loro colleghe, soprattutto le brutte”. Onestamente, non commentabile. “Per non retrocedere allo status di ‘brutte’ sono costrette ad acrobazie faticosissime. Già la manutenzione del corpo di una donna impegna un paio di ore al giorno, fra maquillage, capelli, depilazioni, abluzioni accuratissime”. Ma si è mai sentito un uomo che volesse accanto una donna puzzolente, coi capelli unti e i peli sulle gambe? Fanno un doppio lavoro, le arpie. “Quello in ufficio e quello a casa”. Forse se mariti e fidanzati dessero una mano autentica a casa – invece di spaventarsi perché lei ha un buon lavoro e farle pagare ogni ritardo con frasi colpevolizzanti, tipo “Noi hai ancora cucinato la cena?” – tutto sarebbe più facile. Sulla maternità Fini dice che le donne, il cui picco di fertilità arriva ai 27 anni, si svegliano verso i 40 quando è tutto più difficile. Concepire, portare avanti la gravidanza, partorire e crescere i pargoli. Vero, dal punto di vista della natura il bilancio è negativo. Però bisogna fare molta attenzione: la questione è talmente personale, intima, legata a milioni di fattori (economici, emotivi, sentimentali, di salute) che ogni generalizzazione è stupida. Soprattutto l’obiezione rischia di essere offensiva o peggio, dolorosa per chi la riceve. “Sono perennemente insoddisfatte. A parte quelle che lamentano "depressioni cupissime", "solitudini infinite", non ce n’è una fra le mie amiche, quelle comprese fra i 25 e i 55 anni (oltre diventa inutile discutere, perché nessuno le scopa più, se non per dovere d’ufficio) che non sia attratta da esoterismi, Osho, Milarepa e altre stronzate orientali”. Almeno una sì, se è possibile ambire all’epiteto “amica”. Ma discutibili tendenze spirituali a parte, davvero bisognerebbe dire che anche per i maschi oltre una certa età fare sesso diventa un problema biologico. La pillola blu è un aiutino (ancorché non innocuo), ma non è che certe pance flaccide e triplimenti ballonzolanti siano un bello spettacolo. Però Fini ha ragione quando scrive che mentre la donna si mascolinizzava l’uomo si femminilizzava. E infatti alle donne i maschi mancano. Tantissimo. Quelli che sapevano guardare, corteggiare, proteggere. Che superavano l’adolescenza, quando l’adolescenza finiva. Al di là di anacronistiche incazzature di genere e cliché scontati, si potrebbe semplicemente venirsi un po’ incontro. E magari chissà, perfino recuperare un po’ di incanto (magari funziona anche per i sagaci polemisti).

Su Massimo Fini, le donne e la società italiana, scrive "Il Fatto Quotidiano il 4 luglio 2010. Gentile redazione, sono una blogger e poeta impegnata nell’informazione al femminile e vi invio di seguito un articolo in risposta a Peter Gomez sulla questione “articoli misogini” su Il Fatto Quotidiano. E’ a mia firma ma è stato sottoscritto da molte persone e blogger, di cui trovate in calce all’articolo nomi e cognomi.  Ad ora, ho contato 99 persone oltre alla sottoscritta. Spero vivamente che, in nome di quella libertà d’espressione che difendete, lo pubblichiate sul vostro quotidiano. Grazie per l’attenzione, Giorgia Vezzoli

“Lo Sfogo Quotidiano”? Leggo Il Fatto perché mi dice cose che sugli altri giornali non trovo, soprattutto per quanto riguarda le vicende politiche del nostro Paese. Leggo Il Fatto perché ritengo che non vi sia ingerenza da parte del potere politico ed economico e dunque presumo che i giornalisti siano liberi di dire, appunto, i fatti (non solo le opinioni, che possono essere soggettive e variabili, ma proprio i fatti) così come stanno, senza pressioni. Leggo Il Fatto perché le sue tesi non ruotano intorno ad un partito e non hanno una connotazione ideologica. Infine, leggo Il Fatto perché i suoi giornalisti parlano chiaro e non cercano di convincere, quanto piuttosto di esporre. Ma analizzando gli articoli di Massimo Fini sulle donne in relazione ai punti di forza del giornale sopra citati, mi vedo costretta a constatare che:

– non mi dicono cose che sugli altri giornali non trovo, anzi, direi che di articoli contro il femminismo o contro le donne ne leggo già molti perché una certa mentalità di considerare la donna inferiore all’uomo in Italia è ancora pericolosamente diffusa (infatti viviamo in uno dei Paesi occidentali più arretrati per le pari opportunità);

– non raccontano fatti scomodi censurati dal potere politico ed economico, anzi manifestano un’opinione sulle donne sulla quale, semmai, si è costruito e retto per anni l’attuale establishment politico ed economico

– non so se siano liberi da ideologie politiche ma mi sembrano abbastanza in linea con una certa frangia del pensiero reazionario di destra;

– sono chiari nell’esprimere un’opinione ma non nell’esporre i fatti, tant’è che Gomez su questo punto ne ha confutato il secondo con una cristallinità senza precedenti.

Che cosa c’entrano, allora, gli articoli di Fini sulle donne con Il Fatto quotidiano? Niente, mi dico. Però sul Fatto, come ci ricorda Gomez, vige la libertà d’espressione, come se il problema fosse una questione di censura e non di linea editoriale di una testata. Nessuno impedisce a Massimo Fini di esprimere in Rete la sua opinione, sebbene a mio avviso lesiva della dignità di alcune persone, ma qui non si parla della “Rete” in generale. Qui si parla di uno spazio preciso e circoscritto del Web, ovvero del sito di una testata con una sua direzione ed una sua redazione, dove gli articoli vengono scelti e dove una discriminazione, per forza di cose, è già in atto: si chiama selezione dei contenuti. Perché Il Fatto dovrebbe essere un quotidiano on line e non un “aggregatore spontaneo di post”. Viene da chiedersi come mai, in questo senso, in nome della libertà d’espressione, non troviamo su Il Fatto articoli pro Berlusconi o discriminatori nei confronti degli immigrati, per esempio. Su questi temi, infatti, si avverte una linea editoriale precisa, per la quale sono stata fiera di leggere fino ad oggi il vostro quotidiano: Il Fatto ha deciso di schierarsi dalla parte dei “fatti”, costi quel che costi. La libertà su cui credevo si basasse questa testata non era data dall’ipotesi che chiunque potesse scrivervi qualunque cosa, come su un social network tanto per intenderci (anch’esso regolato da una serie di norme per altro), ma che chiunque fosse libero di dire la sua verità, anche scomoda, senza pressioni da parte del potere, come invece succede in tante altre testate. Non è possibile che, quando si parla di donne, improvvisamente, essere un “bravo giornalista” costituisca condizione necessaria e sufficiente per potersi vedere pubblicato sulle pagine di un quotidiano, on o off line che sia, qualsiasi tipo di sfogo (pardon, provocazione) anche misogino. Caro quotidiano, io non lo capisco. E ti chiedo, come donna e come lettrice, che tu prenda una posizione chiara. Se stai dalla parte dei fatti, decidi di esserlo su tutto, anche sulla questione femminile, sulla sua storia e, perché no, sulle sue contraddizioni. Ma fallo basandoti sui fatti e non sugli sfoghi personali, fedele al nome che tu stesso ti sei scelto. Perché la questione della discriminazione sessuale non è, a dispetto di come molti credono in questo Paese arretrato, un semplice tema di gossip o di costume dove chiunque può dire ciò che vuole, ma una seria ed irrisolta questione di diritti umani. Ci si può arrogare il diritto di garantire la libertà di espressione quando ancora, anche in Italia, molte donne trovano la loro strada cosparsa di ostacoli per portare il proprio pensiero in numerosi contesti e per concretizzarlo pienamente nella loro vita?

Caro Il Fatto, se davvero sei per la libertà d’espressione, dovresti innanzitutto impegnarti per creare le condizioni affinché questa possa manifestarsi per tutti schierandoti coraggiosamente per la promozione delle pari opportunità, ricordandoti che la libertà d’espressione non riguarda solo le opinioni, ma anche i comportamenti e l’esercizio dei propri diritti, che a molte donne ancora è negato. Giorgia Vezzoli

La linea del Fatto sulle donne è chiara ed è testimoniata da decine di articoli. Ma pensiamo che il contestato pezzo di Massimo Fini – grande giornalista, grande scrittore e persona onesta con la quale in questo caso non concordiamo per nulla – si sia rivelato un’occasione preziosa per discutere di un tema importante: la condizione femminile. Un tema che in Italia viene accuratamente evitato. Purtroppo non è vero, infatti, che le opinioni di Fini sulle donne siano un esclusivo patrimonio “di una certa frangia del pensiero reazionario di destra”. Sono invece trasversali a una parte importante e numerosa del mondo maschile. E, come dimostra la cronaca politica, non sono nemmeno estranee, come dovrebbero, a tutte le donne. Solo che a differenza del razzismo che viene ormai apertamente sbandierato da alcuni partiti, queste cose vengono pensate, praticate e teorizzate, ma non vengono dette. Anche per questo si discute così poco della questione. Massimo Fini è insomma “politicamente scorretto”. Ma vale sempre la pena di leggerlo per ribellarsi e dirgli fatti alla mano che ha sbagliato. Nelle prossime settimane, come è in programma da tempo, apriremo un blog dedicato alla battaglia per la dignità femminile e per il rispetto dei generi. Sarà uno dei molti blog che intendiamo creare per dare una visione d’insieme della politica, dell’economia e della società italiana. Tutte questioni in cui le donne giocano un ruolo centrale, ma dalle quali vengono troppo spesso escluse.

Femminismo a Sud: la prepotenza di attaccare le persone per contrastare un pensiero. Scrive il 16 giugno 2011 Pablito su "Centriantiviolenza.eu". Non si è nuovi a questo tipo di virtuosismi della sorellanza siciliana. Tuttavia non possiamo esimerci dal rilevare come lo spessore del pensiero di tanto femminismo sia ormai ridotto a trincerarsi dietro vigliacchi attacchi personali. Roba del tipo: “Tu pensi questo…. ?! Allora significa che sei vecchio, bavoso tripanza ecc. ecc.” Sicuramente un segno di “avanzata cultura” (anche di civiltà, se per questo… ma quale civiltà?!?) su cui sovrasta, implacabile, la prepotenza di chi è abituato ad aver ragione urlando. Urlando di tutto meno che le ragioni per le quali urla. Come ogni prepotente che si rispetti. Che dire poi dell’accusa che le sorelle rivolgono a Massimo Fini il quale, con il suo articolo di giornale, riverserebbe odio misogino sull’universo femminile? Le “sorelle” di Femminismo a Sud accusano infatti Massimo Fini di seminare odio misogino. Ma le “sorelle” hanno davvero la famosa trave negli occhi, parrebbe. Non si rendono conto che, con quello che hanno scritto e che scrivono hanno ormai perso ogni titolo per parlare in questa direzione? TACESSERO, per cortesia! E per chi vuol rendersi contro di cosa sia capace la sorellanza, ecco qui un significativo esempio dell’odio verso gli uomini che anima i loro scritti.

Di esempi, tra gli scritti della rinomata sorellanza, ne esistono quindi numerosi. Tutti tesi a legittimare un diritto a istigare all’odio di genere (purché il genere sia maschile, OVVIAMENTE!). Tra questi, come dicevamo, balza agli occhi l’articolo di Massimo Fini, giornalista de “Il Fatto Quotidiano” che con un titolo provocatorio “Stupratori di tutto il mondo, unitevi!” (pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 11 Giugno 2011) stigmatizza il giustizialismo anti-uomo (tipico delle sorellanze contemporanee) come il prodotto di una “società matriarcale” ben dotata del “suo puritanesimo ipocrita”.

Stupratori di tutto il mondo, unitevi! Massimo Fini, pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 11 Giugno 2011. Stupratori di tutto il mondo unitevi! Non ho alcuna simpatia per Dominique Strauss-Kahn, ex capo del Fondo monetario internazionale, un covo di vecchi malvissuti col compito di taglieggiare i Paesi poveri per dare ai ricchi. E conosco bene l'arroganza dei potenti, il senso di impunità da cui sono posseduti per cui si ritengono autorizzati a tutto. In Italia ne abbiamo una vera collezione. Ma ancor meno mi piacciono la gogna e il linciaggio, strumenti di tortura e di punizione medioevali che non dovrebbero avere diritto di cittadinanza nelle democrazie moderne. Strauss-Khan è dovuto passare fra due ali di folla irridente, sotto l'occhio delle telecamere di tutto il mondo, mentre, per aumentarne la pubblica umiliazione, un gruppo di cameriere d'albergo, radunate dagli avvocati dell'accusa, lo insultavano e gli gridavano "vergogna!". Non è stato costretto a infilare la testa nel collare di ferro esponendo il viso al pubblico ludibrio, ma fra le ganasce di uno strumento ancora più infame, la Tv, che solletica gli istinti più bassi dell'essere umano, che non sono quelli sessuali, ma la voluttà per l'umiliazione altrui o, in altri casi, un sozzo voyeurismo mascherato da pietà (Avetrana dote). In ogni caso colpevole che sia Strauss-Khan, come l'ha già giudicato e condannato la folla, ogni tipologia di reato conosce varie gradazioni di gravità e punizioni ad esse adeguate. C'è la rapina a mano armata, la rapina semplice, il furto con scasso, il furto, il borseggio. La decapitazione di una carriera prestigiosa, il braccialetto al piede come per una scimmia, una guardia all'uscio e sei milioni di dollari mi sembrano un prezzo un po' alto per un pompino, sia pure estorto. L'America, società matriarcale, sta inoculando in Europa, oltre a tutto il resto, il suo puritanesimo ipocrita. In Francia un viceministro, Georges Tron, è stato costretto a dimettersi perché accusato di molestie sessuali da due impiegate cui stava massaggiando i piedi. Pare che, approfittando della situazione, abbia tentato un approccio più esplicito. E non è un caso che in Italia le suorine di sinistra e tutti i giornali si siano focalizzati sulle escori di Berlusconi o sulla presunta induzione alla prostituzione di una pseudo minorenne (oggi una ragazza di quasi 18 anni è minorenne solo per l'anagrafe, ci sono in circolazione delle vere mine vaganti) piuttosto che su reati molto più gravi come la concussione o la corruzione di testimone in giudizio, già accertata, questa, in primo grado. Negli Stati Uniti un deputato democratico, Anthony Weiner, candidato a sindaco di New York, è stato costretto a confessare, in lacrime, davanti ai media di aver scambiato messaggi a sfondo sessuale e fotografie con sei donne, senza peraltro averle mai incontrare. È stato considerato adulterio (per incastrarlo è stato usato il solito, ipocrita, escamotage: in un primo tempo aveva negato, quindi è un mentitore professionale). A parte che un adulterio dovrebbe essere cosa che riguarda solo chi lo compie e sua moglie, stiamo arrivando ad eccessi deliranti. Qui siamo già oltre il processo alle intenzioni di storico stampo cattolico. Siamo in pieno 1984 di Orwell. Ancora un passo è verranno punite le nostre fantasie sessuali. Gli stupri solo immaginati. I peccati di pensiero. Da dieci anni stiamo conducendo una guerra in Afghanistan per estirpare la sessuofobia talebana, ma i veri sessuofobi, a parti invertite, siamo noi. Quanto a me mi rifiuterò di albergare in qualsiasi hotel dove il personale che si occupa delle camere non sia rigorosamente maschile. Massimo Fini

Massimo Fini, il Fatto Quotidiano e il sadismo vendicativo contro le donne, scrive il 15 giugno 2011 "Femminismo a Sud". L’epopea di Massimo Fini non ha eguali. Onore a lui e a Il Fatto Quotidiano che continua a offrire spazio a questo eroe dei diritti del maschio virile che per colpa delle donne cattive non trova nessuna che fondamentalmente gliela dà. Soffre molto quest’uomo, lo si vede dalla sua espressione un po’ cadente. Le donne gli hanno fatto venire i tic nervosi perchè lui è un autentico paladino dei diritti umani, degli umani che lottano per rivendicare il diritto alla fica gratis passata dalla mutua, e per incoraggiare i suoi prodi e mostrare quanto vive bene con se stesso sul suo sito mostra una foto di vent’anni fa. Oh le donne, questa razza nemica, come ebbe il “coraggio” di definirle in una antica circostanza, tutte figlie peccaminose di Eva (concetto laicissimo e soprattutto moderno!), che per educarle bisognerebbe mandarle in Afghanistan, come consigliò in un’altra occasione. E siccome il signor Fini (Massimo) non lascia mai le cose a metà allora eccolo pronto a intervenire in difesa dell’ultimo povero diavolo vittima di queste megere. Eccolo ad unirsi al coro di proteste di altri uomini di pari intelligenza, come quel Buttafuoco che ha precisato che queste inservienti, queste cameriere, per di più “immolestabili” non avrebbero dovuto neppure aprire bocca. Perchè si sa che il buon Dio ha inventato la bocca delle donne per un paio di motivi e solo per quelli. Dire sempre di sì e fare quell’altra cosa che non citiamo perchè siamo troppo timorate per dirlo ad alta voce. La vicenda è quella di Strauss-Khan, ancora lui, questo poverissimo individuo che resta ai domiciliari in una villa che costa 50mila dollari al mese. Un uomo bisognoso, senza dubbio, che nel suo approccio con quella cameriera aveva inteso certamente uno scambio tra pari, tra soggetti di eguale estrazione, senza far pesare la sua posizione, il suo denaro e il suo potere. Un uomo che non può aver scambiato una donna per un posacenere, uno stuoino, un accessorio qualunque. Massimo Fini comprende perfettamente l’anima degli uomini, perciò decide di esporsi ancora una volta. Chiama a raccolta gli “stupratori di tutto il mondo” e finisce la frase esortandoli a stare insieme. “Unitevi” – dice, dimenticando certo che lo hanno sempre fatto e che hanno eletto a difesa del branco l’omertà, il negazionismo, l’invocazione dell’impunità, la demonizzazione delle donne (bottanissime!), la provocazione “intelligente”, la solidarietà di corpo, il buon giornalismo di cordata (maschilista) che segna una linea comune tra Il Fatto Quotidiano, Il Foglio, Il Giornale, Libero, Repubblica, e molti altri quotidiani, in una trasversalità di intenti che vede una inscindibile unione in nome della difesa degli stupratori, specie se ricchi, o bianchi, di razza superiore, orgogliosamente etero anche se hanno un pistolino piccolo e sottile quanto uno spaghetto. Detto tra noi l’aspetto di questi uomini lascia immaginare che siano arrabbiati con le donne per altri motivi che non siano quelli che hanno dichiarato. Brutti. Grassi. Cadenti. Finiti. Pensate alle facce degli uomini che vediamo in televisione. Riuscite a immaginarli a letto con una donna? Prestazioni precocemente eiaculatorie con rapidissimi movimenti a stantuffo, saliva al sapor di vecchiaia, la naftalina dentro i corpi di donne splendide. Forse si sentono rifiutati, forse avrebbero bisogno di una buona sessione di terapia di gruppo, così da mostrare vittimismo e piagnucolare tutti assieme, per assegnarsi degli esercizi di sadismo pratico, teorico o scritto mirato al loro benessere. Perchè in fondo cosa può essere di diverso ciò che scrive questo povero uomo se non una prova collettiva di sadismo vendicativo di un genere sull’altro, quello maschile su quello femminile, per riequilibrare i conti, per fargliela vedere, per metterle al proprio posto, per ricacciare in gola a queste sfrontate tutta la loro boria. Come si permettono costoro di fare sentire questi ometti piccoli piccoli, invisibili, inadeguati, brutti. Al tre tutti quanti a urlare che le donne sono ignobili streghe e via al rogo. Così impareranno ad essere compiacenti, a non denunciare gli stupri, a non divulgare segreti delle violenze maschili, a non intaccare il prestigio di questi maschi im-potenti che contavano sul silenzio di donne che per legge devono essere predisposte al martirio. E’ la natura, che diamine. Non si può andare contronatura. Le donne sotto e gli uomini sopra. E siccome le donne sono state educate per secoli a non dire di NO in modo chiaro, e gli uomini sono stati educati a prendere per un SI qualunque NO gli venga rivolto, allora tutto torna. Dritto e rovescio. Le donne devono tacere. Stupratori di tutto il mondo, unitevi! Per dirlo meglio, Massimo Fini, tira fuori quel pizzico di anima noglobbbbal misogina e terzoposizionista che è tanto cara a Movimento Zero e ai “movimenti” come quello. Poi dimentica di non aver mai scritto neppure una parola quando abbiamo visto nelle nostre televisioni le facce dei rumeni arrestati per stupri che non avevano commesso, mentre gli amministratori romani istigavano al linciaggio e la stampa di destra parlava di castrazione. Infine arriva al punto: “La decapitazione di una carriera prestigiosa, il braccialetto al piede come per una scimmia, una guardia all’uscio e sei milioni di dollari mi sembrano un prezzo un po’ alto per un pompino, sia pure estorto.” Ed è qui che emerge integra la stazza dell’uomo vero, uomo tra gli uomini, paladino dei deboli, di queste fragili creature che violentano le donne perchè non riescono a trattenersi di fronte a quella incredibile esposizione di corpi femminili che insistono in quella enorme vetrina che è il mondo. Per Massimo Fini un pompino (gliel’ha detto Strauss Khan?), sia pure “estorto” (dunque uno stupro!) non valgono una condanna pubblica, una ribellione, non lo considera un abuso. Un pompino oggi e uno domani, per questo intellettuale così imponente, non valgono una condanna. Sono cose da uomini che in questo mondo di uomini, in cui le donne devono solo essere decorative e pronte a soddisfare il piacere maschile, sono ammissibili. E già che c’è l’affascinante maschio, che va d’accordo con quelli che restano a farsi le seghe nei parchi dietro una siepe, butta qualche parola di difesa per il ministro francese dimesso per molestie e per il premier italico che ovviamente, secondo il suo parere, sarebbe stato vittima di diciassettenni chiamate “mine vaganti” per le quali l’illustre Fini invoca l’abbassamento dell’età minorile per i reati sessuali. Insomma il nostro Massimo Fini, assieme al Fatto Quotidiano, anche in questo caso si distinguono per aver fatto una coraggiosa scelta di campo. Gli stupratori invece che le stuprate. I negazionismi, i banalizzatori, i falsabusisti invece che le abusate. Massimo Fini, questo “intellettuale” che dice di essere schierato con i proletari, trova corretto schierarsi con i potenti quando abusano di cameriere, povere criste, dipendenti, precarie ricattabili, adolescenti o quando a ottant’anni si mettono a fare i giochini con le diciottenni. Ci pare in fondo che la sua sia una richiesta d’aiuto. Guardatelo, effettivamente ha bisogno. Oh ricchi, potenti che ne avete una a sera e se non ce l’avete ve la prendete, regalatene una pure a lui, gli scarti, i resti, fatelo almeno guardare. In fondo per renderlo felice ci vuole così poco…Ps: ovviamente è tutta una ironica provocazione intellettuale!

Femministi e razzisti pari son, scrive Massimo Fini. «Quem Deus perdere vult, dementat prius». Colui che Dio vuol perdere prima lo fa uscire di senno, così dice la sapienza degli antichi. Come se a Botteghe Oscure non ci fossero già abbastanza guai. Cesare Salvi, responsabile per il Pci dei problemi dello Stato e membro della Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna, si è fatto latore di una proposta delirante del tutto degna del suo quasi omonimo, il cantante demenziale Francesco Salvi. Secondo Salvi (Cesare), per aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento bisognerebbe, d'ora in poi, dividere le circoscrizioni elettorali non solo per territorio ma per sesso. Inoltre in ogni seggio dovrebbero esserci due urne: una per i votanti maschi, l'altra per le femmine. Come corollario necessario, anche se Salvi (Cesare) su questo punto è stato piuttosto oscuro, ci dovrebbero essere anche due liste, una formata da sole donne, l'altra da soli uomini, altrimenti la proposta perderebbe anche il suo senso demenziale, riducendosi a una sorta di «apartheid» che colpirebbe, Dio sa perché, gli uomini e le donne al momento del voto. È un progetto, quello di Salvi (Cesare), che fa giustizia d' un sol colpo di quattro principi costituzionali. Quello della universalità della rappresentanza, quello della libertà del voto, per cui ciascun elettore, uomo o donna che sia, deve poter scegliere il proprio candidato, uomo o donna che sia, senza condizionamenti di sorta.  Quello della segretezza del voto che qui verrebbe invece individuato se non per il singolo per una quota di elettori. Infine questo progetto, nonostante si proponga l'esatto contrario, viola il principio d'uguaglianza favorendo elettoralmente il sesso più numeroso. Ha detto Salvi (Cesare) a difesa della proposta che il suo intendimento «è di tener conto della differenza sessuale anche nella sfera della politica». Forse il parlamentare comunista si è dimenticato che proprio per annullare quella differenza sul piano dei diritti civili, di cui quello elettorale, attivo e passivo, è uno dei più importanti, le forze progressiste hanno compiuto un lungo cammino che, partendo dalla Rivoluzione francese, è sfociato nell'art. 3 della Costituzione che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...». Voler ripristinare quella differenza, sia pure a pro delle donne, è un nonsense storico, giuridico, sociale. In realtà sotto il manto progressista la proposta di Cesare Salvi, come quell'altra di riservare in ogni azienda una quota di posti di lavoro alle donne, partorita anch'essa tempo fa dalla insonne e perniciosa Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna (un'invenzione demagogica del governo Craxi), è intimamente reazionaria, razzista e dovrebbe essere sentita come offensiva proprio e innanzitutto dalle donne. Perché le tratta come delle handicappate, come una razza a sé, come una specie protetta alla stregua delle foche monache. Una donna dovrebbe essere eletta (o assunta) perché ritenuta capace di svolgere bene il lavoro che è chiamata a fare, non per altro, cioè per decreto o in virtù di ambigue corsie preferenziali. Spiace che Cesare Salvi abbia affrontato un argomento del genere come se fosse Francesco Salvi, inserendolo così in un filone comico-demenziale ricco di sviluppi esilaranti (che ne farebbe, per esempio, Cesare-Francesco Salvi dei travestiti? Metterebbe una terza urna? Istituirebbe davanti al seggio un controllo medico per individuare il sesso prevalente?). Perché il problema, seppure così malposto, esiste. È vero che, in Italia, le donne sono scarsamente rappresentate in Parlamento nonostante i partiti facciano ormai a gara per candidarle nel tentativo di ingraziarsi l'elettorato femminile. Secondo l'imperversante paleofemminista Elena Gianini Belotti ciò dipenderebbe «dall'insuperabile disgusto che le donne hanno per questa politica». Tesi anch'essa razzista che tende a presentare le donne come esseri angelicati rispetto agli uomini corrotti, e senza fondamento alcuno. Non risulta da nessuna parte, per esempio, che l'astensionismo femminile sia superiore a quello maschile. La verità è che esiste un pregiudizio sfavorevole alle donne, che le si ritiene inadatte alla politica, pregiudizio della cui idiozia sono buone testimoni Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Indira Gandhi. Ma di questo pregiudizio sono portatrici più le donne che gli uomini. Perché - nonostante tutte le balle femministe sulla «sorellanza» - la realtà è che le donne si fidano poco delle donne, nella vita e quindi anche nella politica. Però questa fiducia non può essere imposta per legge, come pretenderebbe Salvi, costringendo le donne a votare per le donne. È un fatto di costume che può evolvere, se ha da farlo, solo col costume. Secondo Tina Anselmi e Giuliano Amato sarebbero invece le lobbies elettorali a penalizzare le donne (dove per lobbies si devono intendere gli apparati dei partiti). Ma questo non è un problema delle donne, è la questione cardine della democrazia rappresentativa e una delle ragioni principali, se non la principale, che ne mette in dubbio la stessa validità. Nella democrazia rappresentativa infatti il peso del voto del singolo è solo apparente. Per la ragione intuita da Gaetano Mosca già nel 1896 quando gli apparati dei partiti non avevano certamente la consistenza di oggi: «Cento, che agiscano sempre di concerto e d'intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno che non avranno alcun accordo fra loro». Cioè il voto libero, proprio perché libero, si diversifica e si disperde, laddove i veri detentori del potere elettorale, vale a dire gli apparati dei partiti, facendo blocco su questo o quel candidato, hanno un peso decisivo. Il gioco elettorale si riduce quindi ad una gara truccata di cui, a parte qualche marginalità, si sanno in partenza i vincitori. Che poi questi, in un tal sistema, siano uomini o donne cambia poco o nulla.

Donne: due al prezzo di una, scrive Massimo Fini il 20/06/2010. Le donne oggi lavorano in casa e in ufficio, mentre gli uomini faticano ad avere un ruolo e a dare senso di protezione alle proprie partner. Fino a non molti anni fa in famiglia lavorava uno solo, quasi sempre l'uomo, e bastava per mantenerla. Adesso devono lavorare tutti e due. Dal punto di vista dei "padroni delle ferriere" la cosa si presenta così: paghi due al prezzo di uno. Per cui viene il sospetto che l'emancipazione della donna e il femminismo siano stati un'invenzione di costoro. La donna è vittima di un'ulteriore fregatura. Perché deve fare un doppio lavoro, quello d'ufficio e quello di casa. Perché l'accudimento dei figli, nei primi mesi e anni, tocca pur sempre a lei, se li ha (l'Italia ha il più basso tasso di natalità al mondo). Così detta la Natura. Il bambino, nei primi mesi e anni, ha come punto di riferimento assoluto la madre nel cui corpo è restato per nove mesi e dal cui corpo è uscito. Per quanto si vada sempre più verso un mondo unisex, non si è ancora visto un uomo allattare al seno (che, sia detto di passata, è una delle immagini più poetiche e commoventi che possa offrire la Natura). Il momento del padre verrà più avanti, durante e dopo l'adolescenza. Anche nel mondo preindustriale la donna lavorava. Si occupava prevalentemente delle faccende di casa ma in alcuni momenti topici della vita agricola, come la vendemmia, dava anche lei una mano sui campi. Ma non aveva l'angoscioso problema che ulcera ogni madre di oggi: a chi lascio i bambini mentre sono in ufficio? Le donne (e gli uomini) oggi lavorano lontano dalle loro abitazioni. Per cui sono costrette a ricorrere ad asili e babysitter, spendendo quanto guadagnano. Una partita di giro a ricavo zero. Ma sono contente di essere inserite anche loro, finalmente, nel meccanismo "produci, consuma, crepa". Gli uomini e le donne preindustriali lavoravano dove abitavano, i bambini, che ruzzavan sull'aia, erano sempre sotto controllo. E se una sera avevano voglia di uscire e andare a vedere una "compagnia di giro" (perché allora la gente del popolo andava a teatro, oh yes, a vedere spettacoli carnascialeschi ma anche Eschilo, Euripide, Sofocle, Aristofane che sono un po' meglio di "X Factor") c'era sempre una zia zitella o una domestica perché non c'era famiglia, per quanto modesta, che non avesse dei domestici in essa integrati. Certo, oggi, anche l'uomo può dare una mano in casa. Ma questa faccenda di averci messo il grembiale non si è rivelata molto producente. La femmina un ruolo ce l'ha, gliel'ha dato Madre Natura. L'uomo no, ha dovuto costruirselo. Ma oggi non ha più occasioni per esercitarlo. Non c'è più la guerra dove provare il proprio coraggio (la guerra d'antan, dico, non quella odierna dei robot, tanto che vi partecipano anche le tipe, robb de matt), non c'è più il duello. La forza fisica, sostituita dalla tecnologia, non conta più nulla eccetera. E, senza ruolo, l'uomo non esiste. Così le ragazze, che sognano pur sempre il vir, il "principe azzurro" (lo si vede ai matrimoni dove tutte, non solo la sposa, versano fiumi di lacrime: la cosa le emoziona ancora) si trovano davanti un bambino (“Ricordati che in ogni uomo c'è un bambino che vuole giocare” scrive Nietzsche). E ne rimangono deluse. Conosco molte trentenni, spesso belle, colte, eleganti (fini no, la ragazza "fine" è scomparsa dall'Occidente) che fan una fatica boia a trovare un partner. Non per una scopata (anche per quella, gli uomini, di fronte all'aggressività femminile, stan diventando tutti finocchi), ma un uomo che dia loro la sicurezza e il senso di protezione di cui hanno bisogno. Consiglio uno stage in Afghanistan. Troveranno degli uomini che le faranno rigar dritto, come meritano e come, nel fondo del cuore, desiderano.

“DONNE, GUAIO SENZA SOLUZIONE”, scrive Massimo Fini su “Il Fatto Quotidiano". Le donne sono una razza nemica. Bisognerebbe capirlo subito. Invece ci si mette una vita, quando non serve più. Mascherate da «sesso debole» sono quello forte. Attrezzate per partorire sono molto più robuste dell’uomo e vivono sette anni di più, anche se vanno in pensione prima. Hanno la lingua biforcuta. L’uomo è diretto, la donna trasversale. L’uomo è lineare, la donna serpentina. Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco. Lei è insondabile, sfuggente, imprevedibile. Al suo confronto il maschio è un bambino elementare che, a parità di condizioni, lei si fa su come vuole. E se, nonostante tutto, si trova in difficoltà, allora ci sono le lacrime, eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto femminile. Al primo singhiozzo bisognerebbe estrarre la pistola, invece ci si arrende senza condizioni. Sul sesso hanno fondato il loro potere mettendoci dalla parte della domanda, anche se la cosa, a ben vedere, interessa e piace molto più a lei che a lui. Il suo godimento — quando le cose funzionano — è totale, il nostro solo settoriale, al limite mentale («Hanno sempre da guadagnarci con quella loro bocca pelosa» scrive Sartre). La donna è baccante, orgiastica, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola, nessun principio può valere più di un istinto vitale. E quindi totalmente inaffidabile. Per questo, per secoli o millenni, l’uomo ha cercato di irreggimentarla, di circoscriverla, di limitarla, perché nessuna società regolata può basarsi sul caso femminile. Ma adesso che si sono finalmente «liberate» sono diventate davvero insopportabili. Sono micragnose, burocratiche, causidiche su ogni loro preteso diritto. Han perso, per qualche carrieruccia da segretaria, ogni femminilità, ogni dolcezza, ogni istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia, e spesso anche dei figli quando si degnano ancora di farli. Stan lì a «chiagne» ogni momento sulla loro condizione di inferiorità e sono piene zeppe di privilegi, a cominciare dal diritto di famiglia dove, nel 95% dei casi di separazione, si tengono figli e casa, mentre il marito è l’unico soggetto che può essere sbattuto da un giorno all’altro sulla strada. E pretendono da costui, ridotto a un bilocale al Pilastro, alla Garbatella, a Sesto San Giovanni, lo stesso tenore di vita di prima. Non fan che provocare, sculando in bikini, in tanga, in mini («si vede tutto e di più» cantano gli 883), ma se in ufficio le fai un’innocente carezza sui capelli è già molestia sessuale, se dopo che ti ha dato il suo cellulare la chiami due volte è già stalking, se in strada, vedendola passare con aria imperiale, le fai un fischio, cosa di cui dovrebbero essere solo contente e che rimpiangeranno quando non accadrà più siamo già ai limiti dello stupro. Basta. Meglio soddisfarsi da soli dietro una siepe.

Il potere è ormai delle donne, gli uomini hanno perso! Scrive Mary il 5 novembre 2006 - 23 luglio 2008su "Hobby al femminile". Cari maschietti di oggi, avete mai avuto l'impressione che quella terribile e temibilissima creatura che va sotto il nome di donna moderna abbia un potere eccessivo sulla Vostra vita e Ve ne sentite minacciati? Ebbene non abbiate paura di ammetterlo, non siete Voi in torto ma loro! Basta con queste stupidaggini dell'uomo debole, l'uomo mezza ..... e la superdonna! La verità è che la modernità ha stravolto degli equilibri delicatissimi che duravano da millenni e che erano la base di tutto il sistema riproduttivo della società. Non è mio intendimento analizzare qui il rapporto uomo-donna, basterà prendere atto del fatto che ad oggi, nella società occidentale, vi è un pesante squilibrio a favore del sesso femminile. In sostanza, si è rotto quell'equilibrio che per secoli aveva retto la società. Equilibrio che le femministe vedevano come oppressione del maschio sulla femmina e che, ad un primo sguardo superficiale (la superficialità è femmina) poteva apparire come reale ma, ad uno sguardo più approfondito, era palese che le cose stavano esattamente al contrario. 

Parliamoci chiaro: prendendo in considerazione tutti gli elementi diventa lapalissiano che il sesso più forte è quello femminile e non quello maschile. E questo non, come credono le moderne femministe, per una loro intrinseca superiorità o perché sono migliori di noi (come piace loro pensare) ma semplicemente perché hanno il coltello, anzi la ... dalla parte del manico, non so se mi spiego! Non prendiamoci in giro: l'aspetto della riproduzione della specie, ovvero della sua conservazione e propagazione è assolutamente centrale e fondamentale per qualsiasi forma di vita, vuoi che non sia così anche per gli uomini?! E chi detiene il potere di decidere in merito? Chi ha le chiavi della porta segreta? Chi stabilisce che ha diritto di trasmettere i propri geni e chi invece è destinato a sparire nelle nebbie del tempo? Chiaramente loro! E non sto neanche a spiegarvi il perché. Non appare allora strano che la Natura le abbia dotate di tutta una serie di caratteristiche e qualità importantissime che ne fanno, alla lunga, creature nettamente superiori al maschio. E' vero che il maschio ha dalla sua capacità e facoltà superiori, ma sono tutte chance che può mettere in pratica in ben pochi ambiti, e così alla lunga perde la corsa. Era un p come l'eterno scontro tra Usa e Urss: tutto il mondo sapeva bene che gli Usa erano più forti (tipo le donne) per si era creato un certo equilibrio che manteneva le cose stabili. Una volta che l'elemento più debole si è sgretolato quello più forte, non avendo più nessun contrappeso e/o elemento di limitazione-controllo può fare come gli pare esasperando la propria potenza così come i propri lati oscuri, non più tenuti a bada dall'equilibrio bipolare. E le donne uguale, liberatesi dall'equilibrio millenario sono tutte in preda a una crisi isterico-depressiva da delirio di onnipotenza. Non sanno più cosa farsene del maschio che hanno sconfitto, il loro passatempo preferito è diventato la denigrazione continua del maschio, eppure non sono felici perché invece la felicità stava ed è sempre stata nell'integrazione armonica delle due superpotenze, indipendentemente da chi era per davvero il più forte. Ora che questo ha vinto il risultato è una desolante e opprimente solitudine generalizzata. Ed è per questo che nel tempo questo incredibile squilibrio che ha origine naturali è stato compensato con il bilanciamento del potere, ovvero attribuendo al maschio poteri maggiori che gli davano l'illusione di essere lui a decidere, quando comunque non era così. Lo sappiamo noi e lo sanno loro, solo che non si diceva. La donna lasciava l'uomo crogiolarsi nella sua illusione di potere perché in fondo sapeva che poteva farne ci che voleva. E questo, chiaramente, facendo leva fondamentalmente sullo strumento del ricatto, sia sessuale che sentimentale. Qualsiasi uomo che non abbia il prosciutto sugli occhi capisce ben presto che la donna dà molto ma prende indietro almeno il triplo, e le condizioni da accettare sono alla fine sempre le sue. Le puoi girare e rigirare come vuoi ma alla fine l'hanno vinta sempre loro. Non è vittimismo ma constatazione lucida della potenza dello strumento del ricatto, dal quale ben pochi uomini sono in grado di difendersi. 

E allora veniamo, signori uomini, al punto: difendersi! Sì perché lo squilibrio ha raggiunto livelli tali che è necessario fare qualcosa per tutelarsi. Se un tempo alla donna veniva proibito di scoprirsi, se le veniva imposta la castità, se era obbligata ad indossare il velo, per quanto ai nostri occhi ci appaia come una limitazione inaccettabile della libertà personale, in un'ottica più ampia e meno miope aveva una sua logica ben precisa: ovvero livellare tra i due generi il potere. Come a dire: la tua arma è troppo affilata, la devi spuntare un p così torniamo pari o quasi. Non che io giustifichi queste limitazioni della libertà individuale, per me sono accettabili, ma per cercare di capire anche quello che ci sembra ingiusto e incomprensibile è necessario fare un piccolo sforzo e tentare di entrare in quella logica per scoprirne le ragioni di fondo. Saranno poi queste che ci aiuteranno a vedere l'intera situazione sotto un'ottica più ampia. E così con il sesso. Tutte le restrizioni e i tabù imposti alla donna avevano lo scopo di tutelarla e con essa di tutelarne il potere riproduttivo. Il controllo sulla sessualità femminile e sul suo corpo non era altro che il tentativo, forse un p patetico ma comprensibile, del maschio di ristabilire un certo equilibrio nel grande gioco riproduttivo. 

E questo equilibrio è stato compromesso. La liberazione sessuale non è diventato altro che un alibi a favore della donna per la sua infinità vanità. Questo è. Non ha portato a quell'equilibrio sperato, che già c'era, ma ha, anzi, ribaltato la situazione attribuendo a una parte tutto quel potere che, per le leggi della Natura, non poteva che avere. E questo potere lo gestisce male perché non era nei suoi compiti gestirlo. Alcune obiettano che le posizioni di comando nella società sono ancora riservate agli uomini, può darsi, ma in fondo è una cosa che riguarda una fascia ridottissima di persone, la stragrande maggioranza di persone si confronta con ben altri problemi. E sul lavoro, nella scuola, nei rapporti affettivi...lo strapotere femminile è evidente. La loro illogicità e irrazionalità, sbandierata ai quattro venti come elemento distintivo di superiorità, è un alibi dietro il quale nascondersi per non dover mai rendere conto dei propri comportamenti. Qualsiasi cosa accada avevano ragione loro, riescono sempre a rigirare la frittata così tante volte finché non è dalla loro parte. 

L'assedio è continuo, donne ovunque che ostentano la propria femminilità, perché nel crollo dei tabù tradizionali sono state investite da un delirio di onnipotenza. E' allora diventa per loro lecito, anzi quasi obbligatorio, trovare tutti i modi possibili per provocare e attirare l'attenzione su di sé attingendo da quel serbatoio senza fondo che è la loro vanità. E allora vai con minigonne, magliette cortissime, pancini e schiene scoperte, sfacciataggine e volgarità ovunque, trucco pesante, ragazzine che già si vestono come ventenni...non hanno più nessun ritegno perché osare porre loro qualche ritegno sarebbe gravissima violazione della libertà e finiresti per passare per maschilista, reazionario, obsoleto. Sì, perché oggi il buon senso è obsoleto! La stragrande maggioranza degli uomini subisce passivamente questa invasione di carne nuda perché non può che caderne preda, non può che desiderarla e rimanerne abbagliato nella vana speranza di ottenerne almeno un p per sé. Ma così non sarà, perché per la femmina il piacere dell'esibizione, del sentirsi adorata e desiderata è maggiore del piacere stesso del sesso, ed è questo che l'uomo non capirà mai. Se l'uomo ha fame desidera mangiare, e se può mangia. Questa è la sua logica semplice, chiara, sana. La donna ha un modo di vedere le cose opposte: se ha fame cercherà chi ha più fame di lei (l'uomo) e invece di condividere il cibo godrà nel vederlo patire di fronte alle pietanze cui non può accedere senza il suo consenso, ovvero senza aver accettato e rispettato tutte le sue condizioni, è questo il nucleo del ricatto. 

E così rimane da fare, ai poveri maschi bistrattati? Non hanno grandi difese perché, come detto, la ... dalla parte del manico ce l'hanno loro e con il ricatto di escluderli dalla giostra della Vita potranno sempre indurli a fare ci che vogliono che loro facciano. Eppure, almeno a livello di relazioni saltuarie e occasionali, una soluzione c'è: NON CALCOLARLE! Ovvero insinuare in loro un dubbio terribile, l'unico di cui hanno davvero paura: far leva sul loro unico punto di debolezza a vostro favore: il timore di essere rifiutate, di non essere attraenti, di non poter usare le armi di cui la Natura le ha dotate, di non poter ricorrere al ricatto per ottenere da voi ci che vogliono, di non poter, in ultima istanza, concepire la Vita (in fondo è solo questo che interessa loro) per mancanza di interesse del seme. Sì, perché è questa l'unica merce rara e preziosa di cui è fornito l'uomo e che manca alla donna per essere una creatura perfetta a completamente autosufficiente. Che piaccia loro o no avranno sempre bisogno del seme per portare a termine i loro disegni e progetti. 

E allora l'unica arma di difesa sta nel far loro credere che non è poi così scontato, come credono, che lo possano ottenere quando e come vogliono. In sostanza è un contrattacco con le loro stesse armi (anche se in maniera più debole): TIRARSELA! Non c'è altra soluzione se non volete soccombere al loro schizofrenico delirio di onnipotenza. Quando camminate per strada e state per incrociare una bella ragazza, magari anche poco vestita, non guardatela, anzi, quando le transitate vicino guardate con indifferenza dalla parte opposta! Guardatela solo quando siete sicuri che lei non possa vedervi, altrimenti siete fregati, perché se capisce che siete attratti da lei allora avete già perso la battaglia. Non è facile perché la tentazione è sempre quella di cadere nei loro miseri trucchetti per farsi notare: alzare la voce quando le passate vicino, o voltarsi di scatto come niente fosse fingendo di osservare altrove per controllare a sorpresa chi la sta guardando, passarsi le mani tra i capelli evidenziando i seni, girarsi per vedere una vetrina magari vuota solo per controllare nel riflesso se le stai guardando...i trucchi cui ricorrono sono decine e decine e l'unico modo per riconoscerli e difendersi è proprio quello di ignorarle. Ovviamente le ignorerete con lo sguardo, ma con la coda dell'occhio, non appena fatta l'abitudine, noterete le reazioni stizzite e infastidite della femmina che si sente respinta, che vede andare a vuoto le proprie armi seduttive. Non c'è niente di più istruttivo per cercare di capire la loro logica perversa e infida che sforzarsi di ignorarle (ovviamente questo deve avvenire in maniera non appariscente, se capiscono che lo fate apposta allora il gioco perde di senso, oltre che attirarvi le loro ire isteriche, bisogna imparare a recitare, d'altra parte loro non fanno altro tutta la vita). Solo così verranno a galla i loro trabocchetti e le loro trappole. Perché nel rapporto tra i generi la loro logica non è come quella maschile, chiara e sincera: cosa riesco a fare? Ma è più complessa e nascosta: cosa riesco a fargli fare? E per farvi fare qualcosa vi devono avere in pugno, e questo lo ottengono, al solito, col ricatto sessuale. E allora l'unico modo di salvare la propria integrità psichica di fronte alle loro continue subdole offensive (subdole perché fanno leva sui nostri punti deboli) è quella di insinuare il dubbio della frase che non vorrebbero mai sentirsi dire: "Non ti s......i per nulla al mondo" che, per loro, equivale a sentirsi dire: "Non servi alla riproduzione della Vita". 

C'è un altro ottimo motivo per evitare il loro sguardo, quando ci non serva. Per chi ha spirito di osservazione (qualità molto rara negli uomini e invece preponderante nelle donne) sarà apparso chiaro che lo sguardo e gli occhi di una donna non sono mai neutri. Quando li incrociate, se non siete ciechi/muti/sordi, vi accorgerete che esprimono sempre qualcosa: tristezza, insoddisfazione (spessissimo), pudore, vergogna, desiderio, noia, gioia (rarissimo). Non è mai lo sguardo di un uomo che incrociate per strada e voi pensate ai fatti vostri, lui ai suoi, se i vostri occhi si incrociano è cosa di un attimo, un microsecondo e finisce lì. Con le donne mai perché inconsciamente per loro l'uomo è il punto verso cui far convergere le loro richieste ma soprattutto le loro pretese. E quindi non perdono mai occasione di di-mostrarvi cosa hanno in animo anche perché fondamentalmente dei loro innumerevoli problemi illusori e illusionisti incolpano sempre e comunque qualche maschio che, colpevole di essere una bestia, con la sua insensibilità le ferisce e non le comprende. Ecco che, allora, anche voi passanti siete oggetto di rivendicazioni e aspettative. Tutto questo si gioca anche in uno sguardo incrociato per una frazione di secondo, serve un acuto spirito di osservazione per percepire queste cose: loro lo sanno benissimo, lo percepiscono, gli uomini no, tranne pochi casi. Quindi, evitare il loro sguardo diventa anche una strategia difensiva importante per la conservazione della propria energia. Quando incrociate lo sguardo di una donna bene che vi vada vi guarda dall'alto (tipo dall'Everest) in basso, in quel caso, se avete un minimo di sensibilità, autostima e istinto della conquista, la cosa non vi farà troppo bene perché s'insinuerà nel circolo della vostra Energia Interna deviandola verso pensieri negativi. Male che vi vada vi donerà uno di quegli sguardi pieni di richieste, pretese ed aspettative. Anche in questo caso se avete la sensibilità percettiva che vi rende capaci di accorgervi di ci allora anche in questo caso la vostra Energia verrà in qualche modo risucchiata (mi scuso per il doppio senso) verso di lei, anche se per un brevissimo istante. Ma ripetendo questa sottrazione energetica numerose volte il giorno, per numerosi giorni l'anno per numerosi anni...ne consegue una privazione energetica notevole. Di questo l'uomo non si accorge, perso com'è a inseguire il sogno riproduttivo.

Quindi, cari maschi, non abbiate paura a non guardarle, ci non vi configura come "finocchi" e nemmeno vi farà perdere delle buone occasioni perché se a una donna interessate davvero troverà ogni modo possibile per farvi cadere in trappola, 99 volte su 100 quando vi guarda desidera semplicemente accertarsi delle vostre reazioni di fronte a lei, cerca solo conferme alla sua voragine di vanità, non è certo perché le interessate, come voi egocentrici maschietti pensate sempre! Non è per cattiveria o per odio che è necessario ricorrere a questi stratagemmi, ma è semplice autodifesa per non soccombere al loro strapotere. In fondo, il loro stesso atteggiamento è parecchio abietto: di voi a loro non frega nulla, siete un perfetto estraneo eppure pretendono con tutta la loro forza che siate perdutamente attratto dalla loro bellezza (o presunta tale) e che glielo dimostriate. E' da qui che derivano quel poco di autostima che hanno, e più le guardate, più le adorate e più diventerete loro schiavo, loro strumento. Il consiglio allora è semplice: provate per un p di tempo a evitare accuratamente di guardarle e questo in tutte le occasioni, per strada, al lavoro, a scuola...presto comincerete a notare le reazioni e questo Vi insegnerà piano piano a quali trucchi meschini ricorrono per tenervi sotto scacco e eviterete nel futuro: DRASTICHE SEPARAZIONI!!!!!!!!!!!! . E una volta riconosciuti questi trucchi avrete ristabilito, almeno un p, parte di quell'equilibrio perso dalla modernità... e cosa succederà allora? riavremmo la donna del focolare come un tempo o la terza fase tanto agognata: finalmente la parità tra i sessi???????

Come difendersi dalla donna moderna! Cari maschietti di oggi, avete mai avuto l'impressione che quella terribile e temibilissima creatura che va sotto il nome di donna moderna abbia un potere eccessivo sulla Vostra vita e Ve ne sentite minacciati? Ebbene non abbiate paura di ammetterlo, non siete Voi in torto ma loro! Basta con queste cazzate dell'uomo debole, l'uomo mezza sega e la superdonna! La verità che la modernità ha stravolto degli equilibri delicatissimi che duravano da millenni e che erano la base di tutto il sistema riproduttivo della società.  Non è mio intendimento analizzare qui il rapporto uomo-donna (altri approfondimenti li potete trovare nella pagina di VerbaVolant), basterà prendere atto del fatto che ad oggi, nella società occidentale, vi è un pesante squilibrio a favore del sesso femminile. In sostanza, si è rotto quell'equilibrio che per secoli aveva retto la società. Equilibrio che le femministe vedevano come oppressione del maschio sulla femmina e che, ad un primo sguardo superficiale (la superficialità è femmina) poteva apparire come reale ma, ad uno sguardo più approfondito, era palese che le cose stavano esattamente al contrario. Parliamoci chiaro: prendendo in considerazione tutti gli elementi diventa lapalissiano che il sesso più forte è quello femminile e non quello maschile. E questo non, come credono le moderne femministe, per una loro intrinseca superiorità o perché sono migliori di noi (come piace loro pensare) ma semplicemente perché hanno il coltello, anzi la passera dalla parte del manico, non so se mi spiego! Non prendiamoci in giro: l'aspetto della riproduzione della specie, ovvero della sua conservazione e propagazione è assolutamente centrale e fondamentale per qualsiasi forma di vita, vuoi che non sia così anche per gli uomini?! E chi detiene il potere di decidere in merito? Chi ha le chiavi della porta segreta? Chi stabilisce che ha diritto di trasmettere i propri geni e chi invece è destinato a sparire nelle nebbie del tempo? Chiaramente loro! E non sto neanche a spiegarvi il perché. Non appare allora strano che la Natura le abbia dotate di tutta una serie di caratteristiche e qualità importantissime che ne fanno, alla lunga, creature nettamente superiori al maschio. E' vero che il maschio ha dalla sua capacità e facoltà superiori, ma sono tutte chance che può mettere in pratica in ben pochi ambiti, e così alla lunga perde la corsa. Era un pò come l'eterno scontro tra Usa e Urss: tutto il mondo sapeva bene che gli Usa erano più forti (tipo le donne) però si era creato un certo equilibrio che manteneva le cose stabili. Una volta che l'elemento più debole si è sgretolato quello più forte, non avendo più nessun contrappeso e/o elemento di limitazione-controllo può fare come cazzo gli pare esasperando la propria potenza così come i propri lati oscuri, non più tenuti a bada dall'equilibrio bipolare. E le donne uguale, liberatesi dall'equilibrio millenario sono tutte in preda a una crisi isterico-depressiva da delirio di onnipotenza. Non sanno più cosa farsene del maschio che hanno sconfitto, il loro passatempo preferito è diventato la denigrazione continua del maschio, eppure non sono felici perché invece la felicità stava ed è sempre stata nell'integrazione armonica delle due superpotenze, indipendentemente da chi era per davvero il più forte. Ora che questo ha vinto il risultato è una desolante e opprimente solitudine generalizzata.

Ed è per questo che nel tempo questo incredibile squilibrio che ha origine naturali è stato compensato con il bilanciamento del potere, ovvero attribuendo al maschio poteri maggiori che gli davano l'illusione di essere lui a decidere, quando comunque non era così. Lo sappiamo noi e lo sanno loro, solo che non si diceva. La donna lasciava l'uomo crogiolarsi nella sua illusione di potere perché in fondo sapeva che poteva farne ciò che voleva. E questo, chiaramente, facendo leva fondamentalmente sullo strumento del ricatto, sia sessuale che sentimentale. Qualsiasi uomo che non abbia il prosciutto sugli occhi capisce ben presto che la donna dà molto ma prende indietro almeno il triplo, e le condizioni da accettare sono alla fine sempre le sue. Le puoi girare e rigirare come vuoi ma alla fine l'hanno vinta sempre loro. Non è vittimismo ma constatazione lucida della potenza dello strumento del ricatto, dal quale ben pochi uomini sono in grado di difendersi.

E allora veniamo al punto: difendersi! Sì perché lo squilibrio ha raggiunto livelli tali che è necessario fare qualcosa per tutelarsi. Se un tempo alla donna veniva proibito di scoprirsi, se le veniva imposta la castità, se era obbligata ad indossare il velo, per quanto ai nostri occhi ci appaia come una limitazione inaccettabile della libertà personale, in un'ottica più ampia e meno miope aveva una sua logica ben precisa: ovvero livellare tra i due generi il potere. Come a dire: la tua arma è troppo affilata, la devi spuntare un pò così torniamo pari o quasi. Non che io giustifichi queste limitazioni della libertà individuale, per me sono accettabili, ma per cercare di capire anche quello che ci sembra ingiusto e incomprensibile è necessario fare un piccolo sforzo e tentare di entrare in quella logica per scoprirne le ragioni di fondo. Saranno poi queste che ci aiuteranno a vedere l'intera situazione sotto un'ottica più ampia. E così con il sesso. Tutte le restrizioni e i tabù imposti alla donna avevano lo scopo di tutelarla e con essa di tutelarne il potere riproduttivo. Il controllo sulla sessualità femminile e sul suo corpo non era altro che il tentativo, forse un pò patetico ma comprensibile, del maschio di ristabilire un certo equilibrio nel grande gioco riproduttivo.

E questo equilibrio è stato compromesso. La liberazione sessuale non è diventato altro che un alibi a favore della donna per la sua infinità vanità. Questo è. Non ha portato a quell'equilibrio sperato, che già c'era, ma ha, anzi, ribaltato la situazione attribuendo a una parte tutto quel potere che, per le leggi della Natura, non poteva che avere. E questo potere lo gestisce male perché non era nei suoi compiti gestirlo. Alcune obiettano che le posizioni di comando nella società sono ancora riservate agli uomini, può darsi, ma in fondo è una cosa che riguarda una fascia ridottissima di persone, la stragrande maggioranza di persone si confronta con ben altri problemi. E sul lavoro, nella scuola, nei rapporti affettivi...lo strapotere femminile è evidente. La loro illogicità e irrazionalità, sbandierata ai quattro venti come elemento distintivo di superiorità, è un alibi dietro il quale nascondersi per non dover mai rendere conto dei propri comportamenti. Qualsiasi cosa accada avevano ragione loro, riescono sempre a rigirare la frittata così tante volte finché non è dalla loro parte.

L'assedio è continuo, donne ovunque che ostentano la propria femminilità, perché nel crollo dei tabù tradizionali sono state investite da un delirio di onnipotenza. E' allora diventa per loro lecito, anzi quasi obbligatorio, trovare tutti i modi possibili per provocare e attirare l'attenzione su di sé attingendo da quel serbatoio senza fondo che è la loro vanità. E allora vai con minigonne, magliette cortissime, pancini e schiene scoperte, sfacciataggine e volgarità ovunque, trucco pesante, ragazzine che già si vestono come ventenni...non hanno più nessun ritegno perché osare porre loro qualche ritegno sarebbe gravissima violazione della libertà e finiresti per passare per maschilista, reazionario, obsoleto. Sì, perché oggi il buon senso è obsoleto! La stragrande maggioranza degli uomini subisce passivamente questa invasione di carne nuda perché non può che caderne preda, non può che desiderarla e rimanerne abbagliato nella vana speranza di ottenerne almeno un pò per sé. Ma così non sarà, perché per la femmina il piacere dell'esibizione, del sentirsi adorata e desiderata è maggiore del piacere stesso del sesso, ed è questo che l'uomo non capirà mai. Se l'uomo ha fame desidera mangiare, e se può mangia. Questa è la sua logica semplice, chiara, sana. La donna ha un modo di vedere le cose opposte: se ha fame cercherà chi ha più fame di lei (l'uomo) e invece di condividere il cibo godrà nel vederlo patire di fronte alle pietanze cui non può accedere senza il suo consenso, ovvero senza aver accettato e rispettato tutte le sue condizioni, è questo il nucleo del ricatto.

E così ci resta da fare, a noi poveri maschi bistrattati? Non abbiamo grandi difese perché, come detto, la passera dalla parte del manico ce l'hanno loro e con il ricatto di escluderti dalla giostra della Vita potranno sempre indurti a fare ciò che vogliono che tu faccia. Eppure, almeno a livello di relazioni saltuarie e occasionali, una soluzione c'è: NON CAGARLE! Ovvero insinuare in loro un dubbio terribile, l'unico di cui hanno davvero paura: far leva sul loro unico punto di debolezza a nostro favore: il timore di essere rifiutate, di non essere attraenti, di non poter usare le armi di cui la Natura le ha dotate, di non poter ricorrere al ricatto per ottenere da noi ciò che vogliono, di non poter, in ultima istanza, concepire la Vita (in fondo è solo questo che interessa loro) per mancanza di interesse del seme. Sì, perché è questa l'unica merce rara e preziosa di cui è fornito l'uomo e che manca alla donna per essere una creatura perfetta a completamente autosufficiente, che piaccia loro o no avranno sempre bisogno del seme per portare a termine i loro disegni e progetti.

E allora l'unica arma di difesa sta nel far loro credere che non è poi così scontato, come credono, che lo possano ottenere quando e come vogliono. In sostanza è un contrattacco con le loro stesse armi (anche se in maniera più debole): TIRARSELA! Non c'è altra soluzione se non vogliamo soccombere al loro schizofrenico delirio di onnipotenza. Quando cammini per strada e stai per incrociare una bella ragazza, magari anche poco vestita, non la guardare, anzi, quando le transiti vicino guarda con indifferenza dalla parte opposta! Guardala solo quando sei sicuro che lei non possa vederti, altrimenti sei fottuto, perché se capisce che sei attratto da lei allora hai già perso la battaglia. Non è facile perché la tentazione è sempre quella di cadere nei loro miseri trucchetti per farsi notare: alzare la voce quando le passi vicino, o voltarsi di scatto come niente fosse fingendo si osservare altrove per controllare a sorpresa chi la sta guardando, passarsi le mani tra i capelli evidenziando i seni, girarsi per vedere una vetrina magari vuota solo per controllare nel riflesso se le stai guardando...i trucchi cui ricorrono sono decine e decine e l'unico modo per riconoscerli e difendersi è proprio quello di ignorarle. Ovviamente le ignoriamo con lo sguardo, ma con la coda dell'occhio, non appena fatta l'abitudine, noteremo le reazioni stizzite e infastidite della femmina che si sente respinta, che vede andare a vuoto le proprie armi seduttive. Non c'è niente di più istruttivo per cercare di capire la loro logica perversa e infida che sforzarsi di ignorarle (ovviamente questo deve avvenire in maniera non appariscente, se capiscono che lo fate apposta allora il gioco perde di senso, oltre che attirarvi le loro ire isteriche, bisogna imparare a recitare, d'altra parte loro non fanno altro tutta la vita). Solo così verranno a galla i loro trabocchetti e le loro trappole. Perché nel rapporto tra i generi la loro logica non è come quella maschile, chiara e sincera: cosa riesco a fare? Ma è più complessa e nascosta: cosa riesco a fargli fare? E per farci fare qualcosa ci devono avere in pugno, e questo lo ottengono, al solito, col ricatto sessuale. E allora l'unico modo di salvare la propria integrità psichica di fronte alle loro continue subdole offensive (subdole perché fanno leva sui nostri punti deboli) è quella di insinuare il dubbio della frase che non vorrebbero mai sentirsi dire: "Non ti scoperei per nulla al mondo" che, per loro, equivale a sentirsi dire: "Non servi alla riproduzione della Vita".

C'è un altro ottimo motivo per evitare il loro sguardo, quando ciò non serva. Per chi ha spirito di osservazione (qualità molto rara negli uomini e invece preponderante nelle donne) sarà apparso chiaro che lo sguardo e gli occhi di una donna non sono mai neutri. Quando li incroci, se non sei cieco/muto/sordo, ti accorgerai che esprimono sempre qualcosa: tristezza, insoddisfazione (spessissimo), pudore, vergogna, desiderio, noia, gioia (rarissimo). Non è mai lo sguardo di un uomo che incroci per strada e tu pensi ai fatti tuoi, lui ai suoi, se i vostri occhi si incrociano è cosa di un attimo, un microsecondo e finisce lì. Con le donne mai perché inconsciamente per loro l'uomo è il punto verso cui far convergere le loro richieste ma soprattutto le loro pretese. E quindi non perdono mai occasione di di-mostrarti cosa hanno in animo anche perché fondamentalmente dei loro innumerevoli problemi illusori e illusionisti incolpano sempre e comunque qualche maschio che, colpevole di essere una bestia, con la sua insensibilità le ferisce e non le comprende. Ecco che, allora, anche tu passante sei oggetto di rivendicazioni e aspettative. Tutto questo si gioca anche in uno sguardo incrociato per una frazione di secondo, serve un acuto spirito di osservazione per percepire queste cose: loro lo sanno benissimo, lo percepiscono, gli uomini no, tranne pochi casi come il sottoscritto. Quindi, evitare il loro sguardo diventa anche una strategia difensiva importante per la conservazione della propria energia. Quando incrociate lo sguardo di una donna bene che vi vada vi guarda dall'alto (tipo dall'Everest) in basso, in quel caso, se avete un minimo di sensibilità, autostima e istinto della conquista, la cosa non vi farà troppo bene perché s'insinuerà nel circolo della vostra Energia Interna deviandola verso pensieri negativi. Male che vi vada vi donerà uno di quegli sguardi pieni di richieste, pretese ed aspettative. Anche in questo caso se avete la sensibilità percettiva che vi rende capaci di accorgervi di ciò allora anche in questo caso la vostra Energia verrà in qualche modo risucchiata (mi si scusi il doppio senso) verso di lei, anche se per un brevissimo istante. Ma ripetendo questa sottrazione energetica numerose volte il giorno, per numerosi giorni l'anno per numerosi anni...ne consegue una privazione energetica notevole. Di questo l'uomo non si accorge, perso com'è a inseguire il sogno riproduttivo.

Sì, perché qui sta l'inganno, il tranello: lei sa benissimo che l'uomo la guarderà perché tutto quello che l'uomo si aspetta dalla donna (e non fatemi dire che cosa) per lui passa attraverso lo sguardo anzitutto (con gli occhi il maschio valuta stereoscopicamente la validità riproduttiva della femmina tramite parametri inconsci molto precisi, secondo alcune ricerche uno di questi, per esempio, è un rapporto vita/fianchi di 2/3). Imparando questo molto presto le signorine basano poi per tutta la vita la loro autostima sulla quantità di "sguardi" che riesce ad attirare su di lei. A maggior ragione in una società dove l'immagine è tutto, dov'è l'ideale femminile si è astratto su un target di bellezza assolutamente utopistico e irraggiungibile (per la stragrande maggioranza delle donne) dai canoni perfetti, in una società dove tutto è permesso e dove il pudore è stato bandito come anacronistico il risultato non poteva che essere ciò che abbiamo sotto gli occhi: una vanità femminile parossistica e vittima di un delirio di onnipotenza pericolosissimo. Quindi, cari maschi, non abbiate paura a non guardarle, ciò non vi configura come "finocchi" e nemmeno vi farà perdere delle buone occasioni perché se a una donna interessate davvero troverà ogni modo possibile per farvi cadere in trappola, 99 volte su 100 quando vi guarda desidera semplicemente accertarsi delle vostre reazioni di fronte a lei, cerca solo conferme alla sua voragine di vanità, non è certo perché le interessate, come voi egocentrici maschietti pensate sempre!

Non è per cattiveria o per odio che è necessario ricorrere a questi stratagemmi, ma è semplice autodifesa per non soccombere al loro strapotere. In fondo, il loro stesso atteggiamento è parecchio abietto: di te a loro non frega nulla, sei un perfetto estraneo eppure pretendono con tutta la loro forza che tu sia perdutamente attratto dalla loro bellezza (o presunta tale) e che glielo dimostri. E' da qui che derivano quel poco di autostima che hanno, e più le guardi, più le adori e più diventerai loro schiavo, loro strumento. Il consiglio allora è semplice: provate per un pò di tempo a evitare accuratamente di guardarle e questo in tutte le occasioni, per strada, al lavoro, a scuola...presto comincerete a notare le reazioni e questo Vi insegnerà piano piano a quali trucchi meschini ricorrono per tenerci sotto scacco.

E una volta riconosciuti questi trucchi avrete ristabilito, almeno un pò, parte di quell'equilibrio perso dalla modernità...

LA SUPPONENTE IDIOZIA. DELLA INCOMPATIBILITA’ FRA LUOGHI COMUNI FEMMINISTI E LIBERTA’ DEMOCRATICA, scrive Luigi Corvaglia il 5 dicembre 2014 su "Il Moralista". “Nazionalsocialismo o caos bolscevico?”. Così era scritto. Non ci rimase bene la sbirraglia della Gestapo quando al loro bel manifesto propagandistico sui benefici del nazismo fu allegato un foglietto apocrifo. Sotto la grande scritta di quella che doveva apparire come una domanda retorica qualcuno si era infatti premurato di affiggere un volantino su cui era scritto “Erdapfel oder Kartoffel?”, cioè “patate o patate”? Ecco. Benché Proudhon abbia affermato che le antinomie sono la vera struttura del sociale, l’aggregato di bipedi ai quali mi pregio di appartenere sembra operare una lettura della complessità basata su contrapposizioni che si rivelano illusorie. Due totalitarismi, insomma, andrebbero inclusi in una medesima categoria e contrapposti alla democrazia. Nel campo ideologico questa fallacia, nota come “illusione di alternative” si presenta ad ogni piè sospinto. Si usa, in altri termini, leggere il mondo con lenti che sono solo apparentemente bipolari; eppure sono in grado di creare un manicheismo che è matrice dei più gravi fraintendimenti. Tanto premetto al fine di evitare almeno le più scontate delle reazioni alla mia dichiarazione di profonda ostilità alle cosiddette battaglie per la difesa dei “diritti” delle donne effettuata chiedendo il soccorso alla forza dello Stato. Sia chiaro, non posso certo impedire a chicchessia di etichettare la cosa come “maschilismo” , ma si sappia che ciò sarà possibile solo sulla scorta del ragionamento in base al quale è maschilismo ciò che si oppone al “femminismo”. In realtà, io credo che maschilismo e femminismo non siano una coppia di opposti più di quanto non lo siano le patate e le patate. Premetto ancora che ritengo in media gli uomini peggiori delle donne. Sono bastardi, fedifraghi, bugiardi, competitivi e opportunisti in percentuali ben maggiori. Il fatto è che posso fare questa affermazione senza timore di essere coperto da vituperi da parte di qualche conspecifico del mio sesso o da una qualche associazione che raduna primati forniti di genitali esterni al fine di difenderne i supposti “diritti”. Tutti sappiamo, invece, che chiunque mettesse in fila un similare elenco di pessime qualità in riferimento alle donne dovrebbe cominciare a temere per la propria incolumità. Qualcosa questo dovrà pur significare. Molte cose, forse. Di certo una di queste è che, come diceva George Orwell, alcuni esseri umani sono “più uguali” di altri; già, ma quello che rende un supposto “diritto” tale è la sua universalità, altrimenti cessa di essere un diritto e diventa un privilegio. Noi uomini lo sappiamo bene, visto che di privilegi abbiamo goduto a lungo. Ora, è bene chiarirci sul fatto che non esiste qualcosa come i “diritti” in senso oggettivo. I diritti sono delle aspettative che ci si attende vengano soddisfatte perché una specifica società le ha rese ragionevoli e consone al proprio senso di giustizia. Ma giustizia è equità. Se si è tutti uguali si “deve” essere trattati in modo uguale. Per questo si dice che tutti hanno i medesimi “diritti”. Se nella mia società ognuno ha il diritto di non essere discriminato per il proprio sesso, non dovrà esserlo né in quanto donna, né in quanto uomo. Il discorso fila. Peccato che, nonostante la continua geremiade femminile sul permanere delle discriminazioni nei confronti delle donne anche nelle nostre avanzate società occidentali, dei privilegi di cui ormai esse godono è difficile tenere il conto. Ciò grazie agli strumenti che ci vengono venduti come la garanzia di equo trattamento: legislazione e diritto. Cominciamo dal diritto di famiglia. Nella quasi totalità dei casi di separazione e divorzio le donne si tengono la casa e i figli, mentre il marito viene sbattuto per strada e, per sovrapprezzo, si pretende da questo poveraccio di dover permettere alla ex consorte lo stesso tenore di vita di prima. Equità, si diceva. Vogliamo parlare del diritto penale? Una delle parole feticcio del nuovo secolo è stalking. Si dà per scontato che la vittima dello stalking sia sempre donna. L’art. 612 bis sugli atti persecutori chiarisce perfettamente che se inviassi qualche mazzo di rose alla donna di cui fossi innamorato commetterei un atto che si configura come una condotta criminale qualora questa donna affermasse di ricavare un disagio psichico o esistenziale dal fatto di ricevere tali omaggi floreali (cioè, nel caso in cui non le piacessi). Infatti, non esiste alcun criterio oggettivo per definire una molestia, ma solo quello soggettivo della vittima. Infatti, se la donna ricambiasse il mio amore, anche venti mazzi al giorno non costituirebbero alcun reato. A decidere se il reato sussiste o no è la destinataria delle attenzioni. E’ dai tempi della caccia alle streghe, quando l’accusa si basava sulla dichiarazione di maleficio subito da parte della vittima, che non avveniva una cosa simile. Eppure gli apologeti dello “stato di diritto” affermano che di questa entità il principio fondamentale sarebbe quello che vuole che le norme penali siano caratterizzate da una descrizione della condotta criminosa quanto più oggettiva e precisa. Ciò al fine di ridurre al minimo gli spazi di discrezionalità nella valutazione dei fatti. Gli spazi di discrezionalità rischiano di creare categorie protette e categorie maledette. Ciò che è certo è che l’arma della denuncia per stalking viene ormai agitata, esclusivamente dalle donne, nei confronti dei coniugi al fine di ottenere condizioni più vantaggiose nei procedimenti di separazione. L’apoteosi dell’idiozia, però, è l’imperante ultima moda in fatto di luoghi comuni, cioè la l’ “emergenza femminicidio”. Il concetto è molto trendy: il mondo si sarebbe riempito di uomini intenzionati ad uccidere le donne. Nonostante il martellamento mediatico che ha favorito la promulgazione di una raffazzonata legge inserita nel nostro ordinamento penale, la notizia è falsa. Non esiste nulla di simile ad una “emergenza femminicidio”, almeno non più di quanto esista una emergenza biondicidio (che riguarda i biondi), calvicidio (calvi), miopicidio (miopi), ecc. E’ ovvio che finché esisteranno gli omicidi verrà uccisa una percentuale di biondi, di calvi, di miopi e, quindi, anche di donne. Insomma, gli uomini sono molto più violenti delle donne e commettono la stragrande maggioranza degli omicidi. Il fatto è che i sessi sono solo due, quindi che ci siano molti uomini che uccidono anche donne appare ovvio. Ciononostante, il rapporto fra maschi e femmine vittime di omicidio è di sette a tre. Inoltre, il numero di donne uccise non è mai cresciuto negli ultimi vent’anni né in senso assoluto né relativo. Poiché poi per femminicidio si intende, non l’uccisione di una donna da parte di un uomo, bensì l’uccisione di una donna perché donna, le percentuali risultano veramente risibili. Non esiste alcuna emergenza femminicidio. Però esiste la legge sul femminicidio. Una vera mostruosità logica prima che giuridica. Si prevede l’aggravante per i casi di relazione affettiva con una vittima donna. In altri termini, il marito che uccide la moglie commette un atto più grave della moglie che uccide il marito. Equità, si diceva. Sempre gli entusiasti del diritto, nel cui novero non trovo posto, sanno bene che un reato deve essere punito avendo a riferimento l’azione compiuta e non la qualità della vittima. Appare del tutto impropria una scala nella gravità dei delitti costruita sulla base della riprovazione ideologica del fatto piuttosto che dell’incidenza sociale del fatto stesso. L’ennesima concessione alla prepotenza della dominante cultura della misandria, ossia dell’odio politicamente corretto verso l’universo maschile. Ora, avvalorare e implementare la supposta lotta per la parità dei diritti delle donne mediante l’intervento coattivo dello Stato è masochistico e delirante, non solo per gli uomini, ma per tutti coloro i quali hanno a cuore una società libera ed equa. Far valere i propri “diritti” chiedendo di farli imporre dallo Stato è come pretendere che a scuola non ci rubino le merendine perché abbiamo un fratello maggiore manesco e bullo che le merendine le ruba lui agli altri. Forse le merendine non ce le ruberanno più, ma certo quello che guadagneremo non si chiama né rispetto né simpatia. Perfino i devoti del rito elettorale saranno stati sfiorati da simili pensieri recandosi alle urne per le elezioni Regionali o Europee nell’attuale dominio del “politically correct”. Non si può più scegliere i propri “rappresentanti” perché li si considera validi, ma bisogna tener conto anche del sesso al fine di “garantire una adeguata rappresentanza femminile”. E questo non avviene solo in quel mercato delle vacche che è la politica, ma è obbligo di legge perfino nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Ecco che l’idiozia passa dalla condizione di tara sociale a totalitarismo, da fisiologica, ma democratica, inadeguatezza cognitiva a dittatura dell’imbecillità! Allora perché non immaginare una quota per i gay? Vogliamo discriminarli rispetto alle donne? Poi una quota per i trans, una per i transgender, una per i bisex e via così seguendo tutte le declinazioni della sessualità. E i calvi? Li vogliamo discriminare? I bassi? Gli islamici? Gli indù? Quelli con la erre moscia? E perché questa cosa deve valere solo per la rappresentanza politica? Se vogliamo veramente utilizzare la forza per falsare il gioco a favore di una categoria protetta dobbiamo immaginare delle quote rosa nei concorsi della pubblica amministrazione, per la scelta del medico di base, eccetera. E se qualcuno pretendesse le “quote azzurre” per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia? Forse che lì non esiste una scarsa rappresentanza del genere maschile?  Insomma, dai salotti mediatici ai postriboli politici non si fa altro che ciarlare di “meritocrazia” e poi si propone quale strumento di “emancipazione” un’idea di incommensurabile imbecillità come l’obbligo della “parità di genere”, una offesa al merito, alla libertà e anche alle donne. Una donna dotata di un minimo di orgoglio e di dignità dovrebbe sentirsi umiliata dall’ aver conquistato uno scranno o una poltrona, non per i propri riconosciuti meriti, ma solo perché portatrice di utero. Non solo. La “parità di genere” nella sua realizzazione pratica si concretizza come tutti sappiamo: in politica, si reclutano donne a caso, senza guardare a meriti, competenze, volontà solo per non far saltare le liste; nei consigli di amministrazione siedono esclusivamente donne appartenenti alla famiglia del maggior azionista. Questo, non perché una società maschilista e fallocratica impedisca alle donne di candidarsi o di pretendere di fare impresa, ma perché, rispetto agli uomini, sono molte di meno le donne che vogliono o possono permettersi di partecipare alla vita politica ed imprenditoriale. Una società libera o anche solo sufficientemente liberale si basa sulla volontaria scelta degli individui e il loro libero arrangiamento. Non è creando recinti di protezione per panda che le donne raggiungeranno la parità nella rappresentanza politica o societaria. Soprattutto, non è la parità nella rappresentazione a garantire di vivere in una società libera, avanzata e democratica. Altrimenti il paese più emancipato del mondo sarebbe il Rwanda, visto che la nazione africana guida la classifica dei paesi a più alta percentuale di donne in parlamento: ben il 63% del totale! Gli USA, il paese in cui le donne sono più ricche e potenti, ed uno di quelli in cui sono più libere ed emancipate, hanno solo il 17% di donne al Congresso. Probabilmente hanno cose più degne di cui occuparsi. In conclusione, è ora di finirla con tutti i piagnistei e col femminismo peloso (in tutti i sensi…). E’ progressismo di retroguardia. E’ liberazione carceraria. Soprattutto, è ora di finirla con gli stucchevoli luoghi comuni che sono i mantra della nostra era di idiozia supponente. Sono i teoremi che costituiscono l’ambiente culturale entro il quale avviene la devastazione della libertà e della democrazia di cui abbiamo detto sopra. Non esiste alcuna superiorità morale della donna. Si, perché anche con l’ex angelo del focolare si ripropone il mito delle maggior virtù dell’oppresso già visto all’opera in favore dei popoli colonizzati. Molti sono i parrucchieri, tante le maestrine, tantissime le conduttrici di talk show per casalinghe tutt’altro che emancipate a diffondere il verbo. Pare che la pretesa delle donne di forzare gli steccati di questa fantasmatica forza di fallodotati sia avvalorata non solo da ragioni di giustizia, ma anche, e forse soprattutto, dal fatto che le donne gestirebbero meglio società e cosa pubblica. Esse non sono violente e guerrafondaie come l’uomo, esse danno la vita, sono sensibili, sanno fare più cose insieme, sono più efficienti e meno competitive. Insomma fate governare le donne e il mondo diventerà un paradiso di efficienza e di pace. Sarà, ma le donne che conosco io sono in uno stato di tale insofferenza delle proprie consimili che dichiarerebbero una guerra al giorno. Alcune farebbero un deserto pur di averla vinta sulla vicina o per vendicarsi di un sottinteso che un uomo non sarebbe mai riuscito a comprendere. Datele il potere assoluto e saranno giorni amari. Esattamente come quando lo date agli uomini. Il potere non ha sesso. Insomma, si tratta della differenza fra Erdapfel (patate) e Kartoffel (patate). Luigi Corvaglia

Tette, Papi e Femen, scrive Giano su “Torre di Babele”. Non tutte le tette sono uguali. O meglio, come direbbero  i maiali di Orwell, si potrebbe dire che “Tutte le tette sono uguali, ma alcune tette sono più uguali di altre“. Insomma, secondo il più classico doppiopesismo dei moralisti a corrente alternata, c’è tetta e tetta.  Ha fatto scalpore il curioso “incidente hot” successo nel corso del programma  Tale e quale show, condotto da Carlo Conti.  Veronica Maya, durante la sua esibizione canora, forse per un movimento eccessivo del corpo, ha causato lo scivolamento del vestito lasciando in bella vista il seno. Grande imbarazzo, ma la nostra “Maya desnuda“ continua ad esibirsi, facendo finta di coprirsi ( sembra che sia  recidiva; lo stesso “incidente” le era successo già in passato), e intervento di Conti che  interrompe il numero e cerca di coprire le grazie nude della Maya. Del resto, scoprire improvvisamente alcune parti del corpo solitamente nascoste, è un “incidente” che succede molto frequentemente nel mondo dello spettacolo.  Basta ricordare Belen Rodriguez che in diretta TV a Sanremo mostra con disinvoltura la sua farfallina inguinale. O Laura Pausini che durante un concerto in Messico, rientra sul palco, dopo una pausa,  indossando solo un accappatoio che si apre sul davanti, lasciando vedere a tutto il pubblico che, forse per una dimenticanza o per la fretta di rientrare, ha dimenticato di indossare le mutandine. Succede a tutti, no? Strani incidenti che lasciano molti dubbi sul fatto che si tratti di un “incidenti casuali“. Si tratta, comunque, di immagini di nudità che, solitamente, sui media  appaiono ritoccate o censurate (esempio classico è quel ridicolo quadratino o fascetta che nasconde i capezzoli o la sfocatura su foto e video). Poi magari, subito dopo va in onda un film della serie Giovannona coscia lunga, dove si vede di tutto e di più, ma continuano a mettere le fascette sui capezzoli. E’ lo stesso principio per cui, quando ci sono espressioni forti o scurrili in TV vengono censurate col classico Bip. Poi guardate un talk show, dove piovono insulti di ogni genere, o un monologo di Crozza e comici vari, e volano cazzi, culi, fighe e coglioni  come libellule a primavera.  Valli a capire questi censori ed i loro criteri.  Infatti anche nel video pubblicato dal Corriere.it, sopra linkato, si può vedere che il seno viene offuscato da una macchia biancastra. Quanto pudore! E quanta ipocrisia, in dosi industriali. Ma anche il pudore in Italia, come la morale,  è a corrente alternata. Questa a lato è Eva Grimaldi, reduce da non ricordo quale reality, ospite al programma “Quelli che il calcio” su RAI3, di primo pomeriggio, ora di massimo ascolto. Qui un servizio fotografico che documenta la sua performance da far invidia a Sharone Stone. Il fatto è che indossa un vestitino che non può dirsi nemmeno “mini“, è già a livello pubico e, come se non bastasse, ha due lunghi spazi laterali, col risultato che quando si siede, praticamente è come se fosse in  mutande. C’è chi mostra il sopra e chi mostra il sotto. E sembra una gara a chi mostra di più. Le tette della Maya alle 10 di sera fanno scandalo, le mutande della Grimaldi alle 3 del pomeriggio no. Qual è, secondo voi, il parametro di giudizio su ciò che è lecito e ciò che non lo è? Ah, saperlo. Ma non è il caso di farsene un problema, non lo sanno nemmeno gli addetti ai lavori,vanno a caso; questo sì, questo no. Ma torniamo alle tette. Abbiamo appena detto che mostrare il seno in TV non è consentito. Ora, proprio due giorni fa al programma Anno uno su LA7 si sono viste non due tette, ma addirittura 10, tutte nude, ben in vista e con i capezzoli in primo piano, senza sfumature o  quadratini che li coprissero. Erano le Femen, ormai famose per le loro azioni di protesta a seno nudo. Non sono capitate lì per caso, né si è trattato di una incursione, come sono solite fare. No, sono state espressamente invitate dalla conduttrice Giulia Innocenzi, quella che ha poche rivali nel giocarsi il ruolo di più antipatica della TV, grazie alla sua vocina leggermente nasale, il parlare cantilenante e l’aria spocchiosa e supponente della ragazzina  impertinente con la puzza sotto il naso. Ma questa esibizione è considerata del tutto normale. Infatti la Innocenzi, essendo “innocente“, ingenua e pura di cuore, non ci vede niente di male, non corre a coprile ed anzi le ringrazia per la partecipazione. Conclusione: le tette delle Femen sì, quelle della Maya no. Ma cosa c’entrano le Femen in quel programma? Sono andate per protestare contro la visita del Papa al Parlamento europeo, programmata per il prossimo 25 novembre. Dicono: “Siamo qui per annunciare che la parità, i vostri diritti, i nostri diritti, sono in pericolo e, sfortunatamente, la fonte del pericolo è proprio qui in Italia. Il 25 novembre il Papa si reca a parlare al Parlamento europeo, a Strasburgo in Francia. E questo è un attacco diretto alla laicità, alla parità, ai diritti umani ed alla separazione fra Chiesa e Stato, che deve diventare una priorità oggi.“.  Insomma, queste ragazzotte accaldate vogliono decidere chi può e chi non può andare al Parlamento europeo. Alla faccia della libertà di pensiero. Come se non bastasse, non si sono accontentate di fare la loro apparizione in TV. Visto che si trovano in Italia, approfittano delle “Vacanze romane” per fare, come tutti i bravi turisti, una visita a San Pietro. Ma loro sono turiste un po’ particolari e, quindi, si esibiscono in una performance non proprio rispettosa del luogo e del simbolo della fede cristiana.  Eccole che tengono un crocifisso in mano e se lo mettono…nel sedere.  Ecco, queste “brave ragazze“, invece di denunciarle e sbatterle in galera, noi le ospitiamo in televisione e le ringraziamo. Saremmo curiosi di vederle andare a Teheran (o in un altro paese musulmano) e fare una cosa del genere tenendo una copia del Corano sul culo. Non credo che le ospiterebbero sulla televisione nazionale. Di recente due cristiani (marito e moglie) in Pakistan, con l’accusa di blasfemia per aver offeso il Corano, sono stati bruciate in una fornace per laterizi. Altro che ospiti in TV. Ma è risaputo, la Chiesa ed  il Papa si possono offendere, sbeffeggiare, oltraggiare tranquillamente: è libertà di pensiero. Ma guai anche solo ad insinuare qualcosa di poco simpatico contro i musulmani: sarebbe gravissimo atto di islamofobia.  Ecco, questo è un perfetto esempio di doppia morale. Ora, oltre alla sottile differenza fra tette sì e tette no, tette scandalose e tette lecite, fra “tette buone” e “tette No buone“, si pone un altro problema. Non solo le tette delle Femen sono permesse (forse sono politicamente corrette e progressiste, al contrario di quelle della Maya che, evidentemente, sono reazionarie),  ma si tira in ballo il Papa ed il suo diritto di intervenire al Parlamento europeo. Allora bisogna fare un passo indietro e bisognerebbe leggere questo articolo del 28 settembre “Conchita Wurst in Europa; nell’Unione europea si parla di gay e trans”. Conchita Wurst è una trans (oggi vanno come il pane), ma con tanto di barba, che tempo fa ha vinto il festival europeo della canzone. Non è molto chiaro se abbia vinto perché più brava degli altri partecipanti, oppure perché è trans (sembra essere un titolo di merito: si vincono i festival, i reality, si va in Parlamento, si è ospiti fissi in TV)); resta il dubbio. Ovviamente è una delle attiviste militanti della lobby che raggruppa gay, lesbo, trans, bisex  e varia sessualità. Come programmato, lo scorso 8 ottobre, è intervenuta al Parlamento europeo dove ha tenuto un discorso sui diritti omosessuali, con interventi di altri europarlamentari di diversi gruppi. Successivamente si è esibita all’esterno interpretando alcune canzoni. Bastano questi pochi esempi (ma se ne potrebbero fare a centinaia) per  capire che, evidentemente, esiste una strana morale grazie alla quale certe nudità sono oscene ed altre sono del tutto naturali. Basterebbe ricordare che tempo fa la solita sinistra con la doppia morale fece una campagna contro Striscia la notizia, accusando il programma di Ricci di sfruttare il corpo femminile. Ora riguardate la foto di Eva Grimaldi e giudicate le differenze con le due veline che ballano a Striscia e che sono molto più coperte della Grimaldi. Basta ricordare le tante show girl che stazionano perennemente nei salotti TV ad ogni ora del giorno e della notte per notare che tutte sembrano impegnate in quel giochino del mostrare tette, gambe e culi, perché più mostri e più facilmente finisci sulla stampa. Ma allora come si fa a distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è? Non è possibile; l’unico criterio è che non esiste un criterio, vale la regola della doppia morale. Tutto ciò che è in sintonia col pensiero unico dominante e politicamente corretto è bene, lecito, giusto e democratico. Tutto il resto, fossero anche le stesse cose (o le stesse tette), è deleterio, provocatorio, indecente, maschilista, osceno, esecrabile, fallocratico. Chiaro? Ecco perché le veline di Striscia sono un’offesa alle donne e sfruttano il corpo femminile e le tette della Maya sono un “incidente” e vanno subito coperte,  mentre le tette delle Femen dalla Innocenzi sono lecite e regolamentari. Ma, soprattutto, si pone una domanda: perché al Parlamento europeo ci possono andare i trans e non ci può andare il Papa? E perché se una trans va al Parlamento europeo per sostenere la causa dei diritti gay, lesbo, trans, bisex, plurisex, annessi, connessi ed assimilati,  è una legittima e democratica espressione della libertà di pensiero,   mentre se ci va il Papa  è un grave attentato ai diritti umani? Provate a dare una risposta logica ed onesta.

Proviamo qui ad approfondire il confronto che si è aperto su femminismo e generazioni. Per non disperdere i valori. E l'energia che ancora ci serve. Femminismo sì, femminismo no, se il potere delle donne non è solo un hashtag, scrive Marta Serafini su "Il Corriere della sera". “Non mi serve il femminismo perché mette le donne contro gli uomini”.

“Non mi serve il femminismo perché se un uomo mi fa un complimento non lo considero un insulto”.

“Non mi serve il femminismo perché le donne e gli uomini sono uguali”.

In queste ore, negli Usa, impazza l’hashtag #womenagainstfeminism (donne contro il femminismo). Il concetto di fondo dei messaggi è: il femminismo mette le donne contro gli uomini. Disparità salariale, sessismo, violenza sessuale e diseguaglianza, nessuna di queste parole viene scritta. Come se il gender gap non esistesse. E come se davvero uomini e donne occupassero le stesse posizioni all’interno della società. A scorrere i tweet, i selfie e i volti di #womenagainstfeminism e del tumblr collegato all’iniziativa, viene da pensare di essere di fronte a un gruppo di ragazze che non hanno ben chiaro cosa sia il femminismo. Di fronte a frasi come “Non mi serve il femminismo perché occuparmi del mio uomo è il mio compito”. ci si immagina le povere ossa di Mary Wollstonecraft o Virginia Woolf rivoltarsi freneticamente nella tomba. E non a caso molte commentatrici americane e britanniche hanno bollato le autrici dei tweet come ignoranti. Tutto risolto allora? No, perché se si vanno a leggere i commenti di chi ha deciso di ribattere sui socil, le cose non vanno meglio. Le donne pro feminism su Twitter non fanno altro che ricadere nello stereotipo del vittimismo. “Se io dico quello che penso vengo considerata una puttana, mentre un uomo è assertivo” ,”Abbiamo bisogno del femminismo perché le donne sono esseri umani”, sono alcune delle frasi postate. E c’è di più. La cantante Beyoncé, per rispondere alle detrattrici del femminismo, si è messa in posa su Instagram come Rosie the Riveter, sbagliando completamente esempio, perché per molte femministe l’operaia americana post Perl Harbour sì è guadagnata a torto lo status di icona del femminismo. Entrare in catena di montaggio per sostenere l’economia come bravi soldatini  infatti non è esattamente la via verso la parità. Se 140 caratteri sembrano dunque troppo pochi per dibattere di un tema così complesso come l’uguaglianza e se un selfie banalizza in modo drammatico la questione, sarebbe però stupido bollare questo dibattito come superficiale. In qualche modo infatti le “women against feminism” hanno un merito. Come già le stesse Marissa Mayer, Sheryl Sandberg o la stessa Laurie Penny hanno spiegato, la parola femminismo è probabilmente superata e fuorviante per molte giovani. Il che non significa assolutamente che la parità tra uomo e donna sia stata raggiunta o che non si debba combattere per essa. Semplicemente è venuto il momento di trovare nuovi linguaggi e nuovi espressioni. Possibilmente evitando di ridurre tutto a un hashtag.

Se una è femminista, scrive Giulia Siviero su “Il Post”. Quando sono entrata per la prima volta in quell’aula di filosofia, la professora (sì, voleva essere chiamata così) si rivolgeva alla classe usando il plurale femminile. Ogni volta, si alzava un virile brusio di protesta. Alla fine della lezione ha chiesto a noi ragazze perché quando qualcuno parlasse includendoci in un plurale maschile non avessimo la stessa reazione. Ho trovato una risposta e sono diventata quella che per brevità chiamiamo “una femminista”. Gli stereotipi intorno al femminismo, le credenze e le idiozie, danno certamente la misura del campo di battaglia e parte del mio tempo lo passo a rispondere, a spiegare, a incassare e a rilanciare: è un lavoro faticoso, frustrante e noioso. Ma non potrei fare altrimenti. Penso quindi sia utile costruire un luogo (questo post, che cercherò di tenere aggiornato, anche attraverso cose che ho già scritto altrove o cose scritte da altre) in cui dare una volta per tutte le risposte alle solite risposte e a cui poter rimandare ogni volta se ne presentasse l’occasione (per fatica, frustrazione e noia).

Le femministe odiano gli uomini. Ed è per questo che gli uomini odiano le femministe. Si chiama “misandria”, è il contrario di misoginia ed è l’argomento che gli uomini usano fin dagli inizi del movi­mento di liberazione della donna contro il femminismo stesso. Un falso argomento, anche se (dopo averlo negato e ridicolizzato per anni) mi sono resa conto che contiene una parte di verità. Se una è femminista non le piacciono certi uomini: quelli sessisti, quelli che pensano ci sia una gerarchia tra i generi, quelli che si rivolgono alle donne che non conoscono con formule del tipo “tesoro” o cose simili, quelli che le molestano per strada, che vogliono dominarle, addomesticarle e controllarle in una relazione. Potrei proseguire. Ma penso agli uomini a cui, come me, non piacciono gli uomini dell’elenco: sono uomini che piacciono a una femminista. Sono invece i sostenitori della frase le femministe odiano gli uomini ad odiare davvero gli uomini, identificandoli tutti, in un sol colpo, con dei misogini.

Le femministe non hanno senso dell’umorismo. Non è questione di avere o non avere senso dell’umorismo. Se una è femminista le stanno a cuore degli argomenti che non sono particolarmente divertenti: il sessismo, le molestie, la violenza, lo stupro, il diritto all’aborto, la disparità. Se c’è qualche cosa su cui una femminista ride moltissimo sono affermazioni come quella che le femministe non hanno senso dell’umorismo. La giornalista statunitense Amanda Hess spiega che cos’è la misandria ironica (una tendenza molto di successo tra le donne sui social network). È una dimostrazione per assurdo, efficace per almeno tre motivi: spin­ge gli argomenti sugli stereotipi attribuiti alle femministe nelle loro trincee più estreme e ridicole, è una strategia leggera per far circolare soprattutto tra le più giovani questioni e idee femministe molto radicali ed è liberatoria per­ché in un battito d’ali toglie chi la sceglie dalla paradossale posizione di dover spiegare qualcosa a qualcuno che quel qualcosa non sa cosa sia.

Le femministe sono sempre incazzate. A rispondere, ci ha pensato Laurie Penny: «Quelli a cui interessa mantenere lo status quo preferirebbero vedere le giovani donne che agiscono, come dire, nel modo più grazioso e piacevole possibile; anche quando protestano». Sostenere che una femminista è sempre incazzata (o brutta, o con i peli) è una difesa per preservare il sistema che il femminismo potrebbe mettere in discussione. Da qui l’operazione di voler glassare il femminismo per renderlo «un accessorio desiderabile, gestibile al pari di una dieta disintossicante». Scrive Penny: «Purtroppo non c’è modo di creare una “nuova immagine” del femminismo senza privarlo della sua energia essenziale, perché il femminismo è duro, impegnativo e pieno di rabbia (giusta). Puoi ammorbidirlo, sessualizzarlo, ma il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Rendere il femminismo più “carino” non lo renderà più facile da digerire».

Le femministe non cucinano. Se una è femminista cucina, sparecchia, stira, pulisce e porta il piatto a tavola. Sa anche che non è l’unica in grado di poterlo fare e che la rappresentazione delle donne unicamente come soggetti che cucinano, sparecchiano, stirano, puliscono e portano il piatto a tavola è un fatto che storicamente si può collocare e per cui c’è un colpevole.

Le femministe ce l’hanno con le donne che non la pensano come loro (variante: sono le donne ad essere le peggiori nemiche delle donne). Se una è femminista per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, di pensare e di agire in consonanza con i propri desideri e, prima ancora, libertà di desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, ad essere traiettoria di sé stessa, a dire e a decidere quello che la riguarda: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse», scriveva Mary Wollstonecraft nella Rivendicazione dei diritti della donna e siamo nel 1792. Se una è femminista sa che l’altra è necessaria, come compagna di strada o come interlocutrice. Dà supporto alle altre donne senza mai sminuirle o giudicarle (anche se non è d’accordo con quello che dicono o con le scelte che fanno). Sa che non ci sono buone e cattive femministe e che la relazione è il luogo privilegiato della libertà. Il movimento femminista ha al suo interno molti pensieri, spaccature e diversità. «Finché non avremo risolto alcun pro­blema o dif­fe­renza individuale e interna non dovremmo forse permetterci di affrontare l’oppressione o rivendicare dei diritti?» La domanda è ridicola e si chiama tenta­tivo di depistaggio.

Ormai siamo tutti uguali 1. Il primo errore sta in quella “i” di “tutti” e “uguali” e non è solo linguistico. C’è una bella poesia di Muriel Rukeyser che dice: «“Molto tempo dopo, vecchio e cieco, camminando per le strade, Edipo sentì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?”. “Avevi dato la risposta sbagliata,” disse la Sfinge. “Ma fu proprio la mia risposta a rendere possibile ogni cosa.” “No,” disse lei. “Quando ti domandai cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre alla sera, tu rispondesti l’Uomo. Delle donne non facesti menzione.” “Quando si dice l’Uomo,” disse Edipo, “si includono anche le donne. Questo, lo sanno tutti.” “Questo lo pensi tu”, disse la Sfinge». Il linguaggio non è qualche cosa di “naturale”, è una costru­zione che ha un sog­getto e che rimanda a un sistema ben preciso. Quel soggetto ha un sesso e quel sistema (di potere), pure: è evidente nell’uso comune del plurale maschile per includere tutti e tutte, nella scelta di assumere l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma allo stesso tempo come paradigma universale dell’intera specie (“l’Uomo”) o nella scelta dell’espressione “suffragio universale” applicata per lungo tempo (anche da giuristi e filosofi) a tutti gli uomini con esclusione delle donne. La fin­zione dell’universale neu­tro in cui la differenza femminile scompare e viene inglobata (dal due all’uno) è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale. Questo aveva voluto mostrarmi la mia professora attraverso un uso (sovversivo) del linguaggio. Professora suona male? Mettere alla fine della parola una “a”, è già accaduto per molti mestieri e professioni consolidate: infermiera, mae­stra, ope­raia, modella, cuoca, segre­ta­ria. Mestieri che non susci­tano alcuna obiezione. Ci siamo già passat* e siamo sopravvissut*. Iniziamo ad usare le forme corrette e ci suoneranno benissimo.

Ormai siamo tutti uguali 2. Il secondo errore di questa affermazione sta nel concetto di parità e la risposta all’obiezione “siamo tutti uguali” è sì e no. Se una è femminista sa che la parità e l’emancipazione possono essere delle trappole. Il cosiddetto femminismo di stato ha interpretato il movimento delle donne nel senso di una domanda di parità mettendo al centro dell’azione la spartizione d’ufficio del potere tra donne e uomini (pari opportunità, “quote rosa”, donne come uomini e molto spesso donne che piacciano agli uomini). Quando un ruolo tradizionalmente maschile viene occupato da una donna, una femminista sa che non va considerata una conquista (o almeno non sempre). Una femminista non è contro l’uguaglianza, ci mancherebbe, ma la mette in rapporto con la libertà. E la libertà femminile non si misura sulle realizzazioni che sono storicamente maschili. Non ricordo dove ho letto questo esempio, ma funziona: se gli uomini reagiscono facendo battute poco rispettose come hanno fatto alcuni membri dell’Assemblea Costituente nel 1945 quando in aula sono entrate le loro colleghe, il problema non si risolve comportandosi come se nell’aula entrassero degli uomini. Le rivendicazioni paritarie nello spazio pubblico funzionano come annullamento della differenza femminile e il trucco della quantità è l’inadeguata risposta maschile al cambiamento innescato dalla rivoluzione femminista. Ecco perché non è mai una buona misura: le dimensioni non contano, non si dice così?

Ormai siamo tutti uguali 3. Il terzo errore sta nel dire “ormai”. Se una è femminista sa che non deve mai, mai, mai e poi mai abbassare la guardia. Ci sono donne verso cui essere riconoscenti, che hanno combattuto e sono morte per la maggior parte dei diritti che noi abbiamo oggi. Non è finita e ogni diritto non è mai per sempre. Il solito esempio? In Italia esiste una legge – frutto delle lotte – che garantisce la possibilità di abortire liberamente e gratuitamente: di fatto, l’enorme presenza di medici obiettori, impedisce a migliaia di donne di poter scegliere per sé. La politica dei diritti è certamente importante, tenendo però presente che la conquista di un diritto si può perdere senza che sia avvenuta una vera trasformazione. (“Il re è morto. Viva il re”, si diceva in Francia per annunciare al popolo la morte del re e, contemporaneamente, l’avvento del suo successore). Ecco funziona un po’ così.

Le femministe si occupano solo di donne. Non è vero. Se una è femminista sa che la sua libertà cambia la vita di tutti. Sa anche che la misoginia (basata sulla convinzione che mascolinità e virilità siano superiori) colpisce anche gli uomini: si esprime nel bullismo di chi si sente più maschio di un altri o negli insulti omofobici. Nell’ambito della violenza domestica, che colpisce di sicuro più donne che uomini, vanno però anche considerati gli uomini (quelli ad esempio che sono nuovi fidanzati, compagni o mariti e che muoiono o ricevono violenza per mano degli ex fidanzati, compagni o mariti. Ci sono insomma due tipi di aggres­sioni: maschio-femmina e maschio-maschio, entrambe sono espres­sione di misoginia ma solo una è nominata e accettata come tale.

Allora, non posso aprirti la porta o farti un complimento?

Se una è femminista è contro lo sciovinismo e le molestie. Non contro le buone maniere e i complimenti che siano complimenti: apostrofare una donna quando cammina per strada dicendole “ciao bella” non lo è. Scrive Amanda Marcotte in un articolo su Slate tradotto dal Post: Puoi aprire la porta se sei il primo a raggiungerla. Assicurati di tenerla aperta per chiunque passi dopo di te, uomini, donne e anche animali domestici. Non puoi correre per sorpassare una donna e arrivare per primo alla porta, così da aprirla per lei. Ricorda la regola d’oro: il primo che arriva alla porta apre la porta. È facile capire quando sei arrivato per primo alla porta: quando la porta è chiusa e non c’è nessuno tra te e la porta.

Anche le femministe oggettivano gli uomini. Due torti non fanno una ragione, scrive la giornalista Laura Bates. E c’è un motivo per cui le persone che sostengono questa tesi citano quasi sempre la pubblicità della Diet Coke: perché non ci sono molti altri esempi memorabili da fare. Sì, anche gli uomini sono oggettivati, ma non così tanto e non così spesso, come avviene invece per le donne. Quindi le due cose non sono paragonabili e non hanno, soprattutto, lo stesso impatto sulla società e sulla cultura. L’operazione che sta dietro questa argomentazione si può riassumere nella formula “male tears”, “lacrime maschili”: si verifica quando un uomo, per ribattere ad un qualsiasi argomento legato al genere, prende il posto della vittima (“ma anche le donne lo fanno”). Detto questo, ogni volta che un essere umano – indipendentemente dal sesso – è considerato come somma delle parti del suo corpo, questo è un problema. Anche per una femminista.

Non sono una femminista, ma sostengo le donne e la loro libertà. “Femminista” non è una parolaccia, è già preoccupante che ci siano molte idee sbagliate o idiote su quello che il femminismo è o non è. Che i detrattori del movimento delle donne siano delle detrattrici è particolarmente dannoso. Se difendi la libertà delle donne allora sei una femminista. E non te ne devi vergognare. Sei in ottima compagnia. 

Donne, il femminismo ha perso? Mezzo secolo di femminismo, ma le discriminazioni non sono scomparse. Sul lavoro, in famiglia, in politica, ovunque. E, soprattutto, la coscienza comune sembra a torto darle per scontate, scrive Sabina Minardi su “L’Espresso”. Scendono per strada, scandiscono slogan, sfidano le consuetudini sotto gli occhi increduli dei maschi. E glielo urlano in faccia “We will win”: vinceremo. Tremate tremate, le streghe son tornate. Solo al cinema, però. In “Suffragette” di Sarah Gavron, che ha aperto il London Film Festival: un film che rievoca le prime lotte per l’emancipazione femminile, con Helena Bonham Carter, Carey Mulligan e Meryl Streep nel ruolo di Emmeline Pankhurst, l’attivista che guidò il movimento suffragista inglese all’inizio del secolo scorso. Eroine affascinanti, disposte a perdere se stesse pur di guadagnare diritti alle altre. Reclamandoli insieme, a voce alta. Nella realtà, che fine ha fatto il femminismo? Dov’è finito quel vento di cambiamento che ha liberato le donne da discriminazioni inaccettabili, che ha rilanciato parole tabù - aborto, divorzio - e ne ha seppellito altre (obbligo di dote, patria potestà valida solo al maschile)? Che ha innescato reazioni a catena, convogliato la rabbia fioca di generazioni di donne in chiassosi movimenti di piazza? Cos’è rimasto di quella capacità di irrompere nella scena sociale, scuotere la politica, mutare i rapporti con l’altro sesso, trascinando anche l’uomo in cambiamenti rivoluzionari? E perché persino la parola “femminismo” ne esce sconfitta, rifiutata dalle più giovani come residuo di battaglie e di linguaggi senza significato, motivo di scongiuro per i maschi d’ogni età? A guardarsi intorno, il femminismo ha messo la sordina. Non che sia stata un’occasione persa: il soffitto di cristallo, grazie a quelle battaglie, si è scheggiato in molti punti. L’autonomia di dire, di fare, di decidere della propria vita sono realtà conquistate. Anche se, «quando a parlare è una donna gli uomini fanno altro: chi chiacchiera, chi controlla le mail», ha raccontato all’Huffington Post Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale; anche se persino nelle più ambite company dell’hi-tech, le stesse dove si lanciano campagne per bandire le differenze tra i sessi (come “Ban Bossy” promossa da Sheryl Sandberg di Facebook), la misoginia non è sconfitta (“The Glass Breakers” è una startup che aiuta a combatterla nel mondo tecnologico specialmente), e le donne guadagnano meno dei maschi (oltre il 20 per cento negli Stati Uniti, dove la prima legge firmata da Barack Obama è stata proprio la Lilly Ledbetter sull’equità salariale uomo-donna); anche se indipendenza e libertà di scegliere, nella vita privata, espongono a una violenza e a un numero di assassini intollerabile: 177 i femminicidi in Italia nel 2014; 137 nel 2015; 3.624 le violenze sessuali tra il marzo 2014 e il 2015, 4.607 l’anno prima (dati Ministero dell’Interno). Se ancora barriere sociali, culturali e psicologiche impediscono una parità piena; se il sessismo soffia forte, dal Parlamento italiano alla politica estera, persino contro una come Hillary Clinton («Non ho mai visto una persona assalita in modo così sistematico e da così tante parti», ha ammesso lo stesso Bernie Sanders, sfidante alla Casa Bianca); se, insomma, non è tutta qui la libertà cui ambivano, dove sono, oggi, le donne? Neutralizzate, secondo la sociologa Camille Paglia: «Impegnate a cancellare ogni retorica della maternità, hanno perso la consapevolezza del loro potere sugli uomini». Annegate nel realismo: «Perché le donne non possono avere tutto», ha chiarito l’ex consigliera della Casa Bianca Anne-Marie Slaughter, descrivendo come talento e determinazione si infrangano contro le difficoltà sul lavoro e la famiglia. Schiacciate dalle più giovani, ha ipotizzato la scrittrice Elena Ferrante, femminista nonostante il sospetto d’essere uomo, in un’intervista a “Vanity Fair” negli Usa: «Le ragazze sembrano convinte che la condizione di libertà che hanno ereditato sia un dato di natura e non il risultato provvisorio di un lungo scontro ancora in atto, nel corso del quale si può perdere di colpo tutto». E ripartire da zero: come le Pussy Riot, le artiste russe col passamontagna colorato, che hanno scontato anni di carcere duro per le loro rivendicazioni. O le Femen, il movimento nato a Kiev, che protesta contro le differenze sessuali e sociali a seno nudo, utilizzo del corpo per attirare l’attenzione dei media in un mondo di uomini, a rischio di violenza e di denunce. “Woman Pride” che innova la militanza contemporanea, per il magazine Slate, nel segno della provocazione: ma quanto funziona davvero? «Il femminismo ha cambiato il mondo, tranne quello non occidentale. È un peccato che non si insegni a scuola la storia delle donne negli ultimi cento anni», interviene la giornalista Natalia Aspesi. “Delle donne non si sa niente”, titolo con il quale Il Saggiatore ha ripubblicato il suo “La donna immobile”, uscito nel 1974 e dedicato alle italiane, anche questo sottolinea: l’ignoranza sulle battaglie delle donne. «Chi ha fregato il femminismo? Non è mica fregato. Perché le ragazze, pur non sapendo niente di ciò che è stato, sono ben più protette dalle leggi: grazie alle femministe e ai maschi di allora. I femminismi più combattivi e appariscenti sono scomparsi, ma su un piano intellettuale il femminismo continua a operare: nelle aule universitarie, negli studi. Forse non c’è più ragione per esibirlo: l’uguaglianza c’è, di anno in anno diventa più facile accedere alle posizioni di vertice. Se la carriera non è più la massima ambizione, per le donne, ma anche per gli uomini, è perché molte hanno capito che non è ciò che desiderano veramente». Vedi alla voce Marissa Mayer, amministratrice delegata di Yahoo, salutata con entusiasmo come donna al top, ma bacchettata quando, dopo il parto, ha deciso di ridurre la maternità a poche settimane: era questa l’uguaglianza sognata? «Certo che le battaglie non sono esaurite, ma riguardano il piano privato, il rapporto uomo-donna: gli uomini uccidono ancora le donne; il “mammo” è una pura invenzione», sostiene Aspesi. «La vita delle donne è caratterizzata da successi e da sconfitte. Alle ragazze non farebbe male conoscere la loro storia, perché ciò che sembra del tutto ovvio è costato coraggiose battaglie alle loro madri e alle loro nonne. E nulla è mai conquistato per sempre». Provano a colmare quel vuoto strumenti nuovi: è stata appena lanciata una App, “Herstory: I luoghi delle donne”, promossa da Archivia, associazione con sede nella Casa Internazionale delle donne di Roma e dedicata ai luoghi di mobilitazione del Lazio, dagli anni ’70 a oggi. “Cattive ragazze” è un graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi (Sinnos Editrice) dedicato a quindici donne che hanno aperto la strada all’affermazione di diritti, da Franca Viola, che negli anni Sessanta rifiutò un matrimonio riparatore in Sicilia, ad Alfonsina Morini Strada, unica ad aver partecipato al giro d’Italia insieme agli uomini. E ora il fumetto diventa anche spettacolo teatrale itinerante , con la regia di Ignacio Gómez Bustamante e César Brie e il coinvolgimento di tante ragazze. Perché conoscere è fondamentale: come sa Zeroviolenza.it, progetto di informazione che monitora la relazione tra uomini e donne. Ma chi è responsabile di non aver passato il testimone? Chi non ha curato l’eredità di quegli insegnamenti: metodo, esperienza ed entusiasmo di combattere? «Quella del femminismo non è una storia di sconfitte: ha radicalmente mutato il panorama dei diritti civili», puntualizza la sociologa Chiara Saraceno, negli anni Settanta impegnata nei Gruppi Femminili di Trento: «Se non ci fosse stato, non sarebbe passata neanche la legge sull’aborto. E tutti i temi su sessualità e famiglia sarebbero rimasti nel silenzio. La spinta al diritto di famiglia, che chiamiamo ancora nuovo benché risalga al 1975, è figlia di quell’epoca. Detto ciò, è chiaro che c’è stato un problema di trasmissione della militanza femminista. Anche per colpa delle donne: il femminismo della differenza, che ha avuto più visibilità, ha creato una sorta di teologia, producendo un linguaggio oscuro, ostico, moraleggiante. Un modo di parlare, e di tenere separati il mondo di lui e il mondo di lei, nel quale le più giovani non si ritrovano. Ne hanno, anzi, paura e fastidio: se la denuncia della mancata parità le getta nel ruolo di vittime non ne hanno alcuna voglia». Il risultato? Fraintendimento, distanza («Il femminismo non mi serve, mi sento già libera»), fino alla militanza vera “contro la cultura tossica del femminismo moderno”: è“Women against feminism”, partito con un hashtag su Twitter e su Tumblr, e diventato campagna virale su Facebook e su YouTube. A poco sono valsi i richiami di Tina Brown di The Daily Beast («Voi non odiate il femminismo: semplicemente non lo capite»), o di Lynsi Freitag della Arizona State University («Quello che sta accadendo è frutto dell’ignoranza. Ma è colpa nostra se non abbiamo spiegato il femminismo alle donne»). È l’eterno dividersi, che indebolisce le battaglie. «Ogni generazione deve trovare i suoi strumenti di lotta», sintetizza Saraceno: «Prima si sbatteva la testa contro un fatto evidente: la parità non c’era. Oggi si parte da una premessa di parità, salvo scoprire più tardi che la faccenda è più complessa». Il “nemico” si fa più sfuggente. A partire dai maschi: non più padri-padroni, ma uomini meno granitici. Fluidi, anzi, com’è l’identità contemporanea, al punto che “The Economist”, in un’inchiesta di copertina, li ha proclamati “il sesso più debole” delle società avanzate. «Certo: un tempo c’erano problemi più facilmente afferrabili», conferma Saraceno: «Non si poteva abortire. Non si poteva comprare la pillola. La parità era un obiettivo chiaro».Ostacoli chiari, da rimuovere uno alla volta.Esattamente questo ha fatto “Se Non Ora Quando”: ha aggregato la rabbia delle donne in una battaglia precisa - il degradante modello di relazione uomo-donna del berlusconismo - portando in piazza oltre un milione di persone. E così hanno fatto i comitati di denuncia del femminicidio. Smarrendo, però, col tempo la loro forza. Era più facile essere femministe allora che oggi? «Avevi la possibilità di coinvolgere gli altri, sentivi di far parte di una comunità. Nel mondo di oggi ognuno va alla cieca, pensando a sé», dice la scrittrice Dacia Maraini: «La protesta non viene allo scoperto come un tempo perché siamo in un momento di frammentazione: non c’è modo di far coagulare nessun pensiero, tutto è personalizzato e rissoso. E l’individualismo prevale». Egoismo. Atteggiamento moraleggiante. È colpa della centralità data a temi come la maternità, derubricata da stili di vita diversi, se il femminismo non trova più uno spazio ampio nel presente? «Come ideologia non esiste più, ha seguito il destino di tutte le ideologie. Scomparse: è un fatto culturale. Ma se guardiamo oltre le parole, ritroviamo lo stesso radicalismo, la stessa motivazione nel pretendere autonomia e rispetto, nelle più giovani. Sta in questo flusso di rivendicazioni la continuità con il femminismo di allora: senza, però, connotazioni ideologiche», aggiunge Maraini: «C’è un rischio in questo: che si consideri la parità un diritto conquistato per sempre. I diritti sono frutto di cultura e di ideologia, e devono essere esercitati e ribaditi. Il più importante? Quello di esprimere se stessi, di realizzarsi il più possibile. Vale naturalmente anche per gli uomini, ma per le donne costa fatica in più». Perché i nodi aperti non sono pochi: mancano risposte per conciliare il lavoro con la vita familiare. La parità sui posti di lavoro si scontra con discriminazioni anche di natura economica. E molti stereotipi di genere inchiodano ancora le donne. Non solo: nel mondo globale di oggi reclamano impegno le altre donne, senza diritti: donne schiave, fantasmi sotto il velo, sottomesse a stupri, mutilazioni, divieti. Ma una “ignavia borghese”, ritrosia culturale e politica, non fa ancora alzare compatta la voce contro la misoginia dell’Islam, accusa la giornalista Marina Terragni. “Dovremmo essere tutti femministi”, sostiene la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un discorso da standing ovation elaborato per una conferenza Ted, campionato da Beyoncé nel brano “Flawless” e diventato anche un libro (Einaudi): perché femminista è, prima di tutto, «una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi». Uomo o donna. «Ne sono convinta: la perdita di appeal del femminismo odierno va identificata nel fatto che gli uomini non sono stati coinvolti, anzi trattati con ironia e disprezzo. Le cosiddette questioni femminili - dall’aborto al lavoro - non sono “da donna”. Sono argomenti sociali e culturali, che devono riguardare gli uomini. Bisogna ritrovare complicità: ricreare una nuova alleanza tra uomini e donne, come quella invocata da Papa Francesco nel suo discorso contro i luoghi comuni sulle donne tentatrici», dice la scrittriceRosella Postorino, editor di Einaudi Stile libero e protagonista, sulla sua pagina Facebook, di una vivace discussione sul femminismo di ieri e di oggi: «Ho incontrato donne più che sessantenni ancora convinte che serva il collettivo per “prendere coscienza”, uno spazio di separazione dagli uomini. Ma se la questione delle donne non viene percepita come una tra le tante di giustizia sociale, se gli uomini non lo sentono come un problema anche loro, io non so a che cosa serva parlarne». «Il femminismo è una questione di parità di diritti. Chi ancora porta avanti un discorso para-separatista è direttamente responsabile del disamore delle generazioni successive verso il femminismo», ha ribadito Loredana Lipperini, che l’universo femminile ha molto indagato (“Ancora dalla parte delle bambine”, “Non è un paese per vecchie”, “L’ho uccisa perché l’amavo”). E insiste: «C’è una gigantesca responsabilità in chi ha pensato che il femminismo fosse una cosa solo di donne. E responsabilità anche da parte di quella narrazione che predicava odio verso i maschi, disgusto verso il sesso: ha schiacciato le generazioni successive. Il femminismo sembra una faccenda superata finché non si diventa genitori. Allora ci si rende conto che, a meno che tu non sia particolarmente ricca da permetterti aiuti esterni, non c’è parità realizzata. L’indipendenza diventa un fatto di classe. C’è un enorme bisogno di impegno femminista. Da dove ripartire? Dall’educazione sentimentale e sessuale sui banchi di scuola». Dalla riscoperta delle differenze di genere. A patto di non lasciarsene intrappolare. Per il filosofo Slavoj Zizek, sensibile a questi temi tanto da intervenire contro il sessismo dello Stato Islamico e in difesa delle Pussy Riot, è fuorviante anche una rappresentazione manichea del maschile e del femminile. Lo ha detto più volte: «Non credo in una soggettività maschile fallocentrica, imperialista, guerrafondaia, e una femminile ecologica, armoniosa, olistica, pacifista e cooperativa». Da una parte il bello e buono delle donne, dall’altra il maschile selvaggio e oppressore: non funziona. «Molti stereotipi hanno agito contro il femminismo», è l’opinione della scrittrice Lidia Ravera: «Come il suo essere contro i maschi: solo una caricatura». L’ultima l’ha tratteggiata Jonathan Franzen - le femministe non hanno apprezzato - nel suo ultimo libro, “Purity”: dove Anabel è una fanatica che costringe il marito a stare in bagno seduto, come le donne. «Il femminismo non era contro i maschi: proponeva uno spazio separato, che probabilmente servirebbe anche oggi, sia agli uomini che a noi», continua Ravera: «Le donne sono cambiate molto, grazie al femminismo. Ma la rivoluzione sarà conclusa quando conquisteranno il diritto di invecchiare». Libere da imperativi di gioventù e bellezza perenni. Maturità al centro dell’ultimo romanzo di Erica Jong, ideale prosieguo di quel successo planetario che fu “Paura di volare”: esce ora per Bompiani “Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato” con la protagonista, Vanessa, terrorizzata dalla paura di invecchiare e perdere il suo ascendente sul mondo. «Il femminismo ha modificato la percezione di sé di tutte le donne. Ha permeato i comportamenti quotidiani», aggiunge Ravera: «Le nuove proteste non si consolidano? Non vale solo per il femminismo, ma per tutti i movimenti di oggi: non riescono a compiere il salto dallo spontaneismo all’organizzazione. Il femminismo è una rivoluzione interrotta, non fallita. Quando sarà compiuta la vita avrà, finalmente, due sguardi».

L'emancipazione individuale ha portato poche donne a posizioni di potere, lasciando a molte altre sottopagate gli ingrati compiti di cura. Mentre la Rete e il mercato globale delle relazioni usa e getta le danneggiano, favorendo la supremazia degli uomini, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale. Dove vediamo libertà si nascondono nuovi recinti. Dove festeggiamo traguardi del femminismo - carriere di successo, relazioni aperte - stiamo lasciando costruire nuove disuguaglianze. Sociali, emotive, economiche. È quello che sostengono alcune pensatrici agguerrite. C’è chi porta alla sbarra il capitalismo, che sull’altare dell’emancipazione individuale avrebbe portato (poche) donne a posizioni di potere lasciando a (molte) sottopagate altre gli ingrati compiti di cura. Chi guarda al mercato globale delle relazioni usa e getta. Chi si chiede se la Rete ci abbia resi pari oppure no. Ecco il breviario delle idee incontrate da “l’Espresso”. Due signore alla guida di istituzioni finanziarie d’importanza globale: Janet Yellen alla Fed, Christine Lagarde al Fondo monetario internazionale. La fine dei “tetti di cristallo”? «Alcuni sono stati sfondati. Ma io vedo soprattutto più donne sfruttate», commenta Nancy Fraser, professore di filosofia alla New School di New York, tra i titani del pensiero femminista: «Celebrando le loro carriere, donne come Sheryl Sandberg - direttore operativo di Facebook e autrice del bestseller “Lean-in” - dimenticano chi c’è dietro: schiere di lavoratrici, soprattutto straniere, precarie e sottopagate, cui sono stati “appaltati” i compiti di cura che loro non hanno tempo di seguire». Nonostante quei compiti siano forse oggi distribuiti più per censo che per genere (li svolgono sì precari o immigrati, ma sia maschi che femmine), per Fraser il problema è alle fondamenta: «Finché non spezzeremo l’idea che c’è un lavoro pagato bene, considerato produttivo, e un altro tipo di lavoro di “riproduzione sociale” - l’educazione, la cura, lo sviluppo umano, la stessa procreazione - che viene invece pagato poco o nulla, dentro cui sono arruolate in massima parte le donne, non avremo parità». Solo una parità apparente: a beneficio di poche e inganno di molte. E a proposito di inganni: i big della Silicon Valley offrono di pagare alle dirigenti il congelamento degli ovuli, idea che piace anche in Italia. Femminista? «Al contrario: si vuole che le donne si adattino a un ecosistema maschile, senza metterne in discussione l’insostenibilità». Partendo da osservazioni simili, l’economista Victoria Bateman arriva a conclusioni opposte: che solo con il principio primo del capitalismo, la libertà d’azione individuale - se veramente garantita anche alle donne - si potrebbe arrivare alla parità di genere. Non universale, certo, ma promessa a chi si sforza di emergere. Dalla parte opposta dello spettro economico, quella del suo motore - il consumo - arriva la riflessione di Eva Illouz, professore di sociologia all’università ebraica di Gerusalemme. «Le cornici morali di amore e matrimonio, rimosse dalla rivoluzione sessuale, sono state sostituite da nuove basi», spiega a “l’Espresso”: «La cultura consumistica si è appropriata della definizione di femminilità e mascolinità. La sessualità oggi è il cuore stesso del consumo: i corpi sono valutati per quanto sono sexy, in forma, attraenti. Ma questo non è naturale: è il prodotto di una colossale industria del corpo che raccoglie moda, cosmetica, fitness, chirurgia estetica, e va a braccetto coi modelli di Hollywood». Perché investiamo su questo corpo modellato dalle pubblicità? Per competere in un mercato globale di relazioni. «Su reti come Tinder - l’applicazione che permette di “sfogliare” persone vicine per un appuntamento volante - uomini e donne si cercano per un episodio di sesso. Si consumano». Partendo da una foto. Anche in questo si crea una nuova disuguaglianza, sostiene la sociologa. Una “disuguaglianza emotiva”: «Gli uomini cercano su Tinder occasioni per ampliare la loro lista di incontri. Le donne l’inizio di relazioni a lungo termine», sostiene Illouz, che si fa subito scudo da possibili contestazioni: «So che apparirà un commento conservatore, ma è ciò che osservo da sociologa. C’è anche un fatto quantitativo che favorisce gli uomini: possono permettersi di pescare da un bacino più ampio di età».

L'economia ha un disperato bisogno delle donne, non come compratrici, ma come forza lavorativa. E, come sostiene anche il "Financial Times", occorre uguaglianza nelle opportunità, nell'accesso alle carriere e nelle retribuzioni. Mentre pure gli uomini stanno inziando a convincersene, scrive Valeria Palermi su “L’Espresso”. Emma Watson, portavoce per le Nazioni Unite della campagna "HeForShe"Se ci si mette perfino il“Financial Times”, non esattamente la lettura preferita delle Femen, a sostenere che è imperativo dare pari rappresentanza alle donne nel mondo del lavoro, vuol dire che qualcosa sta cambiando sul serio. Che sta nascendo davvero quell’ossimoro vivente che è il “maschio femminista”. Cagionevole e raro come un figlio della provetta, per ora: ma crescerà e si moltiplicherà, per la sua e la nostra soddisfazione. Il rapporto del quotidiano inglese “Women in Business”, uscito a settembre, racconta in soldoni questo: che l’economia ha un disperato bisogno delle donne. Non come compratrici, attenzione: come workforce, forza lavorativa, totalmente alla pari con gli uomini per opportunità, accesso alle carriere, retribuzione. Dietro questo appello singolarmente femminista del FT c’è anche, molto probabilmente, la riflessione suscitata da un recente rapporto del McKinsey Global Institute. Che ha analizzato l’output economico di 95 Paesi nel mondo (effettivo e potenziale), concludendo che se uomini e donne contribuissero allo stesso modo alla forza lavoro - lavorassero lo stesso numero di ore, avessero uguale paga e uguale rappresentanza in tutti i campi - questo aggiungerebbe 28 mila miliardi di dollari al Prodotto interno lordo globale entro il 2015: ovvero una crescita del 26 per cento. Mentre oggi, secondo lo studio McKinsey, le donne costituiscono metà della popolazione mondiale ma rappresentano soltanto il 37 per cento del Pil globale, poco più di un terzo. Maschi femministi sono quelli che sostengono la campagna “HeForShe” (lui per lei), movimento nato in seno alle Nazioni Unite, e di cui si è fatta portavoce la giovane attrice Emma Watson: un movimento all’insegna della solidarietà tra i sessi, il cui scopo è la “gender equality”. Lo slogan è: uniamo gli sforzi, una metà dell’umanità in aiuto dell’altra metà, per il beneficio di tutti. Ma non ci sono solo grandi campagne, dietro le prese di coscienza. Esistono le vite individuali e l’inarrestabile formarsi delle convinzioni dei singoli. Una bella storia di maschio femminista la racconta la rivista culto dell’America intellettuale, “The Atlantic”, nel numero di ottobre. Titolo: “Why I put my wife’s career first”, perché ho messo al primo posto la carriera di mia moglie. Qui l’autore, Andrew Moravcsik, docente di Politica ed Affari Internazionali alla Princeton University, racconta la sua vita da “lead parent”, modo intelligente per definire quello che noi, scioccamente, chiamiamo “mammo”. Un’avvertenza prima di commuoverci tutti: qui non stiamo parlando di Mr e Mrs Smith, ma di un signore che comunque insegna a Princeton, e di una moglie che si chiama Anne-Marie Slaughter, notissima soprattutto negli Usa per aver sollevato enorme dibattito (sempre su “The Atlantic”) su quanto sia difficile per le donne raggiungere il work-life balance, l’equilibrio tra vita professionale e privata. Il risvolto paradossale, che il marito sottolinea con un certo umorismo, è che la polemica ha proiettato la moglie sul palcoscenico, e blindato lui nel ruolo di “genitore principale”. Che Moravcsik comunque, da buon maschio femminista, rivendica con orgoglio, passione e convinzione. Adesso dobbiamo solo aspettare che l’onda arrivi dalla Princeton University in Italia.

Posso appena tollerare il femminismo delle donne, quello degli uomini no. Che dei difetti delle donne, parlino le donne, scrive Chiara Valerio su “Il Foglio”. La verità non è mai interessante, se uno ci riflette. E’ una forma logica, binaria. O è la verità, o non lo è. Poco altro da dire. La verità non è né narrativa, né argomentativa. Perciò non funziona nei romanzi, e nemmeno nei saggi. In fondo. Così quando Giuliano Ferrara parla delle “sfumature della verità” e auspica “un maschio galante e decoroso”, un “sentimentale senza complessi” che scriva un saggio sulla misoginia, capisco subito – anzi, so – che le sue parole non possono essere “strutturalmente” verità. Perché la verità non ha sfumature. Ex falso quodlibet, come dicono i matematici, per tornare a un assunto logico e passando, brevemente – i cenni biografici sono noiosi, binari pure loro – ai miei studi, Matematica, la facoltà più sinceramente misogina del mondo. Il professore di Analisi, adorato, durante il corso di Analisi 1, quando una dimostrazione era incomprensibile per tutti, maschi e femmine, con assoluta naturalezza, diceva “va bene, allora facciamolo alla femminile”. “Alla femminile” era sinonimo di “pedissequo”. Non era necessario essere un antropologo o un linguista per capirlo o interpretarlo. Era evidente. Passaggio per passaggio. Qualcuna delle mie colleghe lanciava sguardi offesi, io facevo spallucce, anzi, piuttosto galvanizzata, mi ripetevo in mente – come adesso, e così mi sia dato beneficio d’inventario – Yourcenar che descrive Plotina, moglie di Traiano, adorata, Yourcenar scrive: “Ritrovo in lei l’assurda capacità delle donne, la cecità nel dividere un problema enorme e irresolubile in tanti piccoli problemi, minimi e risolubili”. Le donne cercano la soluzione scomponendo e credono così di raggiungere la soluzione. Questo pensava il mio professore di Analisi 1, questo scriveva Yourcenar, in quanto Adriano. L’essere pedissequi, lo scomporre, non ha a che fare con la verità, ma con la realtà. E la realtà ha sfumature. La realtà è una forma del quotidiano, e del quotidiano condivide le ripetizioni. Ognuno è quello che è la maggior parte del tempo, mi ripete spesso una mia amica. Io per la maggior parte del tempo non potevo essere femminista perché sia fuori che dentro casa discutevo con persone molto forti sulle categorie, assai meno sui generi. Penso sinceramente – ma senza pensare, è sufficiente leggere Cipolla – che la stupidità sia uniformemente distribuita. Che, in breve, prima del gene della specifica sessuale ci sia quello della stupidità. Tuttavia il genere femminile, essendo stati gli uomini i primi creatori di metafore e modi di dire – “una stronza perfetta” è cosa che non può essere espulsa dal linguaggio – è, gioco forza un contenitore più capiente per i modi della stupidità. Ci sono le parole, dunque le cose, gli atteggiamenti, tutto il resto, la vita. Credo che la “blandizie” di cui scrive Ferrara sia uno dei cascami della moda del tempo, in una società dove la simpatia è sopravvalutata, perché facilita i rapporti, spegne le discussioni, perché le copre – tutte le società felici si assomigliano come spiegano Tolstoj e Marx. Se gli uomini sono simpatici con le donne, le donne e gli uomini non hanno un problema. Cioè non lo hanno gli uomini. E cioè non lo ha nessuno. Assumo adesso una posizione che non è ideologica, è cavalleresca. Una postura. Quella cavalleria con cui chiude Ferrara, la cavalleria della tenzone. Vorrei sfidare i maschi a guadagnarsi il diritto – con lotte a viso aperto, con persecuzioni emotive e psicologiche sempre conseguenti alle lotte a viso aperto, con il loro tempo personale spesso aumentato dal fatto di avere una moglie – a parlare “sinceramente” male delle donne. Mi dispiacerebbe che anche questa volta perdessero il gusto del diritto, che continuassero a credere a un’immagine dei diritti come frutti succosi che maturano sull’albero del progresso e stanno lì, pronti a esser colti, senza fatica, da mani nodose e occidentali con radi peli sulle dita e sul dorso, mani di uomo. Quello degli uomini a oggi, non può essere fuoco amico, gli uomini non sono Patricia Highsmith che sbugiarda e stigmatizza le donne nei suoi “Piccoli racconti di misoginia”, no. Che dei difetti delle donne, parlino le donne, almeno fino a quando gli uomini non si saranno guadagnati – possono farcela, io ho fiducia, non penso siano una specie protetta, “ho tanti amici maschi” – il diritto a un’analisi critica. Tutto questo detto senza considerare il fastidio intellettuale che provo leggendo righe di natura femminista. Dopo anni e dopo la realtà, tollero le righe delle donne, negli uomini mi è insopportabile. La misoginia come forma di femminismo in una società che gli uomini dichiarano paritaria e che Ferrara dichiara addirittura teleologicamente femminile e il femminismo come l’ultima autentica gardenia all’occhiello in un mondo di lotte e proteste di plastica, non mi piace. Non c’entra con i cavalieri, c’entra con gli illusionisti. Un odio sincero signori, senza secondi fini.

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando unaputtana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.

Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.

Le femministe che odiano la bellezza, scrive Annalisa Chirico, Mercoledì 8/03/2017 su "Il Giornale". Chi di femminismo ferisce di femminismo perisce. Povera Emma Watson, in questo 8 marzo siamo più che mai solidali con l'attrice 26enne famosa per aver interpretato il ruolo di Hermione nei film di Harry Potter e prossima protagonista del film Disney La bella e la bestia. La giovane star che nel 2014 a New York da ambasciatrice di UN Women tenne un pomposo discorso sulla parola «femminismo», deve pararsi dagli attacchi delle femministe. Quale la sua colpa? La bella e longilinea Emma ha posato per l'edizione britannica di Vanity Fair con le tette al vento. A dar fuoco alle polveri la conduttrice radiofonica Julia Hartley-Brewer su Twitter: «Il femminismo, il gender gap: perché non vengo presa sul serio? Il femminismo, oh, ed ecco le mie tette». Da lì il coro moralista delle donne pronte a infilzare la portavoce onusiana rinfacciandole la sfacciataggine di chi pretende di affrontare temi seri mostrando centimetri di pelle levigata e sensuale. Spiazzata dalla protesta, Emma ha spiegato: «Per il femminismo le donne devono avere una scelta, non è una bacchetta con cui colpire le altre donne. È una questione di libertà. Non so cosa c'entrino le mie tette». Le tette c'entrano eccome, sin dalle origini dell'universo, le tette sono natura e peccato, voluttà e tentazione. Se ci avesse chiesto consiglio, l'avremmo messa in guardia: i seni nudi non te li perdoneranno, un tempo l'esibizione del corpo era protesta libertaria, oggi va di moda il dogma della castigatezza. Invece Emma sembra cadere dalle nuvole. Nella già citata allocuzione onusiana l'attrice esprimeva stupore per aver scoperto che «femminismo è diventata una parola impopolare», «le donne rifiutano di identificarsi come femministe» e «battersi per i diritti delle donne è diventato sinonimo di odiare gli uomini». Adesso che il femminismo in salsa contemporanea ha colpito lei, si disvela al mondo il giochino maschilista di chi esalta le donne purché caste e addomesticate. Come accaduto in Italia attorno alla parentesi cyberbullista con lo stacco di coscia, le più spietate nella censura sono proprio le donne. Vuoi essere presa sul serio? Copriti! Il look è il biglietto da visita ma poi c'è pure la competenza e la capacità di trasmettere messaggi importanti. Si può essere bardate dalla testa ai piedi e apparire sciocche e volgari. Il servizio di Vanity Fair con Emma che indossa un bolerino Burberry è un seminudo artistico per una rivista patinata. Il problema delle femministe, cara Emma, è un altro, è che tu sei bella. E la bellezza non si perdona.

Il femminismo non è morto: una storia del movimento dagli anni 70 a oggi. Lia Migale, già professore associato di Economia Aziendale alla Sapienza e femminista storica ha scritto Piccola storia del femminismo, uno strumento leggero e quasi un racconto "che vuole essere la narrazione del movimento fino a oggi", scrive Silvana Mazzocchi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". Il femminismo non è morto e gode di buona salute. Nel tempo si è trasformato e, se nel Novecento ha lottato per l'emancipazione e la parità dei diritti, con il nuovo millennio, si è fatto interprete di una nuova idea di società e, dopo l'appuntamento del 2011 di 'Se non ora quando',  ha preso a interpretare la necessità di cambiamento sempre viva nel nostro Paese "con la richiesta del riequilibrio della rappresentanza politica, con il lavoro certosino svolto in tutti gli ambiti sovranazionali, con il concetto di genere sempre più ampliato e diversificato e con la rinascita delle grandi assemblee nazionali". Per dissipare le ombre che avvolgono la parola femminismo, per  raccogliere la memoria e per informare le nuove generazioni, Lia Migale, già professore associato di Economia Aziendale presso la facoltà di Sociologia dell'Università di Roma I 'La Sapienza' e femminista storica ha scritto Piccola storia del femminismo (Empiria edizioni), uno strumento leggero e quasi un racconto "che vuole essere la narrazione del movimento fino a oggi, e che dà conto "della ricchezza di pensiero e di pratica che le donne hanno prodotto" nel giro di qualche decennio. Dagli anni 70, con gli slogan di rottura che hanno alimentato il femminismo dell'epoca, fino al tempo dedicato agli studi e agli approfondimenti nei collettivi, nelle università e nelle librerie. E, infine, alla rinascita con le lotte per il riequilibrio delle rappresentanze politiche o alle istanze mirate al cambiamento della società. Per la solidarietà e il lavoro. Insomma, se molti pregiudizi offuscano oggi la parola femminismo, non tutti ne conoscono davvero il significato o sanno com'è nato e come si è sviluppato. Lia Migale colma questa lacuna, ripercorre il recente passato, fornisce schede sintetiche sulle principali battaglie vinte e racconta come il movimento per la parità in campo nel secolo scorso, si sia andato trasformando attraverso i percorsi compiuti, fino a diventare un contenuto politico tuttora in pieno svolgimento. Piccola storia del femminismo è uno strumento agile e utile per comprendere come, lungi dall'essersi esaurito, il femminismo sia ancora vivo e presente nella politica e nei mutamenti contemporanei. C'è da augurarsi che questo piccolo e prezioso libro venga letto nelle scuole, da maschi e femmine.

Perché una "piccola" storia del femminismo in Italia?

"Il femminismo che parte dagli anni '70 ha prodotto un enorme cambiamento sociale e ha inciso sulla vita della maggioranza delle donne. Quindi, il femminismo merita che la Grande Storia se ne occupi e che nelle scuole venga studiato. Io ho voluto fare una cosa da un lato più modesta, ma dall'altro anche molto necessaria. Cioè dare uno strumento leggero e facile da leggere, quasi un racconto, che raccogliesse molto in sintesi come si è sviluppato questo movimento fino a oggi, che sgombrasse le ombre che ci sono sulla parola femminismo, che desse conto della ricchezza di pensiero e di pratica che le donne hanno prodotto. Utile a chi, perché giovane, non ha vissuto questa storia; utile a chi invece c'era e vuole ricordare meglio. Quando, poi, dico che è uno strumento necessario mi riferisco anche al fatto che il femminismo non è semplicemente un movimen­to del secolo scorso, ma un contenuto politico e relazio­nale tuttora molto importante giacché la presenza delle donne nella vita produttiva, culturale e politica è fondamentale per costruire un paese che risponda delle esigenze e dei diritti di tutti i cittadini, qualunque sia il genere, la razza o la religione. Oggi il movimento delle donne di nuovo scende in piazza contro la violenza, così come per dire no ai muri e alle barriere contro gli immigrati. Tutto ciò ha una storia che, se è piccola nella dimensione del mio libro, è invece grande nel suo contenuto".

Con quali parole una "storica" passa il testimone alle nuove generazioni?

"Gli anni '70, '80, '90, sono stati gli anni in cui il femminismo si è espresso prima in forma provocatoria: gli slogan "io sono mia", "il corpo e mio e lo gestisco io", "aborto libero gratuito e assistito" sono stati di rottura verso gli stereotipi sulle donne; poi il movimento si è nascosto, meno presente nelle piazze e più nelle università, nelle librerie, nei gruppi studio, creando soprattutto le proprie istituzioni. Sono gli anni dello studio, dell'avanzamento del piano teorico, delle relazioni internazionali, della strutturazione. Con l'apparire del nuovo millennio le donne hanno rappresentato il riscatto. Hanno preteso di parlare per tutti, non solo per la loro crescita, ma per la crescita di una diversa idea di società. Con la manifestazione di "Se non ora quando", con la richiesta del riequilibrio della rappresentanza politica, con il lavoro certosino svolto in tutti gli ambiti sovranazionali, con il concetto di genere sempre più ampliato e diversificato, con la rinascita delle grandi assemblee nazionali il femminismo interpreta la necessità del cambiamento.  Non è più soltanto la sempre maggiore presenza delle donne a dare conto del cambiamento, si pretende che si assumano concetti che hanno a che fare con la capacità di relazione e con quello di cura, si pretende la solidarietà e il lavoro".

Femminismo è una parola oggi non molto popolare. Il punto a oggi e come andare avanti senza disperdere la ricchezza del passato.

"Si, è vero, la parola femminismo spesso fa sbuffare. C'è chi dice: ancora!? O chi ci tiene a precisare: io non sono femminista! Personalmente ho dovuto fare i conti molto spesso con questo pregiudizio, anche questo libro non è un caso che è stato edito da una piccolissima casa editrice. Soprattutto abbiamo una vera difficoltà a farci sentire come vorremmo, a essere riconosciute per il nostro ruolo. Però, contemporaneamente vedo una grande curiosità, vedo giovani donne aprire locali dove si discute del pensiero della differenza e si beve anche un aperitivo, si stanno moltiplicando le case delle donne in tutt'Italia, gli uomini sono sempre un po' più presenti ai nostri dibattiti. E addirittura i politici non possono fare a meno di citare - di solito male o a sproposito- le donne, mentre molte donne della politica ufficiale si confrontano con le posizioni del femminismo. Abbiamo visto come la presidente Laura Boldrini si è battuta per l'uso di una lingua non sessista, ma tanti altri esempi si potrebbero citare.

Certo il Movimento delle donne fa sempre i conti con la propria crescita e con le contraddizioni che questo comporta non solo con l'esterno ma anche al proprio interno. Così, ad esempio, giungono al pettine i nodi creati dalle differenze tra donne, ciò che oggi si chiama la questione dell'intersezionalità. O la contraddizione tra le storiche femministe e le giovani femministe. Per l'appunto fare i conti significa discutere e relazionarsi. Se questo avverrà nulla si sarà disperso". 

IL FEMMINISMO E LA PROSTITUZIONE.

Terrore femminista. Censurate le opere di chi ha firmato l'appello Deneuve. "Neanche avessimo chiesto di riaprire le camere a gas", ha detto una delle firmatarie al settimanale Point, scrive Giulio Meotti il 20 Gennaio 2018 su “Il Foglio”. La proiezione dell’ultimo film di Brigitte Sy, “L’Astragale”, tratto dal romanzo di Albertine Sarrazin, non avrà luogo. Ha raccontato ieri Libération che l’associazione “Collettivo femminista di Pantin” che aveva organizzato la proiezione ha rimproverato alla regista di aver firmato l’appello sul Monde di Catherine Deneuve contro il movimento #MeToo e il “puritanesimo”. “Riteniamo che il tempo non sia opportuno per discutere con una dei firmatari dell’appello di cento donne” hanno scritto le femministe a Brigitte Sy. 

LA SCOMODA DENEUVE, scrive Rocco Schiavone il 17 gennaio 2018 su “L’Opinione”. La figura retorica del “post hoc, ergo propter hoc”, cioè “dopo di questo, quindi a causa di questo” è una paraculata argomentativa che prende per causa di una situazione determinata ciò che è solo un evento avvenuto in precedenza. In pratica consiste nel dare un’interpretazione delle cose partendo da un dato di fatto che si contrabbanda come postulato di determinati comportamenti una volta che comunque ci sono stati. Retoricamente parlando questo è il comodo principio del “post hoc, ergo propter hoc” (a volte “ergo” non viene messo) che si usa quando si vogliono vigliaccamente colpire le argomentazioni che non ci vanno a genio. Come hanno fatto giornali e tv con l’appello di Catherine Deneuve a quelle donne che si rifiutano di iniziare una bella caccia alle streghe dei maschi molestatori di Hollywood. La tv e molti giornali hanno infatti relazionato l’appello con il fatto che decenni orsono la Deneuve interpretò la parte di una donna frustrata che si prostituisce per fare dispetto al marito ricco, borghese e insensibile nel film “Belle de jour” di Luis Buñuel. Un capolavoro banalizzato e un’interpretazione da Oscar piegata ad usum delphini. Una suggestione mistificata che nel principio transitivo che si vuole far passare suona così: “La Deneuve che ha fatto la parte della ricca prostituta guarda caso difende i maschi violentatori”. Sono gli effetti anche inconsci della mentalità grillina nell’immaginario pubblico collettivo. E a ben vedere è l’opposto del femminismo mentre la coraggiosa interpretazione della Deneuve di decenni orsono aveva tutto il sapore della sfida femminista ai benpensanti. Così un film capolavoro che vinse il Leone d’Oro nel 1967 a Venezia e che era tratto da un romanzo di Joseph Kessel, che ebbe anche tre scene censurate in Italia, tra cui quella della bambina che rifiuta la prima comunione (altri tempi in Rai) quasi quasi passa adesso da manifesto dell’etica maschilista della Deneuve. Insomma, oltre la mistificazione e le cosiddette fake news. C’è chi si inventa un vero e proprio mondo alla rovescia per piegare ai propri desiderata gli eventi e soprattutto le idee di chi non si omologa al pensiero unico del politically correct.

Femministe, piantatela: si dice donna, non donn@. Il 25 novembre è la giornata contro la violenza alle donne. Ed è un disastro constatare che molte battaglie (in teoria) a favore della donna si risolvono in allucinazioni linguistiche e fumosità politicamente corrette. Meno parole cambiate di genere, e più diritti, grazie, scrive Flavia Perina il 24 Novembre 2017 su "L’Inkiesta". «I processi si fanno in tribunale ma i provini si fanno in ufficio, con l'assistente regista nella stanza» dice Carlo Verdone, ed è la frase più sensata sentita nella tempesta del caso Weinstein e dintorni. Ricordatevela in questi giorni, e in particolare il prossimo 25 novembre – Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne – perché ci sarà un gran bisogno di frasi semplici e ragionamenti non ideologici nella temperie che già si annuncia. A questa Giornata molte donne (me compresa) parteciperebbero volentieri per un sentimento elementare: si sono scocciate di stare in Serie B, temono per le loro figlie, vorrebbero non la Luna ma un trattamento alla pari. Ad esempio che il capo non ti chieda all'improvviso di toccarti le tette. O che al colloquio di lavoro si possa ammettere di avere un figlio senza rischiare il: «Va bene vada, le faremo sapere». O che, nel caso estremo dello stupro, a nessuno venga in mente di domandarti: «Ma portava le mutande?», come è successo alle studentesse americane violentate a Firenze. Vedono, all'orizzonte, forme di sopraffazione globale angoscianti: la tratta delle prostitute-schiave, che è il terzo affare dei clan criminali dopo droga e armi. La compravendita della maternità e dei neonati. Cose concrete delle quali si vorrebbe trovare traccia, ad esempio, nel documento delle organizzatrici del corteo del 25 a Roma (l'associazione Non Una Di Meno), una colossale piattaforma di 50 pagine che comincia già con una cosa complicata: una chiocciola al posto della desinenza a/e, per sottolineare l'abolizione delle differenze grammaticali, immagino. «Nat@ e cresciut@». Boh. C'è difficoltà persino nel capire che cosa significa esattamente “donna”: il documento specifica che sotto questo termine vanno raggruppate tre categorie umane: lesbiche, transessuali e cis-gender, cioè persone «la cui identità di genere assegnata alla nascita in base al sesso biologico coincide con la propria percezione di sé e il genere a cui si sceglie di appartenere». Quando ti servono cinque minuti di ragionamento solo per capire se rientri nella fattispecie di cui si occupa un programma politico, resti perpless@. E viene voglia di dire alle organizzatrici: ma non vi sentite un po' marziane, sicure-sicure di poter costruire lo choc culturale di cui il Paese avrebbe bisogno con questo linguaggio da iniziate, anzi iniziat@?

Quando ti servono cinque minuti di ragionamento solo per capire se rientri nella fattispecie di cui si occupa un programma politico, resti perpless@. E viene voglia di dire alle organizzatrici: ma non vi sentite un po' marziane, sicure-sicure di poter costruire lo choc culturale di cui il Paese avrebbe bisogno con questo linguaggio da iniziate, anzi iniziat@? L'altra ganascia della tenaglia è la sfilata di vittime a Montecitorio organizzata dalla presidente Laura Boldrini per la Giornata del 25. Le invitate sono 1.300, la galleria delle sopraffazioni – fisiche, psicologiche, mediatiche – sarà infinita: una rappresentazione colossale e dolente della disgrazia di nascere donna in un Paese rimasto alquanto brutale. Se fosse un romanzo distopico potremmo immaginare i signori parlamentari sottoposti al Trattamento Ludovico (chi si ricorda Arancia Meccanica?), cioè costretti a tenere gli occhi sbarrati su queste signore e sul lungo elenco di abusi e cattiverie che raccontano. Magari ne nascerebbe qualche ripensamento utile, qualche sussulto terapeutico. Ma il Trattamento Ludovico non è previsto: il 25 è sabato, gli uomini – soprattutto gli Onorevoli – staranno a casa loro a parlare di politica e collegi o tutt'al più a guardarsi gli anticipi di campionato (Cagliari-Inter, credo). Dunque, l'evento seguirà la classica tradizione delle donne che si lamentano tra donne, come accade da sempre, solo che invece di farlo sull'uscio di casa, sgranando fagioli insieme alle vicine, lo faranno in un contesto più aulico, con parole più rotonde e vestiti più eleganti delle vestagliette di paese. È un'invettiva contro il femminismo, nuovo o vecchio che sia? Al contrario. Nel tempo ho conosciuto molte femministe, e qualcuna di loro la frequento pure, ma le sento e le leggo ragionare di altro. Hanno posizioni nette sull'utero in affitto (o gestazione per altri, fate voi, non mi impicco alle parole) che considerano l'estremo approdo della sopraffazione sulle donne e della violenza sui neonati. Dicono che stanno tornando le schiave, e che la breve fase in cui la prostituzione poteva essere una libera scelta è finita da un pezzo: la realtà di oggi è la tratta, che avrebbe solo in Italia 8 milioni di “clienti”. Parlano di lavoro e pensioni, cose molto importanti per tutte. Fanno scelte senza chiocciol@, piuttosto nette e comprensibili, analizzano il dislivello tra gli uomini e le donne come una questione di potere e di “ordine ingiusto” delle cose. Perché nel nostro spazio pubblico, invece, esiste solo l'alternativa tra il cisgender e vittimismo? Qualcuno può spiegarlo?

Prostituzione e femminismo, L'altro dirittoCentro di documentazione su carcere, devianza e marginalità. Capitolo 4 di Maria Cristina Acri, 2010.

4.1. Il movimento femminista in Italia. La trattazione della donna prostituta come oggetto del controllo sociale, la sua analisi complessa in un particolare contesto storico e sociale, qual era l'Italia tra il XIX secolo e i primi decenni del XX, porta a considerare le molteplici posizioni a riguardo: dopo aver esaminato l'argomento dal punto di vista sociologico criminale e da quello del controllo sociale, si è reso necessario indagare la donna prostituta attraverso l'osservazione del suo profilo sociale per capire che tipo di donna era nella realtà concreta e come viveva la condizione di prostituta. Tuttavia, per una migliore comprensione è utile prendere atto del contributo dato dalle donne "normali" al dibattito sulla prostituzione e sul suo trattamento; tale posizione può essere ricondotta, semplificando, al movimento femminista che già dalla fine del XVIII secolo in Europa si muoveva per una rivalutazione della figura della donna e il riconoscimento dei suoi diritti civili in posizione egualitaria all'uomo; quest'impostazione teorica caratterizzò la "prima ondata" del pensiero femminista. Per quanto riguarda l'Italia, la nascita di un vero e proprio movimento femminista, nel periodo storico in esame, è difficilmente ricostruibile perché consta di una pluralità di associazioni, figure a volte tra loro discordanti e fatti talvolta latenti che ne ostacolano un resoconto sistematico; il femminismo italiano si caratterizza per il suo essere inizialmente un "movimento riflesso": la sua nascita, e iniziale diffusione, è legata anche a personalità non italiane, come Anna Kuliscioff, ungherese, Jessie White Mario e Giorgina Crawford Saffi, inglesi, che avevano sposato italiani illustri e vivevano in Italia; queste donne, grazie ai loro contatti all'estero, particolarmente in Inghilterra, alimentarono un innovativo modo di pensare la donna già dilagante nel resto d'Europa. L'esigenza di cambiamento si rifletteva soprattutto nel campo del riconoscimento di uguali diritti civili per le donne e le rappresentanti femminili, adoperatesi fin dai lavori preparatori del nuovo Stato, sfortunatamente videro disattese le loro aspettative con l'emanazione del Codice Pisanelli del 1865 che manteneva la subordinazione della moglie al marito. Tra le battaglie perseguite, anche quella per il diritto al voto, al divorzio e all'istruzione, al fine di formare le donne come cittadine coscienti e consapevoli, come si addice a uno Stato moderno; ma anche il diritto al lavoro e la parità di salario, seguendo l'eco delle rivendicazioni di eguaglianza giuridica e politica intraprese in Inghilterra; con la regolamentazione della prostituzione le donne della classe borghese si attivarono fin dall'inizio per mostrare il loro dissenso. Nei primi anni dell'Unificazione vi erano dunque delle femministe italiane ma mancava un movimento femminista organizzato; una prima forma associativa autonoma, la Lega per la promozione dei diritti delle donne, nacque nel 1881 per opera di Anna Maria Mozzoni, il movimento femminista propriamente detto nascerà verso gli anni Novanta del secolo. Tra le cause che portarono alla nascita del femminismo in Italia in un secondo tempo rispetto ad altri Paesi, rilevano soprattutto la situazione di arretratezza sociale e la difficoltà di diffusione a tutta la popolazione femminile, nonostante l'economia e la produzione fossero in espansione, la mentalità popolare restava saldata a un'idea conservatrice della famiglia patriarcale, che rifletteva il ruolo inferiore della donna nella società. La maggior parte della popolazione femminile si divideva tra le attività domestiche e il lavoro fuori casa; questo spiega perché nacque in una cerchia ristretta di donne culturalmente preparate e appartenenti alla classe borghese. La posizione delle femministe si poneva in netta contrapposizione con un modello di diritto (di genere) assodato negli anni, che era storicamente costruito sulle esperienze e le esigenze maschili, di conseguenza anche l'insieme dei diritti delle donne era formulato sulla base delle percezioni che gli uomini avevano delle donne: ne usciva fuori un ritratto della donna come entità inferiore formalmente, sul piano giuridico, ma anche intellettualmente e biologicamente, come teorizzavano i sostenitori dell'antropologia criminale. Il femminismo, fin dalla sua fase non organizzata, contrastava una simile visione della donna e ne riaffermava la parità sociale e giuridica, rivendicando diritti e riconoscimenti sociali. Il dibattito sulla "questione femminile" italiana si lega alle importanti figure di Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni, due donne unite sul fronte della difesa dei diritti delle donne ma divise dal diverso modo di concepire la stessa lotta. La prima, esponente di spicco del Partito Socialista, perseguiva gli scopi di miglioramento della condizione femminile in modo più circoscritto rispetto alla seconda, la quale auspicava la formazione di un'associazione che comprendesse tutte le donne, incluse quelle delle classi proletarie: fatto inaccettabile per i socialisti. Il personaggio della Kuliscioff permette di comprendere l'instabile relazione tra socialismo e femminismo: l'attività volta al miglioramento delle condizioni lavorative delle donne, ad esempio, era, per i socialisti, sì tesa a rendere più sostenibile la condizione femminile ma si inseriva nel più ampio disegno della tutela di tutta la classe lavoratrice. Un altro campo in cui si rivelò più accesa la contrapposizione tra femminismo e socialismo fu quello del suffragio universale, interpretato dalla Kuliscioff come diritto di voto esteso a tutte le donne, anche se non attive nella vita politica del Paese, mentre il partito era orientato verso una concessione graduale, distinguendo tra analfabete e alfabete. La posizione sostenuta dalla Kuliscioff all'interno del Partito Socialista alimentò un fervente dibattito tra l'opportunità, da lei sostenuta, di ammettere tutte le donne al voto così da risvegliare in loro una coscienza sociale; mentre dall'altra si riteneva una simile estensione avrebbe inasprito i rapporti tra i vari partiti politici. L'acuirsi della polemica e la posizione intransigente del partito non erano chiare alla Kuliscioff, la quale non comprendeva l'accesa ostilità mostrata nei confronti delle femministe e della loro lotta per il suffragio universale; questo la portò a rivedere ciò che la Mozzoni già affermava riguardo a un femminismo che doveva espandersi oltre l'ideologia borghese, perché era implicitamente richiesto da una società in mutamento come quella italiana. Ed era proprio questo cambiamento che rendeva possibile alla donna di scoprire l'esigenza di veder riconosciuti i propri diritti. Anna Maria Mozzoni, descritta come "la più acuta agitatrice della questione della donna; probabilmente colei che vide più a fondo nel problema, e che lo impostò con maggiore appropriatezza", si pone, nel dibattito femminista, come figura speculare alla Kuliscioff poiché sosteneva la necessità di un associazionismo femminile a livello interclassista, ella affermava che le disparità di genere andassero oltre le differenze di ceto; la donna, nella sua visione, andava tutelata in quanto "donna-lavoratrice", evidenziando la possibilità di conciliare il ruolo di curatrice della casa con quello del lavoro fuori poiché l'uno non esclude l'altro. La volontà, presentata come esigenza, di coinvolgere nelle rivendicazioni femministe agli strati sociali più bassi è confermata anche nell'importante indagine della Mozzoni Sulla prostituzione in Italia; in questo lavoro è messo in luce uno degli aspetti più significativi della condizione femminile: la maggior parte delle donne che si prostituivano erano le contadine, per lo più minorenni, arrivate nelle città in cerca di condizioni migliori. La Mozzoni era anche consapevole che la lotta per l'affermazione dei diritti delle donne era più facilitata se unita alla lotta per i diritti dei lavoratori, sebbene rischiasse di non proseguire di pari passo: la lotta delle donne era volta alla loro affermazione come persone, ancor prima che come lavoratrici al pari dei colleghi maschi. Il riconoscimento alla donna dell'accesso alle funzioni sociali, la possibilità di affermarsi nel campo produttivo al pari dell'uomo, anche in termini salariali, sarebbe stato funzionale anche alla diminuzione della prostituzione, cui molte ricorrevano per sopravvivere. La posizione della Mozzoni, tuttavia, non tratta la questione femminile in chiave esclusivamente economica, come al contrario fanno i socialisti: la tutela delle condizioni lavorative interessava sia gli uomini che le donne, ma la questione per le donne andava oltre il mero riconoscimento della riduzione delle ore di lavoro e della parità di salario. Il femminismo italiano non trovò nel partito socialista un alleato valido per il perseguimento delle rivendicazioni femministe, a discapito delle condizioni femminili che tardarono a progredire, situazione ben dimostrata dal suffragio universale raggiunto pienamente solo nel 1946. Sebbene i socialisti riconoscessero la donna come "naturalmente pari all'uomo", affrontavano la questione in modo superficiale, come se non fosse il momento per trattare i problemi femminili. Con il nuovo secolo le cose non migliorarono: l'esclusione delle donne dall'elettorato, ad opera della riforma di Giolitti nel 1912, è un dato significativo che mette in luce la debolezza del movimento femminista, ma ciò non impedì alle donne di lottare per il riconoscimento dei loro diritti civili e giuridici e per affermarsi in posizione paritaria con l'uomo nel campo sociale e lavorativo.

4.2. Femminismo e positivismo. La questione femminile come sollevata nel XIX secolo, volta all'affermazione della donna in quanto essere uguale all'uomo e perciò degna dei medesimi diritti, si pone in netta contrapposizione all'ideologia positiva che si stava diffondendo in quel periodo in Italia. Secondo questa concezione la donna era inferiore all'uomo sia biologicamente sia intellettualmente, di conseguenza ogni rivendicazione in materia di diritti non trovava giustificazione; come si è avuto modo di accennare nel capitolo dedicato all'antropologia criminale, il movimento delle femministe rispose con critiche ferme alle affermazioni da questa sostenute, reputandole prive di basi scientifiche avvalorate e fondate per la maggior parte su pregiudizi di antico retaggio. Per difendersi, le femministe, portavano esempi di donne affermatesi nel mondo letterario, come Madame de Staël o George Elliot, o che si erano distinte nella politica, come la regina Vittoria. L'importanza del ruolo femminile non era ricondotta solo a esponenti delle classi elevate socialmente o culturalmente, ma si evidenziava anche il notevole contributo che le donne delle classi inferiori davano alla società con la partecipazione attiva alla produttività e al lavoro. La reazione delle femministe alle affermazioni degli antropologi criminali contava di una debolezza di fondo: dal momento che le donne non avevano diritto di voto né erano presenti in parlamento con cariche tali da poter influire su leggi in loro favore, era difficoltoso e azzardato controbattere alle pretese scientifiche. Ciononostante, vi furono femministe borghesi che confutarono le affermazioni positive con prove di altrettanto spessore scientifico, soprattutto a riguardo delle misurazioni dei cervelli; per confutare l'esistenza di un nesso tra intelligenza e peso del cervello vennero portati esempi che avevano come protagonisti gli stessi sostenitori di tali correlazioni, come nel caso dello scienziato Ernst Bischoff il cui cranio pesava meno di quanto lui stesso aveva stabilito come peso medio per il cervello femminile. Tra le affermazioni maggiormente sostenute dalle femministe rilevavano l'incidenza dell'ambiente e del contesto sociale, di questo parere anche voci di spicco del filone socialista come Anna Kuliscioff, la quale collegava la scarsa intelligenza e la minor possibilità di emancipazione sociale ad un ambiente sfavorevole e, ancor prima, alla scarsa istruzione. Una delle maggiori critiche mosse a Lombroso e colleghi era proprio quella di confondere i caratteri biologici con quelli sociali: l'inferiorità delle donne non poteva essere ridotta ai soli caratteri biologici, soggetti essi stessi a variare da un soggetto all'altro, il contesto sociale ricopriva un ruolo determinante nello sviluppo personale di ogni donna, come, del resto, era anche per gli uomini. Il dibattito aveva una portata tale da alimentare numerose pagine di scritti femministi e non solo: nella rivista Critica sociale, che la Kuliscioff dirigeva assieme a Turati, in occasione della pubblicazione della Donna delinquente di Lombroso e Ferrero, l'ampia recensione di Zerboglio fu corredata di note dove i direttori criticavano apertamente le rivelazioni dello scienziato mettendone in discussione le affermazioni come poco scientifiche. Tra le posizioni delle femministe socialiste, tuttavia, non vi era piena omogeneità e non mancavano riviste che pubblicavano articoli di Sergi, tra i maggiori sostenitori della teoria lombrosiana, o recensioni della Donna delinquente sia favorevoli che contrarie. L'approccio confuso al positivismo non caratterizzava solo una divisione interna alle socialiste, ma rilevava in maniera più ampia per quanto riguardava la questione dei diritti civili; poiché sul tema vi erano posizioni divergenti anche tra gli stessi antropologi. Sebbene l'opinione preponderante volesse la donna inferiore all'uomo, vi era chi le riconosceva diritti "equivalenti" a quelli della controparte maschile, questa posizione conciliava esigenze di giustizia, com'era opportuno per una società civile, e non contraddiceva la tesi di fondo dell'inferiorità fisiologica femminile: riconoscere diritti equivalenti significava accordare alle donne diritti conformi alla loro personalità e adeguati al loro stato. In base a ciò, emergevano discordanze su particolari diritti come quello di voto: Lombroso, Pilo e Zerboglio sostenevano il suffragio femminile senza riserve, mentre altri, come Sighele e Marro, ritenevano più appropriato riconoscere il voto amministrativo e circoscrivere quello politico alle questioni che più riguardavano le donne, questo, però, dopo un'accurata riflessione. Non mancavano esponenti della nuova scienza che restarono saldi alle loro convinzioni e le tradussero in posizione politica, come nel caso di Niceforo e Ferrero i quali si opponevano fermamente all'estensione dei diritti femminili, soprattutto quest'ultimo riteneva inutile il voto alle donne poiché bastava l'egida maritale a proteggerle e il loro sarebbe stato solo un contributo deleterio allo sviluppo della nazione. Pareri contrastanti riguardo al diritto di voto erano rinvenibili tra le stesse femministe, sebbene molte respingessero l'idea che le differenze fisiche tra uomo e donna, oggettivamente esistenti, potessero in qualche modo influire sulla capacità giuridica; tra le sostenitrici più autorevoli di questa posizione la giurista Teresa Labriola; per contro vi erano alcune che ammettevano la negazione dei diritti sulla base di diversità biologiche. L'antropologia criminale mostrava tra i suoi esponenti posizioni contraddittorie a seconda che si trattasse di difendere le scoperte scientifiche o prendere atto delle reali condizioni sociali delle donne: le prime mostravano una donna fisiologicamente e psicologicamente subordinata, i mutamenti sociali presentavano donne attive per l'affermazione di sé e dei loro diritti civili e politici, come già avveniva in molti Paesi. Le femministe riponevano speranze negli atteggiamenti più illuminati, fiduciose anche dell'influenza socialista su molti positivisti, ciò per il fatto che i due filoni consideravano di grande importanza la scienza per il progresso sociale e culturale; questo spiega perché le critiche più ferme e pesanti all'antropologia criminale vennero dal femminismo borghese. Un elemento che pare significativo menzionare è il tema del divorzio, capace di accordare antropologi e femministe; i primi lo difendevano in qualità di istituto utile alla prevenzione di particolari reati quale l'adulterio o l'omicidio domestico, questo era presentato da Lombroso e Ferri come valvola di sicurezza sociale. Pochi erano i pareri contrari, come Morselli, che relegavano il divorzio a "istituzione inferiore" e di conseguenza praticato solo da civiltà primitive. Le femministe, dal canto loro, affrontavano la questione in modo contenuto per non suscitare l'opposizione della chiesa. La reazione delle femministe all'antropologia criminale era prevalentemente incentrata sulla confutazione delle affermazioni scientifiche che descrivevano la donna come soggetto fisiologicamente e culturalmente inferiore; la difesa della donna normale trascurava le questioni della donna delinquente, tema, al contrario, centrale nell'opera positivista. L'attenzione delle femministe si posò invece sulla regolamentazione della prostituzione, ritenendo il trattamento di pressante controllo sociale ingiusto poiché riduceva le prostitute a cittadine di seconda classe. La lotta all'emancipazione femminile si scontrava con un sistema legalizzato e difeso dalle ideologie positiviste.

4.3. La lotta alla prostituzione di Stato. La regolamentazione della prostituzione, fin dai primi momenti della sua istituzione, suscitò numerose reazioni di dissenso e un notevole contributo all'opposizione era rappresentato da molte donne socialmente impegnate per l'affermazione dell'emancipazione femminile. Gli aspetti maggiormente attaccati della regolamentazione erano inerenti alla dignità della donna, totalmente demolita nel momento in cui questa veniva registrata come prostituta nelle liste di polizia; si accusava lo Stato di avallare la prostituzione con la giustificazione, vana, della sua necessità come "male minore" mentre in realtà era un ulteriore modo per sottoporre un gruppo di donne ad una forma di schiavitù; inoltre anche la causa di tutela della salute pubblica era sconfessata da scarsi risultati, aggiungendo, oltretutto, che i controlli sanitari riguardavano solo le donne prostitute mentre si esoneravano i clienti. L'ultimo, ma non meno importante, punto preso in considerazione dai sostenitori dell'abolizionismo riguardava il traffico di donne avviate con l'inganno alla prostituzione, denominato "tratta delle bianche". Tra le italiane più attive nella lotta alla prostituzione regolamentata, vi fu, senza dubbio, Anna Maria Mozzoni; vivamente impegnata nel movimento di emancipazione femminile, seguì la causa abolizionista in modo fermo e deciso, sostenendo che una delle cause principali della prostituzione fosse l'inopportuna condizione lavorativa e sociale che voleva la donna in una posizione arretrata rispetto all'uomo e per questo più soggetta alla necessità economica; poiché era questa che spingeva molte donne a prostituirsi, la Mozzoni riteneva che un miglioramento delle condizioni lavorative ed economiche avrebbero influenzato positivamente la prostituzione facendola diminuire. Il suo attacco più violento era all'inefficacia di un regolamento che il senso comune aveva reso accettabile, quasi ignorando la reale situazione che vi si nascondeva dietro; indicava l'impotenza del suddetto regolamento dal punto di vista sanitario: la sifilide era in diminuzione, ma si potrebbe meglio dire contenuta, dove la sorveglianza era applicata, risultando in aumento altrove. Il regolamento si presentava come una "misura parziale" che nella società si traduceva in "un sistema di arbitrî vessatori e d'uggiose violenze dirette ad un obiettivo igienico che sfugge continuamente". La debolezza del regolamento rilevava anche per l'accoglienza che la società gli aveva riservato, come la stessa Mozzoni scriveva a Josephine Butler, la classe maschile aveva ben accolto il sistema, trattandosi di un controllo sulle donne e per ciò in sintonia con la mentalità generale che vedeva la donna subordinata all'uomo; per quanto riguarda la parte femminile, sebbene non si possa parlare di approvazione, vi era una sorta di tacito consenso per cui molte donne erano più dedite all'interesse materiale della famiglia e scusavano le debolezze morali dei propri mariti e dei figli, altre, invece, preferivano non curarsi di certe questioni sociali perché non si adattava loro. Al contrario di queste ultime, Anna Maria Mozzoni non poteva trascurare di interessarsi alla prostituzione regolamentata; come lei altre si schierarono apertamente contro il sistema, tra i nomi più rilevanti Sara Nathan, Giorgina Crawford Saffi, Alaide Gualberta Beccari e Jessie White Mario, ma alle donne italiane si unirono anche esponenti dei movimenti femminili d'Inghilterra e Irlanda. L'attività abolizionista s'inseriva nel più ampio impegno di affermazione sociale della donna contribuendo alla sua diffusione consapevole tra gli animi femminili. Un tale interessamento si ricava dai lavori di osservazione di Jessie Mario e della stessa Anna Mozzoni, la prima, osservando la condizione di miseria a Napoli ebbe modo di parlare delle donne sacrificate in lavori umili e particolarmente delle prostitute; i toni usati dalla Mario, che non era una femminista fervente come la Mozzoni, evidenziavano l'influenza dell'abolizionismo per una migliore comprensione del movimento di emancipazione. Jessie Mario definì la regolamentazione un delitto messo in atto con "leggi ideate e formulate da soli uomini" al solo fine di "soddisfare ai più brutali istinti dell'uomo". Contemporaneamente Anna Mozzoni osservava i mutamenti socio economici dovuti all'industrializzazione in Lombardia, funzionalmente a quanto da lei sostenuto, la lotta alla prostituzione doveva avvenire in modo cosciente, iniziando dal riconoscimento delle sue cause. La Mozzoni reputava la regolamentazione come una misura che privava le donne prostitute della loro dignità, definendola "indegna schiavitù" poiché il sistema trattava quelle ragazze alla stregua degli schiavi; con la sua forte personalità e la tenacia mostrata nella campagna abolizionista riuscì a influenzare anche uomini politici, il deputato Salvatore Morelli, suo amico, propose, invano, al parlamento la chiusura dei sifilocomi fin dal 1868, ritenendoli un'istituzione utile solo ad aumentare le entrate statali e, come ribadì l'anno seguente, costituivano un'offesa alla dignità "non solo della donna ma anche del paese"; il Parlamento italiano rispose, dopo l'iniziale ilarità, giustificando le tasse ricavate dalla prostituzione in relazione della sicurezza pubblica. Quello della sicurezza, tuttavia, era un altro aspetto che le abolizioniste, soprattutto Anna Maria Mozzoni, criticavano attaccando il modo in cui essa veniva perseguita: la gestione della prostituzione regolamentata era affidata alla polizia dei costumi, la quale avrebbe dovuto riservare il suo intervento ai casi in cui la sicurezza e la decenza pubblica sarebbero state messe in pericolo; la Mozzoni dichiarava pubblicamente l'abuso che veniva fatto di questo potere di polizia: L'indole del potere civile non gli consente, in materia di costumi, che una competenza assai limitata. Incaricato di guarentire la libertà dell'individuo e la sicurezza della proprietà, la sua azione, in materia di costumi, non può essere legittima, che dove la pubblica decenza è offesa. Fuori di lì esso soverchia il suo mandato, viola le franchigie costituzionali, si fa trasgressore della propria legge penale. Sono questi gli atti che ogni giorno perpetra e compie la polizia dei costumi. Le parole usate sono un attacco al cuore del regolamento: il sistema presentato come mezzo di profilassi sanitaria si traduceva nella pratica in un controllo sociale illimitato, che sottoponeva le donne ad un trattamento discriminatorio in quanto passibili di arresto sulla base del solo sospetto; da una simile constatazione si desumeva una conferma della subordinazione femminile e una prova della vasta discrezionalità usata dagli agenti di polizia nell'applicazione del regolamento. Infatti, la libertà personale, la dignità e l'onore sociale di una donna erano "esposte a giudizio d'un basso funzionario". La situazione creata dalla regolamentazione era tale per cui molte ragazze si trovavano prostitute perché iscritte forzosamente, magari a causa di vicissitudini che la morale del tempo non riteneva accettabili: una ragazza che veniva abbandonata incinta dal fidanzato molto spesso non aveva il sostegno della famiglia perché rappresentava un disonore, inoltre era preclusa la ricerca sulla paternità; la polizia, talvolta in accordo con le tenutarie delle case di tolleranza, denunciava la Mozzoni, procurava di "irreggimentare" delle ragazze sfortunate. La pratica era talmente assodata che non poche erano quelle consapevoli che una volta registrate sarebbero state etichettate come prostitute, non solo dalla polizia ma anche dal resto della società, dal momento che la riabilitazione restava spesso solo una possibilità teorica; in relazione a questo la situazione della prostituta clandestina appariva "migliore" poiché la sua professione non era sottoposta a umiliazione pubblica e questo le permetteva anche una riabilitazione più agevole mediante matrimonio; si evince l'intrinseca contraddizione del sistema legalizzato. La regolamentazione, quindi, appariva alle donne come un disonore più che la prostituzione in sé e l'intensità della loro protesta andava sempre più consolidandosi, sostenuta anche da esponenti dell'opposizione al governo che chiedevano la revisione del regolamento e membri della classe proletaria riuniti in società operaie. Il movimento abolizionista arrivò, nel settembre del 1877, a riunirsi a Ginevra per il primo congresso internazionale contro la prostituzione cui aderirono numerosi partecipanti da tutta Europa, anche l'Italia era presente con molte rappresentanti, tra le quali Anna Maria Mozzoni e Jessie White Mario. L'affluenza elevata e diffusa può essere ricondotta alla risonanza delle conferenze che la Butler aveva tenuto in varie città, a partire dal 1874, per sensibilizzare sul problema della prostituzione regolamentata. Il congresso affrontò la questione della regolamentazione attraverso un approccio plurimo per valutarne tutti gli aspetti, dall'etico al medico, passando per quello giuridico, ma non trascurando nemmeno l'aspetto assistenziale e socio-economico. Uno dei primi aspetti criticati, fin dalle prime battute del congresso, al sistema di regolamentazione era l'insensata gestione delle visite mediche: si palesava come irrazionale sottoporre a controllo medico le sole prostitute trascurando la popolazione maschile, come se da questa non si diffondesse il contagio delle malattie veneree; si auspicava perciò l'estensione delle visite anche ai clienti, qualunque fosse il loro livello sociale. La prostituzione era una "piaga" che riguardava tutti, sebbene colpisse maggiormente la classe popolare; era per le donne più povere una necessità di sopravvivenza che il regolamento trasformava in condizione permanente. Dai dibattiti emerse la necessità di coinvolgere le donne in misura maggiore, soprattutto in considerazione del fatto che in materia di riforme femminili risultava opportuno chiedere un loro parere e, soprattutto, avere conoscenza diretta delle loro necessità; al contrario i gruppi di esperti e specialisti cui si affidavano i disegni di legge erano sempre uomini. Gli esiti del congresso furono senza dubbio positivi: si erano messi in luce i problemi reali e si erano date tracce per affrontare la questione. Tra i risultati più brillanti anche lo spunto per Anna Maria Mozzoni di creare un movimento comune che riunisse tutte le associazioni di donne; vi riuscì a tre anni di distanza fondando la Lega promotrice degli interessi femminili, che era, tra l'altro, la prima associazione del genere in Italia. Il contributo femminista all'abolizionismo risalta per il suo carattere esteso, collegandosi al movimento di emancipazione e dando a questo una motivazione ulteriore alla collaborazione femminile (58). In Italia le associazioni abolizioniste riponevano le loro speranze nelle commissioni d'inchiesta ottenute con l'avvento della sinistra al governo, non smettendo di avanzare richieste decise, prima fra tutte l'abolizione della polizia dei costumi: primo mezzo della regolamentazione e primo oltraggio alla dignità e ai diritti delle donne che venivano soppressi. Anna Maria Mozzoni proseguì instancabile negli anni la sua campagna abolizionista e di emancipazione attraverso conferenze e comizi; il movimento raggiunse parte dei suoi obiettivi già dal 1888, con il Regolamento Crispi e la riforma sanitaria, tuttavia l'obiettivo dell'abolizione dei regolamenti restava disatteso anche con il successivo regolamento.

4.3.1. La tratta delle bianche. Il pretesto è sempre quello di un buon posto di modista, di stiratrice e specialmente di serva... e in quest'ultimo caso il lenone non mentisce pur sapendo di mentire. La regolamentazione recava con sé più di una questione, se da una lato questa contribuiva al controllo sociale e sanitario di una parte della popolazione, dall'altro suscitava un malcontento diffuso sia tra le stesse prostitute, che rifuggivano quel controllo, alimentando le fila della prostituzione clandestina, sia tra gli oppositori al regime statale, che lo accusavano di inefficacia. Oltre a queste, rileva particolarmente quello della tratta delle bianche, uno dei problemi sollevati dal fronte abolizionista, con cui si denunciava il traffico nazionale, ma anche internazionale di ragazze, spesso minorenni, avviate alla prostituzione con l'inganno. La questione venne alla luce sul finire del XIX secolo e si protrasse per i primi decenni del XX; al pari della campagna abolizionista, in cui si inseriva, affondava le sue radici fuori dei confini italiani: sarebbero degli anni Sessanta i primi documenti ungheresi a segnalare il traffico di donne in partenza dal Paese; in breve il problema assunse rilievo internazionale. Per ciò che concerne l'Italia, verso gli anni Ottanta giungevano lamentele da Alessandria d'Egitto da parte di italiani lì residenti per l'eccesiva presenza di prostitute italiane; solo a seguito di ciò il governo si attivò per il rimpatrio delle ragazze minorenni e, successivamente, adottò misure di sorveglianza, con la particolare collaborazione dei prefetti delle città portuali, per ostacolare la partenza di altre prostitute, facendo appello al Regolamento che prescriveva l'autorizzazione dell'autorità di polizia per allontanarsi dalla residenza. Si auspicava un controllo vigile e costante per individuare e punire, in ossequio al rigore delle leggi, quanti aggiravano le giovani per poi farle prostituire. Peculiare attenzione era rivolta ai traffici delle ragazze minorenni, le più soggette alle brame degli sfruttatori perché più facilmente convincibili; questo dato risulta significativo poiché permette di considerare la questione per un altro aspetto: la campagna contro la tratta delle bianche era un mezzo per combattere la prostituzione non solo regolamentata, ma in generale perché si adoperava per "salvare fanciulle innocenti". Il tema della redenzione delle prostitute emergeva tra alcuni abolizionisti e, soprattutto, era auspicata dal filone proibizionista cattolico che con l'inizio della campagna contro la tratta moltiplicò le organizzazioni socialmente impegnate; si intuisce che queste avevano una visione della donna conforme al modello borghese e ben pensante del tempo. Tra le più attive avversarie della tratta delle bianche vi erano le componenti dei movimenti per l'emancipazione femminile, che la combattevano unitamente alla lotta contro la regolamentazione, anche in ragione del fatto che le case di tolleranza erano un buon mezzo per il traffico delle ragazze. Le femministe fondarono anche nuove associazioni atte allo scopo, la più importante, nata nel 1901, era il Comitato Italiano contro la Tratta delle Bianche; anche questo operava, oltre per l'individuazione dei trafficanti, per il recupero delle giovani che volessero tornare a una vita normale. Le organizzazioni femministe e abolizioniste non erano le uniche ad occuparsi della questione, vi era, come si è detto sopra, un impegno anche a livello internazionale; la questione, infatti, era stata oggetto di un congresso tenuto a Londra nel 1899 cui erano stati invitati vari Paesi, compresa l'Italia che, però, non intervenne.

A questo punto è opportuno spiegare la posizione peculiare rivestita dall'Italia nella questione della tratta; come si è avuto modo dire, molti vedevano nelle leggi sulla prostituzione la causa del traffico di donne. Grazie anche alla sua posizione geografica, l'Italia si prestava ad essere un paese di transito per queste donne, qui giunte da varie parti d'Europa e dirette verso l'America Latina o verso l'Oriente; oltre a questo l'Italia stessa "esportava" ragazze sia verso gli altri paesi europei sia verso le coste della vicina Africa, è interessante notare come il mercato fosse ben ripartito: le ragazze del settentrione erano più facilmente trasferite via terra, quindi in Europa, mentre le ragazze del sud erano inviate verso Egitto e Tunisia; da questa serie di dati si evince che le ragazze italiane erano prevalentemente inviate là dove era forte la presenza di connazionali. Per capire meglio la situazione delle italiane all'estero, merita riportare l'esempio dell'Egitto e del Cairo dove la tendenza di queste giovani era poi quella di riunirsi in un medesimo quartiere, è d'obbligo ribadire che anche in questo caso si fa riferimento a dati reperiti mediante le registrazioni, quindi potevano esserci molte altre prostitute clandestine sparse per il resto della città. La situazione documentata non mostrava la presenza di minorenni né di donne lì condotte con l'inganno o la forza; appare così una sorta di sfasatura tra quanto riportato nella documentazione ufficiale e quanto era diffuso nell'opinione generale, che si batteva contro la tratta. Il sospetto che molte erano convinte a partire con l'inganno, allettate da prospettive di lavoro, era l'incentivo per la formazione di una collaborazione tra stati; questo l'oggetto di una conferenza internazionale, svoltasi a Parigi nel 1902, a cui parteciparono due rappresentati italiani, il professor Buzzati e il marchese Paulucci De' Calboli. L'obiettivo era l'individuazione di misure penali sul triplice piano legislativo, procedurale e amministrativo che le nazioni avrebbero dovuto adottare per contrastare il traffico e lo sfruttamento delle donne. Lo Stato italiano, dal canto suo, affrontò il tema in parlamento solo nel 1903, sebbene il sollecito per l'esecuzione degli accordi parigini, ad opera del deputato Socci, venne prontamente liquidato presentando come sufficiente la normativa esistente: oltre alle norme del codice penale, la legge sull'immigrazione conteneva una disposizione che puniva il "turpe traffico". Tuttavia, come fece sapientemente notare Buzzati in una lettera al Corriere della sera, la suddetta legge non garantiva protezione alle donne che venivano portate nei possedimenti italiani in Africa poiché dal punto di vista giuridico non emigravano. Le lacune giuridiche non riguardavano solo l'Italia, la campagna contro la tratta delle bianche proseguiva attivamente e il progetto del congresso di Parigi fu approvato concretamente nel 1910, in questa sede si definì in modo risoluto il reato di "tratta" per cui doit être puni quiconque, pour satisfaire les passions d'autrui, a embauché, entrainé ou détourné, même avec son consentement une femme ou une fille mineure en vue de la débauche. L'Italia, tuttavia, non ratificava la convenzione poiché vi era da parte dei giuristi una certa ostilità ad adeguare la nuova tipologia di reato allo schema generale del codice penale, se ne ricava una debolezza sistematica dell'autorità italiana nella lotta contro la tratta delle bianche. Questo, tuttavia, non impedì di attuare misure di controllo e prevenzione anche a livello locale. La Polizia di Sicurezza era incaricata di svolgere le indagini sulla tratta in modo scrupoloso, in particolare dal 1913 quando una circolare ministeriale regolò gli interrogatori alle prostitute straniere che esercitavano sul territorio nazionale. Le domande rivolte, oltre ad accertare le generalità della persona e le cause della loro professione, servivano ad accertare se queste donne erano state indirizzate o accompagnate da qualcuno e a verificare se fossero state vittime esse stesse della tratta o avessero conoscenza, anche indiretta, di persone che la praticavano. Le dichiarazioni erano accuratamente riportate in appositi "foglietti di indicazione", dai quali risultò che quasi tutte le ragazze interrogate erano giunte in Italia di loro iniziativa. Il lavoro degli agenti di polizia si estendeva anche alla sorveglianza speciale di porti, agenzie di collocamento o compagnie artistiche, ma non erano escluse altre forme di iniziative con le quali era facile attirare ragazze in cerca di lavoro. Le operazioni erano svolte anche in collaborazione con le autorità degli altri stati per meglio rintracciare i trafficanti. Dalle considerazioni fin qui svolte, si desume che la tratta delle bianche era oggetto di un controllo sociale alquanto capillare; la campagna per la sconfitta del fenomeno era largamente diffusa tra gli abolizionisti, i quali seppero condurla in modo conforme ai tempi, conquistando larghi consensi nell'opinione pubblica. Tuttavia, da quanto emerge dall'attività della polizia e dai rapporti ufficiali, la questione non assumeva i toni della tragedia. Abolizionisti e femministe si battevano alacremente per un problema che, agli atti, risultava meno esteso di quanto reclamizzato dalla stampa e dai vari convegni, tornando utile anche ai regolamentazionisti: l'attenzione rivolta in modo enfatico alla campagna contro la tratta delle bianche distoglieva dalle critiche rivolte alle case di tolleranza. Un ulteriore aspetto della lotta alla tratta che incontrava il favore dei regolamentazionisti lo si individua nel modo repressivo in cui veniva condotta: le istituzioni volte al recupero delle giovani prostitute, soprattutto d'ispirazione cattolica, di cui si è parlato, avevano l'ulteriore fine di mantenere sotto controllo la sessualità delle ragazze, in particolare delle più umili; il disciplinamento di queste ragazze rientrava pienamente nel progetto teorico di controllo delle classi pericolose che lo Stato perseguiva attraverso il potere della polizia. In questo modo, il sistema regolamentato poteva trarre dalla campagna contro la tratta delle bianche, un ulteriore contributo per la sua opera di governo delle prostitute.

Posizioni femministe nei riguardi della sessualità. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le posizioni prese dal femminismo nei confronti della sessualità in genere possono variare anche di molto, a seconda dei singoli gruppi e persone interessate. Molte femministe, in particolare quelle inglobate nel femminismo radicale, sono molto critiche nei riguardi di ciò che vedono come un'oggettivazione e uno sfruttamento sessuale (una vera e propria schiavitù sessuale) nei mezzi di comunicazione di massa e all'interno della società. Le femministe radicali si oppongono spesso all'industria del sesso, tra cui si annovera anche l'opposizione alla prostituzione e alla pornografia. Altre femministe si definiscono invece come esponenti di un vero e proprio femminismo sessuale positivo (o "femministe positive nei confronti del sesso") e ritengono che un'ampia varietà di espressioni della sessualità femminile possa anche rappresentare un potere nelle mani delle donne quando esse sono liberamente scelte. Alcune femministe sostengono poi gli sforzi per riformare l'industria del sesso e farla così diventare meno intrisa di sessismo, come ad esempio il movimento della pornografia femminista.

Guerre sessuali femministe.

Controversie femministe sul sesso. Le battaglie sessuali femministe (e il suo sottoinsieme costituito dalla battaglie sessuali lesbiche), o più semplicemente le "guerre sessuali" o "guerre pornografiche"), furono degli accesi dibattiti tra femministe verificatisi alla fine degli anni settanta e all'inizio degli anni ottanta. Le due opinioni in contrapposizione erano caratterizzate da gruppi antiporno e da altri prosesso con disaccordi riguardanti la sessualità, la storia della rappresentazione erotica, la pornografia, il sadomasochismo, il ruolo delle donne transessuali (MtF) all'interno del femminismo lesbico e altre questioni sessuali. Il dibattito finì col corrodere dall'interno il movimento, trovatosi coinvolto nel confronto tra femministe antipornografiche e altre femministe autodefinitesi "sessopositive", con il risultato che il femminismo si è trovato profondamente diviso a riguardo. Tali "guerre sessuali femministe" sono a volta considerate parte della divisione che ha portato alla fine all'era della seconda ondata femminista e all'inizio della terza ondata femminista. Uno degli scontri più significativi avvenuti tra femministe anti-pornografia e femministe sessopositive si è verificato alla "Barnard Conference on Sexuality" del 1982. Le femministe anti-pornografia sono state escluse dalla commissione di pianificazione degli eventi, hanno quindi organizzato delle manifestazioni al di fuori della conferenza per dimostrare tutto il loro disprezzo. Andrea Dworkin è stata una femminista che ha fortemente attaccato la pornografia e l'industria del sesso.

Critica femminista dello sfruttamento sessuale e dell'industria del sesso. Molte femministe denunciano le industrie del sesso come esempi di sfruttamento delle donne da parte di uomini affetti da misoginia. Tra le più importanti femministe del gruppo antisesso si possono includere Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon; la coppia chiedeva che le leggi civili limitassero la pornografia. Entrame hanno visto il dominio sessuale maschile come la radice di tutta l'oppressione femminile e, giungendo così a condannare la pornografia, la prostituzione ed altre manifestazioni di potere sessuale maschile. Il movimento antipornografico ottenne ampio spazio e guadagnò terreno con la creazione di "Women Against Violence in Pornography and Media" (WAVPM, Donne contro la violenza nella pornografia e nei media). Durante il periodo più acceso delle "guerre sessuali" riuscì ad organizzare marce contro i creatori e i distributori principali di pornografia a San Francisco, portando un gran numero di donne nel novero di coloro che si opponevano alla pornografia. Sforzi ed organizzazioni similari (come "Women Against Pornography" e "Feminists Fighting Pornography") si verificarono anche negli Stati della costa orientale degli Stati Uniti d'America. Susie Bright è un'esponente del femminismo sessuale positivo.

Femminismo sessuale positivo. La risposta da parte delle femministe pro-sesso è stata quella che ha promosso il sesso come una via di piacere sessuale per le donne. Gayle Rubin e Patrick Califia si sono dimostrati assai influenti in questa parte del movimento. Altre femministe che si identificano come sessopositive includono Ellen Willis, Kathy Acker, Susie Bright, Carol Queen, Annie Sprinkle, Avedon Carol, Tristan Taormino, Rachel Kramer Bussel, Nina Hartley e Betty Dodson.

Femminismo e pornografia. Le opinioni femministe nei riguardi della pornografia variano dalla condanna senza mezzi termini della pornografia come forma di violenza contro le donne, all'abbraccio di alcune forme di pornografia in quanto possibile mezzo di espressione femminista. Il dibattito femminista su questo tema riflette maggiori preoccupazioni riguardanti le opinioni femministe sulla sessualità ed è strettamente correlato ai dibattiti femministi sulla prostituzione, il BDSM e altre questioni inerenti. La pornografia è stata una delle questioni più divisive del femminismo, in particolare tra le femministe dei paesi anglofoni. Robin Morgan è un'esponente del femminismo anti-pornografico.

Femminismo antipornografico. Gli oppositori radicali femministi della pornografia, come le succitate Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, Robin Morgan, Diana Russell, Alice Schwarzer, Gail Dines e Robert Jensen, sostengono che la pornografia sia dannosa per le donne e costituisce una forte causalità o facilitazione della violenza contro le donne. Le femministe antipornografiche, in particolare MacKinnon, sostengono che la produzione di pornografia comporta la coercizione fisica, psicologica e/o economica delle donne che la eseguono e si modellano in essa. Ciò viene considerato veritiero anche quando le donne vengono presentate in una maniera attiva. È stato anche sostenuto che gran parte di ciò che viene mostrato nella pornografia è abusivo per sua stessa natura. Dines afferma che la pornografia, esemplificata dalla Gonzo (pornografia), sta diventando sempre più violenta e che le donne che vi si esibiscono vengono brutalizzate nel processo stesso della sua produzione. Le femministe contrarie alla pornografia sostengono inoltre che la pornografia contribuisce in gran parte al sessismo, in quanto nelle rappresentazioni pornografiche le attrici sono ridotte a semplici "recipienti" (oggetti) per l'uso sessuale e l'abuso da parte degli uomini. Esse sostengono che la narrazione si forma solitamente intorno al piacere degli uomini come unico obiettivo dell'attività sessuale e che le donne vengono nella maggior parte dei casi mostrate in un ruolo subordinato. Alcuni avversari della pornografia credono che i film del cinema pornografico tendono a dimostrare che le donne sono estremamente passive o che gli atti che vengono eseguiti sulle donne sono in genere abusivi e finalizzati esclusivamente al piacere dei loro partner sessuali. L'eiaculazione Facial e la violenza insita nel sesso anale sono sempre più popolari tra gli uomini, seguendo in tal modo le tendenze del mercato pornografico[14]. MacKinnon e Dworkin definiscono la pornografia come "la subordinazione grafica sessuale esplicita delle donne attraverso immagini o parole".

Femministe contro la censura e pro-pornografia. Da questa prospettiva la pornografia è considerata come un mezzo per l'espressione sessuale femminile. Le femministe sessopositive vedono molte idee radicaliste femministe sulla sessualità, incluse le opinioni sulla pornografia, come opprimenti e del tutto simili a quelle delle religioni e delle ideologie intrise di patriarcato (antropologia) e sostengono che il discorso femminista contro la pornografia ignora e banalizza il ruolo sessuale delle donne. Ellen Willis (che ha coniato il termine "femminismo prosesso") afferma: "Come abbiamo visto, l'affermazione che "la pornografia è violenza contro le donne" era il codice per l'idea neo-vittoriana che gli uomini vogliono il sesso e le donne lo sopportano". Le femministe sessopositive hanno una grande varietà di opinioni verso la pornografia esistente. Molte di esse intravedono nella pornografia il sovvertimento di molte idee tradizionali sulle donne che si "devono opporre per forza di cose al sesso", come le idee che vogliono le donne non amare il sesso in generale, che preferiscono godere della sessualità esclusivamente entro un contesto relazionale o che, infine, le donne godono solo in Vanilla (BDSM). Esse sostengono inoltre che la pornografia mostra talvolta donne in ruoli sessualmente dominanti e le presenta con una maggiore varietà di posizioni sessuali che non sono tipici dell'intrattenimento e della moda tradizionali. Molte femministe, a prescindere dal loro punto di vista sulla pornografia, si oppongono principalmente alla censura. Anche per molte delle femministe che vedono la pornografia come un'istituzione sessista, notano però anche la censura (incluso l'approccio alla legge civile di MacKinnon) come un male. Nella sua dichiarazione d'intenti "Feminists for Free Expression" sostiene fermamente che la censura non ha mai ridotto la violenza, ma che altresì è stata storicamente usata per silenziare le donne e soffocare gli sforzi volti al cambiamento sociale. Esse poi indicano la letteratura sulla contraccezione di Margaret Sanger, i giochi e le esibizioni femminili di Holly Hughes, l'organizzazione "Our Bodies, Ourselves" (Nostri corpi, nostra vita) e Il pozzo della solitudine come esempi di discorso sessuale femminista che sono stati tra gli obiettivi della censura. Sostengono anche che il tentativo di risolvere i problemi sociali attraverso la censura "deviano l'attenzione dalla cause sostanziali dei mali sociali per offrire una rapida soluzione", pericolosa e "soluzione tampone". Esse sostengono invece che un libero e vigoroso mercato delle idee sia la migliore garanzia per raggiungere obiettivi femministi all'interno di una società democratica. Inoltre alcune femministe come Wendy Kaminer, mentre si oppongono alla pornografia, si oppongono anche agli sforzi legali volti a censurarla o vietarla. Alla fine degli anni settanta Kaminer ha lavorato con "Women Against Pornography", dove si è dichiarata a favore degli sforzi di sensibilizzazione privata e contro gli sforzi legali imbastiti per censurare la pornografia. Ella ha anche contribuito ad un capitolo dell'antologia antipornografica "Take Back the Night" in cui ha difeso la libertà del I emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'America ed ha spiegato i pericoli nel ricercare soluzioni legali al problema (percepito come tale) della pornografia. Si è anche opposta agli sforzi di MacKinnon e Dworkin per definire la pornografia come una violazione dei diritti civili ed ha criticato aspramente il movimento procensura in un articolo del 1992 fatto pubblicare in The Atlantic dal titolo "Femministe contro il primo emendamento". La pornostar Sasha Grey si considera una femminista sessopositiva.

Pornografia femminista. La pornografia femminista è quel tipo di pornografia prodotta da e con le donne femministe; rappresenta un piccolo ma crescente segmento dell'industria pornografica. Secondo Taormino "il porno femminista risponde alle immagini predominanti con alternative e crea una propria iconografia". Alcune attrici pornografiche come la succitata Hartley, Ovidie, Madison Young e Sasha Grey sono anche femministe sessopositive e dichiarano apertamente che non si vedono affatto come vittime del sessismo. Esse difendono la loro decisione di esibirsi nel campo pornografico come una libera scelta e sostengono che gran parte di quello che fanno dentro la telecamera è un'espressione della loro sessualità. È stato anche sottolineato che nella pornografia le donne guadagnano generalmente più dei loro omologhi maschi. Attrici pornografiche come Hartley sono attive anche nel movimento per i diritti dei lavoratori del sesso. La regista svedese nonché femminista Suzanne Osten ha espresso il suo scetticismo sul fatto che esista davvero un tipo di pornografia che possa essere considerata femminista, riferendosi alla sua convinzione che la pornografia è intrinsecamente oggettiva e che la pornografia femminista costituirebbe pertanto un ossimoro. Il periodico radicalfemminista "off our backs" ha denunciato la cosiddetta pornografia femminista come pseudopornografia.

Femminismo e prostituzione. Come per molte questioni sorte all'interno del movimento femminista, esiste una diversità di opinioni anche al riguardo della prostituzione. Molte di queste posizioni possono essere riassunte in un punto di vista generale che è generalmente critico oppure di sostegno alla prostituzione e al lavoro sessuale. Le femministe contrarie alla prostituzione sostengono che la prostituzione è una forma di sfruttamento femminile e di dominio maschile sulle donne, oltre ad essere una pratica che è il risultato dell'ordine sociale patriarcale esistente. Queste femministe sostengono che la prostituzione ha un effetto molto negativo, sia sulle prostitute sia nella società nel suo complesso, in quanto rafforza le opinioni stereotipate sulle donne, considerate come meri oggetti sessuali che possono essere usati e abusati a piacere dagli uomini. Altre femministe sostengono invece che la prostituzione e le altre forme di lavoro sessuale possono costituire delle scelte valide per le donne e gli uomini che scelgono di impegnarsi in essi. In questa prospettiva la prostituzione dev'essere differenziata dalla prostituzione forzata e le femministe dovrebbero sostenere l'attivismo del lavoratore sessuale contro gli abusi sia da parte dell'industria del sesso sia da parte del sistema giuridico. Il disaccordo tra queste due posizioni si è dimostrato particolarmente controverso e può essere paragonabile alle guerre sessuali femministe del XX secolo. Julie Bindel è una femminista anti-prostituzione; inoltre considera la bisessualità cone "una tendenza alla moda" (vedi sotto, in "Femminismo e bisessualità"...

Femminismo anti-prostituzione. Una percentuale di femministe si oppone fermamente alla prostituzione, visto che la pratica è una forma di violenza contro le donne e che pertanto non deve essere tollerata dalla società. Le femministe che detengono tali opinioni includono Kathleen Barry, Melissa Farley, Julie Bindel, Sheila Jeffreys, la succitata MacKinnon e Laura Lederer. Queste femministe affermano che nella stragrande maggioranza dei casi la prostituzione non è una scelta cosciente e calcolata. Esse dicono che la maggior parte delle donne che si trasformano in prostitute lo fanno perché vi sono state costrette da un ruffiano/mezzano o attraverso il traffico di esseri umani o ancora, quando è una decisione indipendente, è generalmente il risultato di un'estrema povertà, di mancanza di opportunità o di gravi problemi di fondo quali possono essere la tossicodipendenza, i traumi non risolti (come l'abuso sessuale dei minori) e altre circostanze sfortunate. Queste femministe sottolineano che le donne delle classi socioeconomiche più basse, povere e con un basso livello di istruzione femminile, le donne delle minoranze razziali ed etniche più disagiate, sono sovrarappresentate all'interno della prostituzione nel mondo. "Se la prostituzione è una scelta libera, perché le donne con minori possibilità di scelta sono quelle che più spesso si trovano a farlo?" (MacKinnon, 1993). Una grande percentuale di prostitute, intervistate per uno studio su 475 persone impegnate nel lavoro sessuale, hanno riferito di essere in un periodo difficile della loro vita e che se avessero potuto avrebbero voluto lasciare l'occupazione. MacKinnon sostiene che "nella prostituzione le donne hanno rapporti sessuali con uomini che non avrebbero mai ottenuto il sesso con altre donne. Il denaro agisce quindi come forma di forzatura, non come misura di consenso, agisce come la forza fisica durante uno stupro". Alcuni studiosi contrari alla prostituzione sostengono che il vero ed autentico consenso non possa esistere all'interno del mondo della prostituzione. La politica canadese Barbara Sullivan afferma: «"Nella letteratura accademica sulla prostituzione esistono pochissimi autori che sostengono che è possibile un valido consenso nella prostituzione. Molti suggeriscono che il consenso entro quell'ambito è impossibile o almeno improbabile.(...) la maggior parte degli autori suggerisce che il consenso alla prostituzione è profondamente problematico, se non impossibile (...) la maggior parte degli autori hanno sostenuto che il consenso alla prostituzione è impossibile: per le femministe radicali questo è perché la prostituzione è sempre una pratica sessuale coercitiva. Semplicemente suggerire che la coercizione economica renda il consenso sessuale dei lavoratori del sesso è altamente problematico, se non impossibile...." » Infine, gli abolizionisti credono che a nessuno si possa dire che sia veramente consenziente davanti alla propria oppressione e nessuno dovrebbe avere il diritto di acconsentire all'oppressione degli altri. Nelle parole di Kathleen Barry, il consenso non è un "buon atto di divinizzazione dell'esistenza dell'oppressione e il consenso alla violazione è un fatto di oppressione. L'oppressione non può essere effettivamente misurata in base al grado di 'consenso', anche perché pure nella schiavitù vi era un certo consenso, se il consenso è definito come incapacità di vedere o sentire qualsiasi alternativa".

Il lavoro sessuale e le femministe tra i lavoratori del sesso. A differenza di quella femministe critiche della prostituzione le prospettive di lavoro pro-sessualità non riconoscono che gli atti sessuali della prostituzione abbiano un qualche elemento inerente alla coercizione, allo sfruttamento e al dominio. In quanto tali le femministe pro-sesso sostengono invece che il lavoro sessuale può essere un'esperienza positiva per quelle donne che hanno impiegato la propria autonomia per prendere una decisione consapevole d'impegnarsi nella prostituzione. Molte femministe, in particolar modo quelle legate al movimento dei diritti dei lavoratori del sesso o al femminismo sessuale positivo, sostengono che l'atto di vendita del sesso non dev'essere intrinsecamente sfruttabile; ma che altresì chi tenta di abolire la prostituzione e gli atteggiamenti che conducono a tali tentativi, portano invero ad un clima abusivo per i lavoratori del sesso che debbono essere cambiati. All'interno di questa prospettiva la prostituzione, insieme ad altre forme di lavoro sessuale, possono essere una valida scelta per le donne e gli uomini che se ne occupano. Questa visione ha condotto all'incremento a partire dagli anni settanta di un movimento internazionale per i diritti dei lavoratori del sesso comprendente organizzazioni come "COYOTE", l'"English Collective of Prostitutes", il "Sex Workers Outreach Project USA" ed altri gruppi per i diritti dei lavoratori del sesso. Un argomento importante avanzato da donne femministe del lavoro pro-sesso Carol Queen sottolinea che troppo spesso le femministe che si ritrovano a criticare la prostituzione non sono riuscite a considerare adeguatamente i punti di vista delle donne stesse che fanno parte del "lavoro sessuale", scegliendo invece di basare i propri argomenti solo sulla teoria e le esperienze obsolete. Le femministe che non sostengono la visione radicale dell'anti-prostituzione sostengono che vi sono gravi problemi con la posizione dell'anti-prostituzione, uno dei quali è che - secondo Sarah Bromberg - "si evolve da una teoria politica che è over-verbalizzata, del tutto generalizzata e troppo spesso utilizza le nozioni stereotipate di ciò che una prostituta è. Le femministe radicali anti-prostituzione... non sono sempre delineate sufficientemente per sostenere una teoria credibile la quale vorrebbe la prostituzione degradare tutte le donne". Le femministe del lavoro pro-sesso dicono che l'industria del sesso non è un monolito, che è grande e varia, che le persone possono diventare lavoratori del sesso per molti motivi diversi e che è del tutto improduttivo orientare la prostituzione come istituzione. Credono invece che le cose dovrebbero essere fatte per migliorare la vita delle persone all'interno dell'industria stessa.

Femminismo e spogliarellismo. Molte femministe considerano gli strip club come offensivi dei diritti umani e della dignità delle donne. Le femministe e gli attivisti per i diritti delle donne in Islanda sono riusciti a far bandire gli strip club nel marzo del 2010; la legge è entrata ufficialmente in vigore il 31 luglio. La femminista islandese Siv Friðleifsdóttir è stata la promotrice della proposta di legge per far chiudere gli strip club nell'isola. La femminista islandese Siv Friðleifsdóttir è stata la prima presentatrice del disegno di legge. Jóhanna Sigurðardóttir, primo ministro islandese, ha dichiarato: "i paesi nordici stanno portando avanti la questione dell'uguaglianza femminile, riconoscendo le donne come cittadini uguali, piuttosto che come merci in vendita". L'esponente politico che sta dietro a questa legge, Kolbrún Halldórsdóttir, ha dichiarato che: "non è accettabile che le donne o le persone in generale siano un prodotto da vendere". Il voto dell'Althing (il parlamento nazionale) è stato lodato dalla femminista radicale britannica Julie Bindel, che ha dichiarato l'Islanda come essere "il paese più femminista del mondo". Altre femministe ritengono che lo strip tease può essere sessualmente potente (vedi empowerment) e femminista. Il "Lusty Lady" è uno spettacolo di North Beach (San Francisco), che è stato istituito da un gruppo di spogliarelliste che hanno voluto creare un club femminista di proprietà (cooperativa di lavoro associato) dei lavoratori di strip club. Inoltre alcune femministe ritengono che la pole dance può anche essere un atto femminista. Nel 2009 una ballerina pornostar femminista autoidentificatasi come Zahra Stardust è stata candidata con l'"Australian Sex Party" per le elezioni nella divisione di Bradfield. Il concetto di pole dancing femminista è stato ridicolizzato e denunciato sia dalle femministe sia da alcune non-femministe come "semplicemente folle" e sintomatico della "fine del femminismo".

Femminismo e BDSM. Le visioni femministe sul BDSM variano ampiamente, passando dal rifiuto più totale all'accettazione, con tutte le posizioni e i punti di vista inframmezzati. Ad esempio vengono qui confrontati i due quadri polarizzanti (lo/a Slave (BDSM) e il Master (BDSM) o "Dom"). La vicenda intercorsa tra le femministe e gli operatori del BDSM è stata controversa. Le due posizioni più estreme sono quelle che credono che il femminismo e il BDSM siano convinzioni reciprocamente esclusive e coloro che invece credono che le pratiche BDSM siano un'espressione della libertà sessuale.

L'opposizione femminista al BDSM e al sadomasochismo. Un certo numero di esponenti del femminismo radicale, come Andrea Dworkin e Susan Griffin, considerano il BDSM come una forma di violenza e di odio nei confronti della donna. La femminista Cerridwen Fallingstar critica il sadomasochismo e il BDSM. Il testo antologico Against Sadomasochism: A Radical Feminist Analysis (Contro il Sadomasochismo: un'analisi femminista radicale) comprende saggi e interviste di numerose femministe che criticano il sadomasochismo, tra cui Alice Walker, Robin Morgan, Kathleen Barry, Diana Russell, Susan Leigh Star, Ti-Grace Atkinson, John Stoltenberg, Sarah Hoagland, Susan Griffin, Cerridwen Fallingstar, Audre Lorde e Judith Butler. Le organizzazioni femministe che si oppongono pubblicamente all'S/M comprendono "Minaccia viola", "New York Radical Feminists" (NYRF) e "Women Against Violence in Pornography and Media" (Donne contro la violenza nella pornografia e nei media). Nel 1982 è stato prodotto un opuscolo dalla "Coalition for a Feminist Sexuality and Against Sadomasochism" (Coalizione per una sessualità femminista e contro il Sadomasochismo), un gruppo ad hoc creato da "Women Against Pornography" per protestare contro la Conferenza Barnard. Il NYRF è stato elencato tra i firmatari del foglio illustrativo.

Pro-BDSM e femministe praticanti BDSM. Mentre molte femministe radicali si oppongono al BDSM, altre femministe considerano l'S/M come un'espressione femminista ideale della libertà sessuale mentre altre ancora affermano che il BDSM, e più particolarmente l'SM, rafforza il patriarcato (antropologia) e che queste pratiche sono contraddittorie nel femminismo. Inoltre, alcune femministe sono aperte sulla pratica del BDSM. Molte "femministe sessuali positive" vedono il BDSM come una valida forma di espressione della sessualità umana femminile. Alcune femministe lesbiche praticano il BDSM e lo considerano come parte della propria identità sessuale. Jessica Wakeman ha scritto della propria esperienza con le attività di SM in un'intervista di dopo il suo articolo intitolato First Time For Everything: Getting Spanked e pubblicato nel 2009. Al momento dell'intervista nell'ottobre 2010, Wakeman ha scritto molto su temi femministi, tra cui su femminismo e critica dei media, femminismo e politica, femminismo e sesso e si è considerata una femminista piuttosto attiva politicamente. La femminista Gayle Rubin ha fondato un'organizzazione BDSM che si rivolge a donne lesbiche e femministe. Wakeman ha discusso come lei è in grado di godere nel gioco dello spanking e nell'essere dominata, ma nonostante tutto questo continua ancora a considerarsi una femminista. Come altri praticanti femministi di BDSM, Wakeman rifiuta l'argomento secondo cui alle donne viene insegnato ciò verso cui devono provare piacere e vengono portate ad essere sottomesse da una struttura dominante di potere eminentemente sessista. La femminista Roxanne Dunbar-Ortiz è una sostenitrice del celibato e del separatismo femminista. Ci sono diverse organizzazioni BDSM che si rivolgono a donne lesbiche e a femministe, tra cui la "Lesbian Sex Mafia" e il gruppo "Samois", fondate da Patrick Califia e Gayle Rubin.

Femminismo e celibato. Il gruppo femminista statunitense "Cell 16", fondato nel 1968 dalla storica Roxanne Dunbar-Ortiz, era noto per il suo programma di celibato e separazione dagli uomini; tra l'altro, considerato come troppo estremo da molte femministe mainstream, l'organizzazione ha agito come una sorta di avanguardia delle sinistra politica. È stata citata come la prima organizzazione ad aver promosso il concetto di separatismo femminista. In "No More Fun and Games", il periodico femminista dell'organizzazione, i membri Dunbar e Lisa Leghorn hanno consigliato alle donne di "separarsi da uomini che non stanno lavorando consapevolmente per la liberazione femminile", consigliando altresì periodi di celibato piuttosto che rapporti di sessualità lesbica con la considerazione che "non è nient'altro che una soluzione personale". Il periodico ha pubblicato anche nell'ottobre del 1968 l'articolo di Dana Densmore intitolato "On Celibacy", che ha dichiarato in parte: «"un appendice alla liberazione è un presunto 'bisogno' per il sesso. È qualcosa che deve essere confutato, affrontato, demistificato o la causa della liberazione femminile è condannata. Già vediamo le ragazze, completamente liberate nelle loro teste, capire la loro oppressione con terribile chiarezza cercando, intenzionalmente e con una certa traccia isterica, impegnarsi per fare se stesse il più attraenti possibile per gli uomini, gli uomini per i quali non hanno rispetto, gli uomini che possono persino odiare, a causa di 'una necessità sessuale-emotiva fondamentale'. Il sesso non è essenziale per la vita, come lo è invece il cibo. Alcune persone passano tutta la loro vita senza impegnarsi in esso, comprese gente bella, sensibile e felice. È un mito che questo fatto renda amaro un aspetto della vita, schiacciato, contorto. La stigmatizzazione (scienze sociali) della verginità permanente è comunque appartenente alle donne, creato dagli uomini perché lo scopo della donna nella vita è biologico e se non lo soddisfa è deformata e innaturale e 'deve essere tutta piena di ragnatele all'interno'".» Il gruppo del femminismo radicale "Feminists—A Political Organization to Annihilate Sex Roles", un'organizzazione politica creata per annientare i ruoli sessuali, è stato un gruppo attivo a New York dal 1968 al 1973; in un primo momento sostenne le donne che praticavano il celibato, successivamente sono passate a sostenere il movimento lesbico. Il lesbismo politico abbraccia la teoria che vuole l'orientamento sessuale essere una scelta, promuovendo il lesbismo come alternativa positiva all'eterosessualità delle donne. Sheila Jeffreys ha contribuito a sviluppare il concetto scrivendo con altri membri del "Leeds Revolutionary Feminist Group" un opuscolo intitolato Love Your Enemy?: The Debate Between Heterosexual Feminism and Political Lesbianism (Love Your Enemy ?: Il dibattito tra femminismo eterosessuale e lesbismo politico) il quale ha dichiarato: "noi pensiamo ... che tutte le femministe possono e debbano anche essere lesbiche, la nostra definizione di una lesbica politica è quella di una donna che si auto-identifichi nel fatto di non essere fottuta dagli uomini, ma ciò non significa un'attività sessuale obbligatoria con le donne"[66]. Alcune lesbiche politiche infine hanno scelto di essere celibi o si identificano come asessuali. Nell'aprile del 1987 a New York durante una manifestazione del "Southern Women's Writing Collective" è stata compilato un documento intitolato Sex resistance in heterosexual arrangements: Manifesto of the Southern Women's Writing Collective, e organizzata una conferenza intitolata "The Sexual Liberals and the Attack on Feminism". Questo manifesto (programma) ha dichiarato in parte che: « "contrariamente al movimento pro-sesso, noi ci chiamiamo le donne contro il sesso (WAS) ... la resistenza al sesso comprende anche il suo comportamento politico: il suo obiettivo non è solo l'integrità personale per se stessa ma la libertà politica per tutte le donne, ed esso resiste a tre fronti: resiste a tutte le necessità sessuali costruite dai maschi, resiste a ciò che viene chiamato impropriamente un 'atto nella prudenza' e si oppone in modo particolare al tentativo del patriarcato (antropologia)di rendere più facile il suo lavoro di subordinare le donne consensualmente costruendo il suo desiderio nella propria immagine oppressiva".» Nel 1991 l'attivista femminista Sonia Johnson ha scritto nel suo libro The Ship That Sailed into the Living Room: Sex and Intimacy Reconsidered: "quasi quattro anni dopo ho iniziato la mia ribellione contro la relazione/sesso/schiavitù, l'esperienza e la mia vecchia saggezza mi dicono che quel sesso come lo conosciamo è un costrutto patriarcale e non ha luogo legittimo e naturale nella nostra vita, nessuna funzione o modi autentici. Esso è soltanto un sinonimo di gerarchia/controllo, il sesso viene costruito come parte dell'assedio contro la nostra totalità e potenza".

Femminismo e orientamento sessuale. Gli approcci femministi alle questioni dell'orientamento sessuale variano notevolmente; le opinioni sull'argomento vengono spesso influenzate dalle esperienze personali delle femministe, come viene ben espresso nello slogan coniato da Carol Hanisch: "Il privato è politico". A causa di questo fatto molte femministe considerano l'orientamento sessuale come una questione politica e non solo una questione di scelta o di preferenza sessuale individuale.

Femminismo e asessualità. Un documento del 1977 intitolato Asexual and Autoerotic Women: Two Invisible Groups di Myra T. Johnson può essere considerato come la prima posizione pubblica femminista dedicata esplicitamente all'asessualità negli esseri umani; in esso Johnson ritrae le donne asessuali come invisibili, "oppresse da un consenso che è inesistente" e lasciate indietro dalla rivoluzione sessuale e dal movimento femminista. Un documento del 2010 scritto da Karli June Cerankowski e Megan Milks dal titolo New Orientations: Asexuality and Its Implications for Theory and Practice afferma che la società ha ritenuto "la sessualità femminile e quella LGBT come potenziata o repressa. Il movimento asessuale sfida questo presupposto sfidando in tal modo molti dei principi fondamentali del femminismo pro-sesso in cui è già definita come sessualità repressiva o anti-sesso". Alcune lesbiche politiche s'identificano come asessuali (vedi sopra).

Femminismo e bisessualità. La lezioni settimanali del collettivo "Common Lives/Lesbian Lives" (CL/LL) avevano una politica separatista che veniva periodicamente pubblicata anche su rivista; tutte le volontarie del progetto erano lesbiche autodichiarate. A causa di queste prese di posizione venne presentata una denuncia all'Università dell'Iowa per violazione della dichiarazione dei diritti umani da parte di una donna bisessuale a cui era stata categoricamente rifiutata la partecipazione. Un certo numero di donne che sono state coinvolte in un movimento di attivismo nel femminismo lesbico hanno poi fatto coming out come bisessuali dopo essersi rese conto che possedevano anche una percentuale di attrazione nei riguardi degli uomini. Un esempio di conflitto lesbo-bisex all'interno del femminismo è stato durante la marcia del Gay pride svoltasi a Northampton negli anni tra il 1989 e il 1993, dove molte femministe hanno partecipato ad una discussione se dovessero essere inclusi anche i bisessuali e se la bisessualità fosse compatibile con il femminismo. Le critiche più comuni da parte delle lesbiche femministe erano che la bisessualità fosse rappresentante dell'antifemminismo, che era inoltre una forma di falsa coscienza e che le donne bisessuali per continuavano ad avere rappori con gli uomini erano deluse e disperate. Tuttavia le tensioni tra le femministe bisessuali e le femministe lesbiche si sono poi allentate nel corso degli anni novanta, poiché le donne bisessuali hanno cominciato ad essere maggiormente accettate all'interno della comunità femminista. Tuttavia alcune femministe lesbiche come Julie Bindel mantengono ancora una posizione decisamente critica nei confronti della bisessualità. Bindel ha descritto la bisessualità femminile come "una tendenza alla moda" che promuoveva la causa dell'edonismo sessuale affrontando anche la questione più generale sul fatto se esista davvero o meno la bisessualità; ha fatto anche Tongue-in-cheek comparando la bisessualità all'amore per i gatti e al satanismo. Hanno dato ulteriori informazioni sul rapporto sul femminismo e la bisessualità i libri Closer to Home: Bisexuality & Feminism (1992), un'antologia curata dalla professoressa Elizabeth Reba Weise, ma anche Bisexuality: The Best Thing That Ever Happened to Lesbian Feminism? dell'attivista Beth Elliot, The Fine Art of Labeling: The Convergence of Anarchism, Feminism, and Bisexuality di Lucy Friedland e Liz Highleyman, Bisexual Feminist Man di Dave Matteson e Bi-Lovable Japanese Feminist di Kei Uwano inserito nell'antologia Bi Any Other Name: Bisexual People Speak Out (1991).

Femminismo e uomini gay. Nel suo libro del 2003 Unpacking Queer Politics: A Lesbian Feminist Perspective la femminista radicale lesbica australiana Sheila Jeffreys avanza la posizione che la cultura lesbica sia stata negativamente colpita per aver voluto emulare l'influenza sessista della subcultura maschile gay del binomio sessuale dominazione-sottomissione. Mentre non ha mancato di sottolineare che molti uomini gay membri del movimento LGBT hanno rifiutato il sadomasochismo, ella però scrive che la prospettiva maschile gay dominante ha promosso la sessualità sadomasochista a scapito delle lesbiche e delle donne femministe. Tuttavia alcuni uomini gay come il marito di Andrea Dworkin, John Stoltenberg, sono critici nei confronti del sadomasochismo e della pornografia e si trovano d'accordo con le critiche femministe radicali e lesbiche nei confronti di queste pratiche. Stoltenberg ha scritto che il sadomasochismo erotizza sia la violenza che l'impotenza. L'autore femminista gay Christopher N. Kendall nel suo saggio intitolato Gay Male Pornography: An Issue Of Sex Discrimination avanza l'idea che la pornografia gay si è trovata coinvolta nella discriminazione sessuale e che dovrebbe essere vietata in base alle leggi canadesi sull'uguaglianza di genere. Egli propone anche la teoria femminista radicale che la pornografia maschile gay non fa altro che rafforzare la misoginia e l'omofobia.

Femminismo e eterosessualità. Alcune femministe eterosessuali ritengono che siano state ingiustamente escluse dalle organizzazioni femministe lesbiche. A causa della politica di separatismo lesbico assunto da "Common Lives/Lesbian Lives" (CL/LL) un certo numero di donne eterosessuali hanno creduto di essere state discriminate dopo non essere state assunte come collaboratrici interne.

Femminismo e lesbismo. Le lesbiche sono state fin da subito attive nel movimento femminista americano. Le prime preoccupazioni delle lesbiche sono state introdotte e riassunte nella National Organization for Women (NOW) nel 1969, quando Ivy Bottini, una lesbica dichiarata, allora presidente della sezione newyorkese dell'Organizzazione, ha tenuto un forum pubblico intitolato "Is Lesbianism a Feminist Issue? (Il lesbismo femminista è un problema?). Tuttavia la presidente Betty Friedan si schierò contro la partecipazione lesbica al movimento. Nel 1969 si riferiva alla crescente visibilità lesbica come ad una "minaccia viola" e licenziò apertamente l'editor della newsletter - la scrittrice lesbica Rita Mae Brown - e nel 1970 condusse una campagna per l'espulsione delle lesbiche, tra cui Ivy Bottini, dalla sezione newyorkese di NOW's (vedi più avanti in "Bifobia e lesbofobia nel femminismo"). Cerimonia di nozze per le femministe lesbiche Del Martin e Phyllis Lyon in California. Del Martin è stata la prima lesbica dichiarata eletta a NOW, e Del Martin e Phyllis Lyon sono state la prima coppia di lesbiche ad aderirvi. Il femminismo lesbico è sia un movimento culturale sia una prospettiva politica, più influente negli anni settanta e nei primi anni ottanta (soprattutto nell'America del Nord e nell'Europa occidentale) che incoraggia le donne a dirigere le proprie energie verso altre donne piuttosto che verso gli uomini e spesso sostiene il lesbismo come un risultato logico del femminismo. Alcuni pensatori e attivisti chiave sono Charlotte Bunch, la già citata Rita Mae Brown, Adrienne Rich, Audre Lorde, Marilyn Frye, Mary Daly, la già citata Sheila Jeffreys e Monique Wittig (anche se quest'ultima è più comunemente associata all'emergere della teoria queer). Il femminismo lesbico si è riunito nei primi anni 1970 per insoddisfazione nei confronti della seconda ondata femminista e del movimento LGBT. Secondo la femminista lesbica radicale Sheila Jeffreys "il femminismo lesbico è emerso come risultato di due sviluppi: le lesbiche all'interno del "Movimento di Liberazione femminile" (WLM) hanno cominciato a creare una nuova politica femminista lesbica e le lesbiche nella GLF ("Gay Liberation Front") sono state invitate ad aderirvi assieme con le loro sorelle". Secondo Judy Rebick, un importante giornalista canadese e attivista politica per il femminismo, le lesbiche erano e sono sempre state al centro del movimento femminile, mentre le loro questioni erano ancora invisibili nello stesso movimento.

Separatismo lesbico. Il separatismo lesbico è una forma di femminismo separatista specifico per le lesbiche. Il separatismo è stato considerato dalle lesbiche sia come una strategia temporanea sia come una pratica permanente, ma soprattutto in questa seconda forma. Il separatismo lesbico è diventato popolare nel corso degli anni settanta, poiché alcune lesbiche hanno dubitato che la società tradizionale o anche lo stesso movimento LGBT avessero qualcosa da offrire loro.

Lesbismo politico. Il lesbismo politico è un fenomeno nato all'interno del femminismo lesbico e del femminismo radicale, principalmente nel femminismo della seconda ondata. Il lesbismo politico abbraccia la teoria che l'orientamento sessuale è una scelta e promuove il lesbismo come alternativa positiva all'eterosessualità delle donne. La femminista Yvonne Rainer è un'esponente del lesbismo politico. Le donne lesbiche che si sono identificate come "lesbiche politiche" includono Ti-Grace Atkinson, Julie Bindel, Charlotte Bunch, Yvonne Rainer e Sheila Jeffreys.

Bifobia e lesbofobia nel femminismo. Le più comuni critiche lesbiche femministe nei confronti dei bisessuali consistevano nell'asserire che la bisessualità era intrinsecamente antifemminista nonché una forma di falsa coscienza e che la maggior parte delle donne bisessuali che mantengono rapporti con l'altro sesso risultano essere deluse e disperate. Tuttavia le tensioni tra le femministe bisessuali e le femministe lesbiche si sono poi stemperate nel corso degli anni novanta, quando le donne bisessuali hanno cominciato ad essere maggiormente accettate all'interno della comunità femminista. La femminista Betty Friedan considerò le questioni lesbiche come non essere centrali per l'attivismo femminista, confessando infine che "l'intera idea dell'omosessualità mi ha messa profondamente a disagio". Tuttavia alcune femministe lesbiche come Julie Bindel mantengono ancora una posizione decisamente critica nei confronti della bisessualità. Bindel ha descritto la bisessualità femminile come "una tendenza alla moda" che promuoveva la causa dell'edonismo sessuale affrontando anche la questione più generale sul fatto se esista davvero o meno la bisessualità; ha fatto anche Tongue-in-cheek comparando la bisessualità all'amore per i gatti e al satanismo. Le femministe lesbiche hanno inizialmente affrontato la questione della discriminazione all'interno della National Organization of Women. Alcune femministe eterosessuali come Betty Friedan hanno considerato le questioni lesbiche come non essere centrali per l'attivismo femminista. Nel 1969 Friedan si riferì alla crescente visibilità lesbica come ad una "minaccia viola" (dal nome dell'omonimo gruppo statunitense lesbico Minaccia viola) e licenziò apertamente l'editor della newsletter lesbica, la scrittrice Rita Mae Brown, mentre nel 1970 auspicò l'espulsione delle lesbiche, tra cui Ivy Bottini, dalla sezione del NOW's New York. Come reazione al congresso del 1970 di "Unite Women", durante la prima serata di riunione, quando più di quattrocento femministe erano oramai nell'auditorium, venti donne che indossavano magliette con la scritta "Minaccia Viola" si sono presentate di fronte alla sala affrontando il pubblico. Una delle donne del gruppo ha poi letto il loro manifesto (programma)The Woman-Identified Woman, che è stata la prima grande dichiarazione femminista lesbica. Il gruppo, che più tardi si è definito come "radicale", è stato tra i primi a sfidare l'eterosessismo delle femministe eterosessuali e a descrivere in termini positivi l'esperienza lesbica. Nel 1971 lo stesso gruppo approvava una risoluzione che dichiarava che "il diritto di una donna alla propria personalità include anche il diritto di definire e di esprimere la propria sessualità, oltre che di scegliere il proprio stile di vita", inoltre attraverso una risoluzione della conferenza che affermava che costringere le madri lesbiche a rimanere all'interno di matrimoni o di vivere un'esistenza segreta nel tentativo di mantenere i propri figli è un fatto profondamente ingiusto. Quello stesso anno NOW si è anche impegnato ad offrire un sostegno giuridico e morale in un caso che coinvolgeva i diritti di custodia di minori da parte delle loro madri lesbiche. Nel 1973 è stata fondata la "NOW Task Force on Sexuality and Lesbianism", mentre nel novembre del 1977 la "National Women's Conference" ha emesso il "Piano Nazionale d'Azione" il quale in parte dichiarava: « "Il lavoro politico del Congresso degli Stati Uniti d'America, dello Stato a livello federale e finanche quello a livello locale dovrebbero adottare una legislazione per eliminare la discriminazione sulla base della preferenza sessuale e affettuale in settori che includano, ma non siano solo limitati a questi, l' occupazione, gli alloggi pubblici e privati, il credito, le strutture pubbliche, i finanziamenti governativi e militari I legislatori statali dovrebbero riformare i loro codici di diritto penale o abrogare leggi statali che limitano il comportamento sessuale privato tra gli adulti consenzienti. La legislatura statale dovrebbe adottare una legislazione che vietasse la considerazione del rapporto sessuale o dell'orientamento affettivo come fattore determinante in ogni sentenza giudiziaria sui diritti di custodia dei figli o dei diritti di visita, piuttosto i casi di custodia dei figli dovrebbero essere valutati esclusivamente sul merito di quale parte sia effettivamente il genitore migliore, senza riguardo all'orientamento sessuale e affettivo di questa persona; i casi di custodia dei figli dovrebbero essere valutati esclusivamente sul merito di quale parte rappresenti il genitore migliore, senza riguardo all'orientamento sessuale e affettivo di questa persona".» Friedan ha infine ammesso che "l'intera idea dell'omosessualità mi ha messa profondamente a disagio", riconoscendo che a suo tempo era stata troppo impulsiva nei confronti della scomoda questione del lesbismo: "Il movimento femminista non riguarda il sesso, ma la parità di opportunità nei posti di lavoro e tutto il resto. Sì, suppongo che dovrei dire che la libertà di scelta sessuale sia anche parte di questo, ma non dovrebbe essere comunque la questione principale..." Lei aveva anche inizialmente ignorato le lesbiche della "National Organization for Women" opponendosi a ciò che intendeva come richieste di "equal-time"; "l'omosessualità... non è, a mio avviso, una cosa riguardante il movimento femminista"[96]. Mentre scrisse di opporsi alla repressione a cui andavano incontro le persone LGBT, rifiutò nel contempo di indossare una sciarpa color porpora o di identificarsi come lesbica (anche se eterosessuale) in quanto atto di solidarietà politica, considerando che ciò non fa parte delle questioni principali del movimento quale l'aborto libero e l'istituzione di asili nido per i bambini. Ancora nel 1977 alla "National Women's Conference" si è affiancata velocemente alla risoluzione sui diritti delle lesbiche "a cui tutti pensavano si opponesse" per "impedire un qualsiasi dibattito" e passare ad altre questioni che riteneva più importanti e meno divisive nello sforzo di aggiungere l'Equal Rights Amendment (ERA) alla Costituzione degli Stati Uniti d'America. Il gruppo femminista radicale americano Redstockings si oppose fortemente al separatismo lesbico, vedendo i rapporti interpersonali con gli uomini come un'importante arena di lotta femminista e quindi vedendo invece il separatismo come "sfuggente". Come molte femministe radicali del tempo, anche "Redstockings" ha visto il lesbismo in primo luogo come un'identità politica piuttosto che una parte fondamentale dell'identità personale e pertanto l'ha analizzato soprattutto in termini politici. I membri di "Redstockings" sono stati anche contrari all'omosessualità maschile, che hanno interpretato come un rifiuto profondamente misogino delle donne. La linea assunta da "Redstockings" nei confronti di uomini gay e lesbiche è stata spesso criticata per essere intrisa di omofobia. La femminista Gloria Anzaldúa ha influenzato profondamente la teoria queer.

Femminismo teoria Queer. La Teoria queer "è un campo della teoria critica inerente al post-strutturalismo che è emersa nei primi anni '90 dai campi di studi queer e di studi delle donne. La teoria Queer è stata fortemente influenzata dall'opera di femministe come Gloria Anzaldúa, Eve Kosofsky Sedgwick e Judith Butler. La teoria si basa sia sulle sfide femministe che sull'idea che il genere (scienze sociali) fa parte del sé essenziale (vedi essenzialismo) e degli studi gay/lesbici che esamina la natura socialmente costruita (costruttivismo (filosofia)) degli atti facenti perte dell'attività sessuale umana e dell'identità sessuale.

Applicazione femminista della teoria queer. La teoria Queer è stata fortemente influenzata dalla teoria femminista e dagli studi femminili. Molte opere sono state scritte sull'intersezione tra il femminismo e la teoria queer e come entrambi perseguono prospettive femministe, potendo inoltre arricchire la teoria e gli studi LGBTQ e come le prospettive Queer possano arricchire il femminismo. Libri come Feminism is Queer: The Intimate Connection Between Queer and Feminist Theory (Il femminismo è Queer: la connessione intima tra queer e teoria femminista) di Mimi Marinucci indaga dettagliatamente le intersezioni tra la teoria queer e quella femminista e sostengono che il femminismo stesso potrebbe essere interpretato come un movimento "queer".

Critica femminista della teoria queer. Molte femministe hanno criticato la teoria queer come un diversione dai problemi femministi o come un gioco contro il femminismo dominato dal maschio. Le femministe lesbiche e i femministi radicali sono stati i critici più importanti della teoria e della politica queer. Sheila Jeffreys in Queer Politics: A Lesbian Feminist Perspective (Politica Queer: Una prospettiva femminista lesbica) critica duramente la teoria queer come prodotto di una "cultura maschile gay" che "ha celebrato il privilegio maschile" e "ha sancito un culto della mascolinità". Ella ripudia la teoria queer come anti-lesbica, anti-femminista e anti-donne. La femminista Anne Fausto-Sterlingè un'esponente di spicco della "sessuologia femminista". Sessuologia femminista. La sessuologia femminista è una traccia di studi tradizionali di sessuologia che si concentra sull'intersezione del sesso e del genere in relazione alle vite sessuali delle donne. La sessuologia femminista condivide molti principi con il dominio della sessuologia; in particolare non tenta di prescrivere un certo percorso che riconduca ad una "normalità" per la sessualità femminile, ma solo di osservare e annotare i diversi modi in cui le donne esprimono la loro sessualità. È un campo giovane ma che sta crescendo rapidamente. Notevoli sessuologhe femministe includono Anne Fausto-Sterling e Gayle Rubin. Un notevole lavoro radicale femminista sulla sessualità femminile è il The Myth of the Vaginal Orgasm (Mito dell'Orgasmo vaginale, 1968) di Anne Koedt, che avanza l'idea che l'orgasmo vaginale sia un mito patriarcale.

Femminismo e violenza sessuale. La cultura dello stupro è un concetto usato per descrivere una cultura in cui la violenza sessuale e lo stupro sono comuni e in cui gli atteggiamenti, le norme, le pratiche e i mezzi prevalenti normalizzano, scusano, tollerano o persino condonano la violenza sessuale. Esempi di comportamenti comunemente associati alla cultura dello stupro comprendono la colpevolizzazione della vittima, la sua definizione di "puttana" o disonorata, l'oggettivazione sessuale e la banalizzazione della stessa violenza contro le donne. La cultura dello stupro è stata utilizzata per modellare il comportamento all'interno dei gruppi sociali, compresi i sistemi di carcerazione in cui la violenza dei carcerati è comune e le aree di conflitto in cui gli stupri di guerra vengono utilizzati come arma della guerra psicologica. Anche interi paesi sono stati dichiarati essere immersi nella cultura dello stupro. Sebbene il concetto di "coltivazione dello di stupro" sia una teoria generalmente accettata nel mondo accademico femminista, esiste ancora un disaccordo su quella che può essere definita una cultura dello stupro e in che misura una determinata società soddisfa i criteri per essere considerata come tale. La cultura dello stupro è stata osservata in correlazione con altri fattori e comportamenti sociali. La ricerca identifica la correlazione tra i miti della violenza, la colpevolezza della vittima e la trivializzazione della violenza con un'aumentata incidenza nel razzismo, nell'omofobia, nell'età, nel classismo, nell'intolleranza religiosa e in altre forme di discriminazione. La cultura dello stupro esiste ancora in molti paesi musulmani.

Femminismo e molestie sessuali. Le femministe sono state cruciali per lo sviluppo della nozione di molestia sessuale e per la codificazione delle leggi contro le stesse. Catherine MacKinnon fu tra i primi a scrivere sul tema della molestia sessuale. Il libro di MacKinnon Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination (Molestie sessuali tra le donne che lavorano: un caso di discriminazione sessuale) è l'ottavo libro legale statunitense più citato pubblicato dal 1978, secondo uno studio pubblicato da Fred Shapiro nel gennaio 2000. La femminista Camille Paglia critica la nozione stessa di molestia sessuale. Alcune femministe liberali e femministe individualiste hanno criticato la nozione di molestie sessuali. Camille Paglia afferma che le ragazze possono finire per agire in modo tale da rendere più facile la molestia sessuale, per esempio atteggiandosi a "carine", diventando in tal modo un facile bersaglio. Paglia ha commentato in un'intervista concessa a Playboy: "dimmi il grado in cui la tua bellezza può invocare la gente a dire cose stravaganti e pornografiche, talvolta per violare la tua bellezza. Più si arrossisce, più le persone vogliono farlo". Jane Gallop ritiene che le leggi sulle molestie sessuali siano state abusate da coloro che lei chiama "femministe vittimarie", al contrario delle "femministe di potere" come chiama se stessa. La femminista Laura Mulvey ha elaborato la teoria dello "sguardo maschile".

Femminismo e oggettivazione sessuale. Il concetto di oggettivazione sessuale e, in particolare, l'oggettivazione delle donne, è un'idea importante nella teoria femminista e nelle teorie psicologiche derivate dal femminismo. Molte femministe considerano l'oggettivazione sessuale come sgradevole e di come essa svolga un ruolo importante nella disuguaglianza di genere. Alcuni commentatori sociali, tuttavia, sostengono che alcune donne moderne si oggettivano come un'espressione del loro potere di emanazione sugli uomini, mentre altri sostengono che l'aumento della libertà sessuale per le donne, i gay e gli uomini bisessuali ha portato ad un aumento dell'oggettivazione degli uomini.

Lo "sguardo maschile". Quella dello "sguardo maschile" è una teoria femminista sviluppata da Laura Mulvey nel 1975. Lo sguardo maschile si verifica quando il pubblico, o lo spettatore, viene messo nella prospettiva di un maschio eterosessuale. Mulvey ha sottolineato che lo sguardo maschile dominante nei film del cinema statunitense (con Hollywood cone punto di riferimento) riflette e soddisfa l'inconscio maschile: la maggior parte dei registi sono maschi, quindi lo sguardo voyeuristico della telecamera è maschile; i personaggi maschili nei vari generi cinematografici rendono le donne gli oggetti del loro sguardo; ed inevitabilmente lo sguardo dello spettatore riflette gli sguardi voyeuristici maschili della macchina fotografica e degli attori maschi. Quando il femminismo caratterizza lo "sguardo maschile" appaiono alcune questioni come quella per l'appunto del voyeurismo (scopofilia), dell'oggettivazione, del feticismo (sessualità) ed infine quella delle donne viste esclusivamente come oggetto del piacere maschile. Mary Anne Doane dà un esempio di come il voyeurismo può essere visto attraverso lo sguardo maschile: "il cinema silenzioso, attraverso la sua insistente iscrizione di scenari di voyeurismo, concepisce il piacere di osservazione del suo spettatore in termini occhieggiamento maschile, dietro lo schermo, riducendo la posizione dello spettatore rispetto alla donna sullo schermo".

Case chiuse. Sulla prostituzione il cortocircuito della cultura femminista, scrive Antonella Mariani venerdì 19 gennaio 2018 su "Avvenire". Stupro pagato o lavoro? Il dubbio che divide le donne. Un libro ripropone con forza la questione dell’abuso che si cela in ogni mercificazione del corpo. «Voglio vedere molte altre donne strappare la verità dalle loro viscere su ciò che la prostituzione gli ha fatto e su ciò che continuerà a causare alle altre donne e ragazze, finché il mondo non prenderà coscienza della pura e semplice immoralità di tutto questo». Rachel Moran oggi ha 42 anni. Ne aveva appena 15 quando, dopo un’infanzia segnata dalla povertà e dal disagio mentale dei genitori, iniziò a vendersi per strada nella sua città, Dublino. L’esperienza devastante della prostituzione è durata 7 anni, fino al 1998, poi Rachel riuscì a venirne fuori, si rimise a studiare, e ora è giornalista e dal 2011 attivista femminista anti prostituzione. La sua vicenda è raccontata in un libro crudissimo, di forte denuncia, che non risparmia nulla al lettore. Fin dal titolo: Stupro a pagamento: la verità sulla prostituzione (Round Robin, pagg. 384, euro 16). Pagina dopo pagina Rachel descrive le umiliazioni subite dai clienti, la lenta devastazione della sua personalità, il sentirsi uccidere interiormente a ogni rapporto, ed espone la sua teoria sulla prostituzione: non si può tollerare la compravendita del corpo femminile, perché alla base dello scambio sesso-denaro c’è una relazione diseguale. La prostituzione è sempre «abuso sessuale pagato», così come è insita in essa la distruzione della personalità della donna, disumanizzata e ridotta a cosa. E questo riguarda tutte coloro che vendono il proprio corpo, anche chi si trova, per così dire, negli scalini più alti della scala gerarchica e anche chi è convinta di esercitare una 'professione' per libera scelta: la squillo, la escort, la prostituta d’alto bordo... sono vittime di una «mistificazione che fa comodo agli uomini che pagano per fare sesso», scrive Moran. L’umiliazione subita ogni giorno è uguale per tutte e in tutti i segmenti di mercato. Moran in questi mesi sta girando l’Europa per presentare il suo libro e l’associazione che ha creato nel 2012, Space International che lotta perché la prostituzione sia riconosciuta come «sfruttamento sessuale radicato nell’abuso» e, di conseguenza, per la criminalizzazione della richiesta di rapporto sessuale a pagamento, cioè dei clienti. Space international (Survivors of Prostitution Abuse Calling for Enlightenment - Sopravvissuti agli abusi sessuali che chiedono una via di uscita dalla loro condizione) ha sede in Irlanda, dove è nata, e sportelli negli Stati Uniti, in Francia, Danimarca, Germania, Canada, Sud Africa, Australia e Regno Unito. Le attiviste difendono il modello nordico 'proibizionista' che dalla Svezia, dove è stato introdotto nel 1999, si è diffuso in Norvegia (nel 2009), in Islanda (2009) ed è attualmente in discussione in Irlanda, Israele, Gran Bretagna, Finlandia e Francia. Dopo aver letto 'Stupro a pagamento' nessuno potrà più dire a cuor leggero che quello sessuale è un lavoro come tutti gli altri e che prostituirsi può anche essere una scelta. Perché anche se lo fosse – e nel «mercato» attuale lo è in una percentuale irrilevante – come documenta Moran nel suo libro, non c’è prostituzione senza abuso. In quale lavoro l’abuso sessuale fa parte del contratto? L’espressione asettica inglese sex work, usata soprattutto nelle agende politiche di chi sposa il modello della regolamentazione della prostituzione «alla tedesca», nasconde ciò di cui si tratta veramente: mercificazione del corpo femminile. Per quanto riguarda l’Italia, l’elaborazione del pensiero femminile e femminista sulla prostituzione è debolissimo, e forse anche per questo il dibattito politico, come si è visto in questi primi giorni di campagna elettorale, è incapace di andare oltre la promessa di riapertura delle case chiuse, mentre diversi sindaci, da Rimini a Firenze, fino a Ferentino, emanano ordinanze – anche se talvolta pasticciate – per punire i clienti. Una parte consistente del mondo femminista, pur di rimanere fedele allo slogan «Il corpo è mio e lo gestisco io», sembra essere incapace di cogliere quanta ingiustizia, discriminazione, sopraffazione e sfruttamento ai danni delle donne ci sia nella prostituzione, oggi come ieri. O perfino di più. La 'geografia' della prostituzione in pochi decenni è profondamente cambiata: ora sulle strade ci sono le giovanissime, prima dell’Est Europa, poi africane. Tra le 50 e le 70mila ragazzine, secondo la Caritas, quasi tutte minorenni e quasi tutte schiavizzate. Difficile parlare di scelta, come ha scritto mercoledì 17 gennaio su queste stesse pagine don Aldo Buonaiuto della Comunità Papa Giovanni XXIII. Di fronte alle proposte di riaprire le case chiuse, si chiedeva don Aldo, «dove sono le donne per le donne?». Coincidenza, sabato 20 gennaio la Casa internazionale delle donne di Roma ospita un incontro dal titolo Sex work is work (senza nemmeno un punto interrogativo, a seminare qualche dubbio), a cura del collettivo Spazioincontro, con l’obiettivo di «interrogare i femminismi sulla reale capacità di inclusione verso tutte le differenze che li attraversano e verso realtà sociali e umane che necessitano di un riconoscimento». Tra gli interventi previsti c’è quello di Pia Covre, che nel 1982 insieme a Carla Corso fondò il Comitato per i diritti civili delle prostitute e ancora si spende, a 70 anni, per l’abolizione della legge Merlin e la riapertura delle case chiuse. Covre sarà accompagnata dalle «sex workers» di Ombre Rosse, che nell’ottobre scorso contestarono duramente, sempre alla Casa internazionale delle donne, la posizione di Rachel Moran, invitata a presentare Stupro a pagamento. La linea di Spazioincontro è condivisa da un’altra grande realtà emergente del mondo femminista, il movimento Non una di meno, che nei mesi scorsi ha elaborato un corposo Piano «contro la violenza maschile sulle donne». Il documento contiene una enorme contraddizione: da una parte una giusta preoccupazione per le vittime della tratta delle donne, dall’altra la rivendicazione del diritto delle «sex workers» di ottenere «strumenti di informazione, di prevenzione e di cura che sappiano tutelarne l’autodeterminazione e la libertà di scelta». Lo sfruttamento del corpo femminile, insomma, per le donne di 'Non una di meno' non è un male in sé, anzi può diventare un’espressione di libertà. (Quale libertà, se a essere messa in vendita è la propria personale, intima dignità di donna?). Uno scenario che non ha nulla di progressista e che oggettivamente è fonte di imbarazzo nel mondo femminista. Laura Piretti, una delle due neosegretarie dell’Unione donne italiane, la più gloriosa e storica tra le sigle femministe italiane, ad 'Avvenire' spiega che «l’Udi non potrebbe mai accettare la definizione di sex workers». Detto questo però, nessuna presa di posizione unitaria contro la prostituzione. «Abbiamo bisogno di parlarne più a fondo», ammette Piretti. Ancora più difficile la posizione di una cooperativa sociale impegnata nella lotta alla tratta delle donne come Be Free, che aderisce alla Casa Internazionale delle donne, all’Udi e a Non una di meno: come si concilia l’idea che «sex work is work» con l’assistenza, tutti i giorni, a decine di ragazze schiavizzate dai 'papponi' e usate dai clienti per un corrispettivo di 7 o 10 euro a rapporto? Non si concilia, appunto, tanto che la stessa Oria Gargano, responsabile di Be Free, che collabora anche con Slaves no more (Mai più schiave) della missionaria della Consolata Eugenia Bonetti, ammette: «Sulla prostituzione c’è una serie di sfumature; abbiamo evitato di affrontare il tema in profondità perché il movimento rischia di spezzarsi». In questo arcipelago di sigle e di posizioni, ma in fondo anche di reticenze, è nettissima la posizione di Arcilesbica: il «sex work» è prostituente. Senza se e senza ma, così come è di «cattivo gusto» organizzare un incontro per celebrare la prostituzione alla Casa delle donne proprio nella sala dedicata a Carla Lonzi, fiorentina, scomparsa nel 1982, una delle colonne del movimento femminista, che scrisse questa frase divenuta celebre: «Il femminismo mi si è presentato come lo sbocco tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi». Arcilesbica ha avuto il coraggio di dirlo chiaramente, e gliene va dato merito. In fondo la battaglia contro la prostituzione ha la stessa matrice di quella contro l’utero in affitto. In nome della dignità della donna, contro ogni sfruttamento.

La prostituzione è incivile, per questo bisogna riaprire le case chiuse. Due interventi a favore della riapertura delle case chiuse, da PangeaNews. Matteo Fais: «Lasciare le prostitute per strada non risolverà niente». Davide Brullo: «La faccenda è sporca ma la prostituzione per sua natura è sacra», scrivono Matteo Fais e Davide Brullo, su Pangea e su “L’Inkiesta il 18 Gennaio 2018. Quantunque vi sforziate di essere morali, il mondo non è un posto per chi non ha peli sullo stomaco di Matteo Fais. Sappiamo bene cosa accadrà dopo le prossime elezioni: cambierà tutto per non cambiare niente. Sicché, inutile anche starle ad ascoltare le promesse farlocche dell’uno o dell’altro contendente. Incidentalmente, comunque, qualcosa arriva sempre all’orecchio. Una delle poche a farmi dolcemente fantasticare è quella che propone di riaprire le cosiddette case di tolleranza, “bordelli” per gli amici. Ci credo poco. Più probabile che istituiscano per davvero il reddito di cittadinanza, che ripristinino l’articolo 18, aboliscano il precariato e addirittura che Berlusconi mi inviti alle feste del Bunga Bunga – Silvio, ti scongiuro, fallo. A prescindere dal politico che ha avanzato la trovata e sapendo bene che tanto non la realizzeranno mai, le domande da porsi sono fondamentalmente due. Ci vorrebbero i casini in questi tempi di presunta libertà sessuale? La risposta è sì. È civile pagare una donna perché ti apra le cosce? La risposta è no. Vediamo di capire il perché, riguardo a entrambe le questioni. La libertà sessuale post ’68 è una balla colossale, una semplice invenzione della propaganda sinistrorsa. La libertà sessuale c’è sempre stata per quelli che potevano avervi accesso, proprio come oggi. C’era negli anni ’20, ’30, ’40, e via numerando. Pensate che esisteva persino nei secoli precedenti! Chi piace è sempre piaciuto e solitamente non ha mai dovuto faticare granché per rimediare una scopata. Poi ci sono gli altri, quelli che a furia di bussare alla porta qualcuno prima o poi ti apre, e quelli a cui le porte le sbattono semplicemente in faccia. Le donne che si indignano al pensiero di rendere nuovamente legale la prostituzione in Italia, adducendo le tesi che “oggi non è come ieri”, che “non ci sono più scuse”, che “tutti possono avere una vita sessuale”, o mentono sapendo di mentire, oppure, come si può facilmente sospettare, sono idiote e aggiungono sempre l’hashtag #metoo nei loro stati su Facebook. In verità, è garantito, perfino in questi tempi in cui vedi donne camminare mezze nude per strada, perizoma in vista, tette coperte da una fascetta di tessuto, se sei uno che non ha fortuna con il gentil sesso, la tua sorte non migliorerà in ragione di una libertà potenziale. Certo ci sarà qualcuno che se la spassa con loro, ma non sei tu. Per il sesso è un po’ come per il lavoro: chi ne ha tanto da non riuscire a stargli dietro e chi non lavora un’ora all’anno. O come per il denaro: gente che nel soldo ci naviga, altri che non sanno neppure che colore abbia. Sia chiaro, questo discorso vale anche per le donne. Certo per loro è più facile rimediare ma, se sei brutta forte, è difficile che si tratti di qualcosa di più di una veloce botta e via, uno sfogo, prima di essere subito riportata a casa. «Le domande da porsi sono fondamentalmente due. Ci vorrebbero i casini in questi tempi di presunta libertà sessuale? La risposta è sì. È civile pagare una donna perché ti apra le cosce? La risposta è no». Matteo Fais

Che poi la pratica della prostituzione sia fondamentalmente incivile, quello è tutto un altro paio di maniche. Incivile, triste, squallida, devastante per il cliente e la mercenaria: tu sai di dover pagare per avere ciò che alcuni ottengono gratuitamente, lei sa di dover barattare l’intimità del suo corpo per vivere. Ma del resto, come sottolinea Woody Allen, è ben difficile che andando con una donna “normale” non vi siano scambi che rimandino all’economico, o almeno atti a rendere più agevole l’economia della coppia. Per un rapporto spassionato, mille sono interessati – è raro che l’umanità faccia bella figura. Ma, a volerla dire tutta, se non è bello pagare una donna per farci stare sopra di lei, quasi niente di ciò che implica un pagamento è piacevole. Non è bello lo stipendio miserabile che percepisce un impiegato delle poste, considerato che dà in cambio la sua esistenza. Non è bello quello che riesce a portare a casa un libraio, o un qualunque negoziante, dopo aver pagato le tasse. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Insomma, quantunque vi sforziate di essere morali, il mondo non è un posto per chi non ha peli sullo stomaco. Lasciare queste disperate per strada non risolverà niente. La malavita si arricchisce (nessuno, peraltro, ha ancora capito che un terzo dell’economia è sommersa perché un terzo dell’economia gira intorno a droga e prostituzione). Le lucciole non possono pagare le tasse e sono costrette a vivere come fuorilegge. E, in ultimo, si dà unicamente modo ai trafficanti di esseri umani di portare qui altre povere ragazze dalla Nigeria e posti simili, questa volta sì per fare lavori che le italiane non vogliono più fare. «In strada ci sono donne violate, oltraggiate, defraudate della propria femminilità per svenderla al primo satiro, anzi, al primo stronzo. Ma. Ma la prostituzione, per sua natura, è sacra. Perché? Perché l’arte dell’amare, liturgico possesso femminile, è l’arte per antonomasia» Davide Brullo

Sicuramente, a sentire queste tesi, la Presidenta inorridirà e le femministe del #metoo emetteranno una fatwa. Francamente, me ne infischio. Rispolvero invece quella vecchia carogna di Montanelli e il suo Addio, Wanda, simpaticissimo pamphlet dei lontani anni ’50, in cui il gran maestro della prosa rivendica la necessità dei casini per l’Italia. Un Paese tradizionalmente basato sulla “Fede cattolica, la Patria, e la Famiglia” è perduto senza postriboli, perché è lì che “queste tre grandi istituzioni trovavano la più sicura garanzia”. Barbare usanze, ammette il Maestro, ma senza, preconizzava lui, diventeremo un paese dalla moralità e i costumi protestanti. Mai previsione fu più vera! Basti vedere l’isteria anti Weinstein. La famiglia si sfascerà perché non ci saranno più vergini e puttane, ma solo donne che “vivono la loro vita”. Subentrerà la “società” – ecco l’insistenza maniacale sui diritti civili. Ma noi non abbiamo una società, in Italia: “io vedo solo famiglie, in cui le lenzuola erano (in genere) pulite, solo perché i maschi potevano sporcare quelle dei bordelli”. Non aveva tutti i torti il filibustiere. Soprattutto non sbagliava nel dire che il peccato, intelligentemente non negato ma circoscritto entro la sua “sede”, limitava i danni: “al di là del Peccato, almeno in Italia, non c’è la Virtù. C’è il Vizio”. Naturalmente, questi sono solo pensieri di un vecchio reazionario. Noi che siamo sessualmente liberi e progressisti, adesso possiamo serenamente andare a digitare “Valentina Nappi” su YouPorn, addirittura scegliere il video in ragione del genere. Le varie tag (fetish, anal) servono a questo. YouPorn è fantastico in tal senso, ordinatissimo. Non c’è mai casino.

Siamo ancora nell’Occidente puritano e punitivo. Ma tra dieci anni ci sarà la compravendita delle nerchie di Davide Brullo. Partiamo dal presupposto iniziale. Cui seguirà, al posto dell’articolo consueto, una visione piuttosto realista del futuro prossimo. Presupposto. La prostituzione è cosa sacra. La brutalità dell’era presente ha fatto della prostituzione – come di ogni atto d’amore – una sporca faccenda di “prestazioni". Tu me la dai, io tiro fuori quello che ho, il portafogli. D’altronde, la faccenda è “sporca”, lo sappiamo. In strada ci sono donne violate, oltraggiate, defraudate della propria femminilità per svenderla al primo satiro, anzi, al primo stronzo. Ma. Ma la prostituzione, per sua natura, è sacra. Perché? Perché l’arte dell’amare, liturgico possesso femminile, è l’arte per antonomasia. Le donne che desiderano insegnare l’arte ai pivelli, ai pisellini, sono impagabili: per questo le si paga, ma ogni cifra è sempre troppo poco per ripagare il calore di un corpo, le astuzie dei gemiti, le triangolari capriole dell’amare. Non è un caso che Socrate abbia per maestra somma Diotima, che conosce Eros, la quintessenza del sapere. Sul tema, per chi ha tempo e testa, bisogna leggere La struttura dell’iki di Kuki Shuzo (stampa Adelphi), in cui si eleva la geisha a suprema sapiente del cuore umano.

Non aveva tutti i torti, quel filibustiere di Montanelli. Soprattutto non sbagliava nel dire che il peccato, intelligentemente non negato ma circoscritto entro la sua “sede”, limitava i danni.

Sì alla prostituzione: è femminismo? E la Casa delle Donne si spacca ..., scrive il 19 gennaio 2018 Monica Ricci Sargentini su "Il Corriere della Sera". Prostituzione sì: è femminismo? E la Casa delle Donne si spacca. Oggi il convegno: “Sex Work is work». Bocchetti “Siamo sorprese». Billi: “È come lo stupro, non parliamo di autodeterminazione». Cutrufelli: “Ma le prostitute non sono reiette». Eppure, paradossalmente, oggi proprio nella sala a lei dedicata nella Casa Internazionaledelle Donne di Roma si terrà un convegno dal titolo «Sex Work is work» indetto dal collettivo SpazioIncontro «per interrogare i femminis sulla reale capacità di inclusione verso tutte le differenze che li attraversano e verso realtà ...Di certo non la pensa così Alessandra Bocchetti, 75 anni, una delle voci più autorevoli del femminismo italiano, che ha tentato fino all'ultimo di far mettere ... Per Maria Rosa Cutrufelli, 71 anni, un'altra protagonista della Casa che sabato interverrà al convegno: «L'incontro tra femminismo e prostitute è molto ...

Prostituzione, il collettivo Ombre Rosse protesta alla presentazione di “Stupro a pagamento”, scrive il 12 ottobre 2017 "La Pasionaria". Uno dei temi che, da anni, causa contrasti e spaccature all’interno dei femminismi è la prostituzione, fenomeno complesso su cui i gruppi di attiviste si posizionano in modo diverso. Il dibattito è aperto e, per darne un quadro molto generale e semplificato a chi non l’ha mai affrontato, possiamo dire che da una parte ci sono le femministe abolizioniste, le quali rifiutano la pratica della prostituzione in quanto tale ritenendola in ogni sua declinazione una forma di violenza e perciò pratica patriarcale da abolire; dall’altra ci sono le femministe sex-positive, le quali, pur condannando lo sfruttamento e la tratta delle donne che sono costrette a prostituirsi, pensano che la prostituzione non sia sempre violenza e che il femminismo debba sostenere l’autodeterminazione delle e de* sex worker, cioè delle persone che decidono di prostituirsi di propria volontà (questa è anche la nostra posizione). Un nuovo scontro su questo fronte si è aperto il pomeriggio del 12 ottobre alla Casa internazionale delle donne di Roma, durante la presentazione del libro Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione di Rachel Moran, a cui, oltre l’autrice, sono state invitate tre femministe su posizioni abolizioniste: Alessandra Bocchetti, Elisa Ercoli e Pina Nuzzo. L’incontro è stato interrotto da una protesta organizzata dal collettivo di sex worker Ombre Rosse insieme a varie soggettività LGBTI, transfemministe queer e non binarie.

Che cosa è successo. Dopo qualche minuto dall’avvio della presentazione, alcuni attivisti si sono alzati in piedi mostrando prima sciarpe e rose di colore rosso, colore simbolo de* sex worker, e poi alcuni cartelloni sulle rivendicazioni di lavoratrici e lavorator* del sesso. «Nessuno di noi – ci racconta Ethan Bonali, che ha partecipato alla protesta – ha parlato per interrompere le relatrici, che ci hanno detto: “Non potete stare qua, dovete uscire, siete dei violenti”. Alcune delle persone tra il pubblico ci ha preso a spintoni per farci uscire e ci ha strappato dei cartelli. Una signora ci ha detto: “Andate a fare le marchette sui marciapiedi”. Altre ci hanno chiesto perché invece non volessimo partecipare alla discussione, ma chi ha organizzato l’incontro non ha invitato nessun contraddittorio». «Purtroppo ce lo aspettavamo – aggiunge M. di Ombre Rosse – la nostra è stata un’azione simbolica, pacifica. Volevamo portare i nostri contenuti attraverso i cartelloni ma non abbiamo potuto farli leggere perché ce li hanno strappati, hanno strappato anche i volantini». Dopo la pubblicazione di questo articolo, nei commenti della nostra pagina Facebook, diverse persone hanno dato una versione diversa dell’accaduto, definendo “violenta” l’azione di Ombre Rosse e raccontando di un tafferuglio in cui sarebbe stata strattonata una donna anziana del pubblico. Inoltre, alcune commentatrici hanno fatto presente che le persone che hanno protestato con il flash mob sarebbero state invitate a intervenire ma avrebbero rifiutato la proposta.

Il perché della protesta. Chi ha organizzato la protesta ha denunciato l’assenza all’evento di interlocutrici o interlocutor* che portassero avanti posizioni diverse rispetto a quelle abolizioniste, presentando solo una faccia della realtà della prostituzione. «Questo libro – si legge nella presentazione dell’evento – non è soltanto un racconto autobiografico, ma piuttosto l’analisi personale-politica di che cosa sia veramente la prostituzione: “la commercializzazione dell’abuso sessuale”. Con grande precisione analitica Rachel smantella i falsi miti sulla prostituzione mettendo in luce l’intreccio tra discriminazione sessuale e socio-economica di cui si nutre lo sfruttamento disumano dell’industria del sesso». «Vi invitiamo a partecipare alla presentazione del suo libro “Stupro a pagamento” perché anche in Italia possa aprirsi un dibattito serio sulle difficoltà e le violenze che vivono quotidianamente le persone prostituite e su ciò che le istituzioni dovrebbero e potrebbero fare per mettere fine a questa intollerabile violazione di diritti umani. Questo dibattito non può che mettere al centro la voce di donne come Rachel». Secondo Ombre Rosse, però, per parlare in modo obiettivo di prostituzione si dovrebbe ascoltare anche la voce delle sex worker. «Non è stata chiamata nessuna che non assuma un’ottica neo-proibizionista», lamentano attiviste e attivist* sex positive nel loro comunicato. «Eventi come questi, impostati con questo linguaggio, in termini violenti e supponenti ci fanno pensare che si voglia dare spazio ad un’unica narrazione escludendo possibilmente qualsiasi altra voce. Questo non è il femminismo che noi conosciamo». «Riteniamo estremamente violento e prevaricatorio – continuano – dichiararsi detentrici di una unica “Verità”. In particolare su un tema così complesso che coinvolge donne diverse per vissuti e scelte. Sappiamo che la prostituzione NON È SEMPRE VIOLENZA. Da sempre qualcuno si è arrogato il diritto di parlare per noi, al nostro posto. La riconosciamo come pratica patriarcale di delegittimazione: sostituirsi alle donne, infantilizzarle e dubitare della loro capacità di autodeterminarsi. Non lo permettiamo». «Speriamo in un’altra occasione più inclusiva e dialogica», concludono. Come Pasionaria, ci auguriamo che quanto accaduto possa aprire una fase di riflessione più obiettiva sul fenomeno della prostituzione, che coinvolga tutte le voci: sicuramente quelle delle vittime, ma anche quelle di chi non si ritiene tale e ha scelto di fare della prostituzione il proprio lavoro.

Femminismo è ascolto, scrive il 23 ottobre 2017 "resistenzafemminista.it". “Io non giudico te, io giudico gli uomini”. Femminismo è ascolto. Lo ha detto benissimo Alessandra Bocchetti durante la presentazione del libro di Rachel Moran “Stupro a pagamento: la verità sulla prostituzione” svoltasi alla Casa Internazionale delle donne il 12 ottobre. Ciò che è accaduto durante l’incontro, interrompendo proprio il racconto di Rachel Moran e tentandone la messa in silenzio, va in direzione contraria. Un’irruzione violenta, disonesta, che si è servita dell’inganno per entrare brutalmente e forzatamente in uno spazio di ascolto: uno stupro simbolico come l’ha definito Rachel. Rachel Moran, attivista femminista a livello internazionale, sopravvissuta alla prostituzione, nostra ospite in Italia, è stata direttamente oggetto di questo assalto. Proprio nel momento in cui Rachel ha preso la parola, è scattata l’aggressione nei suoi confronti e nei confronti delle presenti; l’avevano pensata proprio così, dandosi un segnale nel momento della presa di parola di Rachel. Si sono alzate, hanno tirato fuori dei cartelli e mentre alcune li sistemavano in alcuni punti della stanza, altre distribuivano volantini alle persone presenti. Alcune si sono presentate davanti a Rachel con slogan in inglese nel tentativo, vano, di intimidire e azzittire. Hanno avuto il coraggio nei loro volantini di definire le parole di una sopravvissuta alla prostituzione “violente”. C’erano due uomini nel gruppo che mentre tutto questo accadeva ci filmavano e quando abbiamo chiesto di smettere ci hanno riso in faccia. L’assalto è stato compiuto e a nulla sono serviti gli inviti ad allontanarsi e a porre fine alla messa in scena di quella pretestuosa e inopportuna rivendicazione, l’azione ha continuato a svolgersi come se tutte noi fossimo inesistenti, i nostri confini protetti violati. Prendere parola sulla violenza che si è subita è un atto rivoluzionario. Le donne che hanno subito violenza sanno bene quanto il silenzio sia imposto su quanto accaduto: prima, durante e dopo. Prima, perché isolando la vittima, metaforicamente e concretamente, le si toglie la possibilità di chiedere aiuto, di parlare di quello che le accade. Durante, perché chi compie violenza utilizza le minacce per far tacere, indebolisce la propria vittima per toglierle tutto, prima di tutto per toglierle parola e voce.

Dopo, perché una volta trovato il coraggio di parlare, una volta aperto il varco, è difficile trovare dall’altra parte qualcuno che ti creda. La parola diventa vana. Il potere della violenza agisce molto sulla parola, sulla voce, tentandone l’annientamento. Il femminismo restituisce alla parola il suo potere, il femminismo è il luogo sicuro in cui il racconto ha luogo, dove c’è rispetto e verità. Il femminismo è il processo di liberazione personale che apre la via ad un percorso di libertà per tutte ed è forse questo il momento in cui il femminismo si fa, per alcuni, più pericoloso, quando parla alle altre donne. Di fronte al racconto di una violenza è possibile solo ascolto, accoglimento, di fronte al dialogo tra una donna liberata e le altre, scatta talvolta la rabbia di chi non vuole che questo abbia luogo, di chi vuole le donne accomunate solo dal silenzio. Abbiamo cercato di creare le condizioni perché l’ascolto fosse possibile, abbiamo cercato di accogliere il racconto di Rachel Moran, garantendole la presenza di chi potesse essere in grado non solo di ascoltare ma di restituirle stima e rispetto, di chi potesse essere in grado di capire la potenza della sua storia di fuoriuscita dalla violenza. Abbiamo quindi scelto che parlassero del suo libro femministe che potessero comprendere e parlare della valenza politica del discorso di Rachel Moran e ci siamo riuscite. Hanno tentato di interrompere questo processo con la violenza e l’inganno, hanno interrotto il racconto di Rachel, hanno tentato di azzittirla facendo passare questo orribile atto di violenza come manifestazione di libertà e democrazia, ma tutte hanno potuto vedere e vedranno quanto invece questo atto sia espressione di collusione col patriarcato che vuole ancora oggi le donne mute e che tenta in tutti i modi, anche i più ridicoli e auto evidenti, di farle tacere sulla violenza. Stanno tentando di far passare questo ignobile atto come una giusta rivendicazione, mentre si sono servite della violenza per imporsi e sopraffare, gettando in faccia all’attivista Rachel Moran i loro slogan scritti in inglese perchè erano indirizzati proprio a lei, hanno sbattuto con violenza i loro cartelloni sul tavolo, come atto intimidatorio di sfida, hanno spintonato Edda Billi, nota femminista di 83 anni, rischiando di farla cadere, hanno usato i loro cartelli per colpire in faccia il giornalista Ejaz Ahmad che le invitava gentilmente a desistere e ad allontanarsi. Ora stanno insultando, tentando di ridicolizzare una sopravvissuta alla prostituzione, Pia Covre ha definito sulla pagina facebook del Comitato per i diritti civili delle prostitute Rachel Moran “una puttana pentita”. Di fronte ad atti così ignobili non ci sono vie di mezzo, o li si condanna o li si appoggia, perché interrompere il racconto di una violenza è un atto, esso stesso, di violenza, che non può in alcun modo essere avallato, giustificato, interpretato come qualcosa di diverso. In questi casi, la condanna non può che essere rigorosa e certa: nessuno può più permettersi di togliere la parola ad una vittima di violenza. Nessuno si può più permettere di affievolire la portata politica del racconto di una violenza e della fuoriuscita da essa. In tante hanno visto e compreso e vi ringraziamo per questo. Siamo state oggetto di un atto indegno, che dimostra però quanto sia davvero rivoluzionario e potente prendere la parola sulla violenza, denunciarla, farsi protagoniste del proprio percorso di liberazione e mettere tale percorso a disposizione di tutte le donne. La felicità e la libertà delle donne fanno paura, talvolta anche alle donne stesse. Rachel si è messa in dialogo con le persone che l’hanno aggredita ribadendo più volte a coloro che sbattevano sul tavolo i loro volantini o si paravano davanti con cartelli: “I don’t judge you, I judge the men”. “Io non ti giudico, giudico gli uomini”. La possibilità di dialogo che Rachel ha offerto è stata rifiutata, questo perchè l’obiettivo dell’attacco era contestare il vissuto di una donna, intimidire e censurare e non confrontarsi con rispetto con un’attivista che rappresenta non solo se stessa, come si cerca di far credere, ma un’associazione internazionale SPACE international che riunisce donne provenienti da 9 paesi che sono state nell’industria del sesso. L’incontro era aperto, era previsto un dibattito che si è svolto serenamente a dimostrazione che c’era spazio per qualsiasi confronto. Ma chiaramente l’obiettivo era un’altro: rifiutare, mettere a tacere il racconto scomodo di chi ha vissuto in prima persona la violenza dell’industria del sesso e si batte per mettere fine a qualsiasi forma di sfruttamento sessuale. Il lavoro di Rachel e delle tante donne coraggiose come lei continua, il nostro lavoro continua.

Ancora sulla prostituzione “legale”: parla Alessandra Bocchetti, scrive Marina Terragni il 12 febbario 2015 su blog.iodonna.it. Pubblico (e condivido senza riserve) questo intervento di Alessandra Bocchetti. IL BISOGNO DI SESSO E’ UNA REALTA’ CHE RIGUARDA UOMINI E DONNE. L’idea di dedicare alcune strade della capitale alla compravendita del sesso mi ha sgradevolmente colpito, così come l’idea più generale di regolamentare la prostituzione con tanto di elenchi depositati alla Camera di Commercio e ricevute fiscali. Abbiamo una legge che proibisce il favoreggiamento della prostituzione, l’adescamento, la compravendita dei corpi, questo dovrebbe bastare. A chi ci dice che è un problema di ordine pubblico rispondo semplicemente che la legge va rispettata. A chi ci dice che è un bisogno naturale forte che si deve soddisfare, rispondo che siamo contrarie a considerare la sessualità maschile al di sopra delle leggi. Il bisogno di sesso è una realtà che riguarda uomini e donne, senza che questo debba produrre scandalo, sottomissione, schiavitù e perdita di dignità. I corpi non si comprano e non si vendono, chi lo fa lo fa per un gioco perverso, dato che ormai c’è libertà sessuale di tutti, o per avidità di denaro e mi rincresce pensare che questo gioco continui a cercare autorizzazioni pubbliche. Disgraziati e disgraziate invece sono coloro che lo fanno per poter sopravvivere, per mangiare e dar da mangiare o per paura. Di questo e non di altro lo Stato si dovrebbe preoccupare. A chi ci dice che questo “ordine” nella prostituzione può contrastare la tratta degli esseri umani e la schiavitù, rispondo che, tra i servizi segreti, polizia internazionale e polizia di casa nostra, tratta e schiavitù potrebbero essere eliminate in poco tempo se solo lo si volesse veramente. Non è così. E’ questo il vero problema da affrontare: la grande autorizzazione e connivenza che, implicite e esplicite, fanno vivere la prostituzione. 

LE FEMMINISTE PREFERISCONO L'ISLAM.

Islam, la vergogna infinita: "Il Corano dice che le donne e le bambine si possono stuprare se...", scrive il 2 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". La denuncia parte dall'interno dello stesso mondo islamico: vi sono istituzioni, imam, e perfino università come Al Azhar, il più autorevole centro culturale musulmano, in cui si insegna come elementi del diritto islamico che donne, bambine e bambini non musulmani sono «bottino di guerra», usabili come oggetti di piacere e come merce di scambio. Il coraggio non manca a Hocine Drouiche, vice-presidente della Conferenza degli imam di Francia e imam della comunità di Nimes, che pubblica - in traduzione italiana su Asianews.it - uno studio approfondito sulla diffusione della dottrina del jihad. Sono accuse tutt'altro che generiche, ma corredate di nomi e circostanze: «Suad Salih è un viso femminile molto conosciuto all'università teologica della grande moschea di Al Azhar in Egitto e nel mondo musulmano. Ha dichiarato che i musulmani hanno il diritto di possedere le mogli del nemico per il proprio piacere durante la guerra perché ciò è lecito ed autorizzato dall'islam!». La condanna di Drouiche è senza appello: «Anche se è autorizzato e coperto dalla religione o dalla sharia, tutto ciò non si può definire che con il termine chiaro di "stupro raccomandato e lecito"». Peccato soltanto che nell'islam non vi sia un'autorità in grado di bollare come eretiche le tesi jihadiste. Anzi, sono pochi a contestare l'interpretazione della legge coranica da parte di Al Azhar. E, di solito, a sfidarne le sentenze sono i fondamentalisti che ispirano i terroristi di Al Qaeda o dello Stato islamico.

Marion Le Pen contro le femministe: "Silenzio vergognoso sull'islam". Il discorso della nipote di Marine Le Pen all'Assemblea nazionale francese durante la discussione sull'aborto: "La Sharia nega la libertà della donna", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 08/02/2017, su "Il Giornale". Femminista Marion Le Pen, ma a modo suo. Di certo non secondo i canoni delle attiviste del '68, al tempo asserragliate per conquistare la libertà sessuale e ora troppo deboli di fronte alla diffusione dell'islam. Durante la discussione delle leggi sull'informazione dell'aborto alla camera francese, Marion Le Pen, ha espresso il suo pensiero sulla questione femminista e sul rapporto con la religione di Maometto. Ed è stata molto dura.

La lotta contro l'aborto. "La verità - ha detto Le Pen - è che voi siete delle femministe retrograde, dinosauri politici sessantottardi. Oggi, ed è tempo che ve ne rendiate conto, le donne possono votare, lavorare o non lavorare, possono sposarsi, divorziare, prendere contraccettivi ed abortire, se lo desiderano. Ne sono felice. Ciò di cui sono meno felice, invece, è che molte donne abortiscano per ragioni economiche: il 47% secondo un sondaggio Ifop del 2010. Una non-scelta a cui voi non offrite alcuna soluzione e di cui non parlate nemmeno. No, signora ministra, l'alternativa all'aborto non è solamente, e cito lei: 'Una gravidanza non desiderata portata a termine', ma può anche essere una donna che ha la gioia di tenere il suo bambino, evitando un aborto non voluto, avendo trovato l'aiuto ed il supporto necessari". L'attacco della Le Pen è diretto proprio al ministro del governo di Hollande, colpevole di aver sposato un femminismo fuori dalla storia: "Lo dico, e lo penso sinceramente - ha urlato in Aula, come riportato da La Verità - lei è la vergogna della lotta [per i diritti] delle donne, ossessionata come è dal colore degli zaini di scuola, dal sessismo della grammatica, dai giochi rosa nei Kinder sorpresa, dalla divisione dei turni di lavaggio dei piatti nelle coppie. Siamo completamente fuori strada, lontani dalle vere minacce che oggi incombono sulla libertà delle donne".

Le Pen contro le femministe filo-islamiche. La vera minaccia si chiama islam. "Ricordo il vostro silenzio colpevole sulle 1.200 donne molestate sessualmente la sera di Capodanno in Germania da migranti, per esempio - continua Le Pen - Penso al vostro silenzio sulla shari'a, la legge islamica, che si applica oggi in certi quartieri di Francia e che nega alle donne i diritti più elementari. Capisco che ciò vi disturbi, perché il vostro grande campione Benoit Hamon vede in questa lenta e progressiva erosione isla mista, la 'continuazione del machismo "franchouillard" della classe operaia'. Che cecità ipocrita, per non dire complice o forse elettorale. La vostra avversione al patriarcato, incarnato dal maschio bianco eterosessuale, ha condotto molti fra voi alla collaborazione con tutte le minoranze che condividono questa avversione, sacrificando così qualsiasi coerenza ideale: femministe, islamisti, Lgbt... è tutta una lotta sola. Ed è così che coloro che si presentano oggi come i garanti del diritto delle donne a disporre del proprio corpo sono gli stessi che difendono la sottomissione di esse col velo e la mercificazione di esse come madri surrogate".

Le femministe preferiscono l’islam. Il femminismo europeo ha archiviato frettolosamente la jihad sessuale andata in scena in Germania. E' una reazione sconcertante, perché è gente che ha fatto del corpo della donna una bandiera. Eppure ha una sua ragione: il loro nemico principale è lo stesso del radicalismo islamico, si chiama Occidente ..., scrive Marco Bassani, Martedì 30 Gennaio 2018 su “L’Intraprendente". I recenti “fatti di Colonia” – ma soprattutto i commenti seguiti agli stessi – hanno messo a nudo un fenomeno che appare molto difficile da comprendere: l’alleanza ormai organica fra femminismo e Islam in Occidente. Le violenze e gli oltraggi alle donne tedesche e alla loro dignità morale e integrità fisica da parte di consistenti gruppi di immigrati nel corso di una notte brava di capodanno (episodi che sono accaduti anche in altre città europee, da Zurigo a Helsinki) sono una vera disgrazia che per un giorno intero ha lasciato attonite le femministe del continente. Dopo un giorno di silenzio, dall’ultima giornalista, alla sindaca di Colonia, alla Boldrini è partito un coretto che si sostanzia nella sommessa richiesta di archiviazione della vicenda. Quelli che la Boldrini ha chiamato “atti di mancanza di rispetto”, ad avviso di Henriette Reker, sindaca di Colonia, possono comunque essere evitati se solo “si sta in piccoli gruppi, mantenendo a distanza di braccio gli stranieri”. Due giornaliste tedesche, Stephanie Lohaus e Anne Wizorek, hanno immediatamente suggerito la versione politicamente corretta dei fatti: la cultura dello stupro in Germania non è certo di importazione. I “fatti di Colonia” dimostrano solo che “la Germania ha ancora problemi di sessismo e razzismo. Sta a noi fare in modo che queste tendenze non trovino pane per i loro denti. Bisogna prendere le distanze dalla rape culture”. Cultura dello stupro che è un prodotto squisitamente locale, al punto che all’Oktoberfest moltitudini di maschi europei si comportano con le donne esattamente come hanno fatto gli immigrati a capodanno. Insomma, gli uomini sono uomini e non c’è bisogno di nessuna Circe per trasformarli in porci e anche in delinquenti, ma gli europei sono sempre peggio, sembra essere il messaggio politicamente accettabile di questi giorni. Ben oltre gli eventi e le analisi da brivido che li hanno accompagnati (se fossero stati uomini locali a comportarsi a quel modo, le femministe li starebbero giustamente cercando casa per casa armate di trinciapolli, altroché scrivere articoli e suggerire di tenersi a distanza), occorre comprendere da dove viene questo atteggiamento. Si tratta infatti di una reazione davvero sconcertante giacché proviene da gruppi consistenti che hanno fatto del corpo violato delle donne la propria ragione sociale. Eppure in un caso collettivo ed eclatante di palese violazione dei diritti e dei corpi delle donne è iniziata una serie di condanne di facciata, ma con distinguo veramente poco edificanti, che tuttavia hanno una loro profonda ragion d’essere. Vediamo in estrema sintesi qual è. Il radicalismo islamico trova il proprio più importante alleato nella radicalità di alcune posizioni antioccidentali post-marxiste. Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, mentre Karl Marx andava definitivamente in soffitta iniziava una storia assai complessa di spartizione della sua eredità. Di Marx rimaneva vivo essenzialmente uno spunto, ossia la nozione dell’esistenza sempre e comunque di oppressi e oppressori. L’idea di fondo del post-marxismo è che nella società esista sempre una molteplicità di discorsi diversi e incommensurabili che producono “narrazioni” talmente divergenti che i gruppi dominanti e le categorie oppresse non possono neanche dialogare. Il che significa che l’antagonismo fra prospettive incompatibili è inevitabile e “al coltello”. Se la teoria classica immaginava uno scontro tra interessi individuali e il marxismo vede il conflitto in termini di classe, la teoria critica della razza e quella femminista hanno ormai stabilito con certezza che esiste un unico gruppo di oppressori, dal punto di vista culturale, economico e politico. Si tratta dei maschi bianchi, perlopiù eterosessuali, di origine europea che vivono nelle società, ma soprattutto sono sepolti nei cimiteri dell’Occidente. Le strutture del dominio sono infatti state costruite nel corso di venticinque secoli di una storia tutta sbagliata. Gli oppressi naturalmente sono invece tutti gli altri: minoranze razziali e culturali, persone di diverse tendenze sessuali e donne, soprattutto donne. Quindi il maschio islamico è per definizione e a priori, dalla parte della donna occidentale, giacché fa parte dei gruppi subalterni all’asse unico dell’egemonia. Anche concedendo che fra le mura domestiche costui possa comportarsi in modo non adamantino con qualche donna, ciò che conta è solo la scena pubblica, politica, nella quale l’islamico è subalterno. Se esistono solo coppie di oppressori e oppressi (uomini-donne, bianchi-neri, europei-arabi, cristiani-non cristiani) il discorso politico diventa certo ultra-semplificato, ma vede alleanze inossidabili e impensabili alla luce della sola ragione.  Le minoranze etniche, le donne, le lesbiche e i gay sono portatori di differenze che giustificano un trattamento costantemente diseguale. A loro non possono essere applicate le categorie astratte del diritto borghese e quelle visioni universalistiche della giustizia che altro non sono se non maschere del dominio del maschio bianco. La ben commendabile lotta al razzismo è stata solo l’inizio di questa bizzarra dottrina politica anti-occidentale che pervade ormai le nostre società, poi il radicalismo culturale post-marxista ha fatto il resto. Questi sono gli antefatti profondi che fanno sì che le donne (o meglio, le loro piccole, ma potenti avanguardie culturali femministe) non hanno in generale alcun timore dell’arrivo di moltitudini di diseredati del terzo mondo nelle loro società. Si tratta di sodali nella lotta contro l’oppressore. È un’alleanza soggettivamente unilaterale (chiedete agli imam cosa ne pensano del femminismo), ma oggettivamente assai potente, che può subire qualche battuta d’arresto, ma non può rischiare di sfaldarsi per qualche episodio di violenza.  Certo, sarebbe facile sostenere che donne e minoranze hanno una sorte migliore, almeno oggi, all’interno delle società sorte sui resti delle civiltà cristiane create dall’uomo bianco. E tuttavia una argomentazione del genere sarebbe ridicola per la teoria femminista, che non è intenta a migliorare le condizioni delle singole donne, ma a sovvertire le strutture del dominio.  C’è da augurar loro però che non le sovvertano del tutto: potrebbero scoprire sulla loro pelle che vi è un’infinita lista di gruppi che si son messi in fila per passare dalla parte degli oppressori. E a quel punto l’alleanza potrebbe incrinarsi per sempre.

“Le donne sono come le banane” Ecco perché l’islam impone il velo. Burkini o bikini? Per i movimenti musulmani coprirsi significa protezione. Ma le donne scelgono liberamente di indossarlo? Scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 22/08/2016, su "Il Giornale". Capire i motivi che spingono i musulmani a rivendicare a gran voce il diritto di far indossare alle loro donne il burkini in spiaggia, invece di un più attraente bikini, non è cosa facile. Come peraltro accade spesso quando si tratta di leggi islamiche. Ebbene: per alcuni è un dettame ormai superato; per altri è un obbligo morale delle ragazze, richiesto da Allah; un'altra fetta di musulmani, invece, crede che il velo sia una sorta di protezione. Spesso le ultime due risposte si sovrappongono e sono state utilizzate in questi giorni da diversi imam italiani per sostenere il "diritto al burkini".

Perché il velo è obbligatorio per le donne. A spiegarmi dettagliatamente tale ingarbugliata posizione sono stati i Tabligh Eddawa, il movimento radicale islamico che professa "l'unico vero islam" in Italia. Quando presentai la domanda a Jaouad Benali, un ragazzo 28enne che abita vicino Modena, fu più chiaro di tanti saggi imam nell'enunciare le sue motivazioni. "All’inizio, quando ero lontano dalla strada di Allah - mi raccontò - ho avuto anche diverse 'morose'. Ne cambiavo tante. Ma ora ho capito perché Dio chiede alla donna di coprirsi. La donna è come una banana: se gli togli la buccia, dopo due giorni diventa marcia". Impura, insomma. L'immagine sembrerà banale, ma non lo è. E spiega perfettamente questa fetta dell'islamico pensiero: le femmine che si mettono in mostra si sviliscono, perdono la loro verginità visiva. Una moglie, infatti, deve farsi bella solo per suo marito. In casa e mai in pubblico. "Voi pensate che la vera libertà sia quella della minigonna. Ma vi sbagliate: questa è la libertà degli animali", mi ammonì l'imam della comunità Tabligh quando provai a eccepire che in fondo ognuno è libero di indossare ciò che gli pare. Allora viene da chiedersi: si può definire "scelta autonoma" quella di una ragazza il cui un uomo (marito, padre o figlio che sia) la mette nelle condizioni di sentirti impura se non indossa un hijab? Il vero problema è che a dividere la concezione occidentale della donna da buona parte di quella islamica, non sono piccole differenze. Ma un enorme cratere. Cambia lo status sociale, le sue libertà, i suoi limiti di azione e i suoi diritti. Il ruolo della musulmana è quello di moglie e madre, nata per "costruire l'uomo di domani". E poco altro. Può lavorare, certo, ma solo se non "toglie amore al bambino" e comunque esclusivamente nei casi in cui il marito non riesca a portare a casa la pagnotta. Ecco dove il velo islamico si discosta da quello delle suore cristiane. Il primo sovente si inserisce in un brodo sociale che lo rende in qualche modo una imposizione. Fisica o sociale poco importa. Nella famiglia islamica la sfera intima deve rimanere tale, è essenziale che la donna non crei scandalo e non diventi soggetto (troppo) pubblico. Perciò coprirsi il capo, anche se non è una legge scritta, diventa un ordine morale. Volete una dimostrazione? L'imam del gruppo Tabligh ha una figlia. Non la obbliga a mettere il burqa finché è giovane, ma le vieta di vestire all'occidentale. Niente minigonne perché "mettono in imbarazzo il padre" e l'eventuale marito. Possiamo chiamarla emancipazione ed uguaglianza, questa? Per carità, ognuno è libero di pensarla come vuole. E non tutte le interpretazioni di musulmani sono identiche. Inoltre, se una donna sceglie volontariamente il velo non le si può certo negare tale diritto (nei limiti della sicurezza pubblica). Ma qui occorre riflettere sul significato sociale della copertura islamica e della "svestizione" occidentale. E poi scegliere. Quale preferire, dunque? La libertà fatta di decolletè, seni in modalità "vedo non vedo" e bei bikini? Oppure il conformante burqa calato sul volto e lo sgargiante gioco di colori di un burkini da spiaggia? Il lettore mi perdonerà se dico di preferire la banana senza buccia.

Ps. Qualcuno potrà sostenere che le giovani occidentali sono schiave della moda, costrette ad "apparire" e via dicendo. Qualcuno potrà pensare sia bene non vadano in giro troppo svestite. Un punto su cui si può ragionare. Ma questo non significa accettare il burqa.

Musulmane velate e femministe? “Si può. E senza rincorrere le occidentali”. Secondo il gruppo londinese Maslaha non si tratta di una contraddizione, ma di un fenomeno diffuso. Così, per raccogliere le voci di quante rivendicano fieramente l’appartenenza a entrambe le "categorie", hanno lanciato islamandfeminism.org. "Esiste un altro modo di affermare i propri diritti come donne, del tutto conforme ai precetti religiosi", scrive Federica Marsi l'1 aprile 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Essere femministe e portare il velo. Secondo le donne musulmane del gruppo londinese Maslaha non è una contraddizione, ma un fenomeno diffuso di cui si parla ancora troppo poco. In occasione della Festa della donna, il gruppo ha lanciato una nuova iniziativa, islamandfeminism.org, con l’obiettivo di raccogliere le voci di quante rivendicano fieramente l’appartenenza alla religione islamica e allo stesso tempo al movimento femminista. Latifa Akay, ideatrice del progetto, spiega che il femminismo non è un’etichetta rigida. “Vogliamo parlare di ciò che questo termine significa per le donne musulmane e come possiamo affrontare gli stereotipi che ritraggono l’Islam e il femminismo come due mondi inconciliabili”. Stereotipi presenti non solo nei media, ma anche nella comunità islamica stessa, che vede di cattivo occhio un movimento di matrice occidentale sempre più associato ai gesti provocatori di gruppi come le Femen. “In un primo momento pensavo che essere femminista volesse dire smettere di portare il velo e abbandonare la mia religione – dice Kübra Gümüşay, giornalista di Die Zeit e membro di Maslaha – Ma esiste un altro modo di affermare i propri diritti di donna, del tutto conforme ai precetti islamici”. “Il problema è che si parla di Islam e femminismo come di un fenomeno nuovo, come se fosse una sorta di primavera araba e tutte noi musulmane avessimo deciso da un giorno all’altro di voler essere libere”, dice Hannah Habibi Hopkin, artista le cui opere affrontano con umorismo la percezione occidentale del velo. L’obiettivo principale di Maslaha è proprio quello di riportare alla luce la storia delle tante donne che da tempo si battono per i loro diritti – pur non rinunciando a praticare la loro religione – e creare un punto di incontro e di confronto per quante vogliono intraprendere questa strada. Uno dei temi più spinosi affrontati da islamandfeminism.org è l’alto tasso di disoccupazione delle donne musulmane, sei volte maggiore rispetto alla media femminile a fronte di una richiesta di lavoro quasi uguale. Le donne più svantaggiate provengono da Pakistan e Bangladesh, due terzi delle quali non hanno un reddito. Parte del problema sarebbe la mancata presa di posizione del governo inglese sul tema del niqab, il velo integrale che lascia scoperti gli occhi. Un’inchiesta del Telegraph ha rivelato che molti ospedali impongono alle dipendenti di rimuoverlo per favorire l’interazione con il paziente, cosa che costringe molte donne a rinunciare a un impiego. Tale disagio nei confronti dell’Islam è stato accentuato, secondo Hannah Habibi Hopkin, dalla retorica femminista occidentale, che ha creato un’etichetta assolutista dalla quale la donna musulmana è tagliata fuori. “Il messaggio è, se vuoi essere “liberata” devi essere come me. Invece di imporre uno standard, dovremmo riconoscere il diritto della donna di scegliere il modoin cui vuole vivere la sua vita”. L’associazione Maslaha, il cui nome è traducibile in “bene comune”, è stata nominata tra le 50 organizzazioni che stanno cambiando in positivo il Regno Unito. Cambiamento che Latifa Akay ritiene debba passare per il confronto con chi è diverso. “Il tipo di discriminazione che una donna di colore deve affrontare non è uguale a quello di una musulmana o di una donna inglese. Abbiamo bisogno di comunicare e comprenderci per poter essere tutte parte di quello sforzo comune chiamato “femminismo”.

Storia della donna nell'islam. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La storia della donna nell'Islam è definita tanto dai testi islamici, quanto dalla storia e cultura del mondo musulmano. In base al Corano, il testo sacro islamico, le donne sono uguali agli uomini di fronte a Dio. La Shari'a (Legge islamica) include differenze tra i ruoli di genere, i diritti e i doveri della donna e dell'uomo. Gli interpreti dei testi giuridici islamici hanno diversi giudizi circa l'interpretazione delle norme religiose sulla condizione della donna. Secondo i più conservatori, le differenze tra uomo e donna sono dovute ad un diverso status e responsabilità dei due, mentre il liberalismo musulmano, il femminismo islamico ed altri gruppi hanno argomentato a favore di interpretazioni egalitarie. La condizione della donna nell'Islam, circa i ruoli e le responsabilità delle donne all'interno delle società di cultura prevalente musulmana, dipende grandemente da paese a paese. I paesi a maggioranza musulmana concedono alla donna vari gradi di diritti riguardo a matrimonio, divorzio, diritti civili, status legale, abbigliamento ed istruzione, in base a diverse interpretazioni della dottrina islamica e dei principi di laicità. Tali paesi presentano alcune donne in alte posizioni politiche, ed hanno eletto diversi capi di Stato donna (per esempio Benazir Bhutto in Pakistan).

Fonti coraniche. Numerosi sono i passi del Corano che fanno riferimento alla condizione femminile. Essi sono soggetti ad interpretazione (ijtihād), e le opinioni sul loro significato variano tra quanti affermano che esso preveda una chiara supremazia dell'uomo sulla donna, fino a quanti, attraverso un'interpretazione storico-giuridica, li considerano volti ad un miglioramento progressivo della condizione femminile rispetto alla società araba pre-islamica. Secondo alcuni, tale testo enuncerebbe il principio di superiorità dell'uomo sulla donna. Secondo altri, esso si limita ad enunciare che agli uomini è dato l'obbligo di provvedere al sostentamento economico della famiglia, mentre alle donne è affidata la casa. Ciò che appartiene alle donne, queste lo possono usare per sé, mentre gli uomini il loro denaro lo devono usare principalmente per la famiglia. Precedentemente infatti si dice (IV, 19): «Credenti! Non vi è lecito essere eredi delle proprie mogli contro la loro volontà. Nemmeno costringerle per strappar loro parte di ciò che avete donato loro, a meno che esse non abbiano commesso una turpitudine manifesta.» La donna, finché rimane in famiglia, è sottoposta all'autorità del padre e dopo, quando si sposa, passa sotto l'autorità del marito. Paradossalmente esclusa da questa tutela (wilāya) è la nubile non più giovane (anīs), che può in tutto e per tutto gestirsi senza dipendere dall'altrui beneplacito. Le fonti coraniche circa il diritto ereditario riportano una situazione di disparità. Nella medesima sura "delle donne", è infatti detto in merito all'eredità ai figli "Iddio vi raccomanda di lasciare al maschio la parte di due femmine". Secondo alcuni, ciò va ancora messo in relazione con quanto riportato dalla sura IV, v. 19: gli uomini avrebbero diritto ad una maggiore parte di eredità, in quanto tali soldi dovranno essere spesi per il sostentamento della famiglia. La poligamia è lecita e prevista dal Corano per gli uomini (Sura "delle donne", versetto 3) con la limitazione se temete di non essere giusti con loro sposatene una sola o le ancelle in vostro possesso e al massimo quattro mogli. Questa limitazione ha indotto alcuni commentatori modernisti ad affermare che, poiché è impossibile essere giusti con più di una donna (come è detto nella stessa sura al versetto 129) la poligamia è virtualmente illecita. Della stessa sura si dice se alcune delle vostre donne avranno commesso atti indecenti portate quattro testimoni contro di loro, e se questi porteranno testimonianza del fatto, chiudetele in casa fin che non le coglierà la morte o fin quando Dio apra loro una via. Dai commentatori questa punizione s'intende abrogata dal v. 2 della sura "della Luce", in cui si afferma che l'adultera e l'adultero siano puniti con cento colpi di frusta ciascuno alla presenza di un gruppo di credenti, ma in questo caso si parla di adulterio mentre nell'altra sura si parla di atti indecenti e i commentatori non sono d'accordo se per atti indecenti debba intendersi l'adulterio. Nella sura "della Luce" il v. 31 prescrive che le credenti abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne, non mostrino troppo le loro parti belle ad altri che agli uomini della famiglia e non battano i piedi sì da mostrare le loro parti nascoste. Secondo un'usanza che è precedente al Corano questo versetto proibirebbe alla donne di mostrare il volto e quindi avrebbe giustificato nei tempi passati l'esistenza dei ginecei (harem) in cui erano rinchiuse le donne, custodite nel caso di personalità di grande ricchezza, da guardiani evirati, nonché l'uso oggi in certi Stati islamici di vesti che coprono interamente il viso. Circa l'obbligo di portare il velo e coprire il volto non c'è alcun versetto che lo prescriva espressamente, e nemmeno il v. 59 della sura "delle Fazioni alleate" lo afferma, anche se dice: Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano dei loro mantelli, che sono grandi veli che vanno dalla testa ai piedi. Circa il divieto di battere i piedi forse ci si riferisce alla non liceità del ballo per le donne musulmane, o più semplicemente il divieto di far notare l'avere delle cavigliere preziose battendo i piedi (costume arabo preislamico). Nella sura "del Misericordioso" si parla del paradiso con le vergini a disposizione degli uomini ma è pur vero che lo stesso Testo sacro islamico afferma che esistono anche ghulām (schiavi, paggi). Sono infine frequenti le raccomandazioni ai mariti di trattare con gentilezza e giustizia le loro mogli anche nei rapporti sessuali, in caso di poligamia. Secondo il Corano l'uomo può ripudiare la moglie in qualsiasi momento; la moglie può farlo in caso di maltrattamenti o indifferenza da parte del marito (IV, 128). Il principio della superiorità maschile è infine evidenziato anche nel verso 228 della sura 2: «Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.» (sura 2 verso 228)

L’islam e le donne, scrive l'08/03/2013 Silvana De Mari su magdicristianoallam.it. Coloro che sono nati nei paesi democratici non possono sapere a che punto i diritti che a loro sembrano del tutto naturali sono inimmaginabili per altri che vivono nelle teocrazie islamiche. Avrei meritato, come qualsiasi essere umano, di essere nata in un Paese democratico, non ho avuto questa fortuna, allora sono nata ribelle. Ma che cos'è portare il velo, abitare un corpo velato? Cosa significa venire condannata a essere chiusa in un corpo velato perché femminile? Chi ha il diritto di parlarne? Avevo tredici anni quando la legge islamica si è imposta in Iran sotto la ferula di Khomeini rientrato dalla Francia con la benedizione di molti intellettuali francesi. Una volta ancora, questi ultimi avevano deciso per gli altri quel che doveva essere la loro libertà e il loro avvenire. Una volta ancora, si erano prodigati in lezioni di morale e in consigli politici. Una volta ancora non avevano visto arrivare niente, non avevano capito niente. Una volta ancora, avevano dimenticato tutto, e forti dei loro errori passati, si apprestavano a osservare impunemente le prove subite dagli altri, a soffrire per procura, anche a costo di fare, al momento opportuno, qualche revisione straziante che tuttavia non intaccherà né la loro buona coscienza né la loro superbia. Certi intellettuali francesi parlano volentieri al posto degli altri. E oggi ecco che parlano al posto di quelle che non hanno voce - quel posto che, per decenza, nessuno al di fuori di esse dovrebbe cercare di occupare. Perché, questi intellettuali, insistono, firmano, presentano petizioni. Parlano della scuola, dove non hanno più messo piede da lungo tempo, delle periferie dove non hanno mai messo piede, parlano del velo sotto il quale non hanno mai vissuto. Decidono strategie e tattiche, dimenticando che quelle di cui parlano esistono, vivono in Francia, Stato di diritto, e non sono un soggetto su cui dissertare, un prodotto di sintesi per esercitazioni scolastiche. Smetteranno mai di lastricare di buone intenzioni l'inferno degli altri, pronti a tutto per avere il loro nome in fondo a un articolo di giornale? Possono rispondermi, questi intellettuali? Perché si velano le ragazze, solamente le ragazze, le adolescenti di sedici anni, di quattordici anni, le ragazzine di dodici anni, di dieci anni, di nove anni, di sette anni? Perché si nascondono i loro corpi, la loro capigliatura? Che cosa significa realmente velare le ragazze? Che cosa si cerca di inculcare, di instillare in loro? Perché all'inizio non sono loro ad avere scelto di essere velate. Sono state velate. E come si vive, si abita un corpo di adolescente velata? Dopo tutto, perché non si velano i ragazzi musulmani? I loro corpi, le loro capigliature non possono suscitare il desiderio delle ragazze? Ma le ragazze non sono fatte per avere desideri, nell'islam, solamente per essere l'oggetto del desiderio degli uomini. Non si nasconde ciò di cui si ha vergogna? I nostri difetti, le nostre debolezze, le nostre insufficienze, le nostre carenze, le nostre frustrazioni, le nostre anomalie, le nostre impotenze, le nostre meschinità, i nostri cedimenti, i nostri errori, le nostre inferiorità, le nostre mediocrità, le nostre ignavie, le nostre vulnerabilità, i nostri sbagli, i nostri inganni, i nostri delitti, le nostre colpe, le nostre ruberie, i nostri stupri, i nostri peccati, i nostri crimini? Presso i musulmani, una ragazza, dalla sua nascita, è un'onta da nascondere poiché non è un figlio maschio. Essa è in sé l'insufficienza, l'impotenza, l'inferiorità... Essa è il potenziale oggetto del reato. Ogni tentativo di atto sessuale da parte dell'uomo prima del matrimonio è colpa sua. Essa è l'oggetto potenziale dello stupro, del peccato, dell'incesto e anche del furto dal momento che gli uomini possono rubarle il pudore con un semplice sguardo. In breve, essa è la colpevolezza in persona, giacché essa crea il desiderio, esso stesso colpevole, nell'uomo. Una ragazza è una minaccia permanente per i dogmi e la morale islamici. Essa è l'oggetto potenziale del crimine, sgozzata dal padre o dai fratelli per lavare l'onore macchiato. Perché l'onore degli uomini musulmani si lava con il sangue delle ragazze! Chi non ha udito delle donne urlare la loro disperazione nella sala parto dove hanno appena messo al mondo una figlia invece del figlio desiderato, chi non ha sentito alcune di loro supplicare, invocare la morte sulla loro figlia o su loro stesse, chi non ha visto la disperazione di una madre che ha appena messo al mondo la sua simile, che le rinfaccerà le sue proprie sofferenze, chi non ha sentito delle madri dire: "Gettatela nella pattumiera, soffocatela se è femmina", per paura di essere pestate o ripudiate, non può comprendere l'umiliazione di essere donna nei Paesi musulmani. Rendo qui omaggio al film di Jafar Panahi, Il cerchio, che mette in scena la maledizione di nascere femmina in un Paese musulmano. Charlotte Javanne Giù i veli ed Lindau.

L'8 marzo, la festa della donna. Qualcuno ci regalerà mummificati rametti di mimosa sotto cellophane e soprattutto verranno raccolte inutili firme contro la violenza sulle donne. La violenza sulle donne è stata ufficializzata dall'Onu il 2 agosto 1990 con il riconoscimento della “Libertà dell'uomo islamico di seguire la Umma”, vale a dire la Sharia, così equiparata alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo. Molte persone penseranno inevitabilmente le affermazioni contro le donne, pochissime se paragonate al corano, che possiamo trovare nel Vecchio o nel nuovo Testamento. Il Vecchio e il Nuovo Testamento e il Corano non possono essere interpretati come testi simili. Il Vecchio e il Nuovo Testamento sono ispirati, anche secondo i credenti più ortodossi sono scritti da uomini. Ogni rigo è scritto da un uomo, e ogni uomo è inserito nel proprio tempo e può sbagliare. I grandissimi profeti della Bibbia, tutti, commettono errori, perché sono uomini. La Bibbia è un libro straordinario, scritto da uomini che parla di uomini. Le storie, tutte, sono metafore e come tale vanno interpretate. E sono storie di uomini, non di semidei. Re Davide è the best of the best, the hero, the super hero. Eppure ad un certo punto re Davide manda a morte certa il soldato fedele per fregargli la moglie: questo non vuol dire che questo sia il comportamento encomiabile, vuol dire che tutti, anche il re più grande, può fare porcate. Padre Abramo insieme alla schiava fa un bambino e poi lascia entrambi nel deserto. Vuol dire che questa è una buona cosa? Vuol dire, che chiunque, può fare cose meravigliose ed errori, può dire cose meravigliose ed errori. Il fatto che i padri della Chiesa faccia affermazioni misogine e antisemite, non vuol dire che dobbiamo essere misogini e antisemiti, ma semplicemente che anche loro sbagliano, perché sono uomini. Si può benissimo affermare che quando San Paolo chiede “Donne, siate sottomesse ai vostri mariti, così come al vostro Signore” non ha detto una cosa condivisibile, chi lo afferma resta un ottimo cristiano. Anzi, una persona che affermasse oggi che le donne devono sottomettersi ai mariti perché lo dice San Paolo, dovrebbe risponderne. San Paolo era giustificato dal fatto di essere un uomo del suo tempo, noi non lo siamo più.  Essendo i nostri testi sacri scritti da uomini, devono sempre essere contestualizzati al periodo storico cui appartengono. E devono sempre essere elaborati in un lavoro di interpretazione che si chiama filologia, il che chiarisce come il mio pensiero sia comunque sempre il primo strumento con cui mi metto in contatto con la Divinità. Il Corano non è ispirato, è dettato, il Corano è Dio, è increato, esiste da prima dell’esistenza del mondo. Non è permessa alcuna elaborazione filologia e l’affermazione che il Corano è increato all'ulteriore problema di annullare il concetto di causa e effetto, e il concetto libero arbitrio. Nell’islam ogni distinzione tra religione e stato è impensabile, non è ipotizzabile. Chiunque pensi che sia possibile non conosce il corano e la vita di Maometto, cioè non conosce l'Islam. I periodi di laicità nell'Islam sono stati brevi, blindati da personaggi autarchici, come Ataturk in Turchia o lo si ha in Persia e terminano inesorabilmente.

L’islam e le donne. Nell’islam ci sono 3 pilastri: il corano, la vita di Maometto e la umma (l’insieme dei precetti). Il corano, che è increato, è Dio, ogni sillaba è legge e sempre lo sarà. La vita di Maometto è al di sopra di ogni critica. Qualsiasi cosa abbia fatto Maometto non può essere criticata. Chiunque critichi la poligamia sta criticando sia il Corano che lo stesso profeta Maometto. Il problema drammatico è che delle numerosissime mogli di Maometto la preferita è stata terza, Aisha. Aisha è stata sposata quando lei aveva sette anni. Il matrimonio è stato consumato quando aveva nove anni. Chiunque affermi che una bambina di sette anni non deve sposarsi sta criticando Maometto cioè sta commettendo blasfemia. Questo il motivo per cui quando l'ayatollah Khomeini giunse al governo in Iran la seconda legge che fece fu di abbassare a otto anni l'età minima del matrimonio per le donne, la prima legge fu di istituire la lapidazione. All'età di otto anni una bambina diventa adulta, può essere sposata può essere lapidata, deve portare il velo. La più piccola lapidata in Iran aveva 12 anni e aveva subito uno stupro. Maometto dichiarò più volte che la giovanissima sposa era di gran lunga la sua preferita. Nonostante questo lei però è riuscita a facilitare la sua voce: nell'Islam il destino delle donne è dolore. Il matrimonio con bambina è legale sempre più paesi, oltre ovviamente, era la sua vita, e si sta diffondendo soprattutto in Gran Bretagna. Sono diverse centinaia i casi fino adesso dimostrati di bambine di otto anni già sposate, vanno a scuola con le loro divise simili a quelle di via di Hatty Potter, e il dolore della deflorazione. Se sono centinaia di casi di bambine di otto anni sono migliaia di casi di bambine in tutta Europa sposate a 12 13 14 anni.

La lapidazione fu istituita da Mosè nell’età del bronzo, quando la punizione draconiana dell’adultera era la norma ovunque, la necessità per uscire dalla preistoria e entrare nella storia che gli uomini fossero certi della paternità dei figli che mantenevano e per i quali si ammazzavano di lavoro. Fu poi abbandonata sempre di più. Nella Bibbia il successivo dove ci siano contraddizioni annulla il precedente e ben prima di Gesù compare l’11esimo comandamento, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. L’episodio riportato nel Vangelo di Giovanni sull’adultera è una discussione tra ebrei, dove tutti arrivano alla conclusione che è meglio lasciar perdere. Dopo secoli che l’adultera era stata graziata, quando ormai i tempi della lapidazione erano ovunque finiti Maometto la istituisce di nuovo e le permette di traghettare i secoli.

La punizione dell’adultera protegge gli stupratori. Dato che nella sharia più stretta perché sia riconosciuto la stupro, e dato che la parola della donna non ha valore, perché ci sia stato stupro occorre che quattro uomini d’onore abbiano assistito e testimonino che la donna non era consenziente. In tutti gli altri casi l’uomo afferma che lei era consenziente, la parola di lei vale di meno e il risultato che la donna stuprata di trova ad affrontare lei il giudizio per immoralità.

Il velo islamico è sancito dal verso del Corano impone alle donne di coprire le parti belle. Possiamo discutere cosa sono le parti belle questo il motivo per cui per secoli il velo non è mai stato usato nell'Islam dell'estremo oriente e stava quasi scomparendo verso la metà del secolo scorso. La moglie di Assad e Rania di Giordania vestono all’occidentale perché quali siano le parti belle è un precetto della umma, quindi qui margini di discussione ci sono. Sono i genitali e il seno oppure gli occhi e il sorriso? Il velo è stato imposto a tutti negli anni 80 ed è un punto fondamentale. Il velo è una prigione di tela. La razza umana si è evoluta al sole. La mancanza di sole sulla pelle causa rachitismo, osteoporosi, carie, depressione cronica per mancanza di vitamina D e di serotonina. Il velo nei paesi islamici e imposto anche le donne non islamiche. Questo sta succedendo anche sul suolo europeo. In Gran Bretagna della divisa delle poliziotte fa anche parte il velo islamico d'ordinanza, che deve essere obbligatoriamente portato quando entrano in quartieri maggioranza islamica. Nelle piscine, nelle ore in cui sono affittate dagli islamici, le bagnine l'obbligo di indossare il burkini. In Afghanistan era sufficiente avere una caviglia scoperta per essere condannate a morte. Le donne che portavano lo smalto hanno avuto le dita amputate con le tronchesine. Il caso più atroce è il terribile racconto delle quindici ragazze morte nell’incendio della loro scuola in Arabia Saudita nel Marzo del 2002. Non essendoci uomini nella scuola, le ragazze avevano tolto l’abito Islamico per le lezioni. La polizia saudita religiosa, la muttawa, non ha permesso loro di uscire dalla scuola in fiamme perché non erano velate. Non hanno aperto i cancelli e le ragazze sono bruciate vive. La morte delle ragazze era preferibile al rischio di esporre gli uomini del vicinato a pensieri impuri.

Altro punto fondamentale differenza dell'Islam con le altre religioni e che nell'Islam è ufficialmente autorizzato lo stupro etnico, vietato invece nella spiritualità biblico evangelica dal comandamento non desiderare la donna degli altri. Sta scritto nel Corano. Il Corano nella sura 4:24 dice: E vi sono vietate le mogli sposate di altri popoli a meno che non siano cadute nelle vostre mani (come prigioniere di guerra o schiave comprate)...

Questo vieta a un vero credente l'adulterio con una donna dei popoli infedele, ma non gli vieta lo stupro. Inoltre Maometto prese come concubine delle donne prede di guerra. Chi critichi questa pratica quindi commette blasfemia. Quando per il favore divino la fortezza fu espugnata, il nemico perdette ogni forza e fu incapace di reagire. Il popolo fedele non incontrò più ostacoli e pose mano al saccheggio in piena sicurezza. Si potrebbe dire che la vista della possibilità di poter fare bottino di ragazzi e belle donne devastasse i loro cuori e i loro animi. Trassero fuori da tutti i palazzi, che uguagliavano il palazzo di Salomone e si avvicinavano alla sfera del cielo, trassero nelle strade strappandole dai letti d’oro, dalle tende tempestate di pietre preziose, le beltà greche, franche, russe, ungheresi, cinesi khotanesi, cioè in breve le belle dai morbidi capelli, uguali alle chiome degli idoli, appartenenti alle razze più diverse, e i giovinetti che suscitavano turbamento, incontri paradisiaci. Questa è la descrizione della presa di Costantinopoli da parte di Maometto II. Il brano è preso da “Storia del signore della conquista” di Tarsun Beg Kemal, vale a dire è il racconto ufficiale, quello su cui i bambini turchi studiano la storia. Quindi lo stato turco comincia la sua storia con: abbiamo violentato le donne e i ragazzini. Anche in Europa, certo, sempre, ma almeno ufficialmente era vietato. Non si poteva scrivere. E quando le cose sono vietate ufficialmente tempo pochi secoli (non è ironico) scompaiono. Quando non sono vietate ma incoraggiate anche nelle linee teoriche non possono scomparire mai. Questo verso fa sì che in Europa, (UK e Norvegia) percentuali di cittadini di origine islamica di seconda e terza generazioni dichiarino in percentuali variabili che ritengono le donne occidentali, che non portano il velo e soprattutto quando abbiano comportamenti promiscui, una giusta preda. Su questo concetto si è basata l’aggressione di 8 uomini islamici pachistani, dai media pudicamente definiti asiatici, a 631 ragazzine inglesi cristiane con situazioni familiari molto fragili, accolte cioè in case di accoglienza, attirate con promesse di piccoli doni, schede telefoniche, cellulari, e stuprate sistematicamente. Tre di loro si sono suicidate. Assistenti sociali per mesi si sono rifiutate di dare peso alle denunce delle ragazzine perché l’uomo islamico che insidia la ragazzina bionda fa tanto “balla razzista “che per evitare l’accusa di islamofobia, hanno preferito non credere. Non è un caso che tutto sia saltato fuori grazie a un giudice di origine pachistana. Tutti i magistrati inglesi di origine inglese sono stati paralizzati dal terrore di essere accusati di razzismo e islamofobia. L’accusa di razzismo e islamofobia è gravissima: tutte le associazioni islamiche e quelle “antirazziste” attaccano chiedendo risarcimenti milionari. Quello che hanno pensato magistrati e assistenti sociali è: Se faccio un processo: uomini islamici contro ragazzine inglesi e risulta una falsa accusa, rischio di essere massacrato anche economicamente oltre che uscire dalla società civile. Meglio far finta di niente. Poche settimane fa una corte inglese ha prosciolto dall’accusa di stupro un islamico di seconda generazione asserendo che fa parte della sua civiltà il non comprendere che una ragazza che porti abiti succiniti e sia andata in discoteca abbia il diritto di rifiutare l’atto sessuale.

L’islam e le donne in Europa e USA. Il fatto che la sharia sia stata equiparata dall’Onu, di cui noi facciamo parte, alla Dichiarazione dei Diritti, fa sì che essa sia accettata anche in Europa. Contrariamente alla base della democrazia, leggi uguali per tutti, il multiculturalismo prescrive leggi diverse a seconda del gruppo di appartenenza. Il divieto di picchiare la propria moglie che si rifiuti di accondiscendere ai doveri coniugali, il divieto di sopprimere una figlia che si sia coniugata con un non musulmano, vietato dalla umma, violano “La libertà dell’Uomo islamico di seguire la Umma”. Nel contesto della tutela delle minoranze, le minoranze islamiche richiedono il riconoscimento della shari’a (legge islamica), nell’attuazione dell’autonomia collettiva. Il Regno Unito ha riconosciuto le corti arbitrali islamiche (volontarie) in materia di diritto di famiglia e per una certa parte anche di diritto contrattuale. In molti Stati europei, le istituzioni sono di fronte al dilemma del riconoscimento di istituzioni giuridiche islamiche come, per esempio, la poligamia, attraverso le richieste di unione famigliare per moglie e figli dei matrimoni poligami. Il Norvegia la poligamia è raccomandata sugli opuscoli in arabo e norvegese per “l’integrazione” finanziati dal governo e sempre più numerosi sono i casi di poligamia norvegese, non come ricongiungimento. Cittadini europei non possono sposare donne con la cittadinanza di paesi islamici perché le ambasciate rifiutano di far avere i documenti necessari al matrimonio se l’uomo non si converte all’islam, in quanto la sharia, riconosciuta dall’Onu e quindi da tutti i paesi che appartengono all’Onu, vieta il matrimonio tra una donna islamica e un occidentale, perché il marito è superiore alla moglie e l’islam sempre deve dominare e non può essere dominato. Le istituzioni hanno già abdicato alla difesa dei minori perché permettono che bambine anche di otto anni vadano a scuole velate: la mancanza di vitamina d e serotonina è un danno anche fisico. Le istituzioni pronte a intervenire se una bambina occidentale di 12 o 13 o 14 anni resta incinta, non intervengono quando la ragazzina è islamica. I matrimoni con minori non sono ufficiali, sono celebrati solo con rito islamico, ma sono riconosciuti. L’aumento vertiginosi su suolo europeo del delitti d’onore e l’indifferenza che accompagna questo dato è sconvolgente. Nell’islam un verso del corano autorizza a picchiare le mogli se rifiutano l’atto sessuale e dato che nell’islam nel matrimonio la sposa non è presente e il suo consenso non è ritenuto necessario, l’obbligo a subire il contatto con il marito sempre è particolarmente odioso. Lo scopo della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo era riconoscere che tutti gli uomini hanno alcune caratteristiche in comune, e che una di queste caratteristiche è l'anelito alla libertà, una caratteristica che appartiene alle tre sfere dell'umanità, il corpo alla mente l'anima. L'anelito alla libertà del mio corpo, che però va sbagliato essere costretto a subire dolore della motivazione, a subire l'arbitrio del digiuno, a subire la mancanza del sole, a subire l'oltraggio assoluto di una sessualità imposta. Il fatto che le femmine scelgano chi sarà il padre dei loro figli e che questa scelta sia inappellabile, è la base dell'evoluzione. La libertà appartiene alla mia mente, dando quindi il diritto di pensiero, il diritto di parola, il diritto di leggere e scrivere quello che mi pare, il diritto di fare vignette e film senza essere ammazzata. La libertà appartiene alla mia anima: il diritto di credere alla regione che voglio, e il diritto di informare le persone che amo e anche quelle di cui non mi importa un accidenti che secondo me la religione a cui credo particolarmente bella. La sedicente tolleranza che ha equiparato la Sharia alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo ha avuto ha avuto diverse conseguenze devastanti. Il concetto base dell'autodeterminazione dei popoli: se a un popolo la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo gli fa schifo, non possiamo certo imporla. I tagliolini con il parmigiano, per esempio a noi piacciono moltissimo, ma i cinesi trovano il concetto del formaggio assolutamente ripugnante. Nell'Amazzonia mangiano le tarantole: sono proteine pure, sicuramente permesse nella dieta Dukan, ma da noi non hanno attecchito. Il concetto di libertà quindi, in tutto questo, passa da un costituente del pacchetto base dell'individuo a un optional. Se un popolo la libertà non lo vuole, non si può imporre. La biologia e la psicologia ci dicono che l'amore per la libertà è un costituente irrinunciabile dell'individuo. La tragedia sono le due pseudoscienze che negano l'individuo: antropologia e sociologia. L'antropologia e la sociologia hanno dignità di scienza solo quando sono una branca della psicologia che a sua volta ha dignità di scienza solo se resta una branca della medicina. Nel primo anno della facoltà di psicologia si studiano biologia, genetica, anatomia del sistema nervoso centrale e neuroscienze. Questa formazione manca nelle facoltà di antropologia e sociologia, che quindi porta un'inversione del pensiero. L'unità di misura dell'uomo, è il gruppo, la società, il popolo sono insieme di individui ognuno diverso dall'altro ognuno con il libero arbitrio. Un uomo è facile misurare. Finisce dove finisce la sua pelle e comincia con il posto dove sente il dolore e scegliere cosa fare. Il popolo, l’etnia, sono concetti astratti. La civiltà della Somalia è l’infibulazione ma la scrittrice Hirsi Alì rifiuta che sia la sua civiltà. La civiltà pachistana è, in questo momento, è l’islam. I cristiani fanno parte di questa civiltà? L’accettare le altre civiltà calpesta le minoranze e i dissidenti. Inoltre molte donne islamiche vogliono essere picchiate e che la loro libertà sia spazzatura, ci assicurano gli iman.  Le alternative sono due. O questa affermazione è falsa, o è vera, e il secondo caso è ancora più grave: vuol dire che la psiche è stata talmente devastata dall’infernale mistura di disprezzo e violenza gratuita da avere interiorizzato lo schema della persecuzione. In Europa le immigrate sono minacciate se non portano il velo, uccise se vogliono vivere all’occidentale. I mariti spesso ricevono piccole somme se “convincono” le donne ad essere velate. Il corano descrive il paradiso: Dio è assente nel paradiso islamico, la sua contemplazione non c’è. Il paradiso è inoltre separato, maschi e femmine, quindi un uomo non incontrerà più la sua sposa. Nel paradiso dei maschi vergini e giovinetti bellissimi vestiti di verde, zampilli di acqua, vino, musica, giardini.

Nel paradiso delle femmine fichi ed uva. Quindi questo ci dà la spiegazione di tutto.

Le mutilazioni sessuali, il delitto d’onore, la lapidazione, il velo, il burka, le botte non sono gesti di astio verso le donne, ma una cortesia. Solo dopo che ogni istante della tua vita è stata resa un vero inferno, puoi passare l’eternità al reparto ortofrutta dell’ipercoop avendo anche l’impressione di averci fatto un affare. Silvana De Mari

Un omaggio appassionato a Theo Van Gogh, che ha raccontato il martirio delle donne islamiche nel film Submission e per questo è stato ucciso, aperto in due come un panino da vivo, come ha detto con fierezza il suo assassinio. Nessuna televisione ha osato trasmettere il suo film.

COOPERANTI E VOLONTARIE. SE LA SONO CERCATA: “LE STRONZETTE” E LE SMANIE DI ALTRUISMO.

Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. “Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.

Due opinioni tranchant sul rapimento di Silvia, scrive Mirko Giordani il 23 novembre 2018 su "Il Giornale". Il rapimento della giovane cooperante è un fatto drammatico, e sinceramente non voglio discettare sul perchè la ragazza non sia rimasta in Italia ad aiutare qualcuno più vicino casa, magari gli anziani della locale casa di riposo. Sono scelte personali e come tali vanno rispettate. Io, ma nemmeno voi cari lettori, non siamo nessuno per poter decidere della vita di Silvia. E nemmeno il tuttologo Gramellini. Detto questo, io avrei fatto altre scelte, ed il volontariato in Africa non è attualmente tra le mie priorità. Se devo andarci in Africa, ci andrei solo in vacanza a fare qualche safari, magari protetto da squadre di contractors. Ma anche le mie sono scelte personali. Detto questo, vorrei elencare però due cose importanti, quando si parla di partire per fare volontariato in posti oggetivamente pericolosi. Perchè è inutile prenderci in giro con gli orpelli retorici ed i bisticci tra le parti politiche, ed è meglio per tutti andare subito al nocciolo della questione. Per prima cosa, ma come è possibile che una Onlus parta verso l’Africa e non abbia nessun personale di sicurezza privato? Si, parliamo di contractors, gente con fucili in mano che dovrebbe essere pagata per proteggere le persone che vanno a fare volontariato in posti sperduti e pericolosi come quello dove si trovava Silvia. La Onlus dovrà rispondere di queste negligenze, perchè è ora di dire basta alle visioni romantiche del mondo dei cooperanti: si trovano ad operare in contesti sociali, economici e di sicurezza catastrofici e per questo i cooperanti vanno protetti, anche con le maniere forti. Seconda cosa è sul modus operandi che dovrebbe portare alla liberazione della ragazza. Se abbiamo delle forze speciali e dei servizi segreti efficienti, mettiamoci d’accordo con le autorità keniote e liberiamo Silvia. Più sborsiamo soldi, e più facciamo capire alle bande di criminali in giro per il mondo che l’italiano è un bancomat ambulante, aumentando sempre di più il rischio di rapimenti e di preoccupazioni per i familiari rimasti in Italia. Bisognerebbe far capire che se rapisci un italiano, un reggimento di incursori potrebbe entrare nel tuo covo e fare un po’ di casino. Detto questo, forza Silvia!

Cappuccetto Rosso, scrive Giovedì 22 novembre 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenyada una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto. Ci sono però una cosa che non riesco ad accettare e un’altra che non riesco a comprendere. Non riesco ad accettare gli attacchi feroci a qualcuno che si trova nelle grinfie dei banditi: se tuo figlio è in pericolo di vita, il primo pensiero è di riportarlo a casa, ci sarà tempo dopo per fargli la ramanzina. E non riesco a comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da avere dimenticato i propri vent’anni. L’energia pura, ingenua e un po’ folle che a quell’età ti spinge ad abbracciare il mondo intero, a volerlo conoscere e, soprattutto, a illuderti ancora di poterlo cambiare. Le delusioni arrivano poi, quando si diventa adulti e si comincia a sbagliare da professionisti, come canta Paolo Conte. Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù dei lamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza.

La riscrivo, scrive Venerdì 23 novembre 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". Nella tazzina di ieri difendevo Silvia, la cooperante rapita in Kenya, dalla solita accusa di essersela andata a cercare. Per tutto il giorno mi è toccato rispondere alle mail di lettori che criticavano il mio eccesso di empatia nei confronti della ragazza e degli ideali di gioventù. Mai avrei immaginato che nel frattempo, dentro al mondo dei social, si stesse alzando una marea di segno opposto. Era successo questo: qualche furbacchione aveva preso l’incipit della rubrica - dove riconoscevo la logica di alcune argomentazioni contro la cooperante per arrivare nelle righe successive a rovesciarle - e me lo aveva attribuito. A quel punto è partito lo «shit storm». Centinaia di gabbiani da tastiera hanno trovato il tempo per insultarmi e minacciarmi, ma non per leggere il Caffè fino in fondo: e sì che è piuttosto breve. In tanti anni di corsivi quotidiani ho scritto la mia quota parte di sciocchezze, ma non ho mai replicato a un attacco ingiusto. Se stavolta lo faccio, è solo per segnalare un pericolo che ci riguarda tutti. I social hanno instaurato la dittatura dell’impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di una minoranza esigua, ma non trascurabile, perché determinata a usare uno strumento alla moda per condizionare, storpiandola, la realtà. Persone che, in nome del Bene, arrivano ad augurarti di morire. E hanno talmente fretta di fartelo sapere da non accorgersi nemmeno che su Silvia tu la pensi come loro.

Gramellini: "Silvia Romano se l'è cercata". Il web lo minaccia di morte. L'editorialista del Corriere della Sera è stato vittima di una "shit storm" sui social, comprese alcune minacce di morte, per avere scritto che la cooperante rapita in Kenya è affetta da "smanie di altruismo". Lui minimizza: "Gabbiani da tastiera", scrive Gianni Carotenuto, Venerdì 23/11/2018, su "Il Giornale". Insultato e minacciato di morte. È quanto successo a Massimo Gramellini, firma del Corriere della Sera e autore di un editoriale dedicato alla vicenda di Silvia Romano, la cooperante italiana a di Orphan's Dreams rapita in Kenya da un commando armato lo scorso 20 novembre. Ieri Gramellini, nell'incipit della sua rubrica quotidiana Il Caffé, aveva scritto che la 23enne "avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas" anziché "rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta", dato che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto". Apriti cielo. In men che non si dica il giornalista è diventato trending topic su Twitter, finendo per essere investito da un'ondata di violenza verbale senza precedenti. "Troglodita", "Vaff...", "Imbecille" sono alcuni degli epiteti che il popolo del web ha riservato all'editorialista del Corriere, accusato di avere espresso un'opinione in linea con il "fascioleghismo dilagante". Ma lui tira dritto. "Nella tazzina di ieri difendevo Silvia, la cooperante rapita in Kenya, dalla solita accusa di essersela andata a cercare. Per tutto il giorno mi è toccato rispondere alle mail di lettori che criticavano il mio eccesso di empatia nei confronti della ragazza e degli ideali di gioventù", scrive oggi Gramellini, prendendosela con le "centinaia di gabbiani da tastiera" che "hanno trovato il tempo per insultarmi e minacciarmi, ma non per leggere il Caffè fino in fondo: e sì che è piuttosto breve". In effetti, nella rubrica di ieri l'ex direttore de La Stampa si "correggeva" subito dopo, spiegando che "Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù dei lamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama 'frustrata', 'oca giuliva' e 'disturbata mentale' non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza". Insomma, un pensiero in linea con la storia personale del giornalista. Che nell'editoriale di oggi si sfogia così: "I social hanno instaurato la dittatura dell’impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di una minoranza esigua, ma non trascurabile, perché determinata a usare uno strumento alla moda per condizionare, storpiandola, la realtà. Persone che, in nome del Bene, arrivano ad augurarti di morire".

Cooperante italiana rapita: i precedenti (e i riscatti pagati). Silvia Costanza Romano è stata sequestrata come Greta Ramelli, Vanessa Marzullo, Simona Pari e Simona Torretta e altre, scrive Eleonora Lorusso il 23 novembre 2018 su "Panorama". “Siamo pronti a trattare”. Sarebbe questa la posizione dell’Italia, mentre ancora non ci sono notizie di Silvia Costanza Romano, la 23enne cooperante originaria di Milano, rapita il 20 novembre nella contea di Kifili, in Kenya, a circa 80 km da Malindi. Il timore è che la massiccia presenza di forze dell’ordine keniote (ed esercito) possa spaventare i sequestratori, facendo loro commettere un gesto estremo. Le trattative in questi casi sono estremamente delicate, come dimostrano i casi di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria nel 2015, e poi rilasciate dietro pagamento di un riscatto, mai ufficializzato dalla Farnesina e dalle autorità italiane. Anche nel caso delle “due Simone” (Simona Pari e Simona Torretta, sequestrate nel 2004 in Iraq) non si parlò esplicitamente di riscatto per la liberazione. Nell’elenco delle donne nostre connazionali rapite all’estero ci sono anche Rossella Urru, Clementina Cantoni, Jolanda Occhipinti, ma anche della giornalista Giuliana Sgrena, nella cui operazione di liberazione perse la vita il funzionario del SISMI (i servizi segreti militari) Nicola Calipari.

2018, Silvia Costanza Romano. Originaria di Milano, la 23enne ha studiato presso la Unimed CIELS del capoluogo lombardo, ha lavorato come istruttrice di ginnastica presso la S.G. Pro Patria, sempre a Milano. Come cooperante lavorava per Africa Milele Onlus, con sede a Fano nelle Marche, occupandosi di progetti di sostegno a favore di bambini in Kenya. E’ stata prelevata il 20 novembre da un commando armato nella villaggio di Chakama, nel sud est del Paese. In zona proseguono le ricerche della giovane. Droni sorvolano la foresta adiacente al villaggio dove la cooperante era sola, dopo la partenza di altri cooperanti e in attesa dell’arrivo di altri connazionali. Si teme che sia stata rapita da criminali locali, ma non si esclude la mano di Al Shabaab, organizzazione fondamentalista islamica già attiva anche in altre zone dell’Africa e responsabile di precedenti rapimenti. La Farnesina e l’intelligence mantengono il massimo riserbo, ma non si esclude che si voglia avviare un negoziato con i sequestratori, escludendo un blitz armato.

2014, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Dall’Africa alla Siria, è qui che vennero rapite Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, nel 2014. Era la notte tra il 31 luglio e il 1° agosto quando le due ragazze, entrambe ventenni, furono prelevate ad Aleppo. Il rilascio avvenne il 15 gennaio del 2015, dopo una lunga trattativa che coinvolse il Fronte di al-Nusra, legato ad Al Qaeda. Il dibattito sulla loro liberazione fu lungo e costellato di polemiche. Il pagamento di un riscatto venne come sempre smentito dal Governo italiano nella persona dell’allora ministro degli Esteri, Gentiloni, che parlò di notizia “priva di fondamento”. Ma fonti giudiziarie siriane parlarono apertamente di 11 milioni di euro. Il "tribunale islamico" del Movimento Nureddin Zenki, una delle milizie che sarebbero state coinvolte nel rapimento, nel 2015 ha condannato Hussam Atrash, indicato come uno dei “signori della guerra” locali, capo del gruppo Ansar al Islam e coinvolto nel negoziato per la liberazione. Il reato sarebbe consistito proprio nell’aver trattenuto circa metà del riscatto. I restanti 7 milioni e mezzo - affermarono fonti di Atareb interpellate all’epoca dall'ANSA telefonicamente - sarebbero stati divisi tra i restanti leader islamisti del posto.

2011, Rossella Urru: dal sequestro al matrimonio. La cooperante italiana del Cisp in Algeria, è stata vittima di un sequestro a 29 anni nel Paese africano con altri due colleghi spagnoli (Enric Gonyalons e Ainhoa Fernandez) la notte tra sabato 22 e domenica 23 ottobre 2011. Si trovava nel campo profughi di Hassi Raduni, nel deserto algerino sud occidentale. Originaria della Sardegna, laureata in Cooperazione internazionale a Ravenna, al momento del sequestro lavorava a un progetto umanitario per il Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli. Del suo rapimento si era avuta notizia solo un mese e mezzo dopo i fatti, per evitare polemiche e permettere di avviare negoziati per la liberazione, avvenuta il 18 luglio del 2012 in Mali. Per il rilascio dei tre ostaggi i rapitori avevano chiesto 30 milioni di euro, ma il governo italiano non ha mai parlato di pagamento. Dopo i 270 giorni di prigionia e il ritorno in Italia, Rossella Urru si è sposata con Enric, con una cerimonia celebrata a Samugheo, in provincia di Oristano. Il loro amore pare sia nato proprio in quella circostanza.

2011, Maria Sandra Mariani. In questo caso ad essere rapita non fu una giovane cooperante, bensì una turista di 53 anni, Maria Sandra Mariani, originaria di Firenze, catturata nel sud dell'Algeria nel febbraio del 2011. Il suo è stato il sequestro più lungo: venne rilasciata ad aprile 2012. Suo padre, intervistato da Panorama.it, si disse favorevole al pagamento di un riscatto e lasciò intendere che la Farnesina all’epoca avesse operato in tal senso, nonostante le dichiarazioni contrarie del ministero degli Esteri.

2008, Jolanda Occhipinti. L’infermiera di Ragusa, in Sicilia, lavorava come cooperante della ong Cins e venne rapita il 21 maggio 2008 a 65 chilometri a sud di Mogadiscio, in Somalia, insieme a Giuliano Paganini, agronomo di Pistoia, in Toscana. Nel loro caso le modalità di rilascio, dopo 76 giorni, sono rimaste ancora più avvolte nel mistero rispetto a casi analoghi, esattamente come l’eventuale pagamento di riscatto. Dieci anni fa si parlò di 700 mila dollari, somma fatta trapelare da alcune fonti somale. Ma il Governo e la Farnesina smentirono, confermando una linea di gestione dei sequestri improntata al massimo riserbo. Altre informazioni, invece, indicarono in 100mila dollari la somma pattuita per la liberazione di Jolanda Occhipinti e del collega, alla sarebbe seguita la promessa di un’altra tranche, dopo la liberazione. In questo caso l’età dei due rapiti era superiore rispetto alla media: 51 anni lei, 66 lui.

2005, Clementina Cantoni. Si tratta in questo caso nuovamente di una cooperante, rapita a Kabul, in Afghanistan, il 16 maggio 2005 mentre si reca a una lezione di yoga. L’allora 32 enne, prestava servizio presso Care International. La donna, secondo quanto riferito inizialmente dall'ambasciatore Sequi, sarebbe a bordo di un'auto insieme ad altre due persone (l'autista ed un occidentale), quando un'altra vettura avrebbe bloccato l'auto su cui si trovava la cooperante, prelevandola. La donna sembra stesse per rientrare in Italia dopo due anni di lavoro in Afghanistan. Il suo rilascio avvenne meno di un mese dopo, ma questa volta senza polemiche. Per la Cantoni non sono organizzate manifestazioni di piazza e la famiglia chiese riserbo. Secondo la versione ufficiale la liberazione fu possibile grazie a uno “scambio”, con la madre del rapitore, ma il governo afgano ha sempre negato questa ipotesi, respingendo al mittente l’idea di aver trattato per la fine del sequestro.

2005, Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calipari. In questo caso non si è trattato di una cooperante. La giornalista del Manifesto venne rapita davanti all'Università di Baghdad il 4 febbraio 2005 e rilasciata un mese dopo, ma le polemiche furono roventi come nei casi precedenti e successivi. Nell’operazione di liberazione, infatti, morì l'agente dei servizi segreti militari Nicola Calipari, che venne raggiunto da alcuni colpi di pistola in auto, sulla via dell'aeroporto di Baghdad, mentre faceva scudo alla reporter. In quel caso si ipotizzò anche il pagamento di 6 milioni di dollari. La discussione successiva alla liberazione riguardò anche il libro Il mese più lungo (Marsilio, 2015) dell'ex direttore del Manifesto, Gabriele Polo, nel quale la vedova Rosa Calipari, poi deputata Pd, parlò di una direzione del Sismi “ambigua che agiva machiavellicamente su due linee strategiche opposte e alla fine contrapposte, un gioco che costerà la vita a Nicola”. Il riferimento era alla linea della trattativa, portata avanti da Calipari stesso ma osteggiata dagli Usa, e quella del blitz, preferito da Washington e sostenuto Marco Mancini, del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

2004, Le “due Simone”. Simona Pari, di Rimini, e Simona Torretta, di Roma, entrambe 29enni, furono sequestrate negli Uffici della onlus “Un Ponte per…” a Baghdad il 7 settembre del 2004. L’allora premier Berlusconi attivò una task force e inviò in Iraq il Sottosegretario agli Esteri, Margherita Boniver, per condurre una trattativa per la liberazione. Seguirono giorni di notizie e smentite sullo stato in cui si sarebbero trovate le giovani. Il rilascio avvenne tre settimane dopo grazie anche al contributo di Maurizio Scelli, avvocato ed ex Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, oltre che dei servizi segreti americani (che fecero sapere di avere intercettato la voce di una delle due italiane attraverso un sistema di controllo satellitare). Il direttore del quotidiano kuwaitiano Al-Rai Al-Amn, affermò anche la liberazione sarebbe avvenuta con certezza perché il riscatto chiesto era stato pagato: si parlò di circa mezzo milione di dollari. Il Times di Londra ipotizzò invece un riscatto da cinque milioni di dollari.

Per Bagdad partì anche una delegazione dell’Ucoii, l’Unione delle Comunità islamiche italiane, Roberto Amza Piccardo. Il 28 settembre le ragazze tornarono in libertà, ma le polemiche già roventi divamparono ancora di più. Le due giovani, infatti, non ringraziarono né lo Stato italiano né la Croce Rossa, che si erano spesi attivamente per il rilascio. Si fecero fotografare con un Corano in mano, regalato loro dai rapitori. Il quotidiano Libero le definì le "Vispe Terese" "che beatificano i terroristi e dicono: il nostro posto è a Baghdad. Tanto se le ribeccano paghiamo noi”. 

Tutti gli ostaggi italiani uccisi, liberati o ancora prigionieri. I connazionali nelle mani dei terroristi: dalla tragedia di Piano e Failla al ritorno a casa di Calcagno e Tullicardio fino al mistero su Padre Dall'Oglio, scrive "Panorama" il 4 marzo 2016.

I primi ostaggi del 2004. È il primo rapimento e risale al 2004. Siamo in Iraq dove a Baghdad vengono sequestrati quattro appaltatori, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene barbaramente giustiziato, gli altri riescono a tornare a casa. Lo stesso anno, sempre in Iraq, vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, che perderà la vita poco dopo, e due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, che invece riusciranno a riabbracciare i propri cari dopo 19 giorni di prigionia. Li sequestrano, spesso li giustiziano. Alcuni, invece, dopo estenuanti trattative riescono a tornare a casa. Sono gli ostaggi italiani finiti nel terribile vortice dei rapimenti per opera dell'Isis o di gruppi terroristici affini.

2016 - Due morti e due liberazioni. Era da poco rientrata dal Cairo la salma del giovane ricercatore Giulio Regeni che in Libia si è consumata un'altra tragedia. Fausto Piano e Salvatore Failla, i dipendenti della società di costruzioni Bonatti rapiti nel 2015, sono stati uccisi in uno scontro a Sabrata mentre le forze di sicurezza lanciavano un raid contro la colonna di jihadisti. Migliore la sorte degli altri due dipendenti della ditta di Parma, Gino Tullicardo e Filippo Calcagno che, sequestrati il luglio scorso nella zona di Mellitah a 60 chilometri di Tripoli dopo uno scontro tra fazioni rivali, torneranno in Italia presto. Due dei quattro tecnici italiani sequestrati in Libia lo scorso luglio sono stati uccisi. Lo ha comunicato la Farnesina, dopo un esame di alcune immagini di vittime di una sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, "apparentemente riconducibili a occidentali". La Farnesina ha spiegato che si tratta di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, rapiti nel luglio 2015, e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla". Ma "in assenza della disponibilità dei corpi", sono in corso verifiche. "Posso solo dire che sono stati uccisi nello scontro a fuoco" ha dichiarato all'ANSA, il presidente del Consiglio militare di Sabrata, Taher El-Gharably, rispondendo ad una domanda sulla morte dei due italiani in Libia e dicendosi non in grado di precisare chi ne abbia causato la morte. Il miliziano, contattato al telefono, ha ammesso di avere solo conferme indirette che si tratti dei due dipendenti della Bonatti. Chi li ha uccisi? "È da dimostrare che il gruppo che teneva sequestrati i quattro ostaggi italiani fosse dell'Isis", così come non è sicuro che "i quattro italiani fossero stati divisi in due gruppi: le due vittime erano trasportate separatamente dagli altri due in un convoglio, ma non è detto che fossero divisi" ha dichiarato il presidente del Copasir Giacomo Stucchi, al termine dell'audizione del sottosegretario con delega all'Intelligence Marco Minniti. È di questa mattina invece la notizia che gli altri due operai italiani rapiti con Piano e Failla sono stati liberati. Minniti, ha riferito Stucchi, "ha illustrato compitamente quanto accaduto, sulla base delle informazioni in suo possesso". Quanto alla possibile richiesta di un riscatto, per il senatore "non è l'ipotesi più probabile, occorre valutare una serie di ipotesi che hanno lo stesso peso". Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla erano stati rapiti lo scorso 20 luglio mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. L'intelligence italiana aveva accreditato quasi subito l'ipotesi che gli italiani fossero stati sequestrati da una delle tante milizie della galassia criminale che imperversa nel Paese. Un sequestro a scopo di estorsione, dunque, opera di criminali "comuni". La preoccupazione, quindi, è stata sin da subito di scongiurare che venissero ceduti, in "blocco" o peggio ancora singolarmente, ad uno o più gruppi legati all'Isis, ormai infiltrato in diverse aree della Libia e molto interessato a gestire i sequestri, anche per i notevoli risvolti mediatici. Secondo una delle ipotesi accreditate nei mesi scorsi da fonti militari libiche, i quattro italiani sarebbero finiti "nelle mani di gruppi vicini ai miliziani di Fajr Libya", la fazione islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli che si oppone a quello di Tobruk, l'unico riconosciuto a livello internazionale. Secondo questa ricostruzione, i miliziani avrebbero proposto uno scambio: i nostri connazionali con sette libici detenuti in Italia e accusati di traffico di migranti. Ma non c'è mai stata alcuna conferma e per mesi non ci sono state notizie. Secondo un testimone libico rientrato a Tunisi da Sabrata, i due italiani uccisi sarebbero stati usati come scudi umani dai jihadisti dell'Isis, negli scontri con le milizie di ieri a sud della città, nei pressi di Surman. "Renzi ha le mani sporche di sangue tanto in Libia quanto in Italia. In Italia tifa e libera i delinquenti sull'immigrazione è complice del terrorismo internazionale. Mentre dalla Libia giungono delle notizie, Mattarella si vanta sull'avanguardia dell'Italia: o sono matti o sono complici sia Renzi che Mattarella. Speriamo che le notizie che arrivano siano infondate". Lo ha affermato Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa alla Camera. "In ore tragiche come quelle che stiamo vivendo, le parole di Salvini contro il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio sono gravissime, una prova inqualificabile di sciacallaggio" ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi. "Siamo grati al Presidente Mattarella che anche oggi ha interpretato i sentimenti più autentici e profondi in cui si riconoscono gli italiani", ha aggiunto Bindi. "La solidarietà e la cooperazione internazionale sono le bussole con cui governare il fenomeno delle migrazioni di massa e il Paese lo sta dimostrando, da Lampedusa a Trieste", ha concluso. Gino Pollicardo e Fabio Calcagno, rapiti a luglio con Piano e Failla, sono stati liberati. "Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia". "Sono Gino Pollicardo e sono qui con il mio collega Filippo Calcagno. Siamo in un posto sicuro, in un posto di polizia qui in Libia. Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia perché abbiamo bisogno di ritrovare la nostra famiglia": questo il testo del primo video diffuso dei due ostaggi italiani in Libia. Aggiunge Calcagno: ci stanno trattando bene". Anche la Farnesina ha confermato che i due tecnici della ditta Bonatti non sono più nelle mani dei rapitori, si trovano sotto la tutela del Consiglio militare di Sabrata e sono in buona salute. Presto saranno trasferiti in zona sicura e presi in consegna da agenti italiani che li riporteranno in patria. La liberazione è uno sviluppo dei tragici fatti dell'altro ieri che hanno portato all'uccisione degli altri due sequestrati. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno erano stati abbandonati da sette giorni, senza acqua né cibo, nella cantina di una famiglia di origine marocchina, che è stata fermata e viene interrogata in queste ore: lo ha reso noto il sindaco di Sabrata, Hosin al Dauadi, rivelando altri dettagli sulle ultime fasi del sequestro dei due italiani. "Sono stati trovati in una casa della località di Tallil, a circa 3 chilometri dal luogo dove sono morti i loro compagni giovedì'". Secondo il sindaco, i due italiani "sono stati trovati lunedi", addirittura prima dunque dell'operazione nella quale sono morti i loro compagni. "Daesh (l'acronimo in arabo per l'Isis) li aveva lasciati da una settimana senza acqua né cibo. I due raccontano che potevano udire le voci della famiglia che parlava in arabo e francese". Il sindaco ha fatto vedere ai giornalisti anche il messaggio scritto a mano da Pollicardo, in cui annuncia la loro liberazione: "Sono Gino Pollicardo e con il mio collega Filippo Calcagno oggi 5 marzo 2016 siamo liberi e stiamo discretamente fisicamente ma psicologicamente devastati. Abbiamo bisogno di tornare urgentemente in Italia". E il biglietto reca una data che non è quella di oggi. Il figlio di Pollicardo, Gino junior, incrociando i cronisti di fronte a casa, a Monterosso (La Spezia) ha annunciato: "È finita, è finita" e la moglie Ema Orellana in lacrime ha detto: "L'ho sentito al telefono". Poco dopo il parroco del paese ha fatto suonare a festa le campane. "Ho appena sentito al telefono mio padre, è libero. Sta bene, anche se è molto provato. Mi ha detto che in questo momento lui e Gino Pollicardo sono nelle mani della polizia libica e che non vedono l'ora di rientrare in Italia". Lo ha detto all'Ansa Gianluca Calcagno, figlio di Filippo Calcagno. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, erano stati rapiti lo scorso 20 luglio con Fausto Piano e Salvatore Failla mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. Piano e Failla sarebbero stati uccisi durante scontri nella zona di Sabrata. Gino Pollicardo, 55 anni, è originario di Monterosso, in Liguria, nelle Cinque Terre. Filippo Calcagno, 65 anni, è siciliano di Piazza Armerina (Enna), sposato con due figlie.

I sequestri del 2015. Nell'elenco nero dei sequestrati c'è anche Ignazio Scaravilli, il medico catanese rapito nel gennaio 2015 e poi rilasciato in giugno. Tragica invece la fine del cooperante Giovanni Lo Porto, catturato con la forza in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una Ong tedesca e ucciso tre anni dopo in un raid della Cia con un altro ostaggio, l’americano Warren Weinstein. Un errore fatale di cui Barack Obama si è scusato in diretta tv. Gabriele Lo Porto ucciso tante volte. Parla la donna che durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo conosciuto a Londra nel 2003, scrive su "Panorama" Fausto Biloslavo l'11 maggio 2015. Valeria De Marco è una cara amica del giovane cooperatore siciliano tenuto in ostaggio da al Qaeda dal gennaio 2012 e poi ucciso per errore da un drone statunitense il 15 gennaio. Durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo che aveva conosciuto a Londra nel 2003: quando lui partiva per le sue missioni umanitarie, i due restavano sempre in contatto, «come se non si allontanasse mai» spiega Valeria in questa intervista con Panorama. La donna, che vive e lavora a Palermo ed è sempre stata molto vicina anche alla famiglia del cooperante, rivela che l’amico «doveva venire liberato per Natale 2014» e denuncia «il disinteresse italiano» sul caso. Signora De Marco, lei che cosa sapeva della trattativa per liberare Lo Porto? «Poco. I periodi di ottimismo del ministero degli Esteri si alternavano a periodi di silenzio. Però lo scorso autunno eravamo molto vicini alla liberazione. Da Roma avevano detto: «Le prometto che entro quest’anno Giancarlo sarà a casa»». La famiglia dell’ostaggio americano, ucciso assieme a Lo Porto, è stata avvisata dall’Fbi all’inizio di febbraio che il loro congiunto era probabilmente morto. Non è avvenuto nulla del genere con i familiari di Lo Porto? «In febbraio non hanno ricevuto nessuna comunicazione. Lo aspettavamo a casa per Natale 2014, ma poi i toni della Farnesina si sono incupiti, sono diventati meno ottimisti. E alla fine si è scoperto che il mediatore era stato arrestato in Pakistan o Afghanistan, facendo saltare la trattativa. Come è possibile che nessuno sia riuscito a evitarlo?» Chi ha lavorato al caso sostiene che sia mancata la priorità politica per imprimere una svolta. Cosa ne pensa? «Non c’è dubbio che l’interesse politico, vista anche l’aula della Camera vuota del 24 aprile, sia stato assolutamente assente e inadeguato». Lei si riferisce alla comunicazione del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sul tragico epilogo del caso. «Sì. L’aula parlamentare vuota ha ucciso Giancarlo per la seconda volta. È stata una grande umiliazione e un’enorme sofferenza». Le sembra possibile che il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia saputo della morte di Lo Porto solo lo scorso 22 aprile? «No, non è assolutamente credibile». Gli americani pare abbiano informato l’Italia da febbraio-marzo che qualcosa era andato storto, ma tutto si sarebbe fermato al livello di Marco Minniti, sottosegretario con la delega ai Servizi presso palazzo Chigi. Cosa ne pensa? «È semplicemente agghiacciante. La mia reazione è di rabbia ma anche di lucida determinazione: vogliamo andare fino in fondo per scoprire la verità e le responsabilità. Se Minniti non ha comunicato (a qualcuno più in alto, ndr) è grave e dovrebbe dimettersi. Spero soltanto che non ci sia un’ulteriore e terribile colpa: che si sapesse che Giancarlo fosse esattamente lì. Ma questo non lo scopriremo mai». Qualcuno ha mai informato lei o la famiglia che l’ostaggio americano Warren Weinstein e l’italiano erano detenuti assieme? «Mai avuta nessuna conferma che Giancarlo fosse con un americano. Anzi, parlando tra noi, pensavo che sarebbe stato ben peggio se lo avessero rapito con un americano o un inglese.  Conosciamo bene le politiche di questi Paesi nei confronti dei loro connazionali presi in ostaggio». La famiglia ha reso noto che molti sapevano che Lo Porto era prigioniero in Waziristan e i bombardamenti dei droni potevano colpirlo. Può spiegare meglio che cosa significa? «Sapevamo che si trovava in quelle zone inaccessibili, al confine fra Pakistan e Afghanistan. Dallo scorso luglio i bombardamenti (e le offensive pachistane, ndr) hanno provocato oltre mezzo milione di sfollati e molti morti. Di giorno in giorno cresceva la paura, il terrore per la vita di Giancarlo». Pensa che la detenzione di Lo Porto assieme all’americano abbia segnato il suo destino perché gli Usa non trattano con i terroristi? «Assolutamente sì. Viste anche le ultime notizie penso ci sia stata un’influenza americana sull’eventuale liberazione di Giancarlo». La famiglia per tre anni ha mantenuto un totale, dignitoso silenzio. Non sarebbe il caso che parlassero loro? Forse gli amici o i parenti dovevano incatenarsi da qualche parte o rilasciare interviste eclatanti? «La Farnesina ci ha sempre chiesto di tenere un basso profilo per non alzare la posta e pregiudicare la liberazione. Cooperanti e amici non erano così sicuri che fosse la strategia giusta, ma hanno rispettato le raccomandazioni della famiglia». In definitiva: lei crede sia mancata la spinta politica italiana per riportare a casa Lo Porto? Insomma, è tutta colpa del coinvolgimento degli americani e della loro linea dura con i terroristi? «A livello internazionale non c’è grande considerazione del nostro Paese. È possibile che gli interessi americani abbiamo prevalso su quelli dell’Italia, debole e incapace di imporre le proprie strategie». Quali sono i suoi ricordi più belli di Giancarlo Lo Porto? «I ricordi più belli sono quelli legati alla sua vita da trentenne a Londra. Lo vedo sempre con la pinta di birra, mentre ascolta le band che si alternano sui palchi dei vari pub londinesi. In giugno avrebbe compiuto 38 anni. Io li ho fatti in aprile. Ma la cosa più bella che mi ha lasciato Giancarlo è una frase: «Fino a quando avrò due gambe per camminare e due occhi per guardare il sole, non perderò mai la speranza e continuerò ad andare avanti»». Amici e familiari di Giancarlo cosa chiedono al presidente americano e al governo italiano? «Vogliamo la verità, che i responsabili paghino e che la magistratura apra un’inchiesta per omicidio. Vogliamo a ogni costo la salma di Giancarlo, una commemorazione ufficiale e che il suo sacrificio e i tre anni nelle mani dei terroristi non siano stati vani».

I rapimenti del 2014. Due anni prima, nel 2014, in Libia vengono rapiti altri italiani: due tecnici di aziende private, Marco Vallisa e Gianluca Salviato che sono tornati a casa dopo diversi mesi di prigionia.

Ancora ostaggi dal 2013. Padre Paolo Dall'Oglio e Rolando Del Torchio ancora ostaggi. Poche e contrastanti sono invece le notizie del gesuita padre Paolo Dall'Oglio, scomparso in Siria nel 2013 mentre cerca di mediare a Raqqa, quartier generale del califfato, per la liberazione di alcuni rapiti. Non è tanto diversa la sorte di Rolando Del Torchio, ex missionario italiano sequestrato nel suo ristorante nel sud delle Filippine l'anno scorso, in un’area dove operano gruppi musulmani separatisti, e ancora ostaggio dei terroristi.

Le catture e le liberazioni del 2011. Il 2011 è l’annus horribilis per i rapimenti. L'inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito la prima volta in Libia (lo sarà una seconda in Siria nel 2013) per due giorni insieme a due colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e Claudio Monici. In Somalia i pirati catturano i mercantili Savina Caylyn, con cinque italiani a bordo, e Rosalia D'Amato, con sei nostri connazionali. Tutti gli ostaggi saranno liberati dopo mesi di prigionia. Sempre nello stesso anno, dopo 124 giorni, nel Darfur, in Sudan, viene lasciato libero dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Stessa sorte tocca all’italo-sudafricano Bruno Pellizzari che gli Shabaab somali catturano sul Largo della Tanzania. Passando in Algeria, i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberare nel 2012. Non avrà la stessa fortuna Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria dai jihadisti che perderà la vita durante un blitz delle Forze speciali di Londra mentre tentavano la liberazione di un altro ostaggio.

I sequestri del 2007. Nel 2009 dopo quattro mesi in mano a un gruppo legato ad Al-Qaeda Sergio Cicala e la moglie Philomene Kabouré vengono liberati in Mali. Daniele Mastrogiacomo. La cattura del 2007. In Afghanistan, nel 2007 i talebani catturano un giornalista del quotidiano La Repubblica, Daniele Mastrogiacomo noto per le sue inchieste di “Mani pulite” ed i processi Priebke e Marta Russo. Bloccato a bordo della sua auto, poi circondato, legato e imbavagliato da una decina di miliziani talebani Mastrogiacomo sarà liberato dopo circa un mese e mezzo.

Il rapimento del 2005. Nel 2005 la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena viene presa in ostaggio e poco dopo la liberazione, mentre in auto stava raggiungendo un posto di blocco, un militare americano uccide per errore Il funzionario del Sismi Nicola Calipariche si trovava in macchina con lei.

Fare il cooperante come Silvia è un lavoro, non un capriccio, scrive il 23.11.2018 Eleonora Lorusso su "Donna Moderna". Non si placano le polemiche dopo il rapimento di Silvia Costanza Romano, la 23enne milanese sequestrata in Kenya. Ma cosa significa essere un cooperante e che differenza c’è con fare volontariato? Si è parlato di superficialità, di ingenuità, persino di leggerezza e voglia di cercare avventure in un paese lontano e un continente difficile come l’Africa. Sui social non si è placata la polemica sul rapimento di Silvia Costanza Romano, sequestrata il 20 novembre in Kenya, dove si lavorava come cooperante per l’Africa Milele Onlus. C’è chi ha persino scritto che la ragazza, partita dopo una laurea triennale in Mediazione culturale, “se l’è cercata”. Nel dibattito sono finite anche le parole del giornalista Massimo Gramellini, commentate (e criticate duramente) da migliaia di utenti sui social. Ma il caso di Silvia non è il primo di una giovane cooperante italiana che viene rapita: prima di lei era capitato anche a Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, così come a Simona Pari e Simona Torretta, o ancora a Rossella Urru. Ma che cosa significa partire per fare il cooperante? Cosa spinge a raggiungere terre lontane per portare avanti progetti di solidarietà? È un lavoro? E che differenza con il volontariato? 

Silvia, dalla laurea all’Africa. Originaria di Milano, la 23enne rapita in Kenya ha studiato presso la Unimed CIELS del capoluogo lombardo, ha fatto istruttrice di ginnastica e, dopo la laurea triennale come mediatrice culturale raggiunta a febbraio, è partita per l’Africa. Era al suo secondo viaggio e ha scelto di essere cooperante per Africa Milele Onlus, con sede a Fano nelle Marche, occupandosi di progetti a favore di bambini in Kenya. Dopo il suo rapimento sui social si è scatenato un dibattito a tratti molto violento, che ha visto contrapposti coloro che ritengono la giovane una brava ragazza impegnata nel sociale e chi invece l’ha definita (nel migliore dei casi) incauta.

Lo scontro social. «I social hanno instaurato la dittatura dell’impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di una minoranza esigua, ma non trascurabile, perché determinata a usare uno strumento alla moda per condizionare, storpiandola, la realtà. Persone che, in nome del Bene, arrivano ad augurarti di morire». Così risponde alle critiche Massimo Gramellini dopo il suo articolo mercoledì 22 novembre sul Corriere della Sera, cheiniziava così: «Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto». Parole travisate, a detta dello stesso giornalista, costretto a tornare sull’argomento il giorno dopo. Tra coloro che lo hanno criticato anche Selvaggia Lucarelli: «Cosa sarebbe la smania di altruismo? Aiutare gli altri non è ossessione, non è ansia, non è fissazione. È una magnifica, non comune attitudine che evidentemente Silvia possiede. Ed è raro, a 23 anni, pensare agli altri anziché a se stessi, ai propri piccoli egoismi, al selfie, alla serata con gli amici, alla dimensione effimera che abbiamo attraversato in tanti e in cui tanti sguazzano pure per il resto della loro vita». Ma cosa spinge un giovane a intraprendere una strada come quella di Silvia?

Cooperante o volontario. «Va chiarito che quello del cooperante è un lavoro retribuito. È un lavoro pagato che viene svolto in un contesto difficile, spesato dai donatori che sostengono onlus e fondazioni, come la nostra» spiega Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione Avsi, nata a Cesena nel 1972 e impegnata con 169 progetti di cooperazione allo sviluppo in 30 paesi nel mondo, soprattutto Africa e Medio Oriente. «Se il cooperante è una figura professionale vera e propria, il volontario invece presta il suo servizio senza compenso, ricevendo solo un rimborso per le spese e il viaggio. A differenziare le due figure, però, sono soprattutto le prospettive di lavoro. Quello intrapreso dal cooperante è un percorso professionale a tutti gli effetti, caratterizzato però da una forte componente ideale. Noi possiamo confermare che si tratta di un settore in forte sviluppo, perché ci sono molti giovani che sono incentivati a seguire questa strada, lo fanno con entusiasmo e a volte iniziano grazie al servizio civile» spiega Silvestri.

Servizio civile nel settore umanitario. Tra i ragazzi che partono per l’estero, come cooperanti e volontari, ci sono anche molti giovani che decidono di fare esperienza nell’ambito del servizio civile. «Noi ne abbiamo diversi in molti paesi in via di sviluppo: qui i ragazzi prestano la loro opera, esattamente come farebbero in Italia, ricevendo un compenso». A erogarlo è il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, che provvede al rimborso, ad esempio, delle spese «del viaggio iniziale per il raggiungimento della sede del progetto (aereo, treno, pullman, traghetto purché risulti il mezzo più economico) e del viaggio a fine servizio dalla sede di svolgimento del progetto al proprio domicilio», come indicato dal Dipartimento stesso. Anche vitto e alloggio sono inclusi nei benefit per il volontario, oltre a “un compenso di 14,46 euro netti giornalieri, per un totale 433,80 euro netti mensili. I vantaggi nello scegliere di mettersi a disposizione del Servizio Civile Nazionale sono molteplici, non solo per la collettività: il tempo dedicato è riconosciuto come credito formativo nel corso degli studi e nel campo della formazione professionale, è valutato nei concorsi pubblici e il periodo di servizio civile è riscattabile ai fini pensionistici. «Il loro impegno dura in questo caso un anno» continua Silvestri «Altri ragazzi, invece, si rivolgono a noi come volontari. In genere il loro impegno dipende dalla disponibilità di tempo, ma solitamente sconsigliamo periodi inferiori ai tre mesi, perché non si avrebbe il tempo di ambientarsi e conoscere le realtà con le quali si viene a contatto» spiega ancora il segretario generale di Fondazione Avsi.

Quanto si guadagna? Se per i volontari che effettuano “stage” viene offerto un rimborso spese, per la durata di un’esperienza formativa e viene inserita nei curriculum come soft skill, ai cooperanti è richiesta una maggiore formazione: «Esattamente come per le normali offerte di lavoro, anche in questo settore esistono dei progetti e vengono cercati profili professionali adeguati con requisiti precisi, che vadano oltre la necessaria conoscenza di una lingua o più lingue straniere. Questo vale sia per realtà come la nostra, sia per progetti di enti come l’Unicef» dice Silvestri. Quanto si può guadagnare? «Per un primo ingresso la paga è intorno ai 1.000 euro al mese, ma dipende molto dal profilo del cooperante: in molti casi sono richieste responsabilità specifiche e importanti. Tra i cooperanti ci possono essere anche ingegneri, medici o operatori sociali e alcuni progetti prevedono investimenti da 3-4 milioni di euro, dunque occorre professionalità» spiega Silvestri.

L’Identikit del cooperante: giovane e donna. Il settore della cooperazione è sicuramente caratterizzato da un’età media piuttosto bassa: «Parliamo di circa 35 anni, dunque giovani adulti, anche se più grandi in genere rispetto ai volontari o a coloro che prestano servizio civile» dice Silvestri «Nella maggioranza dei casi di tratta di donne. È un settore, infatti, a prevalenza femminile anche per il tipo di mansioni che si è chiamati a volgere: le figure richieste sono per lo più legate all’ambito educativo, soprattutto per una onlus come la nostra, o al sociale. Ma esistono anche realtà differenti».

"Tenetevela", post shock su Silvia, scrive il 21/11/2018 Adnkronos. "Spero che quei selvaggi le insegnino le buone maniere sessuali". E' uno dei tanti post beceri sul rapimento di Silvia Romano, cooperante della Onlus Africa Milele, rapita ieri sera in Kenya. La 23enne è stata sequestrata da un commando di uomini armati a Chakama, nella contea di Kilifi, a circa 70 chilometri da Malindi. "Con tutti i poveri italiani che vivono in strada, dormono nei cartoni e non hanno cibo..." scrive Patrizia da Albenga. "Poteva restare qui e occuparsi di aiutare loro! Certo la bontà in casa propria non paga" aggiunge, definendosi come una 'Libera pensatrice' di professione. "C'è voluta andare lei", "se l'è cercata", "stava a casa e non succedeva", "in primis alla sua salute doveva pensarci la ragazza stessa" suggerisce Luigi che sulla sua pagina dichiara di lavorare al ministero della Difesa, mentre la bionda Giuseppa interviene con le maiuscole, in pratica urlando su Fb, "COSA VUOLE? TENETEVELA". A preoccupare pare non sia tanto la sorte della ragazza quanto i soldi, un eventuale riscatto. "Lo Stato non deve pagare per una scriteriata in cerca di emozioni forti" sostiene la signora Fanny, sempre su Facebook, ma anche i cinguettii sono dello stesso tenore. "Il problema è andare a fare volontariato in zone pericolose e pretendere che sia il Governo a risolvere i casini" twittano in tanti preoccupati non tanto per la vita della ragazza, quanto per "chi pagherà alla fine?". "Per me non hanno tutti i torti - conclude Maria -. Chissà quanto ci costerà tirarla fuori".

Perché certi italiani odiano così tanto le due volontarie rapite in Siria? Scrive Leonardo Bianchi il 5 gennaio 2015 su Vice. Dopo gli ultimi aggiornamenti sulla vicenda di Vanessa e Greta, sulla stampa e i social network è ripreso uno dei passatempi preferiti dagli italiani: la ridicolizzazione delle vittime di un sequestro tramite battute degradanti e meme idioti.

A qualche mese dal rapimento in Siria di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, la comparsa di un video in cui compaiono le due volontarie ha riportato l'attenzione su una vicenda che ha fatto e continua a fare discutere. Le studentesse erano arrivate nel paese dopo aver svolto volontariato in Italia e all'estero e aver fondato insieme a Roberto Andervill Horryaty, un progetto di assistenza con l'obiettivo di rifornire di medicine e generi di prima necessità la popolazione siriana. Non erano al loro primo viaggio in Siria, e nonostante la giovane età non erano delle "complete sprovvedute" come molti le hanno descritte. Dal 31 luglio, giorno del rapimento, sono state fatte insinuazioni e diffuse notizie non verificate sulle due volontarie. Ora però, secondo gli analisti d'intelligence, con l'apparizione del video si apre la " fase più delicata, forse decisiva." La situazione, insomma, imporrebbe il silenzio o quantomeno una certa accortezza—qualità che sembra del tutto aliena al dibattito italiano, in cui a dominare sono piuttosto crudeltà e bullismo.

Fin da subito, infatti, ridicolizzare le vittime e la loro scelta di vita è stato uno dei passatempi più in voga su alcuni quotidiani, siti di informazione "alternativi" e social network. Tra i primi c'è sicuramente Il Giornale, che a pochi giorni dal rapimento ha pubblicato un articolo in cui Vanessa e Greta vengono descritte come "due incoscienti da salvare sull'orlo del baratro," e "ragazzine" che a causa della loro imprudenza faranno gettare al vento i "soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari." Tutto ciò, secondo Il Giornale, si sarebbe potuto evitare se "le due signorine" si fossero limitate a rimanere "abbracciate strette strette" tra i "piccioni di piazza del Duomo," dove "il rischio maggiore è di beccarsi un regalo dai pennuti." Quando non sono delle "incoscienti da salvare" o " samaritane innamorate del kalashnikov," le due volontarie vengono definite delle "stronzette di Aleppo" da candidare al "Premio Darwin [...] eventualmente alla memoria," se non direttamente delle fiancheggiatrici di al-Qaeda e dell'ISIS. Quest'ultima versione si diffonde soprattutto online e viene spacciata come una rivelazione che la lobby "buonista" cercherebbe di occultare in tutti i modi. In realtà, come spiegato in questo post, tutto nasce dalle accuse di alcuni "esperti" di geopolitica. In una foto delle due ragazze circolata sui social e scattata a Roma nel corso di una manifestazione di solidarietà per la rivoluzione siriana, le si vede reggere un cartello di ringraziamento al Liwa' Shuhada' (Brigata dei Martiri), che dato il successivo riferimento alla città di Idlib è facilmente collegabile all'omonima brigata dell'Esercito Siriano Libero—"formazione considerata laica e moderata da qualunque analista non sfacciatamente schierato con Assad"—presente nella città siriana. Per alcune testate, tuttavia, il Liwa' Shuhada' cambia nome (a seconda dei casi in Liwa' Shuhada' al-Islam, in altri Liwa' Shuhada' Badr), si trasforma in formazione islamista vicina ad al-Nusra e diventa la prova definitiva del sostegno delle due volontarie a un "gruppo affiliato ad al-Qaeda." L'equazione "Vanessa e Greta = Amiche del Terrorismo Islamico" è quindi data per certa.

Dopo la diffusione del video, ImolaOggi ha poi ripreso un lungo post—originariamente apparso su questo blog—che promette di far luce su "chi sono IN REALTA' Greta Ramelli e Vanessa Marzullo." Avvalendosi del tipico stile identitario-complottista, l'articolo (che ha raggiunto le 24mila condivisioni) è un ammasso di collegamenti casuali che dovrebbero svelare un grande complotto della NATO ai danni di Assad, di cui naturalmente fanno parte anche le due "suffragette" in qualità di persone infiltrate in Siria dai servizi segreti italiani. A forza di insulti da bagno dell'Autogrill, deliri e falsità, il ribaltamento del ruolo delle "due Boldrini" è quindi ormai compiuto: da vittime di un rapimento a carnefici di se stesse, nonché complici dei "terroristi." Il punto più basso dell'odio nei confronti di Greta Marzullo e Vanessa, tuttavia, lo si raggiunge con la pagina Facebook "Delle due attiviste rapite in Siria non ce ne fotte un cazzo grazie," che da due giorni viene continuamente chiusa e riaperta, probabilmente a causa delle segnalazioni degli utenti. La pagina è un'estremizzazione dei commenti più volgari su Facebook e degli articoli della stampa di destra, nonché un'accozzaglia di fotomontaggi delle due ragazze che nelle intenzioni dei gestori dovrebbero essere "trolling" o qualcosa fatto "per il lol." Il tono "canzonatorio" spacciato da gestori e commentatori della pagina è ribadito in alcuni status: in uno c'è scritto che "fin quando di questa pagina non parlerà Culo Aperto su Italia1 non saremo contenti"; e in un altro "si avvisa che arabi, negri, sinistroidi, zingari, monnezze dei centri sociali, moralisti, bigotti ed extracromosomati in generale saranno bannati a calci nel deretano finchè non arrivano in Siria a fare compagnia ai cammelli dei beduini," mentre nei commenti ci si lamenta genericamente del "political correct" e dell'"ipocrisia di chi dice che questa pagina va eliminata e poi ride delle vignette di Vauro." Sempre sui social, inoltre, molte persone si lagnano dell'italianità tradita dalle due ragazze, che invece di "fare volontariato per aiutare gli italiani in difficoltà" sono andate a infilarsi in una "zona di guerra in cui non ci sono Italiani da salvare." Ragionando in questi termini, è un attimo collegarsi a una questione che da quasi tre anni toglie il sonno alle destre e ai nazionalisti d'accatto italiani—gli stessi, per dire, che probabilmente considerano Enzo Baldoni un "simpatico pirlacchione" ucciso dai suoi stessi "amici" (cioè i terroristi), il contractor Fabrizio Quattrocchi l'archetipo dell'Eroe Italico e la giornalista Giuliana Sgrena un'"ingrata" che ha causato la morte di un servitore dello Stato.

Naturalmente, chiunque non si informi su VoxNews o Resistenza Nazionale sa che il caso dei due marò non c'entra nulla—da un lato ci sono due civili rapite da milizie irregolari, dall'altro due militari in missione su una nave privata, accusati dalla giustizia indiana di aver ucciso dei pescatori scambiandoli per pirati. Al di là di questo ribaltamento, però, ciò che sorprende è che il rancore nei confronti delle due volontarie sembra avere poco a che fare con i fatti veri o presunti, e molto di più con la loro percezione. Nelle reazioni più ricorrenti su Facebook si mescolano indifferentemente odio generico ("Vi sta bene, lì dovete rimanere e ci dovete morire"), strampalate teorie del complotto ("dalla siria col furgone tutto pagato da soros e gumbagni massoni terzomondisti ahahha"), nazionalismo da quattro soldi ("Zecche di merda!!! Per Fabrizio Quattrocchi non avete fatto tutto sto casino"), filo-assadismo ("i loro amici, pieni di soldi intenti a sgozzare qualcuno, conquistare terreni del regolare stato Siriano"), islamofobia e sessismo ("Queste ciucciabastoni dell'Islam possono starsene lì a prenderlo in culo a turno dai loro amichetti mujaheddin invece di prestarsi a chiedere soldi al contribuente italiano di finanziare la guerriglia islamica"). Il tutto si tiene insieme perché si sta parlando di ragazze di vent'anni che hanno fatto una scelta che appare a loro incomprensibile. Il pensiero principale che emerge in ogni status e commento, infatti, è che "se la siano andata a cercare," e che per questo motivo non solo non devono essere aiutate, ma anche punite. E il modo migliore che una parte dell'Internet italiano ha trovato è quello di inondare le proprie bacheche di battutine degradanti, meme idioti e orribili fotomontaggi per denigrare le due ragazze, salvo poi complimentarsi nei commenti della propria "cattiveria" politicamente scorretta.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo, che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo: ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. Perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi?? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà...all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto...tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A… due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. Se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese, dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

… qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse (m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari, da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata, chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No, erano sicure: avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad e loro stavano coi buoni i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa: a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali della possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’intelligence, come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l'esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell'Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy». Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?

Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.

Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.

Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano, tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.

Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni". Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times, Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica, afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

L'Isis segreto: ecco come si diventa Foreign Fighter. Dodici ore per arruolarsi. La gavetta la offre al-Baghdadi, scrive l'1 luglio 2015 "Il Talebano". Il Talebano ha il piacere di presentare un primo stralcio del libro Isis segreto, pubblicato dai due cronisti de Il Giornale Matteo Carnieletto e Andrea Indini, per portare un po’ di luce nell’angolo buio in cui è stato relegato il nuovo spauracchio dei media. È solo un anticipazione: nei prossimi giorni potremmo anche sorprendervi. Stay tuned. Ci vogliono meno di dodici ore per riuscire a trovare i contatti per volare in Siria e combattere al fianco degli jihadisti. Lo strumento più comodo e rapido è Facebook: basta crearsi un profilo, scegliere un’immagine che richiami la rivoluzione anti-Assad, iniziare a aggiungere agli amici qualche persona che sia stata in Siria come cooperante (Greta Ramelli, eg) e il gioco è fatto. In pochissimo tempo si è invasi da una marea di richieste di amicizia. Sono perlopiù uomini che, forse ingannati dalla mia foto profilo (un’immagine delle cooperanti italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo), cercano relazioni sul web. Spesso mi viene chiesto se sono disposto a fare “cam”, una maniera nemmeno troppo fine per chiedermi di spogliarmi. Inizio a chattare. Tutti chiedono se sono musulmano. Sembra essere una caratteristica necessaria per continuare la conversazione. Le richieste di amicizia continuano a fioccare. Bandiere nere jihadiste, donne in niqab che impugnano il mitra. Mi contatta un ragazzo siriano. Odia Assad, lo chiama “scimmia”. Lo incalzo: gli dico che vorrei raggiungere la Siria, se non per combattere, almeno per aiutare la popolazione. Mi dice di no. Quando gli chiedo il perché usa una sola parola: “war”. C’è la guerra. Mi ripete: “Non venire in Siria”. Lo rassicuro e lui mi ringrazia. Apprezza la mia “sensibilità”. Guardo le immagini di profilo delle persone che mi hanno aggiunto. Molto spesso sono riprese dai siti di propaganda jihadista e raffigurano uomini vestiti totalmente in nero, armati di pistole o mentre imbracciano un kalashnikov. Spesso vengono scelte le foto dei capi dello Stato islamico: al Baghdadi, innanzitutto, ma anche il suo portavoce e braccio destro, Sheych Adnani. Mentre chatto – e sono passate circa cinque ore – mi scrive, penso che raggiungere la Siria non è poi così semplice. Contatto “il servo ribelle Al-Mujahed”, un altro siriano. Dopo i primi convenevoli, provo a inquadrarlo. Non che ci voglia molto: le sue immagini di profilo e di copertina lo ritraggono con un kalashnikov. Mi spiega chiaramente che è uno jihadista, che combatte per la sua nazione, la Siria, e che così dovrebbero fare tutti i buoni musulmani. Rilancio: gli dico che anche io sono un musulmano. Un musulmano italiano che vorrebbe raggiungere quanto prima la Siria per combattere il jihad. Ed è ora che il “servo ribelle” mi sorprende. Mi dice “ti aiuto”. Mi consiglia di abbandonare quanto prima l’Italia e di prendere un aereo per Istanbul per poi di spostarmi verso il confine tra Turchia e Siria. Mi dice: “arriva a Hatay, lì ti verremo a prendere per poi portarti in Siria. E qualcosa di vero, penso, deve esserci se l’aeroporto di Hatay, nel 2012, quindi nell’anno in cui è iniziata la guerra civile, ha registrato un +11,6% di passeggeri stranieri. Una sfortunata coincidenza o è davvero questo lo scalo dei foreign fighters che vogliono raggiungere la Siria? “E le armi?”, chiedo al “servo ribelle”. Lui mi rassicura: “Abbiamo tutto”. Mi saluta. Gli dico che lo aggiornerò sul mio viaggio. “Insciallah”, mi risponde. Se Dio vuole.

Italiani rapiti, per liberarli spesi in dodici anni 75 milioni di euro, scrive “Libero Quotidiano” il 4 marzo 2016. Le prime furono le due Simona: Pari e Torretta. Fu il loro il primo caso di italiani rapiti e poi liberati tramite riscatto. Era il settembre 2004. Un anno prima c'era stato l'intervento americano in Iraq. C'era Al Qaeda al suo massimo fulgore, mentre l'Isis e lo Stato islamico erano cose ancora nemmeno immaginabili. Le due cooperanti italiane furono sequestrate per 22 giorni e poi liberate dietro il pagamento di una somma che è stata stimata in un paio di milioni di euro. Da allora, contando anche loro, secondo un articolo che appare oggi sul quotidiano "Il Tempo", sono stati 19 i cittadini italiani per liberare i quali l'Italia ha pagato un riscatto. Per un conto totale di circa 75 milioni di euro in dodici anni. Soldi, certo, che sono serviti a salvare vite umane, ma che sono finiti nelle tasche delle organizzazioni terroristiche che stanno insanguinando Medio Oriente ed Europa. Dopo Torretta e Pari, i casi più eclatanti di liberazioni tramite riscatto sono stati quelli della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, libera dopo 30 giorni dietro il pagamento di 4,6 milioni di euro (e la sua liberazione costò pure la vita dello 007 Nicola Calipari); per Rossella Urru, la cooperante rapita in Algeria nell'ottobre 2011 si sono sborsati 5 milioni di euro; per l'inviato de "La Stampa" Domenico Quirico sequestrato in Siria nell'aprile 2013 4 milioni; 9 milioni per Daniele Mastrogiacomo, giornalista rapito in Afghanistan nel marzo 2007; 12 milioni se ne sono andati per la liberazione di Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, i contractors rapiti in Iraq nel 2004 insieme a Fabrizio Quattrocchi, che invece fu ucciso e morì dicendo "Vi faccio vedere come muore un italiano". E via contando, fino all'ultimo caso di Greta e Vanessa, le due ragazzine partite per la Siria praticamente da sole, rapite e tenute prigioniere prima di essere liberate in cambio di 12 milioni di euro.

Terrorismo, l'inchiesta di Al Jazeera: "Il governo italiano paga i riscatti per i rapiti dai terroristi", scrive “Libero Quotidiano” il 9 ottobre 2015. Il sospetto sembra possa diventare certezza: ci sono governi, in particolare quello italiano, che pagano i riscatti ai gruppi terroristici per liberare i propri connazionali. L'inchiesta dell'unità investigativa di Al Jazeera svela come gli Stati occidentali abbiano di fatto finanziato e armato il terrorismo islamico con milioni di dollari. Attraverso dei documenti segreti scoperti da Al Jazeera, emergerebbe come l'Italia abbia sempre pagato per la liberazione di propri cittadini rapiti da gruppi terroristici, che fosse in Somalia o in Siria. Nel caso del rapimento in Somalia di Bruno Pelizarri e la sua fidanzata Debbie Calitz, il governo italiano avrebbe negoziato la loro liberazione con i pirati pagando 525mila dollari. Viene smentita, e anzi sembra anche ridicola, la teoria che a liberare i due fosse stato un blitz delle forze armate italiane. Ad agosto 2011 era stato rapito in Siria il giornalista de La Stampa Domenico Quirico con un collega belga. In quell'occasione, l'inchiesta di Al Jazeera ha scoperto che ci sarebbe stato il pagamento di 4 milioni di dollari per il riscatto, a fronte di undici richiesti dai ribelli siriani delle Brigate Farouq. Un membro di quel gruppo, Mamhoud Daboul, sostiene anche di aver visto la cassa dei soldi: "In confezioni da 100mila dollari". E poi a gennaio 2015 l'ultimo caso in cui il governo italiano ha finanziato i terroristi, quando sono state rapite le due cooperanti Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Al Jazeera ha ottenuto alcune fotografie che documentano 11 milioni di dollari in contanti consegnati a rappresentanti di Nusra, un gruppo terroristico legato ad al-Qaeda. Il governo italiano ha sempre smentito i sospetti sui pagamenti dei riscatti e anche dopo essere stato contattato dai giornalisti di Al Jazeera ha confermato che la politica italiana rimane quella di "non pagare". Lo stesso ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha continuato a negare l'evidenza fino a pochi giorni fa quando marchiava come "illazioni" le prime voci sui pagamenti del governo italiano ai gruppi terroristici.

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale, si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell'agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

FEMMINE IN CARRIERA. NON MADRI.

Sappiamo che diventare madre può essere una cosa meravigliosa, ma non ci diciamo che può anche non esserlo. Maternità: perchè le donne che non vogliono un figlio devono “difendersi”, scrive Maria Serena Natale su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2013. La perla della puntata: «Ma perché non ve lo fate voi ’sto regalo?». Unica difesa possibile dal bombardamento di luoghi comuni sulle gioie della maternità sferrato dalle amiche del baretto. Il senso di appartenenza, le manine, l’odore della pelle, il fatto che quando sei incinta conti solo tu… se questi siano motivi per fare un figlio o per darsela a gambe levate dipende da tante, troppe variabili legate a momenti della vita, indole, autoconsapevolezza, desideri, progetti, condizioni economiche…Il personaggio di Marta fa da contrappeso a quel pensiero unico sulla maternità che nasconde le zone d’ombra, colpevolizza le madri mancate per destino o per scelta, finge d’ignorare che troppo spesso un figlio non è un valore in sé ma uno strumento per riempire di senso insostenibili vuoti, tenere in piedi rapporti destinati allo sfascio, compensare o giustificare fallimenti esistenziali, ecc. Lo stesso retropensiero che rende necessario il finale di compromesso dell’episodio, con Marta delusa dal test di gravidanza negativo e “redenta”, finalmente pronta al quarto figlio. Sappiamo che diventare madre può essere una cosa meravigliosa, ma non ci diciamo che può anche non esserlo. È un discorso difficile e doloroso, millenario tabù per ragioni di natura sociale e culturale che si sono sedimentate in un ordine universalmente riconosciuto, insidioso e ricattatorio. Non è detto che il significato di una vita si condensi nella genitorialità, per gli uomini quanto per le donne che l’hanno interiorizzata come un dovere disposto dalla biologia e convalidato dalla legge umana, con ricadute psicologiche complesse, non sempre decifrabili e accettate. Tutti possono essere genitori?

«DIVENTARE MAMME? NON SE NE PARLA PROPRIO». In Italia il tasso di natalità è uno dei più bassi del mondo e la popolazione sta diminuendo. Abbiamo chiesto a due donne sposate da anni, Daniela e Manuela, perché hanno deciso di non avere bambini. Ecco le loro motivazioni, scrive il 14/06/2017 Fulvia Degl'Innocenti su "Famiglia Cristiana".

LA POPOLAZIONE DIMINUISCE PERCHÉ NASCONO MENO BAMBINI. Famiglia Cristiana: «Diventare mamme? Non se ne parla proprio». Se un figlio non si vuole per le rinunce della mamma. La paura delle donne che dicono "No, grazie". Ecco perché solo a Bolzano nascono ancora tanti bimbi. Cresce il numero delle coppie che decidono di non avere figli, una delle cause della denatalità che sta interessando il nostro Paese, che ha un tasso di natalità di tra i più bassi del mondo (peggio di noi solo il Giappone e Hong Kong). Abbiamo chiesto a due donne, regolarmente sposate da anni, perché hanno deciso di non avere figli. Daniela è sposata da 16 anni e vive in Lunigiana da 10 dopo una vita trascorsa Milano. Il marito fa il programmatore e lei dopo un esperienza negli asili nido e una come impiegata è attualmente disoccupata con il progetto di aprire una libreria. «Abbiamo deciso insieme di non avere figli e non siamo assolutamente pentiti. Ne abbiamo parlato tanto dopo il matrimonio, io forse ero più propensa ad averne almeno uno. Prima di sposarci abbiamo vissuto (mio marito in prima persona) una malattia, che ha sicuramente minato la nostra sicurezza di poterne avere, e soprattutto mio marito ha avuto "timore" di poter rivivere la malattia, lasciandomi sola con un bimbo da crescere. Siamo una coppia molto unita e il suo ragionamento mi ha portato a condividere la scelta di non avere figli. Siamo molto sereni, non abbiamo rimpianti.

Manuela ha 42 anni, vive tra Formia e Londra, è consulente editoriale scrittrice per bambini e studiosa di letteratura per l’infanzia. «Ci può essere una ragione, nessuna, centomila. Dietro ogni non-madre, c’è una storia diversa, così come ogni donna possiede un’identità diversa che non si basa necessariamente sulla potenziale maternità. Ho 42 anni e ci sono tante cose che non ho fatto e che forse non farò mai. I figli sono una di quelle, una parte delle potenzialità che non esprimerò per mancanza di un percorso di vita adatto, per motivi personali, per mancanza di predisposizione o di desiderio profondo, perché il contesto sociale in cui vivo mi richiede un prezzo troppo alto. A livello pratico, come molti della mia generazione, non avrò mai la pensione. Se facessi un figlio adesso – figlio unico di genitori maturi – si ritroverebbe due anziani da gestire in un’età in cui dovrebbe invece perdersi per il mondo per trovare la propria strada. Io e suo padre potremmo diventare una zavorra, c’è questa reale possibilità. E anche se l’amore pare giustifichi tutto, secondo le narrazioni correnti, questo quadro familiare mi lascia molto diffidente. Perché un figlio poi è una cosa enorme. Creare un altro essere umano – mi sembra un atto così straordinario da diventare paralizzante. Mi guardo intorno e il “fallo e poi un modo troverai come tutti” mi sembra una strategia che funziona per chi ha la genitorialità scritta nel DNA, per chi ha la vocazione. A tutti gli altri tocca semplicemente adeguarsi tra frustrazione, senso di colpa, senso di inadeguatezza, rassegnazione, a volte persino infelicità. Al numero dei non nati, bisognerebbe affiancare quello più agghiacciante dei frequenti omicidi in famiglia, delle madri ma soprattutto dei padri che trovano nel gesto efferato e folle la soluzione a un meccanismo che di fatto non è reversibile. Mi chiedo: e se mi sentissi in trappola anche io? Potrebbe succedere. Amo il mio lavoro che mi porta a viaggiare molto e a incontrare persone sempre nuove, in ambienti stimolanti. Leggo, scrivo, studio, progetto, sono una persona di grande dinamismo che ama stare in compagnia e ha un senso dell’amicizia incommensurabile. Un figlio, inevitabilmente, ridimensionerebbe tutto questo. Niente più viaggi di lavoro frequenti, niente più “faccio la valigia e arrivo”, niente progetti avviati d’istinto per il gusto dell’avventura. Potrei sentirmi in trappola? Potrei. L’amore per un figlio, le gioie della maternità, sopperirebbero al resto? Forse. O forse no. Assomiglia al gioco d’azzardo, solo che la posta sono le vite di persone vere.

Ho letto che le depressioni post-parto sono in aumento e non mi stupisce affatto. Essere mamme significa anche, in un certo senso, anche se hai il compagno o il marito più attento del mondo, essere sole. Questo lo capisco anche se non sono mamma – lo vedo, lo percepisco, lo sento a pelle. Un figlio ti cambia, mi dicono le mie amiche, e io la conosco la fatica enorme del rinnovare me stessa a ogni passaggio obbligato che la vita mi mette davanti. Solo che il figlio non passa, non lo puoi dare indietro, non gli puoi dire: aspetta che devo riprendere fiato, che così non ce la faccio. Affrontare un grande cambiamento, una rivoluzione della mia identità e del mio modo di vivere, chi mi assicura che ce la farei? Nessuno, e quindi anche da non-madre sono, in un certo senso, sola. La lista potrebbe continuare all’infinito. Le ragioni per fare un figlio si riducono di solito a una (perché lo voglio), ma dietro un non-figlio ci sono milioni di domande senza risposta. E se nasce disabile? E se perdo il lavoro? E se il parto mi lascia qualche danno permanente, come la donna di cui ho letto con la vescica distrutta? E se mi pento? E se mi deprimo al punto da non riuscire a riprendermi? E se il bel legame di coppia che ho si spegne a causa dei figli? E se… e se… e se…. Mio marito me lo dice, certo: non puoi ragionare con tutti questi “se”. So che di base ha ragione, ma io sono una scrittrice, abituata a creare infiniti percorsi narrativi partendo da un unico punto di svolta nel percorso dei personaggi. E sono per giunta scrittrice per bambini, cioè abituata a maneggiare tutte le sfumature dell’infanzia, della famiglia, della crescita. È un paradosso? Affatto. Conosco le luci, e anche le ombre. E penso che una nuova vita sia troppo preziosa per accoglierla senza essersi prima posti alcune domande su se stessi e su cosa davvero ci aspettiamo dalla famiglia di cui abbiamo scelto di fare parte. Sia essa grande come due persone o come il mondo intero».

Non fare figli non è una colpa, essere sottopagate sì. La situazione fotografata da un rapporto sul gender pay gap sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance è desolante. Nel 2016 una donna ha guadagnato quasi la metà rispetto a un uomo. Ma ancora ci si stupisce che non tutte vogliano diventare madri, scrive Cristina Da Rold il 18 gennaio 2018 su “L’Espresso”. In molti si sono indignati nei giorni scorsi all'uscita di alcuni dati Istat che hanno sottolineato un nuovo record per l'anno appena trascorso: quasi la metà delle donne fra i 18 e i 49 anni, cioè in età potenzialmente fertile, non ha dei figli. Non serve dirlo, il tono con il quale la notizia è stata diffusa sui media è stato ancora una volta di sgomento giudicante: troppe donne oggi preferiscono posticipare la maternità per poter consolidare la propria posizione lavorativa dopo anni di studio, di specializzazione. Un posticipare che “spesso si traduce in una rinuncia”, ha scritto qualche esperto. Senza considerare che i figli non li fanno solo le donne ma le coppie, nella maggior parte dei casi. Ancora una volta il messaggio fra le righe è che queste donne sono colpevoli di non aver fatto tutto ciò che avrebbero potuto fare, invece di cogliere l'occasione per parlare di lavoro e del fatto che oggi una donna con meno di 30 anni che inizia un percorso professionale da professionista guadagna il 10% in meno di un suo collega uomo. Gap che fra i 30 e i 40 anni – che per la donna non sono solo gli anni cruciali per la maternità ma anche per l'avviamento di una professione – diventa del 27%. Oggi in Italia una professionista di 35 anni guadagna un terzo in meno rispetto al suo collega di scrivania. Fra i 40 e i 50 anni il gap è ancora del 23%. Inoltre, anche tralasciando le differenze di genere e facendo un discorso più generale, dal momento che come si diceva i figli non li fanno le donne ma le coppie, oggi un giovane professionista (uomo o donna) fra i 30 e i 40 anni guadagna il 36% rispetto a un uomo fra i 50 e i 60 anni (la generazione dei cosiddetti Baby boomers, i nati negli anni Sessanta). Per gli under 30 la situazione è ancora più desolante, con stipendi pari a un quinto di quelli dei loro genitori. La situazione la fotografa l'ultimo rapporto di AdEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati) che ogni anno raccoglie i dati sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance, non solo di giovani medici, giovani avvocati, giovani giornalisti, ma di qualsiasi professione sia regolamentata oggi da un albo professionale e quindi abbia una cassa di previdenza di categoria. Va detto dunque che questi dati non comprendono i professionisti più sfortunati, quelli talmente atipici da non rientrare in alcuna professione riconosciuta, e che versano i loro contributi all'INPS Gestione Separata. Tornando al gender gap, il primo dato che salta all'occhio è appunto la differenza di reddito medio complessivo del 2016: 40 mila euro per gli uomini e 23,5 mila euro per le donne. Stiamo parlando di quasi la metà del guadagno rispetto a un uomo, e di un reddito pari a circa 2000 euro lordi al mese, che oggi in Italia significano tutt'altro che serena indipendenza. Non si può non pensare che una delle ragioni preponderanti di questo gap, in particolare fra le libere professioniste, possa essere la mancanza di strutture di sostegno alla maternità che fa sì che le donne semplicemente possano dedicare meno tempo alla loro libera professione. Una distinzione d'obbligo poi è quella fra professionisti dipendenti e liberi professionisti: i primi sono riusciti in qualche modo a tenere le redini negli anni della crisi, mentre i secondi sono andati impoverendosi. Fra le due categorie oggi c'è un abisso: un professionista assunto (un avvocato in uno studio, un giornalista in una redazione) guadagna in media il doppio rispetto ai colleghi liberi professionisti. Guardando le serie storiche degli ultimi anni notiamo che il reddito reale (cioè il potere d'acquisto considerato un dato paniere di beni e servizi) dei professionisti dipendenti nel 2016 è cresciuto dell'8% rispetto al 2005, mentre quello di un libero professionista è calato del 18%. Senza una svolta nelle politiche sul sostegno alla maternità che facilitino la prospettiva di vita di una donna fra i 30 e i 40 anni, non possiamo stupirci che molte donne scelgano di non diventare mamme. Ci rallegriamo per i dati che ci racconta ogni anno Almalaurea, che vedono sempre più donne laureate e specializzate, future professioniste, ma alle strette di mano troppe volte non seguono sostegni concreti. Così come – d'altro canto – dovremmo forse iniziare a considerare la possibilità che non tutte le donne desiderino diventare madri, al di là del gender pay gap. Che molte preferiscano vivere una vita diversa, e smettere di sottointendere che in qualche modo la scelta di essere fertile e non madre sia una rinuncia.

"Hai figli? Stai per averne? Non sei una lavoratrice gradita". Il rapporto shock. Questo uno dei leit-motiv delle oltre seicento donne che si sono rivolte nel corso del tempo all'ufficio dell'ex consigliera di Parità della Regione Puglia, per denunciare le discriminazioni subite sul posto di lavoro. Dalle molestie alle mosse illegali, scrive Maurizio Di Fazio il 15 settembre 2017 su "L'Espresso". “Al tempo del mio insediamento, l’ufficio non era molto conosciuto sul territorio. E le risorse quasi azzerate per un maschilismo strisciante. Ho lavorato quasi da volontaria, consapevole che spesso le Consigliere sono l’ultimo baluardo di ascolto e difesa delle donne. E dire che la normativa europea (una direttiva del 2006 recepita con un decreto legislativo del 2010) ci ha reso ancor più protagoniste nella battaglia contro le discriminazioni di genere”. Per nove anni, fino al 2016, Serenella Molendini è stata la Consigliera di parità della Regione Puglia e ha deciso di cristallizzare la sua esperienza in un volume intitolato “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”. Radiografia di una regione, e di una nazione, sensibilmente in ritardo in tema di eguaglianza tra i sessi sul posto di lavoro. E tutto questo nel quarantennale della legge Anselmi sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. La parità di partenza e di accesso resta un concetto astratto, così come la qualità delle condizioni e delle opportunità lungo il percorso. Anche il gap salariale di gender non accenna a diminuire, specialmente nel settore privato. Le donne italiane si laureano più degli uomini, compresi master e specializzazioni post-universitarie, ma guadagnano di meno e il numero di quelle che arrivano a posizioni di vertice non tocca il 20 per cento del totale. È quasi impossibile superare il cosiddetto “soffitto di cristallo”. L’ascensore è bloccato, il 40 per cento è assorbito da mansioni di segretariato, dilagano i contratti precari tra le ragazze dai trenta ai quarant’anni. Il fardello che inibisce la libertà di carriera e la tranquillità in ufficio o in fabbrica delle donne è sempre lo stesso: la maternità. La maggior parte delle seicento donne che hanno bussato alla porta della Molendini lamenta che sia stata proprio questa la causa della discriminazione o del licenziamento subito. Le aziende tendono a mettere subito le cose in chiaro: se hai dei figli, e soprattutto se stai per averne qualcuno, non sei una lavoratrice gradita. Così il colloquio non andrà a buon fine, o inizieranno rappresaglie programmatiche se già assunte. Molte neo-mamme non ce la fanno a sopportare un clima di terrorismo psicologico, e gettano la spugna: licenziamenti mascherati da “scelte autonome”. Nel 2008 le donne pugliesi che si dimettevano dal lavoro dopo la maternità erano 666. Adesso sono 1587. L’aut-aut tra lavoro e maternità è ancora un’usanza invalsa nel mezzogiorno, ma a soffrire di questa “superstizione” antimoderna è un po’ tutta la penisola. E si cerca perfino di ignorare il divieto di licenziamento, previsto per legge, durante la gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Senza contare gli episodi di molestie sessuali, mobbing, trasferimenti forzati, maltrattamenti verbali, minacce e negazioni di orari flessibili, demansionamenti e riduzioni arbitrarie dello stipendio. “Attraverso il lavoro di questi anni si è avuta la piena consapevolezza che le denunce pervenute rappresentino solo la punta dell’iceberg di un sommerso impalpabile” scrive Serenella Molendini nel suo report. Istituite nel 1991, il ruolo delle Consigliere regionali di parità è decollato solo negli ultimi dieci-quindici anni: oggi sono delle pubbliche ufficiali a tutti gli effetti, e dopo una denuncia possono farsi mediatrici in sede di conciliazione, o adire le vie giudiziarie oltreché adoperarsi per un profondo mutamento culturale della propria comunità. “Si tollera che le donne si vedano precludere alcune tipologie di lavori e mansioni, o che al momento dell’assunzione si sentano richiedere se si è sposate o fidanzate, o se pensino di avere un figlio. Non desta nessuna meraviglia che una donna laureata, con master e specializzazioni, faccia carriera meno frequentemente e guadagni meno, o lavori in un call center – aggiunge l’ex Consigliera di parità -. Le lavoratrici conoscono bene le pressioni, più o meno sottili, di datori di lavoro e familiari per indurle a lasciare l’impiego, magari perché ritengono non ce la facciano a tenere il ritmo del doppio “carico”. Dunque atteggiamenti culturali, stereotipi duri a morire: non c’è da stupirsi che crolli il tasso di natalità, con un’Italia fanalino di coda in Europa”. La strada è ancora lunga, necessita di sentinelle in trincea, giorno dopo giorno, contro le discriminazioni di genere e il rapporto “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”, costellato di casi concreti (e vertenze vinte), indica la via. Ti licenzio perché sei in età fertile. Una donna già vittima di mobbing, rientrando al lavoro dopo un periodo di assenza, è stata invitata ossessivamente a rassegnare le dimissioni “vista anche la sua età, rischiosa per l’azienda, perché avrebbe potuto sposarsi e avere dei figli”.

Una gravidanza non può fermare la macchina giudiziaria. Un’avvocata incinta aveva chiesto il rinvio di un’udienza per complicanze della gravidanza. Ma la sua domanda è stata rigettata perché “pervenuta tardivamente in cancelleria”. La legale è stata finanche accusata di negligenza professionale. “Una colica non si fa preannunciare” ha polemizzato la Molendini.

Stalking occupazionale. Al rifiuto delle lavoratrici di sopportare apprezzamenti del genere “hai un culo da sballo” e “ti faccio diventare donna”, strusciamenti e pacche sui glutei, fanno spesso seguito atti di ripicca, sopraffazione e vendetta. Uno stillicidio di persecuzioni in stile stalking che osserva sempre il medesimo copione e pare non presentare alternative all’auto-licenziamento, passando per la discesa negli inferi della depressione.

Non ci stai? E allora ti pago lo stipendio quando pare a me (e ti calunnio). Nel 2010 una donna, assistente in uno studio medico, si è rivolta a Serena Molendini raccontandole di essere stata molestata ripetutamente dal suo datore di lavoro. Angherie a sfondo sessuale cominciate due anni prima, quando si stava separando dal marito. La donna respinge al mittente gli approcci e il medico passa al contrattacco. Sa bene che la sua dipendente non naviga in buone acque e prende quindi a retribuirla non più il primo giorno del mese, ma con assegni fuori piazza, accreditati anche quindici giorni dopo. La donna trova però il coraggio di denunciare l’accaduto, e il dottore si vendica contestandole delle presunte inadempienze lavorative. Inoltre l’aggredisce, per futili motivi, di fronte ai pazienti dell’ambulatorio. La segretaria finisce nel gorgo delle strutture pubbliche di igiene mentale che le diagnosticano “uno stato ansioso depressivo reattivo in relazione a problematiche lavorative”, curabili con ansiolitici e psicoterapia. Ma l’azione della Consigliera di parità le garantisce una conciliazione stragiudiziale della querelle, e le restituisce la dignità perduta.

Non ci stai? E io ti perseguito fino a costringerti al licenziamento. Un risarcimento per le molestie subite sul luogo di lavoro, per l’avvilimento psichico, lo stato di disoccupazione subentrato e la conseguente perdita di chance. di possibilità di conseguire vantaggi economici e morali dalla progressione di carriera. È riuscita a ottenerlo un’altra lavoratrice pugliese tormentata a lungo dal suo datore di lavoro, a colpi di mail e sms espliciti. Night and day. Blandizie e ricatti, profferte sessuali e ritorsioni. La donna, rischiando di impazzire, si era licenziata. L’ex Consigliera l’ha salvata.

LE DONNE INTELLIGENTI NON FANNO FIGLI. “Inchiesta shock: le donne intelligenti non fanno figli!” Scrive "theyummymom.com" a novembre 2012. Jessica Valenti, femminista americana, ha scritto un libro “Why Have Kids?”, tradotto in Italia “le donne intelligenti non fanno figli” dove demolisce il mito della maternità mettendo in luce lo scarto tra come ci si immagina con un figlio e com’è in realtà essere madre –cioè un incubo-. E che quindi le donne che non fanno figli sono più furbe, statisticamente più colte (laureate e con master) e quindi più intelligenti. E forse grazie a questa cultura, istruzione e intelligenza scelgono di non diventare madri. Forse anche far polemica è una strategia di marketing, ma sta di fatto che del suo libro se ne parla. Ecco qualche perla di saggezza. Le donne intelligenti non fanno figli: “Dire che la mamma è il lavoro più importante del mondo è un modo furbo di accontentare le donne che non si sentono appagate. Le si tiene in casa così si evita che diventino avvocati e politici e abbiano lavori importanti nella sfera pubblica. Mah, forse un fondo di verità c’è. Io ho passato gran parte della mia vita cercando di non rimanere incinta. Non sono mai stata una di quelle che giocava a fare la mammina con le bambole o che chiedeva alle amiche con i bimbi piccoli “oh me lo fai tenere un pò in braccio?”.

Non me ne fregava proprio niente del mondo della maternità. Ricordo che le mie amiche del liceo, a causa di svariati incidenti di percorso, sono rimaste incinte tutte molto giovani: 20, 24, 25 anni- e io ogni volta che accadeva pensavo: “oh poverina, si è rovinata la vita”. Ignoravo ciò di cui ora non riesco a fare a meno. A dire il vero pensavo che non sarei mai diventata mamma. E anche molti miei amici lo pensavano. Quando giro per la mia città con mio figlio e incontro vecchi amici spesso il commento più ricorrente è: “proprio tu con un figlio…” Si, proprio io. Ero consapevole del mio egoismo ed ero consapevole che quando hai un figlio devi provvedere alla sua sopravvivenza, che viene prima di te. In tutto. E quindi non ci pensavo minimamente a cedere la mia libertà in favore di una nuova vita. E di libertà ne avevo tanta:

-Potevo decidere di prenotare un volo dovendomi solo preoccupare di incrociare i prezzi più bassi di SkyScanner con gli impegni in agenda, niente altro. -Se al lavoro fissavano una riunione all’ultimo minuto, dopo le sette di sera, al massimo dovevo disdire il massaggio dall’estetista o l’aperitivo con le amiche.

-Avevo il lusso di lasciare il frigorifero vuoto e decidere se uscire a cena, ordinare sushi take away o morire di fame.

-Potevo fare sesso a qualsiasi ora del giorno e della notte.

-Potevo svegliarmi la domenica mattina alle 10, guardare l’orologio e decidere di tornare a dormire per altre due ore. (gli ultimi due punti sono quelli di cui sento più la nostalgia.)

Ed ero anche in quella percentuale di donne apparentemente emancipate, con una laurea e un master e quindi dovevo essere più furba e non cadere nel tranello del richiamo riproduttivo. Ma poi mi è successo. Ho desiderato diventare mamma, senza sapere con esattezza a cosa sarei andata incontro. Ma tanto nessuno, finché non diventa genitore, sa veramente a cosa va incontro. Il desiderio si è avverato, anche abbastanza velocemente, quindi sono diventata mamma. E ho capito che è davvero faticoso e a volte anche frustrante, ma non è mai una sfiga. Ho conosciuto un amore che non avevo mai provato per nessuno e che è un amore limpido, pulito e assoluto. Ora la mia libertà finisce dove iniziano i bisogni e le necessità di mio figlio, ho stravolto la mia vita, i miei orari, il lavoro e tutte le abitudini di cui sopra sono un ricordo lontano. Ma va bene così. E io forse, nonostante la laurea e i master sono poco razionale e forse anche poco intelligente. E quel poco di intelligenza che avevo se ne è andata a puttane a causa della privazione di sonno forzata. Il mio punto debole è, ed è sempre stata, la mia dipendenza dalle emozioni.

Quelle che ti fanno sentire viva,

Quell’agitazione adrenalinica prima di una prova importante,

Quella rabbia che non riesci a trattenere le lacrime,

Quelle emozioni che nascono dalla pancia, come i figli.

E io sono governata dalla mia pancia e dai miei istinti. Ciò che ti regala un figlio sono un fiume in piena di emozioni: dalla sensazione di stordimento del test positivo, alla gioia, all’attesa, alla preoccupazione per 37.5 di febbre, al dolore e all’emozione del parto, alla stanchezza e alla disperazione. All’amore immenso e unico in un sorriso o in un abbraccio. Tutte emozioni impetuose e irripetibili. Che nemmeno gli amori più tormentati, scenografici e passionali ti regalano. Non è vero che le donne che non fanno figli sono più intelligenti, più razionali, o più furbe. Le donne che non fanno figli sono solo meno stanche.

Non sono madre perché non voglio, scrive Veronica Mazza il 21 Gennaio 2015 su "La Repubblica". Le childfree, ossia le donne che decidono di non avere figli, si sono decuplicate in meno di una generazione nel mondo occidentale. Eppure questa scelta suscita ancora sospetto e diffidenza da parte di molti. Abbiamo chiesto alla psicoterapeuta cosa si cela dietro il non desiderio di maternità e perché resta ancora un tabù. Venivano chiamate “mule”, “segnate da Dio”, “rami secchi” su cui non è attecchito l’istinto di maternità. E anche oggi, le donne che hanno scelto di non avere figli, suscitano sospetto e diffidenza, quasi fossero “contro natura”. Eppure secondo le stime dell’Eurisko, le non madri si sono decuplicate in meno di una generazione nel mondo occidentale. E ora a dargli voce è il web doc “Lunàdigas” (parola della lingua sarda usata per le pecore che non figliano per via della luna “storta”), frutto di molti anni di lavoro di Nicoletta Nesler e Marilisa Piga, dove le tante protagoniste childfree spiegano le ragioni intime di una scelta molto privata che, pur nelle diverse e soggettive declinazioni culturali, economiche e sociali, descrive una condizione universale ricca di sfumature e vissuta in modo simile a tutte le latitudini. A raccontarsi sono donne comuni, ma anche volti noti come Maria Rosa Cutrufelli, Maria Lai, Veronica Pivetti, Geraldina Colotti, Melissa P, Lea Melandri, Margherita Hack, Lidia Menapace e altre ancora. Donne omosessuali, donne giovani, donne avanti con gli anni, ci sono anche alcuni uomini, come Moni Ovadia e Claudio Risè. Per capire meglio il tema della non maternità come scelta di vita abbiamo dialogato con la psicoterapeuta Maria Claudia Biscione.

La decisione di non volere dei figli a molti appare ancora oggi strana e incomprensibile e anche “scandalosa”. È ancora un tabù essere donna senza voler essere madre?

"A oggi appare ancora troppo stretto il legame tra identità e ruolo materno, come dire che una donna è completa solo se è anche mamma. Viceversa verrà vista ancora con occhi un po' compassionevoli di chi 'sicuramente non ha potuto e si racconta che va bene così'. Purtroppo la scelta di non concepire è percepita ancora come insana, problematica o, peggio ancora, frutto di una natura distorta, come se nell'identità di una donna che non contempla la maternità ci fosse qualcosa di anomalo che va contro natura".

Le donne che vivono all’insegna del “childfree” spesso vengono tacciate per egoiste, narcise ed eterne Peter Pan, incapaci di amore e di generosità…

"È vero, le donne che prendono questa strada sono guardate con molto sospetto, come se fosse impossibile stabilire autonomamente e per davvero di rinunciare alla maternità. E spesso dar loro queste etichette è la conseguenza di giudizi aspri e taglienti, motivati da pareri che spesso non guardano l’emotività e la storia personale. Non è vero sempre che donare la vita racchiude in sé l'idea di una generosità e di una speciale capacità di amare che chi vi rinuncia non ha. In realtà, è più facile essere delle 'cattive madri' che delle portatrici sane di altruismo, amore, serenità e rispetto per i propri figli. E questo perché la competenza affettiva attiene a caratteristiche emotive e psicologiche personali e non certo a un ruolo universalmente riconosciuto". 

Guardando i dati statistici, sempre più spesso le donne scelgono di non avere figli: sono ben dieci volte più numerose rispetto a 50 anni fa, secondo l’Eurisko...

"È un dato che aumenta perché cambiano, specie nei paesi occidentali, le opportunità e gli step evolutivi, i tempi di raggiungimento degli obiettivi personali che si muovono verso una maggiore autoaffermazione. Sono tutti elementi che possono condurre a questo tipo di scelta, a desiderare di essere una donna realizzata creando una strada altra all’essere mamma, in cui dar voce a un sé ugualmente complesso, articolato e realizzato senza dover per forza esprimersi attraverso il concepimento". 

Il non volere figli si traduce automaticamente nel non volere una famiglia?

"Non è affatto così, anzi se pensiamo all'etimologia stessa del termine si può comprendere quanto, invece, il concetto di famiglia sia di ampio respiro e di grande creatività. Si parla infatti di un nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e di norma, sono legati tra loro con vincolo di matrimonio, convivenza, o da rapporti di parentela o di affinità. Il concetto di 'due' e di 'affinità' è un chiaro orientamento che estende il concetto a differenti evoluzioni di scelte e desideri. La famiglia fatta dalla coppia (etero-omo) come nucleo assestante e bastante a se stesso, ma anche la famiglia fatta dall'unione di persone (amici) che non condividono amore, ma affetto e affinità elettive che riempiono e soddisfano profondamente. E, inoltre, il sempre maggior numero di separazioni può fornire a molte donne che scelgono uomini separati e con figli la positiva esperienza di viversi questi ultimi nutrendosi di un amore sincero e riempiendo la propria vita di una piena gratificazione".

Forse il problema è che molti danno per scontato che l’istinto materno sia in tutte le donne, quando invece non è così nella realtà dei fatti…

"La questione è complessa e a volte viene fraintesa. Dal mio punto di vista, è più il contesto in cui si vive che sollecita bisogni che poi appaiono 'istintivi' ma che, in realtà, sono molto eteroindotti. Se le donne non fossero più in assoluto suggestionate o 'accerchiate' socialmente e culturalmente dalla maternità, vista come dimensione necessaria, probabilmente cambierebbero di molto le regole, i tempi e il bisogno di procreare. Credo, inoltre, che 'l'istinto materno' attenga soprattutto alla capacità naturale di decodificare, pur senza insegnamento, i codici di comunicazione con il proprio figlio e anche lì diviene poi una competenza di ascolto soggettiva e non assoluta". 

La non maternità è una decisione che ancora può far sentire quasi in colpa per le attese frustrate dalla società?

"Può accadere perché la pressione esterna è ancora troppo invasiva, per molti è una scelta incomprensibile e per questo inaccettabile. Il rischio è che sia proprio questo stigma sociale a costringere molte donne, soprattutto le meno emancipate, a non avere il coraggio di assecondarsi o di sapersi ascoltare, finendo così per fare figli anche lì dove intimamente non vorrebbero. Il punto è come rispettarsi e accettare l'identità femminile slegandola dal ruolo di madre e, spesso di moglie, senza giudizi, pregiudizi, o sessismi, ma semplicemente focalizzandosi sulla libertà di poter essere come si vuole". 

Qual è il modo di spezzare questo circolo vizioso?

"La giornalista e filosofa Ida Dominijanni sostiene che abbiamo fatto bene a non fare figli, perché abbiamo messo al mondo dell’altro. Credo sia importante partire proprio da questo concetto per superare questo tabù, focalizzando l'attenzione su tutti gli scenari possibili con cui ognuna ha la voglia e il diritto di riempire la propria esistenza. Ci sono così tante cose da fare nella vita, che il diventare madri può non essere visto come prioritario o fondamentale per essere soddisfatte e felici. E non si tratta della realizzazione professionale, come spesso si pensa delle donne che non fanno figli, perché le due cose non sono in alternativa, ma semplicemente è un passaggio del concetto di maternità da destino a scelta, in cui si può puntare su nuove forme d’identità". 

Donne non caschiamoci: il potere che ci tocca è solo una presa in giro. E' sempre un gruppo di maschi magnanimi che decide se dare una qualsiasi carica a una donna. E non perché sia brava. Ma solo per necessità burocratica: tra venti capi uomini ce ne vuole almeno una per fare parità, scrive Natalia Aspesi il 17 luglio 2017 su "L'Espresso". Signore state in guardia, soprattutto se siete videogeniche e attorno ai 40. I maschi come sempre tramano contro di voi, e qualche ingenua ci è già cascata. All’erta, all’erta! Se per caso simpatizzate stoltamente per un partito o movimento o ancor peggio vi fate parte, oppure se un vicino di casa, un parente, il vostro salumaio, il compagno di università di vostra figlia, o addirittura un pezzo grosso della politica, vi stanno circuendo, lusingando, muratevi in casa, oppure fuggite in chador dove alle donne è proibito anche guidare la macchina. Che libertà! In ogni caso siate furbe e forti, lo siete sempre state nei secoli, per salvarvi. Sappiate dire fermamente di no con la scusa che essendo donne, non meritate simili onori né sareste in grado di esercitarli: parlamentare, governatore, sindaco, ministro, sottosegretario, addirittura premier o capo di Stato? No grazie, sbrigatevela da voi, uomini di potere, il  casino è vostro, voi vi siete dimenticati del paese che sta imparando ad arrangiarsi senza e a non darvi più fiducia, mentre litigate per cose che non sfiorano nessuno, le alleanze, le scissioni, le correnti, in continuo fermento, le elezioni ogni giorno spostate, o domani o tra un anno, e soprattutto in quella che un tempo si chiamava sinistra ogni giorno c’è uno che salta su tutto contento per dire che no, lui è contrario: a qualsiasi cosa. E magari il governo attuale qualcosa di positivo lo sta facendo, ma il fragore di chi è già oltre e sta guerreggiando per il prossimo, è così invadente, che non si riesce a saperne quasi nulla. E intanto non un pensiero per noi che poi dovremmo votare, e siamo oltre le mura, in un polveroso deserto dei tartari. La situazione sarebbe meno oscura se anche le donne si facessero sentire? Nel mondo, le donne si impegnano di più, occupano cariche di grande importanza non solo politica: e per esempio 9 sono capi di governo, 10 capi di Stato. È vero, ma non è detto che le signore che governano il Bangladesh o il Nepal assicurino con premura materna una vita migliore al loro popolo, né che quelle della Birmania o della Polonia siano contente del loro eventuale potere e lo possano esercitare con una certa autonomia. Certo, Angela Merkel è il più potente personaggio politico d’Europa, e anche il migliore. Certo Theresa May, rieletta premier d’Inghilterra, pur fustigata per la Brexit, rappresenta liberamente, se non quietamente, il suo potere, e così Nicola Sturgeon della Scozia, e Ada Davidson, lesbica dichiarata, che è la diretta rivale della May nel suo stesso partito, quello conservatore. Forse gli italiani e le italiane sono diversi, più familisti, più antichi, più ateo-cattolici? Le donne più pigre, gli uomini più presuntuosi? In ogni caso è sempre un gruppo di maschi che decide se dare una qualsiasi carica a una donna: che non è mai la prima persona a venire in mente anche se bravissima, ma una necessità burocratica: tra venti capi uomini ci vuole almeno una donna per fare parità e democrazia! In tutto, anche nell’esercizio della politica. Capita pure che una donna venga proposta come specchietto per le allodole: carina, intelligente, con una sua professione, docile, anche coraggiosa, tanto da accettare una carica pericolosissima che nessun maschio furbastro vorrebbe, e lei,  sprovveduta, per ambizione o stoltaggine, invece dice di sì, tutta contenta: sa che i suoi l’aiuteranno, anzi faranno tutto loro, lei dovrà solo apparire in giro ben pettinata e se sindaco, con la fascia tricolore, e ripetere sempre lo stesso discorsetto senza mai cambiare espressione. I suoi sanno che potranno manovrarla come vogliono, governare senza esporsi, se poi non funziona, si sa, è una donna! Però il progresso c’è: anni fa se una donna si opponeva a qualcosa c’era sempre il furbone che diceva, per forza, ha le sue cose! E non è passato molto tempo da quando tra i nostri uomini di governo c’era chi accusava gioiosamente la Merkel di essere una culona. Ancora oggi in Italia una culona, fortunatamente per lei, difficilmente verrà presa in considerazione per affidarle un ruolo importante, decisionale: perché, lo sappiamo, le culone non saprebbero farlo, sotto lo sguardo contrariato degli uomini. In tutto il mondo, nei paesi provvisti di parlamento, la media delle donne elette è del 22%; nei paesi nordici è del 41%; però in Italia non sono poche, il 31,4%. Ma non è un gran segnale, pensando che ci sono più donne che uomini nei parlamenti del Ruanda e della Bolivia. In quanto ai ministri, se nel governo Renzi le donne erano 8 su 16, cioè la metà, nel governo Gentiloni i ministri sono 18, le donne 5. Meglio così, meno fastidi, meno grattacapi, meno insulti sessisti, come invece deve ancora sopportare la presidente della Camera Laura Bodrini, bella, brava e paziente. Dove se ne stia andando un’Italia furibonda non si sa, l’informazione comunque pare molto contenta perché, dicono, il disastro le giova. Ma è proprio in questi momenti incomprensibili, nell’emergenza o nella fine, che la verità viene a galla: a parlare, gridare, dire la sua, arringare, minacciare, insultare, litigare, attaccare, sono solo o quasi soltanto, uomini, anche i dimenticati, i pensionati, quelli che avevano giurato di occuparsi solo di bimbi africani o di Sacre Scritture. In questo momento pare che il parere delle signore, di qualsiasi carica godano, non sia essenziale, non partecipano al mega e inconcludente dibattito: e qui sta il pericolo, perché quando il ginepraio sarà irrisolvibile del tutto, e governare impossibile, come sempre hanno fatto in passato per professioni scadute socialmente ed economicamente, gli uomini, magnanimi libereranno il campo e verrà chiesto alle donne di rammendarlo, erano tanto brave in passato a farlo con le calze! No grazie. 

Natalia Aspesi: La libertà di non fare figli è la più grande conquista femminile. La giornalista e scrittrice contro la smania di "genitorialità", contro l'istinto materno, contro il maschio contemporaneo. Vietare l’accesso ai bambini al ristorante? «Giustissimo. Se i genitori non li sanno più educare, che li tengano in casa», scrive Simonetta Sciandivasci su L’Inkiesta il 27 Febbraio 2016. «Il destino delle donne non è fare figli, ma vivere», ci dice, con affetto: è una frase che, ultimamente, potrebbe capitare di sentire in bocca pure a qualche maschio. Nel 1978, in Lui! Visto da lei, scrisse: “se un uomo si dichiara femminista non c'è un minuto da perdere: su le mutande e via, senza pensarci un minuto". Avendo un'intelligenza baciata dal dono della leggerezza, Natalia Aspesi ha sempre volato altissimo. Di quando la fecero inviata a Il Giorno, dice che fu «non per bravura, intendiamoci, ma perché non volevano donne in redazione». Lo racconta senza piagnistei come sempre, perché: “nei piagnistei finirà il mondo”, diceva Eliot. Natalia Aspesi ci ha fatto sorridere tutte le volte che ha preso parola, tutte le volte che ha scritto: raro per una femminista. Che poi, tanto, in una parola non si contiene nessuno, men che meno una come lei. Di certo, Natalia Aspesi dalla parte delle donne c'è sempre stata e senza pietismo: le ha strigliate. Le ha dipinte senza sconti: le "sorellastre", le "coniugate" (si deve leggere, imperativamente, il suo Delle donne non si sa niente). Pure delle mamme ha avuto il coraggio di denunciare i limiti odiosi e le sciocchezze, decenni fa, quando non era affatto semplice come adesso (perché adesso, ha scritto la sociologa Camille Paglia, le donne sono impegnate a cancellare ogni retorica della maternità). Un coraggio di cui ci si figura la vastità solo tenendo a mente che lei, mamma, non lo è diventata mai.

Com'è stato non avere figli?

«Un caso. Quando avrei potuto farli non li ho fatti, non sono venuti e siccome non li desideravo nemmeno non ho fatto nulla per averli».

Anche non essere madre può essere un caso?

«A volte ci sono delle ragioni. Alcune donne rinunciano a diventarlo perché pensano che sia un legame troppo forte».

Per esempio le donne in carriera che vogliono evitare troppi legami?

«Quelle che fanno carriera in realtà sono le donne che fanno più figli: se li possono permettere. Le prime donne di peso nella finanza, nell'industria e in tutte le professioni prima esclusivamente maschili, hanno sempre avuto molti figli. Ai miei tempi, persino quattro o cinque per ognuna di loro, forse anche perché volevano dimostrare che fare carriera non le mascolinizzava, non le spingeva a vedere nei figli un fastidio né un ostacolo».

E ora l'esigenza di essere genitori è ancora più diffusa.

«Smania non solo delle donne, ma anche delle famiglie omogenitoriali».

Anche gli omosessuali, adesso, stanno cascando nella trappola per cui costruire una famiglia è il solo mezzo per legittimarsi?

«Oggi gli omosessuali desiderano dei figli perché sanno di poterli avere. Nell'Inghilterra dell'Ottocento, quando essere gay era un reato, di certo non poteva venire nemmeno in mente la prospettiva di costruire una famiglia. Succede oggi perché la scienza ti consente di avere figli anche se non vai a letto con una donna».

Nessuna brama di riconoscimento sociale, allora?

«Diventare padre non dà alcun riconoscimento neppure agli eterosessuali. Anzi, per tutti i maschi è ancora più complicato: per la prima volta devono fare i conti con tutti gli oneri e le difficoltà che avere un figlio comporta. Si scontrano con la loro inadeguatezza».

Non crede che sia più difficile, invece, oggi, essere madre?

«E’ più difficile essere padri, invece. Fare i mammi, portare il passeggino, togliere il pannolino, accompagnare a scuola, insomma essere più presenti, non è sufficiente. I figli vanno cresciuti, allevati, bisogna insegnar loro a vivere: tutto questo gli uomini non sono più capaci di affrontarlo».

Emanuele Trevi ha scritto che i padri che portano il passeggino e fanno il bagnetto ai figli stanno eliminando l'Edipo: un danno che stima incalcolabile.

«Avrà le sue ragioni, non discuto. Ma mi chiedo perché un padre non dovrebbe fare il bagnetto a suo figlio. Il problema è quello che deve scattare dopo, quando un bambino non è più un bambolotto che non deve solo soddisfare bisogni primari. Perdendo l'autorità che prima dava loro il diritto/dovere di rimproverare, ammonire e punire, i padri sono, adesso, perduti».

Non crede che, invece, stiano scoprendo la tenerezza?

«Non stanno scoprendo un corno. A mettere pannolini sono bravi tutti: allevare è un altro paio di maniche».

Che ne dice, invece, delle donne che parlano esclusivamente dei propri figli, facendo sentire pure più stronze chi non ne ha?

«Non hanno altro nella vita. Ho amiche che sono madri e nonne: non mi hanno mai parlato di figli e nipoti, pur adorandoli».

Mai?

«Perché distinguono la vita intima da quella sociale. Sono donne intelligenti che amano, lavorano, leggono e che dei propri figli non parlano; non ne menano vanto. Perché i figli non sono la loro unica fonte di gioia. Mi spiace molto per le ragazze che non hanno altri argomenti: io preferisco quelle che raccontano dei loro amanti».

E di quelle che ritengono la maternità il peggiore nemico della libertà femminile?

«Non ne conosco.

Non ha letto No Kids. 40 ragioni per non fare figli di Corinne Maier? In America ha fatto il boom.

«Arriverà presto anche "40 ragioni per fare figli". Si tratta di giochi editoriali, che di certo nascono da un'assunzione reale: si può vivere senza figli. Ciò che è davvero importante è che stiamo finalmente archiviando l'idea per cui essere madri sia il destino delle donne. Il destino delle donne è vivere».

E essere madri?

«Fare figli è una scelta, così come non farne: questa libertà fondamentale è la più grande conquista femminile».

Allora l'istinto materno non è universale?

«Il fatto che oggi molte donne desiderino assolutamente avere figli non c'entra nulla con l'istinto materno».

Come no?

«Ha a che fare con l'incapacità di accettare che le relazioni d'amore finiscono e che anche il matrimonio è una società al cui interno, dopo qualche anno, la passione si attenua».

I figli per molte donne sono il sostituto della passione? Vuole dire questo?

«Ci si aspetta che sostituiscano l'amore che svanisce e che si pretende non cambi mai forma, né intensità. Come se poi, peraltro, fare i genitori fosse una passeggiata: non c'è nulla di più complesso, è una responsabilità che travalica chi la ha, comporta molte rinunce. E poi, sai cosa le dico?»

Cosa?

«Ci sono troppi bambini! Se al mondo ne facessero di meno, staremmo meglio».

Che ne pensa di alberghi e ristoranti in cui l'accesso è proibito ai bambini troppo piccoli? 

«Giustissimo. Se i genitori non li sanno più educare, che li tengano in casa. Non capisco per quale ragione dovrei sopportare un antipatico bambino che non so chi sia, rovinandomi la serata. D'altronde, di ristoranti e alberghi per famigliole noiose è pieno il mondo».

No, rifiutare la maternità è autolesionismo. Una donna che dona la vita è ancor più donna. Solo l'egoismo soffoca questo istinto naturale, scrive Annamaria Bernardini De Pace, Mercoledì 07/08/2013, su "Il Giornale". Alzi la mano chi invidia una donna che non può aver figli. Credo che nessuno possa alzarla. Perché donna è sinonimo di maternità. Poi ciascuna può decidere quando avere un figlio, se averlo o no. Ma nessuna donna può negare di sentirne il desiderio, fin dall'infanzia. Tutte abbiamo sperimentato i primi gesti di cura e accudimento con le bambole; tutte abbiamo sentito l'emozione di nutrire, anche una sola volta, un fratellino o un piccolo amico. L'istinto di dare la vita è il motore di ogni nostra cellula; il nostro corpo ci rende da subito fiere di poter essere un giorno portatrici della vita che si rinnova. Poi succedono tante cose che inducono a fare scelte più razionali, egoistiche o necessarie. E l'istinto viene sepolto da motivazioni estemporanee o insuperabili: la paura, l'egoismo, la carriera, la mancanza di denaro o dell'uomo giusto. Ma molte donne ascoltano e seguono l'istinto, anche se è apparentemente tardi, anche a costo di immani cure ormonali, di sacrifici personali, persino se non c'è l'uomo del tutto. Perché avere un figlio vuol dire conoscere l'essenza insuperabile dell'amore, dare un senso alla fatica di vivere, rendere etica la propria capacità di produrre, conoscere la responsabilità di creare e formare una persona. Significa anche programmare il futuro nell'illusione dell'eternità; non ragionare solamente con l'«io» ed emozionarsi, prima di ogni scelta, con il coinvolgente «noi». Certo, ci sono anche mamme indifferenti, cattive o assassine; come, del resto, figli deteriorati dal disamore o dall'incapacità. Ciò non toglie che l'avere figli non porta solamente sacrifici, ansie e rinunce che, anzi, sono irrilevanti rispetto al motore costante dei sentimenti che vivificano l'anima e rivelano il senso profondo dell'esistenza. Una donna che non può avere figli, a nessun costo, cerca disperatamente di adottarli, di avere anche l'affido temporaneo. Non credo si possa definire questa voglia come pura generosità sociale, potendosi invece intuire come espressione di un bisogno primordiale, insoddisfatto altrimenti. Non si giustificherebbe infatti la capacità incredibile di queste donne di sottoporsi a tremendi iter burocratici, sedute psicologiche, frustrazioni ripetute, attese estenuanti che vanno ben oltre i nove mesi della più semplice gestazione. Non è invidiata quindi una donna che non può avere figli, ma neppure può essere invidiata una donna che non vuole avere figli. Non sono quindi per nulla d'accordo con quanti negano che la femminilità si identifichi con la maternità. Anzi credo che le donne di questa idea stiano reprimendo la loro femminilità; nell'obiettivo di essere più uguali al maschio, queste donne vedono, nel bisogno di libertà assoluta, la illusoria conquista della pari dignità di genere. Negarsi un figlio per la carriera, il piacere, un malinteso senso di libertà, è una specie di autoviolenza al cuore più segreto e potente della femminilità. Significa dire, voglio appropriarmi anche della parte peggiore dell'uomo per non essere da meno: egoista, un po' vile, libera di fare e disfare, incapace di proteggere. Invece, una vera donna, non competitiva con il genere maschile, è davvero libera, appagata e anche di successo, solo quando può dimostrare di sapere fare tutto, come solo una donna sa fare, specialmente avendo regalato al mondo uno o più figli. Se è vero che donna non si nasce, ma la si diventa, l'essere madre fa diventare più donna di qualsiasi altra donna.

Pentirsi di essere madri: in un libro il racconto delle donne che vorrebbero tornare indietro. "Non sono contro la maternità, non sono contro le madri e soprattutto non sono contro i bambini", premette Orna Donath, giovane sociologa autrice del volume. Rincorsa dalle polemiche ad ogni presentazione, è attesa in Italia il 22 aprile: "Ci hanno promesso che essere madri sarebbe stata la miglior della vita o l'unico modo per sentirci davvero "donne complete", ma la realtà è ben diversa", scrive Sara Beltrame il 13 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Orna Donath, giovane sociologa israeliana, è l’autrice di “Pentirsi di essere madri” (Bollati Boringhieri Editore) e presente in paesi come Spagna, Germania e Stati Uniti. Sarà in Italia per presentarlo a Tempo di Libri – la nuova Fiera dell’Editoria Italiana – sabato 22 Aprile alle 14.30, accompagnata da Serena Marchi, Michela Murgia e Veronica Pivetti.

Il libro è il risultato di uno studio sociologico compiuto tra il 2008e il 2013, in cui l’autrice è entrata in contatto con 23 donne ebreeisraeliane d’età compresa tra i 26 e i 73 anni, madri e a volte nonne, disposte a dichiarare di essersi pentite di essere madri. Sappiamo che il libro, appena viene pubblicato in qualche nuovo paese, suscita grosse polemiche…

«I commenti che si scatenano online sono piuttosto duri, sì, e quindi voglio subito dire che non sono contro la maternità, non sono contro le madri e soprattutto non sono contro i bambini. Semplicemente ho cercato di mettere luce in un angolo della nostra vita di donne sul quale per troppo tempo si è raccontata sempre la stessa storia: la maternità è un’esperienza meravigliosa che completa il percorso di una donna e, se come donne decidessimo di non avere figli, sicuramente ce ne pentiremmo amaramente. Sono cresciuta con queste parole e con un dito puntato contro: “Ti pentirai di non avere figli!”»

E lei, effettivamente, figli non ne ha avuti.

«No. Io sono una non madre per scelta ma è impossibile in Israele per una donna pensarsi come una non madre. Il numero perfetto di figli è 3. Io non ne volevo nemmeno uno. L’ho capito all’età di 16 anni e l’ho comunicato alla mia famiglia ma credo che per circa vent’anni nessuno di loro mi abbia presa sul serio. A 34 ho pubblicato in Israele il mio primo libro e nel risvolto di copertina decisi di descrivermi come una donna che non voleva avere figli. Scrissi una sorta di confessione. Fu tremendo. Fu come l’arrivo di un uragano. All’improvviso le radio, le televisioni, i giornali, associavano il mio volto a quello della donna che non vuole essere madre. Credo che in quel momento i miei genitori abbiano finalmente capito che era vero: non avrei avuto figli».

Tornando alla sua ricerca: in che modo è stato possibile per lei identificare una donna come “una madre pentita”?

«Molte donne hanno sentimenti contraddittori rispetto alla maternità, ma le 23 donne che ho intervistato hanno tutte risposto un no secco alle seguenti domande: Se potesse tornare indietro, sapendo tutto quello che comporta, sarebbe di nuovo madre? Dal suo punto di vista essere madre porta dei vantaggi? Oppure: I vantaggi compensano gli svantaggi?»

Queste domande derivano dal racconto edulcorato che è stato fatto della maternità da un certo momento della nostra storia fino ad oggi: se non si è madri ci si pentirà prima o poi, essere madre porta solo vantaggi e la fatica verrà sempre ricompensata.

«Esatto. Ci hanno promesso che essere madri sarebbe stata la miglior cosa che potesse capitarci nella vita o l’unico modo per sentirci davvero “donne complete”, ma la realtà è ben diversa».

Che ruolo gioca la religione delle intervistate nella sua ricerca?

«All’inizio pensavo che fosse centrale ma poi, quando il libro è uscito in altri paesi come la Spagna, la Germania e la Cina ho iniziato a ricevere email da donne di tutto il mondo e ho capito quanto il sentimento del pentimento fosse un argomento ampiamente condiviso da tutte».

Lei definisce le donne che non sono madri come madri di nessuno e dichiara di sperare che queste due fazioni (le madri e le madri di nessuno) smettano di schierarsi l’una contro l’altra e giudicarsi.

«La società ci spinge alla divisione perché, se ci unissimo, sarebbe devastante per il sistema patriarcale. Probabilmente, se le donne che ho intervistato non avessero visto in me una persona che ha molto in comune con loro e un’unica sola differenza (essere una non madre) non avrebbero accettato di parlarmi così apertamente del loro pentimento».

Lei sostiene che la maternità dovrebbe essere trattata come ogni altro tipo di relazione umana. Che cosa significa?

«Diventare madri significa prima di tutto iniziare una relazione a due con una persona che non sappiamo chi sia. È come un salto nel vuoto. La maternità è una relazione bilaterale tra due individui e, in quanto tale, è probabile che tuo figlio o tua figlia non ti piaccia o che ti ricordi cose di te che proprio non vuoi ricordare. In altre relazioni bilaterali ci succede di provare emozioni contrastanti: amiamo, odiamo, abbiamo paura, adoriamo…E allora perché queste emozioni non dovrebbe provarle anche una madre verso i propri figli? Non è logico che il pentimento – che è un’emozione umana – stia fuori dallo spettro delle emozioni che può o non può provare una donna, madre di qualcuno. E non è che io stia sperando che esista. Sto solo cercando di dire che, se è vero che esiste, è arrivato finalmente il momento di raccontarlo».

Perché alcune madri si pentono di avere avuto figli. TPI ha intervistato una psicoterapeuta per far luce sul sentimento di pentimento che provano molte madri dopo aver avuto un figlio e che è ancora un tabù, scrive il 17 Maggio 2017   Laura Melissari su TPI. Se potessero tornare indietro non lo rifarebbero. Se potessero ripartire, sceglierebbero di non diventare mamme. Il giudizio nei confronti di queste donne è in agguato. Mamme snaturate, mamme che non amano i propri figli, viene da pensare, e spesso da dire. Oggi quello delle “mamme pentite” continua ad essere un tabù, uno stigma sociale, qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da non poter confessare nemmeno a noi stesse. Pentirsi di essere diventate madri non significa odiare i propri figli. Spesso coloro che provano questo sentimento amano i loro figli, ma non sopportano il loro essere madri.  Si è iniziato a parlare più apertamente della questione dopo che Orna Donath, una ricercatrice israeliana della Ben Gurion University, ha pubblicato il suo saggio accademico Regretting Motherhood, che ha generato un acceso dibattito internazionale nei mesi scorsi. La sociologa, che nel suo lavoro ha raccontato la storia di 23 madri, è stata accusata di aver condotto una ricerca non scientifica, per la scarsa ampiezza del suo “campione”. Eppure lei continua a sostenere che il fenomeno che ha analizzato non riguarda un numero limitato di casi, ma è rappresentativo di un trend più ampio, spesso inconfessabile. Essere madre è un istinto naturale antico come il mondo, un bisogno e una propensione necessaria di ogni donna? Chi non rientra in queste categorie è una strega o un mostro? Fino a qualche anno fa la risposta era semplice, e ammettere a se stessi e alla società la volontà di non volere un figlio o di essersi pentite della propria maternità, era praticamente impossibile. Ci si guardava bene dall’andarsi a infilare volontariamente nella tana del leone, pronto a giudicare o a puntare il dito senza conoscere nulla della storia di una persona, considerata cattiva, sbagliata, malata. Ma l’immagine di una donna pronta a sacrificare se stessa per la famiglia, a dedicare tempo a tutto tranne che a se stessa e alle proprie ambizioni a molte donne sta stretta, e questo è un dato di fatto. Che ci piaccia o meno, la parola mamma in Italia fa ancora rima con casa, figli e lavori domestici. Secondo dati Ocse, le madri italiane, che abbiano o meno un impiego, dedicano agli impegni domestici in media 5 ore al giorno, posizionandosi al quarto posto tra i paesi industrializzati. Un carico di lavoro di ben tre volte maggiore rispetto ai propri compagni, che in Italia dedicano appena 100 minuti alle faccende domestiche. “Non si può negare che fare la mamma in Italia sia diventato un faticoso percorso a ostacoli, a causa di una situazione economica che non offre certezze e che rende estremamente costoso crescere un figlio, dell’assenza di prospettiva che minaccia il futuro delle nuove generazioni ma anche, e non per ultimo, della mancanza di sostegni che impediscano alla donna una serie di rinunce e ne limitino i sacrifici”, scrive Maria Letizia Verri, autrice del libro Mamma, femminile plurale. “Tutti questi fattori naturalmente influenzano la scelta di avere un figlio o, ancora più difficile, di averne due o più di due”, prosegue Verri. “C’è un motivo se l’Italia è tra i paesi con la più bassa fecondità al mondo ed è soprattutto rintracciabile nella decisione di avere un figlio 27 sempre più tardi, al raggiungimento di una minima stabilità lavorativa”. “Una situazione che ha completamente trasformato la dimensione media delle famiglie italiane e che sta portando a far prevalere il modello familiare del figlio unico. Se guardiamo i dati della nostra indagine sono più del 40 per le mamme con solo un figlio. Eppure, come scriveva Oriana Fallaci negli anni Settanta, ‘essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto tra tanti diritti’. Oggi il diritto non è certo venuto meno ma è diventato estremamente difficile vederlo garantito”, scrive ancora citando una ricerca del 2016 condotta per 2B Research Analysis Exploration in partnership con FattoreMamma. 

TPI ha chiesto ad Alessandra Bramante, psicoterapeuta perinatale e criminologa clinica, un quadro sul tema del sentimento di pentimento di alcune mamme.

Quanto è diffuso in Italia oggi il fenomeno delle madri che si sono pentite di aver fatto un figlio?

«La maternità è un evento complesso, caratterizzato da numerosi cambiamenti fisici, ormonali, emotivi e sociali. Si tratta di un evento che racchiude sentimenti di amore e di odio anche se è difficile dirselo. Credo che il pentimento di aver avuto un figlio sia un sentimento comune per molte donne, da sempre esistito e transculturale, forse oggi le donne, in particolare nella nostra cultura, riescono ad esserne più consapevoli, in quanto più emancipate ed autonome. Nonostante ciò non se ne parla per vergogna e senso di colpa. Fin dagli albori della storia umana ed in ogni cultura, una donna nasce per essere madre. C’è un presupposto sociale per cui la donna deve mettere al mondo un figlio per ritenersi tale e realizzata nella vita. Questo porta anche ad identificare la donna come un corpo che genera oppure no, capacità che è vista come nucleo cruciale nella sua vita. Il pentimento di aver fatto un figlio è un sentimento molto diffuso al quale noi donne dobbiamo cominciare a dare voce senza per questo sentirci in colpa o delle madri sbagliate»

Da cosa dipende il loro pentimento? 

«Un bambino non è solo gioia ma responsabilità, fonte di cambiamento e a volte anche un ostacolo nella vita di molte mamme, perché mentire anche a se stesse e non ammetterlo? Ci sono bambini difficili che richiedono un sacco di energia che a volte le donne non hanno, ci sono momenti di vita difficili in cui arriva un bambino e tutto diventa un peso. Ricordo una paziente che ha partorito la figlia ed in quello stesso giorno è morta la sua mamma. Uno strazio e tanta fatica ad accettare quella bambina sconosciuta che, nella sua testa, per arrivare le aveva portato via la mamma che lei tanto amava. Altre donne fanno un figlio perché lo desidera il loro partner e se ne pentono già durante la gravidanza. Altre affrontano anche numerosi trattamenti di fecondazione assistita e poi, finalmente incinte si pentono della loro scelta e non voglio più quel bambino. Forse perché mosse dall’orologio biologico o dal “potere di generare” si spingono al di là dei loro desideri. Ricordo pazienti che parlano del parto come un momento spartiacque della loro vita, quella che ero prima (nostalgia e tristezza per qualcosa che non ci sarà più) e quello che sono ora (senso di oppressione, come se fossero imprigionate in un ruolo che non voglio). Non sempre però pentirsi di essere madri è legato ad una psicopatologia postpartum, per alcune donne è un sentimento lucido, chiaro e consapevole».  

Quanto influiscono i fattori esterni (sociale-economico-welfare) e quanto invece è una cosa che riguarda la psiche, personalità intima di una donna?

«Credo che influiscano entrambe le cose, di certo l’aspetto sociale è preponderante. Nella società odierna ancora non c’è spazio per una donna che desideri non essere mamma. Questo la porta ad avere una etichetta, un marchio di diversità ed indignazione. Perché una donna che sceglie la carriera ad un figlio deve essere per questo giudicata? È una scelta personale, perché il desiderio di non maternità deve per forza essere giustificato agli occhi della società? Anche la personalità della donna così come la sua storia di vita influiscono, per esempio ci sono donne che tendono a rimuginare sul passato, altre che si sentono costantemente in colpa, altre perfezioniste che faticano a fare entrare un bambino e tutti i cambiamenti che comporta nella loro vita. Per alcune quel figlio risveglia fantasmi e paure del passato che non erano stati identificati né elaborati»

In che modo si riversa questo malessere sulla vita di madre e sul rapporto con i figli? 

«È importante ricordare che pentirsi di avere avuto un figlio o pensare che se si potesse tornare indietro non si rifarebbe, non vuol dire non amare quel bambino. Ciò nonostante per queste donne è forte il senso di colpa per non riuscire a provare ciò che si dovrebbe provare (e qui ricadiamo nel luogo comune maternità). Credo che il sentirsi libere dal giudizio nel parlarne possa essere un ottimo rimedio per queste donne. In alcuni invece casi la vergogna, il senso di colpa e la tristezza possono portare ad una depressione perinatale (gravidanza e/o postpartum) che se non intercettata e adeguatamente curata può avere conseguenze non solo sulla mamma ma anche sulla relazione mamma-bambino, sul bambino e sulla relazione di coppia.  ​Anche se poco conosciuto, esiste poi in letteratura il disturbo della relazione mamma-bambino, sono quelle mamme che dopo il parto rifiutano i loro bambini, si sentono distanti e non se ne vogliono occupare. Queste mamme possono arrivare a delegare completamente le cure dei figli e, in conseguenza alla colpa e tristezza dei loro sentimenti e comportamenti, possono sviluppare una depressione postpartum. Se non si interviene con un lavoro specifico sulla coppia, tale disturbo può avere gravi conseguenze sulla salute mentale della mamma e in casi estremi può portare ad agiti aggressivi verso il bambino».

Perché queste donne non riescono a parlare di questo tema? Quanto è ancora forte lo stigma sociale? 

«Il tema “maternità” costituisce un ambito ancora molto, anzi troppo idealizzato nel nostro Paese. Si pensa che avere un figlio significhi in primis essere una vera donna, un figlio è solo gioia e la maternità rappresenta la realizzazione personale. Tutto andrà per il meglio, lo vedrai e ti innamorerai subito di lui e tu, che tanto lo hai desiderato, non potrai di certo avere la depressione postpartum. Tutti luoghi comuni che portano quelle donne che non provano gioia durante il parto o dopo la nascita del loro bambino (sane perché nulla ci dice che deve essere così) a sentirsi profondamente sbagliate e in colpa. Ma di questo non si può parlare perché urta con il significato che la nostra società dà all’essere madre. Questo fa si che queste donne si rifugino sui siti internet o nelle chat di mamme dove, essendo anonime, posso sfogare tutte le loro paure, ansie e frustrazioni legate al sentirsi della cattive mamme. Lo stigma è forte verso la malattia mentale, è assoluto nel caso in cui la malattia mentale si manifesti durante la gravidanza o dopo la nascita di un bambino. Ci sono mamme che si pentono di aver fatto un figlio, altre che non riescono ad amarli pur avendoli desiderati, altre che non riescono ad averne, altre che li perdono quando li aspettano. Le mille sfaccettature dalla maternità ci devono far capire che ogni donna è diversa, con la propria storia ed i suoi desideri, anche quello di non avere un figlio».  

L'UTERO E' MIO E LO GESTISCO IO!

Dal sexgate al neofemminismo Lewinsky, vent'anni di carriera. Nel gennaio del '98 lo scandalo che inguaiò Bill Clinton L'ex stagista, oggi celebrità, sta con il movimento #MeToo, scrive Andrea Cuomo, Giovedì 18/01/2018, su "Il Giornale". Che poi, all'inizio, lei non era nemmeno la protagonista di tutta la faccenda. All'inizio fu Paula Jones a scatenare l'inferno. Lei che aveva fatto causa all'allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton perché anni prima, nel 1991 (il giorno era l'8 maggio), avrebbe subito delle molestie sessuali da colui che in quel momento era governatore dell'Arkansas (pronuncia Arcansou, come scoprimmo in quegli anni). Quel caso fu poi derubricato dal tribunale a semplice liaison consensuale, ma nel frattempo era accaduto qualcosa che avrebbe cambiato la storia del morente Novecento. Era accaduto che tale Linda Tripp, dipendente del Pentagono, aveva raccolto le confidenze della stagista Monica Lewinsky, che nel 1995 aveva trascorso un periodo alla Casa Bianca. Quella ragazza con il caschetto nero e gli occhi da ingenuona del cinema le aveva raccontato di una tresca tra lei e nientepopodimenoche il presidente degli States. La Tripp prese a registrare le telefonate tra i due e a raccogliere qualche testimonianza e poi portò tutto alla redazione di Newsweek. Poi, il 7 gennaio 1998, andò da Kenneth Starr, un magistrato indipendente che stava indagando su alcuni casi di molestie sessuali. Starr consigliò alla Tripp di incontrare la Lewinsky con un registratore nascosto e la giovane californiana si presentò all'appuntamento con in mano la copia di un documento fornitogli dalla Casa Bianca che indicava quello che avrebbe potuto, non potuto e dovuto dire all'udienza per il caso Jones a cui erano state convocate le donne che avevano lavorato a con Clinton. Il 17 gennaio del 1998 Drudge Report racconterà tutta la faccenda e il fatto che Newsweek aveva cercato di insabbiare lo scandalo non pubblicando un articolo già pronto. Era nato il Sexgate, il padre di tutti gli scandali sessuali. Nei mesi successivi non si parlò d'altro che dello «studio orale», il modo in cui la sapida ironia di palazzo aveva ribattezzato l'ufficetto di Clinton dove in più occasioni si erano celebrati incontri ravvicinati del tipo orale che erano la specialità di casa Lewinsky. L'elenco e la descrizione delle prestazioni era più da cinepanettone che da stanza dei bottoni, a meno che con questi ultimi non si intendessero quelli del pantalone di Bill. Che dalla faccenda ebbe la folgorante carriera politica acciaccata ma non distrutta. Subì l'impeachment, secondo presidente della storia americana dopo Andrew Johnson (ma allora eravamo nell'Ottocento), poi se la cavò per il rotto della cuffia ma fu solo grazie all'economia americana che tirava come un pitbull al guinzaglio se restò alla Casa Bianca. Monica, lei, iniziò una luminosa carriera da... da... Ecco, da? Inizialmente da star della cultura pop-trash degli anni Novanta, che proprio oggi si stanno iniziando a rivalutare (proprio sicuri?). Fece comparsate televisive, partecipò a show, vendette interviste. Poi iniziò a diversificare il business: firmò una linea di borse, fece da testimonial di una dieta imponendosi di perdere 40 libbre (pari a circa 18 chili), lei rotondetta assai, per vincere un montepremi pari a un milione di dollari. Poi, nel 2005, decise di mettere la testa a posto (e nel suo caso il modo di dire fa quasi ridere): si laureò in Psicologia a Londra e per un decennio se ne stette buonina evitando ogni pubblicità. Fin quando Monica, che all'epoca del suo interesse per le ragnatele sotto la scrivania di mister president aveva ventidue anni, non decise pochi mesi fa - allo scoppio del Sexgate hollywoodiano - quando di anni ne aveva ormai quarantaquattro, di aderire via tweet alla campagna #MeToo con ciò riconoscendo di essere stata anch'essa vittima di abusi sessuali. Non dette altri dettagli, ma forse è uno di quei pochi casi in cui non ce n'era proprio bisogno. 

Le ragazze che eravamo. Scritto da otto donne, ragazze e femministe negli anni Settanta, il libro offre la fotografia di un tempo in cui l'impegno e le lotte portarono a cambiamenti epocali e a ottenere leggi per l'emancipazione e la libertà femminile. Conquiste che hanno reso possibile quanto accade oggi, compreso il discutere di ricatti e molestie, scrive il 17 gennaio 2018 Silvana Mazzocchi su "La Repubblica”. Se oggi la protesta spazia nel mondo e ovunque milioni di donne sono pronte a mobilitarsi contro ogni tipo di prevaricazione e molestia, può essere utile volgere lo sguardo al passato, e ripensare al femminismo di quarant'anni fa. Un tempo in cui, al grido di "Il privato è politico" l'impegno e le lotte delle donne riuscirono a imporre cambiamenti importanti e a ottenere nuove leggi per affermare il diritto all'autodeterminazione e alla libertà. Assai stimolante per ricostruire quanto accadde in quegli anni, è "La ragazza che ero, la riconosco", un libro che raccoglie " schegge di autobiografie femministe" firmato da otto ragazze genovesi di allora, oggi donne con una loro esistenza in varie parti del Paese, che raccontano e riflettono sul passato e sul presente. Una raccolta di testimonianze che, affondando nella storia personale e nell'esperienza di ciascuna di loro, riesce ad offrire, grazie alle differenze di classe, istruzione e collocazione, la fotografia di un ambiente e di una città, dal dopoguerra a oggi che, diventa esemplificativa della realtà più generale del Paese. Un insieme di storie particolari che, per varietà e qualità, acquista un significato collettivo utile e stimolante. Il libro, a cura della saggista Silvia Neonato, per due anni presidente della Società Italiana delle Letterate e attualmente nel collettivo redazionale di Leggendaria, è firmato da Maria Alacevich, Marta Baiardi, Rossana Cirillo, Maria Pia Conte, Silvia Neonato, Marina Olivari, Giulia Richebuono e Giovanna Sissa. In principio, tutto era nato come un'occasione di incontri destinati a elaborare una riflessione interna al gruppo, ma poi, via via che "nelle molte giornate vissute "da attempate Sherazade", le autrici hanno potuto parlare tra loro, confrontarsi e ricordare quegli anni " fondanti", il progetto si è trasformato. Infine è nata l'idea del libro e tutte hanno accettato di scrivere come avevano vissuto e quanto ricordavano di quel tempo, tanto formidabile da rimanere indelebile. Ed è nata la raccolta di "schegge autobiografiche" che si rivela un valido contributo ("una piccola increspatura", è scritto nella prefazione) al grande movimento delle donne, in corso ormai da quasi un secolo. La ragazza che ero, la riconosco è una lettura che fa bene alla memoria collettiva ma, soprattutto, è una testimonianza preziosa per le ragazze di oggi. Perché se allora le donne hanno combattuto per il progresso, i diritti al lavoro, alla maternità, alla parità salariale e per molti altri obiettivi, "oggi per fortuna", sottolinea Silvia Neonato "si può finalmente discutere di ricatti e molestie sessuali per riavere la libertà di scelta sul nostro corpo e la disponibilità sessuale. Per secoli nessuno ha pensato che ci volesse il consenso delle donne nel campo della sessualità: ora ci è impossibile persino pensare il contrario". 

Neonato, qual è il valore di queste testimonianze?

"Subito, a dire la verità, non abbiamo pensato di scrivere un libro, volevamo solo guardare come eravamo diventate e parlare, cariche di vita vissuta, della nostra esperienza femminista di allora che ci aveva cambiato irreversibilmente. Abbiamo poi deciso di scrivere le nostre testimonianze proprio perché negli anni Settanta non scrivevamo nulla, se non volantini e documenti, invece quel Collettivo femminista genovese nato nel '72 aveva avuto un impatto enorme nelle nostre vite e anche in città. Ci siamo messe ancora una volta a nudo, partendo da noi, desiderose di trovare un filo, ciascuna il suo ma insieme, persuase che possa avere un senso anche oggi, entrare nel solco della rivoluzione delle donne in corso ormai da oltre un secolo. Ci siamo rimesse a fare autocoscienza, inseguendoci tra diverse regioni perché non tutte stiamo ancora a Genova, trascorrendo week end insieme, ascoltando le altre senza giudicare, cominciando a rileggere via via a voce alta ciò che ciascuna di noi scriveva. Chi ha raccontato del suo essere diventata ginecologa impegnata nell'applicazione della legge sull'aborto, chi della sua relazione con la madre e col proprio essere diventata a sua volta madre, chi del padre partigiano e delle relazioni coi maschi e i militanti della sinistra, chi del corpo che invecchiando fa i conti con la fine della seduzione e addirittura si ammala, chi del '68 e della propria coppia aperta di allora che ha resistito al tempo, chi dei conflitti di classe vissuti fin dall'infanzia.  Sullo sfondo la Genova della nostra educazione sentimentale e politica. Nell'introduzione Marta Baiardi scrive che abbiamo proceduto come attempate Sherazade raccontandoci le nostre reciproche vicende, ma che non è stato solo un rimestare nel passato: nelle giornate trascorse insieme abbiamo ripensato noi stesse, portato nel gruppo le riflessioni sull'oggi".

Il femminismo e le ragazze di oggi. 

"Il femminismo è tuttora forse l'unico movimento in grado di portare nelle piazze migliaia di persone, compresi i maschi, perché oggi, per esempio le attiviste di "Non una di meno" coinvolgono nelle lotte i loro compagni, pur facendo anche riunioni separatiste. Femministe si proclamano ormai attrici, scrittrici e giornaliste celebri, le ragazze argentine e iraniane lottano per la libertà femminile e l'autodeterminazione, mentre anche le bengalesi o le messicane più povere si battono contro la violenza sulle donne e le africane si sono organizzate contro le mutilazioni sessuali".

Mi pare che i diversi femminismi siano vivaci in ogni zona del pianeta, ciascuno con il proprio linguaggio, la propria storia e a partire dalle caratteristiche dei loro paesi.

"In Occidente abbiamo lasciato in eredità alle nuove generazioni di donne (e a qualche uomo) la pratica politica del partire da sé, che viene liberamente rivisitata tanto che oggi gruppi di donne o singole spesso non sono d'accordo su molti argomenti, dalla prostituzione alle nuove tecniche della procreazione assistita.  È normale, siamo tante e con idee diverse, è una ricchezza, soprattutto quando riusciamo a contenere il conflitto senza diventare distruttive. La nostra generazione di donne occidentali sta invecchiando e in molte stanno ancora lavorando nelle Case delle donne, nell'editoria, nei gruppi, le più fortunate sono mescolate alle più giovani. E non ci sottraiamo al compito di riflettere su questo passaggio della vita, come abbiamo fatto per la maternità, la menopausa, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, tuttora così difficile per le ragazze: non solo le nostre figlie e nipoti non trovano lavoro, ma si licenziano appena hanno l'ardire di fare un figlio perché siamo ancora al punto in cui le donne sono costrette a scegliere tra lavoro e maternità".

Come era vissuto il problema delle molestie sessuali dalle ragazze degli anni Settanta.

"Il problema delle molestie sessuali negli anni '70 fu trattato relativamente poco perché avevamo il terribile problema della violenza sessuale.  Negli anni Settanta protestavamo però già contro la pubblicità che offende il corpo delle donne e sperimentammo la gioia di andarcene in giro insieme la notte con la fiera consapevolezza che così i maschi erano meno minacciosi. Rivendicammo addirittura nei cortei politici la libertà di uscire la notte senza essere molestate o violentate. Avevamo chiaro che sul nostro corpo si giocano partite determinanti: siamo state la prima generazione a poter stabilire se e quando fare figli ma abbiamo lottato per eliminare l'aborto clandestino e modificare il diritto di famiglia, perché non ci stava certo bene che soltanto il maschio potesse decidere e usare su di noi e i figli alcuni "mezzi di correzione". Avevamo già ben chiaro - e risultò scandaloso allora - che le più grandi violenze si perpetuano in famiglia: le donne subivano gli aborti clandestini usati come mezzi contraccettivi, venivano pestate dai mariti, molestate fin da piccole dai familiari e senza che questo fosse un problema per la società e la politica. Dicevamo che il privato è politico proprio per mettere in luce la nostra condizione e per spingere i maschi a interrogarsi sulla propria sessualità. Quando mai la società aveva preso in considerazione il desiderio femminile e l'autodeterminazione rispetto alla maternità? Cominciammo poi a mobilitarci per eliminare il delitto d'onore dal nostro codice penale (avvenne solo nell'81) e per riscrivere la legge contro la violenza sessuale, allora un delitto contro la morale e non contro la persona. Tutte queste leggi oggi per fortuna ci sono e quindi possiamo finalmente discutere di ricatti sessuali e molestie sessuali per riavere la libertà di scelta sul nostro corpo e la disponibilità sessuale. Per secoli nessuno ha pensato che ci volesse il consenso delle donne nel campo della sessualità: ora ci è impossibile persino pensare il contrario". 

Maria Alacevich, Marta Baiardi, Rossella Cirillo, Maria Pia Conte, Silvia Neonato, Marina Olivari, Giulia Richebuono, Giovanna Sissa. La ragazza che ero, la riconosco. A cura di Silvia Neonato. Iacobelli editore Pagg.249, euro 18

Sesso, amicizia, amore… In libreria la Rossanda che non ti aspetti, scrive il 13 gennaio 2018 "Il Dubbio". Un frammento della prefazione di Lea Melandri al libro di Rossana Rossanda: “Questo corpo che mi abita”. Una Rossana Rossanda “inedita” quella che potrete leggere nel libro che esce oggi Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri editore. Il volume è curato dalla scrittrice e femminista Lea Melandri che ha raccolto diversi articoli scritti da Rossanda per la rivista “Lapis”. Si parla di amore, politica, sessualità: la fondatrice del manifesto si mette in gioco, si confronta con le sue amiche femministe, tratteggia un ritratto in qualche modo intimo. Nell’articolo uscito sulla rivista “Lapis” al suo primo numero – “Autonomia di un io politico” -, Rossana Rossanda fa riferimento alla recensione che avevo fatto del suo libro, Anche per me, pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. La definisce una «lettura amorosa, ravvicinata», pur riconoscendo il mio modo «differente» di fondare l’io, l’interiorità. Ci eravamo conosciute da pochi anni, dopo un incontro/ scontro di scritture – polemico da parte mia, lusinghiero da parte sua- sul manifesto, ma il rapporto tra noi era già quello che Rossana riteneva appartenesse all’amicizia: l’interesse per l’altro o l’altra, per quello che è, l’attenzione a come ci riflette, accetta o respinge, ci fa pensare. Quando ne aveva scritto nel libro, il riferimento era in particolare all’amicizia fra due donne, «un fatto nuovo, sconcertante, in quanto luogo in cui esse potevano ricostituire un’identità mutante, ribelle ai vecchi rapporti di dipendenza, famigliari o di coppia».

«… l’amicizia è un rapporto che presume autonomia delle due persone, una struttura forte, presente o possibile del loro io (…) Passione viene da patimento, sofferenza, è un amore che si confessa disperatamente bisognoso per sanare sé, ricostituirsi da lontane ferite, rassicurarsi da lontane negazioni, essere garantito nella domanda ultima: ma io conto a sufficienza per qualcuno da essere certo, certa di esistere? Per qualcuno? Sbaglio: per quell’uno, o una, da cui solo può venirmi la risposta (…) quella è passione. Nell’amicizia questa domanda terribile, demolitoria o risanatrice, non c’è, si è amici quando l’altro, l’altra, è assunto e prezioso per quel che è, e non per quel che ci dà o gli domandiamo (…). Come poteva la donna conoscere l’amicizia? Lei che difficilmente poteva dire di possedere anche se stessa, e prima di sé doveva mettere nella scala dei rapporti il marito, il figlio, il padre? Lei che non era libera di disporre del suo tempo né del suo futuro? E’ della passione finire, dell’amicizia durare. E così due amiche sono anche il comporsi di una coscienza di sé finora rimasta oscura o poco detta».

Il lungo percorso femminista che ho alle spalle mi fa dire che forse i confini tra amore/ passione e amicizia non sono così netti, che lo scontro di potere tra i sessi, attraversando la vita intima, ha lasciato purtroppo segni anche nella relazione tra simili. Ma è vero che la nostra amicizia, cominciata allora nel confronto di vite, esperienze politiche molto diverse, ci ha accompagnato fino ad oggi, ed è diventata, per entrambe, quel “tranquillo deposito di sé” di cui Rossana è tornata a parlare nella conversazione con Manuela Fraire sul lutto e la perdita. Del libro che ci ha fatto incontrare mi avevano attratto innanzi tutto il titolo e la Prefazione: parole che si erano fino allora pensate come il sostituto di un gesto, estrema trincea di pensieri destinati a perdersi nella coscienza collettiva, come strumenti di trasformazione del mondo, tornavano sulla carta per trascrivere vissuti, emozioni, memorie, per dire delle “acque profonde e insondate” che si era lasciato dietro un corpo fattosi “oscuro” quando aveva voluto disporsi “sull’orizzonte smisurato della storia”. Di quell’apprendistato politico, che era stato per lei e per molti della sua generazione la guerra, Rossana tornerà a parlare più volte anche su “Lapis”, e sempre con l’immagine di lei giovanissima nella sala del Tesoro, odorosa di cera, nel Cortile della Rocchetta a Milano, dove si era costruita “una sorta di Warburg”, quando i bombardamenti sulla città avevano messo fine a ogni “privato splendido isolamento”. La “via del dovere”, l’imperativo categorico che si era aperto allora sopra di lei, come il famoso cielo stellato, non le avrebbe comunque impedito di coltivare la bellezza che c’è nella solitudine del sapere, l’amore per l’arte, la letteratura, la filosofia, il cinema e, più in generale i tesori di cultura confinati per secoli nella “persona”, e che il femminismo andava scoprendo.

Gli scritti raccolti nel libro rispondevano perciò, per un verso al passato – alle “cose squisite” che non avrebbe mai abbandonato -, per l’altro all’incontro con donne conosciute a volte soltanto attraverso le pagine di un libro, che le avevano reso abituale la “frequentazione dei precordi” e qualche “scorreria” nei territori del pensare e del sentire rimasti per lei a lungo “privati”. Vinta l’indiscrezione del raccontarsi, consentita a suo avviso solo a chi possedeva il dono della forma, e abbandonato il modo impersonale di scrittura proprio di chi si considerava solo un “segmento parlante di una storia comune”, Rossana ammetteva di aver cominciato anche a vedere diversamente le cose del mondo, e a porsi “non senza imbarazzo” qualche problema di politica femminista. Guardato dall’orizzonte di chi non aveva mai smesso di portare attenzione sia alle biografie che alla storia, pur tenendole separate, il femminismo si presentava come il “germe” di una grande il tracciato “immenso” di una condizione che attraversava l’individuo e la specie, la biologia e la storia, l’esperienza dei singoli e la vita sociale. Ma con l’impazienza della donna che aveva visto comparire dietro le macerie di una guerra dolori e ingiustizie intollerabili, avrebbe voluto che la rivoluzione femminista «cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo e come un bisturi lo scavasse per rovesciarne il corso». Nell’amore, come nella lotta politica, avremmo dovuto spaccare le illibertà dell’uno e dell’altra. Per aver risposto all’interrogativo della guerra diventando comunista, accettando quella miseria che le era comparsa davanti ineluttabile e totale, Rossana si era definita “luciferina”. Ma “luciferina” mi era sembrato allora di ritrovarla nel modo con cui incalzava un movimento ai suoi inizi perché e dai fantasmi che di lei l’uomo aveva prodotto. Che cosa le rimproveravo dunque tanto da spingerla, nel suo primo scritto su “Lapis”, a fare una difesa così accorata del suo “io politico”? Forse il fatto che non riuscisse a vedere il suo essere donna prima di ogni altra cosa, che considerasse deludente sostituire la ricerca di sé al “piano di battaglia”, che provasse tanto interesse per la “pazienza nel patimento”, richiamo per me inquietante all’abnegazione femminile.

(…) Nella solitudine della sua Parigi, come davanti a un mare “dai bellissimi grigi invernali”, Rossana avrebbe voluto trovare pensieri e parole che l’avvicinassero alle donne, se non fosse intervenuto un evento di grande portata politica ad aprire, tra “il profondo e la storia”, una frattura difficilmente componibile. Era il 1989 e la disgregazione dei regimi comunisti, la caduta di una dottrina di cui per un altro versante anche lei si era considerata vittima, la esponeva ancora una volta alla critica di aver sacrificato la sua vita a un “colpevole errore”. Le stesse donne che guardavano con affetto il suo ruolo di “androgino simpatico”, capace di muoversi tra poli opposti, non sembravano accorgersi di quanto fosse profondo, doloroso – quasi una sorta di schizofrenia – il doversi “dividere in due”. Si trattava di trovare nessi tra la liberazione da un dominio che aveva segnato le vicende più intime – il corpo, la sessualità, la maternità -, e un sistema sociale economico e politico fondati sulle leggi del denaro e dell’inuguaglianza.

«Io non sono due – concludeva Rossana -, sono una sola». E “intera”, al di là delle sue luciferine “manie totalizzanti”, Rossana ha dimostrato di poterlo essere nei pochi, lucidissimi articoli che ha regalato a “Lapis”. «A me basta e avanza il profilarsi sociale della divisione dei sessi, e il problema teorico che mi comporta: come si sovrappongono e separino le attuali contraddizioni di classe, e quelle dei poteri ineguali in economia e in politica, e una contraddizione che valica il capitalismo e le sue forme, la cultura e le sue forme, affina e scompare, ed è la contraddizione tra maschio e femmina. C’è sicuramente un sovrapporsi, nel senso attivo di scambiarsi e rafforzarsi, e sicuramente un separarsi, e proverò rapidamente a dirlo, perché è il reticolo, temo, sottostante all’insieme dei miei interventi». Nonostante alcuni fraintendimenti – la mia critica al dualismo sessuale e la ricerca di nessi scambiata talvolta da Rossana per fusionalità -, la nostra amicizia non avrebbe potuto essere così solida e duratura, se non ci fossimo trovate particolarmente vicine nella critica alle inclinazioni essenzialistiche di parte del femminismo. «Non ci si libera – aveva scritto nel primo articolo esaltando la differenza, o pensando che il dominio patriarcale abbia cancellato una sostanza iniziale, femminile, da far emergere». Allo stesso modo, concordavamo sul fatto che non esisteva un sapere legato a una “percezione specifica del corpo” che le donne avrebbero posseduto più degli uomini, in virtù della loro capacità generativa: identificate col corpo, destinate ad averne cura e a condividerne esaltazione immaginaria e insignificanza storica, ma pur sempre un corpo a cui altri aveva dato nomi e forme. Il sapere del corpo – scriveva Rossana – è in realtà «una precettiva, un modello del corpo, che è esterno all’esperienza immediata e tende a farsi esperienza esso stesso. Non è un sapere, è un fantasma compatto e drammatico». La coazione simbolica, le identità, i ruoli di “genere”, considerati “naturali”, riguardavano uomini e donne, ma era soprattutto la donna – sottolineava Rossana, a essere definita dall’ apparire, dal suo essere prima di tutto vista, in funzioni esterne come la maternità e la seduzione. Il radicamento di questo “diaframma culturale” – “due corazze” sovrapposte ad altre interdizioni legate alla conoscenza del corpo- appariva, sia a me che a Rossana, così profondo, primordiale e drammatico, da segnare inconsapevolmente per secoli il destino della maggior parte delle donne.

Senza mutande davanti al Pirellone: l’8 marzo secondo le kompagne, scrive Valeria Gelsi giovedì 9 marzo 2017 su "Il Secolo d’Italia”. «Si è vista bene? Il messaggio è stato chiaro?», chiede alla fine della performance una delle militanti del collettivo milanese “Zebrunicorna” che hanno partecipato a una «performance», così l’hanno definita, davanti al Pirellone. Per essersi vista, non c’è dubbio che si sia vista. Anzi, che si siano viste. Il problema è che non s’è capito bene perché queste “femministe” abbiano ritenuto che mostrare gli organi genitali davanti al palazzo della giunta regionale servisse alla causa delle donne. «Su la gonna», ma non si capisce a che serve. La performance consisteva proprio in questo: alzarsi la gonna senza indossare biancheria intima. «Si chiama Ana-suromai», dice una militante, salvo poi aggiungere «mm…come te lo spiego». E infatti non lo sa spiegare. Ci vuole più di un minuto di spiegazione di un’altra esponente del “Zebrunicorna”, che fa capo al centro sociale Macao, per cercare di chiarire che senso abbia mostrarsi nude in pieno giorno in una città affollata. E per tentare di nobilitare la scelta, richiamandosi ad antichi riti. Una “supercazzola” che però non raggiunge nessuno dei due obiettivi. L’impressione che lascia la “performance”, infatti, è la stessa dei gesti scomposti e volgari delle femen, senza che in alcun modo si riesca a capire perché comportarsi più o meno come l’esibizionista con l’impermeabile possa «tirare giù questo palazzo del potere» (il Pirellone, appunto) e essere parte della lotta «per un mondo più giusto». La performance esibizionista non piace a nessuno. Non a caso, anche le femministe ed esponenti della sinistra hanno bollato la trovata delle compagne del Zebrunicorna come una provocazione inutile, che non ha niente a che vedere con la difesa del corpo e dei diritti delle donne. Per l’assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, la Pd con un passato da femminista Carmela Rozza, «la lotta per l’affermazione dei diritti delle donne ha altri metodi che non mostrare lo stesso corpo. L’iniziativa non è nemmeno comprensibile dalla fascia di donne in difficoltà». Anche per l’assessore regionale all’Urbanistica, Viviana Beccalossi di FdI, si tratta di «una provocazione bella e buona, per di più organizzata da un soggetto che vive nella illegalità». «Non mi risulta – ha poi ricordato Beccalossi – che Macao si sia mosso alla notizia della sentenza di Trento che consente di mercificare il corpo della donna usandolo come contenitore di figli a pagamento».

La storia delle mutande. Dagli antichi Romani a Belen, dai bragoni nascosti all’intimo a vista, le vicende di un indumento fondamentale ma controverso, scrive il 24 aprile 2016 Gianluca Ranzini. Con molte novità anche tecnologiche. «Le ha o non le ha?». Una domanda in apparenza innocua. A meno che non si parli di una bella donna ed è facile classificare la discussione come sessista e capire dove si vuole andare a parare. L’oggetto della discussione non può essere che uno: le mutandine. Questo indumento intimo per noi oggi è praticamente irrinunciabile: Le rilevazioni di mercato mostrano che ogni donna italiana acquista in media 5 paia di intimo all’anno. Ma le mutande sono anche utili per il benessere del corpo? «Certamente sì» afferma Elena Perotta, dermatologa di Milano. «Ma devono essere di fibre naturali: cotone, seta, lino... Prevengono gli sfregamenti e preservano una zona in cui vi sono cute e mucose delicate. Le fibre artificiali invece possono crea­re problemi, come le allergie». Nonostante l’utilità, però, nel corso dei secoli le mutande hanno avuto alterna fortuna. Gli antichi Romani non le indossavano; in alcuni casi (per fare attività fisica e come costume da bagno) si accontentavano della subligatula (da subligare, cioè legare sotto), un pezzo di stoffa con un capo che cingeva la vita e l’altro che passava in mezzo alle gambe. E i Greci non si ponevano neppure il problema di coprire le parti intime; anzi, almeno in giovinezza le ostentavano. Da adulti indossavano la tunica, ma sotto le donne erano nude mentre gli uomini, a volte, indossavano un perizoma. E a letto si andava rigorosamente nudi.

Biancheria intima e lingerie: la storia nei secoli:

BRIGLIE DA CULO. Nel Medioevo le notizie sulla moda intima diventano scarne e contraddittorie. È comunque in questa epoca che nasce il termine mutanda, che deriva dal latino medievale mutare, che significa “ciò che si deve cambiare”. Lo storico dei costumi sessuali Luciano Spadanuda, nel suo libro Storia delle mutande, racconta che la svolta avvenne nel ’500, con Caterina de’ Medici, moglie di re Enrico II di Francia. Donna fantasiosa e innovativa (e piuttosto libertina), introdusse un modo originale di cavalcare, con il piede sinistro nella staffa e la gamba destra orizzontale sull’arcione. In questo modo però si rischiava di mostrare più del dovuto. Per questo Caterina introdusse l’uso di mutande strette e attillate di cotone o fustagno. L’indumento, chiamato “briglie da culo”, prese subito piede tra le nobildonne di Francia e degli ambienti nobiliari europei, ma degenerò altrettanto in fretta in forme così lussuose e stravaganti (in tessuti d’oro e d’argento) da suonare peccaminoso. Da fine capo per nobildonne, le mutande diventarono così uno strumento di lussuria, bandiera delle prostitute. Nel Giudizio universale di Michelangelo, i genitali di molti personaggi sono stati coperti a posteriori dal suo allievo Daniele da Volterra, poi detto il Braghettone.

IL BRAGHETTONE. Con il nome di braghesse, lunghe fino al ginocchio, arrivarono alle cortigiane di Venezia, alle quali furono imposte dalle autorità per ragioni di decoro, spiega Spadanuda. La Chiesa da un lato le osteggiava, reputandole un capo libidinoso, dall’altro le invocava per coprire le pudenda nei dipinti scabrosi. Daniele da Volterra, pittore del ’500 di notevole valore, allievo di Michelangelo, è passato suo malgrado alla storia come “il Braghettone” per essere stato incaricato da papa Paolo IV di coprire le nudità presenti nel Giudizio universale michelangiolesco della Cappella Sistina a Roma. Così le mutande persero popolarità: all’inizio del ’700, si stima, le indossavano solo 3 nobildonne su 100. Il loro ritorno definitivo si colloca all’inizio dell’800, ed è legato all’avvento delle crinoline, le gabbie da infilare sotto la gonna; era necessario indossare qualcosa sotto che salvasse il pudore in caso di colpi di vento o scale ripide…I partecipanti a un festival shintoista in Giappone indossano il fundoshi. Il resto è storia recente. Il dibattito sulle mutandine è passato dall’indossarle o meno a come dovessero essere, in termini di colori e tessuti. «Nel corso del tempo le mutande si sono evolute, arricchendosi di nuovi modelli, materiali innovativi, tecnologie d’avanguardia e colori di moda» precisa Salimbeni. Dal passato relativamente recente giungono aneddoti curiosi: per esempio a Parigi, nel secondo Dopoguerra, non tutte le ragazze che andavano a ballare nei locali potevano permettersele. E quindi vi erano mutandine “collettive” dietro il bancone che potevano essere indossate a turno dalle clienti. Dagli anni ’60-’70 gli slip sono entrati a pieno diritto nel vorticoso giro della moda. A proposito: il termine slip (dall’inglese to slip, far scivolare, infilarsi) appare per la prima volta nel 1906, per indicare mutande corte e aderenti (cioè che non si allungano sulle cosce) adatte soprattutto agli sportivi. Belen Rodríguez qualche anno fa a Sanremo ha fatto tremare il pubblico. Ma sotto aveva un minuscolo c-string.

ARRIVANO I BOXER. La tendenza è stata di ridurre le dimensioni dell’indumento, ma anche su questo aspetto ci sono stati corsi e ricorsi. E se da un lato negli anni ’70 sono apparsi (probabilmente in Brasile) i primi ridottissimi tanga, dall’altro negli anni ’80 gli stilisti hanno riesumato per gli uomini le mutande a calzoncino: i boxer. Che si chiamano così perché richiamano le brache dei pugili; anche se mutande lunghe con un elastico in vita invece della tradizionale cinghia erano già state proposte negli anni ’20. Oggi i boxer, in una versione più corta, sono utilizzati dagli adolescenti che intenzionalmente mettono in mostra la biancheria intima con pantaloni a vita molto bassa. Inizialmente i boxer maschili furono anche appoggiati dalla scienza: alcuni studi degli inizi degli anni ’90 sostenevano infatti che permettevano un più efficace raffreddamento dei testicoli e di conseguenza un miglioramento della qualità dello sperma. Altre ricerche successive non hanno però mostrato correlazione tra l’indossare i boxer e la fertilità. Sul fronte femminile, per contro, gli anni ’90 hanno visto il boom delle vendite di tanga e perizomi precisa Barbara Salimbeni. «In termini di materiale utilizzato, per produrre un perizoma si parte da un tessuto di 21 x 25 cm, per una normale culotte che copre fianchi e glutei da un tessuto di 62 x 44 cm, cioè circa 5 volte più grande».

DA MANGIARE E DA... ANNUSARE. Gli anni ’90 sono anche quelli degli eccessi: dagli Usa arrivano gli slip che si possono mangiare, aromatizzati in vari gusti. Il Giappone nel 1993 fu invece costretto a varare una legge che impedisse di vendere in distributori automatici per strada gli slip usati delle studentesse (con tanto di foto della proprietaria), articoli che comunque nel Paese del Sol Levante hanno ancora un mercato sotterraneo. E che evidentemente sono richiesti anche da noi, visti i siti internet nostrani che li propongono. Ci sono almeno due giorni in cui può capitare di trovare gente in mutande sulla metropolitana. Il primo è a gennaio, in occasione del No pants Subway Ride, un'iniziativa stravagante promossa dagli amanti del metrò. Il secondo è il No Pants Day, la festa senza pantaloni, celebrata in vari Paesi il primo venerdì di maggio.

LE TECNO-BRAGHE. Ma ai nostri giorni, sempre dal Giappone, arrivano anche le mutande anti peti , agghiaccianti bragoni contenitivi realizzati con un tessuto in poliuretano e nylon che trattiene l’aria e che accumula i gas maleodoranti in un’opportuna tasca dove sono “ripuliti” grazie a un filtro ai carboni attivi. Nel 1995 appare anche la mutanda che alza il sedere, il corrispettivo dell’analogo indumento per il seno. Valentino propone uno slip maschile imbottito davanti, e Calvin Klein una linea di boxer per arrotondare i fianchi e ingrossare il “davanti”. Ma forse la mutanda meritava una degna collocazione, e per questo nel 2009 è nato a Bruxelles un museo apposito. Il controverso artista belga Jan Bucquoy ha raccolto e messo in cornice una dozzina di slip appartenenti a personaggi belgi di rilievo. Ma quando un paio di anni fa si è parlato di un analogo museo a San Marino, la proposta è affondata nelle polemiche.

Pornografia, masturbazione, femminismo. Primo film italiano distribuito dalla piattaforma di Erika Lust, "Insight" è il racconto di una relazione possibile. Che parte dalle donne. E dalla rappresentazione dal piacere. Senza pudore, scrive Francesca Sironi il 9 marzo 2017 su "L'Espresso". Coprirsi. «Il pudore è un'arma antica per toglierci spazio, spazio fisico e spazio di discorso». Tacere. «La nostra ambizione era rappresentare il desiderio attraverso una pratica che per molte è ancora tabù». Femminismo. «Il nostro film è femminista». Tre parole per spiegare perché valga la pena raccontare, nei giorni dello sciopero delle donne contro l'ipocrisia della disuguaglianza condita da mimose, di una donna sdraiata su un materasso vecchio, talvolta inquadrata dall'alto, più spesso alla ricerca dei dettagli. Del corpo. E di un uomo seduto di fronte a lei su una poltrona. Una feritoia da cui entra la luce. Abiti eleganti. All'inizio la camera ondeggia da un'oblò sul mare. Poi entra in quella stanza e segue la mano di lei, la sua masturbazione, le espressioni, gli sguardi, fino a un capovolgimento possibile prossimi alla fine. “Insight” è un cortometraggio che dall'8 marzo – giorno dello sciopero delle donne, appunto – è diventato disponibile sul catalogo di Erika Lust, pioniera della pornografia femminile nel mondo. «Ho scelto l'International Women's day per l'uscita di “Insight” per celebrare lo sforzo che donne come “Le ragazze del porno” stanno facendo per la rappresentazione realistica del piacere femminile e dei valori del cinema nei film per adulti», ha detto Lust. Firmato da Lidia Ravviso e Slavina, nasce nell'ambito del progetto de “Le ragazze del porno” e si è poi sviluppato con un budget piccolo «visto il risultato non proprio esaltante del crowdfunding». «Abbiamo pensato che quello che potevamo fare, in modo femminista, era partire da noi, da quello che avevamo, ovvero la cultura cinematografica di Lidia e la mia esperienza di performer e studiosa di porno», racconta ora Slavina: «Abbiamo deciso di prendere una categoria abusata nel porno tradizionale - il "solo" o pink, con cui si definisce la masturbazione femminile - e fare un'operazione di hacking. Appropriarci del codice, per utilizzarlo verso uno scopo, rappresentando metaforicamente la relazione che c'è tra chi produce porno (e si mostra) e il pubblico». L'ambizione, spiega, «era rappresentare il desiderio, quell'onda che trascina, attraverso una pratica per molte è un tabù e per molti rimane legata a quel "mistero" della sessualità femminile che riconoscono sovraesposto, ma falso, nella rappresentazione pornografica». Non sono solo le immunizzazioni culturali che ereditiamo da secoli, infatti, a rendere la masturbazione femminile una figura confusa. È anche la sua rappresentazione a ridurla ad altro. A uno standard pornografico che mostra le donne quali corpi in simil-plastica occupate a ripetere atteggiamenti conformi in pose conformi. «L'altro punto di partenza ero io e il mio corpo di performer», spiega infatti Slavina: «non categorizzabile tra la tipica giovane o wannabe giovane del porno ma nemmeno rassicurante come quello della milf. Una presenza fuori dagli schemi del beauty che cancella le rughe, potente perché anche se concentrata su di sé non annulla la relazione possibile con l'altro. Anzi parte da sé per sedurre». E questo, per quanto riguarda il porno. Ma arrivare a definire femminista un film come questo potrebbe far borbottare un femminismo per il quale la dignità delle donne e la lotta per i pari diritti andrebbero portate avanti con pudore, con serietà quasi monacale, perché il resto non è che “esibizionismo”. «Sul nostro corpo passano delle oppressioni specifiche, legate alla riproduzione da una parte e al potere sessuale dall'altra. La legittimità del corpo maschile non è in discussione. La nostra sì. Un esempio superficiale: se in estate un uomo ha caldo, si toglie la maglietta. Se una donna ha caldo non è autorizzata a farlo. Se lo fa "è pazza"». Basterebbe, aggiunge «stare a sentire la voce della decenza: se qualcuna non l'avesse ignorata adesso porteremmo ancora il corsetto e non per un gioco erotico ma per andare a fare la spesa». Quindi, «chiunque riesca a comprendere questo - che sembra scontato ma evidentemente non lo è», continua Slavina: «può capire come per alcune la ribellione passi e debba passare per forza dal corpo, da un uso estremo e fortemente simbolico del corpo o semplicemente per la sperimentazione di forme (anche candide, innocenti) di liberazione da certe imposizioni patriarcali». «Che siamo noi stesse a farci pubbliche e svergognate rovina il gioco a quelli che ci chiamano Puttane nei gruppi segreti su FB». «Ma non è la rivalsa verso quel tipo di sub-umanità che ci muove. È la voglia di riprenderci la potenza del corpo, di farlo giocando e sentendoci complici a partire dalla pelle, che non mente». Femminismo quindi. «Chi vuole tener su le mutande le può tenere, non è obbligatorio farla vedere al mondo per liberarsi - ma se per qualcuna invece lo è, perché stigmatizzarla? Parliamo di femminismi al plurale proprio perché dal velo allo strap on ci possiamo stare tutte, ognuna con la sua modalità e nel rispetto di quella delle altre».

Le ragazze del porno, casting per neoattori. Il collettivo di registe che promuove il "porno al femminile" va in cerca di volti e corpi nuovi per un'antologia di cortometraggi d'autore, scrive Sabina Minardi il 30 ottobre 2014 su "L'Espresso". Foto, curriculum, dettagli fisici. E più di 200 candidature, prevalentemente maschili, in un giorno solo. Sta facendo il giro del web l'appello de “Le ragazze del porno”, il progetto di un gruppo di registe e sceneggiatrici italiane per promuovere il porno al femminile anche nel nostro paese. Il collettivo, formato da Erica Z. Galli e Martina Ruggeri, Tiziana Lo Porto, Anna Negri, Regina Orioli, Titta Cosetta Raccagni, Lidia Ravviso, Emanuela Rossi, Slavina, Monica Stambrini e Roberta Torre, che ha sinora esplorato la possibilità di raccontare la pornografia da un punto di vista nuovo attraverso performance, video e fotografie, entra ora nel vivo del suo impegno. E seleziona uomini e donne, attori non professionisti, disposti a girare un film di sesso esplicito. Un gruppo di artiste, "Le ragazze del porno", lancia una campagna di crowdfunding per realizzare un lungometraggio destinato al pubblico femminile. Dieci corti per altrettante autrici, "per realizzare un prodotto pop e politico, perché se i porno diventano creativi e liberatori sono molto più potenti". L'obiettivo è realizzare un'antologia di corti pornoerotici, sulla scia di “The Dirty Diaries Project” di Mia Engberg, regista svedese autrice di un Manifesto sulla pornografia al femminile, che rivendica il diritto alla bellezza naturale, la libertà dalle censura e un piacere svincolato dal controllo maschile. Si parte con “Queen Kong”, di Monica Stambrini. Sarà lei, autrice di molti cortometraggi e regista di “Benzina” (dal libro di Elena Stancanelli), a selezionare gli attori. E a lanciare la sfida di un nuovo genere cinematografico: una sorta di “realismo sessuale”, col desiderio femminile per protagonista. «Stanno arrivando candidature serie, di gente interessata a partecipare a un progetto originale e assolutamente inedito per l'Italia”, spiega la regista. Tre i profili richiesti: un attore “di età scenica 25-30 anni, fino ai 40 ben portati, bella presenza, affascinante, non necessariamente macho, disposto a scene di nudo e sesso completo non simulato”; un'attrice, “bella presenza, elegante, ben curata”, un'altra attrice “e/o performer, non necessariamente bella, fisicamente forte, in carne ma anche magra”, che “interpreterà un ruolo animalesco con effetti speciali di make up artist”. «Cerchiamo una bellezza canonica. E un'altra, prima di tutto, possente: una figura forte, in grado di imporsi nello spazio. La bella presenza richiesta per l'uomo? È un requisito più originale di quanto sembri: finora il cinema porno ha privilegiato nei maschi soltanto le misure».

Ora il porno lo fanno le donne. Registe. Scrittrici. Videomaker. Ideatrici di siti o di applicazioni. Ecco l'altra metà del cielo a luci rosse. Che piace sempre di più. Anche ai maschi, scrive Alessandra Bianchi il 12 aprile 2013 su "L'Espresso". Porno è donna, e la rivoluzione femminile è in atto. Parte dalla Francia e ha un nome che fa pensare a qualcosa di dolce, "Dorcelle". Non è il nome di una nuova prelibatezza, ma quello di un piatto gustoso proposto da un sito francese che ha deciso di specializzarsi nel porno per donne. Ovvero: offrire film hardcore che vadano incontro ai gusti femminili, rispettino le loro esigenze e stimolino i loro desideri, senza mai rinnegare l'essenza stessa del porno, cioè qualcosa di estremo, di forte e di provocatorio. L'idea è nata da specialiste del settore: le signore in questione, infatti, lavorano nella casa di produzione Marc Dorcel, firma di successo del porno francese dal 1979. In otto tra impiegate, pornostar ed ex attrici si sono ritrovate a discutere di cosa piace alle donne. Chiacchiere in libertà, fatte nella pausa caffé degli orari di lavoro. Che però hanno avuto un risultato molto concreto: «Ne abbiamo parlato subito con Grégory Dorcel, il figlio di Marc, che ci ha dato carta bianca», racconta sorridente e spigliata Adeline Aufray, una delle ideatrici del sito, nato a fine novembre 2012. Che in poco tempo ha già ottenuto un gran bel successo: dal lancio del sito 562 mila visitatori unici, 3.5 milioni di pagine viste. Certo, resta il dubbio sul sesso dell'acquirente di film, ma il porno pare si gusti anche meglio in due. I dubbi sui desideri dell'altra metà del cielo, del resto, sono stati fugati da un sondaggio fatto realizzare a settembre da Gregory Dorcel all'Ifop (Institut français d'opinion publique, prestigioso istituto di ricerca), insieme a un'inchiesta condotta dalla rivista degli studenti di Sciences Po, "L'Imparfaite": il dato più interessante è che l'82 per cento delle francesi ha dichiarato di aver visto almeno un film porno, il 50 per cento di averlo fatto da sola, circa il 20 per cento di vederne regolarmente (contro il 63 per cento degli uomini). Un effetto collaterale delle "50 sfumature" di E.L.James, in cui le frontiere dell'eros femminile sono state così attentamente esplorate? Il sito pioniere del settore, in ogni caso, non si propone soltanto di produrre e distribuire film hard per le donne: vuole essere per loro anche un punto di incontro, addirittura un "webzine femminile" che offra consigli, testimonianze e interviste, sviluppi tematiche, oltre che uno store dove si possa acquistare di tutto, compresa la lingerie. Non solo: intende offrire anche racconti in prima persona delle porno star. «L'occhio vuole la sua parte, soprattutto in questo settore», dice Adeline. Ma c'è davvero differenza tra un film porno pensato per le donne e uno rivolto a un pubblico maschile? O si tratta soltanto di un colpo geniale di marketing? «No, le richieste sono davvero diverse. L'uomo va subito al sodo, esige scene molto esplicite. La donna invece cerca un contesto credibile, una storia. Fa attenzione all'ambiente, ai vestiti, ai dettagli. Attenzione, non significa che non voglia anche lei scene forti o pensi a un film romantico: stiamo parlando sempre di porno, di ricerca di eccitazione sessuale pari a quella dell'uomo, questi film non sono più soft. Però la donna vuole anche che ci sia una costruzione della storia, una trama, che il desiderio aumenti mentre si va avanti nella storia». Questione di confezione, che deve essere impeccabile. Il sondaggio è chiarissimo in questo senso: la prima cosa cui le donne fanno molta attenzione è l'aspetto fisico degli attori, che deve essere naturale (per il 40 per cento delle intervistate): no dunque alle siliconate dai seni impensabili nella realtà, a dimensioni esagerate del pene o a pratiche erotiche talmente complicate da risultare di fatto poco credibili. Deve esserci realismo nelle scene (per il 35 per cento), e lo scenario è importante per il 37. Conta molto anche la bellezza degli interpreti (35 per cento). Insomma, porno sì ma con classe. «Non chiedono film in cui ci si scambiano coccole o che finiscano con un bel matrimonio: le scene devono essere in ogni caso hard. Guai però a proporgli cliché o situazioni stereotipate, tipo l'idraulico che arriva a casa e dopo due minuti ha già la padrona di casa nuda tra le sue braccia che lo masturba. Tantomeno i travestimenti da infermiera o insegnante. Per carità», chiarisce netta Adeline. Per il lancio, Dorcelle ha attinto dall'immenso catalogo di film prodotti dalla casa madre, scegliendo quelli che vanno più incontro ai gusti delle donne, scelta fatta dalla redazione esclusivamente femminile di Dorcelle. Ma se le cose andranno bene, come al momento sicuramente sembra, comincerà la produzione di film ad hoc: mercato tutto da scoprire ed esplorare, che potrebbe dare risultati importanti. Secondo Adeline Aufray non è affatto necessario che questi film siano girati da donne: «Quando vado al cinema io non mi pongo certo il problema se il regista è un uomo o una donna: conta solo che il film mi piaccia. E per il porno è uguale. Noi per esempio lavoriamo spesso con Hervé Bodilis: occhio molto attento all'estetica ma anche gusto profondamente perverso. Nei suoi film c'è sempre molta dominazione: l'aspetto più richiesto sia dalle donne che dagli uomini, il fantasma più diffuso». Un'altra differenza si nota nella classificazione dei film. Per gli uomini si ricorre alla suddivisione per pratiche: sodomia, orge, sadomaso, eiaculazione facciale eccetera. Per le donne si preferisce puntare sul genere: storie, film da guardare in coppia, vintage, glamour. Una rivoluzione, comunque, è in atto, nonostante resti ancora parecchia ritrosia nell'ammettere di consumare film porno. Dorcel traccia la via, aperta peraltro dalla svedese Erika Lust, regista e produttrice di film porno come "Cabaret Desirs", o dall'americana Candida Royalle. Anche mostrando che si può vivere il fenomeno con ironia: non a caso sul sito si trova la sezione delle parodie di film hard classici, che può aiutare chi è alle sue prime esperienze a viverle in modo più rilassato, e quella dedicata a racconti di flop e delusioni. Non solo immagini, quindi, ma anche testi. Erotismo e parole. L'articolo "Oso la sodomia", scritto da Coralie Trinh Thi, scrittrice ed ex pornoattrice di successo, parte attiva del sito come la pornostar Katsuni, è quello finora più cliccato: il 25 per cento di internauti non ha resistito alla curiosità. Lei, bruna prorompente, spiega perché: «Ho cercato di scriverlo con un tono alla Dorcelle: dovevo trovare il giusto equilibrio tra uno stile leggero ma al tempo stesso eccitante. Sul genere ho scritto anche due guide. Cerco di dare consigli, detesto il concetto di "educazione sessuale" perché non si educano le persone al sesso. Semplicemente, si prova a dare consigli perché possano liberarsi». Per Coralie, che appena ventenne con Dorcel vinse il premio "Hot d'or" (sorta di Oscar del porno) come miglior attrice europea per il film "La Princesse et la Pute", bisogna però fare una precisazione: «Le donne adorano il porno, io lo dico da anni, e infatti adoro l'idea che esista un sito specificamente rivolto a loro. Però non bisogna mettere paletti troppo rigidi alle espressioni umane dell'erotismo. Conosco uomini che da un film porno si aspettano comunque una trama, certi dettagli alla Dorcelle, e altri che desiderano invece esclusivamente scene hard molto esplicite. Insomma, voglio dire che alcuni uomini sono in realtà molto più "romantici" di certe mie amiche, mentre tante donne hanno timore di ammettere che gli piacerebbe guardare film assolutamente crudi». Coralie cita infatti un documentario trasmesso su una rete televisiva francese: «Riferiva di un esperimento effettuato su alcune donne cui erano stati applicati sensori sui genitali mentre guardavano film pornografici. Tutte, in buonafede peraltro, avevano risposto che il film non aveva provocato in loro alcun effetto, ma le loro reazioni fisiologiche dimostravano il contrario: erano eccitate eccome. Però è ancora molto poco accettabile culturalmente e socialmente che una donna ammetta di essere intrigata da questo tipo di film. Probabilmente ci vorranno ancora anni perché diventi normale, che si possa guardare un film hardcore in una serata tra amiche, magari con allegria e un po' d'ironia». Coralie in Francia è particolarmente famosa perché insieme all'amica Virgine Despentes ha firmato la regia di "Baise-moi" (Scopami), titolo che di per sé era una geniale provocazione ma che di pornografico aveva molto poco. «Fosse stato un porno, sarebbe stato il più fallimentare della storia: il pornografico deve eccitare, provocare il desiderio di masturbarsi. Ma cambiare quel titolo era impensabile». Sorpresa: secondo il sondaggio, una su tre delle donne che guardano regolarmente porno sarebbe vergine; non solo: il 17 per cento è costituito da ragazze che hanno meno di 25 anni. Ma allora chi è la donna-tipo che consuma questo genere di cinematografia? Adeline Aufray ha le idee chiare: «Una come me. Che vive in città, non ha complessi, giovane ma non ragazzina - diciamo sui 32 anni - al passo coi tempi e con la realtà». Un profilo molto simile a quello di chi acquista i sex-toys, e tra questi in particolare il gettonatissimo "Rabbit", salito agli onori della cronache grazie al suo utilizzo nella serie televisiva cult "Sex and the city".  Che il vibratore sia l'oggetto più venduto nei sex shop viene confermato anche nel raffinato negozio "Le passage du désir". Specchio dei tempi che cambiano, vede spesso momenti in cui la sua clientela è soltanto femminile. Donne di ogni età, da studentesse a signore un po' agée. «Il vibratore è sempre l'oggetto più richiesto, infatti ne proponiamo di tutti i prezzi», confermano le commesse. E, se è vero che negli ultimi anni fa tendenza averne uno in borsa, è anche vero che conta la ricercatezza del modello: «Per certi oggetti estetica e dettagli sono determinanti», dichiara la bruna Régine, che ne sta scegliendo uno dei più costosi: «Proprio come nei film hardcore».

Libere di venderci. E di comprare sesso. Colloquio con Elisabet Badinter, filosofa e femminista, scrive Alessandro Bianchi il 12 aprile 2013 su "L'Espresso". Elisabeth Badinter, filosofa e femminista, è una delle più autorevoli voci francesi, autrice tra l'altro di "La ressemblance des sexes".

Per lei si deve partire dalle affinità tra uomo e donna, dalle cose in comune, per arrivare agli stessi diritti e doveri. Sesso e porno compresi.

«Il desiderio di pornografia appartiene a entrambi i sessi. Il desiderio sessuale dell'uomo e della donna, anche se non è identico, può portare a certi fantasmi, a voler "guardare". è un aspetto molto interessante: per anni la donna è stata invece convinta che il voler godere fosse solo una faccenda maschile, fino ad autocensurarsi. Non dico che tutte le donne abbiano voglia di porno, del resto non accade nemmeno a tutti gli uomini. Ma non mi sconvolge affatto. A certe cose si arriva un po' per volta, direi che tutto è cominciato agli inizi degli anni Duemila. C'è stata una tappa molto importante: quando le donne di tutte le categorie, senza alcuna differenza sociale, hanno cominciato a comprare dei sex-toys. Un modo per affermare la propria voglia di sessualità, per dire che non c'è per forza bisogno di un uomo per viverla. Una sorta di "liberazione". Si compravano anche prima, certo, ma non erano oggetti diffusi. Oggi, se uno ha voglia di averli, è una sua scelta e basta. Credo che oggi le donne riconoscano pienamente la loro sessualità. C'è un film indicativo in questo senso, "Une liaison pornographique", la storia di una donna che decide di realizzare una sua fantasia sessuale e per questo mette un annuncio su un giornale. Un uomo le risponde. Non ci sono soldi in gioco, è solo per il piacere di vivere insieme questa fantasia. Questo è un film sulla libertà di vivere i desideri, dove è lei che prende l'iniziativa, che domina e lo afferma».

L'82 per cento delle francesi dice di aver visto almeno un porno. Una rivoluzione? 

«Certo. Impensabile fino a cinquant'anni fa. Invece oggi le donne rivendicano che si possa vivere la sessualità senza amore. Prima le donne univano sempre sessualità a tenerezza e affetto, dicevano "Se non provo sentimenti, non faccio l'amore", non osavano neanche pensare di avere una vita sessuale al di fuori di questi schemi. Oggi ci si conosce su Internet, ci si incontra in un caffè e, se ci si piace, si va subito a letto. Una rivoluzione sessuale. In Francia è cominciata dieci anni fa. Non c'è più differenza nell'approccio sessuale maschile e femminile. Scomparso il corteggiare, l'attesa, si è nell'istantaneità. La donna agisce come l'uomo».

Ma è un bene o un male, per lei? 

«Senza alcuna connotazione morale da parte mia, non so se si perde qualcosa. In tutta la storia della letteratura occidentale le grandi passioni sono fatte di imprevisti, problemi che ritardano il momento tanto sospirato. Oggi tutto questo manca».

Quanto c'entra questo col femminismo? 

«Nel femminismo oggi esistono molte correnti. Quella che vuole una "rottura" con il sesso maschile (per cui fare l'amore con un uomo è un tradimento) è una minoranza. C'è un femminismo americano lesbico molto ostile agli uomini, e poi c'è la maggioranza che vorrebbe semplicemente che le cose cambiassero; che vuole eguaglianza ma non è contro l'uomo e il sesso. Nell'affaire Dominique Strauss-Kahn c'è stata una incredibile dimostrazione di odio da parte delle femministe, dando per certo che fosse colpevole. Mi ha molto colpita. Ancora: molte vorrebbero proibire la prostituzione. Io sono arci-contro: si ha tutto il diritto di pagare una donna per favori sessuali, se lei accetta e se ovviamente non è una vittima in mano a un racket. Le donne hanno il diritto, se lo vogliono, di affittare il proprio corpo, e gli uomini hanno il diritto di chiederlo. Se con due notti guadagnano più che con un mese di lavoro... per me è una scelta rispettabile. Ma la mia è una posizione minoritaria, forse unica. Eppure bisognerebbe pensare che da qualche tempo anche le donne cominciano a "regalarsi" degli atti sessuali. Lo fanno soprattutto in viaggio: magari perché hanno una certa età, perché non sono piacenti, perché vogliono comunque vivere la loro sessualità, perché sono sole. Io lo trovo legittimo per loro come per gli uomini. Alcune prostitute mi hanno raccontato che quando gli si accosta una macchina in strada fanno parlare l'uomo per circa un minuto: così riescono a capire se è il caso di salire o no. Hanno modo di scegliere: e trovo che questa sia una prostituzione legittima».

Insomma il rapporto della donna col suo corpo è completamente cambiato. 

«Io credo proprio che la prossima tappa sarà quella di acquistare servizi sessuali. Siamo soltanto all'inizio».

L’EROTISMO NON E’ FEMMINISTA.

L'erotismo al femminile? Tutto tranne che femminista. Dominazione, perversioni, sadismo: le lettrici fantasticano su un sesso che farebbe inorridire molte «suffragette 2.0», scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 17/01/2018, su "Il Giornale". Ci sono due tipi di donne: le femministe, che parlano sempre a nome delle donne, e le altre donne, che leggono romanzi erotici per donne odiati dalle donne femministe. Insomma, come la mettiamo tutta la questione delle molestie sessuali, dove anche mettere una mano su un ginocchio è una molestia, con il perdurante successo editoriale della narrativa porno per signore, dove il maschio è sì un molestatore ma anche desideratissimo? Intanto è appena uscito, per Mondadori, Darker, di E.L. James, subito vendutissimo, sebbene sia la solita zuppa del dominatore e della dominata, che però eccita tanto. Se ci mettete un produttore di Hollywood al posto di Christian Grey vi renderete conto quanto questo immaginario sia incompatibile con le pasionarie del #metoo, la James avrebbe potuto essere attuale e scrivere «Cinquanta sfumature di Weinstein», e le lettrici avrebbero sognato Weinstein come un modello erotico. Il genere, per la verità, avrebbe un po' rotto le scatole, ma non alle lettrici. Lo sa bene la Newton Compton, che non pubblica mai un romanzo di vera letteratura, ma quando addenta un osso commerciale non lo molla più finché non è del tutto rosicchiato: non per altro è uscito pochi mesi fa Dark Shade (prima la parola chiave era «grey», oggi è «dark»), di CJ Roberts, dove il Weinstein della situazione è un criminale, Felipe Villanueva, ovviamente pieno di perversioni sessuali da mettere in atto con la sventurata di turno. Le protagoniste di questa narrativa sempre esistita nel mondo femminile (si pensi a «Pizzo Nero», la versione hard dei vecchi Harmony), amano sottomettersi ai desideri maschili. Ne Il ricordo, di Vina Jackson (che in realtà sono due autrici), appena uscito sempre per Newton Compton, la protagonista dice di non poter fare a meno della «foga con cui mi possedeva e il modo in cui mi ha lasciato che mi aprissi a lui e ai suoi desideri». A contare sono i desideri di lui, non quelli di lei, alla quale piace subirli (e dunque li desidera anche lei, perché lo desidera lui). Queste donne incontrano sempre degli stronzi, quelli che nel gergo del nuovo puritanesimo si chiamano predatori sessuali, ma non se ne lamentano mai, anzi li vogliono come non mai, e vogliono essere prese con violenza, senza troppi preamboli e smancerie e omaggi floreali. La protagonista di Violet, di Monica Murphy (ancora Newton Compton), viene cinicamente lasciata da un cinico e finisce nelle braccia di un altro cinico, va da sé perversissimo, e ben felice di finirci: «Anche lui ha una grande sete di successo, proprio come Zachary, forse anche di più. Neanche lui ha scrupoli. E tutto quello che lo circonda è un mistero. Non so niente di Ryder McKay, tranne che mi fa sentire cose che non ho mai provato prima. Un momento rubato, un bacio, un tocco... e sono in trappola. Ryder è come una droga potente, e io sono una tossicodipendente che non vuole guarire. Mi dice che le sue intenzioni non sono pure, e gli credo. Ma per la prima volta nella mia vita, non mi importa». Stiamo parlando di romanzi di serie B, per carità, ma è questo a essere interessante sociologicamente, perché vendono, ossia corrispondono a un immaginario diffuso. Che non ha in realtà nulla di anormale, perché sessualmente il gioco tra predatore e preda è comune alla sessualità non solo umana: il maschio è predatore, la femmina è preda (tranne rare eccezioni, come la mantide religiosa, sicuramente una delle prime femministe in natura). È il perbenismo femminista, casomai, a non avere un immaginario sessuale: chi ha mai letto un romanzo erotico femminista? Anche perché perfino il ribaltamento dei ruoli, quello dove è la donna a comandare, rientra nell'immaginario maschile fin dai tempi del marchese De Sade (e oggi con le mistress, che gli uomini schiavi pagano per farsi frustare). Oggi non sarebbe possibile neppure un bacio passionale improvvisato senza autorizzazione scritta. E d'altra parte, anche stabilire chi domina e chi è dominato non è mai così facile. D'altra parte le cose, nella passione erotica, non sono neppure così semplici. In Lolita di Vladimir Nabokov, un classico dell'erotismo (che stavolta però, a differenza dei suddetti, è anche un grande romanzo) chi è a dominare, il professor Humbert Humbert, o la sensuale, provocante Dolores? La quale, attenzione, aveva dodici anni. E pensare che il nuovo scandalo è su Woody Allen, perché si è scoperto che gli piacciono le ragazze giovani (baciò la diciassettenne Mariel Hemingway sul set di Manhattan, durante il film dove raccontava appunto la storia tra lui e una diciassettenne). Sarebbe stato anormale se gli fossero piaciute le vecchie.

PROVE DI DIALOGO: UOMINI E DONNE POSSONO ESSERE AMICI?

Uomini e donne possono essere amici? Ora è più facile: le reazioni sono diventate «fluide». La quotidianità ha avvicinato uomini e donne: si vive e si lavora di più insieme. Da «Harry ti presento Sally» è cambiato tutto: è caduta (per sempre) la barriera del sesso, scrivono Gaia Piccardi e Massimo Rebotti il 12 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «Uomini e donne non possono essere amici perché il sesso ci si mette sempre di mezzo, perché nessun uomo può essere amico di una donna che trova attraente: vuole sempre portarsela a letto». È il 1989. In Italia s’insedia il sesto governo Andreotti, a Berlino cade il Muro e tra Chicago e New York, nell’arco di un lungo viaggio in auto, Harry illustra a Sally la sua teoria sull’impossibilità dell’amicizia tra uomo e donna. Quasi trent’anni dopo, «Harry ti presento Sally» è ancora la pietra angolare per decifrare il groviglio di emozioni che nasce da un incontro? Da allora — insieme al mondo — sono cambiate molte cose: oggi più che mai maschi e femmine socializzano, lavorano insieme, condividono interessi e a volte il materasso senza necessariamente essere in coppia, in uno scenario di relazioni fluidificate dalla rivoluzione dei costumi e delle convenzioni sociali. «Ai miei tempi c’era il sesso oppure no — ricorda la scrittrice e psicoterapeuta Gianna Schelotto —. Non esistevano vie di mezzo. Chi s’immaginava che sarebbe nata la categoria dei trombamici?». Prego dottoressa...? «Quando il sesso non è più barriera né impedimento, l’amicizia tra uomo e donna diventa possibile. Ho pazienti che usano il sesso come mutuo soccorso. In tempi di rimescolamento di ruoli e generi, con una soglia del pudore più bassa, le divisioni rigide — amore o amicizia — non hanno più ragione di esistere». È la fascia degli adolescenti il grande laboratorio degli esperimenti intersessuali. Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e grande conoscitore dei giovani, spiega: «Le pari opportunità puntavano proprio a questo: smussare la rigidità degli stereotipi. Oggi all’Erasmus i ragazzi dormono nello stesso letto senza obbligo di relazione intima». E se il sesso c’è, è ginnastica priva di implicazioni emotive: «Ha perso l’alone di tabù e proibito. Le femmine si sono virilizzate, i maschi femminilizzati. In questo contesto è più facile che si formino coppie di amici misti». Se maschi e femmine ormai hanno imparato a stare insieme, se diminuisce il potenziale erotico e si scopre che si può avere un rapporto nuovo, chissà quale campo minato sono diventate le relazioni tra adulti. Esploratore dell’animo femminile, ancora pieno della lunga storia con la sublime Mariangela Melato, Renzo Arbore è il nostro Caronte nelle acque agitate di un tema mai risolto. Arbore non ha dubbi: «L’amicizia tra uomo e donna non solo è possibile, ma io l’ho sperimentata tante volte. Ho avuto amiche vere senza altre implicazioni, rapporti paritari con femmine intelligenti e colleghe bravissime». Alla fine degli Anni Settanta, in tv, conduce «L’altra domenica». Al suo fianco Milly Carlucci, Isabella Rossellini, Stella Pende, Irene Bignardi. «Le chiamavano le donne parlanti perché in quegli anni le donne facevano solo le vallette. Di ciascuna di esse sono rimasto profondamente amico». E poi c’è Mariangela. L’amore, on/off, di una vita. «Con lei il rapporto era speciale. Quando in un primo tempo è finito l’amore, che poi non era finito, siamo stati molto amici. C’era tra noi una profondissima stima. Non ho mai smesso di ragionare con lei, di chiamarla, di farle dei regali, di farmi consigliare. Le indicavo persino con chi, secondo me, dovesse fidanzarsi. Poi abbiamo riscoperto che eravamo fatti l’uno per l’altra ed è tornato ad essere amore. Che però è anche amicizia, stima e sentimento». Un sentiero che, nello sport, hanno percorso anche la campionessa degli Open Usa 2015 Flavia Pennetta e Fabio Fognini, collega tennista. Amici sin da ragazzi, si sono piaciuti a rispettosa distanza per anni prima di ritrovarsi d’incanto liberi da fidanzamenti. È a quel punto che l’attrazione non ha più avuto ostacoli. Racconta Flavia, neomamma di Federico: «Ci siamo messi insieme con alle spalle vent’anni di consolidata amicizia. Quando ci siamo scambiati il primo bacio, sapevamo già tutto l’uno dell’altra». Una relazione, infatti, può iniziare fraternamente, diventare sessuale e poi ritornare fraterna: «Sono solo le convenzioni a dirci che tutto ciò non va bene» interviene Rosa Maria Vijogini, terapeuta al centro milanese Cuore di Smeraldo: «Tra un uomo e una donna c’è sempre un’attrazione. Può essere fisica o intellettuale. In ogni caso alla base di una relazione c’è un bisogno profondo: quello di un’unione che ci completi. Sull’altro, in pratica, proiettiamo ciò che pensiamo ci manchi». A questo proposito il filosofo Massimo Cacciari raccontò al Corriere della Sera di una grande sintonia con una donna che non sfociò mai in una relazione sentimentale, spiegando così l’occasione mancata: «L’affinità era tale che era come se ti specchiassi nell’altro; e se vedi te stesso nell’altro ti ritiri, non vai dentro alla fonte come Narciso: non puoi fare, in pratica, l’amore con te stesso!». A dimostrazione del fatto che la materia è incandescente, sul tema si sono esibiti poeti (Borges: «L’amicizia tra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente»), scrittori (Wilde: «Fra uomo e donna non può esservi amicizia: passione, ostilità, adorazione, amore, ma mai amicizia»), cantanti (Venditti: «Amici mai, per chi si cerca come noi, non è possibile»). Attraverso la loro amicizia speciale, poi, Sophia Loren e Marcello Mastroianni hanno creato quell’alchimia che dalla vita si è trasferita sul grande schermo («Fu sintonia immediata, senza mai un’incrinatura: un gigantesco amore cinematografico» scrive Sophia nella biografia) e Monica e Chandler l’esilarante complicità che ha reso immortale la serie televisiva «Friends». Tra le infinite variabili di una relazione uomo-donna c’è anche quella di genere: «Per sua fisiologia — dice la psicoterapeuta di coppia Roberta De Bellis — il maschio ha un tipo di impulso sessuale che lo rende più incline a cadere in tentazione, mentre nella donna prevale la componente emotiva: il mondo si evolve, insomma, ma le dinamiche interpersonali rimangono ferme al discorso che Harry fa a Sally nel film». Marco Columbro a Lorella Cuccarini la tesi di Harry non l’ha mai esposta però — forse — un pensiero ce l’ha fatto: «Io stavo a Milano, Lorella a Roma e tutti ci dicevano: dai ditelo, siete fidanzati, siete una coppia». Il conduttore ricorda bene la percezione del pubblico negli anni del loro sodalizio: «Io e lei avevamo un’alchimia rarissima, quando capita è un dono. Artistico e umano. C’era un rispetto profondo e un affetto amicale. Ma non c’è mai stato niente». Con qualche rimpianto: «Bella donna, simpatica, intelligente. Però era fidanzata con l’amore della sua vita, continuava a ripetere. Due palle… Qualsiasi voglia te la faceva passare». Giusto o sbagliato che sia il discorso di Harry, l’amicizia rimane un’esigenza: «Ci si specchia nell’altro per capire che tipo di uomo o donna vogliamo diventare» chiosa Pietropolli Charmet. «È come una danza o una lotta — spiega Vijogini —. Dentro a una relazione di amicizia c’è sempre una possibilità evolutiva». E alla fine di quel famoso film, per non sbagliare, Harry si fidanza con Sally.

Maschi-femministe: prove di dialogo. Dal malinteso sull’odio reciproco ai (complessi) tentativi di confronto: cronaca di una battaglia per la libertà. Di tutti, scrive Luisa Pronzato il 3 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera". «Ho scoperto il femminismo e sono rimasto vivo». Nessuna ricerca di benevolenza. Anzi, fatica e gavetta: soffritti, piatti, spazzatura. Evitando autocoscienze. E 35 anni dopo è ancora possibile usare il plurale e dire «nello scambio ci abbiamo creduto». In quanti, però, ci hanno creduto come rappa la canzone di Paolo Bertella, che esordirà il 10 settembre al Tempo delle Donne? Sono molti i “matrimoni lunghi” in cui la partner è femminista, ma sono anche molti i matrimoni saltati, le singletudini a vita di donne per nulla sante ma sole per scelte di quella che forse solo un tempo e forse anche ideologicamente si chiamava “autodeterminazione”. Il tema è il dialogo tra i femminismi e gli uomini. Più di cinquant’anni (e se contiamo il suffragismo possiamo dire anche quasi un secolo) in cui la cocciuta ricerca di equità ed equilibrio tra il maschile e il femminile nella società italiana ha avuto momenti di accelerazione, primo fra tutti la conquista del voto e l’entrata in Costituente delle donne, periodi di stallo silente e momenti di grandi risvegli come l’organizzazione dello sciopero delle donne dello scorso 8 marzo. Una corsa, dicevamo, in cui i femminismi hanno corso da soli, spesso anche in contraddizione tra loro, con sparuti uomini che tentavano di partecipare alla trasformazione sociale, e pochi momenti in cui il dialogo tra i femminismi e gli uomini sono avvenuti. Su tutto un malinteso di fondo, quello che le donne, meglio le femministe, odino gli uomini. Nonostante questo la società italiana si è trasformata, attraverso il nuovo diritto di famiglia e le leggi di parità, sul divorzio, sull’interruzione di gravidanza, sulle tecniche contraccettive. Vediamo più donne che lavorano, più dirigenti, più ragazze nelle università e un pensiero femminile riconosciuto e in qualche caso anche autorevole. Anche se a una posizione delle donne più determinata nella società fa da contraltare l’aumento della misoginia, a volte anche femminile, il persistere di stereotipi, spesso invisibili quanto la violenza che, ben oltre l’indignazione per i femminicidi, sottende ancora nelle relazioni tra uomini e donne. E allora che è successo? Proviamo a ripercorre alcune tappe di questi anni e cercare di dare un ordine ai momenti e alle idee per fare un punto di come siamo e a che punto stiamo. Il primo punto è il separatismo su cui è necessario distinguere tra rapporti nel privato e in politica. Matrimoni, amicizie sono nate e maturate, ognuno trovando regole proprie di complicità, affetto e organizzazione casalinga. Fu nel percorso politico che le femministe scelsero la via del non dialogo. «Fu una via obbligata del femminismo degli anni Settanta», dice Adriana Cavarero, filosofia e teorica in Europa del pensiero della differenza. «Era il bisogno a non pensare e non parlare “neutro” come invece la società patriarcale e maschilista faceva per cancellare l’individualità femminile. Fu un approccio puramente politico per ribadire e soprattutto riconoscere tra noi donne che incarnavamo una differenza». È l’epoca degli incontri solo tra donne e della scelta dell’autocoscienza come strumento (le femministe continuano a chiamarla “pratica”) per scambiare idee ed esperienze. «Certo, dovevamo trovare la forza di riconoscerci, parlare delle scelte politiche necessarie a superare il patriarcato, non potevamo condividere questo percorso dialogando con gli stessi uomini che, anche se oggi sembra una parola obsoleta, erano gli “oppressori». Per meglio interpretare quello che dice Cavarero, qualche dato storico: L’abolizione delle “clausole di nubilato” nei contratti di lavoro e la legge che vieta di licenziare le lavoratrici per “cause di matrimonio” sono del 1963, dell’anno dopo è l’abolizione del “coefficiente Serpieri”, un sistema di valutazione usato in agricoltura in base al quale il lavoro svolto da una donna era il 50% di quello svolto da un uomo, del 1968 è la legge per cui solo l’adulterio femminile non è più reato e solo nel 1981 viene abolito il “delitto d’onore”. «Oggi, lo stesso pensiero della differenza può aprirsi al dialogo con gli uomini, modulandosi a seconda degli argomenti», continua Cavarero. «Se parliamo di aborto e gravidanza, parlino le donne, se stiamo ragionando sulla crisi dei padri, è giusto che siano gli uomini a interrogarsi. Se affrontiamo i grandi temi della migrazione, del clima, dell’economia occorrono parole comuni. I femminismi oggi sono ben diversi dagli anni ‘60 e ‘70, dobbiamo essere aperte alla dialettica, misurarsi a seconda degli argomenti e marciare simbolicamente insieme. Un esempio non simbolico è la marcia americana dello scorso gennaio. L’hanno chiamata “delle donne”, ma il bisogno e la consapevolezza comune di dire no al populismo era così forte che ha scosso le coscienze di tutti: è stata la più grande e mista marcia d’America». Torniamo all’Italia. «Nonostante il separatismo politico i tentativi di dialogo non si sono mai interrotti», racconta Annarosa Buttarelli, tra le fondatrici di Diotima, comunità nata presso l’università di Verona nell’83 con l’intento di “essere donne e pensare filosoficamente” e autrice di Sovrane (Il Saggiatore). «Ce ne sono stati diversi, alcuni più riusciti, altri meno», dice. “Le interlocuzioni, e dialoghi attivi, tra il femminismo della differenza e gli uomini sono avvenuti durante le campagne referendarie del divorzio e dell’aborto, per esempio. A Bologna fu proprio il dialogo tra Luce Irigaray e il sindaco Renzo Imbeni a far nascere una stagione di ricerche sui linguaggi sessuati e di educazione nelle scuole al riconoscimento dei ruoli dei ruoli femminili e maschili. Furono progetti che contagiarono altre città. Erano gli anni ’90, in cui si svilupparono anche le leggi sulla parità. I risultati furono temporanei». E con la Bolognina quel fermento si fermò. «Le giovani generazioni, maschi e femmine, sembrano aver capito meglio gli scambi con i femminismi», continua Buttarelli. «Lo abbiamo visto nelle università, anche se la disoccupazione e la corsa alla sopravvivenza spegne, appena usciti dal percorso scolastico, gli interessi e l’attivismo. E se dobbiamo segnalare un cambiamento è quello dei femminismi e dei movimenti aziendali della diversity che hanno cambiato rotta: il dialogo oggi si cerca non più nella trasformazione della relazione donna-uomo ma nei grandi temi. Preso atto della propria autorevolezza, le donne vogliono entrare nel merito delle crisi generali, per questo il tema più attuale è quello della democrazia e della rappresentanza. Questi sono i dialoghi in corso a cui aggiungerei quello in atto tra le femministe cattoliche e il Vaticano. Chiesa, donne e mondo diretto da Lucetta Scaraffia, e allegato all’Osservatore Romano lo sta raccontando e dimostrando». Alla fine degli anni 80 La Carta delle Donne del Pc fu un’altra prova di dialogo, sostenuta da Natta e Berlinguer. «Costruire la società umana, la società a misura di donne e uomini era l’ambizione”, come racconta Livia Turco che ne fu l’animatrice. «Si trattava dell’assunzione del pensiero e della pratica della differenza sessuale, e la parte programmatica, fatta di obiettivi concreti che ci consentiva un dialogo a tutto campo con le donne italiane. Lavoro, welfare, pace nel mondo, ambiente, riforma delle istituzioni, i problemi del Mezzogiorno... Non lo specifico femminile ma la politica a tutto campo». La Carta girò tutta l’Italia con incontri nelle città, conteneva in pratica i principi delle leggi di parità degli anni ‘90. Ma poi, la crisi del Pc, e lo smembramento delle militanti congelò anche questa esperienza, come raccontano Letizia Paolozzi e Alberto Leiss in Cera una volta la Carta delle donne (Biblink ed.) che sarà presentato in questi giorni al Festival della letteratura di Mantova. Esauste è il termine che usano molte femministe di generazioni mature affrontando la domanda su dialoghi possibili. «Come possiamo parlare di dialogo se il Pd oggi crea il Dipartimento mamme?», chiede Anna Maria Crispino, direttora di Leggendaria, rivista femminista che si propone come “vetrina dell’intelligenza femminile”. «Non è questione solo di terminologie: “mamme” significa non riconoscere altro ruolo alle donne. Fanno impressione i programmi esclusivamente reattivi dei partiti della sinistra (dovrebbero essere i nostri interlocutori) che pensano per categorie indifferenziate senza analizzare la reale complessità rispetto alle donne, ma pure ai giovani. Dal mio osservatorio poso solo dire che spero nelle nuove generazioni, e in quel femminismo 2.0 che molte 60enni ignorano». E allora guardiamoci intorno. Le tshirt «I am feminist», snobbate in alcuni casi ma indossate anche da ragazzi posso condurre al dialogo? Le campagne ipercondivise su facebook come quella di Anita che chiedeva «per quanto tempo dovremmo sentirci fortunate per non essere state violentate» possono aprire dialoghi nuovi? «Finché si resta ancorate al binarismo uomini e donne nessun dialogo è possibile», dice Benedetta Pintus, creatrice del portale Pasionaria.it, che aderisce alla rete di NonUnaDi Meno identificandosi nel femminismo intersezionale, vale a dire aperto ai i generi, includendo ogni livello di discriminazioni, comprese omotransfobia, razzismo, disabilità e le diverse condizioni sociali. «Alle nostre discussioni partecipano anche persone che non si identificano in un genere. Parliamo al plurale, senza genere e partiamo dall’idea che pregiudizi e discriminazioni ingabbiano anche gli uomini. È la base di un terreno su cui ci confrontiamo anche con i ragazzi su temi che riguardano le identità, l’aborto, il razzismo, la contraccezione, la violenza, il bullismo… l’educazione alla differenza. A Cagliari, da qualche mese organizziamo assemblee pubbliche nel parco. Qualche non militante comincia a fermarsi. Ma lo sappiamo, facciamo ancora i conti con i pregiudizi che il femminismo si porta dietro».

GLI UOMINI, LE DONNE ED I TRADIMENTI.

STEREOTIPI (O NO?). Gli uomini (le donne) e il tradimento nell’era del «diritto alla felicità». Cercano sesso e gratificazioni altrove ma lasciano la «porta aperta» alla relazione in corso. Il «mito dell’esclusività» può essere superato? Forse, a certe condizioni, scrivono Paolo Decrestina, Alessandro Sala, Greta Sclaunich, Silvia Turin il 27 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Luca le sue fidanzate le ha tradite tutte, «tranne la prima». Operaio, 45 anni, lavora in fabbrica «e questo mi dà modo di conoscere tante donne». Sa di piacere e per questo se la gioca ogni volta che può. A Radio27 racconta la sua esperienza di traditore seriale. Ma anche di tradito: «Sì, è capitato anche a me. E proprio con quella che pensavo fosse la persona giusta. Con lei avevo pensato di andare a convivere, di costruire un futuro. Il suo tradimento però non sono riuscito ad accettarlo e così ci siamo lasciati». Verrebbe da dire «chi la fa l’aspetti» e Luca ne è consapevole. «Non voglio passare per vittima, ognuno si assume la responsabilità delle proprie azioni». Le sue scappatelle non le confessa mai alla fidanzata del momento, «e se ha sospetti nego sempre». La sua inclinazione la spiega in tanti modi: «Intanto la ricerca della trasgressione. E poi il sentirsi appagati per avere soddisfatto una donna sapendo che con il marito non è così». E si dà pure una motivazione antropologica: «Il fatto è che noi uomini siamo stupidi animali e seguiamo un istinto animale». L'immagine del cacciatore, insomma.

Lo stereotipo del cacciatore. Che forse solo stereotipo non è. Ne è convinta Carola Barbero, docente di filosofia dei linguaggi all’università di Torino, autrice di vari libri, tra cui «Sex & the city e la filosofia», in cui analizza quella che viene definita come «l’era dell’anti-innocenza». E cosa c’è di più anti-innocente del tradimento? «Sicuramente nulla — spiega —. Ma il tradimento non è una prerogativa maschile: in passato tradivano perlopiù gli uomini perché banalmente erano quelli che ne avevano l’opportunità. Non è più così e anche nell’immaginario collettivo il tradimento femminile è stato sdoganato. In parte anche grazie a film e tv». Ma c’è differenza nel tradimento tra uomo e donna? «Gli uomini — sottolinea Barbero — sono più veloci nel tradire, partono dall’aspetto sessuale. L’uomo è cacciatore? Un po’ sì, in lui scatta il desiderio di conquista. Le donne, invece, di solito sono più complicate: quando tradiscono, anche in una relazione di carattere sessuale, magari non sono proprio innamorate, ma quantomeno hanno bisogno di sentirsi sedotte e incuriosite». Non solo ormoni dunque. Su questo concorda Emmanuele A. Jannini, presidente dell’Accademia italiana della Salute della Coppia: «Il tradimento maschile lascia la “porta aperta” alla relazione in corso e non la interrompe, in una donna è preceduto invece dalla chiusura della “porta emotiva”. C’è sempre una crisi alla base». Di più: «Per la cultura e biologia maschile il tradimento è prima di tutto fisico. Per una donna è prima di tutto amoroso, con un forte impegno emotivo. Non che le donne accettino il tradimento fisico, ma gli uomini lo soffrono di più». Di certo c’è che per entrambi i generi questi sono tempi propizi al tradimento: «Per gli uomini — fa presente Jannini — c’è stata la rivoluzione della “pillola azzurra”: chi magari prima non si sarebbe sentito all’altezza nemmeno di tentare, ora ci prova. Per le donne l’avvento dei social e dei siti di incontri ha sicuramente agevolato e moltiplicato le occasioni».

Inventarselo. Una differenza sta poi nel modo di vivere la sfera pubblica del tradimento: «Il maschio tende a vantare il tradimento come riconoscimento di virilità, tanto che se lo inventa anche. La femmina teme invece una perdita di valore sociale e quindi cerca di negare, ma in ogni cultura e società (dalle più libertine alle più restrittive), pur cambiando i numeri, avremo sempre che i maschi dicono di tradire il doppio delle femmine. Entrambi mentono». Nella coppia contemporanea, che è parte di una società consacrata al diritto della felicità, c’è un’altra componente che innesca dinamiche esplosive, dinamiche che possono portare a concepire come possibile il tradimento: la nascita di un figlio. Proprio la consacrazione più alta della coppia può diventare la lama che la spezza ed è l’argomento affrontato dallo scrittore Antonio Scurati nel suo romanzo "Il padre infedele", in cui il protagonista tradisce, realmente o idealmente, la moglie dopo la nascita della figlia. «La più dolorosa manifestazione dell’incrinatura della coppia — dice lo scrittore — è il ripudio sessuale del padre da parte della madre».

Padre e amante. L’uomo dunque viene investito da una «potentissima spinta regressiva verso una condizione animalesca di maschio inseminatore che cerca la femmina solo per la copula, deresponsabilizzandosi di qualsiasi altro aspetto». Nel romanzo, come nella realtà, l’uomo-genitore di Scurati teme che «l’infedeltà del marito significhi il tramonto del padre, ma non è così». Siamo di fronte quindi a un «maschio scisso»: da una parte «la forte spinta propulsiva verso la scoperta di una nuova figura paterna» e dall’altra quella uguale e contraria verso «i piaceri sordidi per ritrovare un senso avventuroso della vita». Scurati ammira e promuove la nuova figura del padre che «impara ad amare i figli di amore materno» ma allo stesso tempo invita anche a «non disconoscere le contraddizioni e le lacerazioni che questo cambiamento porta con sé». Le donne e gli uomini oggi sbagliano, tradiscono, si separano ma, per lo scrittore, portano avanti «con coraggio questa rivoluzione sessuale, culturale e dei costumi, l’ultima che ci pone in una posizione di avanguardia». Succede anche, però, che le coppie si tradiscano ma non si separino. Dipende dal tipo di tradimento: secondo Michele Rabaiotti, direttore generale della Fondazione Guzzetti che amministra 6 consultori familiari di ispirazione cristiana a Milano, «quelli che tradiscono per ripicca, cioè che sentono che l’impegno nei confronti della coppia non viene riconosciuto, si sentono autorizzati a restare con la compagna. Le donne, invece, se e quando arrivano a pensare a un’altra storia di solito sono pronte a lasciare».

La dignità dell’altro. E poi — e qui si torna alla filosofia — molto incide il fattore del rispetto che ci può essere anche nel tradimento: «L’importante, soprattutto dal punto di vista femminile, è che l’altro non sia mai “oggettificato” — precisa ancora Barbero —: quando il tradimento avviene bisogna tenere conto della dignità dell’altro, che si tratti del tradito o di chi partecipa al tradimento». In questo modo il perdono è più facile. «Se c’è la consapevolezza che il meglio, valori e sentimenti, è stato comunque tenuto nella coppia allora il mito dell’esclusività può essere superato». C’è però anche una ragione più pratica per il perdono, come analizza Giangiacomo Reali, psicologo e psicoterapeuta, anche lui della fondazione Guzzetti: «Spaccare una famiglia è problematico per la sicurezza, anche economica. Chi va avanti accetta che ciò che si è rotto si può ricomporre, anche se in modo diverso da com’era prima». E riesce, soprattutto, a perdonarsi: secondo Rabaiotti «sfatiamo il luogo comune per cui se si tradisce una volta poi si tradirà sempre. Se il tradimento ha stimolato riflessione e consapevolezza diventa l’antidoto a future “ricadute”».

I FEMMINISTI.

Boldrini: "Dobbiamo essere tutti femministi, specie gli uomini". Boldrini agli uomini: "Le discriminazioni delle donne, i femminicidi, non sono solo un nostro problema; sono anche un vostro problema", scrive Luisa De Montis, Domenica 10/07/2016, su "Il Giornale". "Le discriminazioni delle donne, i femminicidi, non sono solo un nostro problema; sono anche un vostro problema". Lo afferma la presidente della Camera Laura Boldrini in un'intervista al Corriere della Sera che chiede che "uomini e donne abbiano gli stessi diritti, tutti noi dobbiamo adoperarci e quindi dobbiamo essere tutti femministi", "soprattutto gli uomini". E rivolto ai violenti afferma: "Arrendetevi. Rassegnatevi. Non ci ridurrete a testa bassa. Noi e le nostre figlie non vi consegneremo la nostra libertà. Il male che fate vi si ritorcerà contro". "Il femminicidio purtroppo non ha confini: tocca tutti i Paesi, a ogni latitudine. Per questo bisogna coinvolgere gli uomini. Devono farsi sentire, devono condannare la violenza, devono far vergognare i violenti. Ci deve essere lo stigma sociale su di loro: gli altri uomini devono isolarli. Invece a vergognarsi a volte sono le donne che subiscono la violenza. È un mondo al contrario. Per questo è essenziale far arrivare al più presto i finanziamenti ai centri antiviolenza e alle case rifugio. Strutture che per molte donne rappresentano la salvezza". Quanto alle discriminazioni nel lavoro parlano i dati, dice Boldrini: "Solo il 47% delle italiane lavora. Al Sud la percentuale diminuisce drasticamente. Quando la donna lavora, a parità di qualifica, a volte - per non dire quasi sempre - guadagna di meno. Andiamo in senso contrario a quello che ci indicano le ricerche. Il Fondo monetario ha condotto un'indagine su 2 mila aziende europee: quando nei board ci sono le donne, il fatturato aumenta da 8 a 13 punti. In Italia solo il 21% delle aziende ha donne ai vertici. L'Italia perde il 15% di Pil potenziale perché non stimola l'occupazione femminile. Come si fa a non capire che si deve puntare sulle donne per la ripresa? E non per le donne; per il bene delle aziende e del Paese".

Nascite, per la Boldrini i papà "non sono parte in causa". In Aula il presidente della Camera, Laura Boldrini, fa gli auguri alla deputata Celeste Costantino ma si scorda di farli al papà. "Non è parte in causa", si giustifica, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 28/06/2017, su "Il Giornale". Per Laura Boldrini i papà non esistono. Durante la seduta di ieri il presidente della Camera ha inviato "un saluto molto sentito a Celeste Costantino, la nostra collega che ha fatto una bambina che si chiama Bianca e che sta bene: un saluto a mamma e bimba". Dall'Aula sono subito giunti applausi scroscianti per la deputata di Sel che è diventata madre, ma Antonio Palmieri di Forza Italia ha voluto subito fare una puntualizzazione alla Boldrini. "E il papà, no?", intendendo che anche il padre della piccola bianca si meritasse gli auguri. Il presidente della Camera ha dato una risposta che ha spiazzato tutti i colleghi deputati. "Come dice? Il papà e non è parte in causa in questo caso. Scusate, la bambina è stata fatta da Celeste Costantino, è nostra collega e noi ci rivolgiamo a lei, essenzialmente a lei", ha affermato la Boldrini. Il fittiano Daniele Capezzone, come ha raccontato sul suo profilo Facebook, ha quindi chiesto la parola "per fare gli auguri anche al marito o al compagno della nostra parlamentare, visto che crediamo, dopo ampia riflessione, che anche il papà abbia avuto un qualche ruolo nella nascita della bimba". Una Boldrini visibilmente imbarazzata, a quel punto, si è dovuta arrendere e ha concluso: "Sarà un piacere fare gli auguri anche al papà".

Daniele Capezzone 27 giugno 2017· 

PRESIDENTE. Allora colleghi e colleghe, vorrei anche inviare un saluto molto sentito a Celeste Costantino, la nostra collega che ha fatto una bambina che si chiama Bianca e che sta bene: un saluto a mamma e bimba (Applausi).

ANTONIO PALMIERI. E il papà no?

PRESIDENTE. Come dice? Il papà e non è parte in causa in questo caso (Commenti di deputati...). Scusate, la bambina è stata fatta da Celeste Costantino, è nostra collega e noi ci rivolgiamo a lei, essenzialmente a lei.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Capezzone. Ne ha facoltà.

DANIELE CAPEZZONE. Molto brevemente, signora Presidente: (...) per suo tramite, è per fare gli auguri anche al marito o al compagno della nostra parlamentare, visto che crediamo (Applausi), dopo ampia riflessione, che anche il papà abbia avuto un qualche ruolo nella nascita della bimba (Applausi).

PRESIDENTE. Sarà un piacere fare gli auguri anche al papà.

GLI UOMINI, IL FEMMINISMO E “I FEMMINISTI”, il 21 novembre 2016 tratto da Communianet.org di Mauro Muscio e Andrea Tornese. Il 26 novembre le nostre compagne, di vita e di lotta, scenderanno in piazza a Roma al grido Non una di meno, riprendendo lo stesso slogan, Ni Una Menos, delle mobilitazioni femministe che a partire dall’America Latina stanno attraversando il mondo. La manifestazione sarà aperta dalle donne con uno striscione unitario e a seguire il corteo misto di partecipanti che si riconoscono nella lotta contro la violenza maschile sulle donne. Sarà una manifestazione femminista – per questo organizzata e guidata da donne – e sarà mista. Abbiamo voluto interrogarci sulla partecipazione degli uomini al corteo, non tanto per ribattere a sterili polemiche aperte nei giorni scorsi, ma per dare un contributo a chi si interroga sulla modalità con la quale gli uomini potrebbero sostenere le donne nella loro lotta contro la violenza sistemica, economica, sociale e culturale del patriarcato. «Gli uomini che vogliono essere femministi non hanno bisogno di ricevere spazio nel femminismo. Devono prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista». Queste parole della femminista inglese Kelly Temple offrono sicuramente un interessante spunto di riflessione da cui partire. Non è una banalità ricordare infatti che qualsiasi forma di femminismo nella storia e nei luoghi geografici è nato per opera delle donne e si è costituito, organizzato, evoluto, frammentato per opera delle donne. E ciò è accaduto, per dirla molto semplicemente, per trovare delle risposte alle oppressioni degli uomini. Le correnti femministe hanno portato avanti una discussione sulla vita degli uomini più di quanto gli uomini lo abbiano fatto consciamente su sé stessi, così come ogni oppresso riflette sulla propria condizione a partire dai privilegi che identifica in quelli che lo opprimono. Questo spiega in gran parte perché un uomo non sa se può aver senso definirsi femminista, poiché sa di usare un termine creato e costruito politicamente su misura di donna.

Gli uomini possono essere femministi? O possono solo sostenere la lotta femminista? Kelly Temple risponde difendendo lo spazio femminista (spazio inteso qui come luoghi fisici e soprattutto come discorsi, simboli, linguaggi, teorie e pratiche) il quale, giustamente, non avrebbe motivo di dover concedere uno spazio agli uomini perché, diciamo noi, non avrebbe senso né per gli uomini e né, soprattutto, per le donne. Quello che dice l’autrice è qualcosa di molto più complicato e corretto; gli uomini che vogliono definirsi femministi devono agire nella società, cambiarla, trasformarla e renderla femminista, e lo devono fare però – e qui il nodo complicato – senza pretendere di determinare il luogo femminista, ma ricevere il “pacchetto completo” farlo proprio e diffonderlo sfruttando positivamente la loro posizione di privilegio. Che cosa sia la violenza per una donna lo sa solo una donna, e lo può legittimamente dire solo una donna. Come uomini quello che possiamo fare è ascoltare, fare nostro e fare in modo, come possiamo, che quel tipo di violenza non accada più, almeno per mano nostra. Il saper accettare di non determinare l’esperienza femminista è il primo passo, non scontato, di alleanza maschile con il femminismo. Si tratta quindi per gli uomini di avere un ruolo passivo nel volersi alleare con il bagaglio culturale femminista? Al contrario, è un ruolo di partecipazione attiva. L’autrice però sottintende inevitabilmente anche un’altra cosa, ossia che debba esserci una relazione tra femministe e uomini, una relazione non imposta, necessaria o doverosa, ma anzi politica. Alla manifestazione #NiUnaMenos del 19 ottobre scorso a Santiago del Cile tra i partecipanti ha suscitato scalpore la presenza di un uomo senza maglietta che portava un cartello con su scritto: “Sono seminudo, circondato dal sesso opposto… e mi sento protetto, non intimidito. Voglio lo stesso per loro”. La foto che lo ritraeva è diventata virale sui social media trasformando l’uomo in un’icona dei “femministi”. Il suo messaggio, pur definito geniale da più parti, in realtà porta con sé una contraddizione su cui riflettere: sfruttando il binarismo di genere e i suoi stereotipi, l’uomo ha sostenuto un’idea della donne come elementi passivi, protettivi e materni, fedeli ed inoffensive compagne. Le solite femministe esagerate? O come a tanti ignoranti piace definire, le solite nazifemministe? No. Piuttosto la costante incapacità culturale degli uomini di farsi da parte, la necessità di dover esserci – magari anche con nobili intenzioni – con una modalità egoriferita che esemplifica perfettamente la costante violazione maschile degli spazi delle donne; una ricerca di protagonismo spesso sinonimo di femminismo di facciata (tanto più che l’ex compagna dell’uomo, riconoscendolo sui social network, lo ha smascherato e ha raccontato le violenze che lei e la figlia hanno subìto). Aggiungiamo che inoltre sotto un certo punto di vista mediatico sembra abbia fatto più scalpore la presenza di un uomo in quel corteo piuttosto che il numero enorme di donne presenti. Siamo cresciuti in una cultura sessista, l’abbiamo assorbita e ne siamo inevitabilmente portatori. Gli uomini, e chiunque venga riconosciuto come tale, godono di un privilegio a livello culturale, sociale e politico; esistono ruoli nella società, che mutano e si trasformano, ma che si declinano in ruoli di vantaggio e svantaggio, privilegio e non privilegio. Non è una visione vittimistica della società, è la società. Se non esistessero questi ruoli non vivremmo in contesti socio-culturali in cui patriarcato e capitalismo si legano quasi in un unicum nella filiera di produzione-riproduzione-normatività-sfruttamento-esclusione.

Gli stereotipi di genere non incidono solo a livello culturale ma, relegando le donne ai ruoli di cura, limitano il loro orizzonte professionale ed economico. I tagli agli asili nido e alle case di cura, insieme all’assenza quasi totale di assistenza e welfare per anziani e disabili, costringe le donne a sopperire a queste carenze facendosi carico delle cure necessarie. Lo Stato risparmia nella cura dei propri cittadini facendo leva sul senso culturale diffuso che questo sia un compito destinato alle donne. Donne che rinunciano al lavoro, alla carriera, all’emancipazione economica e, non ultimo, al tempo libero. La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è più bassa di quella maschile. Non è un caso che, dal punto di vista della parità lavorativa, l’Italia sia al 114esimo posto della classifica mondiale per la presenza di donne negli incarichi manageriali e terzultima in Europa. In termini di retribuzione a parità di ruolo, l’Italia si trova al 128esimo posto nel mondo, fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei. Guadagnano in media il 6,9 per cento in meno dei loro colleghi uomini e fino al 10 per in meno nei settori impiegatizi. A partire da questo gli uomini possono agire in maniera corretta nell’alleanza al femminismo. Sapere di essere giudicati in un certo modo e posti nel mondo perché uomini, socialmente uomini; sapere di agire in un certo modo nelle relazioni perché educati a farlo in un modo da uomini; essere consapevoli che il corpo maschile, costruito socialmente su canoni e norme maschili, determina lo spazio in cui si trova; e accettare di mettere in discussione questo sempre, con qualsiasi persona, indipendentemente dal genere, è il ruolo attivo con cui gli uomini possono rendere femminista il mondo. Senza ripercorre gli incontri e scontri tra i movimenti femministi e movimenti LGBT*Q, ci basta qui sottolineare come il risultato tra i due percorsi produsse la critica agli stereotipi maschili e, nei momenti migliori, riuscì a produrre pratiche di liberazione. La scelta di un corteo misto per il 26 è un traguardo per il femminismo e non solo; è una scelta politica che chiama le donne a trovare negli uomini e nelle soggettività LGBT*Q giusti alleati per combattere la cultura sessista. La produzione di norme oppressive per le soggettività non maschili passa attraverso la necessaria costruzione di ruoli maschili di oppressione. Anche gli uomini, infatti, possono fare esperienza, occasionalmente o in maniera costante, di come agisce il machismo e l’eteronormativià: non tutti gli uomini corrispondono allo stereotipo del maschile; e chi non aderisce alla norma, a partire da quella sui ruoli di genere, è vittima di violenza ed esclusione (In questo senso Abbattiamo i muri ha lanciato la campagna “per raccontare la normatività che agisce sul maschile”: #MascolinitàFragile).

Gli stereotipi si modificano nel tempo, e questo anche perché il potere cambia e cede spazi di libertà per assicurarsi l’egemonia e per delegittimare i percorsi di liberazione. Ma non c’è ceretta che tenga o sopracciglia rifatte. Esiste un punto che definisce la differenza tra uomo e donna e a partire da quello si costituiscono i ruoli di privilegio o svantaggio. Questo quindi basta per dire che saremo tutt* femminist* il 26? No, ed è banale dirlo, perché non è una vagina che rende automaticamente donne e soprattutto perché non tutte le donne sono femministe. Quante donne in nome dell’uguaglianza hanno adottato e adottano pratiche e linguaggi maschili per sentirsi più uguali? Lo sappiamo bene anche noi frocie, perché abbiamo fatto esperienza, all’interno della comunità LGBT*Q, che pure ha subito e subisce forme di discriminazione e violenza patriarcale, di individui e soggettività che adottano pratiche etero ed omonormative. Mano a mano che le esperienze e i diritti LGBT diventano più accettati e riconosciuti, cresce la voglia di far parte della cultura dominante, normata. Inseguendo questo desiderio, pur di diventare accettabili, meritevoli di spazio politico e diritti, spesso si perpetuano pregiudizi, valori e comportamenti omolesbotransfobici e misogini che danneggiano e marginalizzano molte persone all’interno della stessa comunità LGBT*Q. Non saremo tutt* femministi, perché gli uomini, in tutti i casi, difficilmente potranno capire realmente, soprattutto quelli bianchi, eterosessuali e di classe sociale medio-alta, cosa comporti essere oppressi, minoranza, esclus* o dimenticati nella vita di tutti i giorni. Saremo una coscienza collettiva che a partire dalle nostre identità, storie, desideri, lotte, esperienze e sconfitte, non si arrende all’idea che la violenza maschile sulle donne è una parte strutturale del sistema e che svelare il suo funzionamento e le sue forme più subdole significa svelare la violenza necessaria su cui si fonda il sistema di produzione, riproduzione e normalizzazione. Il 26 novembre saremo alleati delle femministe nella lotta contro il patriarcato. E sarà una manifestazione produttiva se, come uomini, metteremo in discussione il nostro privilegio, culturale e socio-economico; se dalla sera stessa cercheremo di modificare parte del nostro comportamento nei confronti delle nostre compagne, amiche, madri, sorelle, zie, nipoti, vicine di casa, colleghe, etero, lesbiche o trans* se scaveremo a fondo per capire quanto di omofobo e sessista abbiamo ancora da decostruire in noi stessi. Saremo femministi quando non sentiremo l’esigenza di declinare femminista al maschile per sentirci inclusi. Consapevoli di questo possiamo definirci alleati delle femministe, pront* a decostruire i ruoli a partire dalle nostre posizioni nella società.

E ora tutti si dichiarano femministi, scrive Valeria Di Napoli, in arte Pulsatilla, scrittrice l'1 settembre 2016 su "Donna Moderna". La prima cosa che viene in mente quando uno dice “femminista” è una scontrosa signora di mezza età con i capelli corti brizzolati e le mammelle scese fino al malleolo che serve pasta scotta in un centro sociale. Questo stereotipo ha fatto il suo tempo. Il nuovo portabandiera del femminismo è maschio, celebre e bello. Talmente cool che, nonostante tutti i suoi impegni, gli avanza anche del tempo per sostenere le cause altrui. La maggior parte dei femministi sono sex symbol hollywoodiani o intellettuali à la page: i divi Mark Ruffalo e Ryan Gosling, il premier canadese Justin Trudeau, il Dalai Lama, per citarne alcuni. Perfino il presidente Usa Barack Obama si è appena dichiarato «femminista militante»: pensando alle sue figlie e ai progressi degli ultimi 50 anni, ha detto che il vento sta cambiando e che «è un bel momento per essere donne». Ha ragione. Anche se il vento che spira alla Casa Bianca e il vento che spira a Trapani non sono proprio lo stesso vento. In Nepal, pure il principe Harry ha tenuto un discorso sui pari diritti: parlando delle spose bambine, costrette a lasciare gli studi per entrare in un circolo vizioso di abusi e povertà, ha detto che l’istruzione per le donne rappresenta il primo passo verso l’uguaglianza. Su Wikipedia c’è un’intera pagina dedicata ai “male feminists”, i femministi maschi, e l’elenco di nomi è davvero impressionante: dallo 007 Daniel Craig al politico inglese Nick Clegg, dal Nobel per l’economia Amartya Sen al cantante degli One Direction Harry Styles. «Non apprezzo che gli uomini usino per se stessi l’etichetta di femministi», commenta la sociologa Finn Mackay (o il sociologo Finn Mackay, perché dalla foto non sono sicura che sia femmina: ma in un’ottica di pari opportunità, che importa?). E spiega la sua idea facendo l’esempio di chi, impegnato nella lotta al razzismo, non per questo pretende di sapere cosa significhi davvero appartenere a una minoranza etnica. Insomma, gli uomini si sono presi tutto: che ci lascino almeno il femminismo. Tra l’altro, tolte le belle dichiarazioni, non è chiaro cosa facciano questi nuovi femministi, sul piano concreto, a parte non inveire contro la moglie se la minestra è insipida (molto gentili) e cambiare un pannolino ogni tanto. E per inciso: finché cambiare un pannolino è una notizia, la parità è ancora lontana. Forse costoro pensano che da femministi avranno più successo con le donne. Oppure, peggio ancora: i femministi sono più popolari delle femministe perché, come sempre, i maschi hanno più potere delle femmine. Diamine!

ABOLIAMO I FEMMINISTI! Scrive Marina Terragni su "Io Donna" il 17 marzo 2011. Geniale iniziativa del Cicip&ciciap di Milano, storico locale delle donne. BUTTA “I FEMMINISTI” NEL CASSONETTO DELLA DIFFERENZA. MANIFESTO PER L’ABOLIZIONE DI: GAD LERNER, FABIO FAZIO, MICHELE SANTORO, DARIO FO, GIULIANO PISAPIA, NICHI VENDOLA, ADRIANO SOFRI, AUGUSTO BIANCHI RIZZI, ANTONIO D’ANDREA, MAURIZIO FERRERA, ECC. PARTECIPA ANCHE TU! DICCI CHI VUOI ABOLIRE!

BASTA con i residui tossici del patriarcato: Berlusconi, Fede, Toscani, Mora e compagnia cantante si stanno lentamente – troppo lentamente…- abolendo da soli. Troppo comodo prendersela solo con loro. Neanche li consideriamo. Ma ecco affacciarsi all’orizzonte il maschio postpatriarcale. PERICOLO!!! Il vero rischio è il femminista “amico delle donne”. Che va in piazza con loro e si mostra sempre più collaborativo. Ha sgamato la spirita del tempo! Non ha nessuna intenzione di ritirarsi in buon ordine e cerca disperatamente di salire sul tram. Dispensa colonizzanti consigli, ti dice lui medesimo come dev’essere la vera donna, che cosa deve dire-fare-pensare. E oltretutto non la imbrocca mai. ATTENTE! Fermiamolo da piccolo e senza pietà. Il femminista fa più danni del macho acclarato, e spesso è pure brutto da far paura! Facciamogli capire senza indugio che il passo indietro tocca pure a lui! Scegliete qui il vostro “FEMMINISTA” da abolire, e fatecelo sapere! ECCO I CANDIDATI:

GAD LERNER non lo ammetterà mai, ma all’Infedele ti invita più volentieri se sei un po’ gnocca, per non rischiare di perdere quei dieci telespettatori (ovvero metà della sua audience media). Tanto anche se ti invita non ti lascia parlare, perché vuole parlare solo lui, e al massimo riesci a dire “Scusa, Gad…”. Interviene spesso sul tema della dignità delle donne, motivo in più per abolirlo.

FABIO FAZIO. E’ diventato campione della sinistra –nessuno sa bene il perché: o forse è la sinistra che si è ridotta a essere l’audience di Fabio Fazio? Non ha mai rinunciato alla valletta muta, però l’ha scelta scandinava perché adora la parità. C’è voluta una sollevazione online perché invitasse anche qualche donna tra gli italiani rappresentativi a “Che tempo che fa”. Infido.

MICHELE SANTORO. I Santori preferiscono le bionde, e ogni tanto le fanno perfino parlare (40 secondi netti cronometrati) fingendosi molto attenti a quello che dicono. A differenza di Lerner, della dignità della donna Santoro parla poco. Vero uomo del Sud, fatica perfino a essere paritario.

DARIO FO. Anche lui in manifestazione con le dignitose, anzi sul nobel palco a dire l’ennesima sua – e chi gliel’ha chiesta – ma solo la Franca sa quante gliene ha fatte passare. Parliamo a ragion veduta: molte sanno bene perché percome e perdove.

GIULIANO PISAPIA. Nel suo programma politico le donne stavano tra l’handicap e la famiglia. In seguito alle molte proteste le ha spostate. Tra i bambini e gli animali. Vecchio politico travestito da nuova società civile – molto datato – se potesse parlerebbe di “questione femminile”. Ma gli hanno detto che oggi non usa più. Allora parla di bilanci di genere, anche se non ha ben capito che cosa sono. E manco noi.

NICHI VENDOLA. Ha fatto la giunta 50/50, e per questo le femministe pugliesi dovrebbero adorarlo. Le ha convinte a votarlo promettendo una Casa delle donne per ogni Provincia…Morale, hanno perso anche quella di Lecce, ormai data per certa dalla precedente amministrazione. Interpellatelo: non vi risponderà mai. Grande misogino!

ADRIANO SOFRI. Immemore del fatto che le donne gli hanno già sfasciato l’organizzazione (Lotta Continua), lui continua a mettere il naso nei fatti loro con il suo abituale piglio normativo. A proposito della manifestazione del 13 febbraio ha scritto su “Repubblica”: “Non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire”. Insomma, le differenze tra donne gli fanno saltare i relais. Ma farsi i fatti propri, mai?

AUGUSTO BIANCHI RIZZI. Non lo conosce quasi nessuno. A Milano organizza da anni patetici ma soprattutto esclusivi “giovedì” ad inviti. Se sei donna meglio se elegantissima, intelligentissima, intellettualissima. artistissima, professionalissima,…. sicuramente geishissima…Ha scritto a tutte le sue “introdotte” raccomandando loro di andare in piazza. E’ detto tutto.

ANTONIO D’ANDREA. Ha fondato nel 1985 il Movimento degli Uomini Casalinghi. Non è servito a nulla. Ora ha passato le redini del Movimento a Fiorenzo Bresciani. E gli uomini, neanche un plissé. Forse qualcosa non sta funzionando.

MAURIZIO FERRERA. Ha scritto “Il fattore D” per spiegare che le donne sono una risorsa, e che se ci lasciassero lavorare il Pil crescerebbe vertiginosamente. Ma qualcuna per caso gli ha detto che abbiamo intenzione di essere una risorsa e di salvare il Pil? Chiedere prima no?

Ragazze, sveglia: non è dei maschi femministi che abbiamo bisogno. Uomini che si dichiarano femministi perché le donne hanno in mano il futuro, perché sono migliori. La campagna promozionale di “La salvezza del mondo - Donne: fattore di cambiamento del XXI secolo” di Paola Diana e la retorica su chi salverà il mondo (le donne, e chi se no?), scrive Simonetta Sciandivasci su "Il Foglio" il 23 Marzo 2016. “Uomini e donne dovrebbero usare la parola femminista per descrivere sé stessi”. Con questa dichiarazione di Justin Trudeu, Primo Ministro canadese, si apre #iosonofemminista, il video che promuove il libro “La salvezza del mondo - Donne: fattore di cambiamento del XXI secolo” di Paola Diana, Castelvecchi Editore (e lo fa con l’allure della pubblicità progresso, così il marketing c’è ma non si vede). Due minuti di maschi che si dichiarano femministi perché le donne hanno in mano il futuro, perché sono migliori degli uomini – e bisogna che “ce ne facciamo una ragione”, dice Paolo Palmarocchi, attore, issato su una cyclette – perché la donna è sacra e va rispettata. Paola Diana è un’imprenditrice, ha un blog sull’Huffington Post, ha fondato PariMerito (network di associazioni per “battaglie in nome dei principi condivisi di affermazione della meritocrazia e delle pari opportunità”) e il suo libro inizia con una fulminea descrizione delle sue origini: un padre padrone e un fratello maschio che aveva sempre ragione ed era l’erede designato per i beni migliori. Erano gli anni Settanta, a Padova: “Fossi nata al sud, avrei respirato anche minor libertà”. E forse è stato grazie a questa fortuna nella sfortuna che ha potuto iniziare sin da piccola a essere femminista, “o forse, semplicemente, sono nata così” (negli stessi anni, le donne in lotta sostenevano che donne non si nasce). Per femminista, Paola Diana intende “una persona che aborre le ingiustizie e le discriminazioni, che si batterebbe anche per i diritti degli uomini se fossero discriminati dalle donne”. Insomma, femminista è sinonimo di militante per i diritti umani e non per la specificità femminile cui si perviene attraverso la parificazione economica, legislativa, umana. Non è chiaro, nel libro, il ruolo dei femministi, né degli uomini in generale, ma è chiaro quello dell’altra metà del mondo, che secondo la suffragetta Emmeline Pankhurst, più volte citata nel testo, andava liberata affinché potesse aiutare a liberare l’altra metà (collaborazione, non assimilazione): prendere le redini dell’economia, della politica, della diplomazia ed eccellere laddove il potere maschile ha fallito. I maschi hanno creato la schiavitù, il capitalismo, il liberismo, le ineguaglianze, le guerre, i totalitarismi, i genocidi, le religioni (Dio è femmina, s’intitola il secondo capitolo, che nelle prime righe sottolinea come la Bibbia sia stata scritta da uomini e attribuisca a Dio caratteristiche maschili: undici righe sotto si legge che “nella Bibbia ci sono allusioni femminili alla Divinità”; poi viene citata Santa Ildegarda di Bingen, della quale è omesso il pensiero più interessante: la divinità non ha sesso, essendo amore tra maschile e femminile). Le donne, invece, stando a Paola Diana, ristabilirebbero pace, equità, benessere, virtù perché “dialogo, saggezza e spirito di sacrificio sono prerogative femminili”: a dimostrazione di questa tesi, il libro porta come primo esempio “La Lisistrata”, commedia di Aristofane (la storia: le donne ateniesi decidono di negarsi ai propri mariti per indurli a firmare la pace con Sparta: niente sesso fino ad allora). Che questa commedia venga utilizzata come esempio di protofemminismo dai manuali del liceo classico è condonabile, lo è molto meno che lo faccia un testo che vuole indicare la via più onesta per salvare il mondo: Aristofane volle giocare con la debolezza maschile, volle dimostrare che negando il sesso agli uomini li si riduce ad agnellini pronti a tutto, persino a rinunciare alla guerra e, in più, le donne della sua commedia non si battono per la meritocrazia e l’accesso all’agorà, bensì, semplicemente, per la cessazione di una guerra che tiene i propri signori lontani dal focolare domestico. L’esegetica lascerebbe il tempo che trova, se non fosse che, in questo caso, è utile a individuare il vizio di forma della posizione di Paola Diana. Così come la cultura maschile avrebbe effigiato un Dio a immagine e somiglianza degli uomini, Paola Diana rielabora “La Lisistrata” a immagine e somiglianza della sua tesi. Tesi che è difficile contestare fintanto che sostiene che l’apporto femminile al presente e al futuro del mondo è ancora poco garantito, ma che è molto arduo sostenere nella sua inespressa eppure chiarissima sostituzione del maschio con la femmina. In quello stesso capitalismo efficientista e spietato che agli uomini rimprovera, Paola Diana vuole dei capi femmina, perché le femmine sono migliori. Il mondo salvato dalle donne, per Paola Diana, lascerebbe campo libero agli uomini perché sarebbe un mondo femminista. Come la paternità che è diventata maternità, pure il femminismo è più maschile che femminile, prova ne sono le parole del Primo Ministro canadese, i coming out di divi hollywoodiani, la campagna #iosonofemminista senza donne e quella, assai virale, #womanagainstfeminism, dove migliaia di ragazze si sono fotografate con il cartello "non sono femminista perché non sono una vittima”. “Siamo soggetti politici perché disubbidienti, scontrose, chiacchierone, sovversive”, scriveva, nel 1976, sulla rivista La Effe, Isabella Rossellini, raccontando di un sogno in cui, durante una manifestazione, alcuni uomini salivano sul palco concionando di temi femministi, salvo poi prendere a insultare tutte le donne, non appena quelle prendevano i microfoni. I femministi erano l’incubo delle femministe, che rivendicavano uno spazio autonomo, senza il benestare paternalistico di teneri uomini sulla cyclette: li stimavano abbastanza da non usarli come marionette, volendoli come compagni. Quarant’anni dopo vale ancora, quella lotta separata ma solidale? “Cosa vogliono le donne” (Einaudi) è un libro di due anni fa: si propone di smontare i miti sulla sessualità femminile, mettendo insieme studi condotti da donne sul piacere delle donne. La loro raccolta, quindi la loro sintesi, la spuntatura grossolana della loro specificità, è firmata da un uomo: Daniel Bergner. E così pure il modo in cui godiamo ce lo siamo fatto spiegare da un maschio.

"La crisi della famiglia contribuisce al femminicidio. Un tempo se toccavi una donna italiana sapevi che il padre o il fratello sarebbero venuti a cercarti per regolare i conti”. Come femminista dico: evviva gli uomini! Scrive Alessandra Farkas il 3 novembre 2013 su "Il Corriere della Sera". “Il silenzio delle femministe Usa politicamente corrette davanti al femminicidio in India e Italia è intollerabile”.“Il femminismo storico ha contribuito alla distruzione della cultura occidentale, spingendo gli uomini a diventare gay”. E ancora: “Madonna è l’unica vera icona del femminismo moderno” e “In Facciamoci Avanti Sheryl Sandberg non la racconta giusta sull’enorme staff che l’aiuta a casa e col figlio”. Alla vigilia dell’uscita in Italia del suo sesto libro Seducenti Immagini, Un viaggio nell’arte dall’Egitto a Star Wars, (edito da Il Mulino) Camille Paglia concede una lunga intervista all’inserto culturale del Corriere della Sera-La Lettura dove conferma la sua fama di intellettuale pubblica più famosa e controversa d’America. “Star femministe come Kate Millett hanno fatto fortuna esortando le donne a buttare nella spazzatura Ernest Hemingway, D.H. Lawrence e Norman Mailer”, punta il dito l’autrice, docente di Humanities e Media Studiesall’University of the Arts di Filadelfia. “Judith Butler, la più celebre teorica dell’identità sessuale, era una mia mediocre studentessa al Bennington College”. La sua guerra contro le femministe storiche va avanti da oltre 40 anni. “Nel 1970, quando durante un collettivo a New Haven osai dichiarare che amavo Under My Thumb dei Rolling Stones scoppiò il pandemonio. Per me quella canzone è un’opera d’arte, per loro un’eresia sessista. L’approccio all’arte delle femministe è simile a quello di nazisti e stalinisti”. La rottura ufficiale con il movimento cui aveva tentato ostinatamente di appartenere coincide con una conferenza a Yale su arte e femminismo. “La scrittrice Rita Mae Brown, ex di Martina Navratilova, mi spiegò la differenza tra me e loro: ‘tu vuoi salvare l’università, noi vogliamo darla alle fiamme’”. Per anni Gloria Steinem si rifiutò di pubblicare i miei saggi su Ms. Magazine. Oggi nessuno sente più parlare della sua erede designata: Susan Faludi. Io invece sono ancora in piedi”. Il suo modello di femminismo annovera seguaci ovunque. “Rappresento un’ala del movimento perseguitata e messa a tacere per anni”, spiega, “Femministe come me e Susie Bright eravamo pro-sesso, pro-pornografia, pro-arte e pro-cultura popolare quando in America imperava la crociata di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon contro Playboy e Penthouse e a favore delle leggi antipornografiche”.   Vede forse un incremento di violenza contro le donne? “Il vero problema è che le terapie farmacologiche hanno sostituito un po’ ovunque Sigmund Freud”, ribatte la studiosa, “Rinnegando la psicanalisi, la nostra società si è esposta all’aggressione di menti criminali e psicotiche contro cui né la polizia e tantomeno la pena capitale sono deterrenti”. L’entità del fenomeno in Italia non la sorprende. “Picchiare, abusare o uccidere una moglie o fidanzata è relazionato alla dipendenza verso la figura materna di questi uomini rimasti bambini. Dietro ogni assassinio c’è un simbolo, l’ombra nascosta di un trauma infantile che solo la psicanalisi può far riemergere. Ma è anche colpa delle donne italiane ingenue che si rifiutano di leggere i tanti segnali che precedono la violenza. E anche la crisi della famiglia contribuisce al femminicidio”, aggiunge, “Un tempo se toccavi una donna italiana sapevi che il padre o il fratello sarebbero venuti a cercarti per regolare i conti”. Il prossimo 15 novembre Paglia parteciperà a un dibattito sulla presunta fine dell’uomo alla Roy Thomson Hall di Toronto. “A sostenere questa tesi catastrofista saranno Hannah Rosin e Maureen Dowd”, racconta, “insieme a Caitlin Moran io difenderò invece il testosterone perché stufa di vederlo demonizzato come la fonte di ogni male. Quando i terroristi faranno saltare la nostra rete elettrica, disintegrando la nostra cultura, a salvarci saranno gli uomini veri: camionisti, muratori e cacciatori come i miei zii, per fortuna la maggioranza”. Proprio per questo il best-seller della Rosin non la convince. “Anche se Hannah possiede l’orecchio della working class – suo padre era taxista – il suo libro parla all’alta borghesia bianca. Donne ossessionate da diete e ginnastica, circondate da uomini addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista”. La mancanza di interesse per questa dilagante tipologia di donna (“l’avvocata o dirigente bianca laureata che non ha più nulla di femminile e vive in totale controllo di tutto ma senza gioia e piacere”) avrebbe secondo Paglia prodotto un numero record di uomini gay. “È un fenomeno globale che spiega il successo planetario di Sex and the City. Perché se è vero che alla nascita siamo tutti bisessuali, in questa cultura è molto meglio essere gay”.

DOVREMMO ESSERE TUTTE/I FEMMINISTI? Da Dols del 22/04/2017. Credo non sia necessario nè utile e neppure auspicabile, scrive Paola Zaretti. Credo non sia necessario né utile e neppure auspicabile. Che cosa motiva degli uomini impegnati ad opporsi al machismo a definirsi “femministi”? E’ difficile capire per quale ragione un uomo che si oppone alla figura tradizionale del machista e la combatte con tutte le sue forze DEBBA definirsi “femminista” e non altrimenti riproponendo così, in forma invertita, l’opposizione duale patriarcale. A muovermi, nel dire questo, non è certo l’intento di lanciare, come alcune hanno fatto, accuse di “ridicolaggine” agli uomini che scelgono tale autodefinizione di sé, nè mi scandalizzo, d’altronde, dinanzi a tale scelta. Non rido e non mi scandalizzo, dunque, ma rifletto e mi interrogo sull’origine e sulla natura di questo loro desiderio, sulla ragioni di una tale scelta, su questa necessità di assumere una posizione rinunciataria rispetto ad altre possibili ALTERNATIVE maschili al diventare “femministi” senza per questo rinunciare ad opporsi all’odiosa figura incarnata dal macho patriarcale. Mi chiedo, insomma, se non sia più opportuno e interessante cercare – e magari trovare – in proprio, in quanto uomini, un modo maschile di contrastare la figura dell’macho patriarcale attraverso una via propria, personale, originale, AUTONOMA e diversa – e certamente faticosa – rispetto a quella suggerita e praticata dai vari femminismi per le donne...E’ forte l’impressione che la tendenza di alcuni uomini a dichiararsi “femministi” rappresenti una via facilitante rispetto alla scelta, più dura, più radicale e soggettivamente più faticosa, di ricercare e di INVENTARE in proprio un modo maschile di opporsi alla figura del macho. Non sarà che definirsi “femministi” è una via per evitare questa fatica? 

FIGLI EFFEMINATI E FIGLIE BULLE.

Quello che i padri non dicono. Che padre avevi? Che padre sarai? Quando erano piccoli hanno cambiato pannolini e cantato canzoncine. Poi con i figli adolescenti non sanno parlare di sentimenti. E i figli ne soffrono, scrive Stefania Andreoli il 18 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Sta succedendo qualcosa. Siamo osservatori in diretta dei primi esiti concreti delle trasformazioni profonde che hanno investito le famiglie da che è cambiato il ruolo dei padri. Chi fa il mio mestiere ha cominciato a parlarne una quindicina di anni fa: le famiglie non sono più normative, si sono aperti sempre maggiori spazi di dialogo, non si va più a letto senza cena e i padri hanno perso il loro tipico sguardo, una via di mezzo tra Nembo Kid e Attila. Fin qui, si sapeva. Ma cosa sta succedendo adesso? Nell’ultimo periodo sto assistendo dal mio punto d’osservazione privilegiato a qualcosa che mi pare possa assumere i contorni del fenomeno, e mi piace farne regalo ai genitori per la festa del papà. Si tratta dell’arrivo nella stanza della psicoterapeuta dell’adolescenza di un nuovo tipo di paziente: il figlio maschio sofferente - sofferentissimo - che porta nello zaino delle cose tutte maschili e dedicate al suo papà. Che sono lì per lui, ma che a lui non dice. Sono ragazzi belli, educati, dotati di risorse. Con buone capacità di pensare e - novità! - anche di pensarsi: adolescenti maschi che per la prima volta arrivano in massa dallo psicologo perché l’educazione affettiva delle loro famiglie e l’influenza illuminata della scuola cominciano a dare i loro frutti e sono dunque cresciuti con l’idea ormai sdoganata che le cose delle emozioni, della pancia, della pelle e del cuore non siano più di dominio esclusivamente femminile. Sono ragazzi la cui virilità è impreziosita e rafforzata dall’avere accesso alle loro emozioni, un po’ alle prime armi forse, ma coraggiosi nella possibilità di sentire e di sentirsi e che portano nella stanza delle parole testi, lettere, stralci scritti a mano o con lo smartphone di diari di formazione commoventissimi e davvero notevoli per profondità e introspezione. Se accompagnati, sanno dire come stanno - non tanto bene, anzi, secondo me peggio delle loro coetanee femmine - e prendere contatto con il loro mondo interno. Hanno buone relazioni, spesso una ragazza con la quale vivono una storia soddisfacente ed affettivamente esibita: senza imbarazzi mostrano il loro amore a scuola, sui social e durante una pizza insieme ai loro genitori. Non si vergognano di essere innamorati e spesso sembrano davvero sapere piuttosto bene come si vive e si sta al mondo: sanno valutare azioni e reazioni, conoscono la lealtà, cercano di non ferire chi per loro è importante, dalla famiglia agli amici. Li incontro, li ascolto e mi piacciono tantissimo. Ma non scordate che vengono in terapia. Non dimentichiamo che non gli va tutto bene: che non diano problemi, non significa che non ne abbiano. E infatti. Questi figli maschi portano in giro un cuore pesante, dentro al quale abitano dei padri che loro non perdonano. Si tratta dei papà che sono entrati in sala parto, che gli hanno cambiato i pannolini, che hanno fatto i rappresentanti di classe alla materna; che hanno giocato con loro sdraiati per terra, si sono vestiti da Babbo Natale, hanno cercato strategie per farli addormentare. Sono i papà che le loro donne hanno coinvolto nella cura e nell’allevamento dei bambini, e che hanno accettato l’invito. Che ci sono stati, anche (forse soprattutto) perché i loro padri non l’avevano fatto, con loro. Che hanno fatto gavetta e sono partiti da zero, vedendosi poi un po’ sbeffeggiati dalla pubblicità, sopportando talk show poco lusinghieri sulla crisi del maschio, beccandosi i rimbrotti delle loro compagne più esperte e infine facendo i conti con un sentimento nuovo di cui avrebbero fatto a meno: il senso di colpa per il calcetto del giovedì sera, per il permesso per il compleanno del figlio che non hanno potuto prendersi per quella scadenza di lavoro. Ebbene, questi papà hanno cresciuto dei figli maschi che oggi hanno un messaggio per loro. Matteo dice «Io lo so che mio papà mi vuole bene, ma non lo sento». Emanuele «Ma come, devo già staccarmi da mio padre per diventare grande, che ancora non mi sono attaccato?». Francesco dice: «Mi ferisce che mio padre non ci arrivi, a capire che ho bisogno di sentirmelo vicino». Riccardo: «Mio padre c’è, è sempre presente. Ma tra noi c’è un salto, non so mai fino in fondo cosa prova davvero». Antonio: «Mio padre mi invita allo stadio, ma poi non sa parlarmi. Mi accorgo che sa fare i fatti, ma certi discorsi hanno bisogno delle parole. Un ti voglio bene va dimostrato ma anche detto». Sono figli maschi adolescenti che non sono più arrabbiati con i loro papà, meno che mai sono dei contestatori: non ne hanno motivo. Eppure, si ammalano un po’ nel non riuscire a perdonargli di non essere pienamente contattabili sul piano emotivo. Non si accontentano di averli a casa prima il venerdì, vogliono avere casa dentro alla loro pancia, dove risiedono le emozioni. È come se, una volta nati dalle pance delle loro mamme, questi nuovi adolescenti maschi per non bloccarsi (sono sopraffatti dall’ansia che li investe a scuola, a calcio, nei locali) e continuare a diventare grandi avessero bisogno poi di entrare nelle “pance” dei loro papà, sentirli dal di dentro, incontrarli nel profondo. Sentire cosa provano gli adulti, sentire cosa si prova ad essere uomini. Ne hanno un bisogno imprescindibile: non cercano più dei maestri (sono più avanti i ragazzi in mille cose), ma una sorta di anteprima di come si dovrebbero apparecchiare dentro, per andare nel mondo, fuori. Ammettono poco di non ottenerla, perdonano pochissimo quella che vivono come una disillusione: ma come, mi hai letto le favole accarezzandomi teneramente i capelli, e ora non mi parli d’amore? Ho in mente allora due regali, per voi papà: il primo, una sbirciata dal buco della serratura da dove poter guardare che conti faticosi stiano facendo i vostri figli alle prese con la costruzione dell’identità di genere maschile. A voi non lo dicono - non vogliono farvi rimanere male, non vogliono vi preoccupiate - ma vogliono tantissimo che lo sappiate. Il secondo, la gratitudine e il riconoscimento per la sfida eroica che vi spetta: farvi sentire sempre di più, in tutti i sensi. Non ne abbiamo forse mai avuto più bisogno di così.

L’autrice. Stefania Andreoli, psicoterapeuta dell’adolescenza, è presidente dell’associazione Alice Onlus di Milano Autrice di «Mamma ho l’ansia» (Rizzoli), ha ideato il progetto di prevenzione del femminicidio «RispettaMI».

Femmine bulle e maschi più fragili. Così cambiano i bambini (ma le loro risposte sono ancora stereotipate). Le femmine si stanno «maschilizzando» e i maschi «femminilizzando»: la parità apparentemente raggiunta, tra interazione e modelli tradizionali, scrive Paolo Di Stefano il 7 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Le femmine si stanno «maschilizzando» e i maschi «femminilizzando». Questo il succo, assai semplificato certo, della chiacchierata con Anna Maria Paracchini, presidente dell’Associazione Valeria, e con Sandra Fiorda, insegnante con un’esperienza quarantennale nelle scuole elementari e oggi in pensione.

La legge. Ma andiamo con calma. L’Associazione Valeria, fondata e gestita da un gruppo di giuristi esperti di diritto minorile, si propone di diffondere il concetto di legalità nelle scuole. Dice Paracchini, che è anche giudice di pace al Tribunale di Milano: «Cerchiamo di far capire ai bambini e alle bambine, ai ragazzini e alle ragazzine che ciascuno deve godere dei propri diritti e che per ogni diritto c’è un dovere». Sembrerebbe facile, ma non lo è affatto, né per i piccoli né per gli adulti. «Abbiamo il diritto al gioco, al tempo, allo spazio, agli amici e alle relazioni, ma anche il dovere di rispettare le regole». Le regole valgono per tutti, maschi e femmine, almeno sul piano della teoria. Ma nella pratica abituale, fatta di infrazioni e di prepotenza, raramente è così.

La parità e la legge. «Quando chiedo ai bambini quali sono i compiti che deve svolgere una donna e quali i compiti che spettano a un uomo, ottengo in genere delle risposte stereotipate. Del tipo: la donna deve cucinare. I valori morali non sono argomenti affrontabili, perché vengono sottovalutati se non derisi, ma se spiego, che al di là delle variabili morali o psicologiche, c’è la legge, allora le cose cambiano: la legge per i bambini è qualcosa di indiscutibile. Dunque spiego che la conoscenza della legge mi permette di far rispettare positivamente i miei diritti e di essere consapevole dei miei doveri. Una moglie che non prepara da mangiare per il marito, non è certo punibile dalla legge, perché di fronte alla legge siamo tutti uguali». Il guaio è che questi principi sacrosanti vanno spesso a scontrarsi con una quotidianità familiare che spesso ripropone abitudini ben diverse. I modelli sono ancora quelli tradizionali. Per esempio: papà lavora, mamma lavora e pensa alla casa: «Senza dire che ci sono genitori molto aggressivi i cui atteggiamenti prepotenti vengono trasmessi ai figli, per esempio nell’ambito del razzismo, che è un fenomeno molto molto diffuso. La frase ricorrente è: sono tutti delinquenti… E bisogna anche considerare che anche nelle famiglie più conformiste la vita è meno ovattata che in passato, la violenza vista in tv o su internet è stata interiorizzata, i genitori parlano di tutto in presenza dei figli, siano essi maschi o femmine…».

Le bulle. Il risultato? «Uno dei risultati più evidenti è che se prima il bullismo era un fenomeno solo maschile, adesso si è esteso alle femmine». Parità raggiunta? Apparentemente sì. «Nell’età delle elementari, le bulle fanno valere la propria prevaricazione nei confronti delle bambine più deboli: “Se vuoi essere mia amica devi darmi il tuo braccialetto”, oppure: “Se non porti i capelli come noi, sei fuori dal gruppo”». Come i maschi? «I maschi hanno gli stessi atteggiamenti, ma sono meno determinati nel bene e nel male, basta una partita di calcio insieme per dimenticare. Ai più grandi spieghiamo che questi comportamenti sono comportamenti violenti». L’interazione tra maschi e femmine è più visibile con la crescita: «Ci sono tanti casi di ragazzine che concedono un bacio o una carezza a un compagno in cambio di una carica di cellulare. Sono situazioni apparentemente normali, di figli e figlie di famiglie del tutto rispettabili. Questo vale anche per il cyberbullismo o per la cyberesibizione: ragazze che posano in pose osé nei social per mostrarsi ai maschi».

Libertà e responsabilità. Dinamiche antiche veicolate dagli strumenti della modernità tecnologica: «Già, bisogna lavorare sui concetti di libertà e di responsabilità individuale: sono fenomeni che nascono dall’incertezza e dalla fragilità della persona, ma anche da vecchi modelli che vengono ancora diffusi ovunque». Va sottolineata, secondo la maestra Fiorda, ancora molto attiva nello studio e nel sostegno pratico, la mutazione epocale nel rapporto tra scuola e famiglia: «Si è interrotta l’alleanza educativa, l’autorevolezza che veniva riconosciuta agli insegnanti è venuta meno e dunque i problemi crescenti con i ragazzi vengono affrontati in modo sbilanciato, non c’è più condivisione, al punto che i problemi delicati che vengono affrontati con la famiglia spesso trovano la risentita difesa del figlio da parte dei genitori, oppure peggio, al contrario, reazioni aggressive a casa sul ragazzo». Detto ciò, la mascolinità, che non è così visibile nelle scuole primarie, cresce ovviamente con lo sviluppo ormonale. «Alle elementari il gioco è spesso condiviso tra maschi e femmine molto più che in passato, e gli atteggiamenti di bullismo, quando ci sono, si esprimono all’interno del genere: i maschi con i maschi e le femmine tra loro. Anche le bambine offendono, umiliano, discreditano le altre bambine esattamente come fanno i bambini tra loro, ma in modo più sottile: mentre i maschi usano la violenza fisica, le femmine prediligono quella psicologica: “Non sei più mia amica, non gioco più con te…». È sempre un atteggiamento di rabbia, solo apparentemente più morbido. Se questi comportamenti si cristallizzano, mettono in crisi l’equilibrio dell’intera classe, dunque bisogna parlarne subito, porre domande e cercare le ragioni della rabbia».

Il narcisismo. Alle secondarie il discorso si fa più complesso, perché la crescita (spesso precoce) implica la delicata questione dell’identificazione di sé tipicamente preadolescenziale: «Si guardano allo specchio e non si piacciono. E questo non riguarda solo le femmine, ovviamente. Di recente ho seguito il caso di un ragazzino che ha evidenti problemi nell’accettare la propria peluria, i baffi, i peli sulle braccia. I maschi sono molto più fragili rispetto al passato, il narcisismo è aumentato a dismisura grazie ai modelli di bellezza diffusi attraverso la pubblicità o internet. E questo fenomeno, che un tempo riguardava soprattutto le donne, oggi tocca anche gli uomini. Molto spesso le debolezze, le incertezze e le fragilità si cerca di compensarle con il possesso degli oggetti: e la prepotenza consiste nel far valere ciò che abbiamo rinfacciando agli altri di non essere alla pari. Dunque è una corsa a chi ha l’ultimo smartphone, ma la questione dell’identità rimane irrisolta, nelle femmine come nei maschi».

PADRI SEPARATI. LA GUERRA DEI FIGLI.

Padri e separati: la «guerra» dei figli. Molte leggi sono cambiate, anche se l’Italia resta un Paese arretrato. Ma c’è chi prova a rompere la regola che vuole i bambini «proprietà» delle mamme, scrivono Martina Pennisi e Maria Silvia Sacchi il 2 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Sale sull’autobus con il passeggino e lo infila con manovra svelta nell’apposito spazio dedicato. Dopo, è un continuo di «eh», risolini, rimandi tra il padre e la bambina nel passeggino. Se c’è una cosa che si vede a occhio nudo a Londra è la quantità di padri che si occupano dei propri figli. Di qualunque nazionalità o religione siano. «Mia moglie è stata chiara — dice un imprenditore italiano sposato con una inglese –. Mi ha detto subito che dei figli mi sarei dovuto occupare anche io esattamente come lei». Ne hanno tre e adesso che si sono separati, e lui è tornato in Italia, fa continuamente Milano-Londra per occuparsi, appunto, dei figli. Anche perché, racconta un altro padre italiano, «qui molti hanno un lavoro flessibile o comunque si esce presto dall’ufficio». Londra non è la panacea del mondo e non è nemmeno rappresentativa di un intero Paese così come tutte le grandi metropoli e come ha dimostrato il voto su Brexit. Ma certo fa effetto vedere così tanti uomini camminare con neonati nel marsupio, spingere carrozzine, dare biberon. E senza che ci sia la madre a fianco a controllare “le manovre”. A Milano qualcosa si muove, eppure sul tema padri-figli in caso di separazione siamo ancora lontani. Non che qualcuno non ci provi. E se ci prova vive su di sé il pregiudizio che vuole i figli delle mamme. È guardato «strano»: dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai giudici. «Mi serve sempre almeno un’ora per giustificarmi e convincere gli interlocutori che voglio continuare a occuparmi di mia figlia perché l’ho sempre fatto, non per ripicca nei confronti della mia ex, e che il tempo che mi sarà concesso sarà sicuramente meno di quello che le ho dedicato quotidianamente durante il mio matrimonio», racconta un padre 39enne che si sta separando nel capoluogo lombardo. Non dimentichiamo che nel 2013 questa tendenza ad adottare misure automatiche in favore della madre sono costate all’Italia una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una delle dieci negli ultimi sei anni per violazione del diritto alla bigenitorialità. Il Paese si trova in mezzo a una transizione profonda e non si sa se andrà avanti o tornerà indietro. Molte leggi sono cambiate negli ultimissimi anni. Sulla spinta delle prime associazioni dei padri separati, come «Crescere Insieme» fondata da Marino Maglietta, è stata introdotta la norma che ha previsto come regola l’affidamento condiviso dei figli a entrambi i genitori perché non perdessero il sacrosanto rapporto con il genitore che usciva di casa; anche se poi dovendo dare a questi figli/e una residenza quest’ultima continua a essere soprattutto quella della madre e il sistema di mantenimento degli stessi quello dell’assegno mensile (l’Istat dice che continuano a pagarlo i padri con poche variazioni: dal 93,9 per cento del 2007 al 94,1 per cento del 2015). Nel nostro Paese sono state, inoltre, accelerate le procedure di separazione-divorzio (2015) e previste forme alternative ai giudici: ci si può separare e divorziare con la sola assistenza dell’avvocato o direttamente in Comune (2014). Lo si è fatto per “disingolfare” la giustizia, oberata da cause su cause. Il punto è che i genitori italiani separati/divorziati hanno finito per delegare ai giudici ogni decisione, abdicando alla loro funzione primaria: quella di essere genitori, appunto. Lo conferma il procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Milano Circo Cascone: «Il giudice, i servizi sociali, i consulenti devono agire in via residuale: quando i genitori scelgono di non decidere per i loro figli e danno sfogo al conflitto e quindi al processo. Sono loro a scegliere la macchina risolutiva del conflitto che poi criticano per le decisioni che emette. Basterebbe allora scegliere di comporre la lite con un accordo avvalendosi della mediazione familiare o della negoziazione assistita. Ma questo avviene raramente». Cascone chiosa, centrando uno degli aspetti più delicati: «Una cultura della mediazione probabilmente è quello che manca ancora oggi nei genitori che litigano». Se manca, sono i giudici a iniziare a fare da sbarramento. A Milano, ai due genitori che non riuscivano a mettersi d’accordo sulle vacanze, la sezione Famiglia, guidata da Anna Cattaneo, ha fissato l’udienza per discutere il ricorso dopo le vacanze, costringendo i due a mettersi d’accordo da soli. A Catania il giudice Felice Lima è andato oltre: ha deciso la stabile collocazione del figlio (ovvero nella casa di chi il figlio dovesse avere la residenza principale) presso il padre, anziché la madre, nonostante fossero entrambi adatti. Secondo Lima, dando maggiori responsabilità ai padri si otterrebbe una diminuzione del numero di «padri disimpegnati» e di «madri proprietarie». In sostanza: ai padri ed ex coniugi (italiani) va concesso più spazio anche per educarli alle conseguenze relazionali, economiche e professionali che comporta crescere in casa, da soli, i figli. «Ci si prende a bambinate», è stato detto durante l’incontro organizzato in Tribunale a Milano dal Centro per la riforma del diritto di famiglia. Effettivamente è emerso che l’intero sistema che ruota intorno alla famiglia sta scadendo di qualità. Tutti parlano del diritto dei bambini e delle bambine, ma nella pratica tutti cercano di far vincere il proprio cliente. E questa è parte importantissima del problema della crisi della famiglia in Italia. Manca la legge più importante, quella dei patti prematrimoniali: la possibilità di decidere, quando ci si sposa, quali saranno le condizioni del divorzio. Senza questa legge l’Italia è nella situazione di avere una famiglia che parte con una certa logica (quella basata sulla comunione dei beni, ancorché la maggioranza scelga il regime della separazione dei beni) e una fine in cui è come se non ci si fosse mai visti prima. Lo dimostra la cosiddetta «sentenza Grilli», emessa dalla Corte di Cassazione, secondo la quale nel determinare l’assegno di mantenimento all’ex coniuge non si deve più tener conto del «tenore di vita» goduto durante il matrimonio. Molti, anche molte donne, hanno detto che spingerà le mogli all’autonomia. «La verità – dice Anna Danovi, avvocata matrimonialista e presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia – è che si chiede a donne ampiamente adulte che hanno lasciato il lavoro e la propria carriera per seguire la famiglia di rimettersi sul mercato del lavoro. Cosa trovano a quell’età? Una mia cliente di 50 anni, con tre figli, che ha lasciato tutto d’accordo con il marito, non ha trovato altro che mettersi a dare ripetizioni private». Nel frattempo, però, il marito grazie al fatto che la moglie si occupava dei figli ha potuto fare una carriera brillante. Ed è qui che l’avvocata vedere una differenza nei padri. «Le donne chiedono che gli uomini si facciano carico dei figli, ma quando il padre è un uomo che ha un lavoro che lo impegna 10 ore al giorno difficilmente accetta di farsi carico dei figli. Anche se magari a parole lo dice». Perché alla fine un punto centrale sta proprio lì. Se si vive per il lavoro, non si può vivere per gli affetti. E qualcuno dei figli si deve occupare.

Quei padri separati finiti sul lastrico. Senza casa, con lo stipendio dimezzato. Ormai è emergenza sociale. Pronti 4 milioni per aiutarli con gli affitti, scrive Fabio Floridi su "Il Giorno" il 14 maggio 2017. Il regolamento avrebbe dovuto tutelare i padri separati, ma in realtà l’86% dei contributi è andato alle loro ex consorti. Per questo motivo la Regione ha deciso di cambiare rotta e, nei mesi scorsi, ha modificato i criteri per l’accesso ai fondi di tutela dei coniugi separati o divorziati. Con le vecchie regole erano state aiutate 1.140 persone. Un provvedimento, come anche la sua modifica, fortemente sponsorizzato dal leader della Lega Nord Matteo Salvini, anche lui papà separato. Il nuovo bando è aperto dal 27 aprile e le domande possono essere presentate entro il 20 dicembre alle Ats di riferimento, salvo esaurimento delle risorse (circa 4 milioni di euro) messi a disposizione da Palazzo Lombardia. E questa volta alla norma è stata aggiunta una frase, per essere sicuri che a usufruire delle agevolazioni siano in gran parte i padri. In pratica viene messo nero su bianco che i beneficiari dovranno essere «coloro che non risultano assegnatari della casa coniugale in base alla sentenza di separazione o di divorzio, o comunque non hanno la disponibilità della casa familiare». A chi ha un reddito Isee sotto i 20mila euro viene riconosciuto un contributo per pagare l’affitto pari al 30% dell’affitto a prezzi di mercato, per un massimo di 3mila euro l’anno; oppure del 30% per immobili a canone calmierato o concordato per un importo non superiore 2mila euro. Ed è previsto anche uno stanziamento di 8mila euro per gli enti che ristrutturano delle abitazioni da destinare ai genitori separati (in totale su questa misura la Regione ha stanziato un milione di euro). Quella dei padri separati è ormai una vera e propria emergenza sociale. Sono in molti, infatti, ad essersi ritrovati da un giorno all’altro senza una casa e con uno stipendio dimezzato dall’assegno di mantenimento. Un problema trattato proprio in questi giorni anche dalla Corte di Cassazione, che ha rivoluzionato la legislazione sul divorzio, sottolineando che se si è economicamente indipendenti non si ha diritto all’assegno di mantenimento. Insomma, non conta più il tenore di vita di cui la parte più «debole» della coppia poteva godere durante il matrimonio. Ora bisognerà vedere (e valutare) la risposta al bando.

Padri «dimezzati», ecco come va a finire. La presidente dell’associazione degli uomini separati: basta preconcetti. Storie drammatiche ma anche (ed è una novità) positive. Il nodo dell’affido, scrivono Andrea Laffranchi e Chiara Maffioletti l'8 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Il presidente della prima associazione italiana di padri separati è una donna. «All’inizio la cosa ha suscitato perplessità — racconta Tiziana Franchi, in carica da nove anni —. Ma quando poi si spiega che non è un problema di uomo-donna ma un preconcetto, allora la cosa si chiarisce». Il preconcetto a cui si riferisce, è quello per cui «gli uomini sono considerati sempre quelli nella posizione forte. Nella separazione però non è così: l’uomo è sempre il più debole. È lui che quasi sempre perde tutto». Anche se magari in posizione economicamente dominante, gli uomini arrivano più impreparati alla separazione: «Sono più restii a confidarsi perfino con i propri famigliari. Lo fanno quando è tardi, quando è già stata fissata l’udienza in tribunale». Franchi parte dall’idea che si debbano tutelare «quei padri che vorrebbero stare di più con i figli, un diritto che troppo spesso gli viene tolto». La nuova legge, quella sull’affido condiviso, farebbe solo credere «che i genitori sono paritari ma se metti la collocazione primaria sempre dove vive la madre, allora resta lei a fare il bello e il cattivo tempo». Tra gli ostacoli principali, quello di sradicare l’idea che la mamma sia più fondamentale del papà: «Conosciamo anche situazioni di ex coppie che si sono dichiarate disponibili a gestire i figli a metà, ma i giudici spesso non hanno accolto le loro richieste. Il buon senso il più delle volte non esiste». Così finisce che i padri si ritrovino «disperati, a elemosinare il diritto di vedere i loro figli». Ne sa qualcosa Claudio Cattabriga, 53 anni e due bambine di 11 e 9 anni. Il suo matrimonio è finito 7 anni fa e, confessa: «Sono piuttosto negativo sulla possibilità che cambino le cose. Nel momento in cui ci si separa non consensualmente, anche se con affido condiviso, si perde la possibilità di fare il padre se la persona che avevi sposato decide di non fartelo fare». Riprende: «L’atteggiamento diffuso è stabilire il collocamento dei figli presso la madre indipendentemente da tutto. Io sono stato estromesso da casa mia quando lei lo ha deciso, ha preso tutti i soldi che avevo sul conto e da quel momento ha iniziato a fare delle mie figlie quello che voleva». La sua richiesta? «Se uno ha voglia di fare il padre, i tempi di frequentazione dovrebbero essere equilibrati, tutto qui. L’affido alternato c’è in tutta Europa ma da noi no. La sensazione è che nemmeno ti credano». Tutto questo ha conseguenze pratiche sull’organizzazione della sua vita: lavora come manager a Milano, le figlie vivono a Bologna nella sua ex casa e quando sta con loro si appoggia alla residenza di campagna della madre, a 27 chilometri dalla città. «Il mercoledì vado in treno a Bologna, poi torno a Milano, poi ritorno un venerdì ogni due per prenderle e il lunedì ci svegliamo all’alba per arrivare in tempo a scuola, quindi riparto. Su dieci giorni lavorativi ne perdo tre. Ho chiesto mille volte di compattare i giorni, magari dandomi il giovedì al posto del mercoledì per fare anche solo un viaggio in meno, ma non c’è stato verso». Anche per questo, ha deciso di rinunciare all’affido condiviso, visto che «non era reale ma io dovevo solo ascoltare le volontà della mia ex moglie» che però «ha inteso la rinuncia all’affido come una rinuncia alla potestà e mi ha escluso da tutte le scelte che riguardavano le bambine, dalla salute alla scuola: non ho potuto scegliere a che istituto iscrivere le bambine, non sono coinvolto su nulla». E, a suo avviso, c’è poco da fare: «Ogni cosa dovrebbe trasformarsi in una battaglia, ma se anche fosse, non ci sono i tempi: fai un processo per poter scegliere la scuola, ok, ma dura 7 anni e nel frattempo la scuola l’hanno già finita». La mamma è sempre la mamma, purtroppo anche per molti giudici: «Era vero in una società abituata intendere la donna come la figura che sta al focolare: sono norme che fanno riferimento a una società che non esiste più». Oggi, in caso di separazione, non dovrebbero esserci più ostacoli all’idea di avere dei «tempi equilibrati di frequentazione, trasmettendo anche due modelli. Forse potrebbe aiutare una certa sensibilità verso i patti prematrimoniali». E se proprio deve parlare di speranza, si augura che continuando a riflettere sulle unioni omosessuali, si possa arrivare a una soluzione utile per tutti: «Io mi ritrovo nella condizione del genitore non biologico della coppia gay, che non ha possibilità di decidere nulla sul figlio. Paradossalmente, se si risolve quel punto magari viene fuori la soluzione anche per padri come me». Stefano Scalabrini oggi ha 37 anni e l’affido delle sue due figlie. Ma per due anni non ha potuto vederle. Un inferno che non sarebbe mai finito se la sua ex compagna non avesse esagerato al punto da essere finita in guai più seri di quelli in cui aveva deciso di far finire lui. «Appena ci siamo lasciati sono partite denunce per maltrattamenti: era appoggiata da tutta la sua famiglia». Le denunce, in tutto, sono state 14: «Non ho più visto le mie bambine, andavo sotto casa per sbirciale, di nascosto. Avevano 2 anni e 1 anno. Un incubo. Tutto quello di cui ero accusato era senza alcun fondamento». Per fortuna, grazie all’aiuto del Ctu a cui si era rivolto, e agli eventi in cui si è infilata la sua ex, la situazione si è ribaltata e l’affido delle bambine è passato a lui: «A lungo mi sono sentito non creduto. Di fatto non vedevo le mie figlie, piangevo la notte, e tutto questo per due anni. Quando le ho abbracciate, mi vengono ancora le lacrime, mia figlia grande mi ha detto che piangeva tutti i giorni perché le mancavo, ma la mamma le aveva detto che ero morto». Una situazione drammatica, e il paradosso è che viene quasi da dire “per fortuna”, visto che “se lo fosse stato un po’ meno, se la mia ex si fosse comportata bene, io le mie figlie non le avrei riviste più. Ora non resta che sperare che l’alienazione genitoriale diventi reato». Per fortuna ci sono anche storie a lieto fine e sono tante. Come quella di Stefano Sacchetto, 46 anni, di Padova. «Con la mia ex moglie ci siamo accorti che le cose non funzionavano più quando nostro figlio aveva due anni». Per loro, rendersi conto che l’amore era finito è stato triste ma non drammatico e non ha mai messo in discussione il loro ruolo di genitori: «Non abbiamo avuto mai nessun problema, confesso. Il bambino, a cui abbiamo da subito spiegato tutto, ha iniziato a vivere una settimana con me e una con la mamma, come fa tuttora». L’affido condiviso che in Italia è per molti un’utopia, per loro è stato dall’inizio della loro separazione la realtà: «Abitiamo abbastanza vicini, a tre chilometri, e di norma sta con me dal giovedì al martedì, ma con la mia ex esco ancora oggi a cena, spesso anche con i nostri nuovi compagni... il giorno della prima Comunione di nostro figlio l’abbiamo passati tutti insieme». Insomma, se c’è l’intenzione di far funzionare le cose, le cose funzionano: «Beh, la mia ex moglie lavora con me, abbiamo una società, nata dopo che ci siamo lasciati. Per quanto riguarda gli accordi, abbiamo fatto tutto insieme, con un avvocato che ci ha consigliati. Anche se non stiamo più insieme, la nostra famiglia è come se fosse un’azienda in cui si fa un consiglio su tutte le cose che riguardano nostro figlio: dalle scarpe da comprare ai corsi da frequentare». 

PAS ED AFFIDO: IL MONOPOLIO DELLE MADRI FEMMINISTE.

SULL’AFFIDO CONDIVISO E’ GUERRA DI GENERE.

Il Matrimonio (di Paola Maffei)

Ho, ma che bel traguardo

è a quello che la giovane tende lo sguardo,

il matrimonio con l’amato

e il sogno di una vita coronato.

Con il matrimonio ci si giura eterno amore,

nella gioia e nel dolore,

di quello che nulla può separare

e ancor più bello è quando lo si dice sull’altare.

Passa il tempo, arrivano i figli

Genitori e zii, elargiscono consigli

Si stringono tutti intorno alla famiglia

Per dare un grosso aiuto al figlio o alla figlia.

Quello che si vive è magia ed incanto

Anche se poi non si sa perché, a volte viene infranto,

all’amore eterno subentrano questioni di denaro ed interesse

il matrimonio si incrina e con esso anche tutte le sue promesse.

Le motivazioni sono sempre i soliti argomenti:

i suoceri, i soldi, le proprietà, i tradimenti…

Che dispiacere per amici e parenti

Vedere che quell’amore eterno attraversa patimenti.

C’è chi si dispera per la loro separazione,

chi piange e chi prega per la loro unione.

C’è anche chi accende le questioni

Con accanimento per far conti e divisioni.

In tutta questa nuova situazione,

a chi meno si rivolge l’attenzione

è ai figli che nel silenzio o in un capriccio

nascondono le vere sofferenze di questo bisticcio.

E’ a loro che voglio dire apertamente:

voi non c’entrate in questo “incidente”.

Se si è scelto di mutilare questa famiglia

L’incoerenza non è in voi, ma in chi è immaturo da tenerne le briglia.

Paola Maffei 6 novembre 2018 ore 14.40

Lei: Voglio il divorzio e l’affidamento esclusivo del bambino!

Lui: Esclusivo, ma è anche mio!

Lei: Tuo? Io l’ho partorito, non tu! I bambini sono delle madri, li facciamo noi e solo noi, sono nostri! E voglio il mantenimento!

Lui: Ma come, è tuo ma vuoi crescerlo coi soldi miei?

Lei: E’ anche tuo, mica l’ho fatto da sola…

La sinistra politica e mediatica e le associazioni di genere sono contro ogni legge egualitaria ed equitaria.

Il ddl Pillon, spiegato bene, scrive sabato 10 novembre 2018 "Il Post". Vuole cambiare le leggi su separazione, divorzio e affido condiviso dei minori: è molto contestato da più fronti, con gli stessi argomenti. Lo scorso agosto è stato assegnato alla commissione Giustizia del Senato il disegno di legge 735, meglio conosciuto come “ddl Pillon”, che introduce una serie di modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori. Il disegno di legge prende il nome dal senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day, uno dei portavoce delle principali battaglie dell’integralismo cattolico e il promotore del gruppo parlamentare Vita famiglia e libertà. È un progetto molto contestato da avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori, dai centri antiviolenza e dai movimenti femministi che il 10 novembre manifesteranno in tutta Italia, ma anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne che lo scorso 22 ottobre hanno inviato una lettera al governo italiano.

Il contratto di governo e l’obiettivo della riforma. Nel “contratto di governo” a cui spesso gli esponenti dell’attuale maggioranza si richiamano, cioè il documento con il quale Lega e M5S hanno definito i progetti della loro alleanza, è presente il contenuto generale del disegno di legge Pillon: equili­brio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; mantenimento in forma di­retta senza automatismi; contrasto della cosiddetta a­lienazione genitoriale. Non è citata esplicitamente, invece, la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni. Pillon ha spiegato l’obiettivo della sua legge: una «progressiva de-giurisdizionalizzazione» (il conflitto familiare non deve cioè arrivare di norma in tribunale) e la volontà di rimettere «al centro la famiglia e i genitori» lasciando al giudice il «ruolo residuale di decidere nel caso di mancato accordo». Pillon ha citato anche Arturo Carlo Jemolo, giurista e storico cattolico: «Come soleva dire Arturo Carlo Jemolo, la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire, essendo organismo normalmente capace di equilibri e bilanciamenti che la norma giuridica deve saper rispettare quanto più possibile». Negli ultimi anni le questioni relative all’affidamento dei figli e delle figlie minori nei casi di separazione dei genitori sono state riformate in modo significativo, soprattutto con la legge 8 febbraio 2006, n. 54. Prima del 2006, nonostante fosse comunque previsto l’affidamento congiunto o alternato, il tribunale aveva il compito di stabilire a quale genitore i figli dovessero essere affidati in via esclusiva. Nel 2006 è stato invece messo a regime il principio dell’affido condiviso in caso di separazione, salvo i casi in cui questo potesse essere dannoso per i-le minori. I dati ISTAT mostrano che la legge ha funzionato, e che nelle separazioni e nei divorzi l’affidamento condiviso ha ora percentuali decisamente prevalenti: «Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi». A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della legge numero 54, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta. Il sorpasso vero e proprio è avvenuto nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Pillon sostiene però che i dati non mostrino la realtà: che ci sia una «violazione di fatto della legge 54/2006 sull’affido condiviso», che sarebbe rimasta «solo un nome sulla carta». Dice che nel 90 per cento dei casi «non è cambiato nulla» e che «ci si ritrova di fronte a un affido che nei fatti è ancora esclusivo». Pillon fa probabilmente riferimento ad alcuni dati, che riguardano però soprattutto questioni economiche assimilando, di fatto, l’affido esclusivo a quello condiviso con residenza prevalente presso la madre: come scrive Valigia Blu, «per quanto riguarda l’assegnazione della casa coniugale è vero che nel 69 per cento dei casi quando c’è un figlio minore va all’ex moglie e che il 94 per cento delle separazioni con assegno di mantenimento sia corrisposto dal padre».

Il ddl Pillon. Il disegno di legge 735 si compone di ventiquattro articoli e prevede che le disposizioni introdotte, una volta entrate in vigore, si applichino anche ai procedimenti pendenti. Le riforme al diritto di famiglia che il ddl introduce sono principalmente quattro:

1 – mediazione obbligatoria e a pagamento. Il ddl Pillon, per evitare che il conflitto familiare arrivi in tribunale, introduce alcune procedure di ADR, un acronimo che vuol dire Alternative Dispute Resolution: sono metodi stragiudiziali di risoluzione alternativa delle controversie, e ne fanno parte sia la mediazione che la coordinazione genitoriale. Il ddl prevede in particolare di introdurre la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni «a pena di improcedibilità», dicendo esplicitamente che l’obiettivo del mediatore è «salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia». Il ddl (all’articolo 1) istituisce quindi l’albo professionale dei mediatori familiari e precisa chi può esercitare quella professione: tra loro «anche agli avvocati iscritti all’ordine professionale da almeno cinque anni e che abbiano trattato almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minori per ogni anno». Il mediatore familiare (articolo 2) è tenuto al segreto professionale e nessuno degli atti o dei documenti che fanno parte del procedimento di mediazione familiare «può essere prodotto dalle parti nei procedimenti giudiziali», a eccezione dell’accordo finale raggiunto. L’articolo 3 spiega come si svolge questa mediazione. Può durare al massimo sei mesi, i rispettivi legali, dopo il primo incontro, possono essere esclusi negli incontri successivi dal mediatore, e l’accordo raggiunto durante la mediazione (chiamato “piano genitoriale”) deve essere «omologato» dal tribunale entro 15 giorni. Si precisa, infine, che «la partecipazione al procedimento di mediazione familiare è volontariamente scelta», ma più avanti, all’articolo 7, si dice che per le coppie con figli minorenni la mediazione è «obbligatoria». L’articolo 4 aggiunge che è gratuito solo il primo incontro di mediazione, mentre gli altri sono a carico delle due persone che si stanno separando. Se nell’esecuzione del piano genitoriale nascono dei problemi, il ddl prevede l’introduzione di un’ulteriore procedura di ADR, affidata al coordinatore genitoriale: sempre a pagamento. Nel piano genitoriale devono essere presenti, tra le altre cose, una serie di indicazioni molto precise: luoghi abitualmente frequentati dai figli; scuola e percorso educativo del minore; eventuali attività extra-scolastiche, sportive, culturali e formative; frequentazioni parentali e amicali del minore; vacanze.

2 – equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari. Nel ddl si dice (articolo 11) che «indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori» il minore ha diritto a mantenere «un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e la madre, a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali e a trascorrere con ciascuno dei genitori tempi adeguati, paritetici ed equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale». I figli dovranno dunque trascorrere almeno dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, con ciascun genitore, a meno che non ci sia un «motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica» dei figli stessi. Non solo: i figli avranno il doppio domicilio «ai fini delle comunicazioni scolastiche, amministrative e relative alla salute».

3 – mantenimento in forma diretta senza automatismi. Oltre che il tempo, si prevede che anche il mantenimento sia ripartito tra i due genitori. Il mantenimento diventa dunque diretto (ciascun genitore contribuirà per il tempo in cui il figlio gli è affidato) e il piano genitoriale dovrà contenere la ripartizione per ciascun capitolo di spesa, sia delle spese ordinarie che di quelle straordinarie. Si precisa che andranno considerate sempre «le esigenze del minore, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore». Fermo il doppio domicilio dei minori presso ciascuno dei genitori, si aggiunge che il giudice può stabilire che i figli mantengano la residenza nella casa familiare, indicando in caso di disaccordo quale dei due genitori può continuare a risiedervi. Se la casa è cointestata, il genitore a cui sarà assegnata la dovrà versare all’altro «un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato». Non può invece «continuare a risedere nella casa familiare il genitore che non ne sia proprietario o titolare di specifico diritto di usufrutto, uso, abitazione, comodato o locazione e che non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio».

4 – alienazione genitoriale. Il ddl vuole contrastare la cosiddetta “alienazione parentale” o “alienazione genitoriale”, intesa come la condotta attivata da uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) per allontanare il figlio dall’altro genitore (definito “genitore alienato”). Nella scheda di presentazione del ddl al Senato si dice che «nelle situazioni di crisi familiare il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato con la concreta esclusione di uno dei genitori (il più delle volte il padre) dalla vita dei figli e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore». Gli articoli 17 e 18 del ddl dicono dunque che se il figlio minore manifesta «comunque» rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori» stessi, il giudice può prendere dei provvedimenti d’urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore e anche il «collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata». Di alienazione genitoriale si parla anche all’articolo 9, quando si dice che il giudice può punire con la decadenza della responsabilità genitoriale o con il pagamento di un risarcimento danni le «manipolazioni psichiche» o gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento». E si parla di «ogni caso ove (il giudice, ndr) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori». In commissione Giustizia del Senato al ddl 735 sono associati altri due atti: il 45 e il 768. Nel primo, presentato da Paola Binetti, tra le altre cose si prevede la sospensione della potestà genitoriale «in caso di calunnia da parte di un genitore o di un soggetto esercente la stessa a danno dell’altro». Modifica poi l’articolo 572 del codice penale, la norma che punisce la violenza domestica: prevede che i maltrattamenti debbano essere sistematici e rivolti «nei confronti di una persona della famiglia o di un minore».

Le critiche al ddl Pillon. Il ddl presentato dal senatore Pillon (che è anche un avvocato e un mediatore familiare) è stato molto criticato e considerato non emendabile, cioè da rifiutare completamente, da diverse associazioni di avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori; da giuristi, anche cattolici, da giudici minorili, dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi e anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, che lo scorso 22 ottobre hanno scritto una lettera preoccupata al governo italiano. Nella lettera dell’ONU si dice che le modifiche introdotte dal ddl porteranno a «una grave regressione che alimenterebbe la disuguaglianza di genere» e che non tutelano le donne e i bambini che subiscono violenza in famiglia. Le critiche dell’ONU riprendono punto per punto quelle già avanzate in Italia da vari fronti, che sono tutti compatti e concordi nel dire che cosa nel ddl non funziona.

1 – ostacola il divorzio. Il ddl vuole rendere più complicato e oneroso l’accesso alla separazione e al divorzio, introducendo esplicitamente all’articolo 1 il concetto di “unità familiare” e rendendo di fatto separazione e divorzio procedure complesse e soprattutto accessibili solo a chi se le può permettere dal punto di vista economico. Questo, anche in caso di separazioni consensuali tra persone che hanno un figlio minore. Lo si spiega bene qui: attualmente in una situazione di separazione serena e condivisa «è sufficiente una consulenza legale per presentare istanza al tribunale e definire la pratica con dei tempi abbastanza brevi e dei costi limitati». Se passasse il disegno di legge Pillon, invece, si dovrebbe pagare obbligatoriamente un mediatore; andrebbe steso un piano genitoriale molto dettagliato (anche su amicizie e frequentazioni dei figli); ogni modifica del piano comporterebbe altro tempo e nuove spese (per esempio se il figlio smette di giocare a calcio e decide di giocare a pallavolo). Aumenterebbero, insomma, i costi delle separazioni e questo metterebbe in difficoltà soprattutto le donne, visto che sono il più delle volte la parte economicamente svantaggiata.

2 – logica adultocentrica. A differenza di quanto è stato valido fino a oggi nel diritto di famiglia (la priorità dell’interesse del minore e del genitore più debole), il ddl porta avanti un principio adultocentrico. Il principio di bi-genitorialità – già previsto da molte convenzioni internazionali – prevede che il minore abbia il diritto di avere un rapporto significativo con entrambi i genitori a meno che tale rapporto non sia nocivo per il minore stesso. Il ddl non tutela però l’interesse del minore soprattutto quando entra in gioco il concetto di alienazione parentale, come vedremo. E trasforma la bi-genitorialità in un principio dell’adulto. Non solo: dell’adulto economicamente più forte.

Ancora: il piano genitoriale redatto a pagamento durante la mediazione riduce la libertà di scelta del minore, essendo molto dettagliato e molto rigido nella sua applicazione. Viola, secondo chi lo critica, anche tutte le normative internazionali che chiedono ai legislatori, soprattutto nell’interesse dei e delle minori, di favorire la flessibilità e l’elasticità nelle regolamentazioni. La tutela e il diritto del minore alla massima continuità di vita e di abitudini anche in caso di separazione, viene poi stravolto dalla riforma sull’assegnazione della casa familiare, che mette al centro il principio di proprietà della casa stessa.

3- bi-genitorialità coatta. Sul principio di bi-genitorialità a tutti i costi come principio a favore dell’adulto, l’Unione Camere Minorili ha scritto che il ddl si occupa del minore «come di un “bene” che deve essere diviso esattamente a metà come un oggetto della casa familiare». Il Coordinamento italiano per i servizi maltrattamento all’infanzia (Cismai) ha fatto sapere poi che «la divisione a metà del tempo e la doppia residenza dei figli ledono fortemente il diritto dei minori alla stabilità, alla continuità e alla protezione, per quanto possibile, dalle scissioni e dalle lacerazioni che inevitabilmente le separazioni portano nella vita delle famiglie». Il minore da soggetto, torna ad essere un oggetto del diritto. Il ddl pretende poi un’equiparazione astratta tra genitori, in nome di falsi principi egualitari: ignora cioè le reali condizioni di squilibrio di genere che esistono tra i genitori. Non tiene conto del gap salariale e occupazionale di genere o del fatto che molte donne, come dicono i dati, o lasciano o perdono il lavoro dopo la maternità. Una donna che è anche madre riuscirà difficilmente a dare lo stesso tenore di vita che al figlio era garantito durante la convivenza e che potrà continuare ad essere garantito dal padre, causando enormi squilibri e avendo come conseguenza anche la possibilità di perdere l’affidamento. La bi-genitorialità attraverso la divisione dei tempi e il mantenimento diretto si trasforma dunque, in realtà, in un nuovo principio a vantaggio dell’adulto economicamente più forte. Il genitore che si trova nella situazione più difficile o sceglierà di non separarsi o sarà sottoposto a un ricatto economico dovendo affrontare la separazione al prezzo di una crescente precarietà.

 4 – privatizzazione della violenza. Il ddl propone soluzioni standard che non tengono conto della diversità delle situazioni, e che possono essere devastanti: il ddl introduce infatti l’obbligatorietà del ricorso un mediatore privato a pagamento nelle separazioni con figli minori, comprese quelle legate a violenza e abusi. Può svolgere il ruolo di mediatore anche un avvocato iscritto all’ordine da almeno cinque anni che abbia trattato «almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di fami­glia e dei minori per ogni anno». La mediazione è affidata a figure che non possono essere specializzate sul tema della violenza e che dunque non possono affrontare questo tipo di dinamica. Nella lettera delle relatrici delle Nazioni Unite al governo italiano si ricorda che la mediazione familiare può «essere molto dannosa se applicata ai casi di violenza domestica» e che tale imposizione viola la Convenzione di Istanbul che l’Italia ha sottoscritto nel 2003. La mediazione, sostanzialmente, privatizza il conflitto spostandolo in un ambito in cui vale l’obbligo di riservatezza: se durante il percorso di mediazione dovessero verificarsi o emergere degli abusi, questi non risulterebbero. L’obbligo di segretezza, si dice sempre nella lettera, «limita il potere dell’autorità giudiziaria» e istituzionalizza la violenza all’interno della famiglia: sollevando i tribunali dai loro compiti e occultando la violenza per delegata giustizia. Funzionando su soluzioni standard, il ddl “dimentica” infatti i casi in cui le separazioni sono dovute a violenza domestica (psicologica, sessuale, economica o fisica) costringendo la vittima a negoziare con il proprio aggressore. Non definisce poi che cosa sia la «violenza» né la inserisce nell’intero iter giudiziario per la regolamentazione dei rapporti tra genitori. Il testo cita la violenza anche all’articolo 9 quando dice che il giudice può intervenire sull’affidamento in caso di «accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false»: secondo i centri antiviolenza, considerando la violenza come il prodotto di false accuse e sanzionandola, il ddl minaccia apertamente le donne che osano denunciare o anche solo parlare degli abusi che subiscono, ma anche i minori che manifestano paure. Non solo: poiché prevede eccezioni solo nei casi in cui la violenza domestica è “comprovata” costringerà i figli e le figlie, in nome del principio di bi-genitorialità coatta, ad avere rapporti con la figura genitoriale violenta. La giustizia penale non ha infatti gli stessi tempi di quella civile, anzi: e dunque in attesa del giudizio in sede penale i e le minori saranno costretti a frequentare la casa del genitore violento. L’atto numero 45 associato al ddl Pillon sostituisce poi l’abitualità del comportamento violento con la sistematicità affinché il reato sia punibile. Cancella così il tratto distintivo della violenza domestica stessa che si compone di un’alternanza tra abusi e momenti di pentimento e di serenità chiamati “luna di miele”: la violenza domestica, insomma, non è mai continua ma procede tra alti e bassi. Come ha spiegato Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna che fa parte della rete DiRe e che da anni si occupa dell’ufficio delle avvocate penaliste all’interno dei centri antiviolenza, «La giurisprudenza ha stabilito che i periodi di normalità non escludono l’abitualità della violenza perché sono fatti apposta per tenere sottomessa la donna nel maltrattamento all’interno del rapporto (..) Per questo togliere l’abitualità e sostituirla con la sistematicità, significa negare il fenomeno della violenza domestica e molti uomini violenti sarebbero assolti». L’atto 45 restringe dunque il reato. Introduce poi la pena accessoria della sospensione della “potestà genitoriale” se il reato di calunnia è commesso da un genitore a danno dell’altro genitore: la modifica proposta disincentiva, di nuovo, la presentazione di denunce da parte delle donne vittime di violenza domestica.

5 – la presunta alienazione parentale. La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner. Viene descritta come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “influenza” sui figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). Fin da subito, la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association). Nonostante la mancanza di prove scientifiche a supporto, l’alienazione genitoriale – intesa comunque non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS), ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini e le bambine non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione già molto spesso nelle aule dei tribunali e difesa da diverse associazioni. Soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione genitoriale viene infatti utilizzata in maniera strumentale dai padri per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare quei padri perché traumatizzati dai loro comportamenti violenti. Il ricorso all’alienazione parentale finisce dunque per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza) ritenendola responsabile di comportamenti inadeguati. Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato nel 2011 dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite. L’alienazione parentale in nome della bi-genitorialità rischia di far riferimento a un principio di bi-genitorialità a tutti i costi e di genitorialità disgiunta da tutto il resto, o meglio: a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Tende a confondere la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti. Il ddl Pillon va oltre: prevede che quando il minore rifiuti il rapporto con uno dei genitori, il giudice sanzioni l’altro «pur in assenza di prove fattuali o legali», come dice esplicitamente il testo. Le sanzioni sono molto gravi e immediate. Considera cioè automaticamente le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore, e propone una logica punitiva nei confronti dei minori considerati – di nuovo e automaticamente – inattendibili.

In conclusione. In molte e molti hanno affermato che il ddl è una proposta maschilista, punitiva nei confronti delle madri e che porta a un arretramento dei diritti dei e delle minori. I movimenti femministi hanno a loro volta ribadito che la riforma è un grave attacco alle donne e alle conquiste ottenute con fatica negli ultimi decenni nell’ambito del diritto e della giurisprudenza sulla famiglia e sulla violenza domestica. La lettera delle Nazioni Unite si spinge anche oltre affermando che è una misura repressiva e il sintomo di «una tendenza, espressa attraverso le dichiarazioni di alcuni funzionari governativi» e attraverso altri provvedimenti dei partiti di maggioranza «contro i diritti delle donne». In Italia, si dice, è in atto, il «tentativo di ripristinare un ordine sociale basato su stereotipi di genere e relazioni di potere diseguali e contrarie agli obblighi internazionali in materia di diritti umani».

Come hanno risposto alle critiche. Se le critiche al ddl sono molto articolate e precise, non altrettanto lo sono state le risposte che, da parte di chi lo sostiene, tendono a riproporre le premesse generali su cui il ddl stesso è stato scritto. Pillon ha detto che non si tratta di un’iniziativa contro le donne e ha genericamente difeso il principio di bi-genitorialità ribandendo che «non possiamo sacrificare un genitore sull’altare dell’habitat del figlio. Certo, per un figlio è meglio una casa sola con entrambi i genitori. Ma se questo non è possibile, è meno male alternare le case che perdere un genitore, che alla fine è quasi sempre il padre». Pillon ha spiegato che la mediazione aiuta i genitori a trovare un accordo, che in caso di violenza il genitore violento sarà escluso dall’affidamento, che il ddl non interviene sull’assegno per il coniuge ma su quello per il figlio, e che il piano genitoriale tiene conto del tenore di vita cui è abituato il figlio: «Chi ha più mezzi contribuisce di più». Rispondendo a una domanda sulla difficoltà che il ddl introduce per decidere di separarsi o di divorziare, Pillon ha detto: «Certo, a me piacerebbe offrire a chi pensa di divorziare degli incentivi per non farlo. Ma sarà un passaggio ulteriore. Questa legge è per i figli». A difendere il ddl e a rivendicarne i passaggi più significativi sono poi le cosiddette associazioni dei padri separati, con le quali Pillon ha dichiarato di aver scritto la proposta. Queste associazioni portano avanti da tempo due battaglie principali, accolte di fatto dal ddl: quella economica (la possibilità di vedersi portare via la casa con l’assegnazione della stessa al minore, collocato spesso con la madre) e la fine dell’assegno di mantenimento nei confronti del minore e del coniuge più debole. In un’intervista su Avvenire Vittorio Vezzetti, pediatra, fondatore dell’associazione “Figli per sempre”, ha spiegato che «era assolutamente urgente colmare l’attuale disparità tra le figure genitoriali dopo la separazione che relega l’Italia agli ultimi posti fra i Paesi occidentali in tema di bigenitorialità».

L’iter del ddl. Il ddl è attualmente in discussione alla commissione Giustizia del Senato, a cui è stato assegnato in sede redigente: cioè può fare tutto il lavoro sulla legge, emendandola, esaminandola e poi votandola articolo per articolo. All’assemblea spetterà solamente la votazione finale sul provvedimento nel suo complesso. Terminato il lavoro in commissione (comprese le audizioni), un quinto della commissione stessa, un decimo di tutti i senatori o il governo possono però chiedere che si torni a lavorare in sede referente, cioè col metodo più tradizionale che prevede che il grosso del lavoro venga svolto dall’aula. Per quanto riguarda il ddl Pillon le audizioni previste sono più di cento e sono iniziate lo scorso 23 ottobre. Non si è dunque ancora arrivati al punto in cui si può chiedere la sede referente. Finora è successo due volte in questa legislatura che due provvedimenti (legittima difesa e voto di scambio) assegnati in sede redigente alla commissione Giustizia siano stati poi trasferiti in sede referente. In base alle dichiarazioni fatte finora dai membri della commissione, è ragionevole pensare che anche il ddl Pillon possa tornare in sede referente. Il ddl ha il sostegno della Lega e del M5S, ma alcuni e alcune esponenti del M5S si sono dichiarate contrarie o ne hanno preso timidamente le distanze. Nell’ultimo numero del settimanale Elle c’è un’intervista a Luigi Di Maio che, tra le altre cose, ha detto che la legge sulla riforma del diritto di famiglia «non è nei programmi di approvazione dei prossimi mesi perché così non va» e che il suo partito la modificherà. Il ddl non è sostenuto né dal PD né da LeU.

No Pillon, da Milano a Napoli in migliaia in piazza contro la legge sull’affido condiviso: “Viola i diritti. Va ritirata”. Le manifestazioni contro il disegno di legge del senatore leghista hanno coinvolto oltre 60 città italiane. A protestare non solo donne, ma anche moltissimi uomini che considerano "fuori tempo" la proposta, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 novembre 2018. Sono scese in piazza a migliaia, da Milano a Roma, passando per Genova, Venezia, Bologna, per dire “no” al Ddl Pillon. Le manifestanti hanno mostrato cartelli e organizzato flashmob travestite da streghe, invadendo letteralmente oltre 60 città italiane. Obiettivo: bloccare la riforma sull’affido condiviso promossa dal senatore leghista Simone Pillon. Ad organizzare la protesta, pacifica, il neo comitato No Pillon, sostenuto da numerose altre associazioni, tra cui Non Una di Meno e Di.Re, la rete dei centri anti violenza. Accanto a donne, che considerano il Ddl ‘discriminatorio’ nei loro confronti, anche moltissimi uomini, convinti anche loro che la proposta di legge debba essere “ritirata”. Secondo le femministe l’approvazione del decreto “viola i diritti” oltre che essere “fuori tempo“. “Sulle nostre vite nessuna mediazione, ora e sempre agitazione”, si legge nei cartelli sventolati a Venezia. O ancora: “Pillon, quanti schiaffi servono per riconoscere la violenza?”. Il riferimento è ad alcuni punti del disegno di legge, tra cui quello che rende obbligatorio l’uso di un mediatore a spese dei due coniugi per almeno sei mesi dopo la separazione, anche se avviene in maniera consenziente. Durante le manifestazioni non sono mancate anche le voci fuori dal coro. Come a Napoli dove in contemporanea è stata organizzata una raccolta firme a favore del Ddl Pillon da parte del gruppo “Movimento per l’Uguaglianza Genitoriale”.

Ddl Pillon, a Reggio Calabria la raccolta firme a sostegno dell’affido condiviso. A Reggio Calabria la raccolta firme in sostegno del ddl, soddisfatto il coordinatore di Mdm, scrive l'11 novembre 2018 Serena Guzzone su Stretto web. “Ottimi risultati anche da Reggio Calabria nella seconda giornata nazionale di raccolta firme a favore del DDL 735 Pillon!”. “Con grande soddisfazione, racconta Massimo Praticò, coordinatore per Reggio Calabria MDM-abbiamo accolto nel nostro gazebo, allestito a piazza Camagna tutta la giornata di ieri 10 novembre, tanta gente costruendo un dialogo ed un confronto aperto in un ambiente di serenità. L’occasione- prosegue- è stata importante per poter illustrare realmente cosa prevede la riforma sull’ affido condiviso, un’iniziativa che finalmente fa luce su un problema attuale ed un esigenza sociale reale sempre più crescente e che necessita di un confronto civile e democratico non più rinviabile. I toni miti della nostra voce, subordinati alla reale condizione di interpretare un bisogno dei figli, sono stati quanto di più nobile potessimo esprimere in una condizione di impoverimento sociale a contrasto di una “società chiusa”. L’incapacità da parte di gruppi politicamente ideologizzati di ascoltare e confrontarsi, corrompe la concezione della realtà facendo scadere il dibattito su polemiche e presunti scontri fra sessi che non hanno alcuna ragione d’essere. L’iniziativa a favore del ddl Pillon, invece, nasce esclusivamente dall’ amore per i nostri figli, ove nessuna notizia, polemica e problematica potrà essere anteposta al supremo interesse degli stessi. Ringraziamo- conclude Praticò– tutti gli uomini e le donne che sostengono questa iniziativa e questa riforma che ha come interesse non quello di avvantaggiare una parte della coppia o un genere sessuale sull’altro, ma che si concentra solo sull’interesse e sulla tutela del bambino. 

Ringraziamo come sempre la forte collaborazione e partecipazione dell’associazione culturale ‘Stanza 101’, che ci supporta ad ogni iniziativa”.

Manifestazioni No PIllon: è davvero così? "Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli", scrive l'11 novembre 2018 ADAMO ASSOCIAZIONE su Basilicata 24. Come ampiamente annunciato, nella giornata odierna in moltissimi centri italiani si sono tenute manifestazioni e iniziative di protesta contro il DDL 735. Gli attori coinvolti, associazioni di tutela dei diritti delle donne, sindacati e numerosi esponenti della sinistra italiana hanno ritenuto opportuno palesare la propria contrarietà argomentando che l’iniziativa del Senatore Pillon intende, tra le altre cose, avallare la violenza genitoriale (dove “genitoriale” sta ovviamente per “paterna”) e ripristinare la più becera cultura maschilista. Se il DDL Pillon intendesse davvero propugnare quanto appena ipotizzato, noi saremmo in prima linea a protestare insieme a tutti coloro che stamane hanno affollato strade e piazze. E lo faremmo con assoluta convinzione e veemenza. Perché nessuno più di noi ha orrore della violenza e nessuno più di noi vuole essere propositivo e partecipe ad un progresso culturale che porti ad una genitorialità consapevole, moderna e sempre in linea con le esigenze dei figli. Purtroppo, spiace notare che, ancora una volta, la mobilitazione generale di oggi risulta assolutamente mal riposta e del tutto immotivata. Viene da chiedersi, senza nessuna velleità polemica e con poca tema di smentite, se gli organizzatori abbiano davvero letto e compreso quali sono gli intenti del disegno di legge. Addirittura, ci sarebbe da interrogarsi su quali scopi strumentali risiedano dietro ad una sollevazione che ha come obiettivo una proposta che mira unicamente a rinnovare e ad allineare le norme per l’affido dei minori, superando finalmente la aberratio legis del genitore collocatario (dove per “genitore collocatario” sta ovviamente per “madre”) e di un assetto standardizzato e volto a sancire una monogenitorialità di fatto, mascherata da un affido congiunto in realtà squisitamente formale. Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli. Al contrario: in maniera estremamente circostanziata e cristallina, stabilisce che eventuali condotte inopportune (non solo violenza fisica o psicologica ma anche trascuratezza e negligenza) comportano in automatico l’allontanamento del genitore che se ne è macchiato. In merito all’altra vexata quaestio relativa all’assetto economico, è assolutamente vero che viene cancellato l’automatismo dell’assegno di mantenimento per i figli (corrisposto nel 97% dai padri) ma solo perché viene sostituito da una forma diretta che obbliga i genitori a corrispondere in maniera non mediata dall’altro coniuge le somme di volta in volta necessarie a soddisfare le esigenze dei minori, dividendole per capitoli di spesa ed in proporzione al reddito di ciascuno. Per quanto riguarda gli allarmi relativi all’assegno perequativo spettante all’ex coniuge, davvero non si capisce quale sia la ragione di tanto clamore: questa norma, infatti, nulla aggiunge e nulla toglie ai vigenti provvedimenti in materia, dato che legifera unicamente sulle modalità di affidamento dei minori. In estrema sintesi, il DDL vuole principalmente garantire il diritto del minore di beneficiare, nel miglior modo possibile, della possibilità di frequentare entrambi i genitori, con tempi quanto più possibile simili a quelli dei figli di coppie non separate. Anzi, paradossalmente, impone a genitori negligenti che intendono in qualche modo ridimensionare il proprio tempo e le proprie risorse nei confronti della prole, di affrontare le proprie responsabilità e di partecipare attivamente all’educazione e al sostegno dei bambini senza mai lasciare da solo l‘altro genitore. È, quindi, una legge moderna, in linea con molti Paesi che comunemente consideriamo come dei laboratori di progresso sociale e civile e soprattutto va incontro a quelle che sono le direttive stabilite dalla CEDU che, proprio per l’inosservanza dell’articolo 8, ha sanzionato numerose volte il nostro Paese in virtù delle infinite sentenze che esautorano le prerogative genitoriali. La mediazione assistita, inoltre, permette di calibrare perfettamente sulle esigenze di ciascuna famiglia il piano genitoriale. Consente un confronto e favorisce il dialogo tra i coniugi guidandoli a scrivere da soli dei provvedimenti che saranno poi ratificati. E si pone come una valida e civile alternativa alle sentenze scritte con il ciclostile che pretendono di adattare a ciascun contesto delle risoluzioni che sono meramente giurisprudenziali e odiosamente standardizzate (casa di proprietà al coniuge collocatario, assegno medio di 500 euro, frequentazione per il non collocatario stabilita in due pomeriggi a settimana e un weekend alternato). Davvero è difficile comprendere le ragioni di un tale e immotivato ostracismo ma rispettiamo le opinioni purtroppo discutibili di chi, probabilmente, interpreta la realtà non con le idee o gli ideali ma con l’ideologia. Ci rammaricano gli attacchi di chi intende dipingere i padri separati come una potente lobby che vuole imporre i propri interessi e sminuire conquiste sociali che, invece, salutiamo con partecipazione e sosteniamo convintamente, ma la lotta per i diritti dei nostri figli ci impone energia ed ottimismo. E quindi, anche in questo frangente, restiamo speranzosi che si riesca a dialogare con serenità e pacatezza e a contribuire all’ulteriore miglioramento di un progetto finalmente dalla parte dei cittadini.

Famiglia, relazioni affettive - Affidamento dei figli naturali - Chi ha paura del ddl Pillon e della bigenitorialità? Scrive Adriano Marcello Mazzola il 21/09/2018 su Persona e Danno.

Lo status quo nel diritto di famiglia. Il disegno di legge 735/2018 a firma del senatore Pillon “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” è giunto una settimana fa in Commissione al Senato ed ha subito aperto il Vaso di Pandora. Si è immediatamente scatenata una opposizione esclusivamente e grettamente ideologica da parte di chi intende mantenere lo status quo, ovvero per chi sia ignaro, quello di una post famiglia (dopo lo scioglimento dell’unione padre/madre) composta dal passaggio della c.d. separazione dei genitori alla c.d. separazione daigenitori, ed ancor più correttamente quanto alla realtà, alla c.d. separazione da uno solo dei genitori. Che è nel 94% dei casi il padre, atteso che viene scelta sempre la madre come “collocataria” (termine e fattispecie inventata dalla giurisprudenza), così avendo vanificato e reso inefficace la l. 54/2006 che ha all’opposto voluto far cessare l’affido esclusivo in favore di quello condiviso. Infatti da molto tempo (almeno da 20/30 anni, ante e post 2006 nulla è cambiato) quello che si realizza di fatto e per decisione dei Tribunali è il seguente consolidato schema:

il padre deve lasciare la casa famiglia (perché?)

nella casa di famiglia rimane la donna-madre con i figli (perché?)

il padre continuerà a pagare l’eventuale quota di mutuo

il padre dovrà reperirsi un alloggio a sue spese

il padre dovrà versare il mantenimento per i figli (assegno perequativo calcolato a spanne)

il padre dovrà versare nel mantenimento per i figli anche le spese straordinarie (che sono tutto tranne che imprevedibili, perché?)

il padre perderà il contatto ed il rapporto con i figli e nell’ipotesi migliore trascorrerà con gli stessi 59 gg/anno, ossia il 16% della vita degli stessi (perché, se prima ne trascorreva il 30/40/50%?)

i genitori (e il ramo parentale) del padre perderanno il contatto ed il rapporto con i nipoti/ etc.

Questo è quello che accade e questo è quello che gli ideologi del (finto) “miglior interesse dei figli” vogliono che continui ad accadere. Una post famiglia composta da una sola regina e da un re dismesso e possibilmente allontanato. La cui regina deve continuare però a mantenere ogni privilegio: la casa ed almeno un assegno, nonchè il potere assoluto sui figli. La post famiglia dunque deve essere esclusivamente matriarcale. Il padre spettatore pagante.

La metafora. Potreste mai definire velista colui che non porta la barca - tra i venti, in mezzo al mare, sentendo l’odore del mare, stupendosi ogni giorno, certo anche nella tempesta -, non issa la vela, non poggia, non cazza, non lisca, non stramba, non regge la barra del timone, non può seguire la rotta, non può salpare l’ancora? Potreste mai definire velista solo l’armatore, ossia colui che paga il viaggio ma non partecipa al viaggio? Ebbene il velista si godrà il viaggio e le emozioni del viaggio, assumendone le decisioni, e portando la truppa dove vorrà.

L’armatore avrà pagato ed al più avrà qualche informazione a riguardo del viaggio.

Il primo veleggia, il secondo no. Il primo vive il mare. Il secondo no.

Questa è la differenza abissale ed incolmabile tra il velista/genitore collocatario ergo genitore (de facto) con affido esclusivo e armatore/genitore non collocatario.

Dunque di quale bigenitorialità vogliamo discutere? Di quella virtuale? Di quella immaginifica? Di quella raccontata fintamente? Di quella travestita da monogenitorialità?

Il diritto di famiglia fondato sulla disuguaglianza. La legge 54/2006 avrebbe dovuto già aver rivoluzionato il diritto di famiglia da tempo. Se solo la si fosse applicata. Infatti il palese ed esplicito intento della legge di 12 anni fa era di abbandonare l’affido esclusivo del minore (monogenitoriale dunque) in favore della salvaguardia della bigenitorialità. Bigenitorialità significa che entrambi i genitori devono continuare (pur dopo il dissolvimento dell’unione) a mantenere rapporti significativi e continuativi con il figlio. E per farlo uno dei due genitori non deve divenire (per volontà del giudice o per volontà dell’altro genitore) un ologramma. E l’ologramma si manifesta divenendo, da genitore presente nella vita di tutti i giorni del figlio anche seguendolo per il 30/50% del tempo, a genitore relegato a “frequentatore”/”visitatore” al 16% (w.e. alternati + 15 gg di vacanza estive) come da prassi consolidata dei tribunali. In questi 12 anni si è così consumata una aberratio legis tipica del nostro costume, ipocrita e gattopardesco: cambiato il nome, ignorata la ratio legis, il “sistema” (giurisprudenziale, fondato su quello perlomeno in parte socio-culturale ovviamente) ha sì donato formalmente l’affido condiviso a tutti o quasi (98%), relegando formalmente l’affido esclusivo solo nei casi di particolare gravità, ma sostanzialmente rimanendo sempre un affido esclusivo! Infatti come altro lo vogliamo chiamare quello in cui un genitore (nel 94% dei casi il padre, perché la mamma è sempre la mamma…) diviene “frequentatore/visitatore”, con diritto di godere del rapporto filiare solo a week end alternati (e solo da poco, anche generosamente un giorno a settimana, ovviamente dopo la scuola e sino alla cena), 15 giorni di vacanza estiva, Pasqua e Natale alternati, e telefonata programmata al pari di un carcerato? Come lo vogliamo chiamare un genitore che d’improvviso passa da una gestione equilibrata (30/40/50%) del tempo con il figlio/figli, obtorto collo al 15% come deciso dal giudice? Vogliamo continuare a chiamarlo affido condiviso solo per prenderci in giro? Questo hanno fatto quasi tutte le nostre corti di giustizia, ponendo su un piedistallo un genitore (quasi sempre la mamma) e un metro sotto (appunto, seppellendolo) l’altro genitore. Con ciò, paradossalmente, demolendo le fondamenta di una famiglia che seppure scioltasi, deve però continuare a garantire saldo il rapporto genitoriale. Per il bene dei minori, per il bene dei genitori che amano i propri figli e non ultimo per il bene della società tutta. Poiché indebolendo la cellula della famiglia si compromettono lo sviluppo emotivo, cognitivo, psicologico delle persone. E si creano soggetti disturbati, disagiati, sofferenti. Con un costo enorme di salute pubblica. Si discute della demolizione, della rimozione, della violazione di diritti inviolabili, fondamentali ex artt. 29 e 30 Cost., e art. 8 Cedu. Non di quisquillie, non di diritti reali. La discussione e la battaglia sulla bigenitorialià, come oramai ripeto da quasi un decennio, è oramai una serissima battaglia sui diritti civili. E’ la contrapposizione tra chi vuole realmente una realtà adultocentrica (con la sola mamma al centro) e chi vuole che entrambi i genitori abbiano eguali diritti e doveri dinanzi ai figli. E per farlo devono essere presenti nella vita dei figli. Chi contrasta questa uguaglianza racconta falsamente ancora oggi di una famiglia composta da un padre lavoratore indefesso che saltuariamente torna a casa e che solo raramente (e in modo rude e grezzo) si occupa dell’educazione e della cura dei figli, e di una madre che svolge l’impegnativo ruolo di casalinga e accuditrice amorevole della nutrita prole. Una cartolina dell’Italia fino agli anni ’50. La narrazione del padre minatore o camionista. Ma la società è fortemente cambiata e la gestione paritaria (amorevole e felice) nei ruoli genitoriali, nonché nell’organizzazione e nel lavoro, sono la realtà.

Il Ddl Pillon e l’Anticristo. Il senatore Pillon è diventato in queste settimane l’Anticristo, ossia il nemico escatologico del Messia, dove il Messia è rappresentato dal dogma che l’attuale assetto del diritto di famiglia italiano sia già semplicemente perfetto. Poco importa che sia invece graniticamente contrario alla bigenitorialità e fondato sull’Ancien Regime della monogenitorialità. Pillon dunque – in un oppositivo crescendo mediatico tale da ricordare l’olio di ricino e gli strumenti della propaganda fascista, quella vera, quella che disprezza con arroganza e violenza ogni altra prospettiva diversa dalla propria, raccontando l’esistenza assoluta di un’unica verità - è stato accusato di essere misogino, adultocentrico, cattolico integralista al pari dei crociati, a favore della violenza sulle donne e della pedofilia, rozzo, in conflitto d’interessi (essendo per formazione culturale anche mediatore) e chi più ne ha ne metta. E’ divenuto in un crescendo rossiniano il responsabile di tutti i mali del mondo, addirittura (pare) meritandosi una feroce satira attraverso l’imitazione di Crozza (il che a ben vedere non potrà che celebrarlo positivamente, attese le conseguenze iconiche del bravo Crozza).  I suoi sostenitori sono seguaci da abbattere ed eliminare. Citerò solo l’esempio di un’associazione (MdM) a favore della genitorialità che ad agosto ha ottenuto il patrocinio con entusiasmo (e la sala prestigiosa a Castel dell’Ovo a Napoli) per un convegno/evento che si terrà domani e che ieri ha ricevuto la revoca di detto patrocinio, su istanza di tre presunte associazioni, poiché si è azzardata l’associazione MdM a condividere il Ddl Pillon! Ideologicamente si sono subito levate le critiche feroci da più parti, soprattutto anche da noti avvocati matrimonialisti (Rimini, Bernardini De Pace, Gassani) e da varie associazioni. Scomodando argomentazioni surreali e poco pertinenti, quali “occorre affrontare caso per caso e non decidere con ciclostilati” (che è proprio quello che è avvenuto sino ad oggi! Si pensi infatti come in vari tribunali il provvedimento prestampato dell’ordinanza presidenziale indicava come genitore “collocatario” la mamma del minore). Oppure spendendo argomentazioni assurde ed inverosimili (es. “non dimentichiamoci che la violenza in famiglia è la prima causa di morte”, oggi su CorSera pag. 21), così sprofondando nella farsa: cosa c’entra il Ddl Pillon con la violenza in famiglia, che è peraltro ubiquitaria e certo non la prima causa di morte? Critiche farsesche pseudogiuridiche sono state spese da chi millanta di conoscere la materia, quali: a) esiste un divario reddituale notevole tra donna e uomo (ma che c’entra con il Ddl Pillon che si occupa del mantenimento dei figli, peraltro sempre assicurato nella sua interezza?); 2) il Ddl favorirà la violenza in famiglia, la pedofilia e gli abusi (ma che c’entra?); 3) il Ddl danneggerà le donne e i minori (ma che c’entra?); 4) il Ddl aumenterà la conflittualità (indicando gli strumenti per eliminarla?); 5) i figli non sono pacchi postali (ma il Ddl non prevede corrispondenza ma autentica condivisione); 6) il Ddl è incostituzionale (senza spiegare perché). Critiche incredibili poiché il Ddl non si occupa in alcun modo di tutto ciò. E quanto alla costituzionalità si occupa appunto invece di dare attuazione agli artt. 29 e 30 Cost.! Non è pervenuta al momento una sola critica nel merito sui principi e sugli articoli del Ddl Pillon. Ciò dimostra come il contrasto sia solo di natura ideologica ed anche politica. Una discussione squallida e meschina, occorre dirlo a voce alta. Si discute di una materia incandescente e di straordinaria importanza poiché coinvolge numeri impressionanti: qualche milione di persone, tra “separati” passati, separati attuali e separandi, coinvolgendo genitori, figli minori e non (coinvolti se vogliamo anche sino ai 26 anni quanto agli effetti del mantenimento), nonni e parenti. Un numero impressionante di persone, un problema di salute pubblica, le fondamenta stessa della società civile. Una discussione impostata con le lenti miopi di chi ideologicamente la rifiuta e la avversa nuoce gravemente alla salute di qualche milione di persone. La ammorba, la avvelena. La discussione va impostata nel merito: cosa ti piace e cosa no, spiegandone tecnicamente i perché, ma soprattutto centrando il merito non invocando aspetti che nulla attengono al decreto. Ritengo che il Ddl Pillon non sia affatto perfetto ma che sia fondato su principi assolutamente condivisibili, che devono essere salvaguardati e che per di più sono la stessa proiezione di quelli statuiti già con la l. 54/2006 sull’affidamento condiviso.

Per i pochi che l’hanno letto occorre ricordare i sacrosanti principi su cui è fondato il Ddl Pillon:

1) bigenitorialità autentica (tempi paritetici o quasi, dunque conseguentemente anche mantenimento diretto); 2) gestione immediata e ragionevole della conflittualità al fine di non trascinarla dannosamente per anni (mediazione, piano genitoriale, coordinatore genitoriale);

3) contrasto all’alienazione genitoriale, ossia uno dei fenomeni più gravi, odiosi, dannosi e impuniti.

Il Ddl Pillon vuole semplicemente garantire l’uguaglianza dei genitori dinanzi ai figli e soffocare nel minor tempo possibile la conflittualità tra i genitori.

Chi è contrario a tutto ciò lo fa per vari motivi non meglio esplicitati:

a) è a favore della disuguaglianza tra i genitori dinanzi ai figli, ritenendo un genitore più dotato e meritevole dell’altro;

b) ritiene che questa disuguaglianza sia indispensabile per continuare a garantire privilegi (casa di famiglia e assegno perequativo senza rendicontazione, potere assoluto sui figli);

c) è utile per continuare a raccontare la narrazione della donna-vittima e dell’uomo-aguzzino;

d) intende mantenere molto alta la conflittualità nel diritto di famiglia (cause lunghe, patrocini onerosissimi, consulenze infinite etc.) per motivi grettamente economici.

Occorre dire le cose come stanno, squarciando un obbrobrioso e peloso velo di ipocrisia. Entriamo finalmente nel merito del Ddl Pillon. La relazione introduttiva del Ddl è già assai chiara: “I criteri (…) sono sostanzialmente quattro: a) mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni; b) equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; c) mantenimento in forma diretta senza automatismi; d) contrasto della alienazione genitoriale.”. I principi fondamentali del Ddl devono essere pienamente condivisi, proprio perché finalmente tesi a realizzare l’autentico interesse del minore. La mediazione familiare (art. 3) è volontariamente scelta dalle parti e può essere interrotta in qualsiasi momento. L'esperimento della mediazione familiare è condizione di procedibilità della “causa” e dunque l’obbligo permane solo all’inizio. La mediazione può evitare anni di grave conflittualità tra i genitori, con effetti devastanti. Certo, sappiamo che funziona solo dove non c’è elevata conflittualità ma anche quando i contendenti vengono trattati paritariamente sin dall’inizio. E’ evidente che potrà avere un senso ed una funzione solo se affidata a mediatori straordinariamente preparati, non alla qualunque. La mediazione potrà risolvere solo una parte dei conflitti/contenziosi, ad es. un quarto o un quinto? Ebbene, si avrà un quarto o un quinto di genitori in meno che si massacreranno per anni nelle aule giudiziarie!     

Il Ddl prevede che nel caso di separazione consensuale i genitori di figli minori debbano indicare nel ricorso il piano genitoriale concordato (art. 10), il che impone di dettagliare la gestione dei figli, con la misura e la modalità con cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento diretto dei figli, sia per le spese ordinarie sia per quelle straordinarie, anche attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al proprio reddito e ai tempi di permanenza. Il piano genitoriale è il libretto di istruzioni che responsabilizza i genitori, senza farselo dettare dal tribunale. Si può non essere d’accordo? La figura del coordinatore genitoriale (art. 4) è già stata introdotta in alcuni tribunali e consente, su richiesta dei genitori, di gestire in via stragiudiziale le controversie eventualmente sorte tra i genitori relativamente all’esecuzione del piano genitoriale. Ad oggi spesso i genitori “separati” continuano a discutere sino allo sfinimento dopo la separazione, attraverso la triangolazione degli avvocati o mediante istanze defatiganti al Giudice, in una grave spirale di conflittualità. Ben venga il coordinatore genitoriale quale unico filtro laddove i genitori non siano capaci di gestirsi in autonomia. Si garantiscono tempi paritari (art. 11) qualora anche uno solo dei genitori ne faccia richiesta, con la permanenza di non meno di 12 giorni al mese (per evitare ampia discrezionalità del Giudice, allo stato esercitata nella sola formula stereotipata “w.e. alternati, Pasqua e Natale alternati e 15 gg di vacanze estive”, incurante delle diverse situazioni prospettate), compresi i pernottamenti, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio in casi tassativamente individuati. Il che giustifica il mantenimento diretto degli stessi.

Si prescrive al Giudice di intervenire in caso di alienazione genitoriale (artt. 17, 18) (ossia delle gravi condotte ostacolanti e finalizzate ad allontanare e cancellare l’altro genitore, pari a migliaia di casi ogni anno, e non della Pas, ossia della Sindrome da Alienazione Parentale, come molti disonesti o confusi intellettualmente continuano ancora a scrivere), ordinando al genitore che abbia tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; disponendo con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale o l'inversione della residenza abituale del figlio minore presso l'altro genitore ovvero il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata. Finalmente si affronta un grave fenomeno che deve essere contrastato con nettezza e non con l’impunità che ancora oggi alimenta l’alienazione genitoriale!

In conclusione. Il conflitto familiare deve essere prevenuto, immediatamente interrotto e devono essere “disarmati” i contendenti. E con regole paritarie, chiare e nette, questo avviene. Con l’ipocrisia no, con la disonestà intellettuale no, con il paraocchi ideologico no.

Chi vuole realmente l’interesse del minore si preoccupa di mettere sullo stesso piano i genitori, non di fare scivolare uno dei due verso l’abisso.

La proposta di legge sull'affido della Hunziker e della Bongiorno scatena la furia delle femministe, scrive “Libero Quotidiano”. Questa volta l'avvocato Giulia Bongiorno e la showgirl Michelle Hunziker hanno fatto infuriare tutti. Da tempo le due sono impegnate fianco a fianco nella battaglia per tutelare i diritti delle donne vittime di violenze e abusi. E a sorpresa questa volta ad attaccarle sono proprio le avvocatesse e le responsabili dei centri antiviolenza. Tutto è nato quando la Hunziker, durante una puntata del programma di Fabio Fazio Che tempo che fa, ha spiegato la sua proposta di legge elaborata con la Bongiorno per punire i genitori che impediscono al coniuge di vedere i figli dopo la separazione. Il punto contestato di questa proposta, che con la raccolta firme potrebbe diventare una legge di iniziativa popolare, è quello che introdurrebbe la Sindrome di alienazione parentale (Pas) nel sistema giuridico italiano. Secondo la Hunziker, del Pas soffrirebbero i bambini a cui viene inculcato il disprezzo verso uno dei due genitori, spesso il padre; a causa di questa manipolazione i figli si rifiuterebbero si passare del tempo con il genitore incriminato, condizionando la propria crescita psicologica. Peccato però che questa sindrome non abbia nessuna valenza scientifica e che non sia mai stata confermata. Così dopo la puntata le avvocatesse dei centri anti violenza hanno inviato una lettera alla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, per protestare della visibilità che ha avuto la proposta della Bongiorno. Da anni questi centri ribadiscono che questa “sindrome inesistente” sia stata inventata proprio dai mariti violenti per riuscire a strappare i figli alle madri durante le battaglie giudiziarie. I cori di protesta sono stati così forti da spingere la Hunziker e la Bongiorno a rispondere con una lettera: “Questa proposta non ha alcuna pretesa di normativizzare la “PAS” intesa come malattia. Non si tratta, quindi, di superare i dubbi scientifici con una proposta di legge, ma di tener conto di un allarmante fenomeno sociale che richiede attenzione da parte del legislatore”.

Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno scatenano un putiferio. Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno scatenano un putiferio con la proposta di legge che vorrebbe in carcere il genitore che denigra l'ex davanti ai figli, scrive Mariangela Campo. Proteste, manifestazioni, appelli, polemiche: ecco quello che si è scatenato sul web e fuori dal web a causa delle parole di Michelle Hunziker intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa venerdì 10 maggio 2015. La Hunziker ha parlato della proposta di legge presentata dall’avvocato Giulia Bongiorno – con la quale ha ideato Doppia Difesa, fondazione che ha l’obiettivo di aiutare le vittime di abusi, violenze e discriminazioni ad uscire dal silenzio – che vorrebbe punire con il carcere il genitore che si macchia della colpa di denigrare l’ex davanti ai figli. In sostanza, secondo la Hunziker e la Bongiorno, se un genitore mette i figli contro l’altro, parlandone male e facendoglielo odiare, nei figli si scatena la temutissima PAS: la sindrome di alienazione parentale per cui il bambino non vorrà più vederlo. Il genitore che fa una cosa del genere, secondo le due donne fondatrici di Doppia Difesa, dovrebbe finire in carcere. Ed è a questo punto che è scoppiata la polemica, multimediale e non: alcuni professionisti hanno gridato alla “bufala”, dichiarando che la PAS non esiste, che non è una sindrome. C’è chi sostiene che – mettendo da parte la PAS – anche se uno dei due genitori effettivamente denigra l’altro, sarebbe una cosa orribile che finisse in prigione: immaginate una madre (o un padre) che parlano male dell’altro al proprio figlio. Questa madre (o questo padre) finisce in galera per questo. Il bambino finirà in una comunità, perché molto probabilmente lui e la madre (o il padre) erano stati abbandonati: così, con la mamma in carcere e il padre non rintracciabile (o viceversa), la vita del bambino sarebbe migliore? Dopo la puntata di Che tempo che fa e le polemiche che ne sono seguite, la Bongiorno ha cercato di mettersi al riparo: «Vorremmo che fosse chiaro dal punto di vista giuridico quel reato che oggi non ha un nome e che sta nella terra di nessuno fra la diffamazione e i maltrattamenti. Mi spiego: se un genitore prende il proprio figlio e scappa, il reato è sottrazione di minore; se usa la violenza fisica o psicologica parliamo di maltrattamenti. E se invece influisce sul bambino continuando ad autopromuoversi e a denigrare senza ritegno l’altro genitore? E se per dieci volte di fila trova una scusa per non far vedere il figlio all’altro? Come li chiamiamo questi atteggiamenti? Come facciamo a punire tutto questo ammesso che si riesca a dimostrarlo? Ecco, questo per noi è un abuso di relazione familiare o di affido. E credo che se fosse un reato, con la sua punibilità sarebbe anche un deterrente per i tanti, troppi genitori che lo commettono. Chi si occupa di questioni familiari, come me, lo sa bene che le cose vanno così spessissimo. Poi, certo, tutto è perfettibile. Ma io dico: parliamone, sediamoci attorno a un tavolo e discutiamo di ogni virgola. La sola cosa sulla quale non si può discutere è la violenza: per me non esistono forme di violenza private. La violenza riguarda tutti, anche se è una violenza psicologica di un padre o di una madre nei confronti del proprio figlio. E parlo di padre e madre non a caso, qui non è questione di genere. Non ho l’ansia da reato, semmai quella di punire condotte che non sono punite. Anche con la legge sullo stalking mi dicevano: sono fatti privati, come facciamo a metterci il naso? Mi criticarono ferocemente anche allora, dissero che volevo perseguitare i fidanzati, che ce l’avevo con il corteggiatore che mandava le rose… Si è visto com’è finita».

Affido, i danni del monopolio delle madri, scrive Eretica Whitebread su “Il Garantista". Da qualche giorno Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno, fondatrici della associazione Doppia Difesa, sono diventate il bersaglio di alcune donne che non approvano la presentazione di una proposta di legge di questo tipo: «È punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, nell’ambito delle relazioni familiari o di affido, compiendo sul minore infraquattordicenne ripetute attività denigratorie ai danni del genitore ovvero limitandone con altri artifizi i regolari contatti con il medesimo minore, intenzionalmente impedisce l’esercizio della potestà genitoriale». E ancora: «Se il fatto è commesso con violenza o minaccia reiterata, si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni. Se dal fatto deriva una rilevante modificazione dell’equilibrio psichico del minore, le pene sono aumentate». Michelle Hunziker, in una puntata della trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa”, riferendosi alla proposta di legge, parla espressamente di Pas, sindrome di alienazione genitoriale, che viene considerata “scienza spazzatura” ed è tema di grandi conflitti volti a consolidarne o annullarne la validità scientifica. Negli ultimi anni, psicologi e altre professionalità che si occupano di separazioni e affido dei minori, parlano però solo di ”alienazione parentale” che verrebbe intesa non come sindrome ma piuttosto come violenza psicologica e maltrattamento nei confronti dei minori. C’è da dire che chi si oppone alla Pas, fin dai tempi della approvazione della legge 54/2006 sull’affido condiviso, non accetta neppure che si parli di bigenitorialità. Che, per qualcuno, sarebbe una maniera “per alimentare la violenza sulle donne”. Ogni proposta che riguarda l’affido condiviso viene avversata e considerata un attentato al sacro legame madre/figlio. La Pas diventa così un pretesto per mettere in cattiva luce un punto di vista a partire dal quale si ritiene che padri e madri genitori abbiano eguali diritti e doveri. La discussione sulla Pas, formula autoritaria tanto quanto l’istituzione di un reato contro alcuni comportamenti, è però molto poco chiara e quel che viene diffuso da chi vi si oppone è puro terrorismo psicologico. Per spiegare quel che è la Pas, si delegittima il creatore, Gardner, che la utilizzò nei tribunali, per aggirare il rifiuto del bambino quando si trovava di fronte a un genitore accusato di abusi. Da lì in poi la Pas diventa una difesa per i pedofili: chi ne parla difende i pedofili, i padri che la oppongono come strategia processuale per ottenere l’affido condiviso sono pedofili. Partendo da questo tipo di ragionamenti, che annullano la complessità e precludono ogni tipo di approfondimento, capirete con quali argomentazioni procede la discussione in questi giorni. Quel che non si spiega è che, sebbene la Pas sia da bocciare, esiste un problema che riguarda gli affidi e i nuovi modelli maschili di genitorialità. I padri non sono più quelli di una volta e chiedono di potersi occupare dei figli tanto quanto le madri. Chi si oppone all’affido condiviso punta sull’esaltazione del ruolo materno, sulla inscindibile relazione madre/figlio, su una innata propensione alla cura che non può essere ripagata con la sottrazione di doveri e responsabilità da assegnare pari merito al padre. In questa faccenda si incrociano perciò persone con pregiudizi tipici di chi crede nella sacralità della famiglia, e non approva le unioni gay e tantomeno le adozioni per i gay, perché i figli devono stare solo con le madri. L’altro contesto alleato è quello di femministe che combattono contro la violenza sulle donne. Ci sono stati uomini che hanno usato l’affido condiviso per restare in contatto con l’ex moglie maltrattata. È capitato che l’obbligo di visita da parte del padre abbia portato all’omicidio del figlio conteso. Ma è capitato, anche, che quel figlio conteso l’abbia ammazzato la madre. Da lì a generalizzare e a immaginare un complotto mondiale di uomini violenti contro le madri il passo è breve. Il pensiero ricorrente è infatti questo: se un padre è violento sono tutti violenti. Se una madre è violenta lo è solo per reazione a grandi livelli di oppressione sistemica e patriarcale. I padri sono stronzi e le madri sante. La separazione non può che risolversi con l’affido prevalente alla madre e i padri possono sbattersi quanto vogliono, ma giammai otterranno quel privilegio genitoriale che le madri hanno conquistato con il sangue. E se vogliamo aggiungere altre zone epiche a quelle già narrate bisogna dire soprattutto che le persone che si oppongono alla proposta di Hunziker/Bongiorno sono le stesse che immaginano di poter sottrarre tutti i diritti civili ai padri che dovranno essere banditi dalla vita dei figli non appena la ex moglie produrrà un’accusa. Le persone contrarie all’affido condiviso sono garantiste quando si parla di attribuzione di reati che potrebbero riguardare le donne, e diventano improvvisamente forcaiole quando si tratta di mettere in galera un uomo che non è stato neppure processato. A questo punto la retorica pro/madri si muove in una zona che attraversa stereotipi e pregiudizi sessisti. Perché un uomo accusato non dovrebbe poter vedere ancora il figlio? Perché un uomo è colpevole a prescindere e il solo fatto che una donna lo dichiari lo dimostra. Perché un uomo che, per esempio, è stato processato e assolto non dovrebbe poter vedere il figlio? Perché anche se è stato assolto sicuramente il giudice ha sbagliato. In quel caso potrete vedere una madre che indossa l’abito da martire mentre pensa di compiere una sacra crociata in difesa del bambino. Negli anni, mentre questo dibattito riempiva molte pagine del web, di cose sbagliate ce ne sono state tante. Alcuni uomini, sessisti, hanno usato la causa dei padri per sputare fango contro le donne. Alcune persone hanno perciò offerto alle madri un pretesto per poter produrre una generalizzazione a tutti i costi. I padri che chiedono l’affido condiviso dunque sono violenti, e se in compagnia di nuove compagne a costoro sono dedicati epiteti altrettanto gentili: sterili, zoccole, ladre dei figli altrui, zitelle che si sono accontentate degli scarti delle sante donne, e via di questo passo. Potete immaginare quale sia oggi il livello della discussione su Hunziker e Bongiorno. Accanto a chi esprime un parere argomentato, c’è chi insulta. Hanno insultato me che ho dedicato tempo a discutere con i padri andando oltre le demonizzazioni, e insultano chiunque non sia allineat@. Le polimiche sono andate avanti, nonostante la diffusione di un comunicato nel quale Hunziker e Bongiorno scrivono che «in particolare, ci ha colpito il dibattito, del tutto fuorviante, che si è aperto sulla Pas. Questa proposta non ha alcuna pretesa di normativizzare la “PAS” intesa come malattia. Non si tratta, quindi, di superare i dubbi scientifici con una proposta di legge, ma di tener conto di un allarmante fenomeno sociale che richiede attenzione da parte del legislatore». L’avvocato e l’attrice sottolineano che «il reato che chiediamo di introdurre sanzionerebbe cioè azioni ben modellate (ripetute attività denigratorie ai danni del genitore; indebita limitazione dei regolari contatti con il genitore mediante altri artifici), sempre che sia intenzionalmente impedita la piena espressione della responsabilità genitoriale. È lampante come oggi simili comportamenti rischierebbero di sfuggire alla repressione penale: non ricadono infatti all’interno dei maltrattamenti in famiglia né all’interno della sottrazione di minori». Il tono del “confronto” si può così sintetizzare. Della Bongiorno si scrive che avrebbe difeso persone discutibili. Alla Hunziker si dice che sarebbe: da “denunciare” (detto da chi avversa la proposta di reato per l’AP ma non disdegna di considerare un reato l’opinione della Hunziker); una che deve tornare a fare la show girl; una che «si qualifica da sé per la pubblicità degli slip Roberta». Alla divisione tra le opinioniste perbene e quelle per male si oppongono madri che cercano di spiegare che la storia del condizionamento e dell’istigazione all’odio da parte di un genitore che mette il figlio contro l’altra, riguarda anche le donne. Allora le anti/pas le mettono a tacere tacciandole di maschilismo. Come la giri e la giri, insomma, hanno sempre ragione loro. Da parte mia la più totale solidarietà a Giulia Bongiorno e a Michelle Hunziker per la gogna perenne che stanno subendo.

Sul reato di alienazione genitoriale e la proposta Hunziker-Bongiorno, scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. “Vedrai che non ti faccio più vedere il figlio!”. Molte delle separazioni che segnano la fine di una relazione sentimentale, si concludono così. Molte e da molto tempo. Insegnano ai convegni gli studiosi del fenomeno, sin dalle origini, che l’alienazione del rapporto genitore-figlio e dunque del figlio al genitore e specularmente del genitore al figlio, sino a qualche decennio fa, venisse spesso realizzata dagli uomini in danno delle donne. Poi il fenomeno si è ribaltato ed oramai è di dominio pressoché delle donne-madri. In passato forse gli uomini tendevano ad esercitare un potere, intendendo affermare un arcaico maschilismo. Da decenni invece le donne hanno invertito il trend, implicitamente rivendicando rigurgiti di parità. Allora quanto oggi l’alienazione di un figlio in danno di uno dei genitori è non sbagliata e grave. Grave perché va ad incrinare, spesso demolire, almeno due diritti fondamentali quali quelli della bigenitorialità e della genitorialità (entrambi coperti costituzionalmente dagli artt. 2, 29, 30 Cost.). L’alienazione annulla, disintegra, svuota, disorienta, eviscera un essere umano. E ne scrivo non per sentito dire ma perché anni fa l’ho personalmente vissuta e da tempo seguo casi di alienazione. La proposta Hunziker-Bongiorno è chiara, chiedendo l’introduzione nel Codice Penale dell’art. 572 bis ((Abuso delle relazioni familiari o di affido): “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, nell’ambito delle relazioni familiari o di affido, compiendo sul minore infraquattordicenne ripetute attività denigratorie ai danni del genitore ovvero limitandone con altri artifizi i regolari contatti con il medesimo minore, intenzionalmente impedisce l’esercizio della potestà genitoriale. Se il fatto è commesso con violenza o minaccia reiterata, si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni. Se dal fatto deriva una rilevante modificazione dell’equilibrio psichico del minore, le pene sono aumentate. Le pene sono aumentate da un terzo alla metà, se il fatto di cui ai commi precedenti riguarda un minore di anni dieci o con disabilità ai sensi dell ’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.” La proposta ha scatenato subito una guerra santa tra negazionisti e non. C’è chi ha richiamato a sproposito la Cassazione e Richard Gardner, studioso della PAS, legittimando il proprio sdegno col richiamo tombale del manuale sui disturbi comportamentali DSM che non darebbe piena valenza alla PAS. S’impone chiarezza scientifica su un dibattito che è di straordinaria importanza poiché può coinvolgere milioni di italiani (il 45% delle coppie si separa e ciò interessa ogni volta almeno 3/7 soggetti tra genitori, figli e nonni). Il riconoscimento scientifico della PAS è solo parte del problema poiché l’alienazione non sempre si manifesta in una vera e propria sindrome patologica. Possono contrastare l’insorgenza della PAS sia la resilienza del minore, sia la durata dell’alienazione, che altri fattori. Tuttavia l’alienazione se reiterata e durevole può risultare devastante, tanto per il minore quanto per il genitore (si pensi a un genitore che non riesca a vedere il figlio o ad avare rapporti equilibrati e continuativi con lo stesso per mesi). Nel manuale DSM-5 l’alienazione è comunque oggetto di attenzione poichè quanto ai “Problemi correlati all’allevamento dei figli” [V61.20 (Z62.820) Problema relazionale genitore-bambino] è scritto che “Tipicamente, il problema relazionale genitore-bambino viene associato a una compromissione del funzionamento in ambito comportamentale, cognitivo o affettivo. Esempi di problemi comportamentali comprendono inadeguato controllo genitoriale, supervisione e coinvolgimento del bambino; iperprotezione genitoriale; eccessiva pressione genitoriale; discussioni che possono sfociare in minacce di violenza fisica ed evitamento senza soluzione di problemi. Problemi cognitivi possono comprendere attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri o rendere gli altri capro espiatorio, e sentimenti non giustificati di alienazione. Problemi affettivi possono comprendere sensazioni di tristezza, apatia o rabbia verso gli altri individui nelle relazioni. I clinici dovrebbero tenere in considerazione le necessità di sviluppo del bambino e il contesto culturale”. Non è vero che la giurisprudenza abbia stroncato l’alienazione genitoriale. Infatti prestano attenzione alle gravissime conseguenze tanto quella di merito (Trib. Alessandria, sent. n. 318/1999 in un caso di alienazione realizzata dall’uomo-padre; Trib. Matera 11.2.10 in un caso di alienazione realizzata dalla donna-madre) che quella di legittimità (Cass. n. 5847/2013). E’ invece critica sempre la Cassazione (Cass. n. 7041/2013) laddove debba dare ingresso alla Pas in assenza di chiarezza del manuale DSM-4. Il Papa, unica autorità morale mondiale, si è così di recente speso: “È ancora più difficile per i genitori separati che sono appesantiti da questa condizione; poverini hanno avuto difficoltà, si sono separati e tante volte il figlio è preso come ostaggio: il papà gli parla male della mamma e la mamma gli parla male del papà, e si fa tanto male. Dirò a voi che vivete matrimoni separati: mai, mai, mai, prendere il figlio come ostaggio, voi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma che i figli non siano quelli che portano il peso di questa separazione. Che i figli non siano usati come ostaggi contro l’altro coniuge, che i figli crescano sentendo che la mamma parla bene del papà anche se non sono più insieme, e che papà parla bene della mamma; questo è molto importante e molto difficile, ma potete farcela”. L’alienazione parentale riassume in sé un nodo cruciale del diritto di famiglia: non affrontarlo significa legittimare (e armare) chi usa un fallimento sentimentale per compiere gravi illeciti, contando sulla impunità. E’ invece necessario disarmare entrambi i contendenti e ristabilire equilibrio e tutela di diritti fondamentali. Per il bene di tutti. Soprattutto dei minori.

PARLIAMO DI CONFLITTI GENITORIALI.

LA GUERRA TRA POVERI. L’URLO DEI PADRI E DELLE MADRI IN CERCA DI GIUSTIZIA. IN FAMIGLIA QUANDO C’E’ POVERTA’ O SEPARAZIONE? ARRIVANO I MOSTRI!

NUOVO ASSEGNO DOPO IL DIVORZIO, DOPO LE SENTENZE ARRIVA LA LEGGE. Stop al mantenimento, sì solo ai soldi necessari ma dopo la valutazione di entrambi i redditi. Ecco la proposta di legge contro i mantenuti, scrive la Redazione di Tiscali il 23 ottobre 2017. Il comico di Zelig, Marco Della Noce, è solo l’ultimo di una schiera infinita: padri che si risvegliano poveri all’indomani di una separazione e di un divorzio che ha tutelato solo moglie e figli. Il tutto in nome di un principio: quello della salvaguardia del tenore di vita del coniuge di un tempo che dovrebbe restare inalterato come ai tempi in cui il matrimonio andava a gonfie vele. Un principio messo in crisi da una sentenza della Cassazione che, a maggio scorso, s’era pronunciata per la prima volta contro gli assegni milionari sostenendo che il mantenimento mensile non deve garantire all’ex moglie lo status precedente. Il pronunciamento riguardava il divorzio dell’ex ministro Vittorio Grilli nei confronti della prima moglie Lisa Lowenstein, e ha dato speranze a migliaia di divorziati che aspettano di rinegoziare gli alimenti da versare all’ex coniuge.

Il matrimonio non è un business. Per non lasciare che siano le sentenze a fare giurisprudenza in assenza di opportune normativa, Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione giustizia alla Camera, ha deciso di presentare una nuova legge che modifica l’articolo 5 della normativa del 1970, che stabilisce l’obbligo di mantenimento per l’ex coniuge quando quest’ultimo non abbia «mezzi adeguati». «L’obiettivo - spiega la Ferranti al Corriere della Sera - è evitare abusi, che cioè si utilizzi un divorzio per conseguire finalità di arricchimento personale a spese dell’altro». L’idea è che in famiglia si dovrebbe lavorare in due e un matrimonio non è un business. In caso di separazione, quindi diritti e doveri vanno ripartiti.

Stop agli assegni record. «In base alla nuova interpretazione - precisa Ferranti - l’ex coniuge che non percepisca quanto è strettamente necessario per vivere può pretendere solo gli alimenti senza che si possa fare alcun riferimento al rapporto matrimoniale ormai estinto». Secondo la proposta Ferranti il tribunale dovrà fissare l’assegno di mantenimento tenendo conto di una serie di condizioni: dalle «condizioni economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio», al «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune». Dal «reddito di entrambi» alla «mancanza di un’adeguata formazione professionale quale conseguenza dell’adempimento di doveri coniugali». Si vuole così mettere fine dall’automatismo separazione-mantenimento che la legge degli anni ‘70 prescriveva ai mariti. E che ancora oggi è motore di molti assegni record, fra i quali quello di Silvio Berlusconi all’ex moglie, Veronica Lario (2 milioni).

Limiti temporali. Un altro cambiamento sarà quello relativo alla durata dell’aiuto economico prevedendone una limitazione temporale che tenga conto della durata del matrimonio». Ferranti e il suo collega Walter Verini si auspicano una larga condivisione della loro proposta in commissione per arrivare presto alla procedura legislativa e a un’approvazione in tempi record.

Il divorzio non sarà più un vitalizio (ma la separazione potrebbe esserlo), scrive Marcello Adriano Mazzola l'11 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Con la sentenza della Cassazione, sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 (Pres. Di Palma, Rel. Lamorgese) pare sia finita un’epoca. L’epoca in cui il matrimonio assicurava una rendita vitalizia. Dopo la separazione o dopo il divorzio, orientando l’assegno di mantenimento (che in passato veniva riconosciuto anche ben oltre il 60% dei casi alle mogli, oltre spesso anche alla casa familiare se in presenza di prole) verso il tenore di vita goduto e verso le capacità reddituali dell’uomo. Uomo che, ovviamente secondo l’arcaica visione, avrebbe dovuto costantemente “andare a caccia” e sfamare l’intero nucleo familiare, mentre la donna avrebbe dovuto “curare il nido e i figli”. Si può dire, nella specie, come i supremi giudici abbiano preso “grilli per lanterne”. Non lucciole ma grilli. E come questi gli abbiano consentito non di equivocare ma finalmente anzi di far luce, all’interno di posizioni conservatrici e miopi, secondo cui lo stereotipo arcaico perdurava, impermeabile alla realtà. Potrei raccontare di tantissimi casi di uomini separati, destinati a versare sostanziosi assegni di mantenimento, anche ben oltre la metà del proprio reddito. Per anni, per decenni. Privati pure della casa. E della dignità. Perché senza un reddito, difficilmente si può sorreggere la dignità, e dunque l’identità stessa. Ma l’uomo si sa, non fa tenerezza. Ed ecco che i supremi giudici finalmente scoprono che “Una volta sciolto il matrimonio (…) il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.)” e che “il diritto all’assegno di divorzio (…) è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di «mezzi adeguati» dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso «di procurarseli per ragioni oggettive». I supremi giudici dettano dunque per il divorzio (e attenzione, non per la separazione) il “principio di “autoresponsabilità””, “secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo” e “Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”. La natura assistenziale dell’assegno di divorzio non viene meno ma “se il diritto all’assegno di divorzio è riconosciuto alla “persona” dell’ex coniuge nella fase dell’an debeatur, l’assegno è “determinato” esclusivamente nella successiva fase del quantum debeatur, non “in ragione” del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì “in considerazione” di esso nel corso di tale seconda fase. E pertanto “Deve, peraltro, sottolinearsi che il carattere condizionato del diritto all’assegno di divorzio – comportando ovviamente la sua negazione in presenza di «mezzi adeguati» dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità «di procurarseli», vale a dire della “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso – comporta altresì che, in carenza di ragioni di «solidarietà economica», l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione (arricchimento, ndr) illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto sulla “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra «solidarietà economica» ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull’esistenza, o no, delle condizioni del diritto all’assegno, nella fase dell’an debeatur (…) non di rado è dato rilevare nei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l’assegno di divorzio una indebita commistione tra le due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti”. Dunque, dinanzi al divorzio il giudice deve distinguere tra il prima e il dopo e non valutare il dopo sulla base del prima. Pertanto occorre distinguere tra “due ipotesi: 

1) se l’ex coniuge richiedente l’assegno possiede «mezzi adeguati» o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 

2)se, invece, lo stesso dimostra di non possedere «mezzi adeguati» e prova anche che «non può procurarseli per ragioni oggettive», il diritto deve essergli riconosciuto”.

Va dunque in soffitta “il parametro di riferimento (…) costantemente individuato da questa Corte nel «tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio» (così la sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, pag. 24)”, addirittura precisando ora che “A) Il parametro del «tenore di vita» (…) collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio”, però attenzione “a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali” ancorati ancora “alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto”. Meglio tardi che mai.

La guerra tra poveri dei genitori separati, scrive Eretica il 5 aprile 2014 su "Il Fatto Quotidiano". I figli, in questo momento storico, non è solo complicato farli. Complicato è perfino crescerli quando li hai già messi al mondo. Dice l’ultimo rapporto della Caritas che i genitori separati sono poveri. Uomini e donne lo sono in egual misura. Si può passare il tempo a raccontare questa povertà facendosene scudo per rivendicazioni d’ogni genere. Si può attribuirla alla cattiveria di uomini o donne ma, di fatto, se guardi la faccenda con un po’ di obiettività, risulta facile capire come sia ovvio che se si è già poveri restando insieme, lo si è ancora di più separando beni, risorse, aria, mattoni, finanche la disperazione. A raccontare mediaticamente questa povertà furono i padri, spiegandola dal loro verso e avendo chiaro che non è dalle madri che possono attingere risorse. Perciò si rivolsero alle istituzioni per un reddito e alcune abitazioni. Lo fecero talvolta in una maniera odiosa, alimentando un pregiudizio contro donne e stranieri, ritenuti responsabili della mancanza di reddito e opportunità. Alle loro richieste, d’altro canto, le varie rappresentanze dei diritti delle donne rispondevano negando il problema e dicendo solo “no”. Lei è precaria, lui ha uno stipendio di 1.200 euro e se molla la casa, se aiuta a pagare il mutuo e dà il mantenimento per il figlio, poi non saprà dove sbattere la testa. Non può darti un mantenimento che corrisponde al vostro precedente tenore di vita perché quel tenore di vita non esiste più. Non vuole sottrarsi alle sue responsabilità, altrimenti non starebbe lì a negoziare, ma almeno vedere di più il bambino? Risposta: “No”. Dovete dividere fifty fifty le spese mediche, scolastiche, extra, perciò si può sapere preventivamente come saranno spesi quei soldi? Si può decidere insieme cosa comprare in base alle risorse a disposizione di ciascuno? No. Se lui compra qualcosa per il bimbo in quella giornata che starà con lui, poi può decurtare quei soldi dalla spesa complessiva che deve alla madre? Chiaramente no.  Si chiede l’affido condiviso, in base alla legge 54/2006, ma non quella presa in giro in cui il figlio resta sempre da lei che glielo fa vedere ogni 15 giorni. Insomma, no.  Vorrebbe, lui, che il figlio dormisse a casa sua, perché è uno di quegli uomini che non delegano tutto, quel figlio l’ha lavato, cambiato, l’ha nutrito, l’ha cullato tanto quanto lei e per lui è un lutto non vederlo. Vorrebbe fare parte della sua vita perché ha paura che si perdano. Invece no. Succede allora che a dibattere di questi temi siano solitamente persone un minimo esasperate e dalle posizioni alquanto rigide. I figli devono crescere solo con le madri, in concessione d’uso limitato ai padri, se si comportano più che bene, e questo è quanto dicono quelli che sostengono che le difficoltà paterne siano tutte scuse. I padri avanzano richieste, proposte, condivisibili o meno, bussano alla porta di chiunque li accolga, snobbati da una certa sinistra che vive la questione in una maniera un po’ appiattita su ragioni filo cattoliche conservatrici. I figli stanno con le madri e punto. Il resto neppure si discute. Si rifiuta di considerare quest’altro genitore come una risorsa, colui che dà una mano a crescere il figlio mentre tu fai mille altre cose, incluso lavorare, se ne hai l’occasione. Eppure dicevamo di essere stanche di crescere i figli da sole. Ecco allora la voce sullo sfondo che avanza sospetti e genera il terrore per cui le donne non dovranno mai perdere il privilegio di vedersi delegare tutti i ruoli di cura. E allora la violenza sulle donne?  Ovvero si avanza l’idea generalizzata per cui si ritiene che ogni padre che vorrebbe fortemente stare con il figlio in realtà sia violento. Esistono, per carità, quelli che approfittano del diritto di vedere i figli per continuare a molestare anche la madre. Perciò in alcune proposte di legge si specifica, e si può dire ancora meglio o si può proporre altro, che il minore non si affidi alla persona violenta. La voce in controcampo non contempla comunque mai il caso in cui sia lei poco adatta a crescere un figlio. Il presupposto è sempre che i figli non bisogna farli vedere a un genitore già a partire dall’accusa. E la presunzione di innocenza? I tre gradi di giudizio? Non contano. Perciò c’è chi fa le barricate affinché i figli restino sempre con le madri perché, nel dubbio, le donne sarebbero a prescindere un rifugio sicuro, mai violento, ottimo per l’equilibrio e la crescita di tutti i bambini.  Così si torna alla questione economica. Vista la cultura del sospetto e il contesto culturale, in caso di separazione, si parlerà più spesso di collocazione prevalente dalla madre. A lei sarà assegnata la casa, quando c’è, e i soldi di mantenimento per i figli. L’accordo in genere si sottoscrive confidando che tutto rimarrà uguale, non ci saranno tensioni, irrigidimenti, perdita del lavoro. Poi però, quell’accordo non potrai cambiarlo in un batter d’occhio. Servono udienze in tribunale, procedimenti lunghi e complicati. Tu firmi oggi per dare 350 euro a tuo figlio ma se tra un anno non li avrai più, se non trovi comprensione, finisce che ti pignorano l’auto, i respiri e quel poco che ti resta. È una guerra tra poveri, dove, tenendo conto di reciproche negligenze e irresponsabilità, l’uno non vuol sentire le ragioni dell’altro. Dove ciascuno addebita all’altro la propria povertà. Entrambi precari, a rinfacciarsi l’impossibile finché di cattiveria in cattiveria non si riesce a venirne a capo. Non si capisce che è in quel caso che bisognerebbe parlare di solidarietà reciproca, lotta comune, contro un nemico comune, perché non sono le femministe che hanno condotto gli umani in povertà e i padri dovrebbero supportare le donne nella richiesta di reddito, casa e autonomia economica per tutti. Infine, sapendo che il tema trattato è oggetto di una guerra di religione, sperando perciò di poter liberamente manifestare una opinione laica, sarei curiosa di sapere che ne pensate a tal proposito: domani accadrà che una coppia gay o lesbica si separerà. La questione dell’affido riguarderà anche loro. Potranno condividere l’affido, vedere i figli in maniera equa, mettersi d’accordo per contribuire alle spese senza alcun problema? E come la mettiamo con chi dice che i figli devono restare solo con le madri? E con quegli altri che dicono che i figli devono crescere necessariamente in presenza di un padre? Se tutti quanti voi non tenete conto del fatto che si è genitori allo stesso modo, a prescindere dal vostro genere di appartenenza, come potete pretendere che la società lasci cadere ogni pregiudizio e capisca che entrambe le figure genitoriali, nella relazione e nel ruolo di cura, si equivalgono e sono interscambiabili? 

Padri separati, quelle iene delle ex mogli, scrive Alessandra Faiella il 12 maggio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". La misoginia sta tornando di moda: alle Iene, un tempo programma “progressista” e politicamente corretto, nella puntata del 5 maggio, un’associazione di padri separati accusa le ex mogli delle peggiori nefandezze, prima fra tutte quella di ridurli sul lastrico (anche se la Caritas attesta che le vittime della povertà sono soprattutto donne single e uomini sì, ma extracomunitari). I padri separati, alle Iene, negano tutte le statistiche sulle molestie pedofile, da parte dei padri separati, e sulle violenze contro le ex mogli. Tutto falso, tutte menzogne suggerite dal “club delle prime mogli”. La generalizzazione contro tutte le ex, e di conseguenza contro tutto il genere femminile è evidente, l’odio misogino è palpabile. Del resto, adesso Le Iene è presentato da Teo Mammuccari, conduttore da sempre simpatico come un avviso di sfratto, noto per la sua solidarietà con il genere femminile: le ragazze seminude che posizionava sotto tavoli di vetro, già pronte in posizione “fellatio”, ne sono state fulgido esempio. Che esistano ex mogli perfide e vampire succhiatrici di sangue siamo tutti d’accordo. Io non ne conosco, ma sicuramente esistono. Io conosco una valanga di ex mogli disperate che non ricevono un euro dal loro ex marito, ex marito quasi sempre più ricco di loro, che spesso intraprende lotte all’ultimo sangue a suon di avvocati. Nonostante questo, cioè il fatto che io non ne conosca, sono certa che esistano ex mogli stronze. Che le ingiustizie, o meglio i reati, ai danni delle ex mogli siano un falso, questo invece non lo credo. L’odio misogino è di moda. Non solo alle Iene. Qualcuno, in Italia, sta arrivando a negare che la violenza contro le donne sia un’esagerazione, forse anche una menzogna. I dati Istat parlano chiaro, un femminicidio ogni tre giorni in Italia. Ma sono tutte balle, si sa, anche l’Olocausto non è mai esistito, è un delirio inventato dalle sette ebraiche assetate di potere. In questi giorni è accaduto anche che su Amazon, dopo le proteste, hanno ritirato dal commercio un manichino-zombie, con fattezze femminili. Bisogna puntualizzare che sono in catalogo anche zombie maschi, solo che questi sembrano davvero dei “non -morti” con tanto di facce cadaveriche, capelli unti e vestiti strappati: sembrano Dario Argento un po’ meno impressionante. Invece i manichini donna sono molto più realistici e somiglianti a donne vere con tanto di capelli fluenti e seno prosperoso. Bene, ma che cosa se ne fanno di questo manichino? Perché lo comprano? Semplice: per sparargli addosso e quando gli spari il fantoccio realisticamente sanguina. Guarda caso il manichino-donna, viene subito soprannominato “The ex”. Fantastico! “Beh – ha obiettato qualcuno – ma all’origine non si chiamava “The ex”, era solo un manichino su cui sparare”. Ma certo che c’è di male? Alla mattina quando non sai che cazzo fare ti alzi e scarichi la tua Uzi su un manichino femmina così realistico che si mette a sanguinare. Se poi ti immagini che sia la tua ex, lo sfogo è completo. Tutto normale, che c’è di strano?

La misoginia impazza. Le femministe hanno rotto le palle, e con loro tutto il genere femminile, che tornino nel tinello dedite al culto del Fornet. Le donne stressano, troppa libertà le sta rovinando, adesso si permettono anche di guadagnare più dei mariti e pure di lasciarli quando non li amano più. Vergogna! Se poi qualcuno per vendetta spara a un manichino è il minimo, e se spara alla ex in carne ed ossa, beh, il passo è breve. Alcuni uomini, pochini a dire il vero, cominciano ad interrogarsi se non ci sia qualche seme di psicopatologia nel genere maschile. Gli altri tacciono, continuando tranquilli a tagliarsi le unghie dei piedi col tronchesino davanti alla tv, sfregiando con i monconi di unghia volanti, le piante del salotto. Se in Italia venisse ucciso un maschio ogni tre giorni, se un uomo su tre tra i 16 e i 70 anni fosse stato vittima nella sua vita dell’aggressione di una donna, se 6 milioni 743 mila uomini avessero subito violenza fisica e sessuale da parte di donne, come dicono gli ultimi dati Istat (a proposito del genere femminile ovviamente), se quasi 700mila uomini, avessero subito violenze ripetute dalla partner e nel 62,4% dei casi i figli avessero assistito a uno o più episodi di violenza; se, continuamente, gli uomini fossero vittime di molestie, stalking, palpeggiamenti vari, se tutto questo fosse per assurdo la condizione maschile in Italia, succederebbe il finimondo. Giornali, tv pubbliche e private, riviste, blog e social network, tutti urlerebbero (giustamente) allo scandalo. Bruno Vespa godrebbe come un porco davanti ad un plastico nuovo di zecca, come non gli capita dai tempi di Cogne; persino il Papa scenderebbe in piazza con la kefiah (non so perché ma me lo vedo così). Le donne stesse si martirizzerebbero, anche quelle innocenti espierebbero i loro sensi di colpa con un surplus di lavori domestici, si prenderebbero a schiaffi da sole, andrebbero in massa a messa o a fare terapia di gruppo, infine si darebbero allo shopping compulsivo, ma quello già lo fanno. Se…Invece la questione continua a riguardare la violenza sulle donne da parte di uomini, una violenza di massa di segno opposto non esiste. Eppure, di fronte a tutto ciò, gli uomini, anche quelli sani, anche quelli non violenti dormono. Gli altri, i malati, se si svegliano è anche peggio. E di fronte a tutto ciò io continuo ancora a sentire questa frase: “Sì, ma le donne usano la violenza verbale”. Verissimo. Infatti mi associo anch’io: “Ma vaffanculo!”

Famiglie monoparentali: una rete di sostegno alle madri separate, scrive Nadia Somma il 21 agosto 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Quali sono le difficoltà delle madri separate? Dopo la fine di una unione, sia gli uomini che le donne sono più poveri, perchè la divisione spezza sinergie e divide le risorse materiali ed economiche. Ma da troppo tempo si ignorano le difficoltà e la povertà delle madri separate italiane. Alcune donne si stanno unendo per trovare risposte ai problemi portati dalla crisi e opporsi alle denigrazioni o demonizzazioni del ruolo materno fatto da associazioni “estremiste” di padri separati. Da un progetto di Immacolata Cusmai e Anna Consoli, sul web è nata da qualche mese la Rete Interattiva. Le due fondatrici rappresentano anche geograficamente la situazione di generale difficoltà delle madri separate, perchè vivono una in Lombardia e l’altra in Sicilia. Il loro obiettivo? Far uscire dal silenzio le madri separate, indirizzarle a consulenze legali o in quei luoghi dove possano trovare sostegno psicologico e sensibilizzare sulla loro realtà, ben diversa dalle rappresentazioni irreali e fantasiose di “privilegiate”. In Italia le famiglie monoparentali sono circa 5 milioni e sono costituite nell’85% dei casi da donne; la restante percentuale, in costante aumento, è costituita da uomini; le madri separate sono in affanno tra le famiglie monogenitoriali per povertà, problemi di conciliazione tra lavoro e cura dei figli, mancanza di servizi per l’infanzia e difficoltà di trovare un lavoro che offra un reddito per l’autosufficienza. Il rapporto annuale dell’Istat sulla Condizione del Paese, presentato nel maggio 2013 parla chiaro. In generale, in Italia le donne sono sempre più povere, disoccupate (47, 1% di occupate contro il 58% della media europea), hanno salari più bassi (divario del 20& con i salari maschili) perchè sono maggiormente impiegate in lavori non qualificati anche con titoli di studio universitari, e sono colpite ancora di più dal precariato. Sono ancora le donne a sostenere il peso dell’indebolimento del welfare per i tagli nelle leggi finanziarie con il carico del lavoro di cura di bambini e anziani, mentre in casa continuano a svolgere il 76% degli incarichi domestici (dati Cnel 2012). Le donne sono anche maggiormente penalizzate dalle dimissioni in bianco grazie alle legge del 26 giugno 2008 voluta dal governo Berlusconi che permette abusi e discriminazione nei confronti delle lavoratrici. Restare incinta significa spesso scegliere tra maternità e lavoro, tra autonomia e dipendenza dal partner. In altri Paesi europei si è incentivata e sostenuta l’occupazione femminile con i congedi parentali obbligatori anche per i padri. Perché Stati Europei più evoluti del nostri sostengono il lavoro delle donne? Perché difendono il diritto al lavoro delle donne, la loro autonomia e il loro benessere, ed hanno capito che lavoro femminile porta all’aumento della ricchezza e alla diminuzione delle spese assistenziali. Il governo olandese ad esempio, ha applicato la formula dei congedi parentali per entrambi i genitori della durata di 26 settimane a testa, non cedibili tra l’uno e l’altro coniuge. Investendo meno di quanto fa l’Italia in servizi, l’Olanda ha raggiunto il risultato di accogliere il 70% dei bambini negli asili. In Francia la ministra per le Pari Opportunità, ha recentemente introdotto la legge sui congedi parentali obbligatori per i padri: durano sei mesi e non sono cedibili. In Italia i congedi per paternità obbligatoria (da anni esistevano facoltativi ma quasi inutilizzati) sono stati istituiti dalla riforma Fornero. Quanto durano? Un solo giorno entro cinque mesi dalla nascita del bebè. Un atto simbolico che per nulla incide sulla realtà. Così in tempi di crisi economica e occupazionale si chiede ancora alle donne di assumere ruoli tradizionali che sono disfunzionali alle esigenze di cambiamento della società e le discriminazioni nei confronti delle lavoratrici restano incontrastate. In un contesto di svantaggio di partenza, la separazione mette in difficoltà anche le madri. Come spiega Rete Interattiva, molte perdono la casa coniugale in cui vivevano con i figli perché il partner smette di pagare il mutuo, anticipano con redditi esigui spese straordinarie per i figli che non saranno mai rimborsate, oppure fanno i salti mortali per pagare affitti troppo cari per le loro tasche. Altre sono costrette a tornare a casa dei propri genitori o di altri parenti, oppure chiedono l’aiuto di associazioni con finalità assistenziali; talvolta anche ai centri antiviolenza dove sono in aumento le richieste di aiuto da parte di donne che vivono situazioni di povertà e indigenza a causa dell’abbandono economico dell’ex partner. Un abbandono causato a volte da mancanza di risorse economiche e disoccupazione dell’ex marito oppure con fraudolenza vengono occultati redditi e risorse economiche.

IL DRAMMA DEI PADRI SEPARATI NEL CORTOMETRAGGIO DI AMEDEO GAGLIARDI, “MAMMA NON VUOLE”. IL REGISTA ACCUSA: “600 MILA PADRI DIVISI NON VEDONO I LORO FIGLI, VENGONO CONSIDERATI DEI BANCOMAT. LE MENSE DELLA CARITAS SONO PIENE DI EX MARITI RIDOTTI ALLA FAME. IN TRIBUNALE? GIUDICI DONNE…”, scrive Paolo Giovannelli per “la Verità” il 14 marzo 2017. Ha prodotto, sceneggiato e interpretato il suo cortometraggio. L'ha pure pagato. Mamma non vuole è la denuncia di Amedeo Gagliardi su un fenomeno troppo sottaciuto in Italia: la sofferenza dei padri separati che, per anni, non riescono a vedere i propri bambini o lo fanno fra mille difficoltà. Esistenze infrante da madri che «non vogliono»: dopo la separazione, agli ex mariti non consentono di vivere un rapporto sereno con i figli. In Mamma non vuole Gagliardi, showman di 52 anni, ha interpretato se stesso. Mettendosi a nudo, accanto ad attori come Giancarlo Giannini. Ha girato un cortometraggio sulle sofferenze dei padri separati «sottratti» ai propri figli. Donne e uomini, dopo una separazione, non hanno gli stessi diritti?

«Purtroppo no. La legge 54/2006 sull' affidamento condiviso dei figli prevede in maniera chiara il diritto alla parità del tempo trascorso con i propri figli, ma l'applicazione della stessa non è equanime. In Italia prevale una fortissima cultura "mother oriented" che, alla fine, ritiene la madre migliore del padre. I giudici decidono a favore della donna e vedono nella madre l'unico genitore in grado di accudire, di dare affetto, di far crescere. Di garantire, comunque sia, la crescita psicoaffettiva del minore. Almeno nel mio caso, in tutti i procedimenti del contenzioso di separazione, sono stato sempre stato giudicato da donne. Solo in una occasione da un uomo».

Ha un figlio che non ha visto più per lunghi anni e una figlia, nata da una seconda unione, che un giudice di Venezia le ha però affidato in esclusiva. È stato doloroso raccontare la sua vicenda personale o si è trattato di una catarsi?

«Entrambe le cose. Ho recitato come ologramma di me stesso, con le stesse emozioni, gli identici drammi. Chi vede il cortometraggio si accorge della mia profonda sofferenza, frutto di una finzione che non riesce a superare la realtà. D'altro canto la recitazione è stata parzialmente terapeutica, rendendomi ancora più consapevole di quelli che sono i lutti della separazione da un figlio, da una famiglia, dalle consuetudini quotidiane, dal prendere per mano la propria bambina insieme a sua madre».

Per la sua esperienza, esiste la sindrome da alienazione genitoriale (Parental alienation syndrome, il cui acronimo è Pas, ndr), nella quale, ad esempio, il bambino ripete i messaggi di disprezzo del genitore «alienante» verso quello «alienato»?

«Nonostante la schiera dei negazionisti, la sindrome di alienazione genitoriale vissuta dal bambino, così come definita nel 1984 dallo psichiatra americano Richard Gardner e poi, nel 2008, dallo psichiatra americano William Bernet, esiste eccome. Le espressioni di disprezzo nei confronti del genitore alienato sono una sorta di "giusta punizione". Il problema, grave, è che il minore può avere un senso della realtà distorto: è narcisista, non prova simpatia ed empatia, non rispetta l'autorità, è paranoico e può soffrire di psicopatologie legate all'identità di genere».

Quanti sono oggi, in Italia, i padri separati estromessi da una normale relazione con i propri figli, dopo la separazione?

«Oltre 600.000 su 4 milioni. Uno su tre non riesce a vedere i figli. Un dramma, dove il soccombente è quasi sempre l'uomo, a causa dell'orientamento prevalente dei giudici a favorire la madre. L' Italia non ci considera ed è, sotto questo profilo, il Paese meno evoluto d' Europa. Nei Paesi scandinavi, il diritto alla parità e alla qualità del tempo trascorso con i figli, c' è ed è pieno».

Che tipo di sofferenza subiscono questi genitori?

«La prima è quella psicologica, per la perdita della famiglia e della sottrazione del figlio o della figlia minorenne. Poi c' è una sofferenza giuridica, per la lentezza con cui viene amministrata la giustizia e perché sono costretti a rincorrere le denunce faziose di mogli sconsiderate, spesso istigate ad arte dai centri antiviolenza. Le mense della Caritas sono pieni di padri ridotti sul lastrico, in coda per un pasto. Non sono tutti disoccupati, anzi. Ma con il loro stipendio devono mantenere l'ex moglie, anche quando è più ricca, devono pagarsi un affitto poiché spesso la casa viene lasciata in uso gratuito all' ex consorte anche quando questa ha tradito, pure quando la casa è di proprietà esclusiva del marito in regime di separazione dei beni. Spesso questi uomini continuano a pagare anche il mutuo dell'abitazione dove vive l'ex moglie, con i figli che non vuole farti incontrare. I padri separati subiscono molto: dalle false denunce per violenze mai esistite ai figli consegnati in ritardo, quando tocca a loro trascorrere un po' di tempo insieme. Alcuni hanno anche subito violenze fisiche dalle ex mogli».

Come è stato finanziato il corto Mamma non vuole?

«Mi è costato circa 100.000 euro. Un grosso investimento per un corto. Ma l'ho fatto volentieri. La mia è una missione».

Dove si potrà vedere?

«A giorni sarà disponibile nei migliori store on line, da Itunes ad Amazon. Per vederlo il pubblico pagherà 2,99 euro, necessari per fare poi il film per il cinema. Sul sito mammanonvuole.com c' è ogni informazione sul progetto».

Dopo il cortometraggio, lei è diventato il paladino dei padri separati.

«Con il mio corto, ho dato voce a chi non ne aveva. Mi sono incontrato con le associazioni di padri separati, che hanno già visto il mio lavoro. L' Italia deve capire che non siamo dei bancomat, né i visitatori dei nostri bambini. Siamo dei papà, che vogliono amare liberamente i propri figli».

Ha trovato donne che stanno dalla sua parte, che condividono il suo messaggio?

«Con mia grande meraviglia, sono la maggioranza. Sono le più appassionate a conferire consenso alla questione affrontata nel film e alle ragioni di noi padri separati».

Forti anche del loro appoggio, avete creato un movimento...

«Domenica 5 marzo, a Roma, abbiamo fondato un movimento politico e apartitico, il Movimento nazionale per la famiglia, che mi ha eletto presidente. Noi padri separati vogliamo far eleggere in Parlamento dei rappresentanti che difendano davvero i diritti delle famiglie. Il 19 aprile verrà proiettato Mamma non vuole alla Camera dei deputati. Saranno presenti dieci parlamentari, che hanno già firmato una proposta di legge per modificare la normativa sull' affido condiviso e guidati dall' onorevole Tancredi Turco, del gruppo Misto».

I padri separati e il loro dramma silenzioso: le difficoltà economiche, la mancanza della casa e l'allontanamento dai figli, scrive il 22/11/2016, aggiornato il 02/04/2017 Elisabetta Invernizzi su L'Huffington Post. Una bambina guarda il letto dove ha dormito suo papà. Accarezza le lenzuola, sistema il cuscino, rincorre con le dita le grande sagoma rimasta impressa sul materasso. Dopo la separazione, Marco ha perso tutto. La casa, il lavoro, gli affetti. Dei mesi passati in macchina agli angoli delle strade ricorda il buio delle notti accovacciato sui sedili posteriori, l'odore rancido alle prime luci del mattino, i vetri appannati dietro cui nascondersi. E la paura di incrociare all'improvviso lo sguardo di sua figlia. Marco ora vive in una stanza e divide l'appartamento con altri padri come lui. Ma la vergogna non si cancella. "Mi ha chiesto di mostrarle il letto dove dormiva suo papà", racconta Gianmario Pagani, padre separato e presidente dell'associazione 'La Rinascita' di Como. "Voleva vederlo con i suoi occhi per accertarsi che stesse bene. E poi ha sorriso". In Italia i padri separati sono circa 4 milioni, 800mila si trovano sulla soglia di povertà secondo il Rapporto Caritas 2014. Un esercito di uomini che, complice la crisi economica, per sostenere il mantenimento dello stesso tenore di vita all'ex moglie e ai figli, non hanno i soldi per pagare un affitto e così vivono dentro un'automobile o sono ridotti allo stato di clochard. Papà in giacca e cravatta in fila alla mensa dei poveri, costretti a dormire in macchina e a farsi la doccia in ufficio. "Non possono permettersi un pasto adeguato almeno ogni due giorni, non possono scaldare adeguatamente casa e arrivano a fine mese con grande difficoltà", si legge nel Rapporto. Un fenomeno in continua crescita, come testimonia l'andamento dei servizi rivolti ai padri separati. "Dal 2013 a oggi sono aumentate le richieste di alloggi e servizi residenziali", spiega Laura De Lauso, responsabile dell'Ufficio Studi Caritas. "Per un papà separato la casa è una necessità, non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico. È uno spazio per ritrovare se stessi, per riprendere in mano la propria vita oltre che un luogo sano dove poter incontrare i figli". La separazione, le difficoltà economiche, la mancanza di una casa. Un dramma silenzioso che confina molti uomini allo stato di indigenza a cui si somma il dolore per l'allontanamento dei figli. "Una quercia abbattuta senza più radici. Fragile, inerme e senza più dignità". Pagani descrive così la condizione di un uomo che, non più marito, non vuole rinunciare a essere padre e lotta ogni giorno, in silenzio, per non finire nel baratro della solitudine, dell'abbandono e della negazione dei suoi diritti di genitore. "Ogni bambino vede il proprio papà come un eroe", spiega ad HuffPost. "Ma dopo una separazione quella quercia forte e protettiva diventa una canna sbattuta dal vento. E quando un uomo non riesce più a prendersi cura della sua famiglia, perde la stima in se stesso e si sente un fallito". A peggiorare questa situazione l'isolamento e la solitudine con cui molti uomini affrontano questo dramma. "Il padre separato non fa rumore, non chiede aiuto, si vergogna. Lo riconosci dallo sguardo perso e remissivo", racconta Pagani ad HuffPost. "Sono stato anch'io in quella situazione. La prima cosa che facevo al mattino quando mi svegliavo era pulire la macchina dove avevo dormito per cancellare ogni segno della notte precedente perché mi vergognavo". Il pudore, il bisogno di nascondersi e di non mostrare la propria debolezza di fronte ai figli. "Spesso gli uomini non hanno la forza morale per affrontare questa situazione. Così si innesca una spirale per cui i papà che non riescono a pagare gli alimenti si sentono in difetto e pensano di non meritarsi l'affetto dei figli". Un rapporto, quello con il bambino, che rischia di incrinarsi con il venir meno della quotidianità. Dopo la separazione la relazione con il figlio cambia e il più delle volte in senso negativo tanto da parlare in alcuni casi di crisi del rapporto. Una ferita aperta per molti uomini che si sentono privati della possibilità di trascorrere più tempo insieme al bambino. "Il 58,1% dei padri intervistati denuncia un peggioramento nella qualità dei rapporti con i figli", si legge nel Rapporto. "Le madri invece riconoscono per lo più un miglioramento". A rendere insoddisfatti i papà sono la frequenza delle visite, i luoghi degli incontri e l'impossibilità di partecipare a momenti importanti della vita del bambino come compleanni, feste e altre ricorrenze. "Alcune mamme tendono persino a ostacolare il rapporto padre-figlio", spiega l'avvocato Walter Buscema, presidente di 'Nessuno tocchi papà', associazione che si occupa di dare voce ai padri separati. "E così, dopo la fine del matrimonio molti cercano di rafforzare il rapporto con il bambino viziandolo, e diventando poi dei compagni di gioco più che dei papà". Le associazioni a difesa dei padri separati la chiamano "paternità negata" e denunciano una disparità di trattamento tra uomo e donna dopo la fine della relazione quando di mezzo ci sono i figli. "I papà sono trattati dallo Stato come genitori di serie B", spiega Buscema ad HuffPost. "Spesso si dice che i figli dei separati siano orfani di padri viventi. È una provocazione ma rispecchia la realtà di molte famiglie in Italia. Colpa di una legge che risente ancora del vecchio pregiudizio secondo cui i figli sono solo della mamma. Ma i bambini hanno diritto di godere dell'affetto di entrambi".

«I padri separati sono vittime di mogli e giudici di parte», scrive Fabrizio Graffione, Sabato 15/12/2012, su "Il Giornale". «Mi hanno separato dal figlio. Mi hanno tolto la casa. Ogni mese tolgono soldi sempre e solo a me». Ogni storia di violenza sull'uomo e padre, è pressoché uguale, come si legge anche su papaseparatiliguria.it, il portale dei «disperati», vittime di mogli e anche di magistrati, che ieri hanno manifestato davanti al «palazzaccio» genovese. Accuse infondate, le più abbiette. Lungaggini giuridiche. Udienze senza esito. Muri di gomma. Assistenti sociali o giudici quasi sempre di parte o negligenti. «Tutti ne parlano, ma nessuno interviene. È un male trasversale» spiegano le autrici e gli autori delle associazioni genovesi Voltar Pagina e Mater Matura, che hanno pubblicato, edito da Erga, il volume da oggi in libreria «Il delirio e la speranza», undici racconti di padri separati: 252 pagine che si leggono d'un fiato, indignano e fanno venire brividi di paura. Secondo un'indagine Gesef, il 75 per cento dei papà in fase di separazione subisce mobbing giudiziario, l'80 per cento delle denunce di maltrattamenti da subito palesemente false e strumentali, dopo anni di lotta a colpi di carte bollate risulta giuridicamente falso, il 90 per cento dei genitori maschi subisce la minaccia di non poter più vedere i figli. «È la prima, drammatica raccolta di esperienze di padri ingiustamente allontanati dai figli - spiegano alla Erga edizioni -. Nel dramma dei figli è l'uomo a giocare il ruolo del reietto allontanato da casa, costretto a versare prebende spesso insostenibili a donne garantite da una legislazione farraginosa e vetusta». C'è pure chi da anni arresta criminali e difende i genovesi, come il maresciallo dei carabinieri Fabrizio Adornato, che ieri è arrivato pure a fare lo sciopero della fame davanti al Tribunale. «Negli ultimi due anni e mezzo - racconta - ho potuto vedere mia figlia soltanto una mezza dozzina di volte. Ho denunciato i magistrati. Nessuno mi ha controquerelato. In una denuncia, l'ex moglie si lamentava che, testualmente, avevo consegnato mia figlia a mia madre. Nessun genitore dovrebbe riferire della prole come se fosse un pacco postale. La mia bambina è un essere umano che ha bisogno di amore, cure, attenzione e non è una cosa o una merce di scambio». Accanto a lui, ieri ci sono stati altri «Papà separati della Liguria». «A Genova siamo migliaia. La mia ex moglie mi ha accusato per maltrattamenti - spiega Ambrogio Barbiero, 61 anni - facevo il saldatore, ma ora sono disoccupato. Cacciato di casa come un delinquente e costretto a versare 250 euro al mese appena faccio un lavoretto. Mia sorella pensionata mi accoglie e mi dà da mangiare, altrimenti sarei stato costretto a rubare. Da taluni magistrati non ho ricevuto nessuna pietà». Ormai la tecnica usata dalle mogli è quasi sempre la stessa: denunciare l'uomo per maltrattamenti, chiedere la separazione, ottenere dal Tribunale il riconoscimento e un vantaggio economico. È la Genova dei cornuti e mazziati.

Padri in cerca di giustizia, scrive Alessandra Corrente il 23 ottobre 2017 su "La Voce del Trentino". L’attuale crisi economica mette sul lastrico tanti uomini, lavoratori che si ritrovano senza il loro stipendio, costretti a vivere di stenti. C’è un’altra crisi che si aggiunge a questa e che ha le stesse ricadute nella quotidianità di tante persone. La crisi coniugale. La fine di un matrimonio che diviene strumento di odio e vendetta e che acceca anche gli sguardi di coloro che di fronte a quel passaggio della vita nulla possono: i figli. Tanti sono i padri che cercano di sopravvivere alle sentenze dei giudici in cui l’obbligo di mantenimento diviene la ghigliottina per il loro vivere: lo stipendio dimezzato o pignorato per gli alimenti. Una delle ultime storie è quella di Marco Della Noce, comico di Zelig, che tanto ha fatto ridere noi tutti nel suo ruolo di capomeccanico della Ferrari di "Sochmacher". “Ora nessuno riesce a fare ridere me” dice questo papà famoso. Racconta che oggi la sua casa è la macchina e i suoi figli non possono vederlo proprio perché non è questa una dimora consona per incontrarsi, scrivono i giudici. Come si arriva a situazioni come questa? La crisi di coppia come un campo di una battaglia all’ultimo sangue. Chi si è unito e promesso di amarsi e rispettarsi diviene il peggior nemico da eliminare senza eccezioni di colpi. Perché? Cosa chiederebbero i figli di questi genitori in crisi? Perdonare non è da tutti; è un atto che richiede un lavoro interiore molto difficile, che va nel profondo del cuore per trasformare tutti i torti o le ingiustizie ricevute dal partner e trovare una pace nuova. Non è cosa da poco. "Chi me lo fa fare?", potrebbero dire questi adulti. Allora tutto deve trovare una nuova prospettiva, la più dimenticata: quella di chi in quella situazione si trova nella posizione più debole, i figli. Il perdono come dono ai figli di una serenità interiore e non solo esteriore, di un insegnamento unico per la loro vita, di un bagaglio prezioso e raro Quali sono i diritti in gioco? Quelli del padre? Quelli della madre? C’è un altro interrogativo, forse il più grande: chi tutela il bene di questi figli? Perché, come scrive Massimo Gramellini: “in gioco non c’è il diritto degli uomini contrapposto a quello delle donne, ma il diritto di tutti a dormire in una casa invece che in un’auto. Perché nessun figlio vorrebbe che un padre o una madre si riducessero così” (Corriere della Sera 20 ottobre 2017). Certo ogni storia va poi letta singolarmente e con la voce di tutti i protagonisti. Ma questa è proprio un’altra storia.

Papà separati vs mamme separate: due pesi e due misure, scrive "Il Ricciocorno Schiattoso" il 22 agosto 2013. Qualche tempo fa scrissi un post dal titolo “I poveri papà separati”. Il mio post iniziava con una doverosa premessa: Vorrei chiarire che non ho niente contro “i papà”, intesa come categoria di persone di sesso maschile che hanno concepito, categoria che ricomprende all’interno una moltitudine di individui diversi fra loro. Non neanche nulla contro “i separati”, né tantomeno contro chi si colloca nell’insieme frutto dell’intersezione di questi due vasti gruppi di esemplari del genere umano.

E si concludeva con una osservazione: considerato che ci sono anche molte “povere mamme separate”, anzi, che ci sono molte più “povere mamme separate” che “poveri papà separati”, perché le Iene non hanno fatto un servizio sul “povero genitore separato” includendo entrambe le categorie? Questa non è discriminazione?

Stamattina, proprio dopo aver letto un articolo su “Il Fatto Quotidiano” dal titolo “Famiglie monoparentali: una rete di sostegno alle madri separate”, mi ritrovo sotto il post questo commento: Egregio Ricciocorno, leggendo il suo articolo e le sue risposte ai commenti mi è venuta subito in mente una frase letta in un blog che diceva “I politici usano le statistiche come un ubriaco usa i lampioni: non per la luce ma per il sostegno.” Questa è la stessa sensazione che le sue parole mi hanno dato. Non è così semplice e chiaro come dice lei. La sofferenza di un genitore separato (e, attenzione, ho detto genitore, non mamma o papà) non può essere generalizzata in questo modo. Lo trovo inopportuno, quasi violento. Come sicuramente sarà la sua prossima risposta. Saluti. Pietro Conconi.

Io ho usato le statistiche per commentare un servizio televisivo che riportava il dramma dei “poveri papà separati”, ignorando completamente la situazione delle “povere mamme separate” e mi ponevo la domanda: perché si parla sempre e solo di “poveri papà?” Per questo vengo definita come una persona inopportuna, quasi violenta. Di articoli e di iniziative a sostegno dei “poveri papà” che ne sono in giro a bizzeffe. Fra le più recenti vorrei citare la lodevole iniziativa di Suor Anna, che a Cagliari ha aperto una casa di accoglienza per i “poveri papà”. Se seguite il link e leggete l’articolo, sotto non solo non troverete alcun commento che insulta i “poveri papà”, ma troverete invece questo commento: …quand’è che mandiamo in carcere queste donne criminali? Quei padri non finiscono così solo per una legge “sbagliata” (da trenta anni) ma perché le ex ne fanno abuso. A Brescia i papà separati godono di affitti agevolati, e così pure in provincia di Ravenna. Ed è del 20 agosto l’appello del responsabile della mensa dei poveri di Rossano (Calabria), che naturalmente non manca di citare i “papà separati”. Insomma: il dramma dei “poveri papà” scalda parecchi cuori. I rapporti ufficiali, però, ci parlano anche di “povere mamme separate” in difficoltà: Sempre più italiani, casalinghe, anziani, genitori separati, soprattutto donne, con situazioni di multi problematicità che coinvolgono intere famiglie. Il profilo dei nuovi utenti dei Centri di ascolto Caritas è sempre meno coincidente con quelli della grave marginalità e va verso una “normalizzazione sociale” del bisogno.

Ci dice il rapporto Caritas 2012, citato da Il Sole 24 ore. E di “mamme nella crisi” ce aveva parlato anche Save The Children, con un rapporto presentato nel settembre 2012: Gli effetti della crisi colpiscono le mamme in modo sempre più grave, evidenziando, in Italia, un circolo vizioso che lega il basso tasso di occupazione femminile, l’assenza di servizi di cura all’infanzia, le scarne misure di conciliazione tra famiglia e lavoro e la bassa natalità, con una pesante ricaduta sul benessere dei bambini. La difficile condizione delle madri nel nostro Paese è infatti uno dei fattori chiave che determinano una maggiore incidenza della povertà sui bambini e sugli adolescenti.

Così, la giornalista Nadia Somma, il 21 agosto 2013, dedica uno spazio de “Il fatto Quotidiano” alle iniziative di Rete Interattiva, volte a: Far uscire dal silenzio le madri separate, indirizzarle a consulenze legali o in quei luoghi dove possano trovare sostegno psicologico e sensibilizzare sulla loro realtà, ben diversa dalle rappresentazioni irreali e fantasiose di “privilegiate”. (O criminali, mi permetto di aggiungere). Se date un’occhiata ai commenti sotto l’articolo della Somma, avrete l’occasione di scoprire cosa significa realmente “generalizzare”. Vi prego di confrontare poi le seguenti affermazioni con la mia quasi violenza. Si, si, le solite s...bip...bip...bipp...ate! Ma quando mai??? In una separazione la donna SEMPRE si prende tutto, si tiene i figli e l’uomo diventa solo un bancomat… finche’ ne ha. Poi può pure marcire in un fosso e nessuno dei benpensanti sulla parità gliene importa nulla. Non parliamo poi dei ricatti quotidiano a cui sono sottoposti gli uomini ai quali mai vene affidata la prole. Se non fai questo non vedi più tuo figlio... dammi quello altrimenti addio a tuo figlio. Ma basta! E poi tocca leggere anche articoli come questo. Quest’articolo è una pura provocazione raccapricciante. La realtà la conoscono tutti bene, benissimo, quando una coppia si separa in tribunale l’uomo è umiliato, gli viene rovinata la vita per sempre togliendogli i figli e riducendolo in miseria perchè costretto a dare tutto quello che ha alla ex, anche se questa non avrebbe bisogno di nulla e addirittura anche quando conti alla mano sarebbe la ex a dover dare dei soldi all’uomo. QUESTA E’ LA REALTA’, SE QUALCUNO LO VUOLE NEGARE PRODUCA DEI DECRETI DEI TRIBUNALI CHE DICONO IL CONTRARIO, PERCHE’ SONO MIGLIAIA I DECRETI CHE TUTTI CONOSCONO E SONO ANCHE PEGGIO DI QUELLO CHE SCRIVO.

Questo accade dagli anni 70, quando cambiò la legge tutta a favore delle donne, e questo accade ancora oggi malgrado e a dispetto della legge 54/2006 formalmente giusta ma totalmente disapplicata dai magistrati che se ne fottono delle leggi del parlamento italiano e liquidano le separazioni velocemente secondo la loro consolidata prassi (metodo facile e veloce che non richiede loro di lavorare). Che poi ci siano degli uomini che cercano di sottrarsi ai loro impegni è vero, chi potrebbe mai accettare quello che a priori è un’ingiustizia conclamata che danneggia anche quei rari casi di decreti giusti???? I tribunali sono popolati da dipendenti pubblici talmente sfacciati che uomini nullatenenti senza lavoro perchè lo hanno perso, sono stati condannati a dare ugualmente dei soldi alla ex che intanto il lavoro lo aveva ancora, in base al potenziale reddito che potrebbe avere se riuscisse a trovare lavoro!!! Se non è discriminazione di genere questa, cosa è? Qui mi fermo ma avrei da scrivere per ore!!!!!!!!!!!! Vergognatevi. Articoli come questi sono da cestinare come spazzatura giornalistica… alle donne articoli come queste servono per alimentare la loro ingordigia nel richiedere tutele egoisticamente solo per se stesse e per il genere a cui appartengono… meglio le ucraine… anzi… qualsiasi donna europea è meglio delle italiane… diventeranno tutte zitelle… Di messaggi analoghi (e peggiori) ce ne sono a centinaia…Il succo è che non esistono “povere mamme separate”, ma solo “poveri papà separati”. Solo i papà separati hanno il diritto di richiedere un aiuto, la mamme no. Tutte le donne che si separano dal coniuge sono malvagie, avide e soprattutto ricche. I Tribunali corrotti odiano i “poveri papà separati”. E la Somma si dovrebbe vergognare a produrre simile “spazzatura giornalistica”.

Vorrei premiare con una menzione speciale uno dei pochi commentatori sinceri: …cosa vuol dire che a queste se le deve mantenere l’ex marito? quando non ci sono figli e il matrimonio va male i problemi di miseria e o ricchezza dell’ex coniuge non sono affari dell’ex amato… possibile che neanche su questo ci si mette d’accordo? gli ex mariti non sono assistenti sociali… affido condiviso realmente applicato cosi alle donne resta tanto tempo per andare a lavorare… fatti loro se non sanno fare niente… e ahime sarà sempre peggio per persone che non hanno voglia di lavorare e o che non sanno fare niente se non passare il tempo a piangersi addosso. Ti ho piantato, non me ne frega più niente di te, non è un problema mio se muori di fame. E se muori di fame probabilmente è perché sei una fannullona che tutto il giorno si piange addosso perché “non sa fare niente”. A tale proposito vi rimando al concetto della colpevolizzazione della vittima, ad una riflessione intorno al valore economico e sociale del lavoro domestico, con annesso conteggio in vecchie lire, e alle ultime notizie sul mondo del lavoro. L’accusa di generalizzare e di esprimermi in modo “quasi violento” la respingo al mittente con una punta di indignazione. Colgo l’occasione per esprimere tutta la mia solidarietà a Nadia Somma: ci vuole un bel coraggio, oggi come oggi, per scrivere sulle “mamme separate” qualcosa di diverso da una sequela di insulti.

Ora il comico di Zelig dorme in auto: "Io rovinato dalla separazione". Lissone, pignorata la partita Iva di Marco Della Noce per pagare gli alimenti all’ex moglie, scrive Gigi Baj il 19 ottobre 2017 su “Il Giorno”. Dalle luci della ribalta al buio di una notte trascorsa all’interno della propria automobile, di fianco al marciapiede. Destino decisamente amaro per il cabarettista Marco Della Noce, il mitico capomeccanico in tuta rossa Ferrari che con i suoi irresistibili racconti era uno tra i più applauditi protagonisti della trasmissione televisiva Zelig. Sfrattato nei giorni scorsi dalla sua abitazione di Lissone, in condizioni economiche decisamente precarie, Dalla Noce si è visto costretto a chiedere aiuto ai servizi sociali che nell’immediato non hanno però potuto aiutarlo lasciandolo di fatto in mezzo alla strada. «Mi hanno promesso– ha affermato il celebre cabarettista – che nei prossimi giorni cercheranno di trovare una sistemazione. Nel frattempo dovevo arrangiarmi. Mai avrei pensato che dopo trentacinque anni trascorsi a fare ridere la gente mi sarei trovato a piangere per una situazione veramente difficile che non auguro a nessuno».  I guai per Marco Della Noce sono iniziati con la separazione dalla moglie che giustamente ha preteso gli alimenti per i due figlioli, arrivando a chiedere il pignoramento della partita Iva, dettaglio questo che ha fatto precipitare l’attore e doppiatore cinematografico in una spirale dalla quale non ha più potuto uscire. «Stavo girando una scena con Massimo Boldi – ha confidato – quando mi comunicarono dell’avvenuto pignoramento. Un fulmine a ciel sereno. Un provvedimento che ha avuto conseguenze tanto che ha quasi azzerato la mia visibilità professionale. Le televisioni e le agenzie mi hanno chiuso la porta in faccia così come molti colleghi hanno preferito ignorarmi. Fortunatamente qualcuno mi è rimasto vicino. I giudici mi hanno segato il futuro lavorativo. Non potendo lavorare non posso neppure fare fronte alle richieste di mia moglie alla quale avevo chiesto anche di rivedere il mantenimento visto le condizioni in cui mi trovavo. Ai giudici ho presentato un ricorso di cui attendo ancora il responso». Senza soldi, senza un lavoro remunerativo e continuativo, e soprattutto senza la prospettiva di saltarci fuori, il ‘capo meccanico della Ferrari’ è andato in crisi: «Soffro di una depressione e in questo momento sono in cura presso l’ospedale di Niguarda. Sto vivendo un dramma interno che mi lacera. Fortunatamente ci sono i miei tre figli ai quali voglio un bene dell’anima. Sono loro la vera forza che mi fa andare avanti». Un aiuto concreto gli è arrivato dai titolari e da alcuni avventori del Bar Real di Lissone: «Mi hanno prenotato una notte in un albergo della città. Non so proprio come ringraziarli. È la prima volta che mi trovo in una situazione del genere». Anche l’associazione Papà Separati Lombardia Onlus si è schierata con Della Noce: «Purtroppo – ha affermato il vicepresidente Renato Aprile – i papà separati rappresentano i nuovi poveri della nostra società. Mogli pretenziose e l’accanimento dei giudici creano delle situazioni veramente drammatiche. Quella vissuta da Marco Dalla Noce non è purtroppo che una delle tante vicende di cui ci occupiamo ogni anno». Nato nel 1958, Dalla Noce ha iniziato la sua carriera con il gruppo La Carovana. Notato da Antonio Ricci nel 1989 è entrato a fare parte di Drive In partecipando poi a numerose trasmissioni televisive L’apparizione a Zelig lo ha reso uno dei comici più noti del panorama nazionale. Tra i suoi personaggi più noti proprio il capomeccanico Oriano Ferrari che si diverte a fare scherzi a Sochmacher (storpiatura del cognome del grande pilota iridato della Ferrari).

L’ex-moglie: «Marco Della Noce ha sperperato tutto, io non c’entro». La donna, per bocca del suo avvocato, risponde alle accuse del comico di Zelig che è finito a vivere in auto, scrive Elisabetta Montanari il 20 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Marco Della Noce non ha detto la verità: i suoi guadagni li ha sperperati irresponsabilmente con il suo stile di vita, non certo per pagare il mantenimento dei figli. E se è sul lastrico non è per il sequestro della Partita Iva, che peraltro non è mai avvenuto, ma perché ha ricevuto grosse cartelle esattoriali dall’Agenzia delle entrate e è stato dichiarato evasore totale per diversi anni. Fatto di cui ora deve rispondere con ingenti somme al fisco».

«Non pagava le tasse e adesso...». La moglie di Marco Della Noce, per bocca del suo avvocato, Andrea Natale, ha risposto alle accuse dell’uomo che ha lanciato un appello su molti mezzi di comunicazione dichiarando di essere sul lastrico e di dormire ormai per strada nella sua auto, a causa dei pignoramenti per non aver potuto pagare all’ex moglie l’assegno di mantenimento per i suoi due figli. L’ex comico di Zelig, che ha fatto ridere i telespettatori nei suoi trent’anni di carriera, si è ridotto senza mezzi a contare solo sull’aiuto degli amici di Lissone, sperando nell’intervento dei servizi sociali per avere almeno un tetto sulla testa.

«Non ha mai pagato nemmeno i libri di scuola». «Del resto, continua l’avvocato, la separazione è avvenuta ben 12 anni fa e in seguito Della Noce ha avuto un’altra relazione da cui è nata una figlia, relazione che è terminata poco tempo fa e per questo motivo ora si trova senza una casa. La ex moglie, da parte sua, non ha mai chiesto il mantenimento per sé e è ormai dal 2013 che Della Noce non corrisponde l’assegno per i due figli minori avuti dalla moglie. Nemmeno i libri di scuola ha mai pagato loro. Tanto che la signora ha dovuto trovare un lavoro per provvedere a loro e a sé stessa».

«Nessun accanimento contro di lui». Insomma, nessun accanimento contro un papà separato, ma, piuttosto, una situazione resa difficile da diversi motivi tra i quali il maggiore è la mancanza di un lavoro e, a dire dell’avvocato, un comportamento non proprio trasparente nei confronti del fisco. «Non c’è nessuna volontà demolitrice nei confronti dell’ex coniuge, ribadisce Andrea Natale, ma semplicemente la necessità di ricevere l’aiuto dovuto». E conclude: «Anche noi preferiremmo vedere Marco Della Noce sul palco piuttosto che in un talk show».

Comico di Zelig sul lastrico, Della Noce: "Grazie agli amici ho trovato casa e un lavoro". Monza, replica alle accuse della moglie, scrive Emanuele Canta il 23 ottobre 2017 su “Il Giorno”. «Me l'avevi promesso, mi dicesti: «Ti rovino». Adesso basta, hai raggiunto il tuo obiettivo». Marco Della Noce manda un messaggio chiaro e diretto alla sua ex moglie, un botta e risposta a distanza. Accusato di aver sperperato tutto il denaro accumulato e per questo oggi non più in grado di sostenere la sua famiglia, il comico di Zelig sembra cercare una tregua: «Non voglio accusare nessuno, mi piacerebbe però sottolineare che in un momento in cui il papà ha delle difficoltà lavorative mi sarei aspettato che il resto della famiglia gli si fosse stretto intorno. Non è concepibile che si debba mantenere lo stesso tenore di vita mentre il papà cena con caffè e latte». Adesso Marco ha trovato una casa. In verità gliel’hanno trovata gli amici del Cafè Real, il bar di Lissone di fronte a quello spiazzo dove si era accampato con la sua automobile. Quei sette mesi di affitto non pagato gli sono costati lo sfratto e così l’unica soluzione era dormire in macchina. Ma quando i dipendenti del bar lo hanno notato, gli hanno bussato al finestrino e immediatamente hanno provveduto a pagargli un albergo. Una sistemazione temporanea in attesa di una casa, che sono già riusciti a trovargli. Una solidarietà vera, un’amicizia nata da uno stato di necessità e che forse, anche per questo, è sincera e concreta. Marco è diventato il fratello di tutti, colazioni pagate, pranzi e cene al Real Ristorante, l’altro locale di proprietà degli stessi gestori del bar. «Per lui è sempre tutto pagato, non può nemmeno avvicinarsi alla cassa», ci racconta Armando Melfi, uno dei proprietari: «È una persona umile e sensibile, qui in paese tutti hanno preso a cuore questa situazione ed è diventata una vera e propria gara di solidarietà. Grazie al primo articolo pubblicato su Il Giorno, è nata una catena di aiuto che nemmeno noi ci aspettavamo». E la vicinanza all’ex comico l’hanno espressa anche i suoi colleghi, da Claudio Bisio agli altri cabarettisti che hanno con lui condiviso il palco di Zelig. «Non sono arrivate solo belle parole – sottolinea Della Noce – ma finalmente è arrivato anche il lavoro. Per il momento non posso ancora svelare nulla, ma tornerò a lavorare presto e con i miei spettacoli voglio raccogliere dei fondi per portare avanti le battaglie dei padri separati che vivono lo stesso mio dramma». Un sorriso che si spera possa presto ritrovare, lui che di sorrisi ne ha strappati tanti quando sul quel palco era il mitico Oriano Ferrari, il capomeccanico della casa di Marenello. «Si stanno organizzando per aiutarmi concretamente anche i tecnici della Ferrari, quelli veri però – conclude – e tutto ciò mi commuove davvero. Spero che presto io possa riuscire di nuovo a volermi bene e a tornare ad essere l’orgoglio dei miei figli».

Quell'esercito di padri separati che non paga il mantenimento. Boom di cause contro gli ex inadempienti. Da gennaio il fondo di Stato in aiuto dei figli, scrive Maria Novella De Luca il 29 dicembre 2015 “Repubblica”. "Da sei mesi mio marito non ci versa più l'assegno di mantenimento. E i miei figli, Giada e Pietro, sono diventati bambini poveri. Cosa vuol dire povero? Vuol dire che abbiamo tagliato la piscina, il calcetto, la mensa a scuola, eliminato i vestiti nuovi, i libri sono un lusso già da un pezzo, e ad ogni festa di compleanno non so come comprare il regalo... Mi vergogno, ma riesco a garantire soltanto la sopravvivenza. Il mio ex scappa, fugge, dice che non ha soldi, ma intanto si è costruito una nuova famiglia...". Adachiara, maestra d'infanzia e giovane mamma separata di Udine dice che non appena il nuovo "Fondo di solidarietà per il coniuge in stato di bisogno" diventerà effettivo, sarà tra le prime a presentare la domanda. Perché d'ora in poi, come prevede la legge di Stabilità, sarà lo Stato a versare i soldi dell'assegno di mantenimento a famiglie come quella di Adachiara, rivalendosi poi sul padre inadempiente. Un passo di civiltà, spiegano gli avvocati matrimonialisti, ma anche la testimonianza di un'emergenza non più legata alla crisi ma diventata endemica, la povertà cioè che segue la fine di un amore, e dunque le separazioni e i divorzi. I dati sono impressionanti: secondo le stime dell'Ami, Associazione matrimonialisti italiani, i processi penali per il "mancato pagamento dell'assegno ai figli" sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni, trecento in sei mesi i casi solo al tribunale di Trento. Lasciarsi, ormai è assodato, è sempre più un lusso per coppie con doppio reddito, o per chi ha soldi, per tutti gli altri la rottura di un matrimonio può diventare l'anticamera della povertà. Eppure in Italia le nozze durano sempre meno, dal 1995 a oggi sono triplicati gli addii dopo dieci anni vita in comune, e le separazioni cresciute del 70 per cento. Ma nello stesso tempo il 12 per cento degli "utenti" delle mense della Caritas sono proprio i separati e i divorziati, anzi le divorziate, visto che l'8,5 per cento sono donne con figli minori a carico. Spiega Gian Ettore Gassani, fondatore dell'Ami e grande sostenitore del Fondo varato dal Governo: "Sono anni che lo chiedevamo, anni in cui abbiamo visto la tragedia di famiglie ridotte sul lastrico dopo una separazione, e quasi sempre a pagarne il prezzo più alto sono le donne e i bambini. Nella maggioranza dei casi infatti a non pagare l'assegno di mantenimento sono i padri, in parte perché non possono, in parte perché ne approfittano. Ma il dato sociale è durissimo. Si può fare addirittura un calcolo matematico: in una coppia con due figli, un mutuo e due redditi da 1500 euro, dopo la separazione uno dei due coniugi diventerà povero...". Racconta Adachiara: "Ci siamo separati perché lui aveva un'altra storia, ma abbiamo entrambi sofferto per la fine di un matrimonio in cui avevamo creduto. All'inizio è stato presente, affettuoso con i bambini, puntuale nei pagamenti. Poi la sua "altra" famiglia è diventata più importante, ha iniziato a trascurarci, e da quando è diventato padre di nuovo è come se ci avesse dimenticati. Il mio ex è un libero professionista, io guadagno meno di mille euro al mese. Eravamo una famiglia normale, oggi i miei bambini sono poveri, ed esposti ad una doppia sofferenza, il suo abbandono e le privazioni". Aggiunge Gassani, che di tutto ciò parla nel suo libro "Vi dichiaro divorziati": "Il Fondo servirà in situazioni come queste, ma ci vuole una stretta vigilanza: temo infatti che i padri inadempienti possano approfittarne per abdicare ancora di più dalla proprie responsabilità". Mitiga Tiberio Timperi, giornalista e esponente dei padri separati, protagonista di una lunga vicenda giudiziaria con la ex moglie. "È una misura giusta, ma è anche una toppa sulle inefficienze della giustizia, dove ancora troppo spesso i giudici privilegiano d'ufficio il collocamento dei figli con le madri, e impongono ai padri assegni di mantenimento impossibili da onorare, fino a ridurli im miseria. Oltre ai soldi serve un cambio culturale nei tribunali". Per Alessandro Sartori, presidente dell'Aiaf, associazione italiana avvocati della famiglia, il vero problema è però l'impunità: "I processi aumentano, ma la realtà è che quasi mai gli "inadempienti" finiscono in carcere. E per le vittime l'unica strada è quella della battaglia legale...".

Padre accusato di abusi sessuali. I figli 15 anni dopo: «Tutto inventato». L’uomo venne condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere. «Menzogne dettate da nostra madre che si stava separando», scrive “L’Ansa” su “Il Corriere della Sera”). «Quello che io e mio fratello avevamo detto su mio padre erano invenzioni dettate da mia madre che lo voleva allontanare»: è una ritrattazione a distanza di anni quella di due ragazzi di 21 e 24 anni, Michele e Gabriele, figli di un 46enne sardo, condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere per abusi sessuali proprio sui due figli. Si tratta di una vicenda consumatasi tra la Sardegna, terra d’origine della famiglia, e Brescia, dove padre, madre e i due figli si erano trasferiti, dove hanno abitato per anni e dove sono state depositate le prime denunce nei confronti del genitore. Fatti avvenuti «nell’ambito di una separazione coniugale e in particolare segnati da un’accesa conflittualità tra genitori e un’aspra battaglia per l’affidamento dei figli», scrivono i giudici del tribunale di Oristano che hanno condannato il padre 46enne, oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Michele e Gabriele all’epoca dei fatti avevano 9 e 12 anni. «Le indagini mediche non potevano dare certezza sull’abuso», hanno scritto tre periti nominati nel tempo dai tribunali di Brescia e Oristano. Nel primo processo gli imputati erano sette; il padre dei due giovani e sei parenti paterni. Questi ultimi assolti per non aver commesso il fatto. «Agli atti ci sono solo le dichiarazioni di due bambini e nessun’altra prova contro mio padre. Nessuno ci ha mai chiesto di raccontare la nostra verità», racconta oggi il figlio più grande, Gabriele, che, come il fratello, ha alle spalle diversi anni passati in alcune comunità del Bresciano. Proprio uscendo da una comunità nel 2009 lasciò agli educatori un memoriale della sua vita dove spiegò che le accuse mosse nei confronti del padre erano state invenzioni. «Per togliere di mezzo papà, mia madre ha cominciato a imbottirci di menzogne, cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai» è uno dei passaggi delle 42 pagine di memoriale. In quell’anno era in corso il processo in appello del genitore, ma nessun educatore portò all’attenzione il diario di Gabriele, che ora è stato invece allegato alla richiesta di revisione del processo presentata alla Corte d’appello di Roma dal legale del padre condannato, l’avvocato Massimiliano Battagliola. «La clamorosa ritrattazione a distanza di anni equivale a una nuova prova e anche il memoriale che abbiamo ritrovato è un elemento assolutamente nuovo», spiega l’avvocato bresciano, che mercoledì incontrerà nel carcere di Sassari l’uomo condannato per abusi sui figli e che ora spera di poter riscrivere la sua storia giudiziaria.

L’avvocato del "padre orco": “Dura stare in carcere da innocenti”, scrive Francesca Mulas su “Sardinia Post”. Una famiglia distrutta, un padre accusato di abusi sessuali dai figli, due bambini oggi diventati adulti che si portano dietro un’esperienza terribile: la vicenda di Saverio, oggi 46 anni, richiuso nel carcere di Bancali con la condanna a nove anni di reclusione, è stata segnata dalle accuse dei figli Gabriele e Michele, all’epoca 9 e 12 anni. A distanza di dodici anni dai fatti, e a sei dal processo, la verità decisa dai giudici potrebbe essere riscritta: secondo nuove rivelazioni quelle accuse erano completamente false e i due ragazzini avrebbero inventato tutto, spinti alla falsa testimonianza dalla mamma all’interno di una situazione familiare tesa e conflittuale. A dare la clamorosa notizia oggi è Massimiliano Battagliola, avvocato di Brescia che chiederà alla Corte d’Appello di Roma di rivedere il processo: cosa accadde veramente in quella casa di Brescia dove Saverio, emigrato sardo, viveva nel 2003 insieme alla moglie e ai due figli Michele e Gabriele, sta scritto nelle pagine di un diario che Michele consegnò qualche anno fa agli educatori della comunità dove ha vissuto fino alla maggiore età. Il memoriale non fu mai preso in considerazione mentre il processo era ancora in corso, eppure le parole di Michele, oggi 24 anni, avrebbero potuto scagionare completamente il padre: “Per togliere di mezzo papà mia madre ha cominciato ad imbottirci di menzogne – ha scritto il ragazzo – cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai”. Una verità diversa che ora i giudici romani dovranno appurare: l’avvocato Battagliola sta preparando il dossier per la revisione del processo, sarà consegnato tra una decina di giorni. “Stiamo lavorando con grande attenzione a un copiosissimo ricorso – sottolinea l’avvocato dell’uomo – la parte integrante del fascicolo è il memoriale che Michele ha consegnato sei anni fa ai suoi educatori e mai messo agli atti del processo, ma ci saranno anche nuove indagini difensive e nuove testimonianze, in primis quelle dei ragazzi che da accusatori sono diventati testimoni. A quell’epoca ci furono indagini molto accurate, con 75 testimoni interrogati, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, ma alla fine furono le accuse dei figli che convinsero i giudici a condannare il padre, accuse che pure tra tante perplessità vennero interpretate come vere.  Oggi invece i ragazzi riferiscono che erano stati spinti dalla mamma a dire cose mai accadute”. In quel processo ci furono sette imputati: tutti assolti i sei parenti di Saverio, unica condanna la sua, undici anni in primo grado e nove stabiliti dalla Corte d’Appello di Cagliari. Oggi Saverio, 46 anni, si trova rinchiuso nel carcere sassarese di Bancali: “Lo vedrò mercoledì – prosegue Battagliola – è un uomo di grande coraggio perché affrontare tutto questo sapendo di essere innocente non è facile. È fiducioso sulla eventualità di una revisione della condanna. I figli? Gli stanno vicino: da tempo, da quando cioè hanno compiuto 18 anni, sono corsi da lui per stargli accanto, per lui è una grande consolazione. Le vittime di questa storia sono tre: Saverio e i suoi due figli, spinti a mentire dalla madre. Oggi per fortuna la verità è venuta alla luce, non sarà facile ma speriamo di riuscire a dimostrarlo davanti a un tribunale. Se la revisione sarà accettata forse sarà davvero la fine di un incubo”.

Lo psicoterapeuta: “Il potere enorme delle madri sulla mente dei bambini”, continua Francesca Mulas. È normale che una madre riesca a condizionare due ragazzini al punto da convincerli di cose terribili, tanto terribili da mandare in galera il padre con una condanna per abusi sessuali? È quello che è successo a Gabriele e Michele, da bambini accusarono il genitore Saverio di violenza su di loro, ora che sono maggiorenni la verità che raccontano è ben diversa. Quelle accuse, dicono oggi, erano solo menzogne, instillate da una madre che cercava di metterli contro il padre. Marcello Dessena, psicoterapeuta cagliaritano, non si stupisce: è difficile trovarsi davanti a casi così gravi ma la manipolazione dei genitori verso i figli può arrivare al punto di far davvero vedere altre realtà: “Un adulto, che ci piaccia o no, ha un potere enorme sui figli, e l’adulto madre ne ha ancora di più. E non è forse attraverso la madre che i figli vedono il padre? Con lei, soprattutto durante l’infanzia, c’è un legame profondissimo, mentre nella maggior parte dei casi il padre è quasi uno sconosciuto, ed è la madre che spiega ai bambini chi è il loro padre; è attraverso lei che si costruisce la figura paterna. In questa situazione, con due genitori in pesante conflitto, i due bambini hanno ricevuto dentro di sé emozioni contrastanti: la verità che conoscevano e quella mostrata dalla madre, una condizione difficilissima da reggere cognitivamente e affettivamente”. La vicenda che ha portato in carcere Saverio, principali accusatori i suoi bambini di 9 e 12 anni, ne sarebbe la prova: da un lato un padre come tutti, dall’altra l’ “orco”’ capace di azioni terribili nei loro confronti: “La mamma ha avuto questo potere di metterli contro l’altro genitore, facendo violenza sulla visione che i figli avevano di lui, ma alla fine la verità mostrata dalla mamma ha avuto il sopravvento: non è successo in un attimo ma in un periodo di tempo lungo, con sguardi, accenni, parole e mezze parole che hanno portato a costruire un ritratto del padre diverso da quello che era in realtà”. Difficile tornare alla vita normale, ora: Massimiliano Battagliola, legale di Saverio, 46 anni, rinchiuso nel carcere di Bancali per scontare nove anni di pena, sta preparando un ricorso per chiedere la revisione del processo che tenga conto delle nuove verità raccontate da Michele e Gabriele. Se anche la richiesta verrà accolta e se alla fine di tutto l’uomo verrà riconosciuto innocente, i due ragazzi porteranno per sempre con sé un grande senso di colpa. “A livello razionale sanno di essere stati manipolati, ma a livello emozionale è difficile accettarlo e farsene una ragione. Sono convinto che il padre e i figli potranno recuperare il rapporto, ma ci vorrà probabilmente un aiuto psicologico per i ragazzi perché da qualche parte sentiranno il senso di colpa per quello che è successo”.

Per il diritto dei bambini a non essere coinvolti in conflitti fra genitori e false accuse.

Padri separati, i genitori "invisibili". I padri, in Italia, non esistono. Non sono raccontati dalla tv e dal cinema. La loro presenza non è contemplata nemmeno dalle istituzioni. E solo 4 italiani su 100 ottengono il congedo di paternità, scrive Giovanni Molaschi su “Panorama”. Tra l’Italia e l’Europa esiste una separazione. Il continente investe sulla famiglia non contemplata dal bel paese. Il 25% dei padri, in Germania, richiede il congedo parentale e posticipa il ritorno al lavoro per accudire la propria prole. In Italia, invece, il patrimonio delle famiglie è amministrato soprattutto dalle donne di casa. Secondo una recente inchiesta condotta da Pianeta Mamma, solo 4 italiani su 100 possono provare ad essere padri a tempo pieno. Gli uomini, nel nostro paese, non hanno le possibilità. Non esiste nemmeno un immaginario. In tv nessuna fiction racconta le storie dei figli e del loro futuro gestito da un genitore maschio. Anche al cinema i padri sono centellinati. Dall’uscita di Anche libero va bene, film che raccontava la storia di una famiglia senza madre, sono passati sette anni. I padri, in Italia, non possono mettersi alla prova. La loro presenza non è prevista. «Il telefono dell’associazione Padri Separati - evidenzia la presidente Tiziana Franchi - suona nei week end, durante i festivi o in estate. Sono stata eletta nel 2010. Da vent’anni faccio parte di questa associazione fondata da quattro padri. Sono figlia di separati e ho divorziato da mio marito. Capisco i problemi delle persone che iniziano una separazione». L’associazione Padri Separati ha aiutato Paolo. “Il mio matrimonio è durato 16 anni. È stata mia moglie a chiedere la separazione. Non mi amava più. Non mi aveva mai amato”. La donna, a Paolo, ha chiesto tutto: la casa, i figli, il mantenimento. “Credeva, come molti ex mogli, di potersi permettere certe richieste. Il giudice, donna, ha previsto per me un assegno. Questo denaro serve ai miei figli (15 e 17 anni) che vivono con me. I ragazzi sono stati ascoltati da una psicoterapeuta”. La paternità di Paolo è stata promossa da possibili madri. “Anche l’avvocato che ha seguito la mia causa è una donna”. Il percorso dell’uomo è un’eccezione. “Nei tribunali, sottolinea Franchi, si pensa ancora che un figlio possa essere affidato solo alla madre. La famiglia, negli ultimi anni, è cambiata. I padri si dedicano di più ai figli. Durante la separazione, però, la storia maturata prima della rottura scompare. Improvvisamente un uomo smette di essere il buon genitore che è sempre stato”. I problemi non nascono dall’educazione. Le difficoltà vere sono prodotte dall’economia. “Si passa, racconta Paolo, da due stipendi a uno”.“Secondo alcuni padri di Aps, nota Franchi, il mantenimento previsto dal giudice non gli permette di essere dei buoni genitori. Non riescono più a fare i regali extra richiesti dalle ex mogli. La crisi, inoltre, ha complicato tutto. I risparmi dei nonni, oggi, servono per il sostentamento del singolo. Prima, invece, potevano essere utilizzati per migliorare l’alloggio dei padri. Una casa non adeguata compromette il diritto di visita”.

Il dramma della separazione dai figli: di questo parla il libro "Il Delirio e la speranza. Storie di padri separati", edito da Erga di Genova, la prima raccolta pubblicata in Italia di racconti costruiti traendo spunto dalle vive esperienze di padri vittime di separazioni conflittuali. Secondo un'indagine condotta da Gesef (Associazione genitori separati dai figli) su 26.800 soggetti, il 75% degli uomini in fase di separazione subisce mobbing giudiziario e l'89% subisce la minaccia dalla coniuge di non poter vedere i figli. Il libro nasce dall'incontro tra le associazioni Mater matuta e Voltar pagina, e prende forma con il patrocinio ed il fattivo appoggio dell'Associazione Papà separati. Le testimonianze dei padri sono state rielaborate in chiave letteraria, facendo di ogni racconto un caso esemplare. "Il Delirio e la speranza" comprende 11 racconti in 252 pagine.

Per Sos Stalking si tratta di una vera e propria piaga sociale questa, che rappresenta uno dei cavalli di battaglia delle associazioni a tutela dei padri separati che ancora oggi si battono per rivendicare la presunta disparità di trattamento di alcuni magistrati che tenderebbero ad agevolare quasi sempre la donna arrivando perfino a chiudere un occhio davanti a storie palesemente artefatte. Il teorema è semplice: "Se non mi concedi quello che chiedo, ti denuncio". Un meccanismo così collaudato è comprovato, peraltro, dall'elevato numero di mogli che, ottenuto il proprio scopo processuale, ritira la denuncia con la più assoluta noncuranza delle risorse spese dagli organi di polizia (e di conseguenza dalla collettività) per indagare su reati inesistenti. "Certo, ci si aspetta che, ricevute le rassicurazioni da una presunta vittima circa l'intervenuta riappacificazione, un pubblico ministero sia portato a chiedere l'archiviazione, ma la certezza matematica non esiste e in astratto potrebbe accadere che lo sfortunato marito venga condannato ugualmente senza alcuna colpa", conclude Puglisi su “Libero Quotidiano”.

«I padri separati sono vittime di mogli e giudici di parte», scrive Fabrizio Graffione su “Il Giornale”. «Mi hanno separato dal figlio. Mi hanno tolto la casa. Ogni mese tolgono soldi sempre e solo a me». Ogni storia di violenza sull'uomo e padre, è pressoché uguale, come si legge anche su www.papaseparatiliguria.it, il portale dei «disperati», vittime di mogli e anche di magistrati, che hanno manifestato davanti al «palazzaccio» genovese. Accuse infondate, le più abbiette. Lungaggini giuridiche. Udienze senza esito. Muri di gomma. Assistenti sociali o giudici quasi sempre di parte o negligenti. «Tutti ne parlano, ma nessuno interviene. È un male trasversale» spiegano le autrici e gli autori delle associazioni genovesi Voltar Pagina e Mater Matura, che hanno pubblicato, edito da Erga, il volume da oggi in libreria «Il delirio e la speranza», undici racconti di padri separati: 252 pagine che si leggono d'un fiato, indignano e fanno venire brividi di paura. Secondo un'indagine Gesef, il 75 per cento dei papà in fase di separazione subisce mobbing giudiziario, l'80 per cento delle denunce di maltrattamenti da subito palesemente false e strumentali, dopo anni di lotta a colpi di carte bollate risulta giuridicamente falso, il 90 per cento dei genitori maschi subisce la minaccia di non poter più vedere i figli. «È la prima, drammatica raccolta di esperienze di padri ingiustamente allontanati dai figli - spiegano alla Erga edizioni -. Nel dramma dei figli è l'uomo a giocare il ruolo del reietto allontanato da casa, costretto a versare prebende spesso insostenibili a donne garantite da una legislazione farraginosa e vetusta». C'è pure chi da anni arresta criminali e difende i genovesi, come il maresciallo dei carabinieri Fabrizio Adornato, che ieri è arrivato pure a fare lo sciopero della fame davanti al Tribunale. «Negli ultimi due anni e mezzo - racconta - ho potuto vedere mia figlia soltanto una mezza dozzina di volte. Ho denunciato i magistrati. Nessuno mi ha controquerelato. In una denuncia, l'ex moglie si lamentava che, testualmente, avevo consegnato mia figlia a mia madre. Nessun genitore dovrebbe riferire della prole come se fosse un pacco postale. La mia bambina è un essere umano che ha bisogno di amore, cure, attenzione e non è una cosa o una merce di scambio». Accanto a lui, ieri ci sono stati altri «Papà separati della Liguria». «A Genova siamo migliaia. La mia ex moglie mi ha accusato per maltrattamenti - spiega Ambrogio Barbiero, 61 anni - facevo il saldatore, ma ora sono disoccupato. Cacciato di casa come un delinquente e costretto a versare 250 euro al mese appena faccio un lavoretto. Mia sorella pensionata mi accoglie e mi dà da mangiare, altrimenti sarei stato costretto a rubare. Da taluni magistrati non ho ricevuto nessuna pietà». Ormai la tecnica usata dalle mogli è quasi sempre la stessa: denunciare l'uomo per maltrattamenti, chiedere la separazione, ottenere dal Tribunale il riconoscimento e un vantaggio economico. È la Genova dei cornuti e mazziati.

Le streghe son tornate e vanno a caccia degli ex papà separati, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Riprende la discussione, in Senato, della legge che mira a migliorare l'"affidamento condiviso" dei minori nelle separazioni. Femministe, avvocati e giudici cerca di affossare le novità. La relatrice Gallone: "Ce la faremo". Chi ha ancora paura del maschio? Chi crede ancora al lupo cattivo? Era da tempo che la parte della sinistra più trinariciuta non riusciva a mettere in campo un'alleanza così anacronistica: attempate femministe in servizio permanente effettivo, avvocati sedicenti «democratici», giornalisti ridotti a supini megafoni di una disinformazione degna dello stalinismo applicato al diritto di famiglia. A raggruppare questo coacervo di interessi più che sospetti è una legge in discussione al Senato. Legge che pur essendo una battaglia di civiltà, viene avversata, all'unisono, dalla potente lobby degli avvocati che temono di perdere la loro gallina dalle uova d'oro, da giudici che vivono arroccati nell'eremo intangibile della propria discrezionalità assoluta, da associazioni di donne che rifiutano la realtà e sembrano inalberare il grido che le rese tristemente celebri (tremate, tremate, le streghe son tornate!). Son tornate. E con perfetta tempestività, alla ripresa della discussione sulla legge che tenta di migliorare le norme sull'«affido condiviso», si sono manifestate in due incredibili articoli ricchi di bugie, in contemporanea sui siti di Repubblica e Manifesto. Ma che cosa c'è di tanto terribilmente maschilista, nel ddl 957 che viene dibattuto (ormai da tre anni) nella commissione giustizia di Palazzo Madama? La relatrice, Alessandra Gallone (Pdl), non demorde e non si stanca di spiegare - persino di fronte alla disonestà intellettuale dei detrattori - che si tratta di una «battaglia di civiltà»: garantire il diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, anche in caso di separazione. Si tratta, cioé, di migliorare l'applicazione della legge 54 che nel 2006, anche in Italia, ha introdotto il cosiddetto «affidamento condiviso». Negli ultimi anni, in commissione, i senatori hanno cercato di approfondire il tema attraverso un'indagine conoscitiva tra le più minuziose. Sono stati convocati e ascoltati presidenti e operatori dei tribunali per i minorenni, rappresentati della magistratura e dell'avvocatura, docenti universitari e psicologi, associazioni di genitori separati e persino di nonni bistrattati. Mai fu fatto tanto, con dispendio di risorse, prudenza e accuratezza (nonché qualche bastone fra le ruote da parte di senatori espressione delle suddette lobbies). Ma la Gallone non vuole fare dietrologie, e si spiega le resistenze con il candore di Biancaneve: «Credo che sia perché l'argomento è molto sentito a livello sociale... La legge 54 del 2006, quella dell'affido condiviso, fu approvata in tempi brevi e in maniera trasversale per adeguare il nostro ordinamento a quello europeo. Così che ha lasciato qualche imperfezione nella sua applicazione. Ed è su questo, che lavoriamo. Altro che voler reintrodurre la patria potestà, come ha scritto qualche malinformato sfidando il senso del ridicolo...». Più che malinformato, malintenzionato, diremmo: nel senso di nutrire la cattiva intenzione di boicottare la legge a ogni costo, non esitando a usare strumentalmente il tema della violenza sulle donne, che nulla ha a che vedere con l'applicabilità dell'affidamento condiviso. Le questioni in ballo sono molteplici e complesse: sintetizzando, la legge del 2006 ha superato i limiti dell'affido condiviso a un solo genitore (di solito la mamma), in base al principio ormai riconosciuto in sede giuridica, psicologica e sociale, che lo sviluppo equilibrato di un minore possa e debba essere perseguito con l'apporto di entrambi gli ex coniugi. Una «bigenitorialità» che, trattandosi spesso di parti in conflitto, finisce per essere disattesa: tanto dai giudici, quanto dai coniugi affidatari (ancora oggi, per oltre il 95 per cento, le mamme). Che cos'è che non va, nell'applicazione della legge numero 54? «I punti critici - dice la Gallone - riguardano il concetto di pariteticità del tempo che i figli trascorrono con l'una o con l'altro genitore, la possibilità di introdurre il sistema del doppio domicilio, l'introduzione del mantenimento diretto dei figli, per garantire l'effettiva partecipazione di entrambi i genitori alla vita dei figli». Già, perché se in teoria è facile dire che i diritti sono pari, nella vita quotidiana un genitore (l'affidatario) mantiene il mano il pallino (dispone del denaro, stabilisce i tempi, grazie al mantenimento della casa conta su una situazione di vantaggio oggettivo). L'altro, di solito l'ex papà, ormai in miseria (come da ultimo rilevato con dati drammatici anche dall'Istat), deve riuscire a conciliare il lavoro e le difficoltà di vita con quanto stabilito dalla ex moglie. Senza poter contare neppure sulla possibilità di gestire una quantità minima di denaro, mettiamo per fare un regalino-extra, che aiuti a costruire il rapporto con il bambino. La legge del Senato, però, va ancora oltre, essendo - una volta tanto - in sintonia con i tempi. Dunque, vorrebbe tener conto anche dell'affettività dei nonni (di solito paterni), spesso tagliati totalmente fuori dalla vita del bambino per difficoltà pratiche e tempi risicati. Ancora: vorrebbe introdurre l'obbligatorietà della mediazione familiare, uno strumento utile per prevenire e sanare le tante controversie minime, che finiscono per vedere una parte soccombere soltanto per la difficoltà a farsi valere in sede legale. Infine, punto sul quale le femministe hanno perso la trebisonda, il ddl timidamente vorrebbe riconoscere quella «sindrome di alienazione parentale» (in medicina: Pas), che spesso i padri e le loro nuove compagne hanno imparato a riconoscere. Una sindrome che vede il minore diventare man mano diffidente, taciturno, prevenuto, irritabile, incapace di costruire un rapporto con uno dei due genitori, perché l'altro persegue subdolamente una persistente e velenosa opera di denigrazione. Come si vede, nulla di trascendentale. Difesa del minore dalle subornazioni degli adulti. Nulla che possa minare quella sorta di supremazia naturale delle mamme nelle separazioni. Ma perché tanto terrore? Che cosa temono i paladini del diritto materno a senso unico? Stiamo esagerando? No. Basti l'attacco dell'articolo uscito su Repubblica.it per capire il carico da novanta messo in canna: «Donne trattate come bestie dai compagni. Bambini maltrattati dai loro padri... Due disegni di legge, in discussione oggi alla Commissione Giustizia del Senato, rendono obbligatorio il ricorso alla mediazione familiare anche in casi di padri/mariti o partner violenti... La Fondazione Pangea onlus mette sotto accusa questi due ddl, spiegando che "ricordano la patria potestà"...». Balle spaziali. Argomenti strumentali buttati lì a mazzo. E l'articolo prosegue, sull'introduzione della Pas: «L'associazione ricorda che questa "sindrome" viene spesso erroneamente utilizzata nei tribunali e dai servizi sociali in Italia per decretare il diritto dell'abusante, in casi di separazione per violenza agita dal partner sulla madre e sui figli, ad ottenere una mediazione forzata e poi l'affido condiviso dei figli". "È bene sottolineare che i bambini e le bambine che hanno un padre violento stanno bene in sua assenza: solo così possono ricostruire un futuro sereno assieme alla madre", scrive l'associazione...». Come si vede, una miscela incredibile di acredine e falsità, basata sul (falso) presupposto che le separazioni verrebbero poste in atto per violenze e maltrattamenti dei mariti nei confronti delle mogli. E che i padri violenti avrebbero accesso alla mediazione familiare. Ma quando? Ma dove? In che mondo vivono, questi giapponesi nella giungla del femminismo? La guerra però è finita. Che esista ancora il fenomeno della violenza sulle donne, c'è qualcuno che lo mette in dubbio? E che c'azzecca con la normativa che regola le separazioni (il più delle volte determinate da ben altri motivi)? Più interessante rilevare, allora, i nessi tra queste prese di posizione e, per esempio, l'interesse della lobby degli avvocati: con l'obbligatorietà della mediazione, addio cospicui assegni per le infinite beghe tra coniugi. E addio anche al dispotismo dei giudici, capaci di decidere con leggerezza e pregiudizio sulla vita di minori e papà (o mamme che siano). Senza mai pagare per le famiglie distrutte: più da loro, che da una triste separazione tra coniugi.

Le femministe per la “parità genitoriale” dalla parte dei padri separati. Intervista di Sergio Rizza su “Metronews” ad Adriana Tisselli del Movimento Femminile. Mi consenta a...Adriana Tisselli, presidente e fondatrice del Movimento Femminile per la Parità Genitoriale (donnecontro.info).

Dopo il caso del piccolo Lorenzo conteso a Padova, lei ha biasimato la disapplicazione dell'affido condiviso e le “percentuali bulgare” con cui la madre è indicata come genitore collocatario prevalente, rinunciando così a vita e lavoro. Al padre, poi, si chiede l'assegno di mantenimento anziché l'obbligo di accudire i figli... Padri deresponsabilizzati e madri sovraccariche, è così?

«Non proprio. La legge sull'affido è letta come una violazione dello status quo, quello del vecchio affido esclusivo. In tribunale si applica un'altra legge, la prassi. Quanti discorsi sui diritti dei bimbi: in realtà sono violati, se un genitore è ridotto a visitatore del weekend.»

Non sembra un derby tra padri separati e madri separate?

«Peggio, è un derby tra donne. Da un lato ci sono le ex mogli che aspirano a rifarsi una vita ma restano ingabbiate nella vecchia immagine della donna del focolare, mentre l'uomo è il cacciatore nella giungla; e dall'altro ci sono donne "per male" che si accontentano dell'assegno...»

Tifate per i padri separati...

«Li sosteniamo. Il femminismo predica l'indipendenza della donna. Chiuderla in casa con l'assegno è una finta tutela. Si arriva al giudice che chiede i redditi della nuova compagna dell'ex marito. Alla quale così tocca mantenere il nuovo compagno e la sua ex moglie!»

Quale modello per l’Italia? Il femminismo buono di Vezzetti ed il femminismo cattivo di Faldocci, scrive Ana su “Centro anti violenza”.

Il pediatra e scrittore Vittorio Vezzetti ha descritto in un libro di successo ed in audizioni al Senato l’esperienza scandinava in materia di affido condiviso: tutelando il diritto dei bambini a venire accuditi direttamente da entrambi i genitori (e quindi doppia residenza e mantenimento diretto) si è abbattuta la conflittualità fra gli ex coniugi, con soddisfazione non solo dei papà e delle mamme che possono emanciparsi costruendo una propria carriera lavorativa. Ma soprattutto dei bambini, come dimostra lo studio in merito pubblicato su una delle più importanti riviste pediatriche mondiali, finalizzato a verificare se il coinvolgimento paterno (concettualizzato come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità) abbia influenze positive sullo sviluppo della prole.  Gli studiosi hanno analizzato retrospettivamente 24 studi svolti in 4 continenti diversi e con durate dai 10 ai 15 anni. La conclusione è che, dopo aver depurato i dati da variabili socioeconomiche, in 22 studi su 24 si è avuta l’evidenza degli effetti benefici derivanti dal coinvolgimento di ambedue le figure genitoriali. In particolare si è visto che il coinvolgimento del padre migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, diminuisce lo svantaggio economico e la delinquenza giovanile, riduce lo svantaggio economico nei ragazzi.  Tale affermazione è stata scientificamente validata con intervallo di confidenza statistica del 99.5%. Un vero affido condiviso è inoltre un importante fattore di prevenzione dell’Alienazione Genitoriale, nella quale il genitore prevalente fa il lavaggio del cervello al figlio fino a fargli odiare l’altro genitore, compiendo un vero e proprio stupro psichico.

Purtroppo per i bambini italiani, in Italia ha preso campo il femminismo metaforicamente simboleggiato dall’avvocata d’assalto Vajassa Faldocci, la quale prosaicamente sostiene che la donna preferisce intascare mantenimenti e farsi assegnare case per sé e per i figli piuttosto che lavorare, rendendo florida la sua attività professionale di “divorzista nel campo delle false accuse di violenza domestica”. Con questo femminismo dell’odio di genere, dal 1975 ad oggi in Italia l’affido aprioristico alla madre è salito fino al 92%, mentre la percentuale di donne nelle professioni e nella vita pubblica è rimasta bassa. Ma soprattutto, tale pratica ha devastato generazioni di bambini: su un milione di bambini italiani coinvolti in separazioni, 200mila risultano affetti da disturbi psicologici o psichiatrici: una incidenza del 130% maggiore che nei bambini non coinvolti in separazioni.  Che la colpa sia non della separazione, ma del sistema che la gestisce, è confermato dal fatto che tale incremento non si verifica nei paesi a noi vicini, che avendo introdotto il divorzio fin dal 1792 hanno imparato a tutelare i bambini: basta passare dalla Sardegna alla Corsica ed i bambini affetti da tali problemi si dimezzano. Dove il femminismo cattivo varca il confine della criminalità è con il sistema delle false accuse, ovvero delle calunnie pedo-femministe.  Le cifre sono allucinanti: ogni 100 accuse di pedofilia contro padri separati, 92 sono false, ed causano ai bambini una devastazione pari a quella degli abusi realmente esperiti, come rivelato nello studio scientifico “Disturbi psicopatologici e fattori di stress in procedimenti penali relativi all’abuso sessuale”. È naturale osservare che un sistema che per proteggere 8 bambini ne devasta 92 arricchendo avvocati e sedicenti esperti abusologi fa più danni della pedofilia. Mentre 32mila bambini italiani sono oggi detenuti in case famiglia, mentre 25mila bambini ogni anno perdono i contatti con il loro papà, mentre la depravazione umana si spinge fino a cercare di negare che l’Alienazione Genitoriale è un abuso sull’infanzia, grande successo ha avuto la manifestazione organizzata dal Movimento Femminile per la Parità Genitoriale per dire basta a tutto ciò, grande popolarità sta riscuotendo l’impegno della deputata Rita Bernardini per il femminismo buono e quindi per una riforma verso un vero affido condiviso.

LE PAZZIE DISPERATE DEI PADRI CHE STERMINANO LA FAMIGLIA E LA COSCIENZA SPORCA DELLE ISTITUZIONI.

La storia del carabiniere che ha sparato alla moglie e ucciso le figlie, scrive Il Post l'1 marzo 2018. Lei lo aveva lasciato, era stata picchiata più volte, aveva cambiato la serratura di casa e aveva presentato un esposto dicendo di sentirsi in pericolo: inutilmente. La mattina di mercoledì 28 febbraio Luigi Capasso, un appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, ha sparato con l’arma di ordinanza alla moglie da cui si stava separando, ferendola gravemente, ha ucciso le sue due figlie nella casa in cui vivevano con la madre a Cisterna di Latina e poi si è suicidato. La moglie, Antonietta Gargiulo, si trova da ieri in gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Camillo di Roma: lei lo aveva lasciato e aveva paura di lui, aveva cambiato la serratura della porta, aveva presentato un esposto dicendo di sentirsi in pericolo e aveva avvisato i superiori del marito. Luigi Capasso aveva 43 anni, era originario di Secondigliano, un quartiere di Napoli, ed era un appuntato dei carabinieri da due anni in servizio alla stazione dell’Arma di Velletri. Si occupava dei lavori d’ufficio, accoglieva il pubblico e a volte svolgeva incarichi in tribunale. Martedì 27 febbraio aveva finito il turno di servizio a mezzanotte e poi era andato a dormire nel suo alloggio in caserma, dove aveva ottenuto una camera a settembre dello scorso anno quando la moglie (che aveva aggredito) lo aveva allontanato di casa e aveva cambiato la serratura della porta. Alle 5 del mattino di mercoledì Capasso si era presentato sotto l’appartamento dove la moglie viveva con le due figlie. Aveva aspettato in garage la donna (che stava per andare al lavoro allo stabilimento della Findus) e le aveva sparato tre colpi: alla mandibola, alla scapola e all’addome. Poi le aveva rubato le chiavi, era salito in casa, che si trova al secondo piano di una palazzina, e aveva sparato alle due bambine, di 7 e 13 anni. Una vicina di casa aveva visto il corpo ferito di Antonietta Gargiulo in garage e aveva avvisato i soccorsi e i carabinieri, che erano arrivati poco dopo. Per circa cinque ore Capasso aveva lasciato intendere che le figlie fossero ancora vive ai militari del Nucleo negoziatori del comando provinciale di Roma. Nel frattempo sotto alla palazzina erano arrivati un’amica di famiglia che avrebbe potuto essere di aiuto nelle trattative, il parroco don Livio e i vicini di casa. Erano presenti il comandante provinciale dei carabinieri di Roma Antonio De Vita, quello dei carabinieri di Latina, il magistrato di turno, il colonnello Gabriele Vitagliano, il Gruppo di Intervento Speciale e un elicottero che sorvolava la zona. Vitagliano aveva detto ai giornalisti presenti che la trattativa «era particolarmente complessa» e che Capasso era «molto agitato: parla, a volte smette, ma è molto agitato». Verso le 13 al negoziatore, che si trovava sul balcone accanto a quello della casa in cui Capasso era barricato, il carabiniere aveva finalmente detto che avrebbe spiegato alle bambine cosa stava succedendo e che avrebbe aperto la porta. Invece era rientrato in casa e dopo tre quarti d’ora di silenzio si era sentito uno sparo. Quando i corpi speciali hanno sfondato la porta e sono entrati nell’appartamento hanno trovato la bambina più piccola, Martina, nel letto matrimoniale: era morta da molto. Accanto a lei c’era Luigi Capasso che si era sparato. Nella cameretta c’era la bambina più grande, Alessia: il suo corpo era al centro della stanza. Lei, secondo quanto hanno riferito i carabinieri e scritto oggi diversi giornali, «era già sveglia quando il padre le ha puntato la pistola contro e ha aperto il fuoco». Luigi Capasso e Antonietta Gargiulo si erano sposati nel maggio del 2011 e si stavano separando: l’udienza era stata fissata per il prossimo 29 marzo. Le persone vicine alla coppia hanno raccontato che da almeno due anni la situazione era precipitata e i giornali di oggi riportano diverse loro testimonianze: «Qualcosa era cambiato», ha raccontato un amico; «I battibecchi erano così frequenti che un anno e mezzo fa li avevo mandati in un centro diocesano di aiuto alle famiglie», ha detto il parroco don Livio Fabiani; «Lei era terrorizzata» ha spiegato un’amica: «Luigi picchiava la moglie perché l’estate scorsa lo aveva cacciato da casa». Sempre don Livio, sulle figlie: «La tredicenne era nell’Azione Cattolica Ragazzi, era serena, qui da noi ha fatto il catechismo e ora si sarebbe dovuta preparare per la cresima. Ma quattro-cinque mesi fa si è chiusa, il suo carattere è cambiato. Non ha più frequentato la parrocchia»; Elena Crini, una delle amiche di Antonietta: «Era terrorizzata da lui, e così le figlie. Se lo trovava davanti ovunque, la chiamava decine di volte, la picchiava per strada. Ma di denunciarlo non ne voleva sapere, aveva paura. Lui le diceva sempre: se non fai nulla avrai contro solo me, se mi denunci e cerchi di rovinarmi la carriera avrai contro tutte le forze dell’ordine e per te sarà l’inferno». Capasso era già stato sospeso per due mesi dal servizio per una truffa alle assicurazioni e poi era stato reintegrato. Maria Belli, l’avvocata di Antonietta Gargiulo, ha detto che la sua cliente aveva già parlato con il comandante dell’arma dei Carabinieri di Velletri raccontando la gravità della situazione e anche con gli assistenti sociali, per tutelare le figlie che non volevano più vedere il padre: le avevano consigliato di tenerle lontane da lui. Nel settembre del 2017 la donna aveva infine presentato un esposto alla questura di Latina, dopo aver subito un’aggressione da parte del marito sul posto di lavoro e poi di nuovo a casa, davanti alle figlie: un esposto che non aveva avuto alcun seguito. Il 26 gennaio del 2018 Antonietta Gargiulo era invece stata convocata nel commissariato di polizia di Cisterna di Latina: stavolta era stato Capasso ad aver presentato un esposto contro di lei accusandola di tenerlo lontano dalle bambine.

Repubblica riporta ampi stralci del verbale dell’incontro di Antonietta Gargiulo in commissariato: «Voglio che mio marito stia lontano da me e dalle nostre figlie sino alla data della prima udienza (per la separazione, ndr) e che la smetta di inviarmi messaggi e telefonarmi in continuazione». «Ho ancora paura di mio marito per il suo carattere violento e aggressivo». «Dal 9 settembre ha deciso volontariamente di allontanarsi da casa per un grave episodio accaduto il 4 settembre, data in cui ho subìto un’aggressione fisica e verbale sul posto di lavoro e successivamente presso la nostra abitazione davanti alle figlie minori». «Quanto riferito dall’esponente non corrisponde del tutto al vero. Attualmente siamo in fase di separazione giudiziale e la prima udienza è stata fissata il 29 marzo 2018 presso il tribunale di Latina: fino a quella data mio marito deve stare lontano da me e dalle nostre figlie». «Ci siamo sposati il 26 maggio 2001. Subito dopo le nozze il nostro rapporto è stato molto conflittuale, con accese discussioni anche in presenza delle nostre figlie minori».

La donna aveva portato con sé in commissariato il suo primo esposto per dimostrare quanto lui fosse pericoloso, esposto che non portò a nulla perché, hanno fatto sapere ora dall’Ufficio della questura, «non fu rappresentata nessuna situazione né di minaccia né di pericolo». Capasso venne convocato ed espose la sua versione dei fatti: la moglie gli impediva di vedere le figlie, facendo dunque implicitamente appello alla cosiddetta “alienazione parentale” che continua a trovare applicazione nei tribunali italiani durante le cause di separazione e di affidamento dei figli. Questa sindrome, che secondo molti non ha alcun fondamento, colpevolizza le donne vittime di violenza e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti.

Maria Belli, l’avvocata di Antonietta Gargiulo, ha spiegato che dopo l’aggressione e l’esposto, Capasso aveva implorato la moglie di non denunciarlo: lei avrebbe avuto novanta giorni per trasformare l’esposto in una denuncia a tutti gli effetti. Ma lui si era impegnato ad andare da uno psicologo e a frequentare un percorso di sostegno genitoriale: «La mia cliente non ha voluto denunciarlo perché era sicura che lui avrebbe perso il lavoro» (una nuova denuncia, dopo quella per truffa, avrebbe potuto renderlo passibile di sospensione). Sempre l’avvocata: «La bambina più piccola, quando le si chiedeva se voleva vedere il papà, sembrava traumatizzata, non parlava, si limitava a scuotere la testa, facendo cenno di no». La più grande aveva mantenuto per qualche tempo i rapporti con il padre, poi si era allontanata: «Diceva che il papà ogni volta che la chiamava chiedeva sempre della mamma, era ossessionato da lei e soprattutto dalla sua gelosia». E ancora: «Poco prima delle festività Alessia ricevette davanti alla sua scuola, a pochi metri dall’abitazione della famiglia, una visita inaspettata del padre che voleva darle il regalo di Natale. Alessia prese il regalo e scappò».

Diversi giornali hanno raccontato il femminicidio di Cisterna Latina usando termini come “raptus” , “follia” o “gelosia” e dedicando ampio spazio al femminicida, Luigi Capasso sottolineando come fosse «legatissimo alle figlie» o intervistando conoscenti o colleghi che lo descrivono come «un uomo normale». Come sanno bene le donne e gli uomini che lavorano nei centri Antiviolenza – valorizzati da quella Convenzione di Istanbul che è stata ratificata dall’Italia ma di cui in Italia manca il sostanziale recepimento – il femminicidio è un fenomeno endemico.

Luisa Betti, giornalista che da anni si occupa di queste questioni, ha spiegato bene come il femminicidio pensato e organizzato da Capasso sia stata una «forma di rappresaglia contro chi voleva sottrarsi al suo potere, che non ha nulla a che vedere con la gelosia, né con la non accettazione della separazione per fragilità dello stesso, ma soltanto con la violenza che viene esercitata dall’uomo nel momento in cui si sente defraudato di questo suo potere, non più esercitabile nei confronti della donna che ha scelto e i figli che ha procreato: oggetti di sua proprietà esclusiva di cui può decidere la vita, la morte, e la punizione che più gli sembra adatta». E ancora:

«Antonietta non era una sprovveduta e non solo aveva cambiato la serratura di casa e inoltrato una richiesta di separazione giudiziale ma era seguita da un’avvocata, aveva fatto un esposto, chiamato in causa gli assistenti sociali per proteggere le figlie, rifiutato tutti gli incontri che l’ex le proponeva, perseguitandola, e questo a dimostrazione che era consapevole della sua pericolosità. Antonietta in realtà aveva chiesto aiuto e azionato molti campanelli d’allarme che non sono stati però sufficienti a fermare un uomo violento al quale nessuno aveva tolto la pistola d’ordinanza: un uomo che era stato ritenuto idoneo dall’Arma malgrado la situazione fosse ben nota ai suoi colleghi ai quali Antonietta si era rivolta più volte raccontando della violenza dell’ex marito, che con quella pistola ha ferito gravemente la ex moglie e ucciso due bambine».

Nella violenza contro le donne il momento post-denuncia è fondamentale, perché è anche il più pericoloso. Uno dei motivi per cui le donne faticano a chiedere aiuto e a denunciare è proprio il fatto che hanno paura di essere uccise da chi le ha maltrattate, se chiedono aiuto o denunciano. Lalla Palladino, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), ha spiegato che servono «efficaci misure di prevenzione da applicare immediatamente, nel momento stesso in cui una donna avvia una separazione legale da un uomo violento, o nel caso in cui il marito o ex compagno cominci a perseguitarla».

Cisterna di Latina, parla il fratello del carabiniere: «Ve lo giuro, non era un mostro...". Gennaro Capasso: "Ha avuto un blackout di 15 minuti. Le bimbe? Erano le mie principesse", scrive Silvia Mancinelli il 2 Marzo 2018 su "Il Tempo". «Mio fratello non era un mostro. L’ho visto poco fa nella bara, ho visto le mie principesse. È uscito di testa, ha avuto 15 minuti di blackout». Gennaro Capasso, fratello maggiore di Luigi, è un uomo frastornato da una tragedia che lui stesso definisce «un fulmine a ciel sereno».

Signor Capasso, spesso queste situazioni si commentano con il conforto della retorica: «Era una bravissima persona, nessuno se lo sarebbe mai aspettato». Nel caso di suo fratello, invece, com’è andata?

«Sicuramente Luigi ha sofferto molto dopo la separazione, ma non lo faceva vedere. È iniziato tutto da quell’alterco il 4 settembre, davanti alla Findus, me lo ripeteva sempre. Antonietta se ne andò di casa per due giorni, fu ospitata da una collega che le presentò l’avvocato (Maria Concetta Belli ndr). Disse a mio fratello che, se, se ne fosse andato spontaneamente, non lo avrebbe denunciato. E lui, con quel precedente (le truffe assicurative ndr) non si è messo a discutere. Ha chiesto di dormire in caserma, dove è rimasto fino all’ultimo».

Fu allora che gli proposero un sostegno psicologico. È così?

«Esatto, ma lui lo rifiutò semplicemente perché già si stava facendo aiutare. Quando poi si presentò al colloquio, una formalità per ottenere l’alloggio, risultò idoneo».

Allora cosa ha armato suo fratello al punto da fargli commettere una strage?

«Voleva tornare a casa e ha fatto di tutto per riuscirci. Non so se sia stato un marito pessimo, sicuramente era un ottimo padre e adorava le sue bambine. Quando Antonietta lavorava, era lui, se non in servizio, a guardare le figlie. Tutto questo terrore per il padre le mie nipoti non lo hanno mai avuto: le portava a danza, al cinema, faceva tutto quello che fanno i papà».

Antonietta, però, aveva presentato più di un esposto per segnalare i comportamenti violenti e molesti di suo fratello.

«Mia cognata è stata messa su dal suo avvocato. Che avrebbe dovuto o potuto tentare una riappacificazione tra i due, e invece non ha fatto altro che buttare alcol sul fuoco. Luigi le proponeva di vedersi, di parlare e lei non gli permetteva nemmeno di vedere le figlie. Il 29 marzo avrebbero avuto la giudiziale, mentre mio fratello cercava di intavolare una trattativa lei gli rispondeva che si sarebbero visti in tribunale. Era spaventato all’idea di perdere la casa che aveva comprato anni fa, di non vedere più Alessia e Martina. Gli è crollato il mondo addosso».

Anche suo fratello presentò una querela, è così?

«Quindici giorni fa, attraverso il suo avvocato, perché non ce la faceva più. Sono più grande di 8 anni, si è sempre confidato con me e ultimamente veniva spesso a Napoli: è stato qui fino a mercoledì scorso perché mio padre non sta bene. Sono separato anche io da 12 anni, la vita va avanti. Ma dietro a questa storia c’è parecchio».

A cosa si riferisce?

«A distruggerlo è stata la lontananza dalle figlie. Non voglio giustificarlo, ma sia Antonietta che il suo avvocato hanno gestito male questa situazione. Lo vedevano nervoso, avrebbero potuto lasciarlo con le bambine, invitarlo a casa un pomeriggio, fargli fare il padre. Anche l’ultima volta che è venuto da noi avrebbe voluto portarle e non gli è stato permesso. Eravamo una famiglia molto unita, da settembre mia cognata ci ha bloccati tutti. I nonni non vedevano più le nipoti, nemmeno a Natale, o per l’onomastico di Martina».

Non pensa che Antonietta avesse paura, che suo fratello fosse diventato violento?

«Ma quando mai. Avrebbe potuto chiamarci, parlare con noi per cercare di risolvere la situazione, per farlo ragionare. Magari avremmo potuto fare qualcosa...».

A settembre però Luigi ha aggredito la moglie davanti ai suoi colleghi.

«Mio fratello era geloso della moglie, ha visto qualcosa che non andava e ha fatto quello che non avrebbe dovuto fare. Ma la moglie non gli faceva nemmeno prendere i vestiti, Luigi andava in chiesa per vedere le bambine e ogni volta lei chiamava le forze dell’ordine. Ha saputo dell’altro esposto presentato da Antonietta per caso, quattro mesi dopo, quando i carabinieri si sono presentati al bar dove stava facendo colazione con un amico per chiedergli le generalità».

La strage di Latina e la coscienza sporca nelle istituzioni. Con la pistola d'ordinanza, Luigi Capasso ha ucciso le figlie e ferito la moglie Antonietta. In un Paese che non tutela le donne e se ne lava le mani, scrive Carmelo Abbate l'1 marzo 2018 su "Panorama". Un carabiniere impugna la pistola d'ordinanza, l'arma dello Stato che ha in dotazione, spara alla moglie in strada, la lascia per morta, poi sale in casa, uccide la figlia Martina di 7 anni mentre dorme, corre nella stanza dell'altra figlia Alessia di 13 anni che si è svegliata per il rumore dei colpi, e l'ammazza. Infine dopo alcune ore di chiacchierate sul balcone con i colleghi, si spara. A Cisterna di Latina è stato il giorno della resa dei conti. Non solo dell'appuntato scelto Luigi Capasso. Con l'omicidio delle sue bambine innocenti e incolpevoli, e il ferimento della moglie Antonietta Gargiulo, il carabiniere ha alzato il velo della coscienza collettiva sporca di fronte alla mattanza consumata ai danni delle donne. Coscienza sporca nelle istituzioni, nella politica, nelle forze dell'ordine, nella società civile. Universi maschili e maschilisti che da anni fanno soltanto ammuina, fanno finta che il problema delle troppe ragazze, figlie, mogli, mamme e nonne ammazzate, possa essere risolto con un banale strumento legislativo, un nuovo reato, quello di stalking per esempio, o un divieto di avvicinamento. Lo Stato "ponziopilato" annuncia e se ne lava le mani, in attesa delle prossime Martine, Alessie e Antoniette. In poche ore, l'appuntato scelto Capasso ha stracciato il codice militare, che gli imponeva lealtà, nobiltà d'animo e signorilità. Ha infranto il codice cavalleresco: prima le donne e i bambini, gli uomini pronti al sacrificio. E ha ricoperto di ignominia l'Arma dei Carabinieri, quella che una volta era la "beneamata", dove prima di metterti il cappello con la fiamma sulla testa si andava con i raggi x a ritroso per tre generazioni nella tua famiglia alla ricerca di eventuali cause di incompatibilità legali e morali. Il Carabiniere che ammazza le figlie e spara alla moglie con la pistola dello Stato, non può che bloccarci sull'immagine di una stessa pistola attaccata alla cintura dei pantaloni di un altro carabiniere, quello di Firenze, nel buio di un palazzo mentre abusa sessualmente di una studentessa americana. La pistola dello stato in dotazione all'appuntato scelto Capasso è andata oltre, ha alzato il sipario, ha segnato un prima e un dopo nella grande ipocrisia che circonda un fenomeno con più vittime del terrorismo. Perché Antonietta Gargiulo è stata uccisa proprio dalla pistola che avrebbe dovuto proteggerla, lasciata con codardia nelle mani di un uomo indegno di portarla. Aveva presentato due esposti per maltrattamenti, in questura e in commissariato, dopo che il marito l'aveva picchiata davanti alla fabbrica dove lei andava a guadagnarsi il pane. Antonietta aveva anche bussato diverse volte alla caserma dei carabinieri di Velletri, quella dove prestava servizio il marito, ma aveva ottenuto soltanto promesse e rassicurazioni. "Ci parlo io, signora non si preoccupi" le era stato detto. E con lui aveva parlato anche la Commissione dell'Arma dei Carabinieri che dopo averlo sottoposto a una visita medica, lo aveva dichiarato idoneo al servizio. La coscienza sporca nelle istituzioni che oggi prova a nascondersi dietro il paravento della forma: la donna aveva presentato un esposto, in conseguenza del quale la legge non prevede il divieto di avvicinamento. Antonietta aveva subito violenza fisica, psicologica, morale, ma non voleva danneggiare ulteriormente il marito. Con una denuncia lui avrebbe rischiato di perdere il posto di lavoro, oltre alla famiglia. E lei non voleva infierire. Antonietta sceglie di proteggere il marito probabilmente per proteggere se stessa e le figlie. Ma chi l'ha ascoltata e ha accolto le sue denunce sotto forma di esposto, chi conosceva attitudini e comportamento del marito carabiniere armato, aveva il dovere di fare qualcosa, non soltanto un dovere morale scritto nel codice cavalleresco.

Le violenze sulle donne restano impunite: archiviata una denuncia su 4, scrive il 5 febbraio 2018 Maria Novella De Luca su "La Repubblica". La commissione sul femminicidio denuncia il caos nei tribunali e gli abusi derubricati a conflitti familiari. Oltre allo scandalo delle assoluzioni: a Caltanissetta il 44 per cento degli imputati salvato dai giudici. Le donne denunciano, ma un quarto delle loro denunce viene archiviato. I loro ex, mariti, compagni violenti e stalker vengono condannati sì, ma ci sono tribunali (Caltanissetta) dove le assoluzioni sfiorano il 44% dei processi. E poi: troppe violenze sulle donne sono ancora “catalogate” dalle forze dell’ordine come conflitti familiari. I sistemi di rilevazioni di dati sono gravemente obsoleti e contraddittori tra procure e procure, tra uffici e uffici.

"Uccisa dal marito per colpa dell'inerzia dei giudici". Lo Stato complice del femminicidio, ecco le carte delle 12 denunce ignorate. Le carte di una sentenza destinata a fare storia. “I giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile”, scrive Claudia Fusani il 14 luglio 2017su "Tiscali Notizie". La differenza sta in un coltello. Quando Marianna lo vede, la prima volta, era il 13 maggio 2007 e un brutto presentimento le attraversa la mente. Si spaventa, lo denuncia, “con quel coltello mi ucciderà” disse ai carabinieri. Ma non serve. Sarà quel coltello ad ucciderla pochi mesi dopo, il 3 ottobre, mamma di tre bimbi, moglie uccisa dal marito. Lui si chiama Saverio Nolfo, lo presero quasi subito e non fu difficile per il tribunale di Caltagirone condannarlo a vent’anni per omicidio volontario. I tre bimbi, allora di 3,5 e 7 anni, sono stati nel frattempo adottati, vivono con serenità altrove e chiamano “papà e mamma” i nuovi genitori (lontani parenti di Marianna) e “fratelli” i tre figli naturali della coppia adottiva. E’ una tragedia lontana quella tornata nelle cronache a metà giugno. L’ennesimo femminicidio di cui sono state però punite le colpe dirette – quelle del marito - e anche quelle indirette, cioè dei giudici e di quell’apparato di sicurezza che sembra ancora oggi non essere in grado di capire e prevenire nonostante gli sforzi del ministero dell’Interno sulla formazione del personale e le modifiche al codice penale. Il capo della polizia prefetto Franco Gabrielli la scorsa settimana audito alla Camera spiegò come non sia possibile dare una scorta a tutte le donne che temono aggressioni e violenze da mariti o ex compagni. Vero, certamente. Il fatto è che anche Donata, 48 anni, Maria, 49, Manuela, 25, una donna romena di 48 anni e una italiana di 81, chi più chi meno avevano gridato, chiesto aiuto, denunciato magari con vergogna le loro paure. Le hanno ammazzate tutte in 48 ore, tra Bari, Salerno, Cagliari, Roma, Montepulciano. E allora gli apparati dello Stato, di sicurezza e giudiziari e sociali, dovrebbero mandare a mente le 31 pagine della sentenza della I sezione civile del Tribunale di Messina che ha condannato al risarcimento (per 260 mila euro) i giudici che dieci anni fa non seppero ascoltare Marianna. Pagine che sono la cronaca di dodici mesi di minacce e paura. Di dodici denunce rimaste inascoltate, comunque sottovalutate. 

Trenta pagine da imparare a memoria. La sentenza firmata dal presidente Caterina Mangano è destinata a fare storia. A dettare la giurisprudenza. Soprattutto a dare speranza. Perché, come si legge, “i giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile”. E’ il risultato della vecchia (1988) legge Vassalli che va a combinarsi con la più recente modificata nel 2015.  Il messaggio è chiaro: mai più sottovalutare alcunché. Anche da parte della vittima. Carmelo Calì, così si chiama il lontano cugino di Marianna che prende in carico prima e poi adotta i tre ragazzini, inizia la sua battaglia nel 2012: sono passati 5 anni dall’omicidio, la pratica per l’adozione si è conclusa, è tempo di chiudere l’unico conto in sospeso perché gli altri – il dolore, la mancanza, lo choc – non sono calcolabili e quindi mai risarcibili. E’ convinto, Carmelo, che “la procura della Repubblica di Caltagirone nulla abbia fatto per impedire la consumazione dell’omicidio di Marianna” nonostante la donna abbia presentato “tra settembre 2006 e settembre 2007 dodici querele nei confronti del marito autore di violenze fisiche, aggressioni e minacce”. La causa civile è promossa contro la Presidenza del Consiglio dei ministri che per i primi tre anni chiede e ottiene la non ammissibilità della causa. Carmelo, affiancato dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia D’Amico, insiste finchè la Cassazione gli dà ragione e ordine al tribunale di Messina di procedere. E’ il 17 luglio 2015.  Quante volte Marianna aveva chiesto aiuto. Caterina Mangano, presidente della prima sezione, le mette tutte in fila, una dietro l’altro, 12 querele in 12 mesi. Ne viene fuori la trama sottile di un delitto annunciato.

Dodici denunce in dodici mesi. La prima volta è il 27 settembre 2006, stazione dei carabinieri di Palagonia. Saverio, il marito di Marianna, ha problemi di tossicodipendenza, e lei lo denuncia per “violenze fisiche e maltrattamenti”. Il pm, una donna, prende sul serio la cosa e chiede ed ottiene dal gip la misura cautelare dell’allontanamento dell’uomo dalla casa di famiglia. Attenzione alle date: il 10 ottobre, poco dopo la denuncia, Marianna chiede la separazione. Due strade, il penale delle querele e il civile per la separazione, destinate ad incrociarsi e condizionarsi. Mentre Saverio è allontanato da casa, a quanto pare ben assistito dai suoi legali, produce un certificato del Sert dell’Asl da cui risulta “l’inesistenza di uno stato di tossicodipendenza” tanto che il 19 dicembre 2006 ottiene l’affidamento dei figli in via provvisoria con diritto di visita della madre. Il motivo dell’affidamento è in queste parole del presidente del Tribunale: “Constatato il timore dei figli alla vista della mamma in aula”. A margine dell’affidamento vengono richieste le solite perizie e relazioni ai servizi sociali i quali certificano “la capacità e la disponibilità di entrambi i genitori ad esercitare la patria potestà”. Sul padre, però, dicono qualcosa in più: “Dinamiche relazionali padre-figli condizionate dalla volontà del padre di tenere i figli con sé; insufficienza della casa dei nonni abitata dai minori”. Insomma: dopo la prima denuncia, Marianna ottiene la cacciata del marito ma perde anche figli. La seconda denuncia. E’ del 14 ottobre 2006: due giorni prima Saverio è arrivato a casa della suocera dove erano i bimbi e ha cominciato a prendere a calci il portone spaccando il vetro perché “non è vero che dormono, devo vederli”. I carabinieri, chiamati sul posto, fanno rapporto. Ma Marianna non dà seguito alla necessaria querela di parte: è appena stata presentata la richiesta di divorzio ed è bene – suggeriscono gli avvocati – non esasperare una situazione già complicata. La denuncia per danneggiamento muore così. Quella per ingiurie - la terza denuncia – è archiviata il 17 aprile 2007 perché “non è stato ravvisato nulla di penalmente rilevante”. La quarta querela è del 7 novembre 2006: Marianna denuncia di essere stata picchiata dal marito, ha un referto di 15 giorni, e che i figli non sono stati portati a scuola. Nello stesso periodo ci sono le controdenunce del marito perché “vittima di aggressioni e ingiurie da parte della moglie e dei suoi genitori”. Il 28 novembre Saverio sarà allontanato da casa, segno che comunque la situazione creava preoccupazione. I figli però saranno affidati al babbo. L’anno nuovo, il 2007, inizia con quattro querele: il 15, 16 e 17 gennaio e il 2 febbraio. Marianna dice di non poter andare a casa a prendere le sue cose “per timore di essere aggredita e delle reazioni spropositate del marito”.  Il 15 marzo ne arriva un’altra: questa volta Marianna denuncia di essere stata schiaffeggiata, di non poter aver accesso alle sue cose e di non aver potuto prendere i figli in consegna come previsto dal giudice. Il presidente Mangano prosegue con precisione da laboratorio, dando il dettaglio dell’esito di ciascuna querela archiviata “per elementi inidonei e insussistenti” o dove l’imputato veniva assolto più o meno per gli stessi motivi. Ogni volta, in ogni caso, non è stata possibile l’applicazione delle misure cautelari.  Si va avanti per pagine e pagine. “Sino al mese di giugno 2007 – si legge nella sentenza – non sono rinvenibili i presupposti per affermare una responsabilità dei magistrati della procura di Caltagirone”. Uno stillicidio di violenze e pressioni non perseguibili. La giustizia, e gli apparati di sicurezza e prevenzione, fino a giugno 2007 hanno fatto, sulla carta, il loro dovere. Anche le perizie psichiatriche dicevano che il marito era capace di intendere e di volere, non era un tossicodipendente, entrambi i genitori idonei alla patria potestà. Per fortuna la giurisprudenza da allora ha fornito giudici e investigatori di strumenti più idonei a contrastare certe follie (il reato di stalking). 

"L’inerzia dello Stato". La storia, già di per sé assurda di Marianna e Saverio e dei loro tre bimbi, cambia però il 2 giugno 2007. “Differente valutazione merita invece la vicenda a decorrere dal mese di giugno del 2007” scrive la presidente Mangano. E’ la denuncia numero 10. Quel giorno Marianna va alla stazione dei carabinieri dove ormai la conoscono benissimo, e racconta di essere andata a casa e di aver trovato il marito che, appena la vede, “estrae un coltello a scatto e con aria di sfida lo usa per pulirsi le unghie delle mani”. E’ un crescendo di minacce perché nei giorni precedenti il marito, da cui è ormai avviata la procedura di separazione, “le aveva puntato contro un arco artigianale con una freccia metallica ricavata da un’antenna”. La freccia era stata scoccata ed era finita a 50 centimetri dai piedi della donna. Negli stessi giorni, andando a prendere uno dei figli, il marito “si era fatto trovare mentre maneggiava lo stesso coltello, a scatto, una lama di circa 10 centimetri e manico scuro”. Seguono altre denunce: il 25 luglio e il 3 settembre, ogni volta compare il solito coltello. “A fronte delle querele presentate a decorrere dal mese di giugno 2007 – scrive la presidente – dalle quali poteva razionalmente presagirsi un intento se non omicida quantomeno di violenza ai danni della donna, vi è stata una sostanziale inerzia dello Stato”.

Sei coltellate. Il 3 ottobre Marianna Manduca viene uccisa “con plurime coltellate all’addome e al torace con un coltello a serramanico con una lama di circa dieci centimetri”. I carabinieri questa volta non hanno dubbi e vanno ad arrestare Saverio. Mai delitto è stato più annunciato di quello. A pagina 25 e 26 della sentenza si legge: “Il compimento di una perquisizione (ai tempi delle denunce e mai avvenuta, ndr) avrebbe condotto al rinvenimento del coltello e al suo conseguente sequestro per porto abusivo di mezzi atti ad offendere (…)”. E questo “con valutazione probabilistica, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento omicida del 3 ottobre”. Certo, magari Saverio ci avrebbe provato con altri mezzi e in un altro momento. Ma quel rischio specifico non è stato evitato per colpa dell’inerzia dello Stato. “In materia di violenza domestica – scrive qualche riga sotto la presidente – il compito di uno Stato non si esaurisce nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili ma si estende ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva evidenziando che l’inerzia dell’autorità nell’applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”. Una sentenza da studiare nelle università e da mandare a mente in ogni caserma, commissariato e tribunale.  

E Milano «perdona» chi picchia le donne. Archiviate oltre metà delle denunce per stalking e maltrattamenti in famiglia, scrive Cristina Bassi, Mercoledì 15/05/2013, su "Il Giornale". Le donne, quelle picchiate, violentate, perseguitate, sono da tempo sulla bocca di tutti. Bene, si dirà. Quando però chiedono giustizia, i conti non tornano. A Milano meno che altrove. Qui più della metà delle denunce che arrivano sul tavolo della Procura merita, secondo i pm, niente di meglio dell'archiviazione. A dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che certi processi fanno scalpore e quindi valgono centinaia di migliaia di ore di indagini. Altri casi invece non valgono neppure l'apertura di un fascicolo. A denunciarlo è la Casa delle donne maltrattate di Milano (Cadmi), che dal 1988 assiste le donne vittime di violenza. Gli avvocati dell'associazione hanno spulciato i dati della Procura e del Tribunale di Milano. Si sono concentrate (sono tutte donne) sui reati di stalking e di maltrattamenti in famiglia. Scoprendo una «prassi poco virtuosa»: quella di cercare in tutti i modi di archiviare le pratiche. Vediamo i numeri. Dal 2009 al 2012 le denunce arrivate in Procura per stalking sono più che raddoppiate (da 430 a 945) e non solo in virtù del fatto che il reato di atti persecutori è stato introdotto proprio nel 2009. Anche le iscrizioni per maltrattamenti sono aumentate: da 1.318 nel 2009 a 1.545 nel 2012. Che fine hanno fatto queste denunce? Sono finite per lo più nel cestino. Decisamente ridotto è il numero delle misure di custodia cautelare in carcere chieste dai pm nei procedimenti per maltrattamenti in famiglia: nel 2012 su 1.545 iscrizioni le richieste sono state 106. Non solo. Per tutelare l'incolumità delle vittime esistono misure specifiche e più garantiste rispetto alla custodia in carcere. Ma anche queste strade sono poco battute, segno che questi reati suscitano uno scarso allarme in sede giudiziaria. La vera nota dolente per la quale le legali dell'associazione puntano il dito contro la Procura è però l'aumento «esponenziale» negli ultimi anni delle richieste di archiviazione. Per lo stalking lo scorso anno sul totale di 945 denunce le richieste di archiviazione sono state 512 e le effettive archiviazioni del gip 536. Peggio per i maltrattamenti. Le iscrizioni sono state 1.545, le richieste di archiviazione ben 1032 (circa i due terzi), di cui 842 sono state accolte. «Gli organi inquirenti milanesi - si legge nella relazione Cadmi - banalizzano e derubricano sempre più spesso la violenza domestica a semplice conflittualità familiare. Tale definizione, abusata e usata in modo acritico, non fa che occultare il reale fenomeno della violenza, sottovalutando la credibilità di chi denuncia i maltrattamenti». E mettendo a rischio la vita delle donne. Non c'è da stupirsi se le vittime decidono di rivolgersi alla giustizia solo in minima parte. Tre su dieci, secondo l'esperienza diretta dell'associazione. «La denuncia non appare alle donne uno strumento utile per uscire dall'incubo - sottolinea Manuela Ulivi, presidente di Cadmi - Anzi, spesso è il momento di maggior rischio per loro». Francesca Garisto, legale della Casa delle donne maltrattate, commenta questi dati «allarmanti»: «La Procura di Milano ha l'esigenza di sfoltire il carico di lavoro, le indagini richiedono risorse. E la tendenza per i reati analizzati è quella di chiedere l'archiviazione, spesso de plano, cioè senza alcun atto di indagine, anche in presenza di denunce molto dettagliate. I pm si fanno addirittura un vanto della capacità di archiviare molti casi. Se l'archiviazione non va in porto propongono vie alternative a quella giudiziaria, come la mediazione tra le parti. Soluzione che la Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne definisce inefficace e pericolosa».

Le richieste di archiviazione per stalking a fronte di 945 casi. Il dato è relativo al 2012.

Le archiviazioni 2012 per il reato di maltrattamento in famiglia. Le richieste di archiviazione sono 1.032.

Le richieste di custodia in carcere per maltrattamenti in famiglia nel 2012 a fronte di 1.545 denunce.

Perchè i padri arrivano a fare stragi in famiglia. Cosa li porta alla pazzia.

Si arriva a fare gesti inconsulti quando ormai si è perso tutto.

Il padre nella separazione con il coniuge:

perde la moglie;

perde i figli affidati alla moglie;

perde la casa coniugale assegnata alla moglie ed ai figli;

perde lo stipendio conferito alla moglie ed ai figli.

Quando si perde tutto e si vede tutto nero, anche i lumi della ragione si spengono.

Famiglia, padre separato uccide la figlia e si suicida, scrive Stefano Arduini il 19 gennaio 2005 su Vita. Giangiorgio Cometti, 54 anni, prima della tragedia si era rivolto anche all' Associazione Padri separati. Si era rivolto anche all' Associazione Padri separati, creata a Bologna dallo psicologo Aldo Dinacci, il geriatria Giangiorgio Cometti, 54 anni, che ieri sera ha ucciso a colpi di piccone la figlioletta di dieci anni e si è poi suicidato gettandosi da una finestra della propria abitazione, in via Zambrini, una strada pedecollinare e 'bene' del capoluogo emiliano vicino ai Giardini Margherita. Il primo contatto con l'associazione, che raggruppa circa 7.000 padri in tutt'Italia, risale al settembre '98 e fu seguito da altri due colloqui, fino a fine '99-inizi 2000, poi il medico fece perdere le proprie tracce. ''Quando un genitore non si fa più vivo - spiega Dinacci - spesso significa che ha raggiunto, o ritiene di aver raggiunto, una sopportabilità della situazione, un accettabile livello di equilibrio interiore. Immaginavamo che fosse andata così anche in questo caso''. Rileggendo la scheda redatta sulla vicenda, Dinacci ricorda che il geriatra e la moglie si erano rivolti allo stesso studio legale per le pratiche della separazione consensuale. In altre due occasioni, Cometti si era poi rivolto all' Associazione per discutere aspetti legali della pratica e avere altri consigli. Quindi il silenzio, fino alla tragedia di ieri sera. Il presidente dei Padri separati rileva che nel 92% dei casi, quando una coppia si divide, i figli vengono affidati alla madre, solo nel 4% ai padri e nel residuo 4% circa a nuove famiglie o a istituti. ''C'è una responsabilità collettiva su queste scelte - commenta il prof. Dinacci - Queste sentenze vengono fatte con lo 'stampino' e indipendentemente dalle volontà dei soggetti coinvolti, non tengono conto degli aspetti psicologici. I figli sono di entrambi i genitori, non di uno solo''.

Uccide moglie e figlio, poi si suicida Medico non accettava la separazione. Ha strangolato la compagna durante una lite e dopo ha sparato al bimbo di 4 anni, scrive Angela Balenzano l'8 giugno 2016 su "Il Corriere della Sera". Ammazza la moglie. Poi il figlio di quattro anni. Infine si toglie la vita. Tre momenti di follia che si sono consumati martedì sera in due luoghi diversi a Taranto. Il protagonista è Luigi Alfarano, 50 anni, coordinatore dell’Ant (Associazione nazionale tumori) che ha prima assassinato la compagna, Federica De Luca, trentenne, nell’appartamento in città dove vivevano sin dal giorno in cui si erano sposati e poi - stando alla ricostruzione fatta da polizia e carabinieri fino a questo momento - è andato via con il figlioletto e una ventina di minuti dopo ha raggiunto una casa di campagna tra Pino di Lenne e Chiatona, nel territorio di Palagiano. Qui ha ucciso il figlio a colpi di pistola e qualche attimo dopo si è tolto la vita. 

La fine del matrimonio. La coppia stava per scrivere la parola fine al loro matrimonio. Le pratiche erano già avviate. Martedì mattina però non si era presentata all’udienza programmata al Tribunale di Taranto proprio per discutere della separazione. Cosa sia accaduto in mattinata è ancora tutto da chiarire. C’è solo una certezza. Nel tardo pomeriggio il medico e sua moglie hanno avuto una discussione. Un litigio violento, probabilmente l’ennesimo in questo periodo di crisi coniugale e sfociato poi nel primo omicidio. Alfarano, secondo quanto stabilito dagli investigatori, ha aggredito e picchiato la moglie. Poi l’ha assassinata strangolandola. Il 50enne ha lasciato la donna in quell’appartamento in via Galera Montefusco ed è uscito di casa con il bambino. In auto hanno raggiunto una piccola casa di campagna in località Pino Di Lenne, tra Chiatona e Palagiano (usata qualche volta dalla famiglia per trascorrere qualche giorno di vacanza) e lì senza pietà avrebbe dato sfogo ai suoi ultimi momenti di follia. Sparando e uccidendo il bambino che, con ogni probabilità, poco prima aveva assistito alla morte della sua mamma. Dopo il secondo omicidio ha deciso di farla finita. Si è sparato. Ha utilizzato una Beretta 98 che deteneva regolarmente. 

L’allarme. A dare l’allarme martedì sera sarebbe stata la mamma della giovane donna assassinata: era preoccupata perché nel pomeriggio la figlia non si era presentata presso lo studio legale dove avrebbe dovuto firmare alcune pratiche per formalizzare alcuni atti della separazione da Luigi Alfarano. Un passaggio importante che avrebbe dovuto dare inizio alle procedure per mettere fine al matrimonio della coppia. Dopo l’allarme sono scattate subito le operazioni delle forze dell’ordine per cercare di capire cosa fosse successo alla donna, recandosi nell’abitazione della coppia. È stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco per aprire l’appartamento al terzo piano di quella palazzina nel cuore di Taranto e lì poliziotti e carabinieri hanno trovato il cadavere della donna. Immediatamente sono state avviate le indagini per cercare il marito della donna e il figlio. Una situazione che sin dai primi istanti ha preoccupato gli inquirenti, soprattutto per l’assenza del bambino. Preoccupazioni che in tarda serata hanno trovato conferma. Quando in quella isolata casa di campagna a Palagiano sono stati trovati gli altri due corpi. Forse abbracciati. 

I sopralluoghi. Per tutta la notte le forze dell’ordine hanno eseguito sopralluoghi scientifici nei luoghi in cui si sono consumati i due omicidi e il suicidio contestualmente agli accertamenti medico-legali. Le indagini sono coordinati dal pubblico ministero Remo Epifani. La ricostruzione dei fatti accaduti martedì sera è solo una prima fase delle indagini che riassumono un pomeriggio e una serata di follia. Ma ci sono ancora molto aspetti che devono essere chiariti. Nelle prossime ore gli inquirenti ascolteranno i familiari, i vicini di casa e i conoscenti della coppia. 

Cisterna, l’ultima telefonata: "Papà, sola con te ho paura". Gli audio della chiamata del carabiniere killer alla figlia, scrive Silvia Mancinelli, scrive il 3 Marzo 2018 su “Il Tempo”. «Non ti preoccupare, a papà, non ti faccio niente». «Lo so che non mi faresti mai del male, lo so», risponde la ragazzina. «No, mai a papà. Alessia, se mai proviamo a stare insieme, mai sappiamo se stiamo bene o no». «Però da soli no...». «Pure Martina. E mamma, se vuole venire, se vi va. Ci tengo a voi. Non mi sono dimenticato». Nella telefonata del 9 dicembre tra Luigi Capasso e la figlia maggiore, mandata in onda ieri dalla trasmissione «Pomeriggio 5», emerge tutta la paura che la tredicenne provava per il padre. Lui registrava, convinto di dimostrare all’avvocato di essere una vittima, chiuso fuori dalla sua famiglia. E oggi quell’audio sembra invece una terribile profezia, seppur svelata troppo in ritardo. L’appuntato dei carabinieri, che prima di uccidersi ha scritto cinque lettere indirizzate ai fratelli e lasciato assegni per quasi 10mila euro da utilizzare per il funerale suo e delle sue vittime, aveva premeditato tutto. Altro che raptus, altro che blackout. Il quarantatreenne di Secondigliano, riconosciuto idoneo dall’Arma a settembre, ha lasciato precise indicazioni anche per disdire le utenze di luce e gas perché tanto lui, in quella casa, non ci avrebbe più vissuto. Materiale tutto in mano alla Procura e sulla base del quale si potranno accertare tutte le responsabilità. Antonietta, che il marito al telefono chiama «Tonia», risponde con freddezza. È una donna provata...

Luigi Capasso, un papà spinto alla follia dal sistema femminista? Scrive il 2 marzo 2018 Silvio Altarelli  su "it.avoiceformen.com". Nel luglio 2017 Loredana Busonero, comandante della polizia municipale di Monte Argentario, ha ucciso a colpi di pistola il figlio che dormiva e si è suicidata.  La vicenda ha avuto poco risalto: una ricerca su Google fornisce solo 22mila risultati, improntati al “poverina”.  I primi dicono:

«un po’ di nervosismo in un periodo come questo, con molti turisti nella nostra zona, è da considerarsi normale»;

«Amarlo così tanto da non volerlo lasciare solo per il resto della sua vita»;

«Loredana ha ucciso suo figlio perché non voleva abbandonarlo come aveva fatto suo padre con lei» (il padre si era suicidato);

«Loredana era una persona tranquilla, impegnata nel suo lavoro e dedita al suo figlio adorato».

Due giorni fa Luigi Capasso, Carabiniere di Latina originario di Napoli, ha sparato alla moglie ed ucciso con colpi di pistola le due figlie che dormivano, e si è suicidato. La vicenda è stata sparata sulle prime pagine con dirette televisive: una ricerca su Google già fornisce 194mila risultati. Come al solito, il doppiopesismo vuole alimentare la falsa impressione secondo cui gli uomini sarebbero più violenti delle donne.  Ed infatti torme di sciacalle femministe che nulla avevano scritto sulla Busonero si sono affrettate sulle pagine dei loro giornali a dipingere Capasso come violento, a strumentalizzare la vicenda attaccando collettivamente gli uomini ed i padri (avessero attaccato i Napoletani sarebbero state licenziate per razzismo), e chiedendo finanziamenti a quei centri anti-violenza criticati per l’ideologia misandrica e le conseguenti false accuse contro i papà. Luigi Capasso aveva un motivo che può averlo portato alla disperazione e forse alla follia.  Luigi viveva in caserma dopo aver perso la casa nella separazione.  E soprattutto aveva denunciato che la ex moglie gli impediva di vedere le figlie, ma non era stato tutelato dalla giustizia.  Suo fratello dice: «Aveva questa cosa che non poteva vedere le bambine e lo tormentava, anche a Natale non le aveva potute vedere.  Ma dire che era cattivo o picchiava moglie e figlie non è vero. Le figlie adoravano il padre…».  «Da Latina però VP, presidente dell’associazione Valore Donna, racconta invece che le figlie ne avessero paura».  Al momento non si sa la verità: magari le figlie erano state alienate.  Capasso ha lasciato lettere in cui spiega le ragioni del suo gesto «riconducibili alla moglie che viene accusata dall’uomo» e lascia 10,000 Euro per i funerali. In una tremenda legge del contrappasso, la ex moglie proverà anche lei il dolore di vivere senza le figlie, vittime della tragedia. Ne parla il ministro degli Interni, ne parla Renzi facendo campagna elettorale sul «femminicidio», vogliono mettere sotto inchiesta i Carabinieri che non hanno letto nella mente di Capasso.  Niente del genere era accaduto per la Busonero. E allora analizziamo le cause di quanto accaduto.  Forse chi pontifica dalla stampa ha ragione: Capasso era ossessionato dalla gelosia che lo aveva reso violento e la moglie lo aveva lasciato per questo. O forse, la principale causa scatenante sono state le modalità della separazione. Quando centomila papà subiscono la stessa violenza, prima o poi capita che qualche disperato perda la testa e scelga la via estrema.  Violenza chiama violenza: se prendi a calci un cane, può reagire mordendoti.  Allo stesso modo le persone i cui diritti umani vengono violati tendono a ribellarsi, spesso in maniera folle e violenta.  Le persone che oggi, invece di riflettere, danno addosso a Capasso eccitate dal gesto e dalla stampa, sono le stesse che in situazioni difficili tendono a reagire in maniera impulsiva e folle. Per chi invece preferisce riflettere, informiamo che a Latina era avvenuta un’altra terribile vicenda, che potrebbe aver influenzato Capasso: un bambino per anni privato del papà.  EdizioniOggi pubblicò questa lettera dell’altro papà (MF), che ha scelto di rimanere all’interno della legge. Se è troppo lunga ve la riassumo: TOTALE IMPUNITÀ. «Dopo 7 anni di udienze processuali perviene ai servizi sociali di Sezze (LT) un provvedimento (il primo), di allontanamento del minore, dalla madre, con decadenza della potestà genitoriale della stessa ed affidamento al padre […] Viene quindi ordinato ai Carabinieri ed ai servizi sociali di Sezze di eseguire il suddetto provvedimento. I servizi sociali avvisano la madre, la quale si rende irreperibile per circa tre mesi, e né i Carabinieri di Sezze, né quelli di Latina Scalo i di latina, fanno ricerche per trovare mio figlio. Ho quindi contattato un investigatore privato che, nel giro di due giorni riesce a trovare il bambino. A casa sua! il pm […] ordina ai Carabinieri di Sezze e ai servizi sociali di eseguire il provvedimento. Questi si recano sul posto ma non prelevano il bambino, giustificando che il medesimo non voleva andare con il padre, grida, piange, scappa […] il giudice, dr.Janniello, sconcertato per la mancata esecuzione del provvedimento, con una seconda ordinanza incarica la questura di Latina, Ufficio Minori, di procedere all’allontanamento del minore […] assegna 10 giorni per adempiere, allo scadere dei quali i servizi sociali, riconvocati, dichiarano di non aver adempiuto al provvedimento. […] Arriva quindi un nuovo provvedimento (il terzo) per l’affidamento del minore ad una “casa famiglia” ritenendo necessario un più stretto avvicinamento fra la figura paterna ed il figlio, dopo anni di influenza materna negativa. Tale provvedimento doveva essere eseguito dalla Questura di Latina. I servizi sociali dovevano indicare il nominativo della casa famiglia: tale nominativo non è mai stato indicato! Il 2 marzo 2010 il giudice, dott.Janniello, convoca in udienza [..] A tale udienza, la madre si presenta con l’assistenza di un nuovo avvocato (il quinto!), tale dott. Coffari, di Firenze, ma non viene fatto comparire il bambino. Vengono quindi azzerati tutti i provvedimenti adottati, sia di affidamento al padre, che alla casa famiglia, e si dà carta bianca per una mediazione al nuovo curatore, il quale stabilisce che il bambino dovrà stare tre giorni con il sottoscritto e tre giorni con la madre, che accetta tale soluzione.  […] Solita sceneggiata: il bambino non vuole saperne di andare con il padre, e l’accordo salta. Il curatore redige una relazione […] viene evidenziata la negatività dell’ambiente familiare dove il minore vive e la negativa influenza della madre e della nonna materna nei riguardi del minore stesso, tanto da “renderlo quasi un automa ai loro ordini”.   Il Tribunale emette il quarto provvedimento con il quale interrompeva il legame viziato fra il bambino e la madre e disponeva, in via temporanea e strumentale, l’allontanamento dello stesso, allo scopo di sottrarlo alle anzidette influenze negative, da un nucleo familiare definito fortemente patologico, con sospensione del rapporto fra il bambino e i familiari materni. Disponeva inoltre l’allontanamento immediato del bambino a cura della Questura di Latina, Ufficio Minori, e l’assegnazione ad una casa famiglia al di fuori del territorio di residenza. E ancora una volta la madre si rende irreperibile con il bambino. La Procura di latina inserisce la sig.ra VP fra le persone da ricercare. A questo punto, scoppia il caso mediatico, con una vera e propria campagna diffamatoria contro il Tribunale dei Minori di Roma e contro le forze dell’ordine, e con richiesta ricusazione del giudice dr.Janniello. Lo stesso, dopo una settimana, decideva di astenersi».

Come al solito, associazioni femministe con agganci politici si erano mobilitate per la signora: «è indagata dalla Procura di Latina per inosservanza dei provvedimenti del giudice, per sottrazione di minore, e forse anche per sequestro di persona e non so quali altri reati. Ma tutto questo non è bastato all’esponente dell’IdV che, per premio, l’ha eletta presidente provinciale delle donne IdV e le ha aperto un Centro Antiviolenza Donne a Latina». Il centro anti-violenza affidato alla signora VP (quella con potestà genitoriale sospesa) si chiama “VALORE DONNA”. La ex moglie denunciata da Luigi Capasso «si era rivolta all’associazione VALORE DONNA». Ci stupiamo che un papà possa rinunciare a combattere per le figlie rimanendo all’interno di questa “giustizia”?  Che possa venire terrorizzato dalla prospettva di finire nello stesso tritacarne? Circa metà degli omicidi familiari avvengono non al momento della separazione, ma quando uno si rende conto che è impossibile avere giustizia, che per un papà è inutile avere ragione, che è inutile avere la legge dalla propria parte, che il sistema giudiziario a cui dobbiamo lasciare difendere i nostri figli di fatto ha abdicato, che vige la legge della giungla. Il ministro degli Interni e Renzi parlano della vicenda: ma hanno ignorato le tante condanne che l’Italia ha ricevuto da parte della Corte Europea per i Diritti Umani per violazioni dei diritti umani dei papà. Chi aveva il potere avrebbe dovuto prendere misure di giustizia, evitando le tragedie.  Non lo hanno fatto: perchè la sinistra è persa nel femminismo misandrico sperando che gli porti i voti delle donne. Il da farsi per dimezzare queste tragedie è chiaro: tagliare le unghie alle avvocate femministe che si arricchiscono trasformando le separazioni in guerre, tagliare le penne alle giornaliste sciacalle, tagliare lo stipendio a chi offre questa “giustizia”, tagliare i fondi ai centri anti-violenza di stampo femminista e sostituirli con professionisti non sessisti capaci di intervenire come mediatori nei conflitti tutelando il diritto dei bambini ad avere entrambi i genitori.

L’onere della prova 2: quando il padre uccide i figli, scrive il 2 marzo 2018 Paolo Cavallari su "it.avoiceformen.com". La vicenda di Cisterna di Latina, dove un carabiniere ha sparato alla moglie e ha ucciso le figlie per poi suicidarsi ha destato orrore in tutta Italia. Il ministro degli interni Minniti (sentendosi responsabile dato che si trattava di un membro delle forze dell’ordine) ha dichiarato «E’ inaccettabile l’accaduto, su queste cose ci sono troppe sottovalutazioni. Dobbiamo prendere un impegno d’onore: non possiamo discutere di tragedie simili pensando che si sarebbero potute evitare». Mentre TV e giornali nazionali hanno trattato del delitto senza particolari strumentalizzazioni, lo stesso non si può dire per i blog e le pagine web.

Prendiamo ad esempio il blog del Fatto Quotidiano: Le faceva stalking appostandosi anche vicino al luogo di lavoro per aggredirla davanti ai colleghi e con spregiudicatezza si era rivolto strumentalmente alla legge: aveva fatto un esposto nei confronti della moglie perché non vedeva le figlie che lo temevano e non volevano incontrarlo. In un momento in cui le prassi nei Tribunali con le Ctu colpevolizzano le donne che subiscono violenza perché la loro paura o la paura dei loro figli diventa un elemento a discarico dell’autore dei maltrattamenti è importante scardinare il sistema che avvantaggia i violenti in nome del ruolo paterno.

Il Post invece ha scritto: Capasso venne convocato ed espose la sua versione dei fatti: la moglie gli impediva di vedere le figlie, facendo dunque implicitamente appello alla cosiddetta “alienazione parentale” che continua a trovare applicazione nei tribunali italiani durante le cause di separazione e di affidamento dei figli. Questa sindrome, che secondo molti non ha alcun fondamento, colpevolizza le donne vittime di violenza e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti. Diversi giornali hanno raccontato il femminicidio di Cisterna Latina usando termini come “raptus”, “follia” o “gelosia” e dedicando ampio spazio al femminicida, Luigi Capasso sottolineando come fosse «legatissimo alle figlie» o intervistando conoscenti o colleghi che lo descrivono come «un uomo normale». Come sanno bene le donne e gli uomini che lavorano nei centri Antiviolenza – valorizzati da quella Convenzione di Istanbul che è stata ratificata dall’Italia ma di cui in Italia manca il sostanziale recepimento – il femminicidio è un fenomeno endemico.

Infine la 27esimaora del Corriere della Sera commenta così il delitto: Ma i casi in cui l’ex maltrattante continua a farsi scudo con i figli per continuare a controllare o punire la donna che si è ribellata al loro potere, sono numerosissimi, e se anche non si arriva a ucciderli, questi figli sono comunque percepiti dal maschio come oggetti di sua esclusiva proprietà per impostare un nuovo e perverso controllo nei confronti della donna che va punita. Tanti casi che sono e rimangono “a rischio”, soprattutto se a essere complici di questa tortura sono le stesse istituzioni che invece di allontanare il padre violento, chiudono gli occhi e lo impongono a tutti i costi al minore che magari è impaurito, e questo perché “un padre è sempre un padre”, a costo di sacrificare il ruolo materno accudente e non violento.

Che cosa possiamo notare dagli articoli citati e da altri che sono stati scritti nei giorni successivi al fatto? Sembra che il delitto sia preso come occasione per ribadire la pericolosità degli uomini in fase di separazione. Che sarebbe sistematicamente sottovalutata dalle istituzioni che non proteggono le donne. E soprattutto i bambini, figli di questi uomini che possono arrivare ad ucciderli. Insomma – anche se non si dice apertamente – l’immagine che si vuole far passare è quella del maschio della specie homo sapiens non dissimile dai maschi dei felini che sbranano i loro cuccioli. Ma questo sarebbe il meno, in fin dei conti si tratta solo di un effetto secondario della campagna sul femminicidio (di cui si è parlato ampiamente su questo blog). Vogliamo invece portare l’attenzione sull’insistenza con cui si sostiene che le donne che denunciano il pericolo per i figli non sarebbero credute. E perchè non sarebbero credute? Perchè si sottovaluterebbe sistematicamente il rischio senza dare la giusta credibilità a quanto affermano i centri antiviolenza. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste affermazioni. Lo scopo qui è solo quello di fotografare la situazione a livello di messaggio proposto. Lasciamo quindi in sospeso il giudizio sulla fondatezza di queste affermazioni e concentriamoci sulle loro implicazioni. Che cosa propongono i commentatori che chiedono di alzare il livello di protezione per le donne che si separano? Nè più nè meno che di credere alle donne che denunciano solo sulla parola, di considerarle credibili fino a prova contraria. Cioè, se una donna dice “il mio ex è violento, ho paura che faccia del male ai bambini”, allora le si dovrebbe credere subito e tenere lontano il padre dai figli. In attesa di accertamenti (che si sa, possono durare anni). Enfatizzando il livello di rischio per la vita dei figli, si cerca di alzare il livello delle misure cautelari da prendere in via provvisoria. Del resto non si possono chiedere troppe prove ad una madre che teme per i figli, il pericolo è grande, intanto si proteggono i figli e poi si vedrà. L’onere della prova dunque ricade sull’uomo, è lui che deve dimostrare di non essere pericoloso. Facciamo allora un po’ di conti. In Italia ci sono circa 63.000 separazioni all’anno con figli. Si deve però tenere conto che ormai molte coppie convivono senza essere sposate e non compaiono nelle statistiche delle separazioni. Quindi ipotizziamo che ogni anno ci siano 100.000 padri che si separano dalla madre dei loro figli.  Che si fa per prevenire i figlicidi? Si tengono tutti lontani dai figli a sola domanda della ex? Per fronteggiare il rischio di figlicidio – che si concretizza in pochi casi all’anno – secondo coloro che lanciano l’allarme figlicidio si dovrebbero tenere lontani dai figli un gran numero di padri sani. L’onere della prova di non essere squilibrato ricadrebbe sul sano, mentre lo squilibrato potrà comunque fare danno.

Note a margine: Il termine figlicidio è comparso da poco nella lingua italiana. In passato si usava il termine tecnico infanticidio, che è previsto come reato commesso dalla sola madre nel codice penale italiano (art. 578). E’ un reato punito meno severamente dell’omicidio. La parola “figlicidio” invece è probabilmente nata a livello giornalistico proprio per coprire anche i casi di omicidio dei figli da parte dei padri. Non ci sono statistiche ufficiali sui numeri, ma le uccisioni di bambini piccoli sono commesse più spesso dalle madri, mentre se si includono i casi di uccisioni di figli di tutte le età (per i moventi più vari) i padri uccidono più delle madri. Il meccanismo di inversione dell’onere della prova messa a carico dell’uomo presunto carnefice è lo stesso che si è manifestato nel caso dello stupro delle due studentesse americane a Firenze di cui si parla in questo altro post. In pratica è una forma di manipolazione dell’opinione pubblica: si concentra l’attenzione sull’efferatezza di un delitto per fare in modo che venga considerata normale la sospensione delle garanzie e diventi naturale pensare che l’onere della prova è a carico dell’accusato: se è veramente innocente potrà facilmente dimostrarlo. Il fatto che spesso le donne non siano credute quando denunciano è verosimile. Ma perchè ciò avviene? Perchè negli ultimi anni c’è stata una escalation di false denunce di ogni tipo (stalking, violenza in famiglia, stupro sui figli ecc.). Questo ha creato un rumore di fondo che rende gli inquirenti più cauti nel prendere provvedimenti basati solo sulla parola della denunciante. A fare le spese delle troppe false denunce, sono le donne veramente in pericolo che non vengono protette in modo tempestivo.

La mamma assopigliatutto nei tribunali, scrive il 18 gennaio 2018 Marcello Adriano Mazzola, Avvocato, rappresentante istituzionale avvocatura, su "Il Fatto Quotidiano". Tribunale di Milano, udienza recente in una separazione. Conflittualità tra i coniugi, figli di 8 e 11 anni. Abitazione in comproprietà. Abitazioni dei suoceri confortevoli. Modalità di frequentazione attuali genitori e figli con tempi quasi paritetici. Redditi abbastanza simili. Il difensore del “papà” chiede al tribunale un autentico affidamento condiviso (ratio legis della l. 54/2006), con tempi paritetici, mantenimento diretto, abitazione alternata, sussistendone tutti i presupposti. Il giudice attento, intelligente, preparato, ascolta, chiede. Poi proferisce il verbo: “Lei (papà) deve uscire di casa, lo sa?” Il difensore del “papà” vorrebbe tanto chiedergli: “Epper Dio, mi spieghi perché”. Si gioca invece la carta di riserva (abitazione alternativa in godimento del padre, vicina a pochi metri) e insiste nella richiesta di un autentico affidamento condiviso. Il giudice proferisce il secondo verbo: “L’orientamento di questo tribunale è che il padre lasci la casa familiare”. Gli viene concessa la frequentazione di un weekend alternato e in settimana qualche spizzico di frequentazione. Ovviamente gli viene pure addossato un assegno perequativo. Storia di vita vissuta nell’annus domini 2018. Non nel Medioevo né tanto meno nel periodo della Grande guerra o nel dopoguerra, quando i padri erano dediti ad altro e raramente frequentavano e si godevano i figli. E le madri accudivano i figli. Tempi in cui l’unica figura di riferimento era la madre, dominava la scena. Oggi se ci si guarda intorno ci si imbatte in una gamma incantevole (perché è un incanto, è un dono, prendersi cura dei figli: amarli, crescerli, educarli, accompagnarli durante il loro percorso) di padri amorevoli, entusiasti, felici, delicati, pieni di attenzioni verso i figli. Li vedi con il bebè nel marsupio, nello zaino, alla guida dei passeggini, al parco. Saltellanti, scattanti, gioiosi, sorridenti. Ovunque. Certo, ci sono anche tanti papà inadeguati. Così come tante mamme inadeguate. Sapere dunque che un “papà” in tribunale non abbia pari tutela perché l’orientamento dominante è questo ha dell’incredibile. Perché il papà viene dopo. Sempre. Anche se i figli non sono infanti. Con la supponenza pure di non renderli infranti. Un orientamento assolutamente dominante (rarissimi i provvedimenti di affidamento condiviso paritario) che si pone, a mio avviso, in spregio imbarazzante del sacro diritto di uguaglianza. Che viola, infrange, piega i diritti bigenitoriali e genitoriali. Ma perché mai un genitore che frequenta i figli continuamente e pariteticamente, se ne prende cura, dinanzi alla separazione deve essere recluso nel recinto del 15% dei tempi di frequentazione. Liberi e uguali? A chi? La cultura mammista che domina il diritto di famiglia ha trovato recente eco in una incredibile sentenza della Cassazione (sez. I, 14 settembre 2016, n. 18087) in cui ci è stato spiegato che i giudici di merito hanno in realtà proceduto alla “ricerca della soluzione che avesse meglio privilegiato il futuro benessere morale e materiale dei piccoli e la loro serena maturazione psicologica”. Ergo, lo stare (i figli) con la mamma, che si è potuta trasferire sua sponte a centinaia di chilometri. In barba del papà. I giudici supremi, con indulgenza, hanno invece scritto che “Allo stesso modo, la scelta materna di una sede di lavoro lontana non poteva essere attribuita, semplicisticamente, alla volontà di separare il padre dai figli, o di rendere al primo più difficoltosa la frequentazione dei bambini; si spiegava, invece, in ragione della possibilità di andare a vivere a (…), dove risiedeva la sorella con i suoi figli” e “non sussistevano ragioni per derogare al criterio di scelta ordinariamente seguito, che vedeva i bambini in età scolare collocati in via prevalente con la madre, anche quando, come nella specie, il padre avesse dimostrato eccellenti capacità genitoriali”. Sentenza che ha indotto subito un eccellente giudice (allora alla sezione famiglia di Milano) a prenderne le dovute distanze spiegando che il criterio guida è il superiore interesse del minore non potendo al contrario trovare applicazione il “principio della maternal preference”, in quanto criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e seguenti del codice civile e in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della l. 54/2006 sull’affidamento condiviso (Tribunale di Milano, sez. IX, Pres. Amato, Est. Buffone, decr. 13-19 ottobre 2016). E spiegando come nel codice civile e nella Costituzione non vi siano norme che attribuiscono preferenza privilegiata alla madre nella collocazione dei figli. Anzi, ci sono proprio studi anche internazionali che hanno portato all’abbandono del criterio della preferenza materna, in favore del criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere, sia il padre che la madre. Domina invece ancora indisturbato il criterio della cosiddetta Maternal preference. E quello della paternal diffidence. Chissà cosa ne pensi il Guardasigilli al riguardo.

La follia e i padri separati, scrive il 29 maggio 2011 papaseparatiliguria.it. Cosa non funziona nel sistema giuridico italiano, così criticato anche da Berlusconi. Hanno «fatto uscire pazzo» anche lui. E il premier ora è costretto a elemosinare comprensione dagli altri grandi della terra: perfino da quello «abbronzato». Silvio Berlusconi è ossessionato dai giudici e va in giro di qua e di là a ripetere che il sistema giudiziario italiano è generatore di ingiustizia, per dirla in altri termini. E se avesse ragione? Mi ritrovo così, nella follia dei tempi in cui viviamo, a perorare la causa del premier, proprio ora che si intravedono le luci del tramonto e gli «osanna» di qualche settimana fa si sono abbassati in voci di leggero dissenso, velata critica. Del resto la cautela è dovuta: con i biscioni non si sa mai. Non è il momento, ma io lo difendo lo stesso. E parto dai padri separati. Che ammazzano i figli, la moglie, se stessi. I casi alla Matthias Schepp: padre di due gemelline, scomparse, probabilmente uccise; lui suicida, stritolato sui binari da un treno in corsa. Nella sua vicenda la moglie è stata risparmiata: ma Schepp diabolicamente le fa scontare la colpa di avere causato la separazione, da viva. È solo la premessa della mia difesa. Gli istituti di ricerca, statali e privati, per fornire un quadro statistico il più dettagliato possibile, osservano, sezionano, analizzano e catalogano per anno, per semestre, per mese, e poi ancora per regioni, province, città e piccoli centri, per sesso e per fascia d’età, di reddito, di scolarizzazione, i più diversi aspetti della vita quotidiana degli italiani. In tali statistiche, tanto minuziose e capillari, continua però a mancare la voce relativa e specifica ai fatti di sangue legati alle separazioni. Perché? Dimenticanza fortuita o volontà precisa? La spiegazione dei media in occasione di ogni fatto di sangue fra separati è sempre la stessa: gesto isolato di un folle. Non si analizza mai il fenomeno nel suo insieme, ma se i cosiddetti «gesti isolati» si ripetono a migliaia, significa che il sistema non funziona come dovrebbe. Chi muore per l’uso di anabolizzanti nel culturismo e nello sport agonistico in generale non è definito «pazzo» e dopo si cercano le ragioni, i responsabili delle (centinaia) di morti in certi studi medici, in certe palestre, in certe farmacie. Non si archivia frettolosamente come pazzo il debitore disperato che uccide l’usuraio causa della sua rovina: la collettività è piuttosto solidale, può nascere un numero verde anti-usura, si stanziano fondi, si creano fondazioni antiusura. E sulle stragi del sabato sera: non sono definiti malati di mente i ragazzi che muoiono in auto dopo avere trascorso una notte in discoteca. E le discoteche difatti sono oggetto di provvedimenti legislativi finalizzati ad arginare il fenomeno negativo: orari di chiusura definiti per legge, limite al livello dei decibel, stop anticipato alla vendita di alcolici, controlli per la diffusione di stupefacenti. Così accade che quando la gente muore uscendo dalle discoteche si cercano i motivi nelle discoteche, quando invece la gente muore uscendo dai tribunali i motivi si cercano nei disturbi mentali della gente. Facciamo un passo indietro, anzi dentro. Entriamo in un tribunale per una causa di separazione. La maggior parte di esse termina con un affido dei minori alla madre e con un assegno che il padre deve versare. Primo paradosso: gli uomini sanno già di avere un’altissima percentuale di possibilità di perdere la causa solo perché appartenenti al sesso maschile. L’esito di questo processo è la perdita del contatto quotidiano con i propri figli. Qui siamo al secondo paradosso: la sentenza solitamente ottenuta da un padre separato gli impone di considerare «normale ed obbligatorio» quanto il diritto e la psicologia definiscono lesivo dei diritti e della stabilità del minore. Un genitore non separato che volesse trascorrere con il proprio figlio un week end ogni quindici giorni, dalle sei alle otto ore nei pomeriggi infrasettimanali, una settimana in inverno e due settimane d’estate, verrebbe considerato – dagli psicologi, dagli avvocati, dai periti, dagli assistenti sociali – un «genitore trascurante». In un giudizio di separazione se questa fosse la sua scelta, essa lo farebbe definire «genitore inadeguato». Un genitore separato che non si accontenta di trascorrere con il proprio figlio un week end ogni quindici giorni e sei, otto ore alla settimana, sette giorni in inverno e quattordici d’estate, è considerato un genitore che non vuole adempiere alle statuizioni giudiziarie e dunque «genitore conflittuale», «potenzialmente abusante», «inadempiente». E in un giudizio di separazione ciò lo farebbe definire genitore «inadeguato». È da uscirne pazzi. La follia dunque può essere attribuita solo a chi compie il gesto materiale di uccidere i propri familiari e poi se stesso? O forse a tutto un sistema che vive anche economicamente creando un conflitto che poi deve gestire? Poveri padri.

Perché i padri uccidono i figli, scrive Alice Dutto il 3 Aprile 2017 su "Nostro Figlio". Dopo il caso di Trento abbiamo chiesto alla presidentessa della Società Italiana di Criminologia di spiegarci le cause e le motivazioni di un gesto così tragico. L'ultimo in ordine di tempo è il caso del papà di Trento che ha ucciso i suoi due figli prima di togliersi la vita gettandosi da una rupe. Ma negli anni sono diversi i casi che sono finiti sulla cronaca dei giornali. Partendo dal presupposto che si tratta comunque di eventi molto rari, e a prescindere dalle singole storie, ci siamo chiesti come sia possibile arrivare a gesti così estremi.

LE CAUSE. «Non c'è mai una sola causa – spiega Isabella Merzagora, professore ordinario di Criminologia all'Università degli Studi di Milano e presidente della Società Italiana di Criminologia –. Spesso si tratta di più motivazioni che talvolta, ma non sempre, derivano dalla malattia mentale. In altri casi, la spinta deriva da un disagio esistenziale o dalla volontà di far del male al partner attraverso i figli». Talvolta, si può trattare di disperazione, «dove il confine tra disperazione e depressione può essere molto esile. Se c'è un disastro economico, ad esempio, il timore di non poter andare avanti può portare a episodi così efferati». E la dinamica familiare rende tutto ancora più complesso: «le stragi domestiche di solito sottendono a gravi forme depressive, si sente la necessità di uccidersi e si vuole portare con sé le persone che si amano di più. Questo, in qualche modo, per sottrarle a un destino che pare di sofferenza terribile. È una sorta di omicidio per pietà che scaturisce però da una convinzione in genere patologica».

FIGLICIDIO PATERNO E MATERNO. Esistono poi delle differenze tra le madri e i padri che arrivano a fare questi gesti estremi. «In genere, l'omicidio femminile, che accade praticamente sempre in famiglia, avviene con metodi meno violenti. Gli uomini, invece, utilizzano modalità più cruente. Ma è anche una questione legata all'età della prole: le madri infatti compiono più spesso dei neonaticidi, che comportano quasi sempre meno violenza».

COME INTERVENIRE. Partendo dal presupposto che non tutto si può scongiurare, «È vero che certe volte il segnale di una malattia mentale può e deve destare sospetto. Il problema è che spesso c'è molta resistenza a individuare e riconoscere la malattia mentale all'interno della famiglia. Al contrario, per evitare effetti drammatici, non dovrebbe essere trattata come qualcosa di vergognoso, ma come una patologia che si può curare». Detto questo, «non dico che sempre ci si debba preoccupare, ma che sia importante occuparsi della sofferenza di chi ci sta vicino, parlando e cercando un aiuto esterno, ove necessario».

Padri separati, suicidi in aumento, scrive Elsa Vinci il 27 ottobre 2004 su "La Repubblica". La coppia in crisi uccide 15 bambini l'anno. Si chiama "sindrome del padre allontanato" o "sindrome da alienazione parentale", è nota agli esperti per gli studi di R. A. Gardner, si manifesta con depressione, aggressività, raptus che possono provocare suicidio o omicidio-suicidio. Uomini disorientati da separazioni e divorzi che quasi sempre portano alla "perdita" dei figli (nel 94 per cento dei casi il coniuge affidatario è la madre), uomini che reagiscono al dolore con la violenza. Contro se stessi e contro gli altri. In dieci anni 691 delitti, 976 vittime di suicidi e omicidi-suicidi per la fine di convivenze e per figli contesi, 158 i minori ammazzati. I dati, raccolti dai giornali dall' associazione Ex sono stati allegati a una mozione presentata ieri alla Camera da Carla Mazzuca (Movimento repubblicani europei) e da Marco Boato, presidente del Gruppo Misto, che chiedono al governo «maggiore impegno a favore della bigenitorialità». La norma che introduce l'affido condiviso è contenuta in una proposta di legge approvata in commissione Giustizia alla Camera ma ancora in attesa del vaglio dell'aula. Per questo i due parlamentari hanno voluto ricordare che ad uccidersi o a uccidere nel 98 per cento dei casi sono i padri disperati, infatti soltanto l'1,7 per cento dei delitti riguarda coppie senza figli. La violenza di famiglia è spalmata lungo tutta la penisola. Al Nord il 34,5 per cento dei fatti di sangue, al Centro il 37,7, al Sud e nelle isole il 27,8 per cento. In un caso su due si spara, il 25,4 si affida ai coltelli da cucina. La mano è di un uomo nel 76,6 per cento delle volte, il 50 per cento delle vittime sono donne, il 16,1 per cento bambini. Soltanto nell' ultimo anno la coppia in crisi ha provocato 53 delitti con 83 morti. Il suicidio legato alla separazione rimane prerogativa dell'uomo anche nel 2004, 92,6 per cento. «Quasi sempre la follia viene scatenata dall' impossibilità di seguire o semplicemente vedere i propri figli», hanno sottolineato Boato e Mazzuca. «Questi gesti - ha spiegato Fabio Nestola, presidente di Ex - non sono raptus di pazzia inaspettata, per tutti esiste un filo rosso da rintracciare nel conflitto di coppia, nei rapporti difficili con burocrazia e tribunali». I due parlamentari hanno voluto ricordare anche il record negativo dell'Italia in tema di figli sottratti da un genitore straniero: a fronte di una media europea del 54% di minori restituiti, noi registriamo appena il 10 per cento. Il genitore italiano invece "restituisce" il figlio all' ex coniuge straniero nel 57 per cento dei casi.

Divorzio e separazione, le conseguenze per i padri – Dal rischio povertà al ruolo di “genitore di serie B”. Perdita di lavoro, isolamento e panico sono elementi ricorrenti per gli uomini che devono affrontare la fine della coppia. Renato Aprile (Papà separati Lombardia): "Ecco come inizia un turbine di impoverimento totale", scrive Elisa Murgese il 5 dicembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pubblichiamo la seconda di tre puntate sulle conseguenze della separazione nelle famiglie con figli: aspetti economici, logistici e psicologici. Dopo l’articolo focalizzato sulle madri, mettiamo in luce gli aspetti più critici che devono affrontare i padri. Infine, l’ultimo, sarà dedicato ai bambini che devono affrontare questo trauma. Un padre della provincia di Milano era finito a vivere in una roulotte e quando i suoi figli andavano a trovarlo dormivano senza riscaldamento. In molti casi, invece, dormire per mesi in automobile è la norma, quando i soldi non bastano a pagare mutuo, mantenimento e affitto della nuova casa. Poi, la mattina, si nasconde la vergogna e ci si infila la cravatta per andare a lavoro, per chi ce l’ha. Le storie dei padri coinvolti in divorzi conflittuali si assomigliano, come quella di Marco Della Noce, comico di Zeligche ha raccontato come la sua vita sia stata rovinata da una separazione che – a suo dire, a differenza di quanto sostiene il legale della moglie – l’ha costretto a dormire in macchina. “Fortunatamente non accade a tutti gli uomini divorziati – racconta Renato Aprile di Papà separati Lombardia, associazione che sta assistendo il cabarettista – ma se prendiamo in considerazione gli uomini che stanno vivendo una separazione difficile, allora i problemi sono sempre gli stessi”. Perché non a tutti i padri separati è dato di essere al centro di una catena di solidarietà che sembra stia attivando per aiutare il comico di Zelig. La normalità per un papà separato in grave disagio economico – come ha raccontato lo stesso Della Noce – è fatta di perdita di lavoro, isolamento e panico. Nei casi più gravi si arriva anche a “tentativi di suicidio”, continua Aprile. “Ricordo un giovane ragazzo che si è tolto la vita subito dopo il suo divorzio: era figlio di genitori separati e non ha avuto la forza di affrontare quello che aveva visto passare a suo padre”. Quando il padre separato torna a vivere da mamma e papà– Secondo gli ultimi dati Istat del 2015, nel 94% dei divorzi viene stabilito che sia il padre a corrispondere l’assegno di mantenimento (che in media si attesta attorno ai 485 euro al mese). “Circa l’80% delle separazioni sono chieste dalle donne – racconta Tiziana Franchi, presidente di Associazione padri separati -. Ma se le mogli non fossero certe di mantenere la casa di famiglia e di non essere allontanate dai loro figli sono sicura che ci penserebbero due volte prima di chiedere il divorzio”. Un meccanismo che, secondo le organizzazioni del settore, porta a un impoverimento esponenziale di molti padri. “Prendiamo uno stipendio di 1.400 euro al mese – si legge sul sito di Padri separati – a cui, per ipotesi, sottraiamo 300 euro di mutuo della casa dove restano a vivere i figli, un mantenimento dai 300 ai 500 euro e dai 300 ai 600 euro per una nuova casa in affitto. Le spese per l’uomo diventano insostenibili”. A questo si deve aggiungere che “gli assegni di mantenimento non si possono scaricare dalla dichiarazione dei redditi e la nuova abitazione del divorziato ha utenze maggiorate perché è spesso registrata come seconda casa – continua Tiziana Franchi – Ecco come inizia un turbine di impoverimento totale”. Tanto che non è raro per i padri separati chiedere aiuto a mamma e papà se non addirittura tornare a vivere nella stanza dove si è cresciuti da ragazzi. “Più di 6 su 10 non riescono a comprare beni primari” – In un rapporto del 2014, la Caritas ha definito i genitori separati “i nuovi poveri”. Dopo la separazione, si legge nel dossier, aumenta il ricorso a centri di distribuzione beni primari (49,3% degli intervistati) e mense (28,8%) mentre il 66,1% dichiara di non riuscire ad acquistare beni di prima necessità. “Il fenomeno è ben presente eppure sui media non si parla di tutti i papà obbligati a vivere in auto per pagare l’assegno di mantenimento”. Renato Aprile torna su questa immagine emblematica perché sa bene quanto possano fare male le gambe se si è costretti a dormire in macchina in inverno. “Dieci anni fa, quando avevo 42 anni, ho avuto una sfratto e ho dormito in auto per quasi tre mesi. Ricordo il freddo di quelle notti”. Durante quelle settimane, Renato continuava a pagare l’assegno di mantenimento e a vedere i suoi figli, pur non potendo dire loro dove stesse dormendo. “Se la separazione è conflittuale, all’ex partner non importa la condizione in cui si riduce a vivere l’ex compagno”. E mentre Aprile racconta di un professore universitario di diritto costretto a vivere con 120 euro al mese, ecco arrivare in associazione gli scatoloni di Banco alimentare Lombardia che sfamano 250 persone la settimana tra padri e figli che gravitano attorno alle loro sedi di Milano, Brugherio, Bergamo e Como. “L’affido condiviso è ancora trattato come affido alla madre” – La legge ha cercato di fare dei passi verso la parità di genere, passando da un affido esclusivo (che vedeva i figli normalmente affidati alla madre) a un affido condiviso, introdotto con la legge 54/2006 che prevede che entrambi gli ex coniugi conservino la potestà genitoriale. Questa la norma dal 2006 in avanti, tanto che nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono state circa l’89% contro l’8,9% di quelle con figli affidati alla madre. “Il problema è che l’affido condiviso è trattato dai giudici come un affido esclusivo alla madre”, lamenta Aprile. Dati alla mano, a distanza di quasi dieci anni dall’entrata in vigore della legge, non si notano cambiamenti rilevanti negli aspetti in cui si lascia discrezionalità ai giudici: la casa coniugale, per esempio, resta nella maggior parte dei casi assegnata alle mogli (60% nel 2015). “La legge prevederebbe la possibilità di non spostare i figli dall’ex cassa coniugale ma di chiedere ai genitori di viverci in maniera alternata – continua Aprile – oppure si potrebbe venderla per permettere a entrambi i genitori di spostarsi in appartamenti più piccoli dove il bambino potrebbe vivere due settimane con un genitore e due settimane con l’altro”. Un modello di cooperazione che, secondo l’associazione, permetterebbe al bambino di avere un rapporto con entrambi i genitori e non obbligherebbe nessun coniuge a pagare l’assegno di mantenimento. E invece, questo modello di collaborazione crolla di fronte al fatto che i genitori separati diventano addirittura incapaci di comunicare, “riducendosi a parlarsi via mail o tramite avvocato – racconta Chiara Soverini, psicologa clinica e giuridica di Padri Separati – senza rendersi conto dei rischi e delle patologie anche molto serie a cui espongono loro figlio con il loro comportamento”. “La madre si sente un genitore di serie A” – Bambini con senso di inadeguatezza che vivono come soldatini abituati a soddisfare le richieste di mamma e papà per fargli piacere oppure che si chiudono in se stessi diventando persone isolate. “Si arriva poi anche ai casi limite di tossicodipendenza, alcolismo o scissioni patologiche”, racconta la psicologa di Padri Separati, delineando come il problema non sia tanto la separazione ma il modo in cui questa avviene. “Spesso la madre separata vede il figlio come una sua proprietà, – continua Chiara Soverini – si sente un genitore di serie A, crede di avere tutte le risposte e vede il padre come un contorno con cui non è necessario collaborare”. Parallelamente, i padri – continua la psicologa – si sentono umiliati per le loro problematiche economiche e hanno la paura costante di non essere in grado di creare un rapporto con loro figlio nei pochi momenti che trascorrono insieme. Poi, il pomeriggio da passare insieme finisce, e il bambino viene riportato dalla mamma, senza che padre e madre neppure si salutino. “Ricordiamoci che questo sarà il prototipo di famiglia che quel bambino avrà per il resto della sua vita – chiude la psicologa – Ma gli adulti non si rendono conto di quali siano i rischi a cui espongono i loro figli mentre sono occupati a litigare”. Divorzio e separazione, le conseguenze per le madri – “Per le donne in Italia è un lusso”: mantenimento (che non arriva) e stipendi più bassi.

PEDOFILIA FEMMINILE.

La pedofilia è, anche, donna.

Pedofilia al femminile: analisi del fenomeno.

Cade il dogma della maternità buona ad ogni costo, il principio per cui in ogni femmina c’è l’istinto a proteggere, o almeno a non colpire, un cucciolo della sua specie. Secondo le stime, in cinque casi su cento, ad abusare sono madri incestuose, ambigue zie, maestre e babysitter, fino alle “regine per una notte” che, sulle spiagge del Terzo mondo, vanno a caccia di beach boys giovanissimi e indifesi. Non se ne parla ma esiste. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice in quanto, nell’immaginario collettivo, il termine “pedofilia” viene associato al sesso maschile, al quale è stato sempre affidato un ruolo “attivo”: la pedofilia è infatti “azione”. E’ considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne.

Da esaurienti studi clinici è emerso che le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Cause scatenanti la pedofilia femminile possono essere la separazione, l’abbandono, la perdita. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l’esasperazione nell’attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. Dal ruolo “passivo” che l’ha vista vittima e sottomessa la donna tenta in tal modo il riscatto e la propria affermazione in un ruolo “attivo”.

La più alta percentuale delle violenze sessuali sui bambini avviene tra le mura domestiche proprio ad opera di quelle persone nelle quali i piccoli ripongono la propria fiducia. Incredibile, impensabile, ma vero. Come vero è che, all’interno di una famiglia, ci sono madri che vedono, percepiscono e sentono l’odore dell’abuso ma tacciono, e silenziosamente acconsentono con orribile ed assolutamente ingiustificata complicità. Scacciano dalla memoria gesti, parole e sensazioni come per restarne fuori, pulite, estranee ai fatti, per non ammettere neppure a se stesse la verità, quella tremenda e terribile verità che diviene così, gradualmente, un segreto non condivisibile, respinto ogni qualvolta torna a galla. Occhi chiusi, bocca chiusa. Sono madri colpevoli dell’opera distruttiva che si sta operando attorno a loro ma reputano necessario comprare la solidità familiare, la posizione sociale ed il rispetto con l’omertà. Il prezzo da pagare, però, è troppo alto, anzi non vi è prezzo perché i figli non si vendono, non sono oggetto di scambio. Si interpreta tale comportamento adducendo ad una sorta di paura di vendetta da parte del marito, ad una ipotetica violenza cui sono state vittime da bambine che rivivono nelle vesti di madri, al timore di aver immaginato male o di sbagliare. Il loro “fare finta di non vedere” è un’ulteriore violenza ai danni dei figli i quali, abusati e non protetti da coloro che invece dovrebbero amarli ed educarli, vengono lasciati soli a se stessi, piccoli corpi martoriati, piccole coscienze distrutte. Il tradimento avviene su tutti i fronti, e non vi è danno peggiore.

Il fattore “cultura” o “ceto sociale”, qui, non entra in gioco come attenuante del caso: le madri “lavano in casa i panni sporchi” sia nelle culture più arretrate come negli agiati ceti sociali dove, si pensa, la buona educazione ed il benessere sono alla base dell’esistenza. Solo un terzo dei casi di abuso sono denunciati dalle madri: il restante è complice del marito, viscido seduttore, un nemico difficile da annientare.

Istintivamente associamo la donna all’idea di madre e la maternità a qualcosa di dolce, protettivo e rassicurante ma non è sempre così. Le notizie che leggiamo sui giornali, le cronache nazionali e internazionali ci ricordano ogni giorno che non è affatto così. Eppure quando leggiamo di un crimine commesso da una donna, ci sforziamo di trovarne una giustificazione, è difficile concepire la crudeltà femminile e ancora più difficile è comprendere quando questa crudeltà si abbatte su un bambino. Questa difficoltà non è limitata alla gente comune, la troviamo anche negli uomini di legge, nei giudici che si trovano a dover emettere una sentenza, in un processo che vede imputata una donna. Le statistiche parlano chiaro e i processi in cui è la donna a sedersi sul banco degli imputati si chiudono con condanne molto più lievi rispetto ai “colleghi maschi”. Non si riconosce alla donna il libero arbitrio nel commettere crimini, la tendenza è quella di vedere comunque la donna “criminale” come vittima, prima che come carnefice. Giustifichiamo la violenza che mette in atto nel suo presente, come una risposta direttamente proporzionale ad un passato “traumatico”, per dirla alla Freud. Devianza, crudeltà, abusi e violenze non hanno sesso, non sono tipicamente maschili o femminili, per comprenderli, dobbiamo imparare a concepire ogni singolo atto e comportamento “criminale”, come espressione di una personalità che si è formata in un contesto fatto di relazioni, interazioni ed esperienze e il fatto che sia donna o uomo non conta, conta solo l’essere umano in tutta la sua complessità.

La pedofilia femminile, approccio teorico.

L’infanzia è stata oggetto negli ultimi anni di particolare tutela ed interesse: diverse infatti sono state le Carte Internazionali dei diritti del fanciullo, che hanno posto come fondamentali il diritto alla vita, all’uguaglianza, all’identità, all’amore e alla libertà, a essere protetto da qualsiasi influenza e abuso, al gioco, all’educazione e all’istruzione. Tra queste, fondamentale è la “Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia” (1989), redatta e sottoscritta da molti paesi al fine di rendere effettivamente realizzati diritti e libertà proclamati. Ma l’infanzia è anche oggetto di “abuso” e sicuramente, in ordine di gravità, l’abuso sessuale rappresenta l’apice di una piramide fatta di violenza: esso riguarda, infatti, il coinvolgimento del minore in attività sessuali di cui non è consapevole. Catalogata tra gli abusi sessuali, la “pedofilia” attualmente, secondo quanto riportato all’interno del DSM – IV è inserita tra le “parafilie”, ovvero comportamenti caratterizzati da ricorrenti e intensi impulsi, fantasie o comportamenti sessuali, che implicano oggetti, attività o situazioni inusuali e causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.

Se prendiamo in considerazione la pedofilia al femminile, vediamo come la separazione, l’abbandono, la perdita, possono esserne cause scatenanti. Alcune donne hanno subìto abusi da bambine e l’esasperazione nell’attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. (www.aquiloneblu.org). Possiamo comunque asserire che la pedofilia femminile nella sua dinamica formativa non si discosta da quella maschile in quanto sia che si tratti di un uomo, sia che si tratti di una donna, non ci possiamo limitare ad identificare la persona con il suo comportamento, perché in questo modo si elimina la complessità di una vicenda umana e si attenuano lucidità e comprensione. (Valcarenghi, 2007).

Da un Paese all'altro, da uno studio all'altro, la tendenza alla "catalogazione" è sempre più diffusa e praticata. Nessun neonato viene al mondo con il gene della pedofilia. Nessun uomo è solo il reato che ha commesso, ognuno di loro è anche altro: un bravo artigiano, un appassionato di musica, una grande lavoratrice. L'identificazione della persona con il reato che ha commesso è uno degli errori in cui incappiamo più spesso ed è l’ostacolo più grande che può incontrare un qualsiasi approccio terapeutico. Una delle cause della pedofilia, secondo la psicoanalista Marina Valcarenghi (Valcarenghi, 2007) è rintracciabile in un trauma subito ma non riconosciuto e sofferto. Un trauma può bloccare in tutto o in parte lo sviluppo di una personalità, costringendo il comportamento sessuale fin dall’inizio all’interno di schemi infantili e attivando quindi una fissazione regressiva, o può fare incursione nella vita adulta, all’improvviso deragliandone il corso. La pulsione emerge dall’inconscio come compensazione e i freni inibitori non funzionano perché da quello stesso trauma sono stati disattivati. Il comportamento pedofilo, a partire dal momento in cui diventa azione, descriverebbe quindi una devianza psicosociale e non una patologia dell’istinto, si tratta cioè di un’interazione tra un’esperienza, la nostra personalità e la nostra storia che si combinano nel nostro inconscio, facendo poi scaturire il comportamento patologico. Dobbiamo comunque abbandonare l’dea che alla base della pedofilia esista un comune denominatore, l’organismo psichico di ognuno di noi reagisce ad un disagio esprimendo un sintomo e i sintomi possibili per uno stesso disagio sono innumerevoli. Così simmetricamente, lo stesso sintomo può riferirsi a disagi diversi. Lo stesso trauma, può indurre pedofilia, alcolismo, suicidio o altro ancora e simmetricamente cause diverse possono convogliarsi su un’identica azione.

“La scelta” dei sintomi, dipende dalla costituzione psichica di ognuno di noi. La personalità pedofila, mostra meccanismi difensivi come, negazione, scissione, proiezione e razionalizzazione. Tali meccanismi di difesa, hanno origini molto remote e molto frequentemente sono legate a traumi subiti nell’infanzia. Il bisogno di mantenere intatta la figura dell’adulto abusante, che di solito è una figura vicina al bambino, dalla quale lui dipende, lo spinge a giustificare i comportamenti e a mantenere l’idealizzazione dell’adulto, grazie a potenti meccanismi di scissione che permettono di considerare l’adulto come buono e di introiettare la parte negativa su sé stessi. Si realizza così un inversione di ruoli, in cui la vittima diventerà carnefice per sentirsi meno impotente nei confronti del dolore e della passività vissuti durante l’abuso e per tollerare meglio, la dissonanza cognitiva conseguente all’incapacità di trovare delle risposte alle attribuzioni causali adeguate, (L. Petrone, M. Troiano, 2005).

Nell’immaginario collettivo, il termine “pedofilia” viene associato al sesso maschile. E’ considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni femminili. Nel 1991, Kaplan (Kaplan H. I., Sadock B. J. 1993, Manuale di psichiatria, Edises. Napoli) ha effettuato uno studio sulle perversioni nelle donne e si è reso conto, che i precedenti clinici non erano riusciti ad identificarle, in quanto le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Le pedofile, statisticamente sono più rare degli uomini: secondo stime approssimative, che si rifanno ai soli dati ufficialmente pervenuti alla magistratura o ai servizi sociali, solo il 5-7% degli abusi é stato perpetrato da una donna. Se però andiamo a vedere le storie personali dei pedofili, scopriamo che il 78% dei maschi pedofili riferisce di avere alle spalle storie di abuso agite da figure femminili e in particolare da madri. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Questo dato, ci fa intuire che dietro le statistiche si cela una realtà ben diversa da quella ufficiale. Probabilmente questo sommerso è dovuto alla maggiore familiarità con l’accudimento fisico dei bambini in cui si confonde più facilmente il significato dei gesti, nascondendo così il fenomeno. Tracciare un quadro esaustivo della pedofilia al femminile è notevolmente difficile, ma si potrebbe iniziare, cercando di fare una prima distinzione tra pedofilia femminile intra-familiare e pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche.

Pedofilia femminile intrafamiliare.

Secondo Estela Welldon, la perversione femminile più che attraverso la sessualità, passa attraverso la maternità e attraverso le pervasive strategie di manipolazione del figlio. (E. Welldon, 1995, Madre, madonna, prostituta, Centro Scientifico Torinese, Torino). La pedofilia femminile intra-familiare ossia quella incestuosa è molto difficile da identificare e scoprire proprio perché celata, spesso, dietro gesti di cura abituali, sublimata in innamoramento o in pratiche di accudimento. Non si caratterizza come “comportamento violento” come accade invece di frequente nella pedofilia extrafamiliare. Dato che alla madre viene riconosciuta una sorta di autorizzazione ad avere un contatto con il corpo del figlio, l’abuso che la madre agisce sul corpo del bambino, sarà riconoscibile solo in adolescenza. Nell'anamnesi di pazienti maschi, frequentemente emergono madri che continuano a fare il bagno a figli adolescenti o che spingono, in assenza del padre, il figlio ormai adulto, a dormire nel letto matrimoniale. L’abuso può manifestarsi attraverso manipolazioni di tipo masturbatorio e può arrivare ad un rapporto sessuale completo tra madre e figlio. Tutte le forme di abuso intrafamiliare, hanno ripercussioni fortemente negative sulla psiche del bambino ma gli abusi sessuali materni sono particolarmente devastanti per il suo sviluppo emotivo, in quanto la violenza della madre incestuosa è connotata da “confidence power” ossia da una strategia deduttiva che imbriglia la propria vittima (figlio/a ), sfruttando i suoi sentimenti naturali di confusione, obbedienza, devozione e fiducia. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Lo stesso Freud, riteneva che le modalità di cura e di pulizia che le madri pongono in essere nei confronti dei loro bambini, fossero spesso involontariamente causa di eccessiva erotizzazione e quindi suscettibili di influire negativamente sullo sviluppo della sessualità infantile. Anche se Freud ne faceva più una questione di investimento libidico che di investimento narcisistico, egli aveva comunque ben intuito l’esistenza del problema (www.psicologiaforense.it).

La pre-pedofilia.

La dinamica dell’atto pedofilo nelle donne ha a volte anche un’altra particolare connotazione definita Pre-pedofilia, che si caratterizza in una posizione marginale e passiva nell'atto pedofilo da parte della donna, che lascia all'uomo la parte attiva. E' pre-pedofilia quando, in atti delittuosi extra-familiari, quasi sempre maschili, è presente una donna; oppure quando, all'interno delle mura domestiche, il padre abusa dei figli minori e lei (moglie, madre, convivente) vedendo, percependo e intuendo l'abuso, decide di tacere. Il suo silenzio-assenso è una ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarli ed educarli. E' pre-pedofilia, ancora, quando il desiderio pedofilo viene realizzato per vie traverse, mediante l'organizzazione di incontri tra i propri figli con persone adulte. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Il fenomeno della pre-pedofilia da parte della figura materna, si può verificare perché il compagno è un pedofilo e l’amore e la dipendenza patologica nei confronti del partner, la porta a seguire le inclinazioni di quest’ultimo. Pensiamo alla compagna del “mostro di Marcinelle”, che lo seguiva assecondando i suoi agiti o al caso più recente di questi giorni in Austria, dove un padre ha relegato la figlia per anni nello scantinato di casa, ha avuto da lei sette figli che ha poi cresciuto con la moglie ossia la madre della ragazza. In moltissimi casi di incesto infatti, oggi come ieri, vi è una madre a dir poco assente, non attenta alla sua realtà familiare, non in grado né di essere moglie né di essere mamma (M. Malacrea, A. Vassalli, 1990, Segreti di famiglia, Cortina, Milano). È proprio il fallimento come donna e come madre, la paura di perdere il partner, a essere alla base del comportamento complice. Avviene infatti che la madre sappia dell'abuso, ma non faccia niente per impedirlo; anzi, se la figlia le rivela l'accaduto, l'accusa di mentire, di essersi inventata tutto, facendo sì che il marito continui a perpetrare l'incesto. A volte passiva e sottomessa, lei stessa ha subito spesso violenze sessuali nell'infanzia, e il ripetersi degli eventi le appare quasi naturale, quasi un diritto da parte del maschio di appropriarsi del corpo d'una bambina; L'abuso subito, ha strutturato in lei una personalità fragile, tale da ricercare un partner dominante e prepotente. Il suo vissuto non elaborato, la porta a reiterare, in maniera più o meno inconscia, il proprio trauma: come se nella famiglia che si è formata sia necessario ricostruire il proprio dramma, ri-mettere in atto, come regista, il proprio abuso per poterlo esorcizzare. Non in grado di crearsi l'indipendenza psicologica dal maschio dominante, questa madre, collude con il suo compagno e cercando di mantenere uno pseudo-equilibrio famigliare, talvolta spinge, in maniera più o meno cosciente, la figlia nelle braccia del marito.

Paradossalmente, spesso è il bambino abusato a proteggere la madre debole; mantiene il segreto perchè sa che la mamma non può sopportare tale dolore, la difende dalla realtà assumendosene ogni responsabilità. Il bambino paga a caro prezzo questo suo slancio di generosità, perché con il suo silenzio permette il perpetrarsi dell'abuso, sostiene un equilibrio familiare che lo priva del suo ruolo infantile, consente il comportamento del padre che in tal modo non si crea nemmeno il dubbio su ciò che sta facendo. Se non interviene nessun fattore esterno, l'incesto può continuare per anni e rimanere segreto fino all'età adulta. Quando l'incesto diventa evidente, per una denuncia o per la ribellione della figlia, anche per la madre, arriva il momento di prendere posizione rispetto all'evento. Anche in questo caso, se vuole continuare il rapporto con il marito, la madre tende a proteggere il partner, cercando di far ritrattare la figlia o (specie se la figlia è adolescente) mettendosi contro di lei, rendendola responsabile di ciò che è accaduto. Perdere il marito la porterebbe sul baratro della propria incapacità di essere indipendente, di assumersi responsabilità che non è in grado di reggere, di trovarsi a dover dirigere autonomamente la propria esistenza. Solo se la madre riesce a distaccarsi dal marito, allora diventa alleata della figlia e con lei combatte la battaglia morale e giuridica contro l'abusante. (www.altrodiritto.unifi.it).

Pedofilia femminile extrafamiliare.

La pedofilia extrafamiliare ha caratteristiche diverse da quella intrafamiliare, connotata da un marcato desiderio egoista di potere, di dominio e di piacere, spesso si dirige verso bambini e adolescenti assumendo forme di pedofilia mercenaria e violenta. Generalmente è legata al turismo sessuale ma altre volte sono luoghi familiari per la piccola vittima, come la scuola, i luoghi ricreativi, le case di qualche amichetto, ad essere prescelti. Rientrano nella casistica, casi di maestre che fanno spogliare i loro allievi, per spiegare come sia avvenuta la creazione, maestre che insegnano giochi che prevedono la penetrazione dei genitali con i pennarelli e così via. Questi abusi vengono filmati e poi immessi sul “mercato” tramite internet. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Nel caso specifico del turismo sessuale, la pedofilia femminile che preferisce mete lontane come luoghi di abbordaggio, è balzata agli “onori della cronaca”, intorno agli anni ’70. In quel periodo donne americane e canadesi, favorite dall’emancipazione economica, hanno iniziato a recarsi verso spiagge lontane alla conquista dei “beach boys” e “beach girls”, pagando 100 dollari, per ottenere le loro prestazioni sessuali. Alcune indagini giornalistiche come quella del settimanale Panorama, hanno evidenziato che esattamente come succede per i pedofili maschi, le donne pedofile evadono dalla comune realtà ricercando altrove gli oggetti dei loro “desideri”. Potendo difficilmente usufruire di infrastrutture organizzate al loro servizio, come i pedofili maschi, sono però “costrette” ad abbordare i “meninos de rua” i bambini di strada e a viaggiare senza la protezione di un’articolata rete di agganci. Non hanno infatti alle spalle, la tutela di organizzazioni che garantiscono loro la certezza di raggiungere il luogo di destinazione, avendo già tutto stabilito, come accade per la maggior parte dei pedofili maschi (www.aquiloneblu.org).

Oggi, l’età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e l’appagamento materno (www.psicoterapie.org).

Differenti sono le mete e rispetto a quanto riportato dall’indagine di alcuni anni fa di Panorama, si evidenzia come il mercato si sia adeguato anche alle richieste delle donne pedofile. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali, preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e per le destinazioni più lontane la Giamaica e il Brasile. La Thailandia, invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. A Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d’amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata. ( N. Bressan, 2001, Quando un bambino piange al buio, relazione presentata al Convegno di Novara “Perchè i bambini non piangano al buio. Riflessioni sulla pedofilia”).

Più recentemente, arriviamo al turismo sessuale femminile in Sri Lanka. Dalla testimonianza di volontari del posto, si apprende che le “turiste”, arrivano portandosi da casa ormoni e droghe da somministrare a bambini dai 6 agli 11anni per consentire fisicamente l'atto sessuale (S. Zanda www.psicoterapie.org). Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale per ottenere l'erezione, avviene tramite l’iniezione degli ormoni nei testicoli, questo causa l’abnorme ingrossamento dell’organo sessuale del bambino che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni e i danni spesso sono letali (L. Granello, 2007, dweb.repubblica.it).

Non ci possiamo poi dimenticare della pedofilia praticata nelle sette sataniche che vede la costante presenza di figure femminili, una forma di pedofilia estremamente violenta che utilizza rituali a sfondo sessuale per avvicinarsi secondo una loro “interpretazione”, all’entità malefica. In questo caso, sono coinvolti bambini della scuola dell’infanzia cioè tra i 2 e 6 anni che possono essere molestati se non addirittura rapiti da satanisti che si aggregano al personale delle scuole dell’infanzia (L. Petrone, M. Troiano, 2005).

Pedofilia femminile e atteggiamento sociale.

Prof. avv. Guglielmo Gulotta, avvocato, psicologo, psicoterapeuta, professore ordinario di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi di Torino "In relazione ai molteplici dibattiti e discussioni radiotelevisivi suscitati dall'interesse esploso intorno alla vicenda di Rignano Flaminio, con la quasi totale assenza di accademici esperti della materia nonché dei firmatari della Carta di Noto - riconosciuta come il documento guida nei casi di sospetto abuso sessuale - esprimo alcune considerazioni, innanzitutto nella mia veste di psicologo, psicoterapeuta e Professore ordinario di Psicologia Giuridica - unica cattedra del Paese - e di avvocato che si è occupato, in qualità di difensore, di ben quattro casi di pretesi asili a luci rosse; due di questi si sono conclusi con l'assoluzione di tutti gli imputati, uno è ancora in fase di indagine e il quarto, per cui siamo in attesa della Cassazione, con l'assoluzione di 4 imputati e la condanna di un bidello. Oggi apprendiamo che a Rignano Flaminio il Tribunale del Riesame ha annullato le ordinanze di custodia cautelare in carcere di 5 indagati rimettendoli in libertà. Ritengo doveroso mettere al corrente il pubblico del come e del perché, nonostante i media diano ampio rilievo a dichiarazioni dei bambini e delle madri che di per sé sono inconciliabili con l'assoluzione degli imputati e con la loro scarcerazione, praticamente la totalità di questi processi si concludano con l'accertamento da parte della magistratura dell'innocenza degli stessi e con una conseguente sentenza assolutoria. Bisogna innanzitutto sgomberare il campo dagli equivoci: non si tratta di menzogne raccontate dai minori, né tantomeno di malafede da parte dei genitori che, in tutti i casi da me trattati professionalmente, non avevano alcun interesse e alcuna ragione di voler calunniare gli insegnanti. L’allarme diffuso intorno al fenomeno pedofilia può fare sì che un genitore, preoccupato ad esempio da manifestazioni di disagio del proprio figlio (si tratta molto spesso di sintomi assai comuni e frequenti tra i bambini, quali l'enuresi notturna, la comparsa di incubi, oppositività al momento di andare a scuola, ecc…) o da segni e sintomi fisici fino ad allora mai manifestati (ma anche questi altrettanto frequenti, quali emorroidi, arrossamenti in zona genitale, lividi su cosce e natiche, ecc…) si faccia l'idea che ciò possa essere riconducibile ad un'azione esterna. Nella maggior parte dei casi, invece, l'indagine psicologica, se ben condotta, rivela che il disagio psicologico del minore ha a che vedere con un perturbamento dell'equilibrio familiare, quale un conflitto tra i suoi membri, una separazione tra i genitori o anche semplicemente la nascita di un fratellino. Allo stesso modo, i segni e i sintomi fisici possono trovare la loro spiegazione nella stipsi, nella scarsa igiene, nell'essersi toccati le parti intime con le mani sporche o nell'aver fatto dei giochi sulla sabbia. I lividi, come è intuitivo, possono essere provocati da cadute e ruzzoloni nei normali giochi dei bambini. Il genitore spaventato dall'idea della pedofilia può a questo punto chiedere al figlio: "chi è stato a farti questo?", dando quindi implicitamente per scontato, almeno nella formulazione della domanda, che qualcuno deve avere provocato ciò di cui egli chiede conto al bambino. In questo modo egli induce nel figlio una risposta che non è solo una spiegazione, ma è anche una giustificazione. Costretto a indicare un colpevole, il minore - il cui bacino "sociale" è necessariamente molto limitato - potrà dire:

·           mio fratello/sorella oppure il mio amichetto: in questo caso il genitore può accontentarsi della risposta;

·           mio papà: e questo è assai rischioso - lo dico per ampia esperienza in casi di questo tipo- quando i due genitori siano in una condizione di separazione conflittuale;

·           la maestra: e arriviamo a noi;

·           nessuno: e arriviamo a noi.

Quando la madre non riceva la risposta paventata può convincersi che il piccolo sia reticente e così insiste finché il bambino ingenuamente la segue assecondandola nella sua ipotesi temuta. A questo punto la madre, ottenuta quella che lei reputa una rivelazione (si tratta in realtà di una ammissione pilotata!) innescherà il contagio tra gli altri genitori attraverso un'azione incontrollabile. Nel caso di Verona - uno di quelli conclusi con l'assoluzione di tutti gli imputati- la madre responsabile per così dire dell'innesco dell'intera vicenda giudiziaria, d'accordo con il proprio marito iniziò ad avvisare, nel cuore della notte, tutti i genitori degli altri bambini scatenando in loro, come è facile immaginare, quel terrore e quell'angoscia che a loro volta diedero vita agli interrogatori degli altri bambini (alcuni svegliati in piena notte perché raccontassero!). Nel caso di Bergamo (anche questo concluso con l’assoluzione delle imputate) l’innesco è provocato da una madre che trae la convinzione che il proprio bambino sia stato abusato all’interno della scuola materna dopo averlo esplicitamente interrogato con il ciuccio in bocca: interpretava i gesti e i cenni del bambino come affermazioni o disconferme alle sue domande. Ciò che più di ogni altra cosa la convinse del patito abuso era la mancanza di “indignazione” sul volto del figlio (un piccolo di appena 4 anni) rispetto alle domande oscene che lei gli faceva! In altro caso, abbiamo avuto la prova di come si reifichi il tema del cosiddetto segreto, fil rouge di tutti questi processi. I genitori non possono darsi pace del fatto di non essersi accorti di quanto accadeva al proprio bambino e soprattutto del fatto che il figlioletto, sempre così aperto con loro, non abbia fino ad allora riferito nulla su una cosa tanto importante. Scatta quindi immediatamente la convinzione che il piccolo sia stato indotto, anche attraverso minacce e punizioni, al mantenimento del segreto. L'interazione tipica è la seguente: Mamma: “non me lo hai detto perché avevi paura, vero? Non temere, piccino, ti difende la mamma, e nessuno può fare male alla mamma. Avevi paura perché ti hanno detto di non dirlo, altrimenti…? Il bambino si adegua.

PS: queste domande sono vietate nel processo ai propri testimoni (in ipotesi anche al capo di una famiglia mafiosa) perché troppo suggestive e quindi in grado di condizionare il testimone alterandone la risposta. E si convincono quindi che il figlio - un bambino di tre anni - possa aver stoicamente dissimulato dolori e sofferenze inenarrabili (tra cui l'essere incatenato, legato, violentato, drogato, ecc.). Ecco la trappola cognitiva: se io non ho capito finora e il bambino ha finora taciuto non è perché non è successo, ma perché qualcuno gli ha detto di non dirlo. E questa richiesta deve necessariamente essere stata accompagnata da minacce. Nel caso di Verona abbiamo la prova registrata che è andata proprio così. Dopo un po' di tempo il bambino conferma la bontà dell'intuizione materna. A questo punto intervengono gli psicologi incaricati di valutare i racconti dei minori e la loro attendibilità, ma anziché procedere secondo le indicazioni provenienti dalla più accreditata letteratura scientifica internazionale in materia, molti professionisti omettono di impiegare protocolli e metodologie corrette, necessarie quando si debbano raccogliere testimonianze così fragili come quelle dei minori, procedendo invece in maniera arbitraria e improvvisata. Molti sono addirittura ignari dei rischi di instillare nel minore, attraverso domande suggestive e interviste ripetute, le cosiddette false memorie, nonostante la copiosa letteratura in materia (sul punto vedi Gulotta, Cutica: Guida alla perizia psicologica, edito da Giuffrè). E' sperimentalmente dimostrato, anche attraverso una ricerca condotta da me, che è possibile indurre nel bambino - tanto più da parte del genitore, falsi ricordi relativi ai più disparati avvenimenti, in realtà mai esperiti. Tra gli altri: l'aver subito un attacco fisico da parte di un animale feroce o l'essere stati rapiti dagli alieni. Così mentre le madri ottengono ciò che temono, gli psicologi ottengono ciò che si aspettano. Poi i bambini ci mettono del loro: squali a Brescia, clown, pagliacci, pellerossa, ecc... Cosi, senza che in molti se ne rendano conto, ci si ritrova, anziché in un processo, in un cartone animato. Torniamo ai sintomi di cui parlano i genitori e che vengono poi propagandati dai media come prova del patito abuso. I bambini hanno sì dei sintomi, ma fateci caso: i sintomi nascono dopo che è scoppiato lo scandalo. Non è che i genitori fino ad allora non li avessero visti; è che non c'erano o erano irrilevanti. I sintomi compaiono a seguito dello stress provocato nel minore dalla stessa investigazione: questi bambini vengono "sentiti" (traduzione corretta: interrogati) ripetutamente dalle madri, dalla polizia, dagli psicologi, dai magistrati. E' la profezia che si autodetermina, la costruzione del fattoide: la macchina della giustizia finisce col creare il mostro che crede di combattere. La prova: i sintomi dei bambini, anziché diminuire con l'allontanarsi dal momento del presunto abuso, aumentano parallelamente al procedere delle investigazioni.

Memento la storia degli untori, delle streghe e ancora di più dello iettatore, un mostro costruito dalle parole dove però in molti sono pronti a giurare di avere le prove che egli porti davvero sfortuna. Oggi la tesi espressa da alcuni media, che evidentemente ignorano tutti gli studi di psicologia sociale e sociologici sulle dicerie e sulle leggende metropolitane, è che esista una banda organizzata di pedofili che si insidia nelle diverse scuole. Stranamente però, nonostante le accurate indagini di polizia, non vengono mai rinvenute né tracce dei contatti tra i vari membri della banda (eppure deve essere necessario accordarsi per portar fuori i bambini), né materiale video o fotografico (eppure si parla di riprese pedo-pornografiche, set cinematografici, ecc.), né anomalie sui conti bancari. E quello economico sarebbe l'unico movente sensato per spiegare la condotta di donne che per 30 anni hanno tenuto una condotta esemplare, e improvvisamente diventano complici di simili porcate.

Già perché la pedofilia femminile, come tutte le altre parafilie (salvo il sadomasochismo) sono una prerogativa maschile. Così ragionando, migliaia di famiglie italiane che hanno i bambini all’asilo sono spaventate. A Vallo della Lucania si suppone che una novizia straniera riesca a convincere, non si sa come, delle suore che da molti anni gestiscono un asilo da cui è passata mezza città, a commettere abusi sui piccoli alunni dandoli addirittura in pasto a una banda di pedofili che sarebbe composta, nel caso di specie, da un fotografo e da un capomastro. Il sequestro dell’intero patrimonio fotografico del primo, così come l’esame dei reperti organici nell’abitazione del secondo (teatro, secondo l’accusa, del set cinematografico) hanno dato esito negativo. Desterebbe, poi, una certa inquietudine il fatto che nello stesso periodo racconti con contenuto analogo provengano da minori che abitano in luoghi diversi e lontani tra loro. La spiegazione è molto semplice: le mamme hanno le stesse paure e gli psicologi le stesse aspettative. Anche nei processi alle streghe e agli untori c’erano dei focolai apparentemente senza connessione. Sartre diceva che "le parole sono pistole cariche" e hanno la terribile forza di costruire la realtà. Già Bacone aveva identificato i limiti della mente umana (e Kahneman, psicologo premio Nobel, lo ha confermato sperimentalmente): quando abbracciamo un'ipotesi siamo portati a scartare e a sottovalutare tutti quegli elementi che la disconfermerebbero. La tendenza della mente è verificazionista. E pensate che né gli avvocati né i magistrati che tutti i giorni sono chiamati ad occuparsi di casi come questi, almeno stando al loro curriculum, non debbono aver studiato un rigo - dico un rigo - di psicologia. (www.bambinicoraggiosi.com)".

Ho scelto di far parlare il professor Gullotta perché mi ha colpito il tono perentorio con cui descrive genitori che, (cito testualmente) “visto il diffuso allarme intorno al fenomeno pedofilia”, estendono la loro preoccupazione ad ogni segnale fisico che potrebbe essere ricondotto ad un presunto abuso. Il bambino dal canto suo, non fa altro che accontentare le richieste dei genitori, confermando le paure degli stessi, colorando di fantasie infantili l’intera ipotetica vicenda e, dice ancora Gullotta. “Cosi, senza che in molti se ne rendano conto, ci si ritrova, anziché in un processo, in un cartone animato”. Non parliamo poi di tutti quegli psicologi incompetenti che fregandosene di tutti i protocolli e Carte di Noto, “procedono invece in maniera arbitraria e improvvisata” . Sempre Gullotta, sostiene poi che “la pedofilia femminile, come tutte le altre parafilie, (salvo il sado-masochismo), sono una prerogativa maschile”, quindi tutti i vari “Rignano Flaminio” non possono che essere una bufala colossale.

Francesco Bruno celebre, rinomato criminologo e collega di Gullotta, nello scrivere la prefazione al libro di Petrone e troiano “Se l’orco fosse lei”, definisce la pedofilia femminile un fenomeno “nuovo”, un fenomeno, sempre a suo dire, che sta “incominciando a fare la sua comparsa anche nel nostro Paese”. Quello che io ho letto, facendo una semplice ricerca nelle varie rassegne stampa nazionali e internazionali, mi racconta però una realtà diversa, in cui non trova conferma la definizione di “fenomeno nuovo” data dal Prof. Bruno e tanto meno quella di cartoni animati descritta dal professor Gullotta. Riporto qui di seguito gli articoli che sono riuscita a trovare cercando negli archivi disponibili di quotidiani online: Repubblica 12 settembre 1997. Arrestata, adescava bambine. Teramo. Piccole somme di denaro e gioielli. Così Marta Maria Battista avrebbe attirato tre minorenni in un giro di pedofilia femminile. Lei, 21 anni, originaria di Molfetta e residente a Nereto, vicino a Teramo, casalinga, è stata arrestata mercoledì notte dal reparto operativo dei carabinieri di Teramo nell’ambito di un’indagine sulla pedofilia. Quando gli agenti hanno suonato alla sua porta, l’ignaro marito non poteva credere a quelle accuse. Durante la perquisizione dell’appartamento i carabinieri hanno trovato anche diversi oggetti per pratiche sessuali e alcune cassette porno in cui però non compaiono minorenni come protagonisti. Secondo l’accusa, da tempo la donna rivolgeva pressanti attenzioni sessuali nei confronti di una ragazza di 14 anni. All'insaputa del marito, non solo aveva rivolto le sue attenzioni sessuali sulla minore, ma aveva anche cercato di indurre un’amica maggiorenne a prostituirsi con uomini di sua conoscenza.

www.Repubblica.it 24 agosto 2000. Caso di pedofilia al 'femminile'. E' accaduto a Termini Imerese, un centro a 35 chilometri da Palermo, dove una donna di 30 anni è stata arrestata con l'accusa di aver compiuto abusi sessuali su una ragazzina di 14 anni. La donna, casalinga, è stata rinchiusa nel carcere dei Cavallacci su ordine di custodia del gip, Francesco Paolo Pitarresi, che ha accolto le richieste del sostituto procuratore della Repubblica, Francesca Pandolfi. Il provvedimento restrittivo è stato eseguito dalla polizia, che ha svolto le indagini, avviate su denuncia della madre della vittima. L'identità della pedofila lesbica non è stata resa nota.

Repubblica 19 settembre 200. Pedofilia al femminile Due baby sitter molestano bambino FORLI - Un caso di pedofilia al femminile a Forlì: due baby sitter - sorelle di 36 e 38 anni - sono state denunciate dai genitori di un bambino di 8 anni con l'accusa di aver abusato del piccolo che avevano in custodia a giorni alterni. I genitori avrebbero scoperto cosa succedeva in loro assenza perchè il bambino diventava sempre più strano e faceva domande "innaturali" per la sua età. Con pazienza i genitori sono riusciti a farsi raccontare delle strane attenzioni cui era diventato oggetto. Appena intuito di che cosa si trattava, hanno presentato denuncia all' ufficio minori della Questura. Ora l'autorità giudiziaria dovrà sbrogliare uno dei pochi casi noti di pedofilia al femminile.

Repubblica 18 agosto 2001. Le nuove turiste sessuali a caccia di bambini vengono dall' Europa occidentale e dagli Stati Uniti. Sono ricche, di mezza età. Di solito viaggiano in coppia e portano con sé una macabra attrezzatura composta di ormoni e droghe. Avere un rapporto sessuale con un ragazzino preadolescente è tecnicamente più difficile che con una bambina tanto che le pedofile più esperte arrivano ad iniettare ormoni o droghe nei bambini più piccoli per provocarne l'erezione. Lo sfruttamento sessuale ai danni di bambini rischia di avere conseguenze ancora più a lungo termine di quello inflitto alle bambine. L' uso di droghe e sostanze chimiche può avere effetti fisici ancora sconosciuti. Oltre ai danni psicologici e fisici provocati dalla violenza sessuale, spesso irrecuperabili, il trattamento ormonale in età preadolescente causa una modificazione dello sviluppo che può arrivare a minacciare anche la vita del bambino.

www.sun-sentinel.com 11 Gennaio 2004. Le Accuse contro una professoressa di Boynton Beach fanno luce sul ruolo della Donna come molestatrice sessuale. Articolo di Scott Travis. L'abuso sessuale contro i bambini è da sempre stato considerato come un crimine degli uomini. Nonostante il fatto che la maggioranza dei casi continuano a coinvolgere uomini, le donne stanno in questi tempi occupando le prime pagine dei giornali accusate di avere relazioni sessuali con adolescenti. Nei recenti mesi ci son stati ben tre casi, nella sola Florida, più una serie di altri nell'intero contesto nazionale. L'ultima donna accusata di abuso sessuale è Carol Flannigan, un'insegnante di musica di 49 anni alla Rolling Green Elementary a Boynton Beach. La Flannigan è stata arrestata con l'accusa di aver intrattenuto una relazione sessuale di ben 19 mesi con un ex-studente di 11 anni. La Flannigan fa seguito a numerose altre donne che sono state arrestate negli ultimi anni per accuse simili, tra queste: Amy Duane, un'insegnante di scuola elementare che si è dichiarata colpevole a Novembre. La Duane ha intrattenuto una relazione sessuale con un bambino di 13 anni che viveva nel suo vicinato, ad ovest di Lake Worth. La pena è stata di 4 anni in prigione. Debra Favre, che ha ammesso di aver avuto una relazione sessuale con un ragazzo di sedici anni nella stanza da letto della signora Duane. La Favre si è dichiarata colpevole. Denise McBryde, un'ex-insegnante di una scuola privata che è stata condannata a tre anni di carcere per aver avuto una relazione sessuale con un suo studente di 15 anni, a Tampa. Comunque, probabilmente la più famosa è Mary Kay Letorneau, un'insegnante di Kent (Washington). La storia della Letorneau è balzata nelle prime pagine di tutta la nazione quando la sua relazione con uno studente di 13 anni ha prodotto 2 bambini. "La gente comune pensa che sia raro, ma non lo è per niente", dice Deborah Hermon, una psicologa che lavora a Boca Raton. "L'idea per cui una donna o una madre - qualcuna che si suppone debba rappresentare il meglio per quanto riguarda la 'protezione'- possa abusare di un bambino, è talmente angosciosa e penosa che le persone non vogliono nemmeno prendere in considerazione la questione. Ma il problema è molto più diffuso di quanto la gente creda." In base alle cifre del Dipartimento di Giustizia le donne accusate di crimini a sfondo sessuale contro bambini sono appena il 3%. Ma la Hermon dice che la maggior parte dei casi che coinvolgono donne o non vengono segnalati oppure le donne non vengono condannate. La Hermon dice che è difficile ottenere il DNA e altre evidenze fisiche quando ad essere abusato è il maschio. "E spesso i bambini avvertono che ci sia in loro una sorta di "marchio di colpevolezza" per essere stati vittimizzati da una donna", dice la Hermon.. La madre della vittima di Amy Duane dice che lei non ha mai pensato nemmeno una volta che una donna potesse essere una "pedofila", finchè non ha dovuto constatare la dura realtà nella sua famiglia.

Settimanale Anna aprile 2004. Maria, quattro anni, entra con la mamma nello studio di una pediatra. Il medico conferma i sospetti dei genitori: la bambina ha un'infezione vaginale. La pediatra prescrive la cura, consiglia di far indossare alla bambina slip più aderenti, e di vietarle di sedersi a terra. Un giorno, la madre vede Maria armeggiare con un pennarello fra le gambe. La sgrida, le spiega che fa male a fare quel gioco, perché certamente è stato causa della sua malattia. Maria ribatte che quel gioco "glielo ha insegnato la maestra". Quindi, si può fare. La mamma ammutolisce e corre al telefono. La classe della scuola materna che Maria frequenta ha 12 alunni. La madre di Maria rintraccia, una per una, le altre madri. Si consultano, si riuniscono, si accordano sul modo migliore per interrogare i propri figli. Dai racconti dei bambini emerge un quadro dettagliato: la maestra avrebbe accompagnato i piccoli in bagno per "giocare" con loro, con pennarelli e altri oggetti. Giovanni, cinque anni, si comporta in modo strano. La madre, che per lavoro trascorre molte ore fuori casa, decide di tenerlo d'occhio per un po'. Un pomeriggio rientra prima del previsto e trova questa scena: il bambino piange, disperato. La babysitter è nuda dalla vita in giù. L'accusa, per la ragazza (italiana, incensurata), sarà "violenza sessuale". La babysitter avrebbe costretto il piccolo a fare sesso orale con lei, dietro minacce e ricatti. I genitori, che non sospettavano nulla, sono sconvolti. Ora il bambino è in cura da una psicologa.

Il caso più recente riguarda ancora una volta una babysitter, a Milano. Trent'anni, straniera, è stata arrestata con l'accusa di maltrattamenti, violenze e molestie sessuali su due bambini di otto e cinque anni che le erano stati affidati dai genitori. Secondo il racconto dei piccoli, lei li avrebbe seviziati con arnesi da cucina. Rinchiusi per ore, nudi, nel box doccia. Terrorizzati e ricattati con minacce continue, tipo: "Se lo racconti a tua madre, ti ammazzo il cane".

massimilianofrassi.splinder.com 25 gennaio 2005

Pedofilia: retata in Francia, 68 fermi di polizia. PARIGI - Sessantotto persone - uomini e donne, di tutti gli ambienti sociali e di età compresa fra i 16 e i 60 anni - sono stati sottoposti a fermo di polizia in seguito ad una retata antipedofilia che ha interessato tutto il territorio francese. I sospetti sono stati fermati nell'ambito di un'inchiesta aperta dalla magistratura di Colmar, nel nordest della Francia, per "detenzione e diffusione di immagini pedofile". Sono state compiute numerose perquisizioni domiciliari, definitive positive da fonti di polizia, che hanno portato alla scoperta e al sequestro di migliaia di foto, film e dvd a carattere pedofilo, che venivano scambiati via internet.

La Repubblica 15 agosto 2005

Faceva sesso con uno studente. Arrestata insegnante inglese. La donna aveva fino a 4 incontri a settimana con un tredicenne Molti i precedenti negli Stati Uniti, finiti anche con il matrimonio. Gb, in carcere una insegnante per aver fatto sesso con un allievo. LONDRA. Quindici mesi di prigione per aver fatto sesso con un ragazzino. E' la condanna inflitta ad una insegnante britannica di 32 anni, denunciata per aver avuto rapporti con uno dei suoi allievi. La donna è stata condannata oggi a 15 mesi di prigione senza i benefici. Hannah Grice, sposata e madre di due bambine, è stata anche condannata a essere iscritta per 10 anni nella speciale lista dei delinquenti sessuali. Secondo l'allievo adolescente, che all'epoca dei fatti avvenuti tra il 2003 e il 2004 aveva tra i quattordici e i quindici anni, gli incontri con l'insegnante avevano luogo fino a quattro volte alla settimana, nell'abitazione della professoressa.

Non è la prima volta che le cronache si occupano di episodi simili. In particolare negli Usa, molte insegnanti sono finite nei guai per essere andate a letto con allievi minorenni. A marzo, una insegnante di 30 anni delle scuole superiori è stata arrestata e incriminata a Sacramento, in California, dopo essere stata sorpresa a far sesso con un alunno di 16 anni mentre il figlio della donna, un bambino di due anni, assisteva alla scena dal sedile posteriore. Pochi giorni dopo un'insegnante delle medie di 37 anni della West Virginia, Toni Lynn Woods, è stata arrestata per abuso su minori e ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali completi con tre studenti e di aver fatto sesso orale con altri due. Debra Lafave, un'altra maestra accusata di avere sedotto un alunno di 14 anni in Florida, durante il processo ha giocato il tutto per tutto affermando di essere pazza. La donna ha affermato di avere avuto rapporti sessuali con l'alunno mentre era sotto il trauma di un matrimonio fallito e di un lavoro, in una piccola scuola media di Tampa, che non le dava alcuna soddisfazione. E Pamela Turner, 27 anni, bella, bionda, appariscente insegnante di educazione fisica e allenatrice di basket se l'è cavata con nove mesi di carcere, rischiava una condanna fino a cento anni. La maestra elementare di McMinnville, nel Tennessee, ha avuto a più riprese rapporti sessuali con uno studente di 13 anni, allievo dello stesso istituto scolastico dove lei insegnava. C'è stata qualche polemica per la pena mite: c'è chi sostiene che l'avvocato difensore ha giocato la carta della sensualità della cliente. Ma sicuramente il caso più celebre è quello di Mary Kay Letourneau, uscita dal carcere dopo aver scontato sette anni e mezzo per aver fatto sesso con un suo alunno della prima media, Vili Fualaau. La coppia (43 anni lei, 22 lui) ha avuto due figli e ha celebrato il matrimonio il 21 maggio scorso.

Antifeminist.altervista.org 2 marzo 2006. Pedofila stupra bambino di 4 anni. Una donna di 37 anni, impiegata in un day-care center di New York, ha ammesso di aver ripetutamente stuprato un bambino di 4 anni. Khemwhatie Bedessie, questo il 14 nome della donna, ha intrattenuto rapporti sessuali con il bambino di 4 anni almeno 3 volte in un arco di tempo tra Gennaio e la prima settimana di Febbraio. Il 20 Febbraio il bambino ha raccontato alla madre di esser stato costretto da Khemwhatie Bedessie a seguirla in bagno, dove poi sarebbe stato stuprato dalla donna. La madre del bambino ha quindi allertato le autorità e poco più tardi ottenuto una confessione di colpevolezza da parte della Bedessie. Da quanto è emerso dalle indagini investigative, pare che la Bedessie era solita abusare del bambino tra le 7 e le 9 del mattino, ovvero prima che arrivassero gli altri insegnanti del day-care center.

www.corriere.it 10 ottobre 2006. Racconto choc di Bevilacqua. “Così fui violentato”. MILANO: Un bambino di sei anni e mezzo sta disteso sulla riva del grande fiume, nudo, sotto il sole. È giugno, fa caldo, c’è intorno il silenzio meridiano di Pan. Appare dal nulla una donna, una folle vagabonda accompagnata da due cani: «E io la ricordo ora come se l’avessi qui davanti, in questa stanza: non l’avevo mai vista prima, ai miei occhi infantili sembrò gigantesca, quasi oscurava il sole». La donna afferra il bambino e lo sevizia: «Ero uno straccio di carne». Lei è come un’orchessa sfuggita alla boscaglia arcana del Po; o una «vaghezia», in dialetto parmigiano, cioè un miraggio che fluttua tra le sabbie e le acque tremolanti, nella canicola. Ma una «vaghezia» che segna la fine dell’infanzia, dell’innocenza, «anzi, la fine di tutti i sogni sull’universo femminile»; il passaggio dal paradiso terrestre a un mondo di caos.

www.ecpat.it 02 marzo 2007. La zia si infilava nel letto del nipotino e lo stuprava, chiesto il rinvio a giudizio. Zia di un bimbo di 10 anni, è accusata di averlo stuprato, inducendolo ad avere rapporti sessuali con lei. A denunciare la donna e' stata la sorella, quando un parente si è reso conto di quanto avveniva nella camera da letto. I reati contestati a alla donna, 29enne, originaria del Salvador, come la vittima, sono avvenuti due anni fa. La donna ha raggiunto in Italia la famiglia della sorella e ha abitato con lei e i suoi due figli piccoli. Dato lo scarso numero di stanze, zia Gloria dormiva in camera con i bambini e il cugino del padre. E' stato quest'ultimo a rendersi conto di quanto accadeva di notte. La zia entrava nel letto del bambino e lo induceva ad avere rapporti sessuali, malgrado lui tentasse di respingerla. La madre dei bambini ha deciso di sporgere querela e la sorella è scappata, rendendosi oggi irreperibile. Per la donna ora è stato chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di atti sessuali con minorenne e violenza sessuale. Il pubblico ministero Laura Amato contesta all'imputata una particolare condotta insidiosa nei confronti della vittima, lo sfruttamento del legame affettivo e delle condizioni di superiorità psicologica rispetto al bambino. Sentito durante un incidente probatorio, il bimbo ha confermato tutte le accuse.

www.ecpat.it 18 marzo 2007. La denuncia di don Di Noto: aumentano le pedofile E' allarme per la pedofilia femminile. Lo segnala don Fortunato Di Noto, fondatore dell'associazione Meter per la tutela dei bambini. "Non dimentichiamo, anche se in percentuale minima, ma crescente, il 4-7% delle violenze o della detenzione di materiale pedopornografico è compiuto da donne", dice il sacerdote e ricorda come "a livello internazionale le pedofile hanno una rivista cartacea e una radio online e sono numerosi i Blog di donne pedofile (n. 36 denunciati alla Interpol e alla Polizia Postale da Meter)". Hanno anche un simbolo, un cuore (una grande che contiene uno piccolo). ''Non di rado, dice don Fortunato Di Noto, ci siamo imbattuti in foto (2% circa) raffiguranti espliciti atteggiamenti sessuali tra minori e una donna adulta''. Nell'immaginario collettivo il termine 'pedofilia' viene associato al sesso maschile, sottolinea la sociologa e criminologa, Nicoletta Bressan, socia e consulente dell'associazione Meter, secondo la quale, la pedofilia ''e’ considerata come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile'', ma, ''contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne''.

www.ecpat.it 18 marzo 2007. Pedofilia. Faceva asilo nido in casa: trovato intero archivio di materiale pedopornografico. C'è anche un vasto archivio pedopornografico nella vicenda di pedofilia scoperta dai Carabinieri e nella quale sarebbe coinvolto anche un uomo, che risulta convivente di Monica Chirollo, ma in realtà non avrebbe mai risieduto ad Arzachena, l'uomo abita a Como e su di lui starebbero indagando i militari del locale Comando; su questa parte dell'inchiesta e sull'archivio dell'arrestata, gli investigatori mantengono un assoluto riserbo. ''Sulla vicenda, hanno spiegato i Carabinieri del Comando provinciale di Cagliari, per motivi di riserbo istruttorio possiamo dire pochissimo, forse il 5% di quello che abbiamo accertato. La necessità di rendere nota la vicenda e il volto della donna accusata di abusi sessuali sui bimbi affidati alle sue cure, nasce dalla certezza che Chirollo, negli ultimi tre anni, ha reiterato il suo comportamento oltre che nella sua casa di Arzachena, dove aveva realizzato una sorta di asilo nido, anche nel cagliaritano, dove è partita l'inchiesta, e in altre località''. L'appello degli investigatori punta anche a mettere in guardia i genitori: ''attenti a chi affidate i vostri figli''. I Carabinieri hanno raccontato che alla scoperta della vicenda si è arrivati grazie alla sensibilità di una volontaria dell'assistenza ospedaliera e alle capacità professionali di due sottufficiali della Compagnia di Iglesias che hanno cominciato gli accertamenti, coinvolgendo successivamente i colleghi del Reparto operativo provinciale. Monica Chirollo sarebbe entrata in contatto con la bimba straniera, che oggi ha 9 anni, dopo che la madre aveva fatto un appello su una televisione locale: ''aiutatemi, devo essere ricoverata in ospedale e non ho nessuno che si possa occupare di mia figlia''. Poche ore dopo Chirollo si era messa in contatto con la famiglia straniera e, sostenendo di essere spinta da spirito filantropico, si era trasferita nel cagliaritano portando cibarie e giocattoli. Tranquillizzata dalle manifestazioni di affetto e dall'apparente filantropia della donna, la madre le aveva affidato la custodia della bimba. I primi sospetti sarebbero nati quando la bambina avrebbe cominciato a manifestare comportamenti inconsueti, rifiutando di farsi aiutare dagli adulti nelle pulizie personali. I Carabinieri avrebbero trovato le prove degli abusi sessuali compiuti da Chirollo, grazie a riscontri oggettivi che avrebbero confermato i racconti fatti dalla piccola vittima agli psicologi. Particolarmente importante, ai fini degli sviluppi dell'inchiesta, l'archivio pedopornografico (definito sconvolgente anche da Carabinieri che hanno partecipato alle riesumazioni nelle fosse comuni in Kossovo) nel quale sarebbero ritratte le piccole vittime della donna, tutte di eta' inferiore ai 10 anni. Chirollo, secondo le risultanze investigative, avrebbe appuntato le sue attenzioni prevalentemente sulle femminucce. La donna è stata arrestata nella sua casa di Arzachena, in esecuzione di un ordine di custodia cautelare emesso dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Cagliari, e rinchiusa nel carcere ''San Sebastiano'' di Sassari.

www.ecpat.it 26 aprile 2007. Turismo sessuale femminile: donne in cerca di sesso. Crisi di coppia, del maschio italiano, dei valori... Quale che sia la ragione, anche le donne del Belpaese sono state contagiate dal malcostume del sesso a pagamento lontano dai confini nazionali. Perché quel che accade all'estero, resta all'estero. Soltanto negli ultimi anni le italiane rappresentano dal 3 al 5% dei turisti in cerca di sesso. Lo denuncia il Rapporto 2006 Eurispes-Telefono Azzurro su Infanzia e Adolescenza. L'identikit della donna a caccia di giovani amanti a pagamento è presto tracciato: sono per lo più single e neodivorziate, scelgono mete come Gambia, Senegal, Marocco, Kenya, oltre a Cuba e Giamaica. Vanno, insomma, in cerca di quello che volgarmente si chiama il "big bamboo"... Anche l'età media, che fino a qualche anno fa si aggirava attorno ai 40 anni, oggi si sta abbassando molto grazie soprattutto ai voli low cost che consentono alle più giovani di raggiungere facilmente mete esotiche dove l'offerta è altissima. Il turismo sessuale è un fenomeno che sta assumendo caratteristiche e proporzioni che vanno ben oltre le relazioni, seppur a pagamento, tra gli avventurieri occidentali e le bellezze del posto. E sebbene la donna che va all'estero a caccia di gigolò faccia ancora notizia e rappresenti più che altro un fenomeno di costume che ancora incuriosisce molto, quello con cui ci si deve confrontare è un vero e proprio sistema di sfruttamento della prostituzione. Il fenomeno che assume connotati ancora più gravi quando le vittime di questa nuova schiavitù sono minori, che spesso sono venduti dalle famiglie più indigenti, con il beneplacito delle autorità che chiudono un occhio pur di veder triplicare il numero di turisti. In Gambia, per esempio, il 70% della popolazione ritiene che il sesso sia la principale ragione del turismo europeo nel proprio Paese. Davvero le donne vogliono rendersi complici di tutto questo? L'emancipazione a volte prende vie misteriose.

www.ecpat.it 12 aprile 2007. Pedofilia: Filmavano abusi, arrestata coppia a Cagliari. Adescavano bambini anche con deficit mentali e poi ne abusavano. Spesso filmavano con una piccola telecamera gli atti sessuali. In manette per pedofilia sono finiti Sara De Vecchi, 23enne di Novara e Roberto Muscas, 40enne di Santadi, entrambi residenti a Borgomanero (Novara). I dettagli dell'operazione dei carabinieri sono stati resi noti dal maggiore Daniel Melis nel corso della conferenza stampa che si è svolta questo pomeriggio a Cagliari.

www.mobilitazionesociale.it 18 giugno 2007. Se è vero che le statistiche mostrano che la maggior parte degli abusi sessuali su bambini sono compiuti da uomini, non bisogna però dimenticare che tra i molestatori figurano anche delle donne. Nel 1994, il National Opinion Research Center mostrò che la seconda forma più comune di abuso sessuale su minori riguardava donne che avevano molestato ragazzi. Per ogni tre molestatori maschi ce n'è uno di sesso femminile. Le statistiche sugli abusi compiuti da donne sono più difficili da ottenere perché il reato è più nascosto. (Intervista con il Dr. Richard Cross, "A Question of Character,", National Opinion Research Center; cf. Carnes). Inoltre le loro vittime più frequenti, i ragazzi, hanno una minore tendenza a denunciare gli abusi sessuali specialmente quando il colpevole è una donna (O'Leary, "Child Sexual Abuse").

Oreius.altervista.org 22 settembre 2007. La canadese Linda Halliday-Sumner, consulente nei casi di abusi sessuali su minori, segnala che negli ultimi dieci anni si è verificato un enorme incremento dei casi di pedofilia femminile: nei 325 casi da lei seguiti, più di un centinaio erano dovuti ad abusi sessuali su minori da parte di una donna. Studies in the 1980s by researchers David Finkelhor and Diana Russell estimated that in the United States about 14 percent of abuse cases involving boys were perpetrated by females. Studi nel 1980 da ricercatori David Finkelhor e Diana Russell stima che negli Stati Uniti circa il 14 per cento dei casi di abusi perpetrati dai ragazzi erano femmine. About 6 percent of the cases were of women who abuse girls. Circa il 6 per cento dei casi sono le donne che abusano di bambine.

(ANSA) domenica 27 gennaio 2008. Pedofilia: Asilo Vallo della Lucania, chiesto rinvio a giudizio per suor Soledad. Vallo Della Lucania (Salerno), 25 Gennaio.Rinvio a giudizio per Suor Soledad, archiviazione per gli altri indagati. Queste le richieste avanzate dalla Procura della Repubblica di Vallo della Lucania al Gip del Tribunale vallese a proposito dell'inchiesta su un presunto giro di pedofilia nel piccolo centro cilentano. Al centro delle indagini, avviate due anni fa, la suora peruviana Carmen Verde Bazan, di 25 anni, nota come suor Soledad, finita in carcere con l'accusa di violenza sessuale nei confronti di 27 bambini tra i 3 e i 5 anni che frequentavano un asilo di Vallo della Lucania gestito da religiose. Richiesta di archiviazione, al contrario, per gli altri indagati, almeno dieci, tra i quali un muratore e un fotografo del posto; tra le ipotesi d'accusa, la prostituzione minorile, la pornografia minorile e la detenzione di materiale pornografico.

www.corriere.it 25 marzo 2008. Gli italiani in testa alle classifiche. Ottantamila l’anno in cerca di minorenni. Sono oltre 80.000 i viaggiatori che ogni anno lasciano la Penisola per andare a caccia di sesso proibito, con bambini e adolescenti; non solo pedofili (il 3% del totale), ma soprattutto uomini e donne normali. Ma nella primavera 2008, per Ecpat Italia è di nuovo allarme rosso. “Negli ultimi anni, spiega il presidente, l’avvocato Marco Scarpati, l’italiano ha scalato pesantemente i primi posti di questa terribile "classifica": se prima in alcuni Paesi eravamo fra le prime 4-5 nazionalità, oggi siamo i più presenti in Kenya (il 24% dei clienti di prostituti/e minorenni è italiano, contro il 38% di "locali"), Repubblica Dominicana, Colombia...”. Si abbassa l’età del turista sessuale, “che non corrisponde più al cliché del vecchio ricco e bavoso”. La media è intorno ai 27 anni e c’è poi il mondo inesplorato del turismo sessuale femminile, “fatto di donne dal reddito e livello culturale alti”.

www.corriere.it 1 febbraio 2008. Norma Giannini, che ora ha 79 anni, ritenuta colpevole di molestie negli anni ‘60 aidanni di due alunni Milwaukee (Wisconsin). Un nuovo scandalo sessuale si abbatte sulla chiesa cattolica statunitense. Norma Giannini, una suora italo americana di 79 anni è stata condannata a un anno di reclusione e a dieci con la condizionale per aver abusato ripetutamente di due suoi alunni di 12 e 13 anni negli anni ‘60. Teatro delle molestie sessuali, descritte come “baci e palpeggiamenti”, fu la scuola media cattolica St. Patrick di Milwaukee di cui era suor Norma era la direttrice. Secondo quanto riferisce il “Chicago Tribune” la Giannini ha anche ammesso in un’inchiesta interna dell’arcidiocesi di Milwaukee di aver abusato di almeno altri quattro minori. Nel 1992 è stata rimossa dall’incarico. I responsabili della prelatura vennero a conoscenza del caso la prima volta nel 1992 ma, come scrive il giornale, non informarono le autorità limitandosi a rimuoverla da ogni incarico. La procura riuscì a istruire il caso solo nel 2005 solo dopo che le vittime, James St.Patrick e Gerald Kobs, denunciarono i fatti. I due, ormai quarantenni, erano presenti in aula al momento della sentenza. Hanno raccontato di come i traumi subiti abbiano condizionato la loro vita e si sono detti delusi dall’entità della pena. Condanna che sarà scontata non in una prigione normale ma in una Casa di Correzione, come ha stabilito il giudice viste le cattive condizioni di salute della suora. Kobs ha spiegato di aver pensato più volte al suicidio mentre St.Patrick ha confessato di aver cercato consolazione dopo la scuola negli stupefacenti e nell’alcol e di aver perso la fede. Suor Norma, che in aula ha chiesto scusa per gli abusi commessi, originaria di Chicagoentrò in convento a 18 anni. Iniziò a insegnare nel 1949 alla St.Paul of the Cross di Park Ridge, e in seguito in altre scuole cattoliche a Chicago e infine nel 1964 arrivò a Milwaukee. Dopo cinque anni tornò in Illinois. Alla psicologa dell’arcidiocesi che gli chiese cosa, secondo lei, i ragazzi pensavano di quello che gli faceva, suor Norma rispose: “Si stavano divertendo…Quanti adolescenti potevano resistere a questa opportunità”.

Il mattino di Padova 19 Aprile 2008. Insegnante accusata di atti di libidine. Palermo. La vicenda risale a quasi 10 anni fa: la professoressa avrebbe avuto rapporti con tre dodicenni. La docente è ora sotto processo per aver fatto sesso con minori. Di giorno faceva l’insegnante, il pomeriggio dava ripetizioni e iniziava al sesso i suoi stessi giovanissimi alunni. Succede a Palermo, dove una trentenne è adesso sotto processo per “atti sessuali con minori”. La realtà che traspare da questi articoli, ci fa capire che il fenomeno della pedofilia nella sua variante al femminile esiste ed è presente anche sul nostro territorio. Quando parliamo di pedofilia, subito la identifichiamo con il genere maschile. Chi fa del male a un bambino non può essere donna perché la donna possiede l’istinto materno che non le permetterebbe di scendere a tali mostruosità. Un articolo apparso sul DailyMail il 4 Novembre del 2006 è un esempio dell’accostamento pedofilia genere maschile. L’articolo, racconta che a bordo di un aereo della British Airways, è stato chiesto ad un uomo di spostarsi di sedile perchè il regolamento della compagnia, vieta ai bambini non accompagnati di sedersi di fianco ad ogni adulto di sesso maschile. "Come compagnia aerea con un obbligo di attenzione verso i nostri clienti, è nel nostro regolamento assicurarci che, ove possibile, nessun minore non accompagnato sieda di fianco a maschi adulti. Ci scusiamo se il Sig. Kemp si è sentito offeso dalla nostra richiesta, ma dobbiamo bilanciare i bisogni del bambino con quelli dell'adulto. Il regolamento è in atto come precauzione e nel migliore interesse e benessere dei bambini che viaggiano da soli." La British Airways, però, non è l'unica compagnia aerea al mondo che adotta questo regolamento. La Qantas e la Air New Zeland, (due compagnie aeree australiane), balzarono agli onori della cronaca per un caso simile a quello capitato pochi giorni fa al Sig. Kemp. Nel 2005 infatti un altro "incidente" avvenne durante un volo della Qantas con rotta da Christchurch ad Auckland. In questo caso la vittima di discriminazione fu Mark Mosley, a cui una hostess ordinò di cambiare posto perchè "la policy della compagnia prevede che solo alle donne viene consentito di sedersi accanto a bambini non accompagnati". La pedofilia è un fenomeno largamente sommerso riferito per lo più alla cerchia familiare, che secondo il Censis rappresenta almeno 85% dei casi. Secondo i dati forniti a febbraio 2008 dal ministero di grazia e giustizia, sono più di mille i detenuti nelle carceri italiane accusati di reati di pedofilia, abusi e violenza sessuale su minori. Nello specifico, sono soprattutto uomini italiani la maggioranza dei reclusi (824), seguono i pedofili stranieri (400) e 98 donne di cui 45 di nazionalità italiana e 53 straniera. In qualunque ricerca, le madri risultano sempre all'ultimo posto tra gli autori di reati sessuali su minori e in percentuali insignificanti. La bassa percentuale delle donne denunciate non rispecchia però la realtà, si pensa ci sia un sommerso molto più consistente. I dati registrati in questi ultimi anni, dall'esperienza dell'equipe di neuropsichiatria infantile dell'ospedale Bambin Gesù di Roma, evidenziano, per esempio, una certa rilevanza del fenomeno. Secondo una ricerca effettuata nel 1995 su 250 casi trattati, le madri sarebbero nell'11% dei casi le autrici degli abusi sessuali intrafamiliari su figli minori, al terzo posto dopo i padri e i conviventi. Gli abusi delle madri sui figli sono molto difficili da scoprire soprattutto perché sono mascherati dalla pratica di accudimento e dall'affettività materna. Molti atti di libidine, si nascondono infatti nei bagni e nei lavaggi intimi, nelle applicazioni superflue di creme sui genitali dei figli di entrambi i sessi, nel condividere con questi ultimi fino all'età adolescenziale il letto o le carezze erotiche, arrivando anche al rapporto completo. Tutti questi comportamenti sono naturalmente perversioni materne, spesso anche molto sottili, difficilmente riconoscibili e che non riescono ad emergere se non in terapia. Il senso comune censura immediatamente il pensiero che una donna potrebbe avere desideri incestuosi verso i suoi figli e se emerge che esagera nel fare il "bagnetto" al figlio o ad utilizzare le creme, si preferisce credere che abbia la fobia dell'igiene se non addirittura scusarla, perché inconsapevole dei suoi gesti e delle conseguenze che questi possono avere sullo sviluppo psico emotivo del figlio. Fino a non molti anni fa, quasi si pensava fosse "naturale", o comunque era un "eccesso" che veniva tollerato dal sentire comune, in nome dell’esclusività del rapporto tra madre e figlio. (www.psychomedia.it).

Quando ci troviamo di fronte ad un comportamento criminale al femminile, assistiamo ad una disparità di trattamento perpetrata non solo dalla gente comune ma anche dal sistema giudiziario. Uno studio del governo degli Stati Uniti, (United States Sentencing Commission - November 2004), risalente a due anni fa, ha portato alla luce una realtà allarmante su come le donne vengano "discriminate positivamente" nelle aule dei tribunali, vedendosi comminare pene più leggere degli uomini per lo stesso reato. Secondo il “Journal of criminal justice”, (Nagel & Johnson, 1994; Segal, 2000; Schazenbach, 2004) l'analisi dei dati e dei casi giudiziari, suggerisce che le attitudini paternalistiche dei giudici verso le donne, tendano a ritenere le donne più vulnerabili, degne di comprensione, e in definitiva meno responsabili degli uomini. Un esempio recente è quello dell’insegnante Sarah Bench-Salorio, condannata nel 2005 per aver sessualmente molestato ragazzini di 11, 12 e 13 anni. L'imputata era di fronte ad una possibile condanna di oltre 60 anni. Il giudice però l'ha condannata ad appena 6 anni. Nell’ agosto del 2006, un Giudice americano ha causato forti proteste per la sua decisione di mettere in libertà una donna, trovata in possesso di rivoltante materiale pedopornografico di bambini fino ai 5 anni di età. Julie Lowe, un'operaia ferroviaria, scaricò da internet immagini e video di carattere pedopornografico, alcuni mostravano bambini in scene di sesso "bondage" e sadomaso. Due dei filmati scaricati erano della "Categoria 5" ovvero il livello più grave di materiale pedopornografico. La Lowe, ha affermato alla Corte di Leicester Crown di aver visionato i video solamente per curiosità. Ma le 43 disgustose immagini di pedopornografia sono state scaricate lungo un periodo di ben 2 anni. La polizia ha fatto irruzione nella casa della Lowe, grazie alle segnalazioni di agenti di polizia in Norvegia e Danimarca. La Lowe, una single di 45 anni, ha riconosciuto i 9 capi di accusa riguardo al materiale pedopornografico da lei posseduto. Il giudice pur avendo descritto il materiale sequestrato come "spregevole, e profondamente ripugnante", ha ritenuto di limitare la pena ad un ordine di riabilitazione comunale della durata di 3 anni, con l'obbligo di partecipare ad un programma di trattamento per i molestatori sessuali e 100 ore di servizio per la comunità. (antifeminist.altervista.org).

Negli ultimi anni sembra esserci stato un incremento esponenziale dei casi di pedofilia al femminile e tale fenomeno è particolarmente accentuato e ben visibile negli Stati Uniti. L'aumento della casistica di questo tipo di crimine confermato dalla cronaca nazionale e internazionale, non è dovuto ad un effettivo incremento del fenomeno, quanto piuttosto ad un'accresciuta sensibilità verso di esso, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della società. Quello che differenzia la pedofilia femminile odierna da quella del passato è la sua espressione manifesta, la sua patologica volontà di uscire allo scoperto, quasi per voler rivendicare un posto accanto a quella maschile. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Ecco allora che debuttano, le prime donne indagate per pedofilia, i primi arresti, le turiste sessuali, la scoperta dei primi siti internet per donne pedofile. Pensiamo per esempio, che se all’inizio del 2004 le associazioni femminili pedofile che agivano su internet erano 5 (M. Valcarenghi, 2007), solo nel 2007 siamo arrivati a 36, come riportato dall’associazione meter, che da anni si occupa del fenomeno pedofilia. A questo proposito voglio citare la lettera di ordinazione (riportata dall’E.C.P.A.T.) che una pedofila svedese ha scritto al fornitore di fiducia, dopo aver visto insieme alla sua compagna un film su una bambina, i cui genitali presi a frustate e riempiti di parafina bollente, vengono poi ricuciti con degli aghi: “Vorrei un altro video, scrive una signora svedese, ma questa volta voglio roba più forte. Ho voglia di guardare qualcosa di completo, sa cosa intendo dire; se avete il seguito di quelle scene con gli aghi, per favore mandatemele”.

Ammettere l’esistenza della pedofilia femminile crea inquietudine e angoscia in ognuno di noi, non vogliamo accettare l’idea che la donna possa essere una potenziale abusatrice di bambini. Impregnati dallo stereotipo rassicurante che attribuisce alla donna un ruolo passivo e il ruolo del più “debole”, attribuiamo alla figura femminile maggiore sensibilità, un orientamento specifico verso le funzioni di cura e accudimento, intensa affettività e tenerezza. L'abuso femminile che esce allo scoperto, gode di un diverso metro di valutazione, basato sulla credenza che la madre, che ha il compito di proteggere, stia semplicemente prolungando, forse in maniera insolita, ma non colpevole, il suo precedente ruolo protettivo oppure si considera la donna abusante, affetta da severe alterazioni psichiche molto più gravi dell'uomo che compie lo stesso atto. La realtà dei fatti, ci porta però a dover ammettere la possibilità che proprio coloro che dovrebbero essere portatrici del rassicurante istinto materno, (e quindi difendere, curare e amare la propria prole), si rendano autrici di abuso su minori.

Comunque esiste ed è sottovalutato l’allarme pedofilia. L’allarme, tuttavia, era stato lanciato da tempo. Un numero incredibile di persone sparisce ogni giorno nel nulla, soprattutto giovanissimi. Molti di loro si trovano, di altri non se ne sa più niente. E’ come se si fossero volatilizzati, spariti. Nel mondo spariscono ogni anno molte migliaia di persone. Ogni anno in Italia sono dichiarati scomparsi oltre 2000 minori. Alcuni di loro tornano a casa da soli, altri vengono ritrovati dalle forze dell'ordine, altri ancora non hanno mai fatto ritorno. Secondo le cifre del Ministero dell'Interno, solo nel 1996, sono stati dichiarati scomparsi 2391 minori. Di questi, 1912 hanno riabbracciato le loro famiglie. Al marzo '98 i minori dichiarati scomparsi erano 1419, di cui 796 sono stati rintracciati dalle forze dell'ordine. Che fine fanno i tanti di cui si perderà ogni traccia?

Per farsi una pallida idea di quanto è grave il fenomeno basti sapere che, nel 1997, “Il Giornale” (15 Marzo 1997) titolava un lungo pezzo: “Dal ’90 quadruplicati i ragazzi spariti”. Oggi sono molti di più. Un calcolo, anche approssimativo, è impossibile. Il quotidiano, tra l’altro, denunciava: “Cresce il numero dei giovani, soprattutto tra i 15 e i 18 anni, che svaniscono nel nulla. Le piste: droga, sette religiose, voglia d’avventura e mercato degli schiavi”.

 Se molti di questi giovani vengono ritrovati, di altri non se ne saprà più nulla. Alcuni di loro finiscono nella rete della prostituzione, della pornografia, della pedofilia, altri nel sottobosco criminale dei devoti di Satana. Il giornale “La Stampa” (8/2/87) riporta la notizia di una sètta satanica che reclutava bambini.

Nella nostra società il satanismo è un pericolo dilagante di cui, spesso, non se ne parla abbastanza, oppure lo si fa nel modo sbagliato. Gli adoratori del diavolo sono in aumento anche a Roma. Il quotidiano “Avvenire” del 5 settembre 1996 scrive: “un’altra sètta satanica è stata scoperta a Roma.

Tremila adepti, 5 milioni per iscriversi...”.  Il fatto che più “lascia stupiti - dissero gli inquirenti - è l’apparente insospettabilità di molte delle persone indagate...”. Si è anche appreso che: “sembra, che la congregazione contasse anche l’affiliazione di noti nomi del mondo dello spettacolo...”.

Vi è, addirittura, anche un mercato di “pezzi di ricambio” umani. Vengono inviati ai possibili clienti veri e propri cataloghi di organi, che dovrebbero servire o come feticci umani per riti satanici o, in altri casi, per corroborare il traffico internazionale clandestino dei trapianti. “Centinaia di minorenni, maschi e femmine, spariscono ogni anno. Molti finiscono all’estero, nel mercato delle adozioni clandestine. Molti finiscono nel circuito della pedofilia e della pornografia” (“Visto”, 8/11/1996). Così ha denunciato la parlamentare Rosario Godoy de Osejo, fondatrice di un “Comitato per i bambini scomparsi” e prosegue: “Ho il sospetto che la ragione della scomparsa possa essere il prelievo di giovani e sani organi da vendere nei paesi ricchi. Se le cose stanno così, è facile capire che fine fanno questi bambini una volta ‘esportati’ “. Fatti allucinanti.

Non è, infatti, neppure una “leggenda urbana” quella del supermarket degli organi di giovani cadaveri, ma una realtà agghiacciante. La “Gazzetta del Sud” di Venerdì 25 Agosto 1995, al proposito, scriveva: “L’Onu ha denunciato, in forma ufficiale, il traffico di bambini che si svolge, con queste finalità, in alcuni paesi.

Chi indaga sui traffici di organi muore.

Nel maggio 1996 il giornalista francese Xavier Gautier de “Le Figaro” viene trovato impiccato alle Baleari, nella sua residenza estiva. Una morte avvolta nel più fitto mistero. Gli investigatori spagnoli, poi, parleranno di suicidio. Gautier, prima di partire per le vacanze, aveva lavorato ad una lunga inchiesta su un presunto traffico di organi dalla Bosnia ad una nota clinica dell’Italia del nord.

L’ex ministro per la Famiglia Antonio Guidi aveva avvisato: “Il fenomeno è mondiale. Ma l’Italia, così com’è stata ed è un luogo di passaggio delle droghe, adesso è un punto di transito di bambini a rischio... Arrivano dai Paesi in guerra dell’Est, da quelli poveri dell’Africa. Parecchi di loro - chi può individuarne il numero? - sono destinati ad essere carne di riserva per i ricchi. Piccoli depositi di organi per i figli di chi ha denaro”. Guidi alla domanda se alcuni di questi bambini venivano mutilati, per conseguenti trapianti in Italia, aveva risposto: “In Italia, no. E’ impossibile. Ma attraversano le nostre terre come uccelli migratori, il cui destino è di essere abbattuti” .

Eppure l’Italia, scrive Giangiacomo Foà, è stata denunciata “dall’autorevole quotidiano La Nacion di Buenos Aires che in un articolo di fondo si fa eco delle accuse di don Paul Baurell, professore di Teologia dell’Università di San Paolo, e delle denunce fatte il primo agosto 1991 a Ginevra da René Bridel, rappresentante nelle Nazioni Unite dell’Associazione internazionale giuristi per la difesa della democrazia. (…). All’articolo di fondo de La Nation ha fatto eco O Globo di Rio che ci definisce ‘i maggiori importatori di bimbi brasiliani’. Il corrispondente di O Globo a Roma afferma: ‘L’Italia è il più importante compratore di bambini…’. (...). Anche in Perù la stampa ci accusa. Da mesi il quotidiano La Repubblica di Lima denuncia, con nome e cognome, coniugi italiani che sono arrivati in Perù per comprare bambini di pochi mesi o di pochi anni. Negli ultimi tempi avremmo ‘importato’ 1.500 piccoli peruviani, molti dei quali - secondo la stampa di Lima - sarebbero stati poi assassinati per asportare i loro organi per trapianti”.

Quello dei bambini rapiti, schiavizzati, violentati, costretti a prostituirsi, immolati a Satana o uccisi per espiantare i loro organi è un orrore su scala planetaria. Eppure si continua a fare poco o nulla. Giornali e televisione non denunciano il problema in tutta la sua reale gravità. Ne parlano poco e male, di tanto in tanto. I pericoli per i giovanissimi, come si è visto, vengono da più fronti, non ultima è la constatazione che, sul nostro pianeta, aumentano sempre di più le sètte dedite al culto del diavolo. Lo stesso Guidi aveva avvertito: “Alle soglie del 2000 si sta addirittura registrando un aumento di riti ‘religiosi’, mi raccomando le virgolette, che prevedono anche il sacrificio umano di bambini”.

Secondo le stime ufficiali ogni anno scompaiono in Italia 1000 bambini. 100.000 nel mondo. Circolano enormi quantitativi di agghiaccianti video, in cui i bambini vengono stuprati, per poi essere uccisi.  

Come è possibile tutto questo? Chi copre questi traffici perversi e infernali?

È un business imponente, senza confini geografici, che vede l'Italia al primo posto nel mondo come Paese nel mercimonio dei bambini.

Pedofilo letteralmente significa "innamorato dei fanciulli", seppure il termine denoti in realtà solo depravazione sessuale, violenza, desiderio di dominio e viltà. 

I piccoli seviziati, stuprati, uccisi e filmati nei video messi in commercio dalla potente multinazionale dei pedofili, ben protetta dai governi di tutto il mondo, sono lo specchio di una società altamente disinformata e ormai assuefatta ad ogni forma di brutalità.

Il turpe traffico con diramazioni internazionali e basi in tutta Italia è il volto mostruoso di un mondo che abusa dei bambini in ogni modo possibile.

L'agonia e la morte di bambini per soddisfare il piacere perverso di tanti altri mostri pronti a pagare per i materiali pornopedofili.

Una tragedia immane, che dilaga sempre di più ovunque.

Le stime esatte delle giovanissime vittime sono impossibili, tuttavia le videocassette del commercio più turpe di tutti i tempi, che va dalla prostituzione forzata minorile al turismo sessuale, al sadismo, fino all'infanticidio a scopo di piacere, sono commercializzate in tutti i Paesi del mondo.

Traffici, dietro ai quali opera la multinazionale dei pedofili, che interagisce con le varie mafie internazionali ed organizzazioni criminali, che controllano i mercati del traffico d'armi, stupefacenti, materiali nucleari, rifiuti tossici, organi umani e sfruttamento di giovani donne e bambini, ridotti in stato di schiavitù.

Tutto ciò con il compiacente avvallo dei governi e della magistratura, troppo spesso inerti e indulgenti con i pedofili, come ad esempio dimostrato dall'eclatante caso di Re Baldovino del Belgio, il quale concesse la grazia a Marc Dutroux, al secolo "il mostro di Marcinelle", rimuovendo il coraggioso magistrato che spezzando l'omertoso clima di connivenze aveva liberato le due sorelline dalla prigione in cui erano state segregate. Prigione in cui i bambini rapiti subivano turpi riti e sevizie prima di venire uccisi, da parte di influenti uomini d'affari e politici vicini all'establishment.

Pratica, purtroppo, molto più diffusa di quello che possiamo immaginare, in molti Paesi occidentali, dall'Italia agli Stati Uniti d'America e alla civile Inghilterra.

Don Fortunato, il coraggioso sacerdote antipedofili del telefono Arcobaleno, alcuni anni fa già ebbe a denunciare le connivenze e il clima di forti resistenze del Parlamento italiano a contrastare il turpe fenomeno della pedofilia. Lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia minorile negli ultimi cinque anni sono più che raddoppiati: il 2007 si attesta come anno record della pedofilia on line, con un incremento del 131% rispetto al quinquennio precedente. L'Europa è ormai l'epicentro assoluto di questo crimine e lo scenario dove si consumano in maniera prevalente tutti i passaggi dell'industria pedofila (Report sulla pedofilia on line 2007 di Telefono Arcobaleno). Rapporto dell’Osservatorio Internazionale di Telefono Arcobaleno sulla pedofilia e la pedopornografia online.

I dati fotografano una realtà in crescita (nell’ultimo quinquennio, si è registrato un incremento del 131%), oltre che un’Europa “in prima linea”. Nel senso negativo, però, visto che tra le tabelle del Report Monitoraggio risultano tristi primati.

È di razza europea, infatti, il 92% dei bambini sfruttati, così come il 61% dei fruitori della pedofilia in internet e l’86% dei materiali pedofili allocati in rete.

Riguardo alla domanda, l’uso e l’acquisto di questi ultimi, in Italia, per esempio si è registrato un alto coinvolgimento.

Cifre da capogiro quelle che ruotano attorno allo sfruttamento sessuale dei bambini su Internet. Si stima un valore di 4 miliardi di dollari l’anno - e che devono far riflettere, oltre che richiedere (soprattutto ai genitori) seri accorgimenti.

Già solo il fatto che l’età media dei bambini sfruttati, stimata da Telefono Arcobaleno, sia passata dai 10 anni ai 7 anni è allarmante, e altrettanto lo sono i 400 clienti giornalieri di un sito pedopornografico, il cui accesso costa mediamente 80 dollari, fruttando 34mila dollari al giorno.

La pedofilia punta verso il coinvolgimento di una rete organizzata di criminali che controllano e condizionano ad alti livelli i sistemi legali delle nazioni del mondo.

Le indagini vengono, quasi sempre, insabbiate, vi è come una congiura del silenzio, coperture misteriose, su cui nessuno vuole indagare, preferendo far passare le piccole vittime e i genitori che denunciano le violenze come visionari.

Ogni più clamorosa inchiesta condotta con la massima diligenza dalle forze dell'Ordine e dai P.M. viene demolita e/o vanificata, facendo spesso svanire nel nulla anni di lavoro investigativo e incontrovertibili perizie medico-legali e prove che in molti casi coinvolgono personaggi insospettabili: ecclesiastici, parlamentari, diplomatici, professori universitari, medici, alti magistrati, gente dello spettacolo, etc. Insomma, spazzatura umana che continua a fare scempio della purezza dei bambini, rimanendo per lo più impunita.

La storia dell'impunità dei crimini contro i bambini è storia di tutti i giorni.

Nel 2001, l'allora Cardinale Ratzinger impose che nei casi di abusi sessuali su minori cadesse il segreto pontificio, avocando alla propria congregazione per la fede il diritto esclusivo sulle indagini.

Pedofilia rosa. Il crollo dell'ultimo tabù di Loredana B. Petrone, Eliana Lamberti. Pensare che una donna possa mettere in atto atteggiamenti erotici di fronte a un bambino è impensabile, inaccettabile, inammissibile. Ma l’abuso di questo genere è una cruda realtà. E la pedofilia rosa non è un male moderno, basti ricordare Fedra… Le autrici tracciano la storia dell’abuso sessuale femminile, i vari identikit delle donne abusanti ed enucleano le caratteristiche dell’abuso sessuale femminile, soffermandosi in particolar modo sulle motivazioni profonde che sono alla base di questa devianza. Chi è la vittima della donna abusante? Quali sono gli effetti degli abusi sulle vittime? Cosa comporta l’essere abusati dalla propria madre? Quali strategie difensive utilizza il bambino abusato per «sopravvivere»? Di particolare rilevanza il capitolo dedito al trattamento psicoterapeutico della donna abusante. Quali sono i primi passi da compiere? Da abusata ad abusante, come esplorare il trauma? Quali caratteristiche deve avere il terapeuta che si occupa di donne abusanti? Infine i risvolti sociali della pedofilia rosa, ossia il turismo sessuale e la pedofilia femminile online.

E se l'orco fosse lei? Strumenti per l'analisi, la valutazione e la prevenzione dell'abuso al femminile. Con un nuovo Test per la diagnosi di Loredana B. Petrone, Mario Troiano. Questo libro mette in luce un nuovo fenomeno di pedofilia: la pedofilia femminile. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice, anche perché da sempre alla donna viene associato l'istinto di maternità che esclude, a priori, l'idea dell'abuso sui bambini. Pertanto, quando si parla di pedofilia, nell'immaginario collettivo scatta automaticamente la figura dell'uomo: giovane, di mezza età o anziano, ma pur sempre di sesso maschile. In realtà, la pedofilia colpisce sia uomini che donne. Vi sono diverse tipologie di donne pedofile: la pedofila latente, occasionale, dalla personalità immatura, regressiva, la pedofila aggressiva, la pedofila omosex, ecc. È tuttavia, difficile tracciare un quadro completo e ben delineato di questo fenomeno. La pedofilia femminile, come quella maschile, si cela all'interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Questo libro vuole essere un valido strumento per la conoscenza del fenomeno in ogni suo aspetto approfondendo il tema dell'abuso al femminile ed essere così un punto di riferimento sia nel campo dell'informazione che della prevenzione, sia per il contesto familiare che scolastico.

Loredana Petrone, psicoterapeuta e sessuologa, esperta in prevenzione delle moderne forme di violenza, lavora presso la Cattedra di Medicina Sociale dell'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma. È autrice di numerosi articoli sul tema e libri, tra cui Chi ha paura del lupo cattivo? (Franco Angeli, 2000)

Mario Troiano, psicologo-psicoterapeuta, esperto in psicologia delle emergenze, direttore dell'Istituto Internazionale Europeo Psicologia delle Emergenze. È autore di numerosi articoli e libri, tra cui Guarire dagli attacchi di panico (Editori Riuniti, 2001), e con Loredana Petrone Adolescenza e disagio. Come superare il problema (Editori Riuniti, 2001).

Cattive madri: la pedofilia femminile, scrive Piera Denaro il 16/01/2015 su "Palermomania.it". Se ne parla e se ne scrive poco, ma non significa che la pedofilia femminile non esista. Già, circa 2000 anni fa, Petronio nel suo Satyricon narrava di un gruppo di donne compiaciute ed eccitate davanti allo stupro di una bambina di sette anni. Nel pensiero comune, il pedofilo è maschio, ma anche le donne sono capaci di abusare di bambini e adolescenti. “Pensare che una donna possa essere un’abusante sessuale è raccapricciante, è sconvolgente perché la donna è associata all’idea di mamma. Teoricamente una madre non potrebbe mai danneggiare un bambino” dice Loredana Petrone, psicoterapeuta e sessuologa, esperta in prevenzione delle moderne forme di violenza, autrice con Mario Troiano del libro “E se l’orco fosse lei? Strumenti per l’analisi, la valutazione e la prevenzione dell’abuso al femminile”. Negli ultimi anni, il Web ha contribuito a portare in evidenza la diffusione di tale fenomeno. In rete, infatti, sono sempre più numerosi le immagini e i filmati pedopornografici che coinvolgono donne e madri. Proliferano anche comunità virtuali che offrono consigli per ottenere materiale e raggiungere minori. La pedofilia femminile, come quella maschile, può annidarsi all’interno delle mura domestiche o rivolgersi all’esterno, scegliendo mete lontane, come luoghi ideali per l’adescamento. Quella intrafamiliare, la più difficile da identificare, si cela dietro espressioni alimentate da ambigui rapporti di amore e di ostilità. In numerosi casi l’abusante è la madre e le statistiche di Telefono Azzurro ce lo confermano, anzi negli ultimi anni, in Italia, è salita la percentuale di abusi sessuali commessi in famiglia da parte di donne. La pedofilia femminile, in forma di turismo sessuale, compare intorno agli anni ’70, quando donne americane e canadesi, favorite dall’emancipazione economica e motivate dalla ricerca di soddisfazione sessuale e appagamento materno, iniziano a raggiungere spiagge lontane alla conquista di beach boys e beach girls. Oggi, mete delle nordamericane e delle europee sono Caraibi, Tunisia, Marocco, Kenya, Giamaica e Brasile. La Thailandia è preferita dalle giapponesi, Marrakesh dalle scandinave e dalle olandesi. Dalla testimonianza di medici, che hanno curato piccoli abusati, sappiamo che ai bambini maschi, per rendere possibile l’atto sessuale, vengono iniettati ormoni e droghe nei testicoli. Diverse le cause scatenanti di un comportamento pedofilo da parte di una donna: separazione, abbandono, eventi traumatici non elaborati e, quindi, irrisolti. Tra le conseguenze più importanti di un trauma non risolto, è l’impulso e l’ossessione a reiterare l’evento.

Loredana Petrone e Mario Troiano individuano sei tipologie di pedofilia femminile:

• Pedofilia latente - La donna nutre morbosa attrazione per i bambini; ha fantasie erotiche che non si concretizzano, grazie all’ostacolo morale di cui è in possesso.

• Pedofilia occasionale - La donna, pur non avendo gravi distorsioni psicologiche, in situazioni particolari, come viaggi in Paesi con un forte tasso di turismo sessuale, si lascia andare ad esperienze sessuali trasgressive. Si tratta, in genere, di donne di età compresa tra i 40 e 50 anni, con un livello socio-culturale medio-alto, single o divorziate.

• Pedofilia immatura - La donna non è riuscita a sviluppare normali rapporti con i coetanei, mancando di una sufficiente maturità emotiva ed affettiva. Rivolge, pertanto, le sue attenzioni verso il bambino, dal quale non si sente minacciata.

• Pedofilia regressiva - La donna, avvertendo un senso di inadeguatezza a vivere il quotidiano, regredisce ad una fase infantile. Sentendosi bambina, rivolge interesse sessuale verso i bambini.

• Pedofilia sadico-aggressiva - La donna trae piacere nel provocare dolore o morte. Alla base di questo comportamento c’è un bagaglio di aggressività, frustrazione ed un senso di svalutazione di se stessa e degli altri.

• Pedofilia omosex -La donna rivolge alla bambina l’amore non ricevuto dalla madre. Identificandosi con la piccola vittima, colma, con l’abuso, il vuoto affettivo.

Bisogna puntare l’attenzione e far luce su un fenomeno così grave e complesso, al fine di predisporre strumenti di prevenzione e tutela dell’integrità psico-fisica dei minori.

Pedofilia e l'incesto nelle donne, tratto da "I labirinti della pedofilia", di Gloria Persico. Le donne pedofile sono più rare degli uomini, spesso isolate o affette da qualche forma di squilibrio psichico. Come gli uomini, anche le donne possono creare notevoli disagi psicologici alle loro vittime. Quando una donna obbliga un bambino (o una bambina) a pratiche erotiche o sessuali, gli effetti possono essere devastanti, soprattutto se si tratta della madre. Per un figlio, infatti, la madre è la figura principale di attaccamento. Da lei si attende protezione e rispetto più che da qualsiasi altro adulto. La dinamica dell'atto pedofilo nelle donne ha una particolare connotazione. Il più delle volte questo si verifica perché il loro compagno è un pedofilo e da lui vengono coinvolte; in verità il loro ruolo è quasi sempre marginale. Non è possibile dimenticare quanto avvenne in Belgio alcuni anni fa a Marcinelle. Il serial mostro che sequestrava, seviziava, violentava e uccideva ragazzine aveva una compagna che lo seguiva, l'aiutava, condividendo le sue imprese. Quando in atti delittuosi, quasi sempre di appartenenza maschile, è presente una donna, si può ipotizzare che è stato il legame col suo uomo ad attivare quella che è stata già individuata come prepedofilia. Come già detto, mentre i pedofili spesso sono uomini che non mostrano segni psicopatologici, le donne pedofile, invece, mostrano spesso alti livelli di disturbo mentale. E ipotizzabile che solo un disturbo grave possa bypassare quell'istinto materno, in verità oggi un po' discusso, presente nella maggior parte delle donne. La testimonianza che segue è un rarissimo esempio di pedofilia femminile. Il fatto è realmente accaduto nel 1996. Questa maestra cattiva è forse unica a fronte di tante insegnanti attente e amorose che hanno salvato tanti bambini comprendendo e facendo propria la loro infelicità. Attente, amorose e anche coraggiose perché prendere l'iniziativa di comunicare ai genitori, al preside ed ai servizi sociali quello che hanno scoperto richiede un grande coraggio.

La maestra cattiva. La mamma di Maria (4 anni), aveva notato che le mutandine di sua figlia spesso erano gialle, e non era pipì. La pediatra aveva affermato che si trattava dì una infezìone vaginale: aveva prescritto dei bagnoli e aveva consigliato di comprare alla bambina delle mutandine più chiuse e di impedirle di sedersi a terra.

Un giorno la mamma vede Maria armeggiare con un pennarello fra le gambe, dopo essersi abbassata le mutandine. La sgrida dicendole che fa male a fare quel gioco, perché certamente è stato causa delle sue mutandine sporche. Maria ribatte che quel gioco glielo ha insegnato la maestra e che quindi si può fare. La mamma impietrita non dice più una parola, ma si mette in contatto con le altre mamme, poiché i bambini in quella classe della materna sono soltanto dodici. Le mamme si riuniscono e si accordano sul modo migliore per interrogare i propri figli. La situazione viene ricostruita: la maestra accompagnava i bambini in bagno e "giocava " su di loro con pennarelli ed altri oggetti. La denuncia fu fatta alle forze dell'ordine dai genitori dei bambini che si costituirono, in un'unica istanza, parte civile. Il caso della baby sìtter che abbiamo già presentato (a proposito del problema della differenza di età fra due minorenni), può essere considerato un caso di pedofilia femminile, poiché non è tanto l'età che definisce l'atto pedofilo, quanto il potere che il ruolo conferisce all'abusatore. Si può rilevare, ancora una volta, anche se spiace riconoscerlo, che i molestatori dei bambini si ritrovano il più delle volte nella rosa delle persone che li accudiscono. Quando le madri, qualche volta le nonne e le zie, vendono come merce sessuale le loro figlie e nipoti, il movente principale sembra essere l'avidità di denaro (non mai il bisogno) ed un loro passato di prostituzione. A mio avviso per un delitto così atroce, non può essere sufficiente la voglia di guadagno facile; forse c'è qualche altra motivazione, magari inconsapevole. Si potrebbe ipotizzare che si tratti di una proiezione sulla piccola, a risarcimento della perduta capacità di suscitare il desiderio degli uomini. Oppure, ipotesi ancora più audace, quella di un desiderio pedofilo o incestuoso che viene realizzato per vie traverse.

Le foto di famiglia. Il vecchio pensionato abitava al piano di sopra; era solo ed era considerato ricco dagli abitanti di quel quartiere degradato. Qualche volta scendeva a chiedere un limone o un uovo in prestito e si fermava a fare due chiacchiere principalmente con la nonna, ma non dimenticava mai un complimento alla madre ed una carezza a Maruzza, una ricciolina di nove anni. Un giorno propose un compenso per delle foto "artistiche " alla bambina. Poi propose delle foto che ritraessero 'Ve tre generazioni". Naturalmente nude, perché potessero risaltare i cambiamenti che la donna attraversa negli anni. Poi la bambina cominciò a salire sola ed i compensi cominciarono a crescere. La strategia era stata condotta assai bene. Dopo una denuncia anonima, una mattina i carabinieri bussarono alla porta del pensionato e trovarono le foto. Foto pornografiche della bambina. Chissà se l'aveva anche carezzata; la mamma e la nonna non lo denunciarono e furono loro ad essere condannate per sfruttamento della prostituzione minorile. Il pensionato ebbe gli arresti domiciliari. Questo caso non è dei più gravi, trattandosi di un solo "uomo nero" e anche familiare perché abitava nello stesso palazzo. Purtroppo si sono verificati molti tremendi casi '1otocopia" nei quali le bambine, spesso sorelline, accompagnate dalla madre, dalla quale, ripetiamo, ci si aspetta protezione e aiuto, venivano fatte incontrare con più uomini nella stessa giornata, o con più uomini contemporaneamente. Inoltre, quando una madre oltre che vendere le proprie figlie, partecipa con loro ai festini, a tale presenza voyeristica si può dare una valenza incestuosa. Per quel che riguarda l'incesto, la madre incestuosa esiste anche se è difficile scoprirla: spesso usa forme che vengono camuffate dagli abituali gesti di accudimento. Nell'anamnesi di pazienti maschi, molto spesso emergono madri che continuano a fare il bagno a figli adolescenti; madri che accettano o inducono, quando non c'è il padre, il figlio ormai adulto a dormire nel letto matrimoniale. Come esiste l'abuso del padre sul figlio maschio, anche se meno frequente che sulla figlia femmina, esiste anche rarissimo quello della madre sulla figlia femmina. Le madri tuttavia diventano incestuose quando partecipano all'iniziativa di altri familiari, come si può leggere nelle due testimonianze che seguono. Nel 1995 accadde un caso terrificante che fa dolore ricordare. Una intera famiglia si accadi sull'unico bambino rimasto di tre generazioni. Il caso sollevò l'opinione pubblica: sconcerto, scandalo, morbosità. Sia chiaro che la divulgazione di queste notizie può essere utile solo se serve ad acquisire la consapevolezza che esistono tali orrori altrimenti impensabili. Solo in forza di questa consapevolezza, è possibile accorgersi che in una famiglia o in un bambino c'è qualcosa di strano. Se si ha timore a rivolgersi alla polizia, rimanendo nell'anonimato, ci si può rivolgere ai servizi sociali che si incaricheranno di verificare se il fatto è reale o se i sospetti sono infondati.

Il capro espiatorio. Avevano abusato di quel bambino miracolosamente salvato (quanto e quando potrà essere recuperato?) i nonni, la madre e il suo convivente e altri parenti meno stretti. La tragedia di Michelino ha le radici nei bisnonni che avevano abusato dei suoi nonni, che di certo avevano abusato dei loro figli. Basta, fa più orrore delle gesta dei pedofili serial killer e seviziatori! Va solo ricordato che era una famiglia di professionisti, gente per bene, solo molto isolata e senza frequentazione di amici.

Il racconto di una maestra. La quinta elementare nella quale insegnavo dalla terza classe, era formata da scolari simpatici, intelligenti che amavo molto, anche se facevo fatica a contenere la loro vivacità. All'inizio dell'anno arrivò una bambina ripetente di dodici anni compiuti. Pensai che fosse malata o per qualche ragione sofferente: era magra, la pelle del viso trasparente, le occhiaie scure, i capelli smorti, le spalle piegate. In classe non parlava con nessuno, sembrava attenta, ma presto mi accorsi che spesso guardava nel vuoto. Negli scritti andava molto bene, ma quando era interrogata le parole le uscivano a stento e un improvviso tic le faceva sbattere l'occhio destro. Comunque arrivava ad una stentata sufficienza. Per cercare di capire cosa avesse, le feci qualche domanda sulla famiglia, ma quando pronunziai la parola "fratelli ", si presentò il tic che aumentò ancora di più alla parola "genitori ". Attraverso la segreteria chiesi un colloquio con i genitori che non si presentarono mai. L'ultimo giorno di scuola prima di Carnevale, ci fu una piccola festa in classe: Serena non solo non partecipava, ma non voleva né mangiare né bere. I ragazzi, scherzando oltre misura, si sporcavano l'un l'altro la faccia con la panna e, forse per coinvolgerla, sporcarono anche lei. A quel punto la ragazzina iniziò a vomitare. Chiamata la bidella, l'accompagnai nei bagni per aiutarla a lavarsi, ma anche perché speravo che mi confidasse qualcosa. Infatti mi buttò le braccia al collo, singhiozzando. Da quando aveva sei anni, padre, fratelli e cugini abusavano di lei, e, orrore, a volte partecipava anche la mamma invece di difenderla! Perciò i suoi grandi occhi scuri, offuscati da sei anni di patimenti inauditi, avevano perduto ogni espressività. Nemmeno il dolore riuscivano ad esprimere, quegli occhi, dove si era spenta ogni speranza. Ma finalmente aveva parlato, rendendosi conto che una piccola luce si era accesa, ed io ero certa che l'avrei accompagnata nel faticoso cammino. Fonte Aquilone blu onlus

Pedofilia Femminile: quando l'orrore si tinge di rosa, scrive Alessandro Costantini il 27 dicembre 2011 sul sito dell'Associazione per lo studio e la diffusione della psicologia del deficit parentale. Ai bambini del mondo. Al bambino che è ancora dentro di noi. Introduzione Sempre più spesso negli ultimi tempi si sente parlare dell’ormai noto fenomeno della pedofilia. Un fenomeno, è vero, che ormai dovremmo conoscere tutti, ma che di fatto è ancora avvolto in un alone di mistero, di confusione, di falsi miti, di ipocrisia, di ambiguità e di ambivalenza. E’ inevitabilmente un tema “scottante”, che colpisce ognuno di noi dritto al cuore, spaventandoci, facendoci vacillare, facendoci mettere in discussione i nostri valori, le nostre certezze, il significato stesso della nostra esistenza. Le persone si chiedono come sia possibile che un adulto abusi sessualmente di un bambino. Si chiedono come sia possibile che un genitore abusi del proprio figlio, di quella piccola creatura che egli stesso ha messo al mondo e che proprio nel suo viso vede la luce della propria vita. Tutto questo è talmente scioccante, talmente potente, talmente “contro natura”, che le persone, per difendersi, spesso tendono a non considerare reali i fatti riguardanti abusi sessuali sui bambini. Ci si domanda “ma sarò vero?”. Oppure si sente minimizzare “ma sai, i bambini spesso inventano o ricordano male” o ancora, riferito al presunto carnefice, “ma come, sembra tanto una brava persona, non è possibile che abbia fatto una cosa del genere…”. E così tutta una sfilza di meccanismi di difesa come negazione, repressione, rimozione, formazione reattiva, spostamento, tutti messi in atto dall’individuo per proteggersi dagli spiacevoli vissuti emotivi che l’atto pedofilo suscita in noi, quali paura, rabbia, impotenza. Non sono altro che gli stessi sentimenti e le stesse difese emotive che il bambino abusato vive dentro di sé. E’ per questo che si sente molto spesso parlare solo di “presunti abusi”, che il più delle volte rimangono tali, senza mai passare alla dimostrazione certa di “abusi reali subiti dal bambino”. Troppo spesso infatti ci si scontra con i limiti della giustizia che altro non sono che le conseguenze dei limiti e delle paure personali che automaticamente vengono rispecchiati nella società: “il bambino non è attendibile”, “il bambino è facilmente suggestionabile”, “non ci sono prove certe”, “non possiamo rovinare la vita ad una persona sospettata di pedofilia se non c’è la massima certezza”…Molti autori (per es. Dettore, D., Fuligni, C. 1999) invece sottolineano proprio l’importanza, una volta che si sospetti di un abuso sessuale, di “proteggere” subito la vittima allontanandola comunque dall’aggressore. E così la pedofilia va avanti, il pedofilo continua inesorabilmente a mettere in atto i suoi comportamenti pedofili e il bambino, unica vera vittima di tutto l’orrore che riguarda la pedofilia, rimane da solo, da solo con il suo dolore, con la spiacevole sensazione di aver esagerato, se non addirittura inventato, tutto il danno che gli è stato inferto. Il bambino perderà la fiducia in se stesso e negli altri, quegli altri “adulti significativi” che avrebbero dovuto proteggerlo e che invece nulla hanno fatto in questo senso, schierandosi addirittura dalla parte dei carnefici stessi. Questo bambino poi un giorno crescerà, con la ferita ancora aperta e vivrà inevitabilmente una vita dura, incentrata su vissuti di paura, depressione, distruttività verso di sé e verso gli altri. Molti studi infatti confermano il cosiddetto “circolo vizioso della pedofilia” (per es. Stoller, 1975; De Leo, Petruccelli, 1999; Montecchi, 2005; Seto, 2008): la vittima di pedofilia oggi altro non è che il pedofilo di domani. Questo non significa tout court che andrà per forza così, ma in moltissimi casi questo sarà il naturale corso degli eventi. Se si ripercorre la storia di vita di un pedofilo, si troverà nella stragrande maggioranza dei casi una storia di abuso sessuale subito in tenera età. Questa “linearità causa-effetto” potrà sembrare eccessivamente semplicistica, ma di fatto questo è ciò che accade. Ciò però non toglie al fenomeno pedofilia una estrema “complessità” che appunto la caratterizza. E’ infatti un fenomeno altamente “sovradeterminato”, nel senso che nasce per soddisfare in qualche modo più spinte (per lo più) inconsce dell’individuo, anche apparentemente in contrasto tra loro. Molteplici sono le sue espressioni, da quelle più “blande” (che, mi preme sottolineare, davvero “blande” per il bambino non sono mai) a quelle più cruenti. Gli abusi possono inoltre avvenire all’interno della propria famiglia o al di fuori di questa, essere legati a legami affettivi specifici o al racket della prostituzione minorile o addirittura legati a culti satanici. Possono avere connotazioni omosessuali e non. Il pedofilo può essere attratto esclusivamente dai bambini, oppure anche da adulti. Diverso inoltre è stato il modo di intendere la pedofilia a seconda dei vari momenti storico-culturali all’interno dei quali essa si è andata via via definendosi. Molto c’è da dire, infine, sulla “legislazione” che tratta il tema pedofilia, diversa da paese a paese e sempre ricca di contraddizioni e di “passaggi” quantomeno equivocabili. Il tema della pedofilia è dunque vastissimo. In questa sede ho pertanto deciso di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti specifici del fenomeno. Una prima parte sarà dedicata a cosa si intende esattamente per pedofilia e quali ne sono le caratteristiche salienti. Questo definendo la pedofilia da un punto di vista clinico-diagnostico e da un punto di vista giuridico. Dedicherò una parte anche ad un excursus storico e sociale di questo fenomeno. Centrale sarà poi la parte dedicata al fenomeno della “pedofilia femminile”: argomento poco conosciuto, poco trattato, sicuramente anche meno frequente. Argomento che soprattutto ci colpisce ancor più della pedofilia maschile perché ci “spiazza”, ci mette duramente alla prova, sbattendoci in faccia una realtà di cui faremmo volentieri a meno: anche una “mamma” (oltre che più in generale una “donna”) può maltrattare un bambino finanche a farne l’oggetto dei propri sfoghi sessuale. Che cos’è la pedofilia: luoghi comuni, ottiche diverse, nuove conoscenze. Sembrerebbe apparentemente inutile dare una definizione precisa di pedofilia, tanto il termine è entrato a far parte del linguaggio comune. In realtà, le definizioni di questo fenomeno sono spesso confuse, incomplete, nella peggiore delle ipotesi anche non propriamente corrette. Pedofilia è diventato di fatto sempre più un termine usato e spesso “abusato”. Come sostengono Coluccia e Calvanese (2007) “non è neppure il caso di rimarcare come una maggiore confusione interpretativa sia stata ingenerata, negli ultimi anni, dal fatto che i media di massa si siano senza limiti e del tutto acriticamente impossessati di tale termine […]” (pag. 35). Prima di addentrarci nel mondo della pedofilia femminile credo sia opportuno tracciare quelli che sono gli aspetti specifici e caratteristici della pedofilia in generale, escludendo anche così tutti quegli altri aspetti che potrebbero far pensare a questo fenomeno, ma che in realtà se ne discostano. Pedofilia, infatti, è un termine “scomodo”, di “non facile collocazione” perché, a differenza di altri fenomeni, ha forti implicazioni praticamente su tutti i versanti che riguardano il comportamento umano: psicologico, sociale, culturale, giuridico, morale, religioso ed anche economico. Cominciamo dall’etimologia della parola pedofilia. Essa deriva dal greco paìs, paidòs che significa bambino e da filìa che significa amore. “amore per i bambini” dunque. Chiaramente il termine è ambiguo e contraddittorio: non intendiamo un amore “vero”, nel senso di “bene verso” i bambini, ma un amore inteso come “attrazione erotica”, con o senza pratiche sessuali, di un adulto verso un bambino, cioè verso un soggetto in età “pre-pubere”: un bambino che non abbia ancora iniziato il normale processo di sviluppo psicosessuale, cioè che non abbia ancora sviluppato quei caratteri sessuali primari e secondari tipici del proprio sesso di appartenenza (crescita dei peli, aumento delle dimensioni dei genitali, ingrossamento della voce, ciclo mestruale, crescita della muscolatura, etc.) e che non abbia ancora sviluppato quindi una consapevolezza di sé e del proprio corpo. “Il termine di per sé presenta un’ambiguità di fondo già nella sua etimologia. Infatti “l’amico dei bambini” – che in realtà amico non è – è colui che non riesce ad avere rapporti sessuali soddisfacenti se non con bambini” (F. Villa, 2005, p. 26). Il termine pedofilia è entrato ufficialmente in ambito psichiatrico con il significato di “passione sessuale” nel 1905 su proposta dello psichiatra svizzero Auguste Forel ed è entrato nel vocabolario della lingua italiana solo nel 1935 (A. Oliverio Ferraris, 2001). Strettamente connesso, ma concettualmente differente è il concetto di “abuso sessuale su minore”, un concetto più specifico che è incluso anche nel più ampio concetto di pedofilia: l’abuso sessuale su minore può rappresentare la messa in atto di un comportamento pedofilo, mentre la pedofilia concettualmente rappresenta l’attrazione sessuale per il minore anche in assenza del relativo abuso fisico (Gulotta, 1999). “Per abuso sessuale sui minori si intende il coinvolgimento di bambini in pratiche sessuali che essi non possono interamente comprendere e verso le quali sono incapaci di dare un informato e cosciente consenso o che violano tabù sociali circa i ruoli familiari” (C. Serra, 2000, p. 311). Quindi il minore si ritrova in attività sessuali che per il suo basso livello di sviluppo psicofisico non riesce a comprendere e alle quali non può acconsentire con reale consapevolezza, a causa della enorme differenza di età e di ruoli rispetto gli adulti. In definitiva, il corpo del minore è sfruttato dall’adulto come mero oggetto di sfogo sessuale. In realtà, ormai molti autori (per esempio I. Petruccelli, 2002) concordano sul fatto che l’abuso sessuale si esprima anche quando il corpo del minore non viene direttamente violato, ma violata è comunque la sua “innocenza”. Parliamo quindi di tutte quelle situazioni in cui il bambino è comunque esposto in modo prematuro e brutale al “sesso”: vedere rapporti sessuali tra genitori, visionare materiale pornografico, ricevere commenti e insulti a carattere sessuale, etc. L’età del consenso al di sotto della quale la legge ritiene che il soggetto non sia in grado di decidere liberamente rispetto alla propria sessualità, proprio in virtù della tenera età, varia a seconda dei diversi paesi. In Italia questo limite è fissato a 14 anni. Questo significa che, per esempio, benché una tredicenne possa essere sviluppata da un punto di vista psicosessuale (magari già da qualche anno) e benché si ritenga “consenziente”, di fatto però per legge un maggiorenne non può con questa avere alcun tipo di rapporto sessuale. Il tema pedofilia diventa dunque di difficile definizione. Nel caso sopra citato, per esempio, c’è chi parlerebbe di pedofilia, chi invece di “pederastia”, chi invece non lo riterrebbe così patologico, giustificando questo tipo di relazione come una normale attrazione “biologica” di un “maschio” adulto nei confronti di una “femmina” all’apice della giovinezza. Ho citato la “pederastia”, altro termine con cui spesso si identificano erroneamente pedofili e omosessuali: il pederasta è tendenzialmente colui che instaura relazioni omosessuali con giovinetti all’inizio dell’adolescenza e dunque non più bambini. Ne parlerò comunque dettagliatamente in seguito. Inoltre, ancora oggi spesso viene assimilato il termine pedofilia a quello di “omosessualità”, quando sappiamo ormai con chiarezza che rappresentano due ambiti totalmente diversi: l’omosessuale non è un parafilico e non è pedofilo, così come il pedofilo, che invece è un parafilico, non necessariamente deve essere omosessuale. Purtroppo, anche all’interno della stessa comunità degli “addetti ai lavori” (medici, psicologi, educatori, legali, insegnanti, assistenti sociali) non mancano approcci teorici e tecnici diversi per inquadrare e affrontare questo tema. Secondo alcuni autori, infatti, si può parlare di pedofilia solo se la vittima è “prepubere”, perché è ben diverso se la vittima è adolescente e quindi in qualche modo ha raggiunto una maturità fisico-sessuale (per es. DSM IV TR). Per altri, invece, essa riguarda anche il rapporto con minori adolescenti, per cui il termine “abuso sessuale su minori” diventerebbe implicitamente sinonimo di “atto pedofilo” (per es. Roccia e Foti, 1994). Oggi si utilizza molto spesso anche il termine “child molester”, letteralmente “molestatore di bambini”: un individuo adulto che “si intrattiene in attività sessuali illecite con minori, indipendentemente dal sesso, dall’unicità o ripetitività degli atti, dalla presenza o assenza di condotte violente; se la vittima sia pubere o prepubere, conosciuta o meno, legata o meno da vincoli di parentela con l’aggressore” (Picozzi, Maggi, 2003, pag. 23). Anche qui, come ci suggeriscono Picozzi e Maggi (2003), si deve evitare di sovrapporre tale termine a quello di pedofilo: il pedofilo, infatti, può non essere un child molester e, viceversa, un child molester, benché invischiato in rapporti sessuali con minori, non necessariamente è un pedofilo. Il child molester, infatti, potrebbe avere rapporti sessuali con dei minori solo per “curiosità”, o per “necessità” (come per la “pseudo-omosessualità” tra carcerati o, esempio meno garbato, la “zoofilia” dei pastori che vivono isolati dal mondo). E’chiaro, comunque, che moltissimi pedofili agiscono i loro impulsi, divenendo child molester, così come moltissimi child molester di fatto sono pedofili. Per finire, mi preme sottolineare come addirittura tra gli stessi pedofili ci siano almeno due grandi correnti di pensiero rispetto al proprio “amore per i bambini”. Una categoria di pedofili si ritiene “malata”, “colpevole” a tal punto, in alcuni casi, da relegare i propri impulsi alla fantasia, ai sogni, alla masturbazione solitaria. Sono quei pedofili che potremmo definire “egodistonici”: vivono costantemente un eterno conflitto con se stessi, come è ben rappresentato per esempio in un recente film intitolato “The Woodsman”, o nel più vecchio capolavoro di Fritz Lang “Il mostro di Dusseldorf”, dove i due protagonisti sono consapevoli della “malignità” delle proprie pulsioni e con estrema difficoltà riescono a lottare per non agirle. Sul versante opposto troviamo invece quei pedofili che potremmo definire “egosintonici”: non solo non si ritengono malati, ma anzi ritengono il loro comportamento come una forma di amore, accudimento e rispetto verso i bambini e per questo istituiscono anche della associazioni “pro-pedofilia” con tanto di movimenti politici e siti internet. Excursus storico-culturale. La pedofilia e l’abuso sessuale sui minori rappresentano un fenomeno che esiste praticamente da quando esiste l’Uomo. A seconda del particolare periodo storico la pedofilia è stata vista “culturalmente” in modi diversi. L’abuso sessuale su minori è sempre esistito in ogni gruppo umano, non possiamo limitarci a considerarlo un incidente storico di questa o quella civiltà, va   contestualizzato all’interno di relazioni sociali e culturali, assumendo un significato differente a seconda del periodo storico considerato e della cultura dominante. In Iran e in Afghanistan, per esempio, l’omosessualità è contro natura, certo non è più così in Europa. Ma in Iran e in Afghanistan, le bambine che a nove anni vengono vendute dal padre a uomini di quaranta o cinquanta anni non sono considerate vittime pedofile come in Europa, né i suoi genitori subiscono processi o condanne sociali. (M. Valcarenghi, 2007). Schinaia (2001) dà una lettura esplicita di questo, quando sostiene che: “Il diverso significato che viene ad assumere la relazione pedofila, la sua relatività storica, prescinde dalla constatazione che c’è la costante presenza di un minimo comune denominatore, che consiste nella dissimmetria esistente nel rapporto tra l’adulto e il bambino o l’adolescente. Tale asimmetria si costituisce in ogni caso come il cardine di una relazione di abuso, al cui interno si determina un divario di potere che nessuna passiva acquiescenza, scambiata o contrabbandata per consenso, potrà annullare o ridurre”. Come sottolineato da moltissimi autori (per es. Petruccelli, I., 2002) nell’antica Grecia, così come era molto diffusa la pratica dell’infanticidio come strategia di controllo delle nascite, così allo stesso modo era praticata la pederastia, intesa come l’amore di un uomo adulto per un giovinetto pubere, ma non ancora maturo. Come già accennato nelle pagine precedenti, questa pratica non era considerata come una “variante” della sessualità e né tanto meno come una perversione, ma come una strategia educativa per lo sviluppo individuale e sociale del giovinetto. Peggiore sorte spettava alle bambine “non volute”, in quanto considerate “bocche in più da sfamare” che per legge potevano essere “esposte”, cioè abbandonate tra i rifiuti appena nate. Da questo momento in poi sarebbero diventate “proprietà” in senso assoluto (come gli schiavi) di chi le avesse raccolte e portate in casa propria. Addirittura la legge permetteva ai “padroni” di avviare queste bambine a qualsiasi tipo di lavoro servile, compresa la prostituzione minorile, in virtù del fatto che le bambine fossero figlie di genitori ignoti. Ciò era sufficiente per considerarle tout court oggetti di scambio e fonte di guadagno. Nell’antica Grecia già si praticava l’omosessualità, anche quella femminile. Quest’ultima era ritualizzata nelle “tiasi”, comunità educative nelle quali le bambine libere e di famiglie ricche venivano addestrate a diventare donne, da maestre che insegnavano loro le arti e le scienze, la cura della persona e della casa, la danza, il canto e anche il piacere sessuale. Anche la famosa poetessa Saffo dirigeva una tiasi nell’isola di Lesbo, e numerose altre erano le comunità simili sparse per la Grecia. (M. Valcarenghi, 2007). Già in passato, dunque, esisteva una forma di pedofilia e pederastia tutta “al femminile”. Nell’antica Roma la “cultura” (sarebbe più opportuno parlare di “non-cultura”) del bambino non si discostava molto da quella greca. Schiavi, figli e mogli erano considerati a tutti gli effetti proprietà del pater familias che in virtù del suo jus vitae ac necis poteva liberamente decidere del loro diritto di vita o di morte. A Roma i bambini potevano essere addirittura “castrati” nell’infanzia per poterli rendere più appetibili come prostituti. Molto spesso inoltre i bambini venivano sacrificati in riti propiziatori per assicurarsi la protezione delle varie divinità. A differenza del mondo ellenico però, come sottolineano Coluccia e Calvanese (2007), a Roma non era inizialmente praticata una vera e propria pederastia: si avevano rapporti con giovani schiavi e prostituti, ma non in un’ottica pedagogica, ma anzi proprio come espressione di superiorità e sopraffazione dell’altro ritenuto più debole. Per i Romani il rapporto sessuale con i giovanissimi concittadini non aveva niente di educativo, anzi poteva essere “traumatico” per un “futuro vero Romano”, educato sin dalla nascita non certo alla passività, ma ad un ruolo attivo e assertivo nella società. Questo benché anche i bambini e gli adolescenti venissero considerati al pari alle donne, cioè privi di capacità di intendere e di volere e quindi di agire giuridicamente. Discorso totalmente inverso era fatto per gli schiavi: “La passività sessuale per un uomo libero è un crimine, per lo schiavo una necessità, per un liberto (schiavo liberato) un dovere” (Seneca, Controversie, 4 praef. 10). In quest’ottica, infatti, la legge puniva chi praticasse la pederastia (comunque sempre con una pena pecuniaria e non detentiva…), mentre non considerava reato i rapporti sessuali con giovanissimi schiavi o prostituti. Questo per quanto concerne i giovani maschi. Per le femmine, come nella cultura ellenica, non c’era davvero alcun rispetto e qualunque cosa venisse fatta contro di loro non aveva la benché minima rilevanza sociale o giuridica. Detto ciò, mi sembra evidente come nella cultura romana l’aspetto del “maltrattamento” fine a se stesso legato all’abuso sessuale sui minori sia molto esplicito, a differenza della cultura ellenica dove tale maltrattamento veniva spiegato e giustificato in base ad una potente “razionalizzazione di massa”, per cui lo si metteva in atto “per educare il giovinetto”. I Romani erano dunque più “sinceri” rispetto alle proprie profonde motivazioni che li spingevano ad abusare di minori, i greci no. Tra l’altro, nell’antica Grecia si riteneva praticamente sempre “consenziente” il minore e, anzi, il consenso del minore era un requisito fondamentale per la relazione pederasta, pena la perseguibilità penale dell’adulto. Ma come può un bambino essere davvero consenziente a subire una violenza simile? E, quando anche riuscisse realmente a protestare, chi si sentirebbe di punire, in una cultura così libertina, l’adulto che abusasse del minore senza il consenso di questo? In realtà, continuano gli autori, anche Roma, con l’avvento di un processo di “ellenizzazione”, fece sua la pederastia come comportamento approvato culturalmente e giuridicamente. Ufficialmente dunque anche i Romani si comportavano come i Greci, ma di fatto con il declino dell’Impero Romano e dei suoi valori, anche la “neo-pederastia” perse la sua valenza pedagogica a vantaggio di quella della sopraffazione, ora rivolta anche ai propri consanguinei. Solo con l’avvento del Cristianesimo si iniziò gradualmente a condannare sia la pederastia, sia l’omosessualità, additate come gravi peccati contro Dio e quindi punibili anche con la morte. E’ proprio in questo periodo che i due termini pederastia ed omosessualità iniziano erroneamente ad essere utilizzati come sinonimo. Errore questo che, come visto in precedenza, si riscontra ancora oggi nonostante molti secoli ci separino da questa epoca. Nel Medioevo i bambini continuarono a non essere riconosciuti nella loro infanzia, nella loro fragilità, nei loro bisogni. Era molto diffusa una certa promiscuità tra adulto e bambino: si era vicini negli stessi spazi anche per giornate intere e di notte i bambini dormivano con i genitori anche quando erano ormai adolescenti. Questo rappresenta già di per sè un “abuso all’infanzia”, perché i bambini non sono tenuti a vedere, a sentire, a “respirare” il sesso, non avendo questi ancora gli strumenti emotivi e psicologici per conoscerlo, riconoscerlo e gestirlo attivamente. A sette anni l’infanzia si considerava già terminata, perchè il bambino iniziava ad avere un totale controllo del linguaggio e per questo veniva trattato alla pari di un adulto ( il cosiddetto “bambino adultomorfo”). Ancora nel 1500 e nel 1600 in Europa il bambino non solo non era tenuto in grande considerazione ma, anzi, veniva spesso perseguitato e ucciso insieme alle presunte “streghe”, perchè era luogo comune ritenere che il bambino molto piccolo potesse diventare “indemoniato” in seguito a rapporti sessuali con il diavolo. Con il Rinascimento italiano tornò in auge la pratica pederastica e riprese vita dunque la visione del bambino/giovinetto come oggetto sessuale, come si può ben osservare nei nudi del Verrocchio, di Leonardo e del Botticelli. Il noto storico P. Ariès (1994) descrive come in Francia nel 1600 fosse normale e ampiamente diffuso il “gioco fisico” tra adulti e bambini e come questo non destasse minimamente scandalo. L’autore nello specifico, basandosi su un diario della vita di Luigi XIII scritto dal suo medico personale Heroard, descrive come al piccolissimo re da bambino la bambinaia ed altri membri della servitù si dilettassero a titillare e a baciare il piccolo pene del bambino: “Luigi XIII non ha ancora un anno – annota Heroard – ride a gola spiegata quando la sua bambinaia fa dondolare il suo pene con la punta delle dita [...] è molto vispo e fa baciare a tutti il suo pene” (Ariès, 1994, p. 113). Questi giochi erano intesi non solo come innocenti, ma nei primi tre anni rappresentavano una sorta di iniziazione alla vita sessuale. Intorno ai sette anni, invece, iniziava l’educazione vera e propria che veniva impartita in modo assai rapido: il matrimonio di adolescenti era quasi la norma. Solo più tardi, nel 1700 prima e in particolare nel 1800 poi, questo atteggiamento “libertino” nei confronti dell’infanzia iniziò ad affievolirsi e gradualmente andò a svilupparsi un atteggiamento culturale diametralmente opposto al precedente. Nell’Inghilterra vittoriana, per esempio, si adottarono misure molto restrittive rispetto alla sessualità dei giovanissimi: gabbie applicate di notte sui genitali per evitare la masturbazione, campanellini appositamente studiati per suonare e avvisare i genitori qualora il giovanissimo avesse un’erezione…Più in generale, comunque, in questo periodo molti bambini e adolescenti ancora venivano sfruttati sia a livello lavorativo che sessuale. Ciò che più colpisce a mio avviso è come in fin dei conti, a ben analizzare i vari periodi storici, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, di fatto a rimetterci è sempre stato il bambino: nell’antichità visto come mero oggetto sessuale su cui scaricare la propria rabbia o come vittima di quella che la psicoanalista Alice Miller definisce “pedagogia nera” (per es. 1980) che punisce inconsciamente il bambino con la motivazione conscia di farlo per il suo bene. Successivamente, a distanza di secoli, il bambino viene (forse) abusato meno, ma comunque colpevolizzato e condannato per i suoi “istinti animali” che devono essere tenuti sotto stretto controllo per il bene della comunità…E arriviamo ai tempi più recenti quando S. Freud (1905) per primo parlò in modo più scientifico della sessualità infantile. A lui si deve la concezione dello sviluppo psicosessuale del bambino attraverso le ormai note cinque fasi (orale 0-18 mesi, anale 18 mesi-3 anni, fallica 4-6 anni, latenza 6-12 anni, genitale/adolescenza). Concezione questa ormai (fortunatamente) ben lontana dagli attuali modelli clinici di riferimento. Sempre Freud fu a definire (in modo a mio avviso errato e deleterio) il bambino come un “perverso polimorfo”, cioè come un soggetto che, benché la bassissima età e la benché totale ignoranza in tema di sessualità, oltre che il mancato sviluppo psico-fisico legato alla sessualità, ha come obiettivo primario la scarica delle proprie pulsioni sessuali su di sé e su chi si prende cura di lui. Addirittura già intorno ai tre anni il bambino sviluppa quello che l’autore ha definito “Complesso di Edipo”, per cui la sua motivazione più grande è quella di uccidere il padre per potersi portare a letto la madre…Sempre Freud dedicò spazio al tema della pedofilia nei suoi “Tre saggi sulla sessualità” (1905) dove la definisce come una tra le aberrazioni sessuali. Nello specifico una tra le deviazioni che si riferiscono all’oggetto sessuale, cioè comportamenti sessuali rivolti ad oggetti diversi da quelli considerati normali (partner adulto del sesso opposto). Tra queste Freud inserisce anche la zoofilia (avere rapporti sessuali con animali) e l’omosessualità che però definiva inversione. Certo, oggi a distanza di un secolo sappiamo che rispetto al discorso omosessualità il buon vecchio Freud sbagliò di grosso nel catalogarla come “aberrazione sessuale”, essendo ormai da tempo considerata come uno dei normali possibili sviluppi dell’orientamento sessuale. Oggi, per fortuna, in parte questa concezione del (o forse sarebbe meglio dire “contro” il) bambino non è più presa così tanto in considerazione, ma ci sono ancora psicologi, educatori, medici, insegnanti e genitori che vivono con questi presupposti il loro rapporto con i bambini. Oggi infatti sempre più piede hanno preso gli approcci educativi e clinici basati sugli studi dell’ “Infant Research” (per es. D. Stern, 1985 ) che spostano l’ottica da un bambino visto come “seduttivo” e “distruttivo”, e quindi con l’ adulto conseguentemente visto come vittima, ad un bambino visto come innocente, estremamente fragile, alla sola ricerca di attaccamento, di amore, di protezione da parte del genitore, che diviene così protagonista attivo e responsabile del benessere del bambino. Concludo purtroppo con l’evidenziare come, nonostante la storia ci debba aver insegnato come vanno trattati i bambini e nonostante la ricerca nel campo dell’infanzia oggi sottolinei l’importanza dell’amore incondizionato del genitore per il proprio bambino, assistiamo a fenomeni sociali e culturali a dir poco raccapriccianti come le associazioni di pedofili (tra le più note menzioniamo la Danish Pedophil Association e The Slurp) che combattono quotidianamente per rivendicare il proprio diritto di amare e possedere fisicamente i bambini. Questo, a detta loro, rappresenterebbe solo una forma di amore vero che non solo non danneggia il bambino, ma che addirittura è desiderato fortemente dal bambino stesso. Nel 2006 è addirittura sorto il primo partito pedofilo, il NVD (Partito dell’Amore per il Prossimo, la Libertà e la Diversità), che promuove il sesso con i minori, l’abbassamento della maggiore età sessuale a 12 anni, il sesso con gli animali, la possibilità di girare nudi sempre e ovunque e la possibilità per un minore, raggiunta la soglia dei 16 anni, di girare film pornografici (che tra l’altro, secondo loro dovrebbero essere proiettati in TV anche di giorno) e finanche di prostituirsi (da un articolo su repubblica.it). Fino a pochissimi anni fa circa 500 gruppi di pedofili festeggiavano il “loveboyday”, cioè la “giornata dell’orgoglio pedofilo”: un incontro sul web dove tutti i pedofili della Terra “accenderanno una candela azzurra per ricordare i pedofili incarcerati, vittime delle discriminazioni, delle leggi ingiuste e restrittive”. Grazie, però, ad una petizione contro questo macabro evento promossa dalla redazione di Epolis, “gli orchi sono stati fermati” (dal sito noloveboyday.blogspot.com). Continuano, inoltre, ad esistere comunque nel mondo alcune popolazioni che culturalmente accettano comportamenti pedofili, come le tribù Hopi dell’Arizona che toccano i loro bambini per permettere loro di esplorare e conoscere il proprio corpo, o come gli Indiani Lepcha che copulano con le bambine della tribù per far loro raggiungere la maturazione sessuale (Cifaldi G., Bosco D., 1999). Inquadramento diagnostico clinico. Importante credo sia anche sottolineare i diversi inquadramenti della pedofilia all’interno di quello che da sempre (a torto o a ragione) viene considerato il punto di riferimento principale della nosografia psichiatrica e cioè il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). Nella sua prima edizione (1952) la pedofilia era inquadrata come una grave deviazione sessuale. Nella sua seconda edizione (DSM-II, 1968) viene descritta ancora come una deviazione sessuale, benché vada a perdere la connotazione di disturbo sociopatico, sostituita da quella di disturbo mentale non psicotico. Nella terza edizione (DSM-III, 1980) la pedofilia viene collocata all’interno delle cosiddette “parafilie”, cioè quei disturbi legati alla sfera della sessualità in cui l’individuo esperisce una spinta emotiva fortissima rispetto al mettere in atto dei comportamenti sessuali ritenuti anomali dal resto della società, e senza i quali non è possibile per lui una vera eccitazione sessuale. Rientrano in questa categoria oltre alla pedofilia, anche voyeurismo, sadismo, masochismo, esibizionismo e altri. Nei più recenti DSM-IV (1994) e DSM-IV TR (2000) la pedofilia viene categorizzata tra i Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere. La sua diagnosi deve soddisfare i seguenti criteri:

A) durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti, e intensamente eccitanti sessualmente, che comportano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di tredici anni o più piccoli).

B) le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre importanti aree del funzionamento.

C) il soggetto ha almeno sedici anni ed è di almeno cinque anni maggiore del bambino o dei bambini da cui è attratto sessualmente.

Il DSM IV parla di un’età della vittima di pedofilia che solitamente si aggira intorno ai 13 anni, specificando che questa sia in età “prepubere”. Oggi, però, più che mai vediamo soggetti giovanissimi, di tredici anni e anche meno che non sono affatto prepuberi, ma “puberi”, proprio in virtù di uno sviluppo fisico/sessuale sempre più precoce. Anche individuare un pedofilo in una età di almeno sedici anni diventa a mio avviso un discorso molto relativo: infatti già a quattordici o quindici anni ci sono individui maturi, che magari hanno sviluppato già da alcuni anni. Secondo i criteri di questo manuale se un soggetto di quindici anni dovesse abusare sessualmente di un bambino di dieci anni (quindi con almeno i cinque anni in più richiesti dal manuale) non dovrebbe essere considerato pedofilo. Ugualmente non potrebbe essere considerato pedofilo un sedicenne che abusa sessualmente di un ragazzino di dodici anni, benché il ragazzino in questione sia prepubere, perché gli anni di differenza sono solamente quattro e non i cinque richiesti. Questo significa che i criteri del DSM IV, come troppo spesso accade anche per altre psicopatologie, rimangono troppo vaghi e ambigui da una parte e al contrario troppo rigidi e restrittivi dall’altra. In definitiva portano ad una diagnosi che lascia il tempo che trova, perché non riesce a cogliere fino in fondo gli aspetti specifici della pedofilia. Ora questa diatriba risulterà un po’ eccessiva e forse fuori luogo. Il mio intento è solamente sottolineare come complesso e sfaccettato sia il “mondo pedofilo”. Un mondo segreto e perverso che coinvolge tutti, dal bambino vittima all’adulto carnefice, fino alla legislazione, alla cultura, alla società tutta. L’ICD-10 (1996), l’altro accreditato riferimento per la nosografia psichiatrica (e non solo), include (nel Capitolo V, quello dedicato nello specifico alla psichiatria) la pedofilia tra i “disturbi della preferenza sessuale” e la definisce come “una preferenza sessuale per i ragazzi, maschi e femmine o entrambi, di solito in età prepuberale o puberale iniziale. Anche l’ICD 10 stabilisce a sedici anni il tetto minimo del pedofilo, sotto al quale non si dovrebbe più parlare di pedofilia. Anche in questo caso c’è a mio avviso un aspetto quantomeno confusivo, e cioè il fatto di parlare di età puberale iniziale. Un bambino che sia pubere, anche se in fase iniziale, non è appunto più un bambino in senso stretto, ma sta già iniziando a svilupparsi in senso adulto. Ciò chiaramente non toglie il fatto che il soggetto sia ancora estremamente fragile e vulnerabile. In questo caso, però, ritengo si debba parlare più correttamente di “pederastia”, cioè “una forma di omosessualità basata sull’attrazione per gli adolescenti e i giovanetti” (Oliverio Ferraris, 2001). Come abbiamo visto, storicamente la pederastia implica una espressione omosessuale adulto maschio-giovinetto maschio. Questa pratica era ampiamente diffusa ai tempi dell’antica Grecia e dell’antica Roma, dove non solo era considerata legale, ma anzi veniva incoraggiata, perché era praticata “ufficialmente” per il bene del giovinetto: un rapporto erotico fisico tra il “maestro” e l’ “allievo” era considerato una tappa fondamentale per la crescita personale, sociale e culturale del giovane. Così l’adulto “saggio” trasmetterebbe la sua saggezza al giovanetto tramite il rapporto sessuale. La sfera sessuale dunque era parte integrante del percorso pedagogico del ragazzo che all’età di dodici anni veniva affidato ad un educatore (A. Coluccia, E. Calvanese, 2007). Oggi credo sia facile considerare queste motivazioni come semplici meccanismi di difesa, nello specifico “razionalizzazioni”, per giustificare atti che in realtà erano dettati da un semplice desiderio di sopraffare un soggetto più debole, per indebolirlo ulteriormente e rafforzarne la dipendenza emotiva dal diretto superiore. Non era il “bene” del giovinetto ad essere ricercato, ma l’esatto contrario. Sono le stesse argomentazioni che i pedofili oggi portano avanti e cioè che la loro perversione è un atto d’amore verso il bambino e che è il bambino stesso a desiderare e a gioire delle loro particolari attenzioni. Comunque, oggi come oggi la pederastia vera e propria intesa come nel passato è scomparsa. Credo però che in una forma non ufficiale esista ancora: un adulto maschio, ma anche femmina, attratto sessualmente da un giovanissimo adolescente, anche del sesso opposto. Anche qui, credo che la pederastia si possa collocare a cavallo tra pedofilia e sessualità adulta: il minore “neo-pubere” di certo non è più un bambino, ma certamente non è neanche ancora un adulto: il pederasta diverrebbe così una sorta di “pedofilo maturo”, quindi un po’ meno patologico del pedofilo puro, ma sicuramente non rientrante in una piena psicosessualità adulta. Proprio recentemente i mass media hanno divulgato la notizia di un presunto abuso del noto regista Roman Polanski ai danni di una minorenne, molti anni fa. La ragazza in questione pare avesse all’epoca circa tredici anni e il regista chiaramente molti di più. Ecco, questo potrebbe forse essere un esempio di “amore per i primi adolescenti”, diverso da un amore maturo per un soggetto maturo, ma diverso anche da un comportamento pedofilo vero e proprio o da una pederastia in senso “ortodosso”. Credo che in questo caso si possa per esempio parlare di pederastia, ma senza alcuna certezza matematica. Infatti, se la tredicenne in questione fosse stata particolarmente precoce nello sviluppo e avesse di conseguenza alla sua età dimostrato alcuni anni in più, il quadro “clinico” sarebbe ben diverso, il famoso registra sarebbe stato semplicemente attratto da un corpo femminile particolarmente giovane, ma comunque in qualche modo “adulto”. Altra situazione ancora è infatti rappresentata da quello che possiamo definire un “richiamo biologico” di un individuo verso un partner estremamente giovane, ma né bambino, né primo adolescente. Ritengo che un uomo per esempio di cinquanta anni possa normalmente essere attratto da una ragazza di diciotto anni, ma anche meno, senza per questo essere etichettato come pedofilo, né come pederasta o comunque come un parafilico. Implicazioni giuridiche. Per comprendere fino in fondo cosa rappresenti la pedofilia, credo sia importante analizzare brevemente anche quelli che sono gli aspetti giuridici di tale fenomeno. Ritengo infatti che la legislazione di un paese determini in sostanza cosa è giusto e quindi “normale” distinguendolo da cosa non è giusto e quindi “anormale”. E’ vero cioè che dalla conoscenza di un fenomeno ne deriva poi la legge che sancirà o meno come “reato” tale fenomeno e, viceversa, è poi proprio in base a ciò che è sancito dalla legge che si darà maggiore o minore rilievo ad un evento criminale come per esempio il comportamento pedofilo. Il rischio della regolamentazione giuridica è che troppo spesso parte “dall’alto”, cioè vengono prese decisioni da chi non conosce realmente “dal basso” la natura e l’entità del problema. Il rischio, evidentemente, è che una legge inadeguata possa far passare come normali comportamenti che invece normali non sono e dai quali scaturiscono poi tutta una serie di conseguenze estremamente gravi per l’individuo e per la società. L’attuale legge che regolamenta la “violenza sessuale” (in generale, anche su adulti) è la Legge n. 66/96, che all’art. 609-bis (violenza sessuale) cita: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Tale legge è andata a sostituire quella precedente, inserendo alcune importanti novità:

1) per “violenza sessuale” si intende anche il rapporto non competo che la persona subisce contro la sua volontà, sotto violenza o minaccia. La precedente legge, invece, distingueva la violenza sessuale vera e propria (rapporto completo) dai cosiddetti “atti di libidine” che rappresentavano tutti quegli atti sessuali al di fuori del rapporto sessuale completo e che, di conseguenza, erano ritenuti in qualche modo meno gravi della violenza sessuale “completa”. La nuova legge, dunque, demanda “al giudice il compito di graduare la pena in relazione alla maggiore o minore gravità della condotta; in sostanza ciò dovrebbe consentire di colpire in modo proporzionato al danno arrecato fatti che, pur non comportando una congiunzione carnale, non per questo debbono considerarsi meno gravi” (D. M. Fergusson, P. E. Mullen, 2004, p. 15).

2) rispetto nello specifico ai minori, tale legge prevede una serie di “circostanze aggravanti” (art. 609-ter) quando l’abuso sessuale sia perpetrato, anche senza violenza e minaccia, con persone che al momento del fatto non avevano ancora compiuto i 14 anni. Inoltre, se la vittima ha un’età inferiore ai 10 anni la pena è maggiorata.

Stessa pena prevista dall’art. 609-bis è stabilita per chi violenta un minore che non ha ancora compiuto gli anni 16, se il colpevole è l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, o qualora ricopra comunque un ruolo di cura, educazione, istruzione, vigilanza, custodia o convivenza (art. 609-quater).

3) Interessante è poi l’art. 609-quinques (corruzione di minorenne) che stabilisce che “chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Estremamente importante è poi la Legge 269/98, che regolamenta lo squallido fenomeno della “prostituzione”, della “pornografia” e del “turismo sessuale” in danno di minori. Non la cito letteralmente in questa sede, ma la segnalo per un discorso di completezza, volendo sottolineare come la Giustizia Italiana sembri aver dato sempre più risonanza ai fenomeni criminosi che coinvolgono i minori. Un passo in avanti in questo senso credo sia stato fatto con la Legge 41/2009 che ha stabilito il 5 Maggio come la “Giornata Nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia”. Inoltre, nel Giugno del 2008 è stato proposto in Parlamento un disegno di legge specifico contro la pedofilia, che prevede sanzioni anche contro il cosiddetto “grooming” (adescamento di minori in rete) e contro la “la pedofilia culturale”, cioè tutti quegli atteggiamenti, dichiarazioni, iniziative che rientrano in una vera e propria “apologia della pedofilia”. Rispetto a quest’ultimo punto, quindi, dovremmo finalmente non sentir più parlare di Partiti e Associazioni “pro-pedofilia” e far sì che personaggi pubblici non manifestino più così apertamente le proprie inclinazioni pedofile.

Pedofilia femminile. Se il tema della pedofilia è un tema molto scottante. Il tema della pedofilia femminile lo è ancora di più. Infatti se ne parla poco, lo si conosce poco. Credo però che, soprattutto, rappresenti un tasto dolente, un fenomeno scomodo che va a sconvolgere quelle certezze razionali, sociali, culturali e soprattutto emotive che fanno da pilastri all’esistenza di ciascuno di noi. Che la pedofilia non fosse solo di tipo maschile non è certo una novità dei nostri tempi moderni. Già 2000 anni fa, infatti, Petronio descriveva nel Satyricon un gruppo di donne che applaudiva di fronte allo stupro di una bambina di sette anni. Lo stesso Sofocle ci ha donato una storia nota a tutti, che vede come protagonista Edipo diventare amante di sua madre (non propriamente pedofilia, ma comunque incesto madre/figlio). Già nel 1994 il National Opinion Research Center dimostrò come la seconda forma più diffusa di abuso sessuale su minori fosse rappresentata proprio da donne che molestano ragazzi. Nello specifico per ogni tre abusi maschili, ce ne sarebbe uno di tipo femminile (FRUET, 2008). Anche oggi i dati purtroppo parlano chiaro: l’associazione di sostegno all’infanzia Childline, che gestisce anche una linea amica per i bambini in difficoltà sottolinea come per esempio in Gran Bretagna il numero di bambini che denunciano abusi nei loro confronti compiuti da donne è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni. Secondo Childline, in questo arco di tempo il numero di denunce contro le donne è cresciuto del 132%, contro il 27% degli uomini. Solo nel 2008, 2.142 bambini hanno chiamato l’associazione per parlare di abusi pedofili agiti da donne, mentre 6.000 sono quelli che hanno accusato un uomo. Per Childline, gli abusi sessuali contro i bambini compiuti dalle donne sono ora il 25% del totale (dal sito bambinicoraggiosi.com). Di rilievo è la maxi-operazione “Smasher”, che con le sue 300 perquisizioni e gli oltre 16.ooo mila file sequestrati pedo-pornografici, ci ha dato la riprova che esiste una rete criminale che opera sul settore del sesso con i bambini, una rete criminale potente perché fonte di stratosferici guadagni. In questa operazione è emerso come nei filmati ritrovati le violenze erano efferate, ed erano commesse da uomini e anche da donne (dal sito dalpaesedeibalocchi.com). Uno studio condotto negli anni ’80 negli USA, afferma che il 20% degli abusi commessi su minori di sesso maschile e il 5% di sesso femminile, erano stati commessi da donne (dal sito tifeoweb.it). Recentemente ha sconvolto la notizia di una donna statunitense, madre di quattro figli, che ha abusato del figlio esibendosi di fronte ad una webcam e inviando poi i file a un diciottenne inglese arrestato per possesso di materiale pedopornografico. A lei la polizia è arrivata dopo che le autorità del West Midlands, in Gran Bretagna, hanno arrestato il diciottenne per possesso di materiale pedopornografico: hanno rintracciato il video e, grazie alla collaborazione con la polizia statunitense, sono risaliti all’identità della donna. Nel video la donna avrebbe abusato di uno dei suoi figli, ed è stata perciò incarcerata ed incriminata per violenza sessuale ai danni di minore: rischia almeno 20 anni di carcere (dal sito dalpaesedeibalocchi.com). Autorevoli ricerche rilevano che “ufficialmente” solo il 7% degli abusi è perpetrato da una donna, anche se poi ben il 78% dei pedofili riferisce di aver subito nell’infanzia abusi sessuali da donne, in particolare dalle madri (L. Petrone, 2005). Kaplan, (1991) sottolinea che i clinici non sono stati in grado di identificare le perversioni nelle donne, poiché implicano delle dinamiche più sottili rispetto alla sessualità più prevedibile delle perversioni maschili. Infatti, gli esperti hanno riscontrato che le parafilie maggiori più note, come il vouyerismo, il frotteurismo, il feticismo, sono riscontrabili quasi esclusivamente nei maschi; cosi come il sadismo sessuale è raramente presente nei soggetti femminili, mentre il numero dei masochisti di sesso maschile è di gran lunga più alto di quello relativo al sesso femminile. Lo stesso si può dire della pedofilia. Invece, l’unica parafilia dove i soggetti di sesso femminile sono in numero paragonabile a quelli di sesso maschile è la zoofilia. (Dal sito aquiloneblu.it). Un articolo sul sito sorelleditalia.it rileva che il 2% dei siti pedopornografici in rete, contengono fotografie e immagini dedicate a donne e un aumento vertiginoso del turismo sessuale femminile, che conferma che la sessualità delle donne è diventata più maschile. La donna che lo pratica è sui 45 anni e forse nel suo pagare un ragazzino cerca delle conferme, o qualcuno da dominare totalmente. Negli ultimi mesi sono venute alla ribalta storie di maestre di asilo pedofile. Un esempio per tutti è rappresentato dal caso Rignano Flaminio: dalle indagini sembrerebbe che fossero messi in atto abusi da parte di maestre su bambine molto piccole. Nello specifico, in questo caso le presunte donne pedofile pare facessero anche parte di una setta satanica all’interno della quale i bambini venivano abusati e torturati durante rituali in onore di Satana (C. Cerasa, 2007). Uno dei maggiori autori che si è occupato di pedofilia femminile è senza dubbio Loredana Petrone. L’autrice (2005) ritiene che <<La donna abusante è una donna che non ha ricevuto le adeguate protezioni durante la sua infanzia, e attraverso un meccanismo di coazione a ripetere, infligge ad altri le stesse ferite a cui è stata sottoposta. Dal groviglio emozionale confusionale in cui versa, riuscirà a trarne sollievo solo attraverso la reiterazione dell’atto violento>> (p. 45). Da questo punto di vista, credo che l’origine della pedofilia nella donna non si discosti molto da quella dell’uomo: nell’infanzia, invece di ricevere amore, si è stati maltrattati e questo maltrattamento verrà rimesso in atto poi da adulti su soggetti più deboli come i bambini. E’ il ben noto meccanismo del “circolo vizioso della violenza e dell’abuso”, e cioè semplicemente scaricare a valle da adulto tutto quanto subito a monte nell’infanzia. All’epoca si era totalmente impotenti di fronte allo smisurato potere dei genitori, oggi ci si vendica su chi oggi è fragile come lo si è stato in passato. E’ sostanzialmente quello che già Freud denominò il meccanismo inconscio della “coazione a ripetere”. La personalità della pedofila. Petrone (2005) individua almeno tre differenti tipologie di donne abusanti, all’interno delle quali può inserirsi o meno il comportamento pedofilo:

1) le donne violente: maltrattano pesantemente e ripetutamente il bambino, finanche a giungere ad atti di sadismo vero e proprio. Queste donne hanno alle loro spalle a loro volta una storia estremamente violenta, fatta di abusi subiti in tenera età e di un contesto familiare, sociale e culturale molto precario e deficitario.

Ciò porta queste donne a sviluppare poi da adulte dei seri disturbi psicopatologici, di solito collegati ad ansia, depressione, uso di sostanze, scarso controllo degli impulsi.

2) le donne omissive: mettono in atto delle cure parentali inadeguate nei confronti del bambino, come per esempio non nutrirlo come dovrebbero in base all’età, non curarlo o non curarlo efficacemente quando è malato. E’ in sostanza quello che viene definito “discuria”, cioè “mi prendo cura di te, ma male o solo parzialmente” ed è diverso dal concetto di “incuria”, dove il bambino davvero non è considerato minimamente nei suoi bisogni affettivi e fisiologici, “non ti considero proprio/non mi interesso a te”. Come vedremo, esiste anche l’ “ipercuria”, fenomeno per cui ci si prende eccessivamente cura del bambino, creandogli così comunque dei danni.

3) le donne vendicative: si vendicano sui propri figli del male subito nella loro infanzia. Questo meccanismo in realtà avviene anche nelle precedenti tipologie di donne, ma per lo più è un processo di tipo inconscio. Nelle donne vendicative invece, oltre sicuramente ad una quota inconscia, c’è anche una forte componente conscia, consapevole: “Ti faccio questo così come lo hanno fatto a me”. “Non ti do quest’altro perché a me non è stato dato”. E’ come se la madre, benché adulta, si mettesse alla pari con il proprio bambino, non considerandolo nella sua fragilità, sentendosi lei stessa in qualche modo ancora una bambina a cui è stato negato l’amore di cui ogni bambino ha bisogno. La donna così non riesce a percepire fino in fondo il disagio del bambino, perché è bambina anche lei, perché c’è lei stessa in primo piano, perché è impossibilitata emotivamente a dare al piccolo ciò che non è in grado di dare, non avendolo ricevuto lei per prima. Anzi, inconsciamente la donna vede nel bambino anche i genitori che l’hanno maltrattata e contro i quali ieri non poteva reagire, ma sui quali oggi invece può rifarsi. Sempre Petrone (2005) individua specificatamente una serie di “tipologie di pedofila”:

4) pedofila latente: è la donna che, pur avendo fantasie e pulsioni orientate al sesso con i bambini, da sempre le “reprime”, avendo introiettato norme e valori morali e sociali che evidentemente non prevedono queste sue inclinazioni.

5) pedofila occasionale: è una donna che tendenzialmente svolge una vita “normale” nel paese dove vive, ma che di tanto in tanto si concede un’esperienze sessuale trasgressiva in paesi con forte tasso di turismo sessuale (Cuba, Carabi, Thailandia). In questi paesi la donna pedofila può dare libero sfogo a quegli istinti che nel proprio paese di appartenenza non potrebbero in alcun modo essere soddisfatti, se non rischiando la galera. Nello specifico queste donne tendenzialmente hanno tra i 40 e i 50 anni, sono single o divorziate e il loro livello socio-culturale è medio-alto.

6) pedofila dalla personalità immatura: è una donna che non ha raggiunto un normale sviluppo affettivo adulto e riesce a relazionarsi solo con persone molto più piccole di lei, molto fragili, visto che i coetanei adulti la spaventano molto. Di solito è una pedofila “dolce”, non aggressiva, che utilizza atteggiamenti di tipo seduttivo e passivo: sfrutta la naturale curiosità del bambino per il sesso, iniziandolo al sesso prima mediante fiabe, poi con foto e video pornografici. Il suo amore per il bambino viene molto “idealizzato”, come fosse una sorta di “amore romantico perfetto”.

7) pedofila regressiva: è una donna che tendenzialmente ha raggiunto una maturità relazionale adulta, ma non ancora in modo completo. Nelle situazioni di forte stress psicologico, la donna può sentire di “non farcela” e “regredire” dunque in un comportamento “infantile” che vede se stessa, in primis, come “bambina” e rivolgendo il proprio interesse sessuale verso i bambini reali.

8) pedofila sadico-aggressiva: c’è una trasformazione dal ruolo di vittima a quello di carnefice. La donna che ha subito gravi abusi nell’infanzia, può ora “vendicarsi” sui più deboli così come in passato quelli più forti hanno fatto con lei. E’ sempre evidente una fortissima componente “antisociale”, per cui il bambino non è minimamente visto nella sua persona, ma semplicemente come oggetto su cui scaricare rabbia e angoscia rimosse nel passato.

9) pedofila omosex: vede nella bambina la bambina che è stata lei, non amata dalla propria madre. Il sesso diventerebbe così un modo per entrare in contatto profondo con il proprio Sé-bambino, per amarlo e proteggerlo come avrebbe voluto fosse stato fatto in passato dalle sue figure di accudimento. Come per la pedofilia maschile, anche la pedofilia femminile può esprimersi in svariate forme:

1) Pedofilia intrafamiliare: gli abusi vengono perpetrati tra le mura domestiche, proprio lì dove il bambino dovrebbe essere più al sicuro, protetto dai pericoli e dai nemici esterni che, invece, sono interni. E’ la forma di pedofilia più diffusa e quella che reca i danni maggiori alla vittima: il bambino, infatti, vede il proprio linguaggio, quello della tenerezza, che usa per comunicare con i genitori, venire “frainteso” da questi e interpretato erroneamente come un linguaggio sessuale, passionale, adulto. Dunque alla “richiesta affettiva infantile” del bambino si risponde con una “risposta sessuale adulta” (Ferenczi, S., 1933). Bonfiglio e Vergenelli (1993) identificano alcune caratteristiche della donna pedofila che mette in atto il suo comportamento all’interno del proprio contesto familiare:

- età media intorno ai 25 anni;

- matrimonio precoce e conflittuale, contratto per esempio per fuggire dalla famiglia di origine;

- presenza di patologia ostetrica o di precedenti aborti;

- patologia psichiatrica;

- abusi subiti in tenera età;

- basso livello socio-economico;

- alcolismo/tossicodipendenza.

2) Pedofilia extrafamiliare: il comportamento pedofilo è messo in atto al di fuori del proprio contesto familiare. Questo può avvenire semplicemente in luoghi fuori dalla famiglia ma comunque “vicini”, come a scuola, in chiesa, a casa di parenti e amici. Non mancano in questo senso notizie diffuse dai media.

3) Turismo sessuale: oggi, l’età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12 sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e l’appagamento materno (psicoterapie.org). Differenti sono le mete e rispetto a quanto riportato dall’indagine di alcuni anni fa di Panorama, si evidenzia come il mercato si sia adeguato anche alle richieste delle donne pedofile. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e, per le destinazioni più lontane, la Giamaica e il Brasile. La Thailandia, invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. A Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d’amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata. Più recentemente arriviamo al turismo sessuale femminile in Sri Lanka. Dalla testimonianza di volontari del posto, si apprende che le “turiste” arrivano portandosi da casa ormoni e droghe da somministrare a bambini dai 6 agli 11 anni, per consentire fisicamente l’atto sessuale (psicoterapie.org). Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale per ottenere l’erezione avviene tramite l’iniezione degli ormoni nei testicoli: questo causa l’abnorme ingrossamento dell’organo sessuale del bambino che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni e i danni spesso sono letali (repubblica.it).Negli ultimi anni sembra esserci stato un incremento esponenziale dei casi di pedofilia al femminile e tale fenomeno è particolarmente accentuato e ben visibile negli Stati Uniti. L’aumento della casistica di questo tipo di crimine confermato dalla cronaca nazionale e internazionale, non è dovuto ad un effettivo incremento del fenomeno, quanto piuttosto ad un’accresciuta sensibilità verso di esso, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della società. Quello che differenzia la pedofilia femminile odierna da quella del passato è la sua espressione manifesta, la sua patologica volontà di uscire allo scoperto, quasi per voler rivendicare un posto accanto a quella maschile. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Ecco allora che debuttano, le prime donne indagate per pedofilia, i primi arresti, le turiste sessuali, la scoperta dei primi siti internet per donne pedofile. Pensiamo per esempio, che se all’inizio del 2004 le associazioni femminili pedofile che agivano su internet erano 5, solo nel 2007 siamo arrivati a 36, come riportato dall’associazione Meter, che da anni si occupa del fenomeno pedofilia (M. Valcarenghi, 2007). In Thailandia questi poveri bambini, vittime del turismo sessuale, per il 50% hanno contratto l’HIV e, non appena i sintomi della malattia si affacciano, vengono uccisi senza lasciare traccia (Petrone, 2005).

La pre-pedofilia. Petrone (2005) sottolinea inoltre un aspetto a mio avviso molto importante e cioè il concetto di “pre-pedofilia”. Tale termine indica quella sottile, complessa e perversa dinamica che ha vita quando la donna/madre non mette lei stessa in atto comportamenti pedofili nei confronti del figlio, ma rimane comunque “complice” di quegli altri individui che invece abusano davvero del bambino. E’ un fenomeno che rientra nel più generale concetto che lo psicoterapeuta Andrea Vitale (2008) definisce “coazione a veder ripetuto”: “non sono io a farti del male come già altri in passato lo fecero a me, ma lo lascio fare ad altri al posto mio, potendo comunque così io godere della mia spinta inconscia a rifarmi su terzi del male subito”. E’ come il meccanismo della coazione a ripetere, solo “filtrato” dalla presenza attiva di un’altra persona che, come dire, fa per interposta persona il lavoro sporco al posto di un altro. “Il suo “far finta di non vedere” è una ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarli e tutelarli. Il tradimento avviene su tutti i fronti e le piccole coscienze distrutte e i piccoli corpi martoriati vengono lasciati soli a se stessi. Queste donne, che se pure non hanno agito direttamente l’abuso, si sono macchiate dello stesso crimine perché, proprio come il loro compagno, non hanno considerato i bambini persone, li hanno ostacolati e menomati nello sviluppo fisico e psichico, li hanno piegati alle proprie ingiustificate e insane esigenze” (L. Petrone, 2005, p. 54). Il fenomeno della pre-pedofilia da parte della figura materna, si può verificare perché il compagno è un pedofilo e l’amore e la dipendenza patologica nei confronti del partner, la porta a seguire le inclinazioni di quest’ultimo. Pensiamo alla compagna del “mostro di Marcinelle”, che lo seguiva assecondando i suoi agiti o al caso, più recente, di questi giorni in Austria, dove un padre ha relegato la figlia per anni nello scantinato di casa, ha avuto da lei sette figli che ha poi cresciuto con la moglie, ossia la madre della ragazza. In moltissimi casi di incesto infatti, oggi come ieri, vi è una madre a dir poco assente, non attenta alla sua realtà familiare, non in grado né di essere moglie né di essere mamma (M. Malacrea, A. Vassalli 1990). È proprio il fallimento come donna e come madre, la paura di perdere il partner, a essere alla base del comportamento complice. Avviene infatti che la madre sappia dell’abuso, ma non faccia niente per impedirlo; anzi, se la figlia le rivela l’accaduto, l’accusa di mentire, di essersi inventata tutto, facendo sì che il marito continui a perpetrare l’incesto. Spesso la moglie vede nel marito una perdita di interesse nei propri confronti e, per non essere abbandonata, “suggerisce” in modo più o meno inconscio una relazione “sostitutiva” con la figlia. Molto spesso, infatti, i figli diventano oggetto di attenzioni sessuali nel momento in cui la madre non riesce più a svolgere il suo “ruolo sessuale” all’interno della coppia genitoriale (G. Mandorla, 2005). La pre-pedofilia ha manifestazioni differenti: può essere sottile, più silente e mascherata, come nelle famiglie incestuose, oppure essere più evidente, più ostentata, come nel caso di madri che “spingono” i figli in relazioni con altri abusanti, che addirittura “vendono” le prestazioni dei loro figli o che partecipano attivamente a giochi sessuali perversi con questi. Come ben descritto da Caputo (1997), la madre, di fronte ad un abuso subito dal figlio da parte del marito, può reagire come una:

1) madre complice: può variare da atteggiamenti ambigui (“complicità inconscia”) per cui la donna non è consapevole del fatto che una parte di sé è “favorevole” a che l’abusi si verifichi ed essere mossa da un’incontrollata pulsione a fare in modo che la “fatalità” dell’incesto si avveri, fino al vero e proprio aiuto fisico al coniuge che usa violenza alla figlia (“collusione manifesta”). L’inesistenza di relazione materna nei confronti della figlia ed affettiva nei confronti del marito; proprio questo atteggiamento può indurre talvolta il marito a dedicare morbosa attenzione alla figlia.

2) madre assente: è la madre che non è riuscita a stabilire un rapporto sano, autentico, di fiducia con i propri figli. Di fronte all’abuso del figlio non si sente “toccata” più di tanto, non si sente “emotivamente coinvolta” come figura di protezione e di responsabilità nei suoi confronti.

Secondo Petrone (2005) è possibile classificare varie tipologie anche di donna pre-pedofila:

1) la madre che collude: è la massima espressione della donna pre-pedofila. La madre, inconsciamente ma anche consapevolmente, sacrifica, o per meglio dire “dà in pasto” a pedofili conclamati il proprio bambino, soddisfacendo così il proprio bisogno di aggredire e umiliare l’altro rimanendo però in ombra, in una posizione “passiva”.

2) la donna che dipende: ha una personalità estremamente fragile. Non è dunque in grado di svolgere il proprio ruolo biologico di protettrice dei piccoli e non ha alcun potere all’interno della famiglia, ma è subordinata totalmente alla figura del partner.

3) la donna vittima: è sempre il discorso del circolo vizioso dell’abuso, per cui queste donne, come dimostrano molti studi, sono state in passato a loro volta vittime di abusi sessuali. In questo caso, oltre alla motivazione inconscia a rifarsi su terzi del male subito nell’infanzia, la donna mette in atto i ben noti meccanismi di difesa della negazione, della rimozione e della repressione, per cui le emozioni devastanti legati all’incesto messo in atto da un altro familiare vengono non riconosciute e dunque in qualche modo cancellate. La madre diventa allora ella stessa la piccola bambina di un tempo, che rimane inerme di fronte alle violenze agite da altri più forti. Gli studi di Everson (1997) rilevano che solo il 40% delle madri delle vittime si schiera dalla parte di queste una volta venute a conoscenza dell’abuso. L’autore, inoltre, divide le madri in base alle loro “reazioni” di fronte all’abuso dei figli da parte di un altro familiare:

4) la madre molto protettiva: crede al racconto del figlio, si schiera dalla sua parte, lo difende. Decide così di troncare il rapporto di coppia con il marito, già di per sé ormai deficitario e di scegliere il bene del figlio. Chiaramente una reazione materna del genere è per il figlio abusato una grande risorsa.

5) la madre poco protettiva: è rappresentata da quella donna che per suoi limiti personali non si accorge di fatto o non si vuole accorgere degli abusi che il figlio subisce dal marito. E’in questo senso totalmente assente nei confronti del figlio. In passato h anche lei dovuto subir maltrattamenti fisici o sessuali e, come era impotente allora nei confronti di chi le faceva del male, lo è ora nei confronti di chi fa male alla sua prole.

6) la madre ambivalente: la donna si accorge dell’abuso, in qualche modo ci soffre, vorrebbe intervenire, ma poi di fatto è combattuta. Riconosce il male, ma in qualche modo cerca anche di “minimizzarlo”, per limiti personali, ma anche per paura di ripercussioni sul rapporto di coppia e sull’ “immagine” della famiglia. La soluzione ideale a questo suo conflitto sarebbe che l’abuso si interrompesse da sé. Ritengo opportuno a questo punto fare un piccolo inciso personale su quanto emerso fin qui rispetto alle varie tipologie di donne pedofile. In primo luogo vorrei sottolineare come, indipendentemente dalle differenti tipologie di donne maltrattanti o pedofile, in realtà le differenze non sono così nette, ma più che altro sfumate e graduali tra una tipologia e l’altra. Sfumature differenti si hanno a livello “fenomenologico”, cioè rispetto al “come” si esprime e si traduce la spinta pedofila, ma rispetto al “perché” e quindi alla sua “origine”, le differenze vanno di fatto a livellarsi. Infatti alla base del nucleo inconscio profondo di queste donne ci sono sempre e comunque almeno due spinte emotive di base molto potenti: la paura per quello che hanno subito nel loro passato e la rabbia verso quei carnefici, che però oggi spostano su terzi che non hanno alcuna responsabilità dei traumi subiti. Questo significa che anche la madre vittima ha una rabbia inconscia come ce l’ha la madre che collude, ma evidentemente in misura minore, per cui sulla rabbia (comunque presente) prevale la paura. Allo stesso modo, al di sotto della rabbia inconscia della madre che collude, c’è comunque sempre presente un forte sentimento di paura. Questo senza togliere valore al fondamentale concetto di “sovradeterminazione”, per cui come per ogni altro comportamento umano complesso possono coesistere più motivazioni consce e inconsce che si organizzano in base ad una gerarchia di motivazioni. Questo significa che, per esempio, la paura e la rabbia di cui sopra come abbiamo visto possono avere minore o maggiore rilevanza l’una sull’altra. Inoltre, oltre a queste due emozioni di base, potrebbe essere determinante nel comportamento pedofilo anche una componente legata per esempio alla “trasgressione”: la pedofilia viene a rappresentare in questo senso “anche” (e sottolineo “anche” perché di certo non si diventa pedofili per puro spirito di ribellione o trasgressione) un modo per andare contro i normali valori di una famiglia o di una società vissuta come ostile. Oppure ancora, il rapporto sessuale con un minore potrebbe essere l’unico possibile e appagante per l’individuo, magari in seguito a ripetuti fallimenti con adulti dell’altro o dello stesso sesso. In questo modo il soggetto potrebbe andare così a soddisfare “anche” il suo bisogno di sentirsi uomo o donna, sessualmente attivi e capaci. In secondo luogo, credo che più che di pre-pedofilia, si possa meglio parlare di “para-pedofilia” o “atteggiamento simil-pedofilo” (Quattrini F., Costantini A., 2011). Il suffisso “pre”, rimanda secondo me troppo ad una fase che inevitabilmente “precede” una pedofilia conclamata (come avviene solitamente in ambito psichiatrico). Questo è effettivamente vero, perché immagino possa accadere che una donna cominci la sua “carriera pedofila” come pre-pedofila per poi divenire una pedofila vera e propria. Più in generale, però, credo che la pre-pedofilia sia già di per sé uno stato (se non addirittura un tratto di personalità, così come avviene per i tratti di personalità comuni nei pedofili) che può rimanere tale per periodi di tempo molto lunghi se non addirittura per sempre. Comunque anche parlare di pre-pedofilia rimanda ad un qualcosa “che si ferma un attimo prima di” diventare qualcos’altro di diverso e ben definito ed in questo senso trovo comunque valido l’uso del termine. Più in generale, credo che questo aspetto in particolare della pedofilia femminile sia di fatto l’unica vera grande differenza con la pedofilia maschile. Il pedofilo uomo infatti, benché non necessariamente debba essere uno spietato assassino seriale di bambini come nel ben noto caso del “Mostro di Marcinelle”, nella stragrande maggioranza dei casi ricopre un ruolo molto attivo in quella che è la relazione pedofila con il bambino. Questo sia nella fase dell’adescamento e del corteggiamento, sia nella fase della molestia o violenza fisica vera e propria. Difficilmente si riesce ad immaginare un pedofilo che attui la sua perversione per interposta persona, come avviene per le donne pedofile, ancor meno lo si riesce ad immaginare “complice passivo” di una donna pedofila attiva. Questa “variante” potrebbe anche verificarsi in teoria, ma dagli studi e ricerche del settore non sembrano provenire dati rilevanti. Anche dai mass-media non sono mai arrivate notizie del genere.

Altre espressioni della pedofilia femminile. Oltre alla pedofilia femminile intrafamiliare, a quella extrafamiliare e a quella legata al turismo sessuale, altre forme di pedofilia al femminile sono rappresentate dalla pedofilia on-line, dalla pedofilia legata al satanismo e dalla pedofilia nell’ambito dell’handicap. Per quanto riguarda la “pedofilia on-line” sono da menzionare alcuni dati (Petrone, 2005):

1) Gli U.S.A. detengono il primato dei server provider con immagini di minori. Segue al secondo posto il Giappone, poi i paesi dell’Est e infine l’Europa.

2) La pedo-pornografia crea un giro economico immenso: il prezzo delle fotografie in reta va dai 30 ai 130 euro; i cd con i cataloghi dei bambini offerti vanno dai 78 ai 130 euro; i filmati, quelli più richiesti, dai 260 euro in su, ma vengono venduti anche a cifre molto elevate se si tratta si scene violente (snuff-movie).

3) in tutto il mondo sono circa 29.000 i siti pedofili denunciati e oscurati dalle polizie internazionali.

4) su internet circolano almeno 12 milioni di immagini di pedo-pornografia, mentre i bambini coinvolti sono circa 2 milioni e mezzo.

5) il 7°% delle immagini in rete riguarda bambini tra i 4 e gli 8 anni e non vengono risparmiati nemmeno i neonati.

6) nel 1989 per la prima volta circolano in rete immagini pedo-pornografiche.

7) nel 2003 la prima scoperta ufficiale di 5 siti internet per donne pedofile.

Per quanto concerne la “pedofilia nei culti satanici”, bisogna sottolineare come il sesso sia considerato uno strumento fondamentale per entrare in contatto con il Maligno. Alcuni sono gli aspetti da sottolineare di questo raccapricciante fenomeno:

a) alta percentuale di donne che abusano di bambini, spesso le stesse madri. Rivestono frequentemente il ruolo di “sacerdotesse”;

b) età delle vittime tra gli 0 e i 6 anni;

c) rituali sessuali sempre accompagnati da torture fisiche di vario genere;

d) abusi “di gruppo” sul singolo bambino;

Purtroppo neanche il già di per sé complicato mondo della “disabilità” viene risparmiato dai pedofili:

a) i bambini con handicap sembrano essere più abusati di quelli normodotati. Su un campione di 445 bambini portatori di handicap, l’incidenza dell’abuso sessuale è del 15% contro il 2% del gruppo di controllo rappresentato da bambini senza handicap.

b) i soggetti con un livello “lieve” o “moderato” di disabilità sono maggiormente colpiti, rispetto a quelli con una disabilità più severa.

c) nel 44% dei casi gli abusanti sono i familiari, nel 33% gli operatori sanitari e nel 22% gli estranei.

d) i disabili “psichici” sono quelli maggiormente colpiti (56%), quelli con disabilità “multipla” rappresentano il 17% e quelli con disabilità “fisica” l’11%.

e) le denunce sono estremamente rare, visto che il bambino disabile difficilmente riesce a comprendere quello che gli viene fatto e spesso ha comunque enormi difficoltà nel comunicare e nel relazionarsi con gli altri.

Già di per sé la disabilità è una di quelle condizioni predisponenti la vittima ad essere abusata, a causa del disagio e dello stress che può causare in chi si occupa di questa e che, quasi in una sorta di “vendetta”, si rifà su di lei abusandone. In molti casi, la pedofilia femminile nei confronti di soggetti con handicap assume una connotazione del tutto particolare. Molte madri, per “accontentare” il figlio disabile e dunque per permettergli di scaricare le sue normali pulsioni sessuali lo masturbano o hanno rapporti sessuali con lui, giustificando il loro comportamento come fatto “per il bene del figlio”, dal momento che se non fosse per loro, nessuno desidererebbe mai avere un contatto intimo con quello che con disprezzo alcuni chiamano “un errore della natura”. Credo che anche in questo caso la motivazione di fondo dell’adulto non sia l’amore per il figlio, ma sempre una spinta “mascherata” allo sfruttamento fisico del figlio.

Le due pedofilie: pedofilia femminile vs pedofilia maschile. Come accennato in precedenza, credo che la pedofilia femminile sostanzialmente non si discosti poi moltissimo da quella maschile: le cause sono praticamente le stesse, le caratteristiche di personalità sono molto simili e così anche le storie di vita. Anche alcune espressioni delle due pedofilie sembrano essere comuni, come la pedo-pornografia, il turismo sessuale, il verificarsi di abusi incestuosi o al di fuori della famiglia. Cosa cambia allora e quali sono le differenze tra le due forme di pedofilia? Da quanto emerge dai contributi dei vari autori fin qui citati, le differenze sostanziali sembrerebbero riguardare:

1) è molto meno frequente, per un discorso “biologico” e “culturale” che vuole la donna più “passiva e morbida” rispetto ad un uomo più “attivo e duro”. E’ anche vero, però, che una buona fetta di pedofilia è indubbiamente “sommersa”, perché come abbiamo visto è più difficile da scoprire, perché più mascherata e sicuramente meno investigata rispetto a quella maschile.

2) la “pre-pedofilia. E’ il complesso fenomeno a cui ho dedicato un paragrafo a parte e che sembra essere una prerogativa della pedofilia maschile. Difficilmente si conosce o si riesce ad immaginare un pre-pedofilo uomo: un marito che non abusa direttamente dei propri figli, ma lo lascia fare in modo “passivo”, “indiretto” e più o meno “inconsciamente” a sua moglie. Potrebbero anche verificarsi situazioni del genere (e sicuramente da qualche parte nel mondo già si verificano), ma rappresenterebbero comunque davvero un evento molto raro, ben più raro della pedofilia femminile stessa.

3) a differenza dell’uomo, che per sua natura e per un discorso culturale trascorre ben poco tempo con il proprio bambino, la donna, in quanto madre, trascorre invece con lui gran parte (nei primi anni 24 ore su 24) della giornata. In particolare, la donna si occupa molto anche della cura “fisica” del bambino, cosa che il padre tendenzialmente non fa. Ecco allora che la pedofilia trova molteplici “mascheramenti” per potersi esprimere. Secondo Estela Welldon (1988), la perversione femminile più che attraverso la sessualità, passa attraverso la maternità e attraverso le pervasive strategie di manipolazione del figlio. La madre, infatti, può agire atti sessuali nei confronti del proprio bambino attraverso per esempio “bidet prolungati”, “bagnetti” frequenti in cui le mani della madre esitano più a lungo del dovuto sui genitali del bambino, dormire insieme nel letto matrimoniale o fare insieme il bagno nudi (entrambe queste ultime due situazioni sono, a mio avviso, ben rappresentate nel film “Il silenzio” di I. Bergman). L’uomo pedofilo difficilmente può utilizzare questo camuffamento per molestare un bambino.

4) benché anche la donna pedofila possa essere violenta con il bambino e benché, viceversa, anche il pedofilo maschio possa essere “dolce” nel suo approccio con il bambino, tendenzialmente la pedofila non ricorre alla violenza, mentre il pedofilo non di rado lo fa.

5) a differenza dell’uomo, la donna conosce bene la “psiche infantile” e sa meglio di lui come relazionarsi al bambino. Ha per natura una maggiore capacità di empatizzare con lui, di stimolare la sua curiosità, di ispirargli fiducia. In questo senso la donna riesce meglio nel suo intento pedofilo E’un estremo abuso di potere, perché una madre nei confronti del figlio ha un potere pressoché totale, più di quello che può avere lo stesso padre. La madre è come un “dio maligno” che può togliere e può dare a suo piacimento.

6) in virtù di quanto emerso fin qui, è chiaro che un’altra differenza con la pedofilia maschile riguarda i “danni”, le conseguenze psicologiche sul bambino dovute agli abusi. I danni di un abuso “al femminile” sono sicuramente maggiori, perché la mente del bambino non riesce a comprendere come la persona che lo ha messo al mondo e grazie alla quale rimane in vita sia la stessa che gli fa del male. Questo avviene anche se l’abuso è mascherato, il bambino in qualche modo recepisce dei messaggi negativi, ambigui, confusi dalla propria madre. Come sostiene Caputo (1997), molto spesso l’inevitabile conseguenza per un individuo che sia stato abusato dalla propria madre è la “psicosi”, mentre un abuso “maschile”, per quanto terribile, potrebbe essere più facilmente elaborato. Questo sembra essere confermato anche da una ricerca svolta dalla psicologa Daniela Tortolani dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che ha rilevato come su un campione di 250 bambini psicotici abusati, le madri rappresentino circa l’11% degli abusanti, al terzo posto dopo padri e conviventi (tratto da Caputo, 1997). Anche un abuso maschile può portare alla psicosi, ma è difficile che un bambino non psicotico abusato sia stato abusato da una donna. L’abuso femminile conduce quasi inevitabilmente alla psicosi. Il bambino, infatti, vive per i primi tre anni un “periodo critico” denominato la Lorenz (1949) “imprinting”, in cui il cervello del piccolo è in formazione e si formerà proprio in base agli stimoli ambientali che riceverà da chi si prende cura di lui. La madre è la persona a cui il bambino si “attacca” di più e il vedere in lei il duplice volto del bene e del male, di chi lo ama e di chi lo uccide, crea in lui il processo psicopatologico del “doppio imprinting” (Vitale, 2008), quando cioè il carnefice e il salvatore coincidono con la stessa persona. In questo caso il cervello va in “tilt”, c’è solo confusione, ci si ammala gravemente.

7) infine, anche le leggi dei vari paesi del mondo sembrano in qualche modo, a parità di reato, “punire meno” la pedofila del pedofilo. Anche questo credo sia legato ad un discorso più che altro culturale: la donna, la “mamma” in particolare non può mai essere davvero “cattiva” fino in fondo, non come può esserlo un uomo, un padre. Se così fosse, sarebbe duro da accettare e la Giustizia di tutto il mondo si dovrebbe, non senza difficoltà, regolare di conseguenza…Ripeto, è solamente una questione culturale, perché il comportamento pedofilo femminile è lo stesso e i danni inferti al bambino non solo sono gli stessi di quelli inferti dagli uomini ma, anzi, sono addirittura peggiori.

La famiglia incestuosa. Come sostiene M. Valcarenghi (2007) “la pedofilia incestuosa viola allo stesso tempo due tabù della nostra società civile: l’interesse sessuale verso i bambini e quello verso i consanguinei”. Da un’importante ricerca del Censis relativa al 1984 è emerso che ben l’85% delle denunce di pedofilia riguardavano incesti (M. Valcarenghi, 2007). Solo in Italia si verificano circa 2000 casi di incesto ogni anno (Caputo, I., 1997). Orfanelli e Orfanelli (2007) sottolineano come oltre il 90% degli abusi sessuali su minori avviene all’interno della famiglia. Secondo gli autori in questi casi è preferibile parlare di “incesto”: qualsiasi forma di rapporto sessuale tra un minore e un adulto che svolge nei suoi confronti una funzione parentale. Si tratta di incesto, quindi, anche in presenza di genitori affidatari, tutori, parenti, amici stretti della famiglia. Si rimarca così, a mio avviso, come il comportamento pedofilo incestuoso sia ancor più grave di quello che avviene al di fuori della famiglia, visto che i carnefici sono proprio coloro i quali si dovrebbero prendere cura del bambino. Come dire che “il nemico è in casa e non fuori”. Questi stessi autori rilevano come la forma di incesto più diffusa da sempre sia quella tra padre e figlia, ma si conoscono anche quelle tra madre e figlio e tra madre e figlia. Comportamenti questi ultimi ritenuti i più gravi dal punto di vista delle conseguenze psicologiche delle vittime. “Tutti gli esperti di child abuse sono concordi nel ritenere che una figlia, sia pure a costo di grandissime sofferenze e a patto di ricevere un aiuto terapeutico, può superare il trauma di una relazione con il proprio padre, mentre l’incesto consumato con la madre crea quasi inevitabilmente uno psicotico” (Caputo, I., 1997, p. 203). Miriam Johnson, nel suo famoso libro “Madri forti, mogli deboli” (1988) si è occupata molto della donna, del suo essere madre e moglie allo stesso tempo, sottolineando come nelle famiglie incestuose ci sia tendenzialmente una “madre” che non è riconosciuta fino in fondo come “moglie dal marito” che, anche per questo, tende a instaurare una relazione di coppia perversa con la figlia. Questo è quello che succede, continua l’autrice, nella stragrande maggioranza dei casi, ma non sono infrequenti anche rapporti incestuosi tra madre e figlio. Anzi, secondo l’autrice “se consideriamo il tabù, piuttosto che la persona che lo infrange, ci rendiamo conto che, a causa del dominio maschile, il vero tabù riguarda l’incesto tra madre e figlio. […] il sacrificio viene imposto al bambino maschio, che deve rinunciare al suo legame con la madre. La figlia non deve rinunciare così chiaramente al padre; dato che, dopo tutto, deve diventare una moglie e accettare il controllo del marito, il tabù è meno forte” (p. 229). Nel 1982 Jean Goodwin presentò degli importanti risultati di una ricerca proprio sugli abusi sessuali e non di madri sui loro figli, in cui si chiedeva ad un gruppo di 100 madri maltrattanti se prima dei 18 anni avessero subito abusi sessuali. Il gruppo di controllo era rappresentato da 500 donne normali della stessa comunità. Da questi risultati emerse che:

a) il 27% delle madri abusanti/maltrattanti aveva subito in passato relazioni incestuose, contro solamente il 3% del gruppo di controllo.

b) l’esperienza di incesto non era più frequente nelle madri che abusavano sessualmente dei figli, ma ugualmente frequente anche nelle madri che maltrattavano i figli ad un livello non sessuale.

Questi risultati sottolineano ancora il circolo vizioso dell’abuso e dell’incesto: madri che da bambine o adolescenti sono state abusate in famiglia, tenderanno a loro volta reiterare l’abuso subito sui propri figli, maltrattandoli a livello fisico, psicologico e, in alcuni casi estremi, sessuale (tratto da, Oliverio Ferraris, 1999).

Questa è la “forma” dell’abuso intrafamiliare, ma andiamo a vedere questa famiglia che caratteristiche ha per renderla candidata ideale per il compimento di abusi al suo interno. Di solito la famiglia incestuosa è una famiglia dove i confini tra la generazione adulta dei genitori e quella più giovane dei figli sono o molto labili, per non dire inesistenti, oppure, al contrario, sono estremamente rigidi. Malagoli Togliatti (2002) nel primo caso si parla di confini “diffusi” e di famiglie cosiddette “invischiate”, dove “tutti sanno tutto e […] un’emozione di un singolo è vissuta dall’intero sistema familiare, in quanto non sembrano esserci differenze” (p. 43). Nel secondo caso l’autrice parla di famiglie con confini rigidi, dove i sottosistemi genitori e figli sono talmente distanti a livello di interazione, che lo scambio comunicativo sia di informazioni sia di emozioni diventa impossibile. Si tratta delle famiglie cosiddette “disimpegnate”. E’ evidente come in entrambi i sopra citati casi le relazioni familiari siano fortemente deficitarie e prestino il fianco a situazioni di rischio soprattutto per lo sviluppo dei figli che, a differenza dei genitori ormai adulti, devono ancora, proprio all’interno della loro famiglia, crescere e formarsi come persone. Non necessariamente in una famiglia invischiata o disimpegnata si svilupperà tout court un incesto. Certo è che moltissimi studi dimostrano come in un clima del genere le relazioni familiari siano altamente disfunzionali: in entrambi i casi infatti a rimetterci sono tendenzialmente i figli. Figli che vengono considerati “oggetti personali” dei genitori, di cui fare utilizzo in ogni modo e ogniqualvolta se ne abbia la necessità, come se fossero “prolungamenti”, “estensioni” dell’adulto e non persone distinte (famiglie invischiate). Oppure i figli sono tenuti a debita distanza, soprattutto emotiva e il rapporto con loro è molto freddo, rigido, autoritario: anche in questo caso i figli non vengono considerati nei loro affetti, nei loro bisogni, nelle loro fragilità. In un contesto così disfunzionale spesso si riscontra un terreno fertile per l’instaurarsi di relazioni incestuose e quindi abusanti. Diversi autori (per es. Petrone L., Rialti, S., 2000) sottolineano come spesso l’incesto si verifiche all’interno di famiglie con genitori molto giovani (circa 25 anni): sono “famiglie premature” in cui il matrimonio precoce è un matrimonio di fuga da conflitti personali e con la famiglia di origine e che si ripercuotono poi sui figli attraverso un generale atteggiamento di scarsa empatia, di scarsa pazienza, dell’uso frequente di punizioni fisiche sul bambino. Un altro modello che va ad indagare ancor più nello specifico le dinamiche familiari è quello “circonflesso” di Olson (1983): il funzionamento familiare si svolge attraverso tre dimensioni, coesione, adattabilità, comunicazione. Per coesione si intende la vicinanza o la lontananza emotiva e psicologica tra i vari membri della famiglia. Per adattabilità si intende invece la capacità dei membri di modificarsi e di modificare l’intera struttura familiare in base agli eventi che si presentano e quindi di affrontare e superare i cosiddetti “compiti di sviluppo” (Malagoli Togliatti, 2002). Infine, per comunicazione l’autore intende la capacità dei membri di comunicare informazioni ed emozioni ed è quindi un aspetto rilevante della plasticità e dinamicità della famiglia. E’ evidente come una famiglia sarà tanto più funzionale quanto più il livello delle tre dimensioni si attesta a livelli medi, in un normale equilibrio strutturale. In base al posto che una famiglia occupa all’interno delle tre dimensioni e alla interazione tra queste, si parlerà di famiglie “estreme”, “bilanciate” e “intermedie”. Le ultime due rappresentano situazioni dove i membri sono coesi, ma allo stesso tempo differenziati e dove persistono buona flessibilità e comunicazione. Sono famiglie funzionali senza alcun spunto patologico. Le famiglie estreme invece sono altamente disfunzionali perché combinano bassa/alta coesione con bassa/alta adattabilità. Olson ne parla per questo come di “famiglie con emergenze sintomatiche”. Dall’incrocio di tali modelli estremi, scaturiscono una serie di possibili tipologie familiari altamente patologiche: “caotica-disimpegnata”, “rigida- disimpegnata”, “caotica-invischiata”, “rigida-invischiata” (tratto da Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2002). Da questa breve disamina delle varie dinamiche familiari, si evince facilmente come sfaccettate ed estremamente complesse possano essere le “chine scivolose” (Gabbard, 1995) all’interno di un contesto familiare che potenzialmente portano poi ad una condizione di abuso e di violazioni.

La sindrome di Munchausen per procura. Tra le varie forme di abuso perpetrate, ce ne è una che sembra essere in qualche modo una prerogativa della figura femminile, nello specifico di quella materna. Stiamo parlando della “Sindrome di Munchausen per procura”, una delle forme di “ipercura” più gravi: la madre simula nel figlio segni e sintomi di una qualche malattia e lo sottopone in modo “delirante” a visite, cure, interventi sanitari, costringendolo in alcuni casi anche a viaggi internazionali, tanto che Montecchi (2005) parla in questo caso di un vero e proprio “turismo sanitario”. Questo crea nel bambino una situazione di forte stress psicologico, di ansia, di paura. Allo stesso tempo, poi, il bambino ha ripercussioni anche a livello fisico, come conseguenza inevitabile dei continui controlli e ricoveri. E’un disturbo molto serio, che il DSM IV TR (2000) colloca tra i “disturbi fittizi” e che molti autori sono concordi nell’inquadrarlo in un contesto clinico di tipo “psicotico”. Esiste anche la Sindrome di Munchausen (non “per procura”), in cui l’individuo simula su se stesso i sintomi di una malattia per poter ricoprire costantemente il ruolo di “malato” ed essere quindi “curato”. E’un modo evidentemente di utilizzare il “corpo” per manifestare un disagio che è invece di natura fortemente “emotiva”. La sindrome di Munchausen per procura diventa, allora, una sorta di “utilizzo” del corpo dell’altro per soddisfare bisogni emotivi personali. La sindrome di Munchausen prende il nome dal personaggio letterario del Barone di Munchausen, che era noto per le sue storie “fantastiche” accompagnate da viaggi incredibili. La sindrome di Munchausen per procura è anche chiamata “Sindrome di Polle”, dal nome del figlio del Barone. La madre, chiaramente, non desidera “consciamente” danneggiare il proprio bambino, ma “inconsciamente” trasmette su di lui le proprie paure legate alla propria storia di vita. Questo atteggiamento permette alla madre da una parte di scaricare in qualche modo sul figlio la sua aggressività (il bambino, infatti, subisce un forte stress) per cure parentali inadeguate ricevute nella propria infanzia, dall’altra soddisfa il suo bisogno “narcisistico” di sentirsi fondamentale nel “prendersi cura” dell’altro: “senza di me mio figlio sarebbe spacciato, per fortuna che io me ne occupo e lo curo”. Montecchi (2005) individua altre forme di ipercura molto simili alla sindrome di Munchausen per procura:

1) sindrome psicopatologica per procura: tipica di madri “psicologhe” o che svolgono un lavoro “psicologizzato”. Ogni segnale di natura emotiva manifestato dal figlio, viene letto in termini “psicopatologici” per cui frequenti diventano controlli e visite da esperti del settore.

2) pseudo-abuso sessuale per procura: madri che spesso hanno subito nell’infanzia abusi o molestie sessuali, si convincono che il proprio figlio abbia subito abusi sessuali e lo sottopongono a ripetute perizie mediche e psicologiche.

3) sindrome da indennizzo per procura: nel caso di un infortunio del bambino, i genitori descrivono “per lui” una serie di sintomi a cui il bambino si adegua fino a quando non viene indennizzato.

4) chemical abuse: abuso di sostanze chimiche come farmaci, ma anche sostanze innocue come acqua o sale, che il genitore somministra al bambino in dosi eccessive creando danni alla sua salute fisica e psichica. Questo nella errata convinzione che il figlio sia malato.

5) medical shopping per procura: preoccupazione eccessiva per la salute del bambino, che spinge i genitori a consultare continuamente i medici, senza mai però riuscire a rassicurarsi definitivamente. Rappresenta una sorta di “ipocondria per procura” ed è dunque appartenente all’area delle nevrosi d’ansia e fobiche.

Petrone (2005) individua anche il cosiddetto fenomeno dell’Help seekers, in cui la madre si comporta nei confronti del figlio come avviene per la Sindrome di Munchausen per procura, ma con la differenza che la durata del suo comportamento è circoscritta nel tempo e rappresenta un bisogno della madre in un periodo particolarmente difficile della sua vita.

Conclusioni e riflessioni. Come abbiamo visto il tema della pedofilia, e in particolare quello della pedofilia femminile rappresenta un mondo davvero complesso, non semplice da comprendere fino in fondo in tutte le sue molteplici sfaccettature. La psicologia, la psichiatria, la giustizia, la società, i media molto spesso si contraddicono tra loro, non riuscendo a tracciare un quadro esaustivo del fenomeno e non riuscendo quindi il più delle volte ad essere efficace nella comprensione e nella risoluzione del problema. Troppo spesso si punta a risolvere il tutto in un modo troppo “semplicistico”, altre ancora si tende a “sensazionalizzare” quello che in realtà altro non è che “orrore”, orrore per le vittime, orrore per la società, orrore per ognuno di noi. Credo che molto si possa e si debba fare per “sensibilizzare” al problema, per “informare” e quindi per “prevenire”: utilizzare scuola, media, corsi di formazione, convegni e tutto quanto è in nostro possesso per aiutare le povere e innocenti vittime che ogni giorno sono in balia dei pedofili e sia, in un secondo momento, per aiutare anche i pedofili stessi che, prima ancora di divenire dei “mostri”, sono stati loro per primi vittime di gravi abusi e maltrattamenti. Con questo non voglio “giustificare” i pedofili che, anzi, condanno sempre e comunque per il male che commettono sui bambini. Credo, inoltre, che il primo grande aiuto sia inevitabilmente e necessariamente da rivolgere esclusivamente alle piccole vittime. Ciò però non toglie il fatto che per debellare definitivamente questa piaga oscura che sembra da sempre affliggere i nostri animi, sia necessario un intervento di rete che contempli anche la cura e il sostegno del pedofilo. Infatti ritengo che la semplice pena detentiva, benché giusta e meritata, non risolva di fatto il problema. Una volta uscito di prigione il pedofilo avrà sì scontato la sua pena per il male che ha compiuto, ma difficilmente avrà cambiato la sua personalità e le sue “pulsioni”. Non basta la “punizione” e la conseguente “paura della punizione” per risolvere il problema. Più in generale, credo che prima ancora di parlare di “lotta alla pedofilia”, si dovrebbe prima creare tutta una nuova “cultura del bambino”, sensibilizzando la società tutta a quello che è di fatto il mondo del bambino, i suoi sentimenti, i suoi bisogni. Questo porterebbe ad un maggiore rispetto e ad una maggiore considerazione di ciò che in definitiva ognuno di noi è stato e che in qualche modo ognuno di noi ancora è.

Puericultrice criminale: la pedofilia femminile. Dalla diseguaglianza tra i sessi ai tabù più pericolosi da smontare, il fenomeno corre sul web, scrive Rossana Campisi il 7 Luglio 2015.  Torniamo a lei: la diseguaglianza tra i sessi. Torniamo per denunciare risvolti che sanno di contraddizioni, tabù evanescenti. Uno tra tutti, la convinzione dell'impossibilità (per una donna) di commettere (come gli uomini) certi gesti orrendi. Impensabili, tecnicamente (quasi) impossibili, come la pedofilia. Sì, quella di una donna, spesso compiuta a danno dei figli. Tenerla nascosta ci aiuta a proteggere certi stereotipi rassicuranti: una mamma non può concepire simili abusi, no per carità. Eppure il fenomeno è in crescita, l'allarme arriva dall'America e i siti internet sono ottimi catalizzatori. In Gran Bretagna, la storia di Vanessa George continua ad occupare ancora paginate di tabloid. Puericultrice alla Little Ted Nursery di Plymouth, la donna è stata giudicata colpevole di aggressione sessuale ripetuta su bambini dai 2 ai 5 anni e di produzione e diffusione di immagini pedo-pornografiche attraverso Facebook. Il caso non è isolato, ce lo conferma Childline, il servizio di assistenza telefonica che ha registrato un aumento del 132% di denunce per aggressione sessuale femminile, al punto che per i media inglesi siamo davanti a una vera «esplosione della pedofilia femminile». Questi i numeri. All'università di Montreal la criminologa Franca Cortoni ha invece voluto fare il punto con il primo studio completamente dedicato alla violenza sessuale. Sono stati coinvolti psicologi e medici, la domanda di partenza è stata: perché una donna si ritrova a commettere il reato che tecnicamente sembra inconciliabile con la sua identità? «Le donne rappresentano il 5% della popolazione dei delinquenti sessuali, una cifra probabilmente sottostimata. Perché? Le vittime d'abuso femminile parlano ancora meno di quelle che subiscono violenza dagli uomini. E' persino difficile da parte dai servizi medici e giudiziari trovare gli aggressori», ha premesso. Reticenti, dunque. Ma non solo, i figli molestati dalle madri se confessano vengono dagli stessi medici definiti spesso "deliranti" e, nella migliore delle ipotesi, consigliati a consultare uno psichiatra. Nella nostra rappresentazione sociale è assurdo pensare che l'abuso sia femminile, e per di più portato avanti da una madre. Il tabù più pericoloso da smontare. «Il 92% delle vittime sono bambini che hanno meno di 9 anni e con un rapporto di parentela filiale. Un terzo delle donne agisce da sola e in genere sceglie come vittime un maschietto, gli altri due terzi lo fa in compagnia di un uomo e sceglie le bambine. Le donne non sono sempre consenzienti ma spesso assecondano il desiderio dell'uomo che le costringe ad atti sessuali in tre e sono questi i casi di violenza più grave, quelli che possono portare anche alla morte le vittime». Cosa fanno queste donne? Le stesse cose concepite nella mente di un uomo: penetrazione digitale o con un oggetto, molestie imposte con la dolcezza o la violenza. La ragione, però, va ben oltre la semplice pulsione alla soddisfazione sessuale. Quale madre sarebbe capace di un incesto di questo tipo? Monique Tardif, psicologa all'Istituto Philippe Pinel, ospedale di psichiatria legale nelle banlieu di Montreal, parla di donne «che hanno alle spalle una storia di violenza sessuale o emotiva durante la loro infanzia, che crescono con una identità fragile e mostrano un'incapacità a costruire relazione sane. Sono le stesse che, plagiate dagli uomini, pensano che certi gesti sui figli siano l'unico modo per salvare la relazione di coppia col proprio compagno». Per evitare una rottura nella loro storia, portano avanti un crimine che è più di una lacerazione: per loro, però, i figli sono colpevoli, dunque il senso di colpa è distante. Assente. C'è erotismo e vendetta in quel momento. Poi ci sono le madri che scambiano l'approccio sessuale come quello più intimo, una prosecuzione del loro amore, una forma estrema. Quelle che arrivano a identificarsi quasi col corpo di quei bambini creati da lei, al punto da non sentire il confine tra le due persone. «Davanti ai giudici non manifestano pentimento per il male commesso verso i figli, semmai dolore per aver perso lo status di madre. Il loro gesto appare avvolto da un'aura di romanticismo, nulla di cui vergognarsi». Nulla di sano, ovvio. La velocità e la facilità con cui gli effetti di queste dinamiche possono viaggiare on line, infine, contribuiscono a normalizzare questa devianza sessuale. Un po' come dire, non sono isolata, faccio parte di un circuito che legittimizza quasi questo gesto. Dalla Cortoni alla Tardf, però parlare di esplosione del fenomeno è troppo. Spesso sono gli ex compagni delle donne che, per vendetta, denunciano le madri di molestie sessuali verso i figli. Quindi attenzione. Il tema è già di per sé delicato e grave per affrontarlo con l'approccio sensazionalistico e la deriva paranoica delle generalizzazioni. Dagli Usa al Canada, sono molte le donne che lavorano con i bambini vittime di accuse di violenza sessuale. A metà tra il tabù e la furia mediatica, forse è meglio lasciare posto al buon senso, unica strada percorribile, se è il caso, per vigilare sulla realtà delle cose e intervenire con un programma terapeutico personalizzato. Tutti concordi?

Il documentario di Amy Berg sulla pedofilia a Hollywood. Pedofilia Femminile: Non Se Ne Parla Ma Esiste, Ed È In Aumento. Non se ne parla ma esiste. Su questo argomento se ne sa veramente poco e poco è stato scritto in merito. Parlare di donne pedofile non è nè comune ne' semplice in quanto, nell'immaginario collettivo, il termine "pedofilia" viene associato al sesso maschile, al quale è stato sempre affidato un ruolo "attivo": la pedofilia è infatti "azione". E' considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne. Da esaurienti studi clinici è emerso che le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Infatti, gli esperti hanno riscontrato che il vovyerismo, il frotteurismo, il feticismo, sono riscontrabili quasi esclusivamente nei maschi; così come il sadismo sessuale è raramente presente nei soggetti femminili, mentre il numero dei masochisti di sesso maschile è di gran lunga più alto di quello relativo al sesso femminile. Lo stesso si può dire della pedofilia. Invece, l'unica parafilia dove i soggetti di sesso femminile sono in numero paragonabile a quelli di sesso maschile è la zoofilia.

Le cause. Cause scatenanti la pedofilia femminile possono essere la separazione, l'abbandono, la perdita. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l'esasperazione nell'attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. Dal ruolo "passivo" che l'ha vista vittima e sottomessa -non avendo una propria autonomia economica e sociale fino ad alcuni decenni fa e quindi costretta a nascondere tale aspetto perverso della sessualità- la donna tenta in tal modo il riscatto ed una propria affermazione in un ruolo "attivo", grazie alla rivoluzione sociale che la rende così indipendente e libera. Tenendo presente che la pedofilia femminile intra-familiare ha caratteristiche differenti dalla pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche, preferendo mete lontane come luoghi di abbordaggio, si può affermare con certezza che tale fenomeno e' comparso, all'incirca, intorno agli anni '70. In quel periodo donne americane e canadesi, per lo più divorziate e vedove, favorite dall'emancipazione economica, hanno iniziato a recarsi verso spiagge lontane alla conquista dei "beach boys" soprattutto, ma anche delle "beach girls" che potevano farle sentire, al suono di 100 dollari, "regine per una notte". Alcune indagini giornalistiche come quella del settimanale Panorama, hanno messo in luce che oggi l'età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e, ad un tempo, l'appagamento materno. Esse, tuttavia, potendo difficilmente usufruire di infrastrutture organizzate al loro servizio come i pedofili maschi, sono costrette ad abbordare i ragazzini per strada e a viaggiare senza la protezione di un'articolata rete di agganci. Infatti non hanno alle spalle la tutela di organizzazioni che garantiscono loro la certezza di raggiungere il luogo di destinazione avendo già tutto stabilito, come accade per la maggior parte dei pedofili maschi. Differenti sono le mete. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e per le destinazioni più lontane la Giamaica e il Brasile. La Thailandia invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con i voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. E a Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d'amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata.

Gli strumenti. Sulle donne che praticano la pedofilia all'estero, si è saputo che per permettere l'atto sessuale, vengono iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni degli ormoni e droghe. Poco si conosce sull'uso di tali sostanze, a parte gli effetti collaterali estremamente sgradevoli per il minore. Dalla testimonianza di volontari dello Sri Lanka, si apprende che sono le donne pedofile stesse (la maggior parte svizzere e tedesche) a portare le droghe da iniettare nei bambini. Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale causa l'abnorme ingrossamento dell'organo sessuale ad un ragazzino di 11-12 anni che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni.

Conclusioni. E' difficile tracciare un quadro completo e ben delineato del fenomeno "pedofilia femminile". Essa, come quella maschile, si cela all'interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Ma esattamente come succede per i pedofili maschi, le donne pedofile evadano dalla comune realtà ricercando altrove gli oggetti dei loro spasmodici ed incomprensibili desideri: i meninos de rua, i bambini di strada. Come di consueto, quindi, per chi pratica la pedofilia, i soldi diventano lo strumento che compra il silenzio e l'accondiscendenza dei piccoli. In questo senso, tra uomini e donne - "pedofili" - non vi è alcuna differenza. Greta con la collaborazione di Nicoletta Bressan, consulenza a cura del Dott. Sergio De Martino

(...) La nuova emergenza (...) riguarda un notevole aumento della pedofilia femminile. Nel 2003 l’Associazione Meter aveva scoperto 5 siti internet di donne pedofile contenenti materiale fotografico e slogan di promozione e diffusione della pedofilia femminile. Ciò che può far scattare la propensione pedofilica o più marcatamente infantofila nel sesso femminile è un rifiuto verso il mondo adulto, ossia un fermo proposito di non crescere, per non diventare come coloro che, a livello inconsapevole, sono fatti oggetto di disprezzo e svalutazione. All’origine di questo atteggiamento psicologico potrebbe esserci un abbandono, una separazione o un’esperienza di abuso, eventi vissuti in maniera estremamente traumatica e che non sono stati elaborati e quindi risolti, con la conseguente coazione a riviverlo. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l'esasperazione nell'attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. La dinamica pedofilica si può profilare anche come condotta d’appoggio ad un partner. In questi casi la donna, per amore o dipendenza dal compagno, diventa portatrice delle stesse tendenze, a scopo di comunione e condivisione. In questi casi si parla di “pre-pedofilia” per sottolineare il ruolo periferico della donna. Tenendo presente che la pedofilia femminile intra-familiare ha caratteristiche differenti dalla pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche, preferendo mete lontane come luoghi di abbordaggio, si può affermare con certezza che tale fenomeno è comparso, all'incirca, intorno agli anni '70. Alcune indagini giornalistiche, hanno messo in luce che oggi l'età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bambini di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e, ad un tempo, l'appagamento materno. Sulle donne che praticano la pedofilia all'estero, si è saputo che per permettere l'atto sessuale, vengono iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni degli ormoni e droghe. Poco si conosce sull'uso di tali sostanze, a parte gli effetti collaterali estremamente sgradevoli per il minore. Dalla testimonianza di volontari dello Sri Lanka, si apprende che sono le donne pedofile stesse (la maggior parte svizzere e tedesche) a portare le droghe da iniettare nei bambini. Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale causa l'abnorme ingrossamento dell'organo sessuale ad un ragazzino di 11-12 anni che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni. Fonti: aquiloneblu.org e psicoterapie.org - tratto da violenza-donne.blogspot.it

Il dramma della pedofilia femminile: un disturbo mentale sconvolgente. Cos’è, quanti sono i casi in Italia e come interviene la polizia. Il ruolo sempre maggiore del web, scrive “Il Corriere della Sera” l'11 giugno 2010. Pochi ne parlano o forse pochi ne conoscono l'esistenza. E' un tabù, una stridente contraddizione in termini, uno choc: è la pedofilia femminile. Di questo si occupa la terza puntata di Vanguard Italia, la serie di video-reportage realizzati e prodotti dal network italiano di filmmaker, freelance, giornalisti indipendenti e reporter di Current, in onda mercoledì 16 giugno alle ore 21.10 sul canale 130 Sky. Cos’è la pedofilia femminile? Quanti sono i casi in Italia? Come interviene la polizia? L'inviata Vanguard Isabella Angius ne parla con medici, poliziotti, investigatori, studiosi e raccoglie per Current una serie di testimonianze dirette di familiari delle vittime, nonché ricostruzioni reali di donne autrici di abusi su minori. La pedofilia rientra tra i disturbi mentali, in psichiatria si definisce parafilia ovvero interesse sessuale patologico verso bambini sotto i 13 anni. Nello stereotipo culturale il pedofilo è maschio. Invece anche le donne possono esserlo, in una percentuale attualmente compresa tra l’8 e il 12% del totale. Spesso hanno un ruolo passivo e lasciano all’uomo un ruolo attivo, come nel caso della testimonianza di una pedofila che arrestata confessa: «Adoravo il mio fidanzato. Era affascinante come Steve Mc Queen. Era lui che mi chiedeva di coinvolgere mia figlia». Di pedofilia femminile si parla per la prima volta in America intorno agli anni '70 e soprattutto in relazione al fenomeno del turismo sessuale, spiega ai microfoni di Current lo psicologo giudiziario Carmelo Dambone dal suo ufficio alla Procura di Monza, dove interroga i minori vittime di abusi a sfondo sessuale. Su circa 600 casi di pedofilia trattati nella sua carriera, Dambone si è imbattuto in almeno 7 perpetrati da donne, «per lo più tra i 30 e i 45 anni - specifica - per la maggior parte sposate e con figli ma solitamente con trascorsi di violenze sessuali o divorzi». Cifre ancora troppo sottostimate secondo Loredana Petrone, psicologa e sessuologa autrice del libro 'E se l'orco fosse lei?'. «Pensare che una donna possa essere un'abusante sessuale - spiega Petrone - è raccapricciante, è sconvolgente perché la donna è associata all'idea di mamma. Teoricamente una madre non potrebbe mai danneggiare un bambino. Per questo molte vittime rettificano la loro versione dicendo di essere state abusate da uomini». Un dato però è certo: la baby sitter che abusa dei bambini rientra perfettamente nella casistica. È quello che tristemente si può definire un classico. «Chi è interessata ai bambini - chiosa la psicologa - farà lavori in cui potrà stare con i più piccoli». A fare emergere più chiaramente la diffusione della pedofilia femminile negli ultimi anni ha contribuito senza dubbio il web. Su internet sono sempre di più le immagini o i filmati pedopornografici che coinvolgono donne e soprattutto mamme. Al Centro Nazionale della Polizia di Stato per il contrasto alla pedopornografia i poliziotti parlano di oltre 570 siti nella blacklist della Polizia Postale. «Dalle comunità virtuali - raccontano gli agenti - arrivano i consigli per l'uso, le raccomandazioni e le piste per ottenere materiali e minori da poter abusare. Il prezzo lo impone la qualità e soprattutto la novità delle immagini. E' importante sottolineare - avvertono - che il clic alimenta la produzione e quindi l'abuso di produzione di questo materiale». E dunque l'incrermento dei casi, come confermano i dati riportati da Barbara Forresi dalla sede centrale a Milano di Telefono Azzurro: «Negli ultimi due anni, il 12% delle violenze sessuali denunciate su segnalazioni giunte al Telefono Azzurro hanno autrici donne». Luigi Colombo è psicanalista. Gestisce a Milano, insieme a altri medici, un centro per sex offender e da anni si occupa del recupero di pedofili. Tra le donne attualmente in cura la più giovane ha 25 anni, la più adulta circa 55. «Molte - assicura Colombo - riescono a tornare a una vita normale a sfruttare anche le possibilità dell'inserimento sociale. Soffrono molto durante la carcerazione e questo gli consente veramente di voltare pagina e di rettificare certi comportamenti».

Pedofilia femminile: le caratteristiche psicologiche delle donne pedofile. Scrive Igor Vitale il 7 agosto 2014 su Psicologia Clinica e del lavoro. Al fine di dare una spiegazione generale del fenomeno pedofilia, è bene accennare quale sia il suo significato. Il primo a darne una definizione, in ambito psichiatrico, è stato Auguste Forel nel 1905. Nel farlo, ha accorpato due termini di origine greca, paidòs (bambino) e filìa (amore), che insieme indicano amore per il bambino. In realtà questa definizione può sembrare ambigua, ma ciò a cui ci si riferisce veramente è un amore con forte accezione erotica, praticata da un adulto nei confronti di un bambino. Si parla di un bambino in età pre-pubere, ovvero che non ha intrapreso il suo sviluppo psico-sessuale e che, di conseguenza, non ha ancora consapevolezza di sé e del proprio corpo. Passiamo ora a vedere cosa sia la pedofilia e quali le sue possibili cause. Come è risaputo, da un punto di vista giuridico, la pedofilia è condannabile, in quanto reato. “In realtà, la spiegazione di questo fenomeno è spesso confusa, incompleta e nel peggiore dei casi anche non propriamente corretta. Pedofilia è diventato di fatto sempre più un termine usato e spesso abusato”. Infatti il fenomeno della pedofilia si ripercuote in tutti i campi, dal comportamento umano fino al suo sviluppo psicologico, sociale, culturale, giuridico, morale, religioso e perfino economico. In particolare, da un punto di vista psicologico, è riduttivo cercare un movente comune che possa spingere un essere umano verso l’atto della pedofilia. È vero, invece, che risulta necessario indagare quale sia il background della persona che arrivi a compiere questo gesto. “Nessun istinto mi sembra così complesso e spesso indecifrabile come l’istinto sessuale, sempre in bilico fra natura e cultura, fra storia personale e storia collettiva, fra la semplicità dell’impulso e la complicazione dei circuiti mentali”. Come ben espone la Valcarenghi, nella sua concezione psicoanalitica, è possibile che il fenomeno della pedofilia faccia parte della sfera istintiva umana e che una sua possibile esternazione sia bloccata dalle norme morali, imposte dalla società e dalla cultura. “Perché, che si tratti di un istinto represso o di una perversione, di un comportamento naturale o contro natura, in ogni caso un solo dato è certo: è dall’inconscio che l’impulso pedofilo arriva alla coscienza”. Per quanto riguarda le possibili cause alla base di una manifestazione pedofila, è bene rimarcare il fatto che non esiste un movente comune. In realtà è facile pensare che un soggetto che abbia subito abusi nell’età infantile sia maggiormente propenso ad un comportamento pedofilo, ma ciò risulta essere per lo più inesatto. Difatti è vero, per quanto il contenuto pedofilo sia inconscio e qui sia trattenuto da un divieto e da un’inibizione, è anche vero che i freni inibitori possano venir meno a causa di una struttura morale carente o anche, naturalmente, in seguito ad un trauma. Se è vero che il fenomeno della pedofilia viene riconosciuto come scabroso, e generalmente associato al genere maschile, lo è ancor di più se lo si pensa in un’ottica femminile. Se ne parla poco, non perché gli episodi di pedofilia femminile non avvengano, quanto piuttosto per il fatto che si tende a celare la figura della donna dietro la maschera di madre e caregiver. “Descrivere similitudini e differenze tra i generi sessuali del childmolester promuove una consapevolezza sociale, poco diffusa e spesse volte rinnegata, dell’esistenza anche di un femminile capace di maltrattare, offendere e abusare anche sessualmente i bambini”. Questo fenomeno rappresenta difatti un tabù in quanto in contrasto con quelle certezze razionali, sociali, culturali ed emotive radicate da sempre nella credenza comune. Per quanto sconcertante, la pedofilia femminile non è una novità dei nostri giorni, in realtà la storia ci restituisce dei casi da tempi ben più antichi. Lo stesso Petronio, infatti, narrava di un gruppo di donne compiaciute dinanzi allo stupro di una bambina di sette anni. “Era una racconto, non una testimonianza, ma era tuttavia possibile immaginarlo”. Questa affermazione sta ad indicare come il pensare comune del tempo rendeva la donna capace di un possibile atto pedofilo. Oggigiorno, al contrario, il pensiero sociale è portato a difendere la donna, ma la realtà è un’altra: la pedofilia femminile esiste e, seppur i casi riportati siano pochi, questi ci sono e sono reali. Proprio perché pochi e nascosti, i casi di pedofilia femminile non aiutano la comunità scientifica ad inquadrare al meglio questa scomoda realtà.

Caratteristiche delle donne pedofile. Nonostante ciò, sono state individuate una serie di caratteristiche comuni nelle donne sex offender. Sono emerse storie pregresse di maltrattamento infantile, disturbi mentali e della personalità, addiction da sostanze stupefacenti, assenza di intimità o difficoltà nelle relazioni intime, una predisposizione a scegliere quali vittime principalmente bambini e adolescenti, una tendenza ad agire contro familiari o su coloro che hanno una conoscenza con le stesse vittime, una tendenza ad agire abusi sessuali concertata con il proprio partner. In particolare, lo studio effettuato da Mathews, Matthews e Speltz nel 1989 individua tre tipologie di donne sex offender:

a) Male-coerced: tali donne si mostrano passive e dipendenti, hanno conosciuto abusi sessuali o relazioni intime problematiche e, spesso spinte dalla paura di essere abbandonate, vengono costrette ad agire abusi sessuali sui propri figli;

b) Predisposed: tali donne sono accomunate da storie incestuose o di vittimizzazione sessuale, difficoltà psichiche e fantasie sessuali devianti e una tendenza a vittimizzare i propri figli o altri bambini facenti parte della loro rete familiare;

c) Teacher/lover: queste donne, spesso accomunate da difficoltà nelle relazioni affettive con i propri partner coetanei, scelgono come vittime delle loro esperienze sessuali pre-adolescenti con i quali intrattengono relazioni di fiducia nelle sembianze di insegnanti o tutor. Le vittime, confuse da tali atteggiamenti di cura e protezione, non considerano tali pratiche sessuali come dannose o devianti.

Secondo la classificazione di Kaplan, invece, le donne pedofile possono essere classificate in due gruppi: le cosiddette prey to predator, cioè coloro che sono state vittimizzate nell’infanzia, e le self-made predator, cioè coloro che provano piacere sessuale nei confronti dei bambini. Secondo Saradjian e Hanks (1996), l’abuso può scaturire da un sentimento di ribellione nei confronti del bambino che disobbedisce, rappresentando la giusta punizione per il comportamento del bambino. Tra le figure di madri abusanti emergono anche coloro che trattano i figli come una proprietà, prendendosi il diritto di gestirne il corpo e facendo apparire l’iniziazione alle pratiche sessuali come un atto educativo. Una riflessione autorevole sulla pedofilia, ed in particolare sulla pedofilia femminile, ci viene offerta da Marina Valcarenghi, la quale sostiene che le donne pedofile non vengono solitamente prese in considerazione perché sono pochi i casi che vengono alla luce. Questo deriva anche dal fatto che le donne trasgrediscono la legge molto meno degli uomini, perciò si pensa che la minore incidenza del comportamento trasgressivo riguardi anche la sfera sessuale. La pedofilia femminile, inoltre, si orienterebbe sia all’interno della famiglia, sia verso il turismo sessuale. Naturalmente, il turismo sessuale femminile si sviluppa secondo modalità diverse rispetto a quello maschile, in quanto spesso le anziane signore che si dirigono verso paesi dell’Africa e dell’America latina e si accompagnano a ragazzini molto giovani accetterebbero anche amanti più adulti. Esse infatti desiderano nella maggior parte dei casi solo divertirsi senza condanne sociali. Le donne sembrano inoltre manifestare una minore tendenza alla pedofilia incestuosa rispetto agli uomini e spesso, coloro che la manifestano, sono donne fragili che utilizzano i figli maschi come oggetti sessuali compensatori. I freni inibitori di tali donne si disattivano non solo per la mancanza di una coscienza morale, ma anche per una confusione emotiva che le porta a vivere in maniera caotica qualsiasi relazione. La pedofilia affettiva fuori dal nucleo familiare, invece, si dirigerebbe secondo la Valcarenghi verso gli adolescenti. Queste donne sono spesso alla ricerca di conferme narcisistiche, che fantasticano un amore fuori dalle regole, che reagiscono a una delusione da parte di un uomo adulto, o che compensano una grave insicurezza che impedisce loro di affrontare i coetanei. È curioso esplorare l’altro lato della pedofilia femminile, ovvero quello passivo. Petrone (2005) parla in questi termini di “pre-pedofilia”, la quale indica l’atteggiamento non direttamente agito dalla donna nei confronti del bambino quanto piuttosto condiviso. Il vero protagonista dell’atto pedofilo è in questi casi l’uomo, di cui la donna si fa complice. Nonostante la donna si spogli delle sue responsabilità compie ugualmente una forte violenza ai danni delle piccole vittime, soprattutto per il fatto che il suo ruolo sarebbe invece quello di proteggerle. Secondo Mendorla (2005), dietro questo fenomeno passivo si nasconde una paura della donna, quella di perdere l’attenzione e l’interesse del proprio compagno, è così che pur di non essere abbandonata suggerisce essa stessa una relazione “sostitutiva” con la figlia. Ecco allora che i figli diventano l’oggetto delle attenzione sessuali all’interno della coppia genitoriale.

Se l'orco è donna. Scritto da Eugenio Cortigiano Venerdì 04 Marzo 2011. Vanguard, tramite il canale satellitare Current, ha recentemente presentato un reportage sugli abusi e violenze sessuali perpetrati ai danni di minori o degli stessi figli da parte delle donne. Madri, baby sitter, vicine di casa, insegnanti. Il fenomeno presenta il triste aumento del 137% negli ultimi anni, contro il 23% di aumento degli abusi da parte degli uomini, anche se molto probabilmente sono solo le segnalazioni e le denunce ad essere aumentate, mentre prima rimaneva sottotraccia. In Italia nel 2005 è stato presentato forse l'unico libro sull'argomento, scritto a 4 mani dalla Dott.ssa Petrone e dal Dott. Mario Troiano, psicologi e psicoterapeuti esperti di abusi su minori, dal titolo E SE L’ORCO FOSSE LEI?, edizioni Angeli. Questo libro mette in luce il fenomeno degli abusi al femminile e della pedofilia femminile. Parlare di donne abusanti e pedofile non è né comune né semplice, anche perché da sempre alla donna viene associato l’istinto di maternità che esclude, a priori, l’idea dell’abuso sui bambini. Pertanto, quando si parla di pedofilia, nell’immaginario collettivo scatta automaticamente la figura dell’uomo: giovane, di mezza età o anziano, ma pur sempre di sesso maschile. In realtà, la pedofilia colpisce sia uomini che donne. Per questo motivo la “pedofilia al femminile” è un campo di studio ancora poco esplorato e per questo agli autori va il merito di aver puntato l’attenzione su un fenomeno che deve essere conosciuto e compreso, al fine di predisporre tutte quelle opportune forme di prevenzione e tutela di un bene fondamentale quale è quello dell’integrità della salute psico-fisica del minore. Vi sono diverse tipologie di donne pedofile: la pedofilia latente, occasionale, dalla personalità immatura, regressiva, la pedofilia aggressiva, la pedofilia omosessuale. E’ tuttavia difficile tracciare un quadro completo e ben delineato di questo fenomeno. La pedofilia femminile, come quella maschile, si cela all’interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Per approfondire almeno parzialmente l'argomento pubblichiamo inoltre un articolo pubblicato sul sito ADIANTUM, una associazione che raccoglie le associazioni che in Italia si occupano di tutela dei minori, che ringraziamo per la disponibilità alla pubblicazione. Il sito del Canadian Children’s Right Council (Consiglio per i diritti dei bambini canadesi) riferisce che le insidie più comuni per un bambino sono i parenti: le madri in cima alla lista. Ma in realtà chiunque potrebbe rappresentare un pericolo per un bambino come: baby-sitter, vicini di casa, insegnanti ecc. Le vittime di abusi sessuali materni non si trovano a combattere solo con il dramma del ricordo, ma anche con l’estremo isolamento nel quale si sentono scaraventate; convinte che pochi o nessuno sarà disposto a credere alla verità che portano dentro. L’abuso madre-figlia/o è un argomento che riceve poca attenzione da parte dei ricercatori, servizi di supporto e dai media. Il rapporto sessuale tra madre e figlio/a spesso è accolto con scetticismo o shock da parte di parenti, amici e anche dai professionisti della salute mentale. La società si aspetta che sia l’uomo a macchiarsi del crimine più turpe che l’umanità abbia mai conosciuto, certamente non la madre. L’abuso sessuale è da sempre invischiato nel contesto del potere maschile e dell’aggressività. Quest’ultima viene spesso considerata strettamente collegata al primo.

Il profilo socio-psicologico. Le principali cause scatenanti l’abuso sessuale materno possono essere: la separazione, l’abbandono e la perdita del coniuge. Alcune donne possono essere state a loro volta vittime di abusi intrafamiliari come abusi emozionali, maltrattamento fisico e/o incuria, traumi che possono aver contribuito all’emergere di un sentimento di rivalsa per quell’innocenza rubata. Dopo anni di violenze subite, nell’età adulta può nascere in loro il desiderio di dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stesse, la propria femminilità ricoprendo un ruolo attivo, scegliendo la vittima tra le vittime, i loro figli. Altre cause possono essere individuate nell’assenza di una figura parentale durante l’infanzia o nella responsabilità precoce nel dover sostenere economicamente la famiglia. Depressione, sentimenti di alienazione e isolamento, un passato di attività sessuale compulsiva o indiscriminata, abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti. Matthews chiama questa tipologia il “tipo predisposto”, in cui l’abuso su minore in età adulta, è facilitato da abusi sessuali subiti nella propria famiglia d’origine. La causa dell’abuso può essere attribuita più ad aspetti situazionali o ambientali che a caratteristiche individuali. Gli abusanti di questo tipo possiedono una personalità immatura perché spesso si trovano ad anteporre le proprie esigenze a quelle dei propri figli, e cercano da loro, sostegno emotivo; meccanismo che spesso porta a un rovesciamento di ruoli (Mitchell e Morse, 1998; Rosencrans, 1997). Secondo l’opinione di Finkelhor e Araji, l’eccitazione sessuale si riferisce alla risposta fisiologica suscitata da pensieri o azioni sessuali con minori, e può in parte essere il risultato di un condizionamento da precedenti esperienze traumatiche. Per blocco ci riferiamo a un’incapacità di soddisfare i bisogni sessuali o emotivi attraverso relazioni eterosessuali/omosessuali adulte, per motivi di sviluppo o situazionali. La disinibizione può essere aggravata da fattori di stress ambientali e personali. La madre abusante spesso non possiede una ben chiara demarcazione riguardo ai confini da rispettare nel rapporto con i propri figli. Molte volte la figlia abusata può essere percepita come un’estensione fisica del proprio corpo. Le vittime rischiano di non riuscire ad attribuire un senso al proprio sé, come persona emotivamente, fisicamente e sessualmente “altra” rispetto alla figura abusante (Rosencrans, 1977; Fitzroy, 1997). Tra le donne abusanti, non devono essere comprese solo quelle che in prima persona si macchiano del crimine, ma anche coloro che per paura di essere abbandonate dal compagno/coniuge, cedono la propria figlia come dono sessuale. In questa relazione incestuosa che ha il sapore di un patto demoniaco, il legame ancestrale tra madre e figlia assume l’aspetto necrotico di un tessuto familiare impossibile da ricostruire. Una delle principali motivazioni addotte dalle stesse donne è la paura di essere lasciate dal partner, e per impedire che ciò avvenga sono disposte a soddisfare ogni sua richiesta, spingendosi anche al di là del limite, costringendo i propri figli a partecipare alle attività sessuali della coppia. Questa tipologia di donne può essere ricondotta al disturbo di personalità dipendente, contraddistinte cioè da grande vulnerabilità ed estremo bisogno di essere amate. Si legano affettivamente in modo intenso a figure inappropriate e si rivelano smodatamente dipendenti dalle decisioni altrui, bisognose di rassicurazioni e in preda a terrori abbandonici. La terza tipologia di donna che può definirsi responsabile dell’abuso ai danni di uno o più dei suoi figli, è la madre “ambivalente”. È una madre consapevole degli abusi che il padre biologico dei suoi figli o il compagno mette in atto. È una donna e una madre vile, che non ha il coraggio di prendere una posizione, teme la disgregazione della famiglia a causa di una possibile carcerazione del proprio partner e ripercussioni economiche. L’ultima tipologia di madri che vivono l’abuso intrafamiliare nel silenzio delle mura domestiche è rappresentata dalla madre “poco protettiva”, che priva il proprio bambino di qualsiasi sostegno affettivo. Spesso si rivelano personalità fragili, con esperienze di depressione, vittime di abusi emotivi, trascuratezza o addirittura abuso sessuale nella propria infanzia e/o adolescenza. Possono essere assoggettate al partner perché violento nei loro confronti. La paura interiorizzata in anni di deprivazioni e violenze, atrofizza la loro capacità di carpire gli abusi e di agire per opporvisi. Come afferma Furniss: «l’incesto e l’abuso continuato a lungo termine sono improbabili in una famiglia con un rapporto madre/figlia improntato a sentimenti di fiducia e protezione» (Everson, 1997).

Le risposte della vittima all’abuso. Vittime di abusi materni, quando decidono di confidarsi con qualcuno riguardo all’orrore subito proprio da quelle braccia “protettive”, vengono spesso attaccate con frasi del tipo: «Lei è pur sempre tua madre, dovresti provare a parlarle». Tendono a sentirsi molto confuse riguardo al significato attribuito all’esperienza subita. Le risposte all’abuso possono configurarsi mediante la negazione della violenza: «Mia madre non avrebbe mai fatto una cosa del genere a me, sono la/il sua/o bambina/o», o attraverso la minimizzazione dell’abuso: «Come poteva essere cattiva. Il suo modo di agire non era violento». Per le vittime, la duplice immagine della madre come fonte di vita e allo stesso tempo di morte “potenziale”, così come l’identificazione con l’abusante come donna e madre, può essere fonte di grande dolore e angoscia (Rosencrans, 1997; Fitzroy, 1997). Altre vittime invece colpiscono duramente questi comportamenti, percependo peggiore l’abuso perpetrato dalle madri, rispetto a quello paterno. Una ragazza abusata dal padre dall’età di cinque anni con rapporti sessuali completi e rapporti orali durati fino all’età di undici anni, ha riferito in seguito che le violenze subite da suo padre sono state meno invasive di tutti gli abusi sessuali che fu costretta a subire dalla madre e dalla nonna (Denov, 2004). Si percepisce quel senso profondo di tradimento quando l’abusante è la madre perché è come se non esistesse più un posto sicuro in cui rifugiarsi, è come se non esistesse più nessuna persona verso la quale tendere le braccia per essere consolati e rassicurati dalle paure del mondo esterno. Come dice Alice Miller, il ricordo del dolore subito è così difficile da superare che l’autoinganno è sempre in agguato. Per il bambino maltrattato è impossibile vivere in maniera cosciente le violenze subite che vengono immagazzinate sotto forma di reminescenze inconsce. L’autoinganno sta nel fatto che, anche se non è consapevole della sofferenza passata, i ricordi immagazzinati cominceranno a premere a poco a poco, e come truppe nemiche cercheranno di abbattere le mura cinte che i nostri meccanismi di difesa erigono per proteggerci. Queste spinte che vengono dal profondo, a volte inducono l’adulto a mettere in atto scene già vissute, e come in un déjà vu la violenza tende a riproporsi in una sequela instancabile atta ad esorcizzare le paure mai sopite. Nelle vesti del carnefice si ritrova a ripetere quegli atti brutali, permettendo così alle sue inquietudini di placare il loro grido. A volte, quando le vittime di abuso materno riescono ad ammettere a se stesse la relazione incestuosa con la figura di attaccamento, una delle soluzioni per liberare se stesse dalla visione di una madre orrifica, è trasferire la colpa sulla propria persona, come se dicessero: «se mia madre mi ha fatto questo ci deve essere qualcosa di sbagliato in me, perché lei è mia madre, non avrebbe agito così se non lo avessi meritato». Questo meccanismo di difesa assunto da molte vittime adulte di abuso intrafamiliare, è un processo inconscio, un bisogno di protezione che consiste nell’identificazione con la figura dell’aggressore. Nell’incapacità di comprendere perché è costretta a subire quelle violenze, la vittima cerca inconsciamente di giustificare il suo aggressore sminuendo l’atto aggressivo, rendendo così, l’esperienza meno traumatica. È la sindrome di Stoccolma[3], con una maggiore probabilità di manifestarsi tanto più a lungo si è perpetrato l’abuso, quanto più la vittima è giovane e di sesso femminile. Se l’autrice dell’abuso percepisce se stessa come una vittima delle circostanze o del proprio compagno, il vero oggetto della violenza, il bambino, potrebbe provare compassione nei suoi confronti con conseguente paura di perderla. Questa dinamica rende assai difficile per le vittime vedere la propria madre come la vera responsabile del trauma. Alcune persone hanno l’abitudine a creare un’immagine dell’altro, facendo riferimento a categorie estreme, cioè come buono o cattivo. Per i bambini questa modalità di pensiero rappresenta la norma. Per le vittime di questi abusi, questo comune codice di ragionamento può guidare il loro comportamento per tutta la vita, impadronirsi di loro, destabilizzando la loro intera esistenza. Mentre i padri incestuosi possono servirsi della violenza instaurando in famiglia una sorta di clima del terrore, la madre incestuosa raramente si mostra violenta; il ruolo di madre le è sufficiente a manipolare il proprio bambino inducendolo in maniera subdola a fare ciò che le sue perversioni pretendono. In alcuni nuclei familiari invece, il padre può essere percepito come un estraneo dalla madre; quest’ultima vedendosi come l’unica figura genitoriale in grado di accudire i suoi figli, potrebbe sviluppare un rapporto morboso, come se detenesse un diritto esclusivo sui bambini. In altre situazioni invece, il marito/compagno della donna può essere violento, e il figlio maschio può sentirsi in diritto di difendere la madre dalle aggressioni, diventandone anche l’amante. In entrambi i modelli familiari disfunzionali, il bambino è costretto a subire un ribaltamento di ruoli, non più come oggetto di cure da parte soprattutto della figura materna, ma come adulto desideroso di compiacerla, rassicurarla e proteggerla. A causa di questo cambio d’“abito”, la violenza subita prima o poi prenderà il pagamento del proprio pedaggio. Senza rendersene conto potrebbe diventare un uomo molto remissivo, sentendosi in dovere di proteggere la propria partner sessuale come faceva da bambino con la propria mamma. Alcuni uomini, vittime di abusi durante l’infanzia/adolescenza, scelgono di difendersi dal ricordo traumatico attraverso un atteggiamento di costante stato di collera o di rabbia – una delle poche emozioni considerate socialmente accettabili per gli uomini. Un atteggiamento potrebbe essere quello avversativo nei confronti di tutte le donne indistintamente, diventando manipolatore, maniaco del controllo, inaffidabile e violento. Molti altri affrontano l’abuso annebbiando i ricordi con l’abuso di alcool, sostanze stupefacenti, evitando addirittura i rapporti intimi; intorpidendo i loro sentimenti, si costringono a non vedere le cicatrici, cadendo preda della depressione e dell’ansia. Molte donne abusate dalle proprie madri vedono riflessa nei loro occhi l’immagine della propria figura di attaccamento, costringendosi a vivere un’esistenza triste sia come donna che come madre. Possono sviluppare la convinzione di poter rappresentare un pericolo per i bambini e di non poter restare sole in loro compagnia. Questo sentimento d’inaffidabilità può indurle a desistere dal diventare mamme.

Da abusate ad abusanti: correlazioni e predisposizioni nella pedofilia femminile. Di Cristina Casella. La condotta di abusante può trovare spiegazione nelle relazioni traumatiche sostenute con il mondo adulto. Il comportamento deviante, infatti, è rintracciabile in vecchi traumi non riconosciuti come tali dalla vittima. I traumi possono bloccare ed ostacolare un corretto sviluppo della personalità, facendo irruzione improvvisamente nella vita adulta e relegando il comportamento sessuale all’interno di schemi infantili. La donna abusante, quindi, è colei che non ha ricevuto abbastanza protezione durante la sua infanzia e che, attraverso meccanismi di ripetizione e di identificazione con l’aggressore, tende a infliggere le stesse sevizie a cui è stata sottoposta. Scavando nel passato di queste donne, madri e non, emergono quasi sempre storie di maltrattamenti, umiliazioni e violenze sessuali. Recenti studi hanno dimostrato che il processo di identificazione con l’aggressore non è un semplice meccanismo di difesa attuato dalla vittima d’abuso, ma è supportato dalla presenza dei cosiddetti “neuroni a specchio”. Infatti, i circuiti neuronali attivi nel soggetto che compie un’azione, sono gli stessi che – automaticamente – si attivano nel soggetto osservante. Da qui nasce la teoria dell’“abusatore abusato”, secondo cui l’adulto replica esattamente quanto ha subito da bambino (identificazione con l’aggressore). Per mezzo dell’atto perverso, riesce ad ottenere potere e trionfo proprio in ciò in cui era stato vittimizzato. Sembrerebbe chiaro che le vittime di abuso sessuale infantile agiscano per ridurre gli effetti del trauma, cercando di superare il senso di impotenza e cancellando l’immagine negativa di se stessi. Attraverso la perpetrazione dell’abuso, il soggetto afferma il proprio controllo su altre persone, allontanando i vissuti destrutturanti. Ad ogni modo, le sole esperienze sessuali sperimentate in età precoce non sono in grado di sostenere l’ipotesi di disadattamento. Per tale motivo, bisognerà associare gli agiti ad altri fattori, come la violenza coniugata agli atti sessuali, il sesso dell’abusante e la relazione che quest’ultimo intrattiene con la vittima. Secondo Ward et al. (2005) risulta di fondamentale importanza la valutazione dei fattori eziologici distali e prossimali. I primi, ereditari e legati ad esperienze precoci di sviluppo, contribuiscono a rendere il soggetto vulnerabile, guidandolo – così – verso il reato. I fattori prossimali, invece, comprendono gli stati psicologici ed affettivi, assieme ad eventi e situazioni scatenanti. Si può affermare, dunque, che la comunanza di vissuti traumatici infantili tra le female sexual offenders, non comporta una univocità di atti comportamentali, in quanto ciascuna di esse agisce secondo la specificità dei bisogni da soddisfare.

Un esempio è rappresentato dalla seguente classificazione:

Gestire il potere e il controllo: la condizione di vittimizzazione subita nell’infanzia, fa sì che queste donne siano alla costante ricerca di dominio e controllo. L’abuso, difatti, diventa l’unico mezzo attraverso il quale esercitare il potere.

Dire alle proprie vittime che l’abuso è l’espressione del loro amore: il blocco dello sviluppo psicosessuale delle donne abusanti impedisce loro di stabilire relazioni affettive con i partner adulti. L’unica fonte di gratificazione sessuale deriva dall’abuso perpetrato sui bambini.

Percepire in maniera distorta il desiderio di affetto del minore interpretandolo come interesse sessuale: la percezione distorta è ricollegabile alle esperienze di contatto fisico, vicinanza e rassicurazione richieste dal bambino. Queste ultime vengono decodificate dall’abusante come desiderio di propinquità sessuale. Gli stessi bambini faticano a distinguere le varie tipologie di comportamento, labili a tal punto da mescolare abuso ed affetto.

Soddisfare i propri bisogni emozionali.

Paura di violenza da parte del partner: spesso le donne assistono e/o partecipano all’abuso assieme al partner, senza accennare ad alcuna forma di resistenza, poiché terrorizzate dall’idea che eventuali comportamenti violenti possano riversarsi su di loro.

Compiacere il partner per timore di essere abbandonate: le offenders nutrono assoluta devozione nei confronti del partner. Ciò è dovuto al forte senso di inadeguatezza e alla mancanza di autonomia, dunque la relazione di coppia sembra essere l’unico appiglio al quale ancorarsi.

Vendetta per l’abuso che loro stesse hanno subito: i traumi subiti in passato trovano sfogo nell’umiliazione della vittima mediante l’atto perverso.

Gelosia: è questo il caso delle madri che si servono dell’abuso per rivendicare il possesso sul corpo dei figli.

Soldi: in questa categoria, rientrano quelle donne che mercificano adolescenti e bambini al fine di realizzare filmati e foto da inserire nel circuito della pedopornografia.

Rabbia: il riconoscimento delle proprie fragilità, unito al forte rancore verso sé stesse, produce un senso di rabbia auto ed etero diretta.

Dallo studio di casi clinici, è stato possibile delineare altre motivazioni che spingono le donne ad abusare: Associando il genere maschile al concetto di pericolosità, si sentono maggiormente «sicure» nell’indirizzare le proprie scelte verso i bambini. Presentano disturbi psicopatologici, in maniera lieve o moderata. Queste donne hanno evidenti difficoltà di relazione col partner. I loro vissuti raccontano storie di matrimoni falliti e convivenze problematiche. Spesso sono oggetto di maltrattamenti fisici e sessuali ad opera di uomini particolarmente violenti. Ogni agito sessuale femminile presenta una sua univocità strettamente correlata ad una serie di fattori personali, maturati all’interno di specifiche situazioni ambientali. Per questo motivo, la motivazione che spinge al comportamento abusante non può ritenersi unica.

ACCUSA DI PEDOFILIA COME TRAPPOLA INFERNALE.

Pedofilia, trappola infernale. Il “detective” Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise don Giorgio, scrive Cristina Giudici su "Il Foglio". Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.

Atto Camera: Interpellanza 2-00630, presentata da FRANCESCO PAOLO LUCCHESE.

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, il Ministro per le politiche per la famiglia, il Ministro della pubblica istruzione, il Ministro della salute, per sapere - premesso che:

sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l'assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l'innocenza di una persona (vedi casi Cogne, pedofilia a Brescia, pedofilia a Milano, Rignano Flaminio eccetera) senza che queste perizie secondo l'interpellante possano considerarsi prove concrete come dovrebbe essere in un giusto processo;

lo stesso sistema, cioè l'uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all'interpellante come uniche prove, determina le decisioni del Tribunale dei Minori nell'adottare il provvedimento con la formula «urgente e provvisorio» per l'allontanamento dei minori dalle famiglie, diventano gli unici riscontri in fase iniziale per cause di pedofilia: queste perizie si basano secondo l'interpellante non su riscontri oggettivi, come nel caso della criminologia, ma su opinioni degli psicologi e psichiatri;

mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d'ingegneria occorre l'ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico (figura specializzata con corso triennale post-laurea comprendente 22 esami più la tesi di specializzazione, oltre la laurea quadriennale del percorso vecchio ordinamento), ma lo psicologo, lo psichiatra, l'assistente sociale, eccetera. La laurea (in psicologia, medicina, giurisprudenza, lettere o filosofia) era la condizione necessaria per accedere allo studio di criminologia clinica ma insufficiente per potersi occupare di crimine. Abolendo tale specializzazione si è lasciato campo libero a professioni (psicologi e psichiatri) che hanno la pretesa di essere esperti, pretesa mai suffragata da fatti concreti -:

il numero di bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento alle comunità alloggio oscilla tra i 23.000 e i 28.000 con un costo per la comunità di miliardi di euro, senza contare l'indotto in termini di necessità di assistenti sociali, spazi protetti, psicologi e neuropsichiatri infantili;

molti genitori, se vogliono rivedere i loro figli, si devono sottoporre a trattamenti psicologici prolungati ed estenuanti con il ricatto morale di non rivedere più il loro figlio;

quale sia l'entità dei bambini sotto tutela dei servizi sociali e collocati in comunità alloggio o in affido;

quale sia il numero di comunità-alloggio distribuite sul territorio italiano e la loro capacità ricettiva;

quale sia l'entità dei soldi erogati dai Comuni, Province, Regioni e Stato per il mantenimento dei bambini nelle comunità alloggio;

quale sia il tempo medio del procedimento ablativo;

quale sia il numero di bambini che torna nelle famiglie di origine dopo essere stato allontanato;

perché si siano chiuse le scuole di specializzazione post-lauream in criminologia clinica presso le facoltà di medicina e se si intenda ripristinare;

come mai dietro le cattedre di criminologia in Italia, anziché criminologi clinici, siedano quasi tutti psichiatri;

perché anziché promuovere specialisti di criminologia di alto livello si favorisca la nascita di «corsi fast-food», senza rendersi conto che il crimine ed i criminali si aggiornano anche con le tecnologie, mentre le figure che si occupano del crimine in Italia (psicologi, psichiatri, assistenti sociali) non hanno conoscenze ermeneutiche, epistemologiche e scientifiche. (2-00630)«Lucchese».

QUELLI CHE …ABUSANO GLI UOMINI.

Le oche del Campidoglio, scrive il 10 luglio 2015  su "avoiceformen.com". Narra la leggenda che i Romani assediati vennero salvati dalle oche sacre a Giunone. Queste si misero a strepitare mentre i Galli stavano scalando le mura e così misero in allarme i difensori che reagirono in tempo e salvarono la città. Lo strepito delle oche sacre è una similitudine assai appropriata per quanto è accaduto di recente in tema di alienazione parentale. L’associazione Doppia Difesa ha presentato una proposta di legge per rendere reato l’alienazione parentale. Per promuovere questa proposta di legge Michelle Hunziker ne ha parlato con Fabio Fazio a Che Tempo che Fa, ed è scoppiato un putiferio sulla rete dei blog pseudo femministi. Nel giro di pochi giorni, dopo una noiosa e sussiegosa lettera aperta del blog Ricciorno, molte commentatrici si sono esercitate nell’arte del monito e dell’intimidazione a tornare sulla retta via del politicamente corretto. Un noto avvocato delle madri alienanti ha addirittura cercato di cogliere l’occasione per salire alla ribalta mediatica ed ha  intimato a Fazio di concedergli il diritto di replica: Chiediamo al Direttore di Rai Tre, Andrea Vianello, a Fabio Fazio, che ha ospitato la Hunziker alla trasmissione che “Tempo che Fa”, a prendere le distanze dalla PAS (menzionata in trasmissione dalla Hunziker) e rettificare l’informazione anche invitando esponenti […] in grado di spiegare la pericolosa mistificazione in atto. Per dare un’idea della tempesta in un bicchier d’acqua scoppiata su questo caso basta cercare con Google le tracce dei rilanci della notizia che sono veramente numerose, e tutte più meno ispirate dalla più sfrenata isteria, tanto da far pensare allo strepito delle oche del Campidoglio. Ma se ci concentriamo sui mass media ufficiali vediamo subito che il clamore su Internet è in realtà andato a vantaggio delle proponenti. Proprio in seguito alle reazioni isteriche della rete, infatti, l’avvocato Giulia Bongiorno ha potuto spiegare pacatamente a La Stampa e a L’Espresso la fondatezza della sua proposta e la scarsa ragionevolezza degli oppositori. La campagna intimidatoria quindi si è ritorta contro chi la ha promossa ed ha fatto conoscere il termine alienazione parentale anche al grande pubblico. E quelli che speravano ardentemente di ottenere un invito da Fabio Fazio per spiegare che “la PAS è una falsa malattia inventata da un attivista della pedofilia rifiutata dalla comunità scientifica” (sic!), stanno ancora aspettando… Le oche sacre a Giunone avevano il genio della chiaroveggenza, le blogger femministe invece si sono dimostrate per quelle che sono, delle semplici e normali oche.

Come alcune femministe hanno innescato il fenomeno dell’isteria sugli abusi, scrive il 14 febbraio 2015  su "avoiceformen.com". Debbie Nathan è una giornalista e scrittrice americana, vincitrice di vari premi, ha scritto sul tema dell’isteria collettiva degli abusi sessuali. Nel corso degli anni 80 negli Stati Uniti si verificò un fenomeno definito in inglese Day-care Sex Abuse Hysteria, che successivamente è stato oggetto di vari studi.  (si veda a questo proposito la pagina di Wikipedia). Gli italiani sanno benissimo che cos’è perché ne hanno sperimentato gli effetti con venti anni di ritardo, l’ultimo episodio è stato quello di Rignano Flaminio. Per ragioni non facili da spiegare per un lungo periodo di tempo, sia negli USA che in altri paesi si è prestato fede a denunce di abusi sessuali collettivi che sarebbero avvenuti in scuole o altre istituzioni per la cura dei minori che non avevano nessun altro fondamento che le dichiarazioni dei minori stessi, ottenute da sedicenti esperti con tecniche di intervista particolari. Le caratteristiche delle denunce erano tali che una persona comune dotata di normale buon senso avrebbe dovuto rendersi conto immediatamente del fatto che erano inventate, invece investigatori, magistrati e consulenti dei tribunali le hanno considerate degne di essere credute e portate a processo. L’esito di questi processi è stato nella maggior parte dei casi l’assoluzione, in alcuni casi persone innocenti sono state incarcerate ingiustamente. Una lunga scia di vite rovinate, suicidi e altre tragedie ha caratterizzato lo svolgersi di questo fenomeno, che, vale la pena di ripeterlo, si è verificato anche in Italia con vent’anni di ritardo. La giornalista americana Debbie Nathan ha seguito alcuni di questi processi e ha pubblicato un libro che ancora oggi è considerato un classico del giornalismo investigativo. Il libro pubblicato nel 1995 si intitola Satan’s Silence, scritto assieme a Michael Snedeker, analizza il fenomeno del panico morale americano che è sfociato nella catena di processi per abusi sessuali collettivi. I primi capitoli del libro sono i più interessanti perché ricostruiscono gli antefatti del fenomeno. Meritano di essere letti attentamente perché tra gli apprendisti stregoni che hanno innescato l’isteria collettiva compaiono anche i seguaci dell’ideologia femminista nella variante radicale. La Nathan spiega come si debba retrodatare l’avvio del fenomeno ai primi anni 70, quando i servizi sociali cominciarono a occuparsi seriamente del tema dei bambini maltrattati in famiglia. Erano spesso le madri della famiglie povere che picchiavano i figli, ma la spiegazione che veniva data dalla psicologia era che il problema non era la povertà ma che si trattava di una psicopatologia, un disturbo trattabile con la terapia o con la partecipazione a gruppi di mutuo aiuto ispirati al modello degli alcolisti anonimi. Vennero concessi fondi in tutti gli Stati Uniti per promuovere questo approccio e risolvere finalmente il problema dei bambini maltrattati, e anche alcuni gruppi di femministe radicali appoggiarono attivamente il programma. Successivamente il focus dell’attenzione dei servizi sociali venne spostato sul tema dell’incesto. Come per il maltrattamento il fenomeno era prevalente nelle famiglie povere, ma visto il successo ottenuto con il programma per “curare” i genitori che picchiavano i figli gli ambienti che avevano promosso il programma pensarono di giocare la carta terapeutica anche in questo caso. Il tema però si prestava ad interpretazioni radicalmente opposte, alcune femministe ritenevano che la famiglia fosse la causa dell’incesto e che non ci fosse nessuna cura. Tuttavia per un complesso insieme di circostanze si creò una coalizione tra gli ambienti politici conservatori e le femministe radicali. Ad ambedue i fronti ideologici conveniva sostenere che c’era la necessità di un programma per “aiutare” i padri incestuosi ad uscire dal tunnel, perché da un lato apparentemente ciò serviva a “salvare le famiglie” e dall’altro ciò metteva in evidenza il ruolo negativo svolto dal predominio maschile nella società. Il programma per il trattamento dell’incesto venne sperimentato con grande successo in California nella Silicon Valley. I casi denunciati aumentarono del 90%. La ragione di questo impressionante incremento delle denunce è semplice. Il programma di trattamento era basato sul modello della “proposta che non si può rifiutare” del film Il Padrino. Il caso standard prevedeva che le notizie sulla possibile esistenza dell’incesto venissero dal contesto ambientale in cui viveva la ragazzina (scuola, vicinato ecc.). A quel punto i servizi sociali sentivano altre fonti di informazione e poi facevano la proposta in stile Don Corleone al padre sospettato di incesto. Se ammetteva il fatto e accettava di sottoporsi alla terapia non ci sarebbero state conseguenze penali e nessuno lo avrebbe saputo, in caso contrario poteva attendersi un trattamento molto punitivo. Anche la figlia e la moglie dell’accusato ricevevano una proposta dello stesso tenore, se non avessero collaborato confermando le accuse, la loro famiglia sarebbe stata rovinata economicamente perché il padre che portava i soldi a casa sarebbe finito in carcere, magari all’ergastolo. Con questo meccanismo i padri reclutati per la terapia contro l’incesto aumentarono in modo vertiginoso in tutti gli Stati Uniti e la coordinatrice del programma Kee MacFarlane (una lobbista per conto della organizzazione femminista National Organization of Women) guadagnò fama ed influenza. Quindi, ricapitolando, un’alleanza opportunistica tra politici conservatori (che volevano dimostrare di salvare le famiglie con la terapia psicologica senza toccare le condizioni economiche alla base dei problemi) e femministe radicali (che volevano dimostrare che moltissimi padri sono pericolosi per i loro stessi familiari), mise in piedi un sistema che costrinse molti padri della classe media a confessare crimini non commessi per cavarsela con una serie di sessioni di terapia ed evitare la prigione. I frutti avvelenati della vicenda dei programmi per “curare l’incesto” furono molteplici:

un abnorme aumento dei poteri inquisitori degli assistenti sociali, che operavano come una polizia speciale non dissimile dai servizi segreti dei regimi totalitari;

l’accettazione dell’idea che per questo tipo di crimini non servivano prove, perché il solo fatto che l’accusato negava era una prova della sua colpevolezza;

l’utilizzo di metodi di intervista sui minori che miravano non a conoscere la verità ma a suggestionarli e costringerli a dire quello che l’inquisitore pensava di conoscere già.

Ma questo fu solo l’antefatto di una tragedia ben più grave che prese l’avvio negli anni ottanta. E come nei film dell’orrore una delle attrici del prologo degli anni settanta ebbe un ruolo da protagonista nel sequel. Kee MacFarlane condusse personalmente le interviste alle presunte vittime della McMartin preschool. Il modo come vennero fatte queste interviste è descritto in Satan’s Silence (tradotto in “Abusi sessuali collettivi sui minori” di Angelo Zappalà, Franco Angeli 2009) e non necessita di commenti. Ultimo dettaglio (non il meno significativo): il metodo delle interviste ai minori inaugurato negli anni settanta con la benedizione delle femministe radicali per inguiare i padri, venne usato poi per accusare ingiustamente un gran numero di donne (maestre di asilo e bidelle) che vennero coinvolte nei successivi decenni nei numerosi casi di isteria da abuso, come si è visto in Italia nel caso di Rignano Flaminio.

 La discriminazione nei confronti dell’uomo, scrive il 13 ottobre 2014 Irene Facheris su "Bossy”. Classe 1989. Laureata in Psicologia, ha frequentato corsi sull'influenza sociale e sulla psicologia delle disuguaglianze. Ora lavora come formatrice e coordina il progetto Bossy. Ma tanto tutti se la ricordano per aver parlato male di "50 sfumature di grigio" su internet.

L’uomo vero non deve piangere.

L’uomo vero non deve parlare dei propri sentimenti.

L’uomo vero non deve mostrare le proprie debolezze.

L’uomo vero non deve curarsi più di tanto. Ti metti la crema in faccia? Spero tu stia scherzando.

L’uomo vero non subisce violenze da parte delle donne. Mai. Violenza sugli uomini? Ma di cosa stiamo parlando? Esiste? No, giusto? Ah ecco, dicevo.

L’uomo vero non deve sapere cucinare, a meno che non sia il suo lavoro.

L’uomo vero deve avere uno stipendio più alto della sua compagna.

L’uomo vero non può commuoversi vedendo un film. (Il mio fidanzato ha pianto per una puntata di Game of Thrones, adesso cosa faccio?)

L’uomo vero non può ballare. Di sicuro non può fare danza classica, ma se evita proprio di muoversi è meglio. Vedetela così, se le persone fossero dei film, l’uomo vero sarebbe Footloose.

L’uomo vero non può dire che si è fatto male. Anche se si vede l’osso.

Ma perché?

Perché un uomo non può mostrarsi emotivo, incapace di difendersi o sofferente?

Perché l’uomo non può piangere?

Fateci caso: l’emozione, il pianto, la manifestazione dei sentimenti… Tutti questi comportamenti definiti “deboli”, a quale universo fanno riferimento? A quello femminile. Se dei membri del gruppo “forte” attuano dei comportamenti tipici del gruppo “debole”, cominceranno ad essere trattati come deboli. Un leone che sviene dalla paura come le pecore, non avrà vita lunga nel branco. La discriminazione nei confronti dell’uomo è estremamente legata alla convinzione che la donna sia inferiore e così anche i suoi comportamenti “classici”. Quando dico che l’uguaglianza conviene a tutti, mi riferisco proprio a questo. Finché alle donne non sarà concesso di essere Persone degne della stessa stima degli uomini, agli uomini non sarà concesso piangere. È per questo che parliamo di uguaglianza e abbiamo il simbolo della donna nel logo. Statisticamente è la donna che viene penalizzata nella società, ma non vuol dire che all’uomo non accada. E accade quando ha dei comportamenti tradizionalmente associati all’universo femminile. Tra l’altro, un uomo che ha degli atteggiamenti tipicamente femminili come viene chiamato? Esatto, “gay”. Perché i gay nell’immaginario comune sono quegli uomini che scimmiottano le donne perché vorrebbero essere come loro. Ci rendiamo conto della pericolosità di questi ragionamenti? Se piangi sei per forza gay e se sei gay sei “meno uomo”. La cosa più sconvolgente è che ci sono moltissime DONNE che pensano che un uomo che manifesta le proprie emozioni sia “meno uomo”. E questo è – per tutti – un buon motivo per piangere.

Uomo, discriminato e solo. La Cecla commenta il nuovo sessismo, scrive Bruno Giurato su “Lettera 43” il 4 Giugno 2012. È possibile che il maschio, il «fallocrate», il «grande oppressore», quello che indossa lo stivale che ogni donna vorrebbe avere sulla faccia (come scriveva Sylvia Plath) rappresenti il sesso debole della nostra epoca? A quanto ne ha scritto il filosofo sudafricano David Benatar è così. Nel mondo anglosassone è già polemica dura sul suo ultimo libro intitolato The second sexism. Discriminination against men and boys (Wiley Blackwell, 2012). Secondo Benatar, che insegna all'università di Città del Capo, nella cultura contemporanea il genere maschile soffre di una discriminazione tanto diffusa quanto inespressa. Una forma di sessismo latente, e per questo più violento, opprime i maschi, in particolare nel mondo occidentale. Statistiche alla mano, Benatar fa notare che «un più alto numero di ragazzi rispetto alle ragazze lascia la scuola, un numero maggiore muore giovane e viene incarcerato». Tra barboni e homeless, poi, la popolazione maschile è prevalente. Certo, ovunque si ricorda come per le donne sia più difficile accedere a posizioni dirigenziali, ma ci sono ricerche Usa che evidenziano come agli uomini siano riservati i lavori più umili (dal netturbino al manutentore delle fognature) e come, sempre gli uomini lavorino, in media, più ore alla settimana delle donne (in Inghilterra in media 39 contro 34). Si aggiunga il fatto che gli uomini tendono a suicidarsi 10 volte più delle donne. La questione dei padri separati, che praticamente non riescono quasi mai a ottenere la custodia dei figli, e a volte devono corrispondere cifre insostenibili per gli alimenti, è un problema conosciuto anche in Italia. Ma Benatair va oltre. Anche nell'immaginario il genere maschile è spesso oggetto di un'ironia sottilmente «razzista». Ne è un esempio la figura di Peter Pan, un monumento all'inaffidabilità che ritroviamo continuamente tra film e tivù. Attenzione, però. Benatar, che è anche noto per posizioni piuttosto radicali (è un esponente dell'anti-natalismo, e nel suo precedente libro ha argomentato come per l'uomo e la donna sia decisamente meglio non nascere), non si sogna nemmeno di contestare che esista una discriminazione verso le donne. Non è, insomma, un negazionista del femminicidio, e nemmeno del fatto che la violenza verso le donne sia una infamia pura. Non a caso il libro si intitola Il secondo sessismo, lasciando intendere che il primo è, appunto, quello nei confronti delle donne. Nonostante questo, il libro di Benatair ha ricevuto solenni schiaffoni polemici, per esempio da parte dell'editorialista del Guardian Suzanne Moore, e poi dall'Observer, dal New Statesman e dall'Independent. Lettera43.it sul tema ha sentito l'antropologo Franco La Cecla, autore della ricognizione sulla condizione del maschio contemporaneo Modi Bruschi (Eleuthera). Secondo La Cecla il problema della discriminazione maschile, in particolare nei Paesi anglosassoni esiste. «Una volta c'era la dominazione maschile», ha spiegato, «ma al suo venire meno è emersa la guerra tra i sessi. Semplicemente si tende a sostituire alla dominazione maschile quella femminile. Non c'è una vera dialettica, un vero confronto, fra uomo e donna». Secondo l'antropologo ci sarebbe bisogno «di un nuovo Contratto sociale, sulla scia di Rousseau». «Sarebbe necessaria una nuova negoziazione civile e politica tra uomo e donna», ha aggiunto. «Il femminismo estremo ha semplicemente sottratto la donna dalla società, incasellandola in una categoria a sé». «Chi sostiene che gli uomini provino invidia del vittimismo femminile», ha aggiunto riferendosi alle accuse rivolte a Benatar dalla stampa inglese, «identifica il femminile con il vittimismo, con il senso di rivalsa». Secondo Benatar la violenza sugli uomini non viene considerata soprattutto perché il maschio è per natura meno incline a chiedere aiuto, a manifestare la sua condizione di disagio. «E a chi potrebbe chiedere aiuto, anche volendo?», ha risposto La Cecla. «Qui non ci sono psicanalisti o strutture culturali che possano aiutare: il mondo femminile è altrettanto confuso del maschile». Mal comune nessun gaudio, quindi. E se la cultura di riferimento e il dialogo vengono meno, emergono spinte identitarie, fondamentaliste, puramente ideologiche». «Leggendo certe prese di posizione polemiche sembra che gli uomini siano cattivi per il solo fatto di essere uomini», ha continuato l'antropologo. «In Francia ci sono stati casi di donne infanticide a cui sono stati affidati gli altri figli, perché la matenità sarebbe più naturale della paternità. Come se la natura potesse da sola garantire il risultato educativo, indipendentemente dai comportamenti». Anche in questo caso, insomma, si tratta di pure prese di posizione ideologiche, del tutto staccate dalla realtà. Ma a giudicare dalle reazioni internazionali al libro di Benatar (in Italia per ora tutto tace), la via attraverso cui uomo e donna dovrebbero affermare la loro «fratellanza» (parola usata da un'icona della liberazione femminile come Simone De Beauvoir) sembra quantomeno accidentata.

Colonia, i pensieri della fava e Pippo, scrive Antonella Grippo il 18 gennaio 2016 su “Il Giornale”. La miserevole, parodica mimica del glorioso paleo-femminismo, meglio nota con la ragione sociale del “se non ora, quando”, al cospetto delle impietose cronache di Colonia, ha prodotto l’ultimo flebile rantolo. Poi è esalata (per fortuna). Lo spettacolare assalto al cielo che, negli anni ‘ 60-’70, aveva tumulato l’idea protocollare ed anemica del corpo femminile, sottraendolo all’ipoteca statutaria della procreazione e promuovendone la soggettività impeccaminosa, è stato tumulato, a sua volta, nel recente passato, da un nugolo di parashampiste a cottimo. In realtà, paracule per le quali l’inquietudine del basso ventre maschile è a geometrie variabili. Insomma: c’ è fallo e fallo. Quello immigrato, lo si sappia, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica persino nella sua massima e ruvida erezione animale. Non è che puoi fare la combattente femminista se non c’è di mezzo Berlusconi. Come fai a prendertela con il piffero musulmano? E’ poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti da guerra e povertà. Un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato e discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Parola del femminino formato tessera della provincia nostrana. Vuoi mettere… Altro che la saccente protuberanza virile dell’impiegato del catasto di Casalpusterlengo, che, seppur dimessa, oltre ogni ostacolo, si sollazza con lo stupro della suocera, colpevole assertice della secessione della Romagna. Per non parlare dei ragionieri di Avellino, delle cui incontinenze sessuali consta l’intera indagine clinica di Sigmund Freud. Non è un mistero per alcuno che proprio dall’osservazione del ceto medio maschio campano, egli abbia ricavato, empiricamente, la teoresi edipica. E che dire della fava del benzinaio di Matera che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’arte operaia del Femminicidio. Da non dimenticare, inoltre, la maschietà violenta del brianzolo che osò recintare nel perimetro di Arcore tutte le modulazioni possibili del Male, attentando alle virtù dell’illibata, incappuccettatarossa Rubj-fotticuore. Tutto il resto non fa dottrina. Men che meno, Colonia. Ma davvero si poteva immaginare che le damine di San Vincenzo disertassero i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, o i raduni circa le qualità insuperate del CifAmmoniacal,in quanto killer di batteri da bidet , per occuparsi di femmine , perdippiù tedesche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni profughi, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima  di multimazza? Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza, secondo cui “il pisello non vuole pensieri.” Contrordine, compagne:il pisello  musulmano convoca tutta la storia del pensiero planetario. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane.Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. E’ un’innocenza analitica. Politically correct. Se non lo sai, non sei trendy come la Maraini. Rischi l’anatema della Pinotti. Boldriniche omissioni ti sorvegliano. E poi, lo stupro ad opera di più Ma(n)ometti rifugiati collettivizza la fava come mezzo di (ri) produzione. Una figata marxista. Per noi, sparigliatrici romantiche, una gracile speranza: il sussulto femminista di Civati. Gli assorbenti a basso costo. Tramonta la “via menopausale al socialismo” e si apre un nuovo” ciclo”. Assaltiamolo ancora, il cielo. A bordo di un salvaslip. Dei leggins si occuperà Fassina.

25 cose che le donne dicono e gli uomini non capiscono, scrive “La Repubblica” il 2 febbraio 2016. Che per capirsi non basta parlare la stessa lingua non è una novità: gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere, come si diceva spesso negli anni Novanta, parafrasando l'omonimo libro. Ma quali intenzioni e concetti, esattamente, gli uomini non colgono? Quali parole fraintendono? Senza alcuna pretesa di scientificità, né di esaustività, ecco una divertente lista delle 25 parole o frasi che vengono equivocate, con tanto di traduzione e suggerimento di risposta a beneficio di mariti, amanti, amici e compagni, che ancora traducono in maniera letterale quel che diciamo, sbagliando. Condividetelo con il vostro "lui", perché impari a capirvi e soprattutto per ridere assieme dei luoghi comuni sui misunderstanding di coppia.

1) "Niente..." Vuol dire "tutto". Se la tua donna dice "niente", ti conviene scoprire in fretta cosa voglia dirti... 

2) "Pensi che questo vestito mi faccia grassa?" È come dire "pensi sia brutta?". Non pensare, rispondi categoricamente NO. 

3) "Gira al largo". No, non mostrarti carino, non cercare il riavvicinamento, non fraintendere, non considerarlo un permesso. Va preso alla lettera, è un divieto. 

4) "No". Vuol dire no. Punto.

5) "Sì": in alcuni casi vuol dire "no". Ci sono eccezioni ed è davvero difficile distinguere un vero sì da un falso. Statisticamente, l'uomo sbaglia sempre.

6) "Forse". Vuol dire comunque "no".

7) "Sarebbe bello se…" Il "se" nasconde sempre un ordine categorico.

8) "Fine, stop". Vuol dire che la discussione è finita, lei ha vinto e tu hai perso.

9) "Ok". Non è mai un "va bene", significa solo che lei ha bisogno di tempo per pensare alla giusta punizione per te.

10) "Mi stai ascoltando?" No, non la stavi ascoltando. Non ci sono mai prove sufficienti a provare il contrario. Arrendersi subito è la sola cosa tu possa fare.

11) "Decidi tu". Se credi che sia una concessione a prendere una decisione, sbagli di grosso. La vera traduzione è: "sta a te scegliere la giusta alternativa che io penso ma non ti dico perché lo devi sapere da solo". Fare la scelta giusta significa farsi rispondere "ok" (vedi punto 9).

12) Silenzio... Segnale significativo, e preoccupante. Tradotto: "non posso credere che io stia qui a scontrarmi con la tua stupidità". 

13) "5 minuti". Dipende dal contesto: se si sta vestendo valgono tra i 30 e i 40 minuti. Se invece tu stai vedendo la tv, significa che la devi spegnere in 0 minuti, tradotto: "perché vedi la tv quando potremmo fare qualcosa di più produttivo, assieme?" 

14) "Qualsiasi...". È come "ok" (punto 9), ma peggio. Molte volte è seguito dal punto 10: mi stai ascoltando? Non promette insomma mai nulla di buono, abbassa le orecchie subito.

15) "Grazie!". Vuol dire "grazie!". Respira, rilassati, rispondi "prego".

16) "Grazie molte!". Sottile differenza con il precedente, vuol dire l'esatto contrario. Sarcastico. Non rispondere mai "prego".

17) "Non ti preoccupare di questo". Vuol dire che dopo averti chiesto di fare qualcosa alla fine lo sta facendo da sola. Ogni tentativo di rimediare da parte tua porta al punto 12: silenzio.

18) "Possiamo andare dove vuoi". In molti casi vuol dire "scegli il mio ristorante preferito". Se non ricordi qual è, procedi per esclusione: è sempre quello più caro.

19) "Dobbiamo parlare..." Sei morto.

20) "Cosa stai facendo?" Non è una domanda, significa: "stai facendo qualcosa di sbagliato".

21) "Devi farlo proprio ora?" Anche questa non è una domanda, significa interrompi subito e preparati a ricevere ordini.

22) "Devi imparare a comunicare". Comunicare significa "essere d'accordo con me". 

23) "Non sono arrabbiata!!!". È arrabbiata. 

24) "Abbiamo bisogno…" = Lei vuole qualcosa.

25) "Non voglio parlare di questo". Lei vuole parlarne, eccome, ma al momento vuole che tu te ne vada perché sta raccogliendo prove contro di te.

15 errori beauty che gli uomini non sopportano di noi, scrive Angela Croce il 27 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Anche al più fedele e collaudato compagno certe (cattive) abitudini beauty femminili proprio non piacciono! Per esempio, trovarsi di fronte unghie aggressive, sopportare un trucco esagerato, farsi andare a genio quei capelli dal look finto/spettinato e soprattutto accarezzare la pelle tendente al ruvido... Sfogliate questa gallery e correte ai ripari.

Le labbra che "incollano". Lascia perdere i lucidalabbra vistosi, appiccicosi e zero attraenti. Punta invece sulle nuove texture lucide e sottili.

Le gambe ruvide. Mai abbassare la guardia e anche se indossi le calze, le gambe devono essere sempre lisce e perfette. Attenzione a curarle in modo adeguato sempre: è brutto mostrare i peletti che stanno ricrescendo...

Il lungo voluminoso. Non cotonare le lunghezze, evita che le doppie punte siano troppo visibili e che l'effetto crespo sia troppo invasivo. Queste pettinature stanno bene alle modelle e solo in qualche occasione speciale a tutte le altre donne.

La manicure creativa. È inutile illudersi: anche i maschi più evoluti amano le cose semplici... Elimina le nail art troppo eccentriche (brillantini, decori, cuoricini ecc) soprattutto in ufficio.

Quelle ciglia un po’ così. Certo, lo sguardo da cerbiatta è sexy, eccedere con chili di mascara come fa Kim Kardashian invece no! Meglio optare per effetti più naturali.

Esagerare con il profumo. 1. Evita le fragranze troppo invasive. 2. Evita anche le sovrapposizioni tanto di moda per ottenere un jus personalizzato: è un'arte che non tutte sanno mettere in pratica. Applica la tua eau de toilette preferita solo sui polsi e sulle caviglie, lascia “libero” il collo: gli uomini adorano sentire il profumo naturale della pelle nuda.

Il fondotinta a strati. Quando il viso è troppo “finto” con quell’effetto stratificato e spesso, è controproducente soprattutto al primo appuntamento. Punta su una base naturale ma coprente, attenuando le imperfezioni con un correttore.

Gli hair styling spettinati. Da qualche anno sono all'ultima moda, ma sono interessanti soprattutto in passerella. Nella vita di tutti i giorni, questo casual look è sinonimo di disordine e trascuratezza... 

La scollatura "ruvida". È vero è difficile applicare la crema sulla schiena ma è spiacevole vedere (ed eventualmente) accarezzare la pelle secca. A questo punto, gioca d'astuzia: scegli un balsamo doccia/idratante-nutriente, un prodotto che mentre lava, idrata e ammorbidisce la pelle.

L’occhio troppo... fumoso. Bellissimo il trucco smokey eyes ma attenta: rendilo sempre “portabile” perchè gli uomini facilmente lo considerano “troppo pesante” e si chiedono se struccata sarai altrettanto attraente... 

Le labbra "trascurate". Quando il colore del rossetto risulta poco omogeneo e a macchie significa che la mucosa labiale è disidratata. Per levigarla, prima ci vuole uno scrub specifico che elimini le pellicine, poi un balsamo nutriente.

I capelli a "cofana". Niente maxichignon se il tuo lui è un tipo timido e geloso... Questo tipo di hair styling sa attirare gli sguardi e tu sarai al centro dell'attenzione.

Il gipsy look in città. Sicuramente perfetto per un party sulla spiaggia con tanto di pareo a piedi nudi, decisamente fuori luogo per una cena nel suo ristorante preferito. Adori l'eyeliner? Usalo in modo più classico.

I capelli iperaccessoriati. Mollettine, cerchietti, fermagli, nastrini tra i capelli è un altro fortunato trend da sfilata. Se ti piacciono le decorazioni, adotta il principio "Less is more" per evitare di sembrare un albero di Natale.

Il rossetto sui denti. Per avere un sorriso smagliante: spazzola i denti delicatamente con un pizzico di bicarbonato. Attenzione, fallo solo quando serve altrimenti lo smalto si rovinerà. Per togliere le macchie di rossetto dai denti, invece, dopo aver applicato il rossetto, togli l'eccedenza nella parte interna della mucosa con un kleenex oppure metti un dito in bocca e poi sfilalo con la bocca chiusa: il rossetto rimarrà sul dito. 

GENITORIALITA' MALATA.

Denunce, visite, pianti: storia di un bimbo «usato» come arma tra mamma e papà. Il ragazzino soffre di disturbi psicologici a causa dello scontro decennale tra i genitori. Per i giudici entrambi sono inadatti a seguire il figlio e dargli le cure necessarie, scrive Elena Tebano l'11 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Dieci anni sono molti per un adulto, sono un tempo infinito nella vita di un bambino. Tanti ne sono passati da quando Marco, che ne ha solo 13 (il nome è di fantasia), è finito al centro della guerra tra i suoi genitori, «usato come strumento del conflitto di coppia», scrivono i giudici del Tribunale dei minori di Venezia nel decreto che a fine novembre ne ha disposto l’allontanamento dalla madre, dopo che già poteva vedere il padre solo con gli assistenti sociali. Non perché sarebbe troppo effeminato (come sostiene l’avvocato della madre appigliandosi a un infelice passaggio del dispositivo), ma perché Marco non sta bene. In una vicenda in cui l’esistenza di questo bambino è diventata campo di battaglia, è l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo: giudici, psicologi, avvocati, famiglia. Intanto il tempo passa e le condizioni psicologiche di Marco — si legge ancora negli atti — peggiorano. In principio di questa storia, c’è una separazione apparentemente come tante, nel Padovano: i genitori di Marco smettono di convivere nel febbraio del 2007. Marco sta con la madre, Monia Gambarotto, consulente amministrativa di 43 anni, e va a trovare il padre accompagnato dalla sorella più grande, di 11 anni, nata da una precedente relazione della donna. Presto però arriva un sospetto pesantissimo: ad agosto 2007 Gambarotto denuncia l’ex compagno, che all’epoca ha 35 anni, per molestie nei confronti della figlia. Il bimbo prosegue le visite da solo. A novembre una nuova denuncia: per abusi fisici e sessuali, questa volta nei confronti di Marco (lo avrebbe toccato impropriamente). Sia quella riguardante la figlia che quella riguardante il bambino vengono archiviate. Nell’agosto 2008 Gambarotto denuncia ancora l’ex, portando nuovi elementi. A febbraio 2012 viene rinviato a giudizio con l’accusa di aver costretto il figlio ad atti sessuali. Su quanto è successo non c’è ancora una verità giudiziaria definitiva: nel novembre del 2014 il Tribunale di Padova ha assolto l’uomo perché il fatto non sussiste, ritenendo che le ripetute testimonianze del bambino possano essere «state in qualche misura influenzate dal desiderio di compiacere l’interlocutore adulto di riferimento (nel caso di specie la madre) e di adeguarsi alle sue aspettative», ma il pm Emma Ferrero ha fatto appello nel gennaio successivo, convinta che i giudici abbiano sbagliato a non considerare attendibili i racconti di Marco. Il procedimento andrà avanti. La guerra tra i genitori anche. Nelle parole degli adulti si intravede a stento il profilo di questo bambino fragile. Dagli atti emerge la sua sofferenza per le visite al padre, un bimbo che (si legge in una testimonianza di un’amica della mamma) «al rientro» è «sconvolto, piangeva, si abbracciava alla mamma, non parlava più con nessuno», i tentativi sempre più disperati di sottrarsi ai colloqui protetti presso i servizi sociali, i pomeriggi in comunità e le difficoltà crescenti a scuola. «Nell’agosto 2011 presso gli uffici del Servizio sociale veniva tirato fuori dall’auto dalla dottoressa, mentre lui si aggrappava con forza ai sedili perché non voleva vedere il padre», si legge nella memoria conclusiva presentata a luglio dall’avvocato Francesco Miraglia (legale della madre) per chiedere la sospensione degli incontri tra Marco e il padre. È una scena che ricorda quella terribile avvenuta poco lontano da casa di Marco nel 2012, a Cittadella, quando un altro bambino conteso venne prelevato a forza dalla polizia che doveva eseguire l’ordine di allontanamento dalla madre. L’epilogo (parziale) è triste per tutti: il decreto con cui il Tribunale di Venezia ritiene entrambi i genitori inadatti a seguire Marco nel percorso terapeutico di cui ha bisogno. Ci sono scritte parole durissime sulle condizioni del bambino. La madre, che adesso si mostra in tv (ed è pronta «a correre il rischio di renderlo riconoscibile per impedire che lo portino via») quando l’ha ricevuto l’ha fatto leggere al bambino, perché — si è giustificata — «è grande abbastanza per sapere quello che succede».

"Troppo effeminato", tredicenne tolto alla madre. E a Padova scoppia la polemica. Il Tribunale dei Minori allontana il ragazzino dalla famiglia perché "è diverso e ostenta atteggiamenti in modo provocatorio". Una storia di abusi e disagio in cui la vittima è sempre l'adolescente, scrive Enrico Ferro il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". "Tende in tutti i modi ad affermare che è diverso e ostenta atteggiamenti effeminati in modo provocatorio". Parole con cui il Tribunale dei Minori definisce il comportamento di un ragazzino di 13 anni della provincia di Padova. Parole che incidono pesantemente sulla sua vita perché ora quell'adolescente non potrà più stare con la sua mamma. L'atteggiamento 'ambiguo', secondo la relazione dei Servizi sociali, sarebbe dovuto al fatto che "il suo mondo affettivo risulta legato quasi esclusivamente a figure femminili e la relazione con la madre appare connotata da aspetti di dipendenza, soprattutto riferendosi a relazioni diadiche con conseguente difficoltà di identificazione sessuale". La notizia è stata pubblicata dal "Mattino di Padova". Secondo il quotidiano, in alcune occasioni il ragazzo era andato a scuola con gli occhi truccati, lo smalto sulle unghie e brillantini sul viso, contestano nella relazione che ha generato il decreto di allontanamento dal nucleo familiare. Ma la madre ribatte, sostenendo che si trattava di una festa di Halloween. Il disagio in questa famiglia parte da lontano. C'è un'accusa di abusi sessuali da parte del padre. Il processo si conclude con un'assoluzione per l’uomo, anche se nella sentenza si dice che "non c’è motivo di dubitare dei fatti raccontati dal bambino". Tutto e il contrario di tutto, in una girandola di accuse in cui la vittima è sempre una: lui, con i suoi 13 anni. Da quei presunti abusi sessuali scaturisce il primo affidamento a una comunità diurna, dalle 7 alle 19. I responsabili della struttura notano gli atteggiamenti effeminati del ragazzino, li segnalano ai servizi sociali e così prende corpo un secondo provvedimento dei giudici. Quello del definitivo allontanamento dalla madre. "Trovo scandalosa la decisione di allontanare un ragazzino solo per l'atteggiamento effeminato", dice l’avvocato Francesco Miraglia, specializzato in diritto di famiglia. "Mi sembra un provvedimento di pura discriminazione". La decisione del Tribunale dei Minori è stata impugnata dal legale che annuncia battaglia.

«Quel 13enne sembra femmina: toglietelo alla madre», scrive Simona Musco l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Allontanato dalla madre e dal padre per «segnali di disagio psichico», tra i quali «difficoltà di identificazione sessuale». Luca – il nome è di fantasia -, 13 anni, il 24 novembre scorso è finito nel decreto di un giudice del tribunale dei minori di Venezia, che per risolvere il «disturbo della personalità» che lo affligge, far fronte alla «necessità di metterlo in contatto con i propri desideri» e avviare un percorso di revisione del suo mondo interno, ha deciso di interrompere temporaneamente i rapporti coi genitori. Decaduta la patria potestà, almeno temporaneamente. Perché Luca, secondo gli assistenti sociali che già lo hanno preso in carico sarebbe aggressivo e maleducato, bugiardo e provocatorio. Ma il problema più grave, a sentire gli assistenti sociali, sarebbe un altro: Luca «ostenta atteggiamenti effeminati» e ha «difficoltà di identificazione sessuale» legate al rapporto di dipendenza con la madre. La storia è delicata e articolata. Ma Francesco Miraglia, il legale esperto di diritto di famiglia che segue la madre di Luca, parla di «rischio discriminazione». Arrivare in una casa famiglia, un ambiente molto delicato e difficile, col marchio di omosessuale, infatti, potrebbe compromettere ulteriormente l’equilibrio di un ragazzino conteso tra due genitori che, più volte, si sono sfidati in tribunale. Il decreto del tribunale dei minori parte da qui: il padre di Luca vuole riavere suo figlio. E la madre non vuole lasciarlo andare. In mezzo c’è il pubblico ministero, che ha chiesto – e ottenuto – il collocamento del tredicenne in una struttura residenziale idonea, che sarà compito dei servizi sociali individuare, il decadimento della patria potestà da parte di entrambi i genitori e l’incontro con gli stessi in modalità protetta. Luca, dal 2007, vive solo con la madre. Gli incontri col padre sono stati sospesi da un anno e mezzo, dopo la denuncia sporta dalla donna contro di lui per una pesante accusa: maltrattamenti e abusi ai danni del figlio. Il procedimento a carico dell’uomo, però, si è chiuso con un’archiviazione, essendo emersa, da una perizia disposta dal gip, «l’incapacità del bambino a rendere testimonianza a causa di un vero e proprio blocco emotivo rispetto alla tematica del padre». Insomma, non è stato possibile accertare fino in fondo se le accuse fossero fondate o un’invenzione. Luca, infatti, non riesce a dire com’è andata. Il tribunale dei minori ha quindi disposto un percorso di ripresa graduale dei rapporti tra il padre e il figlio, guidato dai servizi sociali, e un sostegno che consentisse ai genitori di rapportarsi tra loro nell’interesse del bambino. Ma per il giudice ciò non è avvenuto, anzi il bambino sarebbe stato usato come «strumento del conflitto di coppia». Il ragazzino era stato così affidato ai servizi sociali per le attività scolastiche e ricreative. Dalle 7 alle 19 sono gli assistenti sociali a vigilare su di lui, a farlo studiare e relazionare con i coetanei. Ma dall’analisi effettuata dagli esperti in quel contesto sarebbero emersi i problemi del ragazzino. Luca, appunta il tribunale riferendosi alla relazione tecnica, «presentava problematiche relazionali profonde e segnali di disagio psichico», come aspetti regressivi e aggressivi. Violento, irascibile, in opposizione con tutti. Ma, soprattutto, «il suo mondo affettivo risultava legato quasi esclusivamente a figure femminili e la relazione con la madre appariva connotata da aspetti di dipendenza, soprattutto riferendosi a relazioni diadiche con conseguente difficoltà di identificazione sessuale – si legge -, tanto che in alcune occasioni era andato a scuola con gli occhi truccati, lo smalto sulle unghie o brillantini sul viso». Una festa di Halloween in terza elementare, ha chiarito la madre. Ma la storia travagliata di questo ragazzo è andata avanti così. Il bambino, nel 2014, è stato infatti inserito in un gruppo famiglia, per consentire «l’intervento psicoterapico ed educativo». Le denunce non mancano nemmeno in questo caso: la madre di Luca, infatti, ha denunciato per percosse il responsabile della comunità diurna. E ha poi denunciato, nuovamente, il padre per abusi sessuali sul figlio. Un padre passivo, dice il tribunale, e una madre che in alcun modo si sente responsabile della situazione. Il percorso di recupero, per il tribunale, è dunque fallito per colpa dei genitori. In mezzo ci sta Luca, conteso e statalizzato. Destinato, forse, ad arricchire l’esercito dei bambini rapiti dallo Stato.

FILIAZIONE MALATA.

Mentre Manuel li colpiva nel letto, loro chiamavano il figlio Riccardo. L’interrogatorio dei due amici: «Abbiamo deciso di ucciderli il giorno prima». Vincelli e la moglie Nunzia non sono stati colti nel sonno: si sono svegliati quando Manuel è entrato in camera impugnando l’ascia con cui li ha uccisi, o forse non erano addormentati, scrive Giusi Fasano il 13 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Dopo l’interrogatorio per la convalida del fermo, venerdì, ecco altri dettagli dalla notte dell’orrore. Salvatore Vincelli e sua moglie Nunzia non sono stati colti nel sonno — come si era pensato inizialmente — dalla furia omicida di Manuel. Si sono svegliati quando lui è entrato nella camera da letto impugnando l’ascia con la quale li ha uccisi, o forse non si erano ancora addormentati. Hanno fatto appena in tempo a capire che quelli erano i loro ultimi istanti di respiro, hanno guardato quel ragazzino che avevano visto crescere mentre saltava sul letto, mentre alzava le braccia per colpirli, e hanno urlato una sola parola: il nome del loro figlio, Riccardo. Lo chiamavano, speravano nel suo aiuto. E invece lui, Riccardo, si era accordato con Manuel aprendogli la porta di casa: «Io ti aspetto qui. Tu li uccidi e quando hai fatto mi chiami». «Qui» era la sua stanza-rifugio ricavata da un garage proprio dietro la villetta della strage, a Pontelangorino, frazione di Codigoro, angolo sperduto del Ferrarese alle spalle del Delta del Po. Manuel ha eseguito. Li ha colpiti in testa: tre volte lui, sei volte lei. Poi è andato dall’amico di sempre. «Fatto». Avevano comprato dei sacchetti neri della spazzatura, Manuel e Riccardo, perché avevano progettato di liberarsi dei corpi di Salvatore e Nunzia buttandoli in un canale con delle pietre al collo e Riccardo aveva detto a Manuel che lui avrebbe aiutato a trasportarli, sì, «ma non voglio guardarli in faccia». È difficile perfino immaginarli mentre l’uno lega i sacchetti sulla testa sfondata dei due poveretti e l’altro, il loro figlio, lo aspetta nella stanza accanto. Al giudice delle indagini preliminari Luigi Martello, che venerdì ha interrogato tutti e due e ha poi convalidato il fermo per entrambi, hanno risposto con spiegazioni disarmanti. Qualche esempio. «Perché hai accettato di ucciderli?», «Perché Riccardo è un amico, mi ha chiesto di aiutarlo e io l’ho aiutato. Lui è uno che non ha mai fatto male a nessuno e allora l’ha chiesto a me». «Da quando stavate pensando di farlo?», «Dal pomeriggio del giorno prima». Quel pomeriggio Riccardo ha detto a Manuel di aver avuto l’ennesima discussione per la scuola che andava male, di non poterne più di mamma e papà, che voleva farli fuori perché non sopportava più tutte le loro imposizioni. Probabilmente ci pensava da tempo. «Ma scherzi o lo dici davvero?» ha chiesto Manuel. «Non scherzo per niente». E allora eccoli al super a comprare i sacchetti, a studiare un minimo di piano d’azione, ad aspettare che fosse notte per provare a sorprendere le vittime nel sonno. Nella ricostruzione fatta fin qui, i soldi promessi o dati da Riccardo a Manuel restano sullo sfondo, non sembra che siano stati la molla del massacro. E anche il movente: nessuna causa scatenante precisa. «Perché ucciderli?», ha chiesto il gip. «Perché mi sgridavano sempre» ha risposto Riccardo. «Litigavamo di continuo per la scuola, volevano che tornassi a casa entro certi orari, mi dicevano che se avessi continuato a non combinare niente nella vita a 18 anni mi avrebbero cacciato di casa...». Altra domanda: «Perché hai chiesto a Manuel?» «Perché io non ne sarei stato capace». Nella sua ordinanza di custodia il gip accoglie l’ipotesi del pubblico ministero della Procura dei minori Silvia Marzocchi, cioè la necessità del carcere perché, aveva scritto il pm nel provvedimento di fermo, «considerato ciò che hanno mostrato di saper fare» è possibile per entrambi la reiterazione del reato. Potrebbero tornare a uccidere data la «disinvoltura e la facilità» con le quali hanno commesso il duplice omicidio.

Omicidio Ferrara, i videogame, il bar e gli spinelli. Così hanno preparato il delitto. Manuel e Riccardo, i due killer di Ferrara, vivevano la loro vita tra il bar della piazza, la console e i giri in scooter. Nel loro futuro nessun progetto di vita o di lavoro, scrive Gabriele Bertocchi, Venerdì 13/01/2017, su "Il Giornale". I videogiochi, il bar del Paese, i giri in scooter. E ancora, le partite di calcetto, le sigarette e la scuola. Si riassume così la vita di Manuel Sartori e Riccardo Vincelli, i due killer di Ferrara che hanno ucciso i coniugi Vincelli, madre e padre di Riccardo. Una vita vissuta sempre insieme, trascinandosi l'un l'altro. Una vita divisa tra videogame e spinelli. Le giornate dei due scorrevano nello schermo di un televisore: i videogiochi erano il loro massimo divertimento. La scuola veniva saltata per passare ore con il joystick in mano, e la notte capitava che non si dormisse per giocare ai videogame. A pochi metri dalla casa del massacro, un altro luogo di svago dei due assassini: il Club One. Un bar di paese come ne esistono ovunque. Qui li ricordano tutti tra partite di calcetto, giri al centro commerciale di Comacchio e il sigarette consumate discutendo in piazza. Riccardo era appassionato di sigarette elettroniche e non. "Lo vedevi seduto qui magari per un pomeriggio intero a chiacchierare e fumare, quasi sempre Manuel era con lui", racconta un ragazzino intervistato da Il Corriere. Poi c'erano le serate in discoteca, poche, per di più divise tra l'Ipanema d’estate e il Caprice d'inverno. Qui il tempo si divideva tra la pista da ballo e le fotografie da postare sui social network, con un superalcolico in mano o con qualche ragazza. Nella loro adolescenza, Manuel, a differenza di Riccardo, ci sapeva fare con le coetanee, Riccardo secondo tutti era più timido e insicuro. Le ex fidanzate e le amichette non commentano, ma qualche compagno di scuola però parla del loro rapporto con la droga. Gli spinelli, per entrambi, era all'ordine del giorno, e lo confermano anche le analisi fatte dopo l'arresto. Non solo, Riccardo si vantava di aver sniffato cocaina: "Mi ha fatto sentire potente", avrebbe confessato nel solito bar. Divertimento, svago e poca scuola. Per non parlare del lavoro. Nelle giornate dei due amichetti c'era spazio per tutto. Il telefonino, le chat e qualche discussione con gli altri amici. Una vita destinata al nulla più assoluto. I loro genitori ci avevano provato a metterli in riga, gli insegnanti anche. Ma non c'era nulla da fare. Nessun progetto di vita o aspirazione lavorativa. L'unico piano che i due coltivavano era quello di uccidere i genitori di Riccardo.

Ristoratori uccisi dal figlio, l'ex fidanzatina dell'omicida: "Teneva più al cane che a me". "Da lui mai un regalo. Non era aggressivo ma stava chiuso in camera per ore". Parlano le ragazze che di recente hanno frequentato il sedicenne Vencelli e l'amico, scrive Brunella Giovara il 14 gennaio 2017 su "La Repubblica". La villetta in cui è avvenuto il duplice omicidio (ansa)CODIGORO (Ferrara) - Una lacrima sul viso di Silvia, che ha solo 13 anni e l'altro giorno ha scoperto di aver amato, anche se la parola può sembrare enorme, un ragazzo che ha deciso di ammazzare i genitori, assieme a un amico. E i due l'hanno fatto davvero. Perciò Silvia piange, mentre ascolta la canzone che "lui mi aveva mandato questa estate. Me l'aveva dedicata. Ascoltala, è dolce". "Tra tutte le persone solo tu mi conosci davvero, quant'è difficile riuscire a camminare senza farsi male...". La canzone si chiama Carillon, la canta un certo Mr. Rain e la conosce solo chi è nato dopo l'anno 2000. Silvia è tenera, e spaventata: "Mi fa piangere perché penso a com'era. Era un timido, uno che certe volte stava chiuso nella sua camera perché non aveva voglia di niente. Però voleva bene più al suo cane Zac che a me. Strano, no? Zac era la cosa più importante per lui". Poi le scappa da ridere: "Pensa che una volta suo fratello Alessandro voleva portarlo a Mirabilandia, per farlo distrarre e divertire un po'. E lui non c'è voluto andare! Non voleva lasciare solo Zac, ecco". In un piccolo bar vicino al mare, in un paese non lontano da Pontelangorino, due ragazzine raccontano come erano i loro fidanzati. Silvia, e Francesca, che ha 16 anni ed era la fidanzata dell'amico, del ragazzo che ha materialmente ucciso Salvatore Vincelli e Nunzia Di Gianni. I nomi non sono quelli veri, ma se li sono scelti loro, "sono i nomi che ci sarebbe piaciuto avere". Silvia è bionda, l'altra è nera di capelli, e anche di umore, se ripensa alle giornate passate con quello che nel giro di poco tempo ha visto trasformarsi, "diventare cattivo, menefreghista, anche stronzo con me, che pure cercavo di aiutarlo. Ma non ci siamo mai fidanzati per davvero, perché per me non era uno serio". Perché? "Gli piacevano anche altre ragazze, appena poteva scappava da un'altra. Io ci stavo male, ma mi piaceva. Era un bel tipo". Uno povero, "che o fumava o mangiava. Quindi fumava. Non mi ha mai fatto un regalo. Anzi, mi aveva promesso una collana, ma ci siamo lasciati prima". Per la cronaca, l'ha lasciato lei. E queste cose contano, nella vita dei ragazzi. Così, Francesca non piange per il destino del fidanzato della scorsa estate, "se ha fatto quella cosa, è diventato matto". Arriva un'amica, più dura: "La vigilia di Natale è arrivato qui al bar, e ha detto "auguri" con un tono così lugubre che ci siamo zittiti tutti. E l'altro, il figlio dei Vincelli, quest'estate in spiaggia era in crisi, e diceva a tutti "io quella la faccio fuori", e voleva dire la mamma". Le altre si spaventano, e Silvia spiega che "a me non ha mai detto niente, non mi ha mai parlato dei suoi, se gli voleva bene o no". Allora racconta come è cominciata, tra loro. "È capitato qui, mi guardava sempre, poi ci siamo messi insieme". Subito. "Non proprio, dopo qualche giorno. E anche il primo bacio, non glie l'ho dato subito, certe cose non le faccio". Silvia e il suo fidanzato, alto, bello e ricco, non sono mai stati da soli: "Lui mi chiedeva di andare a fare un giro in scooter ma io avevo paura. Stavamo qui, in gruppo. Parlavamo tutti insieme, noi del paese, maschi e femmine, e loro due che arrivavano da Pontelangorino ogni giorno, e d'estate al lido di Volano. Ma sempre tutti insieme". Di cosa si parlava? "Di musica, di canzoni, se avevo bisogno di qualcosa mi dava dei consigli". Era "un pezzo di pane, con me non è stato mai aggressivo". Andava d'accordo con il fratello Alessandro, quello che abita a Torino? "Sì, avevano un buon rapporto, ridevano e scherzavano. Si volevano bene". Sei mai andata a casa sua? "No. Sapevo che aveva una casetta tutta per lui, in giardino, ma non l'ho mai vista. Lì ci stava con gli amici maschi". Ma la scorsa estate è stata meravigliosa, di tuffi dai pontili, tutti nello stesso bagno, un'estate che sembrava non finire più. "Mi faceva ridere, ma anche arrabbiare, perché pensava solo al cane, era sempre in giro con il cane. Mi diceva "te lo porto lì sullo scooter", ma come faceva, il cane è grosso. Mi mandava le foto di Zac, in una gli dà le croccantelle al pomodoro, quelle che piacevano anche a lui. E io gli dicevo che allora amava più il cane di me. Ed era così, l'ho capito poi". Arrivano altre ragazze, son tutte piccole, strette nei loro piumini, nel vento gelido che arriva dal mare. Una dice che i due "avevano i cuori molto ghiacciati, per fare una cosa simile". E per cosa, poi. I soldi? Silvia: "Lui non mi ha mai fatto un regalo. Io non glie l'ho mai chiesto". Che erano stati loro due, quei due bei ragazzi di un paese vicino, che facevano i chilometri per venire a trovare proprio loro, l'hanno saputo su Facebook, Silvia mentre era dal parrucchiere, "mi stavano facendo il taglio, ho visto quella cosa e ho cominciato a tremare". Perché l'hai lasciato? "Un giorno è arrivato e gli ho detto: non sto bene con te. Sei troppo chiuso, sei sempre chiuso nella tua cameretta, e io ho simpatia per un altro ragazzo, che è il mio attuale ragazzo e adesso mi sta aspettando fuori". E lui? "Mi ricordo benissimo cos'ha detto: "Rispetto le tue scelte. Non voglio farti star male". E se ne è andato. L'ho rivisto un mese fa, qui in questo bar. Era molto cambiato. Non mi ha neanche salutata".

Quando i figli uccidono i genitori: i delitti più famosi della cronaca nera italiana. Il duplice omicidio di Ferrara riporta alla memoria altri casi in cui genitori sono stati uccisi dai figli. Un filo nero che parte da Doretta Graneris e passa per Pietro Maso ed Erika e Omar, scrivono Claudio Del Frate e Angela Geraci il 14 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Erika e Omar, le bugie e l’intercettazione finale - 2001. Alle nove di sera di una fredda sera di inverno una ragazza vaga per il suo paese chiedendo aiuto. È il 21 febbraio del 2001, siamo a Novi Ligure (Alessandria) e la giovane si chiama Erika De Nardo, 16 anni. Quando le forze dell’ordine entrano nella villetta dove abita con la sua famiglia si trovano davanti a una mattanza: in cucina c’è il corpo della madre della ragazza, massacrata da 40 coltellate, circondata da oggetti in disordine e dal tavolo spezzato in due, scena che racconta di una dura lotta della donna per la vita. Susy Cassini aveva 41 anni. Ma non è finita: al piano di sopra, nella vasca da bagno, c’è anche il cadavere del fratello di Erika, Gianluca che ha 11 anni. Anche il piccolo è stato accoltellato ma prima l’assassino ha provato ad avvelenarlo facendogli bere del topicida, poi ha tentato anche di affogarlo. L’assassino o gli assassini? Erika dice che sono stati due extracomunitari, forse albanesi, che volevano fare una rapina. Lei è stata risparmiata, così come il padre Francesco De Nardo, ingegnere di 44 anni, che non era in casa al momento dell’aggressione perché stava giocando a calcetto. In paese si scatena un’ondata di xenofobia, viene addirittura fermato un giovane albanese che corrisponde all’identikit fornito dalla ragazza. Ma presto le indagini svelano tutta un’altra storia. Nessuno ha forzato porte o finestre della villetta, non è stato rubato nulla, gli schizzi e le impronte di sangue esaminati dai carabinieri del Ris «parlano». Erika e il suo fidanzato Omar Favaro, 17 anni, vengono convocati in caserma e lasciati soli per un po’ di tempo. Soli ma circondati di microspie. È così che gli inquirenti e l’Italia intera scoprono la verità sul delitto di Novi Ligure: a massacrare Susy e Gianluca sono stati proprio Erika e Omar (leggi l’articolo del Corriere di allora). Hanno usato due coltelli da cucina e indossato anche guanti di gomma durante alcune fasi del delitto della mamma. Sia la donna che il bambino hanno lottato con disperazione e forza mentre venivano assassinati. Il piccolo ha anche morso a sangue la mano di Omar. Proprio questa ferita e «la stanchezza» dopo il massacro hanno salvato la vita del padre di Erika: Omar infatti se ne è andato a casa sua e ha lasciato la ragazza da sola. I due fidanzati diventano per tutti l’immagine del male. Il movente dei due delitti? I cattivi rapporti di Erika con la madre che era preoccupata per i brutti voti della figlia e temeva che facesse uso di droghe con il fidanzato. Erika e Omar vengono condannati nel 2001 - e poi anche negli altri due gradi di giudizio - a 16 anni lei, a 14 lui. Oggi sono usciti entrambi dal carcere, lei si è anche laureata in Filosofia nel 2009 durante la detenzione. Il padre l’ha perdonata e le è rimasto accanto in tutti questi anni. L’attenzione mediatica su Erika non si è mai spenta, così come la terribile forza simbolica di quel delitto che ha sconvolto l’Italia e ha ispirato canzoni, film, documentari e fumetti. 

2. Pietro Maso, il Nordest e gli «schei» - 1991. I soldi, le auto, la bella vita: accecato da questi «miraggi» il 17 aprile 1991 l’allora ventenne Pietro Maso massacra i genitori Antonio e Rosa nella loro abitazione di Montecchia di Crosara (Verona). Al delitto partecipano anche gli amici di Pietro, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato, quest’ultimo minorenne. Dopo due tentativi andati a monte, i tre riescono nel loro intento: aspettano il rientro dei coniugi Maso nel villino di famiglia e li aggrediscono con un tubo di ferro e una pentola. Il massacro crea grande scalpore anche perché alimenta un dibattito sul boom economico del Nordest di quegli anni e sul mito degli «schei» da guadagnare con ogni mezzo. Tutti gli imputati vengono dichiarati sani di mente, Maso è condannato a 30 anni, Carbognin e Cavazza a 26, il minorenne a 13. Nel 2008 Pietro ottiene la semilibertà e grazie all’indulto finisce di scontare la pena nel 2013. L’anno scorso è stato nuovamente indagato per un tentativo di estorsione nei confronti delle sorelle.

3. Ferdinando Carretta e la famiglia sparita con il camper - 1989. La sera del 4 agosto del 1989 a Parma scompare un’intera famiglia, i Carretta. A finire nel nulla sono il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e i due figli Nicola e Ferdinando. Anche il camper di casa non si trova più. Iniziano mesi di congetture, avvistamenti e ipotesi fantasiose: la famiglia è partita per un tour del Mediterraneo e si è persa nel deserto. No, sono scappati tutti in un paradiso fiscale. Sì, sono a Barbados nei Caraibi. Un primo colpo a queste teorie viene dato dal ritrovamento del camper a Milano: il Ford Transit dei Carretta è in un parcheggio di viale Aretusa. È il 19 novembre 1989. La svolta arriva 9 anni dopo la sparizione della famiglia, il 22 novembre 1998, quando a Londra un poliziotto ferma un uomo di 36 anni per multarlo. Leggendo il suo nome sulla patente, il «bobby» si rende conto che è inserito nella lista degli scomparsi: è Ferdinando Carretta. Il procuratore di Roma si precipita in Gran Bretagna e lo interroga ma Ferdinando dice di non sapere nulla dei suoi cari. Ma poi, il 30 novembre, l’uomo confessa tutto davanti alle telecamere di «Chi l’ha visto?»: «Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Il ragazzo odiava il padre da anni e - dirà - voleva uccidere soltanto lui. Ma poi aveva dovuto eliminare anche la madre e il fratello più piccolo. Aveva messo i loro corpi insanguinati nella vasca da bagno aspettando il buio. Intanto aveva portato il camper lontano, a Milano, per depistare. Di notte aveva poi messo i cadaveri nel cellophane, li aveva caricati sull’auto del padre e seppelliti in una discarica. Gettata via l’arma e ripulito l’appartamento, era scappato a Londra, dove aveva vissuto per 9 anni di espedienti e lavoretti precari. Il Dna entra in gioco perché dà la conferma del suo racconto. Nel 1999 gli uomini del Ris, allora guidati dal colonnello Luciano Garofano, riescono infatti a trovare delle tracce di sangue grazie alle nuove tecniche scientifiche: sono state nascoste per 10 anni dietro il portasapone, nel bagno della mattanza. Ferdinando Carretta viene processato e assolto per incapacità totale di intendere e volere. Trascorre sette anni e mezzo nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e uno e mezzo in una comunità a Barisano (Forlì). Nel 2015 Carretta è tornato in libertà e ora vive nella casa di Forlì che ha comprato con il ricavato della vendita della casa del massacro della sua famiglia. L’arma del delitto e i corpi dei Carretta non sono mai stati trovati.

4. Elia e il piano (sfumato) della fuga ai Caraibi - 1998. Sembra ricalcare il copione del delitto Maso un altro massacro che ha come sfondo la provincia italiana che avviene sette anni più tardi. A Cadrezzate (Varese) il 7 gennaio del ‘98 Elia Del Grande uccide a fucilate il fratello Enrico, il padre Enea e la madre Alida, proprietari di alcune panetterie. Elia, dipendente dalla cocaina, ha in mente un piano: impossessarsi dei soldi di famiglia e scappare a Santo Domingo dove i Del Grande avevano alcune proprietà: viene fermato per un controllo casuale dai gendarmi svizzeri alla frontiera e arrestato poche ore dopo il triplice omicidio. La sentenza, oltre a condannare Elia a 30 anni, lo fa decadere da ogni diritto sull’eredità di famiglia. Nel dicembre del 2015 tenta un’evasione dal carcere di Pavia, dove sta scontando la condanna: il piano viene sventato dalla Digos che ne viene a conoscenza in anticipo. Un’auto parcheggiata a pochi chilometri dal carcere era già pronta da giorni per garantire la fuga a Elia e a un complice albanese. 

5. Il selfie di Federico dopo aver ucciso la madre - 2015. Solo la dichiarata incapacità di intendere e di volere ha risparmiato il carcere a Federico Bigotti, 22 anni, che il 30 dicembre del 2015 colpì con otto coltellate la madre Anna Maria Cenciarini nella casa di famiglia alle porte di Città di Castello (Perugia). Subito dopo il delitto Federico posta una sua immagine sorridente su Facebook, un selfie accompagnato da una frase: «Le carezze sui graffi si sentono di più». Subito fermato, Bigotti si ostinerà a dire che la mamma si è suicidata e che lui non è riuscito a fermarla. In realtà gli inquirenti raccoglieranno testimonianze che parlano di continui litigi, minacce, aggressioni del figlio nei confronti della madre. Il gip di Perugia ne ha dichiarato l’incapacità di intendere e di volere e ora Bigotti si trova in una struttura psichiatrica. 

6. Patrizia, la strana caduta per le scale e il tatuaggio del figlio - 2015. Patrizia Schettini, insegnante di musica di 53 anni, viene trovata morta il primo aprile del 2015 nella sua casa di Donnici (Cosenza). A chiamare il 118 è suo figlio di 17 anni: la mamma è caduta dalle scale e ha battuto la testa. Forse è stato un malore. Il giorno dopo il ragazzo si fa un tatuaggio: «Nemmeno la morte ci potrà separare, ti amo mamma». Ma gli inquirenti trovano che nella morte di Patrizia ci sia qualcosa di strano, troppo affrettato archiviare tutto come morte naturale. Poi arriva l’autopsia: sul corpo della donna ci sono anche segni di strangolamento. L’attenzione si sposta tutta sul ragazzo, adottato da piccolo insieme a un altro fratello. Salta fuori che aveva un rapporto conflittuale con la madre. Poi dopo meno di un mese cede e la sua confessione al padre viene registrata dalle microspie piazzate in casa: «Sì papà, l’ho uccisa io la mamma». L’aggressione, racconta il 17enne, è avvenuta durante una lite scoppiata perché Patrizia lo ha sgridato mentre lui stava suonando il pianoforte: l’ha strangolata e poi ha gettato il corpo giù per le scale. Il 13 maggio è stato portato nel carcere minorile di Catanzaro con l’accusa di omicidio volontario.

7. Igor, l’infanzia in Russia e l’incidente stradale - 2016. Giuseppe e Luciana Diana, 67 e 62 anni, si preparano ad andare a dormire quando vengono uccisi a colpi di mazza da baseball. Poi una coltellata alla gola. È l’11 maggio 2016. Restano così, in pigiama lui, seminuda lei, abbandonati nel sangue dentro la loro villetta di Settimo San Pietro (Cagliari). Quasi vent’anni prima la coppia, senza figli, aveva deciso di adottare Igor e Alessio, due fratelli russi trovati in un asilo per bimbi abbandonati di San Pietroburgo. A far scoprire i corpi dei genitori è proprio Alessio, militare di stanza nella base di Teulada che chiama a casa ma nessuno gli risponde: dà l’allarme. Igor, 28 anni, è sparito. Il giovane, adorato dai genitori, ha un carattere opposto a quello del fratello: arruolatosi nell’esercito non ha retto al peso della disciplina. Si è congedato e la sua vita ha preso all’improvviso una piega triste: in un’incidente stradale ha urtato un motociclista che poi è morto. Da allora Igor è cambiato, scivolando pian piano in una dipendenza da alcool e droga che lo ha portato a essere un violento sempre a caccia di soldi. Neppure la nascita di una figlia lo ha aiutato a cambiare, anzi poi la storia tra lui e la compagna è finita. Adesso fa il pizzaiolo ed è sparito nel nulla proprio quando i genitori sono stati ammazzati con una violenza inimmaginabile: la mazza da baseball usata per ucciderli si è spezzata in due ed è rimasta sulla scena del crimine insieme al coltello. E ai vestiti del ragazzo sporchi di sangue. «Sì, sono stato io. Abbiamo avuto un litigio e ho perso la testa». Con queste parole, due giorni dopo il ritrovamento dei corpi dei coniugi Diana, Igor confessa la sua responsabilità al magistrato che lo interroga in ospedale. Durante la cattura, infatti, il 28enne è rimasto ferito: aveva puntato una pistola contro gli agenti della squadra mobile che lo avevano individuato su una strada provinciale in Sulcis ed è stato colpito alle braccia prima che potesse fare fuoco. Il suo racconto del delitto è freddo e lucido. 

8. Doretta Graneris, il massacro davanti alla tv - 1975. Per trovare l’archetipo di tutte le stragi familiari compiute in Italia occorre comunque risalire fino al 1975; nella notte tra il 13 e il 14 novembre di quell’anno, in un appartamento di Vercelli, la diciottenne Doretta Graneris ammazza a colpi di pistola cinque componenti della sua famiglia: la madre Italia, il papà Sergio, il fratellino tredicenne Paolo e i nonni materni Romolo e Margherita. Complice del massacro è il fidanzato di Doretta, Guido Badini. La ragazza era in rotta con la famiglia e da alcuni mesi era andata a convivere con il fidanzato. Tutti i cadaveri vennero trovati la mattina dopo nel salotto, uccisi mentre guardavano la tv, che era ancora accesa. Doretta e Guido vennero arrestati la mattina successiva al delitto, mentre facevano acquisiti in un mercatino rionale. La ragazza all’inizio cercò di scagionare il fidanzato; il quale invece scaricò tutte le responsabilità su di lei. Entrambi gli imputati vennero dichiarati sani di mente e vennero condannati all’ergastolo. Nel ‘92 la ragazza ha ottenuto la libertà condizionale.

9. Il killer di Mestre, ricercato in tutta Europa - 1981. Una storia che invece sembrava non voler finire mai è quella di Roberto Succo: non solo nel 1981, allora diciannovenne Succo uccise entrambi i genitori a Mestre, il padre a colpi d’ascia, la madre annegandola nella vasca da bagno. Una perizia psichiatrica lo giudica schizofrenico e finisce al manicomio criminale di Reggio Emilia. Qui sembra placarsi: studia, mantiene un comportamento impeccabile tanto che nel 1985 gli viene concesso un permesso per uscire. Non farà più ritorno: passa il confine con la Francia, rapina una villa dove violenta una ragazza di 23 anni, uccide un poliziotto transalpino, un medico e altre due ragazze. Succo è ormai uno dei ricercati più pericolosi d’Europa. Viene arrestato a Treviso il 28 febbraio nel 1988 ma la sua parabola criminale non è finita: si rende protagonista di una plateale protesta salendo sul tetto del carcere di Vicenza, dal quale cade, ferendosi. Poco tempo dopo, la mattina del 23 maggio 1988 gli agenti carcerari di Vicenza lo trovano nel letto della sua cella. Morto: si era asfissiato inalando una bomboletta di gas da campeggio. 

I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi. Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. La santa alleanza per l’educazione è venuta meno: la scuola è l’epicentro del conflitto. La cultura del narcisismo, scrive Antonio Polito il 13 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. Da quando si aggrappano a noi per tirarsi in piedi facendoci sentire onnipotenti, a quando noi ci aggrappiamo a loro per frenarne il delirio di onnipotenza, passa tanto tempo. Ci sembrano sempre nati ieri; ma sedici, diciotto anni sono abbastanza per fare del nostro bambino un individuo dotato di libero arbitrio, di conseguenza diverso da noi. Talvolta estraneo. O addirittura nemico. Riccardo e Manuel, i due complici del parricidio e matricidio di Pontelangorino di Codigoro, sono una storia a sé. Il loro è un comportamento deviante, materia per giudici e psichiatri. Ma anche quei due adolescenti in fin dei conti sono millennials, come chiamiamo con enfasi anglofona i ragazzi di oggi. E lo sappiamo, ce lo raccontiamo ogni giorno, che tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l’hanno con noi. Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato. Insieme con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono loro i nuovi consumatori. Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli. È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua. Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. È dunque perfino ovvio che l’epicentro di questo terremoto sia la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul loro rendimento scolastico. A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina, impegno, costanza. Tutte cose che non c’entrano niente con il narcisismo del tempo. Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L’aneddotica è infinita. C’è la giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari contraffatti. C’è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C’è quello che dà in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell’iPod. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? Lo spaesamento è testimoniato dall’espressione che usiamo correntemente nelle nostre conversazioni: «Ciao, che fai?». «Sto facendo fare i compiti a mio figlio». «Far fare», un unicum della lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta quotidiana con gli studi dei figli. Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un’altra estate arriverà/ e compreremo un altro esame all’università/ e poi un tuffo nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».

PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.

Omicidi famigliari: come la libertà distorta genera mostri. Domande e riflessioni sugli ultimi fatti di cronaca in un mondo in cui la violenza virtuale aumenta i danni di una realtà percepita come "fumettizzata", scrive Marco Ventura il 16 gennaio 2017 su "Panorama". Quanto inchiostro sui quotidiani, quante analisi in Tv, quante argute riflessioni morali, filosofiche e giornalistiche o semplici reazioni sui social. Siamo tutti sgomenti davanti a Riccardo che incarica l’amico del cuore, Manuel, di uccidergli padre e madre a colpi d’ascia e lo aspetta nella stanza accanto mentre i genitori invocano il suo nome contro i fendenti di quel ragazzo che considerano di famiglia. Quante domande dovremmo porci... Il vuoto nel quale matura un delitto così efferato è il frutto dei tempi o una patologia nel cervello dei “piccoli assassini” (per dirla col titolo di un racconto di Ray Bradbury del 1946)? Chi ha l’età ricorda il clamore per la strage domestica di Doretta Graneris che insieme al fidanzato uccise padre, madre, nonni materni e fratellino di 13 anni. Era il 1975: non c’erano le playstation, non c’era Internet, non c’erano gli smartphone. Ma la lucida incoscienza era forse la stessa di Riccardo e Manuel, o di Erika e Omar. Anche allora, nel delitto della Graneris, c’era uno stringente rapporto di coppia nel quale il delitto era stato vissuto in anticipo come in un mondo a parte, lontano dalla realtà e dalla legge (del codice penale come del cuore e dell’amor filiale). E che dire delle deviazioni dell’amore paterno e materno? Non sono solo i figli a uccidere i genitori. Ci sono genitori che sopprimono o tentano di sopprimere i figli. È di questi giorni la storia della mamma che mette nel biberon della figlia di 3 anni sedativi in grado di spezzarle il cuore. In questo caso è stata evocata una sindrome precisa. Nel caso di Riccardo, difficilmente qualcuno potrà incasellare clinicamente (credo) la decisione di togliere la vita ai genitori che lo rimproveravano per i pessimi risultati scolastici. C’è chi ha sottolineato che nei parricidi e matricidi più recenti ricorrono tre elementi: l’overkilling (la sproporzione dei mezzi per uccidere, la stra-uccisione), l’incoscienza rispetto al delitto commesso (quindi l’assenza di pentimento) e la futilità dei motivi. Non so quanti di questi ingredienti siano davvero nuovi. Non so quanto siano legati alla vita virtuale che peraltro ciascuno di noi vive quando si affida agli strumenti della contemporaneità. Si può uscire di testa se lo spazio di vita si riduce allo schermo di un telefonino o a un videogioco in cui la crudeltà sembra perdere la terza dimensione, quella della realtà, ovvero l’effettiva incidenza nella carne e nel corpo delle persone. E il sangue non è più sangue. Papà e mamma non sono più papà e mamma. Io non sono più io ma mi vedo agire e quello che faccio è un sogno. E ogni mezzo va bene, pur di conquistare la libertà dei miei eroi. Io non ho certezze. Ho però il sospetto che la natura umana non sia oggi diversa da ieri, e che non abbia senso suggerire che i genitori siano più severi o affermare che l’educazione può impedire queste derive. I ragazzi che uccidono non hanno probabilmente motivi per essere più frustrati di altri: più poveri o più sfortunati nelle vicende personali. Piuttosto, è la loro percezione del mondo, della famiglia e di se stessi a proiettarli in un altro universo, criminale, in cui tutto è possibile. Questo succede oggi come succedeva ieri. Oggi forse la violenza virtuale rende più facile, quasi più naturale, fare danni in un mondo fumettizzato. Ma i meccanismi del cervello umano, la criminalità dei singoli, la crudeltà dei figli come dei padri, dei mariti, dei fidanzati, dei fratelli, non hanno età né epoca proprie. Dobbiamo convivere con la malvagità umana e con la violenza, per quanto più facilmente innescata dall’abuso di scene squallide e cruente in Tv, al cinema o su Internet, oppure dal vuoto di valori o da morbosi rapporti di coppia tra amanti o amici, o da raptus e malattie mentali. Nell’uomo, in certi uomini, da sempre il senso di onnipotenza e il desiderio di libertà deviato generano mostri. Dobbiamo anche rassegnarci a pensare che certi delitti non sono evitabili, forse neanche prevedibili, e che molto di quello che leggiamo sui segnali da capire è senno di poi o materia per esperti. Personalmente, di fronte agli ultimi fatti di cronaca, allargo le braccia e rinuncio a stupirmi, perché gli annali del crimine sono pieni di stragi familiari dalla notte dei tempi. E mi ostino a pensare alla normalità della famiglia come luogo in cui genitori e figli si amano di un amore vero.

Quei figli che uccidono i genitori. La psichiatra Dell’Osso (Aoup) su “La Nazione” del 15 gennaio 2017: «Mai semplificare. Dietro l’etichetta della follia omicida si celano spesso motivazioni e disagi molto più profondi». Da Pietro Maso a Ferdinando Carretta, dai fidanzatini di Novi Ligure, Erika ed Omar, ai recenti casi di Ferrara e di Volterra, nella cronaca italiana ricorrono, con una certa regolarità, gli omicidi familiari. Non conosciamo i contorni precisi dei casi recenti, sui quali pertanto non è corretto esprimersi, ma conosciamo la verità processuale degli altri. Quello che emerge è che non sempre la motivazione del delitto efferato è psicopatologica, anche se, quasi invariabilmente, i difensori legali di questi soggetti fanno ricorso a valutazioni psichiatriche sospettando, se non auspicando, una qualche forma di infermità mentale. Anche i cronisti utilizzando espressioni come «dramma della follia» o «follia omicida» o raptus, spesso contribuiscono ad apporre una rassicurante etichetta di disturbo mentale a questi episodi. In realtà, dietro questi omicidi familiari si nasconde una gamma molto ampia di condizioni, che comprende dal disturbo mentale grave (nel caso di Carretta, per esempio, tutti i periti riconobbero una schizofrenia paranoide), a gravi disturbi di personalità (come il disturbo narcisistico di personalità di Pietro Maso), a semplici tratti personologici abnormi, in soggetti per altri versi «normali». Il tutto, poi, frammisto ad altri disturbi come l’abuso di sostanze, che spesso fa da detonatore, e i motivi patrimoniali. Separando l’ambito forense, che deve evidenziare una patologia conclamata, clinicamente rilevante, in grado di scemare o abolire totalmente la capacità di intendere e volere, dal piano clinico, che impone una valutazione più sottile, multidimensionale, che tenga cioè conto sia dell’assetto psichico del soggetto che commette un crimine sia del mileu ambientale, culturale e sociale in cui certi delitti maturano. Mi spiego meglio: in alcuni, famigerati, casi che ho citato sopra, non è stata accertata alcuna infermità mentale dei rei, ritenuti pertanto capaci di intendere e volere, quindi imputabili, senza attenuazione della pena, che è stata scontata in un comune carcere. Sono spesso persone che hanno un marcato deficit relazionale, della risonanza affettiva e dell’empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderne i sentimenti e di provarne a propria volta. Sono molto frequenti i tratti narcisistici, quelli per cui il soggetto ha una certa immagine di sé, che nessuno può permettersi di scalfire, e a cui tutto è dovuto. Molti casi esplodono a seguito di un semplice diniego dei genitori o di banali rimproveri per le scarse performance scolastiche, quindi a seguito di un giudizio che viene misinterpretato rispetto al suo intento educativo o che, comunque, non viene tollerato. Ricordo un caso in cui i genitori furono uccisi perché il figlio non voleva che scoprissero che non aveva mai sostenuto gli esami che aveva dichiarato di aver superato all’università. Al di là degli aspetti psichiatrici, è evidente che, su un piano sociologico e pedagogico, in questi nuclei famigliari manca la capacità di comunicazione efficace oppure la comunicazione è completamente assente: in questo risiede la «responsabilità» familiare e sociale di questi agiti. E poi l’immaturità di fondo, l’incapacità di provare rimorso: premeditazioni lunghe ma strampalate e superficiali, motivazioni futili, farsi un panino o giocare ai videogiochi dopo il delitto, in attesa di dare l’allarme.

Perché i figli uccidono i genitori, scrive Alice Dutto il 13 gennaio 2017. Parricidio, matricidio e parenticidio: sono diversi i casi di cronaca in cui i figli si sono macchiati di questi terribili delitti. Ma quali sono le cause di questo comportamento? Lo abbiamo chiesto a Lino Rossi, specialista in criminologia clinica e docente di psicologia dello Sviluppo all'Istituto Universitario Salesiano di Venezia. L'ultimo in ordine di tempo è il delitto di Ferrara. Le vittime, Salvatore Vincelli e Nunzia di Gianni, sono state uccise dal loro figlio 16enne, che ha confessato il delitto, aiutato da un amico. Il movente sarebbe da ricondurre a forti contrasti tra il ragazzo e i genitori. Ma sono molti i casi di parenticidio: alla mente tornano molte storie di figli che uccidono i genitori, come quella di Pietro Maso, nel 1991, che uccise i genitori Antonio e Rosa, nella loro abitazione di Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, o quello di Erika e Omar, nel 2001, che ha visto i ragazzi uccidere la madre di lei e il fratello di 11 anni. Secondo gli ultimi dati disponibili, gli omicidi in famiglia sono i più frequenti, soprattutto al Nord. Il rapporto Eures-Ansa sull'omicidio volontario evidenzia che nel decennio 2003-2012 si sono contati poco meno di 2mila omicidi volontari all'interno della sfera familiare o affettiva, con una media annua di 184 vittime, pari a 1 morto ogni 2 giorni. Sempre secondo l'Ansa, sarebbero più contenuti i casi di “parenticidio”, cioè di omicidio di entrambi i genitori, che rappresenta circa il 4% degli omicidi degli ultimi 20 anni (tenendo presente che il dato potrebbe comprendere anche alcuni casi nei quali a essere ucciso è stato solo la mamma o il papà). In 5 casi su 6 a commettere questo tipo di omicidi sono gli uomini, perlopiù tra i 22 e i 35 anni.

Ma perché i figli uccidono i genitori? «Non esiste una sola causa di fronte a situazioni così particolari – ha spiegato Lino Rossi, specialista in criminologia clinica e docente di psicologia dello Sviluppo all'Istituto Universitario Salesiano di Venezia –. La prima cosa da non escludere è la presenza di problematiche psicopatologiche gravi, come le patologie psichiatriche che spesso si manifestano con l'aggressività». Un secondo fattore da prendere in considerazione è l'interazione con sostanze stupefacenti «che spesso ha una duplice radice: una si esprime nella dipendenza patologica e l'altra nell'agito criminale». Infine, ci sono tutte le problematiche che riguardano la storia della relazione affettiva all'interno della famiglia. «Un elemento che ha particolare valore soprattutto oggi, in cui c'è la tendenza a creare rapporti più freddi con i figli rispetto al passato». Se i figli vengono considerati e si sentono come realtà marginali per i loro genitori, può verificarsi un allontanamento, che si scatena con manifestazioni di aggressività. Una mancanza di attenzione può essere dunque combattuta dai figli con un atteggiamento ostile nei confronti della madre e del padre. Spesso, in queste condizioni di vuoto relazionale i ragazzi finiscono per isolarsi ricercando attenzione in altri modi, ad esempio attraverso l'utilizzo diffuso di social network o strumenti digitali, «che però suppliscono solo in parte a questo vuoto». «Non è vero che chi soffre non invia segnali di disagio. Per poterli interpretare, però, bisogna essere vicini a queste persone – sottolinea l'esperto –. E spesso nei casi più gravi i genitori non ne sono stati capaci». Essere vicini significa riconoscere i turbamenti e i cambiamenti di personalità del proprio figlio: e per questo «occorre avere una grande sensibilità e capacità di lettura. Soprattutto, bisogna essere disponibili ad ascoltare, senza spaventarsi, il dolore dei propri figli, superando la sofferenza causata dal loro disagio. Solo in questa condizione si percepiscono i segnali».

In particolare, bisogna fare attenzione a:

cambiamenti umorali;

cambiamenti delle consuetudini;

momenti di distacco (ad esempio, quando i figli stanno molto tempo fuori casa, può voler dire che in casa non stanno bene ed esprimono così la loro sofferenza);

atteggiamenti di isolamento (come quando smettono di parlare);

Questi segnali devono essere interpretati come messaggi di un disagio percepito dai nostri figli.

«Sono tutti elementi che possono preparare a una fase di depressione. Ma prima di accettare la depressione, che è uno stato che ci avvicina molto alla morte, è possibile che si combatta questa sofferenza, generalmente diventando aggressivi. Dunque, si butta fuori la morte che si ha dentro di sé riversandola sugli altri. È questo il momento in cui possono scaturire comportamenti violenti o aggressivi fino anche agli omicidi». Ma perché si passi dalla fantasia alla realtà «la persona deve alienarsi da sé, portare la propria azione al di fuori del senso di responsabilità, considerarla come un'azione virtuale» ha spiegato all'Ansa Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria.

DI CHI È LA RESPONSABILITÀ?

Genitori, scuola, ma anche amicizie: è la società in generale a essere responsabile di questi fatti.

Secondo Francesco Bruno, criminologo intervistato dall'Agi, la responsabilità sarebbe in ogni caso dei genitori assenti: «I parenticidi, seppur orribili, si possono capire. Nessuno nasce omicida, ma se un giovane arriva a compiere un delitto è chiaro che la responsabilità sia dei genitori». Troppo spesso, infatti, i genitori sono distratti: «Ai genitori non frega niente dei figli. È fallita la famiglia, la scuola e la società: i ragazzi sono le vittime» ha aggiunto. E il risultato di tutto questo disinteresse sarebbe dunque il fatto che i ragazzi arrivino «a compiere delitti di questo genere come se usassero i videogiochi». Condivide questo punto anche lo psichiatra Paolo Crepet, intervistato dall'Agi. «Intorno ai giovani c'è solo il deserto, viviamo in una società dove i ragazzi sono abbandonati a se stessi, ai loro pc e alle loro paghette». In questo contesto, continua lo psichiatra «sono fin troppo pochi gli episodi di parenticidi, ne meritiamo di più. Per le poche cose che offriamo, questi ragazzi sono fin troppo buoni». Gli episodi di violenza sarebbero dunque generati dalla mancanza di stimoli: «Un ragazzo lasciato solo, in una società che non ha nulla da offrire, dove le scuole sono un far west, non può che maturare sentimenti di odio e violenza». «Di sicuro tutto nasce in ambito familiare - riprende Lino Rossi - ma c'è da sottolineare come alcuni comportamenti siano ormai il riflesso del tipo di società in cui viviamo e del fatto che la sensibilità nei confronti del disagio sociale dei gruppi amicali e scolastici si sia ridotta. Siamo testimoni di una forte richiesta di libertà, ma senza che questo corrisponda ad atteggiamenti di assunzione di responsabilità. È anche possibile che un amico si accorga che c'è qualcosa che non va, ma ascoltare ciò che l'altro gli comunica vorrebbe dire prendersi la responsabilità di quel disagio. E nella maggior parte dei casi, ciò non avviene: si preferisce fuggire o far finta di non aver capito».

PERCHÈ UCCIDONO DI PIÙ GLI UOMINI DELLE DONNE?

Nella maggior parte dei casi, sono gli uomini giovani a uccidere i loro familiari. «Questo perché le femmine sono più capaci di tenere il dolore mentale dentro di sé: sanno soffrire perché sanno curare, si ammalano piuttosto che diventare aggressive. Gli uomini, invece, fanno più fatica e pertanto preferiscono spostare la sofferenza all'esterno. Quando sentono un dolore, invece di pensare di curarsi, spostano la sofferenza all'esterno e tentano di vendicarsi nei confronti di quelli che pensano essere le cause della loro sofferenza».

CHE COSA SI PUÒ FARE?

Ascoltare il disagio e parlare con i propri figli, mantenendo un filo diretto con loro e con i loro vissuti, per correggere eventuali comportamenti che fanno loro soffrire. Allo stesso tempo, non è il caso di allarmarsi per fatti che sono comunque ridotti nei numeri e che rappresentano l'eccezionalità piuttosto che la normalità.

Gli omicidi in famiglia sono uno scandalo troppo grosso perché li si consideri semplice “cronaca nera”, scrive Enrico Galoppini su "Discrimine" il 12 gennaio 2017.  È accaduto un’altra volta e purtroppo accadrà ancora, fintanto che l’essere umano calcherà le scene del mondo. Un figlio di sedici anni, col concorso di un amico quasi maggiorenne, avrebbe massacrato a colpi d’ascia i suoi genitori. Quando si viene a sapere di tragedie come questa, il pensiero della maggior parte della gente (lo si può constatare dai commenti in calce agli articoli dedicati) corre immediatamente ed unicamente alla condanna da infliggere agli autori dell’efferato delitto: carcere duro a vita, lavori forzati, pena di morte e magari anche torture prima. Io lo capisco benissimo che la prima reazione è questa, e ci mancherebbe altro che questi due ragazzi, se verrà riconosciuta la loro colpevolezza, non dovessero pagare per il male – oserei dire lo scandalo! – che hanno commesso. Eppure la sensazione prevalente che mi pervade ogni volta davanti a un figlio che ammazza i genitori (o di genitori che ammazzano i figli, talvolta in fasce) non è quella di partecipare, anche solo idealmente, alla vendetta contro l’assassino, ma una percezione chiara e distinta della tragedia immane che si è consumata con un delitto del genere. Come si fa a non immaginare che un tempo questa famiglia può essere stata unita e felice? Com’è possibile non andare col pensiero alle cure amorevoli che questi genitori massacrati avranno dedicato al loro futuro carnefice allevato tra le mura di casa? Non si può, poi, non considerare che, alla fine, se accadono cose simili è anche perché spesso si lascia che le cose degenerino fino ad un punto di non ritorno. Non c’è dialogo, non c’è comprensione e non c’è voglia di spiegarsi e perdonarsi. Ogni volta le domande che mi faccio quando leggo notizie del genere sono le stesse. Ci saranno stati di mezzo i soldi? La droga avrà avuto un ruolo in tutto questo? Che si saranno mai fatti d’inescusabile, genitori e figli, per arrivare a tanto? Possibile che non si riesca a fermarsi prima di compiere l’irreparabile? Probabilmente non ci si può fare più nulla quando si giunge alle soglie del tragico epilogo. La questione è, semmai, non arrivarci e saper come fare. E forse sarebbe anche il caso di stendere un velo pietoso su questo tipo di vicende tanto dolorose, lasciando che gl’inquirenti (quando non vi è di mezzo qualche trama dai risvolti oscuri com’è in vari episodi di “cronaca nera”) svolgano il loro lavoro arrivando alle corrette conclusioni. Tanto più che in tutto “l’intrattenimento” morboso e inconcludente dei rotocalchi pomeridiani raramente si sentirà qualche considerazione dettata dal buon senso, per non dire da umana pietà, non di certo per l’assassino in quanto tale (che, ribadisco, deve pagare), ma per queste famiglie italiane, sempre più sole e disperate di fronte al nulla nel quale sono state spesso abbandonate (e si sono cacciate anche con le loro mani). Dove sono i preti? Quelli che non vedi nemmeno più per la benedizione pasquale delle case (e quando li vedi puntano dritto all’obolo).  Si dirà che se non si frequenta la parrocchia non si può pretendere che quelli vengano a trovarti. Ma dove sta scritto questo? Forse che i sacerdoti non dovrebbero essere anche e soprattutto dei “pescatori di uomini” che annaspano nelle “acque” del mondo? E dove sono questi famosi “assistenti sociali” con stipendio fisso garantito? Il più delle volte incapaci, stante la povertà dei loro strumenti d’analisi (almeno i preti avrebbero, teoricamente, la Parola di Dio), di aiutare persino se stessi. E tacciamo infine dei parenti e degli amici, che salvo rare eccezioni non hanno mai tempo (ma per stare su Facebook sì), salvo poi sbalordirsi se, a un certo punto, il ragazzotto fa a pezzi mamma e papà e li ficca nel sacco nero dell’immondizia. A volte mi chiedo se tutto questo vivere nella bambagia abbia fatto bene ai giovani, poi futuri adulti ed incapaci di crescere altri giovani. Se ore ed ore davanti alle Play Station, il più delle volte a simulare massacri, non abbiano reso decerebrate intere generazioni, “programmando” gli elementi più indifesi a compiere atti d’inusitata ferocia. Penso anche all’inevitabile tragedia interiore che, passata la furia, investirà questo ragazzo, al quale, durante la necessaria espiazione dovrà essere assicurato un conforto morale e spirituale, che non vuol dire né sconti né “premi” anzitempo. Penso anche che se non facciamo mai nulla per capire dove s’annida “la follia” – che è molto più vicina a noi di quanto si pensi – e cosa si debba fare per debellarla, saranno sempre più dolori per tutti. Il mondo stesso diventerà un Inferno. Al catechismo insegnavano “onora il padre e la madre”, e fra un po’ ci manca poco che anche questo basilare pilastro della civiltà venga giudicato – in nome di chissà quale ideologia alla moda – obsoleto e non “al passo coi tempi”, perché comunque si deve far esistere una pretesa “questione giovanile”. La missione dell’uomo, fino a che l’ego perennemente insoddisfatto non aveva conquistato la prima fila, era sempre stata quella di darsi un “carattere”; non pretendere di avere una “personalità” fasulla e per giunta che questa venisse rispettata, dai genitori e dagli altri là fuori dall’atmosfera viziata di casa. Ma a forza di buttarsi dietro le spalle tutto, persino i Dieci Comandamenti, non ci si è resi conto che, come ebbe a dire profeticamente Dostoevskij, “se Dio è morto, tutto è permesso”. Che si creda o non si creda, la questione resta drammaticamente la stessa per tutti: quella di coltivare il senso della misura e del limite, che ha sempre rappresentato la base di ogni Civiltà, ma che l’uomo non può illusoriamente pensare di trovare in un vago e laico “buon senso”. Servono piuttosto istituzioni forti, sane ed autorevoli incarnate in Uomini degni di tal nome. Non le scuole-parcheggio governate da nullità dove si stravaccano frotte di ragazzotti perditempo. Non le università-diplomificio, ma scuole di vita, dove prima che immagazzinare nozioni su nozioni si viva a stretto contatto con dei Maestri. S’indicono “fertility day” del tutto effimeri quando si sa benissimo che si sta scientemente, su tutta la linea, dalle politiche del lavoro alla “cultura” che inonda le menti di ragazzi e adulti, massacrando il concetto stesso di famiglia. E fermiamoci qua, che è meglio, tanto anche queste saranno le ennesime parole al vento, in attesa della prossima “tragedia familiare” sulla quale si getteranno come sciacalli cronisti ed “esperti” per puro dovere professionale, senza che – non sia mai detto! – qualcheduno provi a far capire che il miglior antidoto contro simili tragedie starebbe nell’invertire diametralmente rotta rispetto a quella senza bussola che ha preso questa cosiddetta civiltà dell’uomo che non concepisce altro che se stesso ed il suo tirannico ego.

Omicidi in famiglia: se il mostro vive in casa. Tre le mura domestiche 147 delitti con 175 morti, scrive il 22 agosto 2014 Cristina Brondoni su "Lettera 43". Nel 2012, ci sono stati 159 omicidi in famiglia che hanno provocato 175 vittime. Padri che uccidono i figli nel sonno. Mariti che sparano alle mogli. Genitori che vengono eliminati da chi hanno messo al mondo. È solo la cronaca degli ultimi giorni, piena di delitti commessi tra le mura di casa. In Sicilia un uomo ha accoltellato le figlie di 12 e 14 anni mentre dormivano e poi ha tentato di togliersi la vita. La più piccola è morta, l'altra bambina versa in gravi condizioni in ospedale. A fermare l'uomo è stato l'intervento degli altri due figli che, in quel momento, erano in casa. Qualche giorno prima, un padre di 34 anni ha ucciso la sua bimba di 18 mesi con cinque coltellate mentre era nella culla. Giustificandosi, una volta tratto in arresto, dicendo che ha «sentito una voce» che gli ordinava di uccidere. Sempre nel mese di agosto, un uomo ha sparato in testa alla moglie: i due avevano due figli e la donna aveva deciso di andarsene. Ma perché tra le mura domestiche, il luogo più protetto, si compiono così tanti delitti efferati? Parlare di raptus di follia, in questi casi, è errato. L'omicidio in famiglia non è mai frutto di un colpo di testa. In genere è il tragico culmine di situazioni complicate che, a un certo punto, arrivano a un epilogo tragico. Non si tratta di un qualcosa che accade all'improvviso, dunque, ma della classica goccia che fa traboccare il vaso. Sebbene la cronaca tenda ad amplificare il fenomeno ogni volta che avviene una nuova uccisione, i numeri sono rimasti invariati da tempo: in famiglia non si muore di più rispetto al passato. Il dato rimane costante nel tempo. Nonostante in Italia il numero delle vittime di omicidio volontario sia inferiore rispetto al passato - secondo il Rapporto Eures Ansa 2013, in Italia sono in calo (negli Anni 90 si è arrivati a quasi 2 mila omicidi all'anno, nel 2012 sono stati 526) - resta fisso il numero dei delitti commessi in famiglia: nel 2012, ce ne sono stati 159 che hanno provocato 175 vittime (147 omicidi con un solo morto, 10 duplici omicidi e due con quattro decessi). Il dato è quindi piuttosto allarmante: significa che la famiglia non è quell'approdo sicuro in cui ci si può rifugiare dal mondo esterno. Ma ogni delitto che avviene tra membri dello stesso nucleo famigliare può avere cause diverse:

1. Stragi di famiglia: quasi sempre il killer è uomo. Le uccisioni in famiglia possono essere distinte in base all'autore e alla vittima del reato. Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini che uccidono le loro compagne (mogli, conviventi, partner o fidanzate). Assassinii di genere per i quali è stato coniato il termine «femminicidio». Una tendenza che non stupisce, visto che la maggior parte degli omicidi (in Italia più del 90%) è commessa da uomini. Non stupisce, quindi, che anche tra i delitti tra consanguinei l'autore sia quasi sempre maschio. In particolare, quando viene uccisa tutta la famiglia si tratta sempre di un uomo. Ma, fortunatamente si tratta ormai di casi isolati: nel 2012, sempre secondo il Rapporto Eures Ansa 2013, ce ne sono stati due che hanno provocato quattro vittime.

2. Uxoricidio: il movente spesso è la gelosia. Quasi la metà degli omicidi commessi in famiglia sono uxoricidi. Stando al Rapporto Eures Ansa 2013, nel 49,1% dei casi chi soccombe erano donne legate sentimentalmente all'autore di reato. Il movente, nella maggior parte dei casi, è la gelosia, o meglio, la non accettazione della fine di un rapporto. Anche se le statistiche non possono andare a fondo di ogni singolo caso, la cronaca racconta di rapporti già deteriorati. Motivo per cui parlare di raptus potrebbe stravolgere i fatti.

3. Padri e figlicidio: il 20% era affetto da depressione. Nel 17,1% degli omicidi in famiglia del 2012 è stato un genitore a uccidere il figlio. Chi compie tali delitti può avere motivazioni, ovvero moventi, differenti. In qualche caso si tratta di padri che non riescono più a sopportare un figlio violento, perché affetto da patologie psichiatriche o perché sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Spesso sono genitori, in genere piuttosto anziani, che non possono più prendersi cura degli eredi disabili e che hanno paura che, morti loro, finiscano in una casa di cura. Un caso del tutto diverso è il padre che uccide i figli per fare un torto alla madre che, magari, lo ha lasciato (come il caso dell'uomo che ha accoltellato le due figlie uccidendone una). Nel 20% dei casi considerati dal Rapporto Eures Ansa 2013 ci si trova di fronte persone che hanno manifestato un disagio psichico prima dell'omicidio. Non è da escludere la depressione (o un'altra patologia psichiatrica, come la schizofrenia, per esempio).

4. La sindrome di Medea: «Io ti ho fatto, io ti distruggo». Le donne che uccidono se la prendono nel 60% dei casi con il compagno e nel 20% dei casi con i figli (nel 2012 le madri che hanno ammazzato la prole sono state tre. Nove quelle che hanno eliminato i partner). Quando una madre elimina la propria prole, la criminologia parla Sindrome di Medea. La donna, più dell'uomo, quando arriva a uccidere i figli ha la convinzione che questi siano una sorta di un suo prolungamento. La giustificazione che si danno si può sintetizzare in questa affermazione: «Io ti ho fatto, io ti distruggo». Molto frequentemente la madre che decide di suicidarsi, porta con sé anche la sua prole, soprattutto se si tratta di bambini o minorenni. Siamo di fronte, ancora una volta, a situazioni di profonda depressione (che spesso non è stata notata dai familiari): se nulla ha più senso e se il mondo è un 'posto brutto', ammazzare i figli prima di suicidarsi pare, nella mente malata di una persona che vive il suo disagio in solitudine, un ragionamento lineare. Ci sono anche le madri affette dalla Sindrome di Munchausen per procura. Si tratta di donne che vogliono stare (patologicamente) al centro dell'attenzione e, per farlo, si servono dei figli cui somministrano farmaci o veleni (in qualche caso tentano anche di soffocarli). I bambini stanno male e loro, a quel punto, hanno l'occasione di frequentare ospedali e farsi notare nel loro dolore. Non sempre arrivano a uccidere i figli, ma può succedere se non vengono fermate in tempo. È il caso dell'infermiera torinese arrestata il 12 agosto dopo essere stata sorpresa a iniettare dosi di insulina (usata per curare il diabete) al figlio di 4 anni.

5. Figli che uccidono i genitori: la liberazione dal giogo. Nel 2012 i figli che hanno ucciso uno o entrambi i genitori sono stati in tutto 12 (di cui nove delitti sono attribuibili a maschi e tre a femmine). È ancora vivo nella memoria il caso di Erika e Omar che, nel 2001 a Novi Ligure, uccisero premeditatamente la madre e il fratellino di lei. Ma pure il caso di Pietro Maso che, con complici e premeditatamente, ammazzò entrambi i genitori per entrare in possesso dell'eredità. SI AMMAZZA PURE PER DENARO. In molti casi si tratta di figli che uccidono un padre padrone, o che ritengono tale. A questo punto, per liberarsi dal giogo, non resta che l'omicidio, soprattutto quando il genitore è un violento, un prevaricatore, o addirittura ha comportamenti incestuosi. Ma ci sono anche figli affetti da disturbi psichiatrici o che abusano di sostanze stupefacenti e, per una serie di motivi (dalle allucinazioni al denaro), arrivano ad ammazzare il genitore.

I parenti uccidono più della mafia. In particolare al Nord. I delitti compiuti fra le mura domestiche sono al primo posto nella classifica degli omicidi volontari in Italia. Ed è la Lombardia a detenere il primato delle stragi familiari: "Nel Sud è il concetto di famiglia allargata a salvare la stessa famiglia dalla strage", dice Fabio Piacenti, presidente dell'Eures. "Dalle nostre indagini emerge poi che i casi più efferati si verificano nei periodi di forte di stress, come ad esempio il rientro al lavoro dopo le ferie", scrive Nadia Francalacci su "Panorama". Omicidio-suicidio o suicidi allargati. Crescono in Italia del 12,1 per cento, secondo i dati Eures, i delitti compiuti all'interno delle mura domestiche. La tragedia di Reggio Emilia - dove un uomo ha ucciso la moglie e un figlio, ha ridotto in fin di vita l'altro figlio e la padrona di casa e poi ha tentato di togliersi la vita conferma il primato dei delitti in famiglia nelle statistiche degli omicidi volontari compiuti in Italia. Ad essere interessato dal fenomeno è in particolare il Nord Italia: 94 vittime pari al 48,2 per cento del totale. Nella triste graduatoria è seguito dal Sud con 62 le vittime (31,8 per cento) e infine dal Centro Italia (Toscana, Marche, Lazio e Abruzzo) dove sono state 39 (20 per cento) le vittime di stragi e follie familiari. Dalle analisi vittimologiche, del movente ma anche degli indici di rischio e disagio sociale ed economico effettuate dell'Eures è la Lombardia ad essere la regione italiana più interessata dal fenomeno assieme al Veneto e dalla Campania. Le vittime più frequenti sono le donne con 134 casi nel 2006 (+36,7 per cento rispetto al 2005) e pari al 68, 7 degli omicidi-suicidi familiari. I casi più frequenti di delitti hanno come vittime coniuge o ex compagno (35,9 per cento con 70 casi). Il 23, 6 per cento dei casi, invece, riguarda gli omicidi genitori-figli o viceversa: 21 genitori uccisi e 23 i figli. Il 5,1 per cento riguarda i casi di omicidi tra parenti. Tra i moventi principali: litigi e dissapori (24,6%), passione (in particolare al Nord con il 28,7% dei casi) e denaro (al Sud con il 16,1%). Spesso si sente parlare del periodo estivo come il momento il cui si verificano più frequentemente casi di omicidio-suicidio. Esiste una "stagione" in cui si uccide di più? No. È sbagliato parlare dell'estate come il momento di maggior picco del fenomeno o imputare al caldo la perdita della lucidità che porta a consumare stragi familiari" spiega a Panorama.it, Fabio Piacenti, presidente dell'Eures. "Dalle nostre indagini emerge invece che tragedie come quelle avvenute a Reggio Emilia, dove un padre uccide nel sonno la famiglia e tenta il suicidio, avvengono la domenica o nei primi giorni della settimana, spesso di lunedì e nelle prime ore del mattino. I dati raccolti da Criminalpol, Carabinieri, Prefetture e Procure di tutta Italia mostrano che i casi più efferati si sono verificati proprio nei primi giorni dell'anno (gennaio è uno dei mesi più interessati, ndr) e nel cambio di stagione. Insomma nei periodi di forte di stress come, per esempio, il rientro al lavoro dopo le ferie". Tra i delitti compiuti in famiglia aumentano, con percentuale spaventosa, quelli che si concludono con il suicidio o il tentativo di togliersi la vita da parte dell'autore della strage. Dal 2000 ad oggi si sono verificati 340 casi, quasi mille morti, per una media di 3 al mese, ovvero 1 ogni 10 giorni. Nel 93 per cento dei casi la mano assassina è quella di un uomo.

Perchè, secondo lei, chi uccide il proprio familiare sempre più spesso tenta di togliersi la vita?

"L'omicida-suicida non riesce a superare e ad affrontare le difficoltà di ricominciare una vita e ricostruire un persorso affettivo e professionale. Questo è quanto emerso negli ultimi nove anni".

La crisi economica quanto incide? Nella strage di Reggio Emilia, l'omicida era un ex operaio disoccupato...

"Incide in modo significativo. È il clima di sfiducia generale che non fa vedere uno spiraglio di luce e di speranza per il futuro questo porta alla voglia di cancellare tutto: la famiglia e se stessi".

Il Nord, Lombardia in particolare, detiene il primato delle mattanze. Perchè?

"Nel Sud è il concetto di famiglia allargata a salvare la stessa famiglia dalla strage. Di fronte ai problemi esiste ancora una mediazione ampia di più soggetti familiari come i nonni gli zii i cugini e di conseguenza anche un'assistenza familiare che diventa la salvezza nei momenti di crisi. Nel Nord, invece, come nel centro Italia questo legame si annulla e le famiglie sono sempre di più nuclei isolati senza punti di riferimento".

CHIAMALI LGBTI.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. LGBT è una sigla utilizzata come termine collettivo per riferirsi a persone Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender. In uso fin dagli anni novanta, il termine è un adattamento dell'acronimo LGB, che aveva iniziato a sostituire il termine gay per indicare la comunità LGBT dalla fine degli anni ottanta, in quanto molti trovavano che il termine comunità gay non rappresentasse accuratamente tutti coloro a cui il termine si riferiva. L'acronimo è diventato un'auto-designazione convenzionale ed è stato adottato dalla maggior parte di centri sociali e media basati su sessualità e identità di genere. L'acronimo LGBT ha come scopo di enfatizzare la diversità delle culture basate su sessualità e identità di genere e a volte è utilizzato per riferirsi a chiunque sia non-eterosessuale e non-cisgender invece di persone che sono esclusivamente lesbiche, gay, bisessuali o transgender. Per riconoscere questa inclusione, una popolare variante aggiunge la lettera Q per chi si identifica come queer o sta interrogando la propria identità come LGBTQ, registrata fin dal 1996. Alcune persone intersessuali che vogliono essere incluse in gruppi LGBT suggeriscono un acronimo esteso LGBTI. Alcune persone combinano i due acronimi e usano il termine LGBTQI. Il fatto che qualcuno si identifichi apertamente o meno può dipendere dal vivere in un ambiente discriminatorio, così come dalla condizione dei diritti LGBT dove vive.

Fino alla rivoluzione sessuale degli anni sessanta non c'era una terminologia generalmente riconosciuta per descrivere la non-eterosessualità, che non avesse un significato spregiativo (ad esempio sodomiti). Un possibile termine correlato era "terzo sesso", che risale agli anni sessanta del XIX secolo, ma non prese mai piede negli Stati Uniti. Il primo termine ampiamente utilizzato, omosessuale, prese inizialmente delle connotazioni negative e fu sostituito prima da "omofilo" e poi dall'americano "gay" negli anni settanta. Anche il termine minoranza sessuale iniziò ad essere usato negli anni sessanta da Lars Ullerstam, come un'analogia con il termine minoranze etniche per le persone non bianche. Quando le lesbiche hanno forgiato la loro propria identità, l'espressione gay e lesbica divenne più comune. Le Daughters of Bilitis si divisero nel 1970 sulla direzione su cui concentrarsi: femminismo o diritti lgbt. In quanto l'uguaglianza era una priorità per le femministe lesbiche, la disparità di ruoli tra uomini e donne o butch and femme erano considerate patriarcali. Le femministe lesbiche rifuggevano i ruoli di genere che erano pervasivi nei bar, così come nel maschilismo avvertito degli uomini gay; molte femministe lesbiche si rifiutavano di lavorare con uomini gay o di abbracciare le loro cause. Le lesbiche che avevano una visione più essenzialista sull'essere nate omosessuali e che usavano il termine "lesbica" per riferirsi all'attrazione sessuale, spesso consideravano le opinioni separatiste e piene di rabbia delle femministe lesbiche dannose per la causa dei diritti gay. Questo fu presto seguito da persone bisessuali e transgender che cercavano anch'esse riconoscimento come legittime categorie nella comunità estesa. Dopo che l'euforia iniziale dei Moti di Stonewall si esaurì, nei tardi anni settanta e primi anni ottanta, ci fu un cambiamento di percezione; alcuni gay e lesbiche divennero meno accoglienti nei confronti di persone bisessuali o transgender. Si pensava che le persone transgender mettessero in atto stereotipi e che le persone bisessuali fossero semplicemente uomini gay o donne lesbiche che avevano paura di fare coming out ed essere onesti sulla loro identità. Ogni comunità ha lottato per sviluppare la proprio identità, incluso se e come allinearsi con altre comunità basate su genere e sessualità a volte escludendo altri sottogruppi; questi conflitti continuano fino a oggi. Il termine LGBT è stato sempre più comune dalla metà degli anni novanta sino ad oggi; è divenuto così tradizionale che è stato adottato dalla maggior parte dei centri di comunità per lesbiche, gay, bisessuali e transgender e dalla stampa gay nella maggior parte delle nazioni dove si parla inglese. Nell'ottobre 2004, la compagnia mass media PlanetOut Inc., che possiede i domini PlanetOut.com e Gay.com, ha scelto LGBT come suo ticker symbol quando è stato elencato sullo scambio del NASDAQ dopo un IPO di successo. Fin qui è rimasto principalmente un termine scritto, piuttosto che un termine di conversazione.

Esistono molte varianti che cambiano l'ordine delle iniziali; LGBT o GLBT sono i termini più comuni e più frequentemente visti. Sebbene identici nel significato, LGBT può avere una connotazione più femminista rispetto a GLBT, dato che l'iniziale "L" (per "lesbica") è la prima a comparire. Quando non inclusivo delle persone transessuali, è talvolta ridotto a LGB. LGBT può talvolta includere un ulteriore "Q" per "queer" oppure "questioning", in dubbio (a volte abbreviato con un punto interrogativo, usato anche per indicare una persona non direttamente identificabile con L, G, B or T), dando origine alle varianti "LGBTQ" e "LGBTQQ". Nel Regno Unito, è talvolta stilizzato come LGB&T, mentre il Partito Verde di Inghilterra e Galles usa il termine LGBTIQ nei suoi manifesti e nelle sue pubblicazioni ufficiali. Non esiste uno standard per l'ordine delle lettere; oltre alle variazioni della posizione delle lettere "L" o "G", le altre lettere menzionate e meno comuni possono apparire in qualsiasi ordine. Le molte iniziali legate alle persone LGBTQ sono state talvolta indicate come "alphabet soup", zuppa alfabetica. La variazione dell'ordine dei termini non rappresenta tipicamente una differenza politica all'interno della comunità, ma nasce semplicemente dalle preferenze dei gruppi e individuali. I termini pansessuale, omnisessuale, fluido e queer sono considerati come parte del termine generale bisessuale (e quindi sono considerati parte della comunità bisessuale). Allo stesso modo, i termini transessuale and intersessuale sono considerati come parte del termine generale transgender, sebbene molte persone transessuali e intersessuali non siano d'accordo su questo punto. Alcune persone intersessuali preferiscono la sigla LGBTI, mentre altri insistono che non sono parte della comunità LGBT e non vorrebbero essere inclusi come parte nel termine LGBT. In Australia, dove il termine LGBTI è usato con sempre maggiore frequenza, e organizzazioni rappresentanti gli interessi fra le comunità hanno una storia di collaborazione includendo anche la National LGBTI Health Alliance, la legislazione contro le discriminazioni riconosce che l'intersessualità è un attributo biologico distinto sia dall'identità di genere che dall'orientamento sessuale. SGL ("same gender loving", amore per lo stesso sesso) è talvolta favorito fra i membri della comunità afroamericana come un modo per distinguersi da quelle che considerano le comunità LGBT dominate dai bianchi.

Il disastro della sinistra è nato quando ha sostituito gli “sfruttati” con le “vittime”, scrive Adriano Scianca il 14 novembre 2016. Perché la sinistra perde? Non tanto le elezioni, quanto il contatto con i territori, i popoli, la gente minuta. Pensiamo al suicidio globale della sinistra dei poteri forti con Trump, ma anche a quello locale, ma emblematico, della sinistra barricadera avvenuto a Magliana. Fatti molto diversi per dinamiche e importanza, certo, ma che raccontano entrambi di un popolo che volta le spalle a una sinistra ormai incapace di sentirne il grido di dolore, quando non direttamente impegnata a provocarlo essa stessa. Ecco, perché questo accade? Per molti e complessi motivi, ovviamente, ma uno in particolare merita di essere sottolineato. È la deriva del boldrinismo. Che è una tendenza politica generale, nata prima dell’elezione alla presidenza della Camera di Laura Boldrini, ma da costei incarnata e rappresentata in modo quasi parossistico. Si tratta dell’abbandono delle grandi questioni sociali per abbandonarsi al ridicole battaglie del tutto marginali si questioni formali, inessenziali, ideologiche, relative alla sensibilità di alcune categorie sociali. Insomma, è il motivo per cui a un certo punto smetti di combattere le battaglie di classe e ti impunti su quelle di genere. Non che il vecchio classismo di estrazione marxista fosse esente da pecche, ovviamente, ma aveva almeno reali capacità di rappresentanza. Oggi la sinistra rappresenta solo se stessa. Questa deriva è avvenuta quando ha sostituito, nel suo sistema di pensiero, lo “sfruttato” con la “vittima”. Ora, per difendere lo sfruttato, la sinistra doveva innanzitutto indagare il meccanismo dello sfruttamento. Gran parte dell’ideologia di sinistra dell’ultimo secolo e mezzo riguarda proprio l’indagine scientifica di tale dinamica sociale, indagine che è ovviamente contestabile, ma che aveva il pregio di una pretesa di oggettività: non conta come ti senti tu, anche se ti trovi da dio nella catena di montaggio sei sfruttato lo stesso, per via del plusvalore etc etc. La vittima, invece, è tale solo in virtù della sua sensibilità e tu non hai alcuno strumento concettuale per dirle che in realtà non lo è, perché non puoi contestare una sensazione interiore. Una volta compiuto questo passo esiziale, quando fai un congresso di partito o butti giù un programma politico e qualcuno alza la mano e ti dice “mi sento offeso in quanto donna / gay / ciccione / molisano / radioamatore”, tu sei obbligato a prendere sul serio la sua lamentela e a darle dignità politica. Pensate a quella che è una delle battaglie boldriniste per definizione, quella per i diritti dei gay. Questo mondo, negli anni ’80, ha deciso di darsi per nome una sigla, Lgb. Ovvero lesbiche, gay e bisessuali. Poi, negli anni ’90, è divenuto Lgbt, perché i trans si ritenevano discriminati a essere inclusi nelle altre categorie. In questo modo, però, si discriminavano i non eterosessuali ancora confusi sulle loro preferenze. È nato quindi l’acronimo Lgbtq, inserendo i queer. E gli intersessuali, quelli che una volta erano detti “ermafroditi”? Perché la loro esperienza deve essere appiattita su lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer? Ecco allora l’ultima variante, l’acronimo impronunciabile Lgbtqi. E se domani se ne uscisse uno che va nei giorni pari con gli uomini e nei giorni dispari con le donne? Perché non farsi carico della sua specifica sofferenza? E allora chiamiamolo “alternista” e inseriamolo nell’acronimo. E così via. Una volta imboccata la china del politicamente corretto, ogni categoria politica salta e ci si trova su un piano inclinato in cui non si può più risalire il piano inclinato. Si scivola giù, nell’abisso delle battaglie irrilevanti, nel narcisismo individualistico, nella marginalità politica. Va a finire che prendi solo i voti dei Lgbtqi, salvo poi accorgerti al momento dei risultati che l’acronimo conta più lettere che persone. Adriano Scianca

RIFUGIATI LGBTI.

Rifugiati LGBTI, perché crescono i centri d'accoglienza dedicati. In ben 78 Paesi l’omosessualità è un reato, punito anche con la pena di morte. Migliaia di persone che oggi cercano asilo in Europa fuggono da una criminalizzazione dell’identità di genere. Ma si ritrovano vittime delle discriminazioni che li colpivano in patria. Ecco perché in Germania, Svezia e ora anche a Bologna vengono create aree separate, scrive Luigi Mastrodonato il 3 marzo 2017 su "L'Espresso". Saliou ha 15 anni e viene dal Senegal. È arrivato in Italia come minore non accompagnato nell’autunno del 2016, dopo essere stato allontanato dalla sua comunità d’origine. La colpa di cui veniva accusato era una sola, quella di possedere entrambi gli organi riproduttivi. Saliou è infatti una persona intersessuata, oggi impegnata nel percorso di identificazione dell’identità di genere prevalente. La sua storia è una piccola tessera del grande mosaico europeo costituito dai richiedenti asilo LGBTI. Non ci sono statistiche ufficiali sul loro numero, questo perché si tratta di persone che fuggono da violenze e discriminazioni e che dunque difficilmente fanno coming out. Esistano però realtà locali impegnate in lavori di mappatura statistica al fine di inquadrare quello che è un tema molto delicato. Il Fliederlich Group, un’associazione tedesca che si occupa di diritti LGBTI, ha stimato in 800 i rifugiati gay, transessuali e intersessuati presenti nell’area di Norimberga. Schwulenberatung, altra realtà molto attiva nel settore e localizzata a Berlino, ha contato circa 3500 richiedenti asilo appartenenti alla sfera LGBTI nella capitale tedesca. Numeri di questo tipo non sono necessariamente conseguenza di guerre e migrazioni economiche. Sono infatti ancora 78 i Paesi del mondo in cui l’omosessualità costituisce una violazione della legge, mentre in otto è prevista la pena di morte. Le decine di migliaia di persone LGBTI che oggi cercano asilo in Europa fuggono da una condizione di criminalizzazione dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale di questo tipo. L’Unione Europea e gli stati membri hanno compiuto negli ultimi anni dei passi avanti sul tema del riconoscimento della protezione internazionale per queste persone. L’articolo 10 della Direttiva Qualifiche riconosce l’orientamento sessuale quale motivo di persecuzione, mentre l’articolo 19 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea sottolinea come “il Consiglio può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale.” Se questo è il contesto legislativo che accoglie i migranti gay, trans e intersessuati al loro arrivo, non vuol dire che l’ingresso in Europa corrisponda con la fine di tutti i problemi. Sono tre le forme di discriminazione a cui è potenzialmente esposto un rifugiato LGBTI. La discriminazione nel Paese d’origine, motivo della fuga. In secondo luogo, la discriminazione nel Paese d’arrivo, dove spesso il migrante non è già di per sé ben visto dalla popolazione, ancor di più se gay, transessuale o intersessuato. Infine, la discriminazione nel centro di accoglienza, raramente per mano degli operatori e molto più sovente ad opera degli stessi compagni rifugiati del migrante. Si crea cioè una situazione paradossale per cui la fuga dalla comunità omofoba nel Paese di origine si conclude in un contesto dove viene a ricrearsi quella stessa condizione d’origine, e dove dunque il migrante LGBTI si trova vittima delle discriminazioni che lo colpivano in patria. Secondo le rilevazioni di Schwulenberatung, tra settembre e dicembre del 2015 sono state 95 le aggressioni di cui sono stati vittime i rifugiati LGBTI presenti in Germania. La maggior parte di queste sarebbero avvenute all’interno dei centri di accoglienza, per mano di migranti provenienti proprio da quei paesi dove l’omosessualità, la transessualità e l’intersessualità costituiscono un tabù. Questa pila di discriminazioni ha reso necessario la predisposizione di misure di tutela nella tutela. In Olanda già dalla fine del 2015 è prevista la creazione di aree separate per i richiedenti asilo LGBTI, mentre la Svezia ha messo a disposizione di queste persone piccole strutture apposite che garantiscono loro una situazione di doppia protezione. Un anno fa poi, a Berlino è stato aperto il primo centro di accoglienza europeo per soli rifugiati LGBTI, gestito dall’associazione Schwulenberatung. “Dal 2014, quando il numero di richiedenti asilo nell’area di Berlino è aumentato a dismisura, i rifugiati LGBTI si sono ritrovati a vivere per lunghi periodi in grandi campi di accoglienza dove erano vittime di discriminazioni, odio e violenze da parte di altri rifugiati”, spiega Stephan Jäkel, coordinatore del centro di Berlino. “A quel punto ci siamo mossi per aprire una struttura che garantisse un ambiente sicuro a queste persone.” Il centro ha iniziato la sua attività nella primavera del 2015 e oggi conta 122 posti letti suddivisi in 29 appartamenti condivisi. Al suo interno lavorano cinque assistenti sociali guidati da un coordinatore centrale, più uno staff formato da persone provenienti dalla comunità LGBTI della città o da ex richiedenti asilo che si trovano in Germania da ormai tanti anni. La struttura si avvale poi della presenza di personale esterno impegnato nell’aiutare i migranti con le pratiche legali, la consulenza psicologica, l’offerta di cure mediche, nonché altri servizi di base. “Nel 2016 abbiamo avuto oltre 1400 visite da parte di 400 diversi rifugiati LGBTI. Al momento sono 120 le persone accolte nella struttura, altre 40 sono andate via perché hanno avuto la possibilità di trasferirsi in appartamenti privati e i nostri psicoterapeuti hanno offerto circa 350 sedute” continua Stephan Jakel. “Ogni giorno poi riceviamo numerose mail di rifugiati LGBTI che sono stati vittime di violenze e discriminazioni. Le richieste di assistenza provengono da tutta la Germania e anche dall’estero.” La sua unicità rende il centro di Berlino un punto di riferimento per tutte quelle persone in fuga da discriminazioni basate sull’identità di genere e l’orientamento sessuale. Di mail ne arrivano anche dall’Italia, ma presto i rifugiati LGBTI presenti nel nostro Paese non dovranno più volgere il loro sguardo al centro tedesco. In primavera aprirà infatti una struttura analoga anche a Bologna. Il progetto si chiama Rise The Difference, è stato sviluppato dal Mit (Movimento identità transessuale) e si concretizzerà grazie al supporto e al finanziamento dell’Unar e del Comune di Bologna. “Da un’esperienza reale degli ultimi due anni in cui vari rifugiati sono transitati al MIT per beneficiare dei nostri servizi diurni, ci siamo resi conto di numerosi casi di discriminazione e violenza negli ambiti dell’accoglienza” mi spiega Cathy La Torre, avvocata e VicePresidentessa del MIT – Movimento Italiano Transessuali. “Solo noi come MIT abbiamo seguito una ventina di persone, e siamo un’associazione singola. Ovviamente ce ne sono altre che fanno lo stesso.” Da qui l’idea di estendere la protezione, non più solo sotto forma di singoli servizi di consultorio, psicoterapia ed endocrinologia, ma creando una vera e propria casa rifugio ispirata all’esperienza berlinese. La vittoria del bando indetto dall’Unar ha dato poi il via libera alla messa in opera del progetto. Qualcuno ha affermato che un’accoglienza di questo tipo produrrebbe un effetto di auto-ghettizzazione per l’universo LGBTI. “Si tratta di un falso problema, noi non facciamo altro che creare un ambiente protetto finché queste persone non si mettono in una condizione di un’autosufficienza totale” continua La Torre. “Non si crea alcuna ghettizzazione bensì un ambiente sicuro, accompagnato dalla predisposizione di percorsi di socialità verso l’esterno.” Uno di questo è il progetto Vesta, un modello di integrazione già operativo e fondato sull’accoglienza dei rifugiati LGBTI da parte di comuni cittadini nelle loro case. Il target di questa iniziativa sono i rifugiati minorenni o neo maggiorenni e in questo periodo il Mit si sta muovendo per trovare una famiglia a Saliou, la persona intersessuata senegalese 15enne. Oltre a questo, la casa rifugio avrà a corollario tutta una serie di altre misure, come la redazione di linee guida in ambito LGBTI dedicate agli operatori che lavorano nell’accoglienza e la creazione di un contact center che supporti interventi nel campo dell’accoglienza LGBTI a livello nazionale. “Tutti i rifugiati LGBTI che sono venuti da noi non ne potevano più di stare negli hub. C’era un’incompatibilità ambientale frutto di discriminazioni oltre che di una classificazione binaria dei servizi interni” conclude La Torre. “Con il progetto della casa rifugio vogliamo impedire che si ripetano queste situazioni.”

Transessuali a Bologna, storie di rinascita. Il MIT (movimento identità transessuale) è l'associazione che per prima in Europa ha aperto al suo interno un consultorio per la salute delle persone trans, composto da un’equipe di psicoterapeuti ed endocrinologi. Nella sua sala d’attesa si incrociano racconti, difficoltà e speranze di chi percorre chilometri per cambiare sesso, scrive Silvia Santachiara il 30 gennaio 2017 su "L'Espresso". Quando è arrivato qui in treno la prima volta, sei anni fa, pesava quindici chili in meno. «Quello che ancora oggi mi uccide è la paura che qualcuno possa capire, anche solo da un dettaglio». Poi toglie la mano dalla tasca dei jeans e la appoggia sul collo. Non ha il pomo d’Adamo. Federico è un ragazzo transessuale di 38 anni, ha gli occhi chiarissimi e una barba folta e con la schiena appoggiata alla parete aspetta il suo turno, come tutti. Accanto a lui, seduti su un divanetto rosso, ci sono una mamma che ha accompagnato la figlia, un uomo sulla quarantina, una ragazza di trenta e una coppia. Uomini e donne di tutte le età che fanno parte del popolo in transito, persone che non si riconoscono nel sesso biologico e arrivano al Mit (movimento identità transessuale) di Bologna per nascere una seconda volta. L’associazione, che da oltre vent’anni si batte per difendere i diritti delle persone transessuali e transgender, è stata la prima in Europa ad aprire un consultorio in accordo con il servizio sanitario locale e la Regione e quindi composto da psicoterapeuti ed endocrinologi e in regola con gli standard internazionali. «La differenza la fa il contesto, che è fondamentale in un percorso di transizione», spiega la presidente onoraria Porpora Marcasciano. Il consultorio assiste nel percorso 980 utenti che arrivano da ogni città d’Italia. «Il momento più difficile è stato quando ho chiamato la prima volta», spiega Roberto, che arriva da San Benedetto del Tronto. «Avevo paura della reazione del mio corpo agli ormoni, di provare dolore». Dall’altra parte del filo c’è Mary, che si occupa dell’accoglienza e del counseling. «Li ascolto e spiego loro che il primo passo è un eventuale percorso psicologico». Tecnicamente ciò che viene accertato è il Dig (disturbo dell’identità di genere) poi rinominato disforia di genere nel D.S.M V (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e non più considerato quindi un disturbo mentale. «In parallelo viene affiancata la somministrazione di ormoni del sesso opposto, testosterone o estrogeni, che continua per tutta la vita», spiega Daniela Anna Nadalin, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice dell’attività consultoriale. La terapia ormonale è parzialmente irreversibile. «Per questo è importante che il paziente sia deciso», fa presente Maria Cristina Meriggiola, ginecologa ed endocrinologa. «Ci sono stati anche casi di persone che si sono volute fermare. Poche, ma ci sono state». Cambia la voce, si induriscono o addolciscono i lineamenti, compare o diminuisce la peluria, il grasso si sposta dai fianchi all’addome o viceversa, la forza aumenta o diminuisce. Ciò che non varia invece è la struttura ossea. Nessuna magia però. Roberto abbassa gli occhi. «Gli effetti fisici sono lenti e graduali, poi ci sono anche quelli psicologici». Sbalzi d’umore, depressione o ansia. «Li aiutiamo a non spaventarsi e a gestirli», fa presente Nadalin. Servono in media due anni per ottenere l’effetto massimo di mascolinizzazione o femminilizzazione e si deve tenere conto anche delle possibili complicanze delle terapie: trombo embolico e aumento del rischio cardiovascolare. Ma, sotto controllo medico, rimangono comunque molto rare.

Alessandro arriva da Trento e ha trovato la forza di iniziare il percorso solo pochi mesi fa, dopo la morte della madre, mentre Alessandro di Cattolica non si è mai sentito un trans. «È solo un nome che identifica una situazione che nessuno di noi ha scelto». Ha le cuffie alle orecchie e una camicia di jeans arrotolata sugli avambracci tatuati. «Vedi questo», dice, «rappresenta la molecola del testosterone».

Angelo invece è di casa. Viene qui dal 2011 e dopo tre anni ha fatto due interventi chirurgici in una sola volta. Una rinascita, che però è arrivata dopo il baratro. Una sera ha aperto l’armadietto dei medicinali ha ingoiato fino a trenta pillole, mescolate all’alcool. Poi si è sdraiato sul terrazzo e ha perso i sensi. Oggi però qualcosa sta cambiando. «Se la persona è supportata, il rischio di suicidio è pari a quello della popolazione generale» fa presente Nadalin. È seduto accanto ad Andrea. La sua famiglia l’ha buttato fuori casa e l’unica ad accoglierlo è stata la sua nonna. «Era lei a dire a tutti di chiamarmi Andrea», racconta. Oggi vive a Bologna per amore di Veronica, una ragazza MtoF (male to female) e dopo quattro anni ha riallacciato i rapporti con il padre: «Ho alzato la cornetta e l’ho chiamato».

Il Mit, presieduto oggi da Nicole De Leo, ha ottenuto anche il riconoscimento di Amnesty International Italia per la difesa dei diritti umani. Non è solo un consultorio, ma anche uno sportello legale, un centro di documentazione, f a accoglienza per emergenza abitativa, svolge assistenza in carcere, interviene nella riduzione del danno sulla prostituzione e organizza eventi. Nel 2016 Bologna ha ospitato anche il Sesto Consiglio Europeo Transgender (Tgeu), diventando per un biennio la Capitale Trans d’Europa. Parte del lavoro, è culturale. «C’è un problema di immaginario, la trans è vista come una prostituta, mentre noi lavoriamo per nuovi modelli in cui una trans può essere anche medico o avvocato».

Mario ha 30 anni e fa il volontario in associazione. Ha le unghie laccate, indossa una maglietta larga e grandi occhiali da sole. Poi li solleva: «Sono la più truccata di tutte», dice. Mario non si definisce. «Potrei dire transgender o trans, che significa movimento». Al collo porta un ciondolo con una sirena, non solo perché è napoletano ma anche perché «è il simbolo di una creatura ibrida».

Nella sala a fianco c’è Aura. Arriva da un piccolo paesino della Sardegna e lavora al Mit. Il percorso l’ha fatto da sola. «Ci facevamo le punture tra amiche», racconta. Mano a mano che il corpo iniziava a cambiare spediva lettere e fotografie alla sua famiglia. «Mio padre non mi ha mai risposto, così un giorno sono tornata a casa e dopo un primo momento di smarrimento mi ha abbracciata forte». È stato lui poi a volare con lei in Thailandia per sostenerla durante l’intervento. Ha una famiglia solida e affettuosa, che le ha fatto da scudo. A Bologna invece il Mit le ha dato la voglia di ricominciare. «È grazie a loro se ho ripreso gli studi».  

IL POTERE GAY E LESBICO.

Addio a Gilbert Baker, creatore della bandiera simbolo del movimento lgbt. Il mondo lgbt piange l'artista americano Gilbert Baker, scomparso all'età di 65 anni: era considerato il "padre" della bandiera arcobaleno, simbolo del movimento gay, lesbico, bisex e trans. Baker è deceduto nel sonno, nella sua casa di New York. Era popolare per aver creato nel 1978 il celebre drappo a otto colori (uno per ogni aspetto della simbologia New Age, dalla spiritualità alla natura, alla sessualità) per la giornata della libertà omosessuale, evento che ha poi ispirato i Gay pride, le marce per i diritti delle persone lgbt. Le tinte della bandiera si sono ridotte prima a sette e poi alle attuali sei per praticità e risparmio economico. Per distinguere la "bandiera gay" da quella della Pace bisogna far caso al numero dei colori, che sono sette per la bandiera della Pace e sei per quella gay (manca l'azzurro). Occhio anche ai colori caldi che sono posti in alto nella bandiera gay (in basso a quella della Pace). Baker, ex militare, aveva imparato a cucire da solo all'età di 20 anni, e subito aveva cominciato la sua militanza nei primi movimenti lgbt a San Francisco. "Ho il cuore infranto. Il mio più caro amico è scomparso", commenta su Facebook l'attivista statunitense Cleve Jones. "Gilbert ha regalato al mondo la bandiera arcobaleno e a me 40 anni di amore e amicizia. Non riesco a fermare le lacrime. Ti amerò sempre", ha concluso, invitando i suoi amici di San Francisco a riunirsi per una veglia su una enorme bandiera arcobaleno nel quartiere di Castro. Pasquale Quaranta 1 aprile 2017 "La Repubblica".

È morto Gilbert Baker, ideatore della rainbow flag, simbolo lgbt. Ecco la storia della bandiera, scrive il 3/04/2017 "Insideart.eu". Gilbert Baker, l’artista di San Francisco che ha ideato la bandiera con i colori dell’arcobaleno, icona della comunità Lgbt, è morto il 31 marzo a soli 65 anni a San Francisco, la sua città natale. Ex soldato e artista, Baker nel 1978 disegnò una bandiera per la giornata degli omosessuali con otto colori, che poi furono ridotti a sei, ognuno dei quali rappresenta un diverso aspetto dell’umanità. Un oggetto diventato un simbolo riconoscibile in tutto il mondo, perché trasmette l’idea della diversità e dell’inclusione. Scambiata molto spesso con la bandiera della pace, si differenzia da quest’ultima innanzitutto per l’assenza della scritta Pace, ma anche perché la disposizione dei colori è speculare (il rosso è in basso nella bandiera della pace, in alto in quella gay), e perché la bandiera della pace prevede sette strisce invece delle sei che compaiono in quella di quella LGBT. Entrambe derivano dall’arcobaleno, simbolo di pace e armonia anche nella Bibbia ma in particolare della rainbow flag, si è appropriata la filosofia spiritualista New Age. Proprio a questa si ispirò Baker classificando i colori con i diversi significati di serenità, spiritualità, natura, vita, sessualità…. Per ragioni di difficoltà e costo nel reperire tutti i colori previsti, le tinte si sono successivamente ridotte prima a sette e poi alle attuali sei. Riconosciuta una vera e propria opera d’arte, nel 2015 il Museum of Modern Art di New York ha acquistato la bandiera per la sua collezione di design, definendola una «potente pietra miliare». Il 27 giugno del 2015, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito il diritto al matrimonio come diritto garantito dalla Costituzione anche alle coppie omosessuali, il MoMa ha sventolato orgoglioso la bandiera, così come il Philadelphia museum e il Victoria & Albert museum di Londra. Nello stesso anno, l’artista ha anche firmato il design di Absolut Vodka, realizzando Absolut colors, una bottiglia in edizione limitata che omaggiava la celebre bandiera.

Media: cresciuto spazio Lgbt in tg. Diversity Media Report, 1.037 notizie in 2016, il triplo su 2015, scrive il 28 marzo 2017 "L'Ansa". Nel 2016 sono più che triplicate, rispetto all'anno precedente, le notizie trasmesse dai principali tg nazionali su temi, eventi e persone del mondo Lgbt: se nel 2015 erano 320 nel 2016 sono salite a 1.037. E' quanto ha rilevato l'Osservatorio di Pavia in un report che è stato diffuso in occasione della presentazione dell'edizione 2017 dei Diversity Media Awards, gli oscar per i migliori contenuti media sui temi Lgbt che saranno consegnati a Milano il 29 maggio. Determinante nel flusso di notizie è stato l'ingresso in agenda dell'iter parlamentare per l'approvazione della legge Cirinnà, sulle unioni civili. Approvato il ddl a maggio, il tema Lgbt rimane alto per una notizia di cronaca nera, quella della strage di Orlando, avvenuta a giugno. A luglio il picco di attenzione è poi calato. Nel 2016 la politica si conferma la fonte giornalistica prevalente: il 48 per cento delle notizie Lgbt è generato dal dibattito politico, segue la cronaca nera con un 28,9 per cento.

Gender a “Ballando”, Zazzaroni si ribella: “Il ballo è tra un uomo e una donna”, scrive Guglielmo Federici domenica 18 marzo 2018 su Secolo D’Italia. Gran putiferio a Ballando con le Stelle di Milly Carlucci: è andata in onda la clamorosa protesta di Ivan Zazzaroni, uno dei giurati storici della trasmissione di Rai 1. “Il ballo è tra un ballerino e una ballerina, tra un uomo e una donna. Quindi io non mi sento di votare”, ha dichiarato dopo l’esibizione della coppia di concorrenti maschi, Giovanni Ciacci e Raimondo Todaro. Il giornalista, infatti, non accetta la loro esibizione, poiché ritiene che il ballo sia una prerogativa uomo-donna. Una presa di posizione estetica, escludendo anche lo “zero”, poiché il giudizio, a suo parere, non sarebbe basato sull’esibizione ma sulla coppia in sé. Da par suo, la Carlucci ha assecondato Zazzaroni, affermando: “Ognuno può esprimere la sua opinione”. Giusto. Viva la faccia della sincerità. Ma non è bastato. Si è creato un caso “politico” nonostante Zazzaroni abbia chiarito, anzi scandito, che la sua non è affatto una presa di posizione omofoba: “non mi interessano gli orientamenti sessuali, il mio discorso è fondato sull’estetica del ballo in cui mi riconosco”. Da notare i nasetti arricciati degli altri giurati, per i quali evidentemente, l’unanimismo è un valore. Tutti genuflessi all’ideologia gender, e senza discussione”. Tutto ciò non basta, non vuole sentire ragioni il Gay Center, che sostiene che si tratti di un messaggio omofobo a tutti gli effetti ed ha invitato addirittura la Vigilanza Rai ad intervenire. Inviperito è Tommaso Cerno e la sua dichiarazione è patetica: “Chi tace acconsente dice il proverbio. E a giudicare dal silenzio dei vertici Rai sul caso di chiara omofobia in prima serata a Ballando con le Stelle da parte di Zazzaroni ci sarebbe di che pensare che in Rai ci sia aria di voglia di ballo a destra”, dichiara il neo senatore del Pd, che poi aggiunge: “Voglio sbagliarmi, ma il servizio pubblico, a cui contribuiamo tutti, anche noi cittadini gay attraverso il canone, dovrebbe avere un profilo diverso da quello dell’estetica da purista eterosessuale di Ivan Zazzaroni. Il caso è più serio di quanto non si pensi. E il servizio pubblico radiotelevisivo anche”. Il fatto è proprio questo, esprimere un parere diverso dall’opinione diffusa e differenziarsi dal conformismo è ancora legittimo, così come aderire ad una propria estetica senza i condizionamenti del politicamente corretto. O no?

Tommaso Cerno torna all’attacco: Con il caso Zazzaroni la Rai balla a destra. Tommaso Cerno, Monica Cirinnà, Fabrizio Marrazzo. Si moltiplicano le critiche a Ivan Zazzaroni per il 'caso' Ciacci/Todaro di Ballando con le Stelle. Ma il giornalista contrattacca, scrive Federico Boni il 19 marzo 2018 su Gay.it. Continua a far rumore il ‘caso Ciacci/Todaro’ di Ballando con le Stelle, alimentato dal giudice Ivan Zazzaroni nel corso delle prime due puntate dello show. Dopo il tweet al veleno di sabato sera, in cui chiedeva l’intervento della Vigilanza Rai, Tommaso Cerno, neo parlamentare del Partito Democratico, è tornato ad affrontare l’argomento, parlando di una Rai politicamente orientata dopo l’ultima tornata elettorale. "Chi tace acconsente dice il proverbio. E a giudicare dal silenzio dei vertici Rai sul caso di chiara omofobia in prima serata a Ballando con le Stelle da parte di Zazzaroni verso la coppia di ballerini Ciacci – Todaro ci sarebbe di che pensare che in Rai ci sia aria di voglia di ballo a destra. Voglio sbagliarmi, ma il servizio pubblico, a cui contribuiamo tutti, anche noi cittadini gay attraverso il canone, dovrebbe avere un profilo diverso da quello dell’estetica da purista eterosessuale di Ivan Zazzaroni. Il caso è più serio di quanto non si pensi. E il servizio pubblico radio televisivo anche".

Parole che pesano come macigni, quelle pronunciate da Cerno, seguito a ruota da Fabrizio Marrazzo, Portavoce di Gay Center. “Quella di Zazzaroni a Ballando con le Stelle contro la coppia Ciacci Todaro è omofobia senza giustificazioni e dovrebbe intervenire la Vigilanza Rai, come chiesto da Cerno. Sebbene la trasmissione di Rai Uno sia in perdita di ascolti sono pur sempre alcuni milioni i telespettatori a cui viene comunicato un messaggio chiaramente omofobo. Lasciarlo passare autorizzerebbe chiunque a fare omofobia di bassa lega in televisione”.

All’attacco di Zazzaroni, via Twitter, anche Monica Cirinnà, senatrice Pd da tempo paladina dei diritti LGBT: ‘Serata RaiUno non può essere teatrino omofobo con presunta polemica estetica per ballo samesex. No a giochi per attirare attenzione con temi che fanno male. In Italia 13enne picchiato perchè gay a Scafati. Si ricordino @zazzatweet @stanzaselvaggia @milly_carlucci @Ballando_Rai‘. Lo stesso giornalista sportivo, accerchiato dalle polemiche, è tornato sul caso, sottolineando come sia ‘sbagliato l’atteggiamento della comunità gay. Darmi dell’omofobo, tra le tante offese che mi hanno fatto è l’unica che mi dà fastidio. Non lo accetto, è avvilente. Io ho giudicato la danza‘.

A brindare, neanche a dirlo, è Mario Adinolfi, in festa per l’esplosione del caso, mentre se da parte di Milly Carlucci e di mamma Rai tutto tace Giovanni Ciacci, pietra dello scandalo di questa edizione, ha così elegantemente commentato quanto accaduto: “Come diceva Dante …Non tu curar di loro, ma Zazza e passa …” (frase copiata da un giornalista che stimo molto). Vi siamo piaciuti? Io mi diverto tanto e non lascerò a nessuno infrangere questo mi sogno. Grazie per il vostro sostegno …".

Pierluigi Diaco sul caso Zazzaroni/Ciacci: La dittatura gay ha rotto le palle. “Ha ragione Zazzaroni per me, ve lo dico io eh, che mi sono appena sposato, unioni civili, quindi figuratevi… a me la dittatura gay ha rotto le scatole. Non è che se uno esprime una critica deve essere tacciato di omofobia. La danza ha una sua grazia, l’idea di unire un uomo e una donna danno un’armonia anche dal punto di vista estetico, nel caso di Ciacci e Todaro che ballano divisi, giustamente Zazzaroni esprime una critica legittima che non può essere tacciato di omofobia. Lo dico da… no. La dittatura gay ha rotto le palle”.

Pierluigi Diaco durante “Non Stop News” ad RTL: “La dittatura gay ha rotto…”, scrive il 21/03/2018 Stefano Beccacece su radiomusik.it. Anche il giornalista di RTL 102.5 e di Non Stop News Pierluigi Diaco ha espresso la sua durante il programma radiofonico co-condotto con Fulvio Giuliani e Giusy Legrenzi, sul caso legato ad Ivan Zazzaroni, che si è rifiutato di esprimere un voto sull’esibizione di Giovanni Ciacci e Raimondo Todaro. Commentando alcuni tweets del giornalista sportivo e giurato di Ballando con le Stelle, Diaco ha detto: “Ha ragione Zazzaroni. Ve lo dico io eh, che mi sono appena sposato, unioni civili, quindi figuratevi… a me la dittatura gay ha rotto le scatole. Io mi sono stufato francamente, e lo dico da… no? Mi sono appena sposato, unioni civili…la dittatura gay ha rotto le palle. Ogni volta che c’è una critica nei confronti di una persona omosessuale, scatta l’accusa di omofobia. Basta!!”. Ricordiamo cosa aveva detto Zazzaroni dopo l’esibizione “same-sex” Ciacci-Todaro: “Ero animato dalle migliori intenzioni. L’ho trovato totalmente fuori contesto. Mi sembra che appartenga ad un altro programma, ed è un discorso estetico. Non riesce a prendermi, non riesco a valutare, tant’è che forse non lo voto neanche. Non mi sembra la stessa gara, è un discorso di estetica e di ballo donna-uomo. Secondo me, Giovanni ti sei un po’ penalizzato con questa scelta”.

Ivan Zazzaroni, ✔@zazzatweet: Se per evitare di essere tacciato di omofobia (accusa intollerabile) è sufficiente attribuire un voto alla coppia Ciacci-Todaro, dalla prossima settimana lo darò. Ho espresso un giudizio sincero ed esclusivamente estetico: non si è capito o, peggio ancora, non si è voluto capire. 15:05 - 18 mar 2018

Ivan Zazzaroni, ✔@zazzatweet:  

Ricordo (la chiudo qui) che anni fa diedi 0 al concorrente Giorgio Albertazzi (e 10 all’attore) poiché recitò e non fece un passo. Ciacci e Todaro non han ballato in coppia ma staccati, per cui ho ritenuto giusto astenermi. Quando saranno coppia li giudicherò. Il resto, fandonie. 11:03 - 19 mar 2018

Ivan Zazzaroni, ✔@zazzatweet: Pretendi giustamente tolleranza, rispetto, sensibilità e per una cosa che non ho mai detto, né pensato, e che non appartiene al mio modo di essere, l’omofobia, mi aggredisci verbalmente con una violenza e una maleducazione inaudite. E non chiederai scusa. Buona giornata comunque. 07:56 - 20 mar 2018

Di Diaco sorprende la titubanza a dichiarare apertamente ciò che si sa, cioè la sua omosessualità, dato che a novembre scorso si è unito civilmente con Alessio Orsingher, giornalista di Tagadà de La7.

L'INTOLLERANZA DEI COSIDDETTI TOLLERANTI. Povia censurato a Lecce: "Arcigay dittatura mafiosa". Il cantautore avrebbe dovuto esibirsi in Salento per un concerto di beneficenza, ma le associazioni Lgbt hanno invocato la censura, che è puntualmente arrivata. "Mafia culturale di certi sodalizi gay: questo è totalitarismo, la democrazia ha perso ancora", scrive il 23 Marzo 2018 Il Populista. La censura si abbatte ancora su Povia. E i censori ancora una volta sono gli alfieri del politicamente corretto. Coloro che si arrogano il diritto di decidere chi può parlare e chi no, in questo caso chi può cantare e chi no, facendo strame della democrazia. L’intolleranza dei cosiddetti tolleranti ha vinto. Il cantautore avrebbe dovuto esibirsi a Lecce, il 20 aprile, in un concerto di beneficenza a favore dell’associazione Lorenzo Risolo, che si occupa di assistere malati e famiglie. Le organizzazioni Lgbt hanno protestato con veemenza, con l’obiettivo di impedire l’esibizione di un artista che, secondo loro, “veicola odio”. La pressione esercitata da Arcigay Salento, Agedo Lecce e Lea, amplificata dalla stampa, ha indotto gli organizzatori a cancellare lo spettacolo di Povia, sparito dal programma dell'evento. C’è di mezzo anche il comportamento del sindaco di Lecce Carlo Salvemini, che aveva minacciato di togliere il patrocinio alla manifestazione. Il cantante su Facebook ha parlato di “mafia culturale” figlia di un nuovo “totalitarismo” delle associazioni gay. “Avevamo contrattualizzato tutto. Avrei devoluto il ricavato della vendita dei miei dischi all’associazione. Ora quei soldi verranno messi dal sindaco o dall’Arcigay? Siamo di fronte a una dittatura mafiosa. La democrazia ha perso ancora, hanno vinto i beoti. Capisco la madre di Lorenzo Risolo, ha avuto paura ma ha anche ucciso un pochettino lo spirito che la sua associazione infonde: cioè combattere le metastasi, in questo caso culturali e metaforiche". Il cantante, per le sue posizioni non conformi al politicamente corretto, subisce costantemente tentativi di censura, alcuni dei quali vanno proditoriamente a segno: a settembre dello scorso anno fu cancellato lo spettacolo in programma a Trezzano sul Naviglio, nel Milanese. In quel caso a invocare la mannaia censoria, ovviamente democratica, fu l'Anpi che lo accusò di essere addirittura "divisivo" su molteplici tematiche: immigrazione, solidarietà, unità nazionale e persino vaccini. Nell'Italia delle follie (antidemocratiche) politicamente corrette è successo, e succede, anche questo.

Dal suo profilo elemosina like, mentre precisa che bannerà chiunque osi esprimere idee contrarie alle sue, scrive: L'associaz. Lgbt attacca me, usando la storia delicata di Lorenzo Risolo 14 anni, ci ha lasciati a causa di una malattia grave. Dimostrano in modo spietato di essere contro la solidarietà, i bambini, la scienza e la ricerca. Usano paroline magiche tipo: omofobia, odio, discriminazione. Tutti termini squalificati nel 2018. Mi mettono in bocca cose mai dette come "gay = contronatura". ("La scienza non ha stabilito niente, lesbiche, gay trans e bisessuali non ci si nasce" me lo disse nel 2009 anche Cecchi Paone attivista serio, intellettualmente onesto. Pur standogli sulle scatole). Sono riusciti a far togliere a sindaco e comune di Lecce il patrocinio della serata. Tipico atteggiamento della mafia. Se si farà o no il concerto (teatro esaurito), abbiate rispetto per Lorenzo e i suoi familiari. Che brutta figura fate ogni volta per far parlare di voi. Ce la faranno a far annullare la data? Carlo Salvemini Sindaco di Lecce, senza indugio, rimetta il patrocinio, lei è il sindaco di tutti non di pochi. Ma le lobby gay non esistono…eh? Il primo che usa termini tipo omofobia, odio, altre stupidate o linka qualunque cosa, lo banno. Esprimete in modo obiettivo. Incredibile…annullato concerto benefico a lecce il 20 aprile! Arcigay=mafia e dittatura. Ascolta e diffondi sto schifo! Facciamogli fare il giro del web! Complici: Carlo Salvemini sindaco di lecce, il Quotidiano di Lecce, Lecce Sette. A voi associazione del povero Lorenzo Risolo, ricordate che mafia, paura e dittatura non fanno una terra libera ma disonesta! Dandogliela vinta avete ucciso lo spirito che infonde la vostra causa: combattere le metastasi. ..avete tenuto in vita queste metastasi culturali. Che errore, che orrore. Triste e deluso.

Salta il concerto di Povia a Lecce. "Arcigay dittatura mafiosa". Dopo le proteste delle associazioni Lgbt salta l'esibizione del cantante in città, scrive Lucio Di Marzo, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale".  Avrebbe dovuto esibirsi il 20 aprile, in un concerto a Lecce che era stato annunciato tra molte polemiche. Il live di Giuseppe Povia, dicevano le organizzazioni Lgbt cittadini, non s'aveva da fare, anche se sarebbe avvenuto nella cornice di un'iniziativa di beneficienza, a favore dell'Associazione Lorenzo Risolo, che si occupa di assistenza a malati e famiglie. E se non si è fatto. Se l'organizzazione non ha cancellato l'iniziativa, la presenza del cantante però non è stata confermata. E su Facebook Povia se l'è presa con il sindaco della città, Carlo Salvemini, che aveva minacciato di non patrocinarla e con l'Arcigay salentino, l'Agedo Lecce e Lea, associazioni che avevano chiesto di toglierlo dalla programmazione della serata. Per il cantante c'è una "mafia culturale", figlia di un "nuovo totalitarismo" delle associazioni gay. E salva soltanto la madre di Lorenzo Risolo: "La capisco, ha avuto paura ma ha anche ucciso un pochettino lo spirito che la sua associazione infonde e cioè combattere le metastasi".

Annullato concerto di Povia, scontro sui social. Indignata la madre del piccolo Lorenzo

Mentre Palazzo Carafa precisa le ragioni della revoca del patrocinio, l'associazione a scopo benefico chiarisce che l'annullamento dell'esibizione dipende dagli organizzatori, una società privata, scrive G.D.G. il 23 marzo 2018 su Lecce Prima. Il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, ha telefonato alla mamma del piccolo Lorenzo Risolo, cui è intitolata l’associazione benefica che si occupa di sostenere pazienti e famiglie impegnate in percorsi di cura in oncologia pediatrica, per esprimere solidarietà dopo gli attacchi a mezzo social scagliati dal cantante Povia, indignato per la cancellazione dell’esibizione che lo avrebbe visto protagonista il 20 aprile al teatro Paisiello nel corso di una manifestazione. In un video, Povia aveva accusato l’associazione di aver subito il diktat del sindaco in combutta con alcune testate locali e Arcigay. L’introduzione al post recita testualmente: “A voi associazione del povero Lorenzo Risolo, ricordate che Mafia Paura e Dittatura non fanno una terra libera ma disonesta! Dandogliela vinta avete ucciso lo spirito che infonde la vostra causa: combattere le metastasi…avete tenuto in vita queste metastasi culturali. Che orrore, che orrore, triste e deluso”. L’annuncio dell’esibizione di Povia, del resto, non era stato accolto col sorriso da numerosi cittadini e associazioni, considerando la sua posizione sull’amore e sui legami tra persone dello stesso sesso che più volte gli è valsa l’accusa di omofobia. Si sono susseguite prese di posizione e polemiche, tanto da indurre Sonia Chetta, madre di Lorenzo e presidente dell'associazione che porta il nome dello sfortunato figlio a diffondere una lunga nota che parte con la precisazione che l'organizzazione e la promozione dell'evento fanno capo solo alla società B2 Musica e Spettacolo sas.

Lo sdegno della madre di Lorenzo. "Alla luce delle polemiche apparse in questi giorni riguardo la contestata presenza di Povia desideriamo pertanto ribadire, chiaramente e definitivamente, che la nostra associazione è del tutto estranea alla diatriba che sta imperversando sul web e sui canali di informazione, in quanto l’evento non è stato ideato, non è stato organizzato né promosso da noi, non è stato sottoscritto nessun contratto con il signor Giuseppe Povia e quindi non è stato disdetta o annullata la sua presenza dalla nostra associazione. La stessa agenzia ci aveva contattato comunicandoci che parte del ricavato sarebbe stato devoluto alla nostra associazione ma nessun contratto e nessuna autorizzazione era stata concessa da parte nostra alla stessa se non la disponibilità unita al ringraziamento, a ricevere la donazione". "Fa molto male per chi, come noi, si impegna quotidianamente nella lotta alla malattia, essere strumentalizzati e mercificati da chi per ragioni politiche, artistiche e commerciali usa il nome di Lorenzo, la sua storia e quella di tanti bambini, che hanno problemi veri e reali e qualcuno di loro, purtroppo, non saprà mai se nella vita avrebbe amato un uomo o una donna. Il signor Giuseppe Povia, le associazioni Arcigay Salento, Lea Liberamente e Apertamente e Agedo Lecce stanno usando la solidarietà come facile bersaglio per le loro ideologie". "La nostra Associazione è apolitica, apartitica, laica e neutrale a qualsiasi forma di concetto ideologico. Ciò che amareggia molto in questa vicenda, quasi surreale, è constatare che ancora una volta chi ha il dovere dell’informazione riporta spesso solo notizie distorte prese dal web, da post di persone che hanno giornate vuote da riempire e usano la cattiveria per avere un like in più. L’Associazione Lorenzo Risolo si riserva di agire in sede legale contro ogni tipo di sopruso informativo a tutela del nome di Lorenzo, dell’Associazione e dei bambini che quotidianamente lottano per la vita".

La nota di Palazzo Carafa. Il primo cittadino, nel ribadire il sostegno all’associazione ha ripercorso in una nota le tappe che hanno portato alla revoca del patrocinio all’iniziativa promossa dall’agenzia B2 Musica e Spettacolo. La decisione è stata presa, si chiarisce, quando è emerso che la quota destinata alla beneficenza sarebbe stata minoritaria rispetto al totale dell'incasso della serata. Il primo passo citato da Palazzo Carafa è la richiesta del 12 gennaio, presentata come “concerto di beneficienza di Povia in acustico”. Nella documentazione allegata si parlava di un concerto di beneficenza in favore della Associazione Lorenzo Risolo, la quale si occupa di raccolta fondi per la ricerca contro le malattie infantili” e si precisava che l’esibizione del cantante sarebbe stata preceduta da quella di un duo comico. Il patrocinio è stato quindi concesso, sulla base del regolamento del Comune di Lecce. Quando però è stata diffusa sui canali social la prima locandina dell’evento, che non era stata inclusa nella documentazione - ed eccoci al secondo passaggio -, ci si è accorti che non veniva specificata la finalità benefica, tanto che con una mail l’Ufficio Patrocini chiedeva agli organizzatori di chiarie se era stato previsto un biglietto di ingresso e quanta parte del ricavato sarebbe effettivamente andata all’associazione. Nella risposta inviata a Palazzo Carafa si legge: “Come si evince dalla locandina, c'è un biglietto di ingresso (essendo l'evento totalmente finanziato dalla mia società e non avendo avuto aiuti se non da piccoli sponsor locali). Tolte le spese, conto di devolvere almeno il 15 per cento dell'utile all'associazione”. Una quota troppo residuale, secondo l’amministrazione comunale, per qualificare la manifestazione come evento di beneficenza e non come uno spettacolo qualsiasi. Richiamando l’articolo 2 del regolamento comunale, per il quale “sono ammessi al patrocinio, di norma, le manifestazioni organizzate da enti, istituzioni, fondazioni ed associazioni che non abbiano fini di lucro e le cui iniziative vengono svolte a titolo gratuito o il cui ricavato, dedotte le spese delle iniziative o delle manifestazione, siano devolute in attività di beneficenza”. 

Pagliaro di Forza Italia: Povia lo invito io. Prima ancora della nota di Palazzo Carafa, il dirigente di Forza Italia, Paolo Pagliaro, membro dell’ufficio nazionale di presidenza si è detto disponibile a invitare il cantante a sue spese: “Cancellata con un colpo di spugna l’esibizione di Povia del 20 aprile al Teatro Paisiello. Alla notizia del suo concerto si erano scatenate le proteste insensate e faziose della comunità Lgbt, e il sindaco che dovrebbe essere il garante di tutti e della democrazia cosa fa? Non concede il patrocinio. Così come appare alquanto strana la decisione degli organizzatori di dare il benservito a Povia licenziandolo senza una logica spiegazione. E pensare che il ricavato della vendita dei cd sarebbe stato devoluto, dall’artista, proprio all’associazione organizzatrice intitolata a un bambino sfortunato che non c’è più”. “Mi attiverò subito per invitare, a mie spese, Povia a Lecce, e per organizzare una serata in cui potrà liberamente esprimere il suo pensiero che non può essere ingabbiato per le paranoie di chi vuol fare progredire il mono-pensiero arrogandosi il diritto di decidere cosa sia giusto oppure sbagliato. Le censure sono sempre ripugnanti. La nostra libertà è un valore che non possiamo farci derubare da nessuno. Povia poi deciderà a chi devolvere il ricavato delle sue vendite. Evviva la libertà, sempre, in questo caso negata all’artista che ha soltanto la colpa di non omologarsi a una libertà selettiva ma continua a rappresentare una libertà universale”.

La legge pro gay è illiberale. Perché ci serve una norma speciale a tutela dei gay, degli islamici o dei neri e non degli anziani o degli indigenti? Scrive Marcello Veneziani, Mercoledì 24/07/2013, su "Il Giornale". Ci sono due precise ragioni contro la legge sull'omofobia e non c'entrano affatto né l'omofobia né l'omolatria, ossia il culto dei gay, che è oggi tendenza assai più pervasiva dell'altra. La prima ragione è che quando si introduce un reato d'opinione, come è il caso di questa legge, si restringe la sfera della libertà, della democrazia e del diritto, e si introduce un pericoloso germe ideologico nella giurisprudenza. La stessa cosa vale per i reati contro il razzismo, contro le altre religioni o contro le apologie di alcuni regimi passati; anche le opinioni peggiori vanno combattute con le opinioni e non a colpi di galera. Se si colpiscono penalmente i reati d'opinione, e poi solo alcuni, si entra in una brutta spirale che è l'anticamera del dispotismo. Già è infame la legge Mancino, che punisce col carcere l'apologia di alcune ideologie totalitarie e sanguinarie e non di altre. Ora si vuole proseguire in questo passaggio dal canone ideologico al codice penale, dal linciaggio mediatico al carcere. La seconda ragione è che quando si introduce per lo stesso reato una pena più grave per alcune categorie protette anziché per altre, si ferisce l'universalità delle norme e il principio della legge uguale per tutti. Perché ci dev'essere una norma speciale a tutela degli omosessuali, degli islamici o dei neri e non degli anziani, dei malati, dei credenti in Cristo o degli indigenti? Non è ripugnante prendersela con un vecchio, un malato o un poveraccio o lo è solo se si tratta di omosex, neri, rom, ebrei o islamici? Perché non è più un reato bestemmiare, irridere, essere blasfemi verso Dio, Gesù Cristo, la Madonna, i santi, i simboli e i princìpi della religione cristiana e invece lo diventa se si compiono le stesse profanazioni verso altre religioni? Anche il femminicidio è un abominio giuridico e una violazione elementare della parità dei diritti della persona; ci sono persone che contano il doppio e persone che contano la metà? Se omicidio è parola di sesso maschile, chiamatela uccisione, e si taglia la testa al toro e il sesso al crimine. Ma se vogliamo restare, almeno sulla carta, una civiltà del diritto, il principio di fondo su cui regge la giustizia è l'universalità della norma, senza eccezioni. Poi sarà facoltà del magistrato applicare la legge nel caso specifico e considerare eventuali aggravanti e contesti di luogo e di tempo. Ma stabilirlo a priori con una legge ideologica e ruffiana che sancisce corsie preferenziali e classi tutelate, significa violare la giustizia e la sua equità. A ben vedere, dunque, la norma sull'omofobia viola in un colpo solo i due principi tanto conclamati di giustizia e libertà. Mica male per una norma che viene venduta come necessaria, non più rinviabile, che ci verrebbe richiesta dall'Europa, dalla modernità e probabilmente anche dall'hi-tech e dal digitale. Che vi sia una fetta del centrodestra incline ad accogliere questa legge è uno schiaffo a tanti propri elettori, una resa al conformismo radical o un furbo accomodamento. Capisco che «s'ha da fa' pe' campà», e per far campare il cagionevole governo; ma questo mi sembra il modo peggiore per sopravvivere inserendo cellule cancerogene nella coalizione che lo sorregge. Chi si oppone a questa legge ha il coraggio del non conformismo. Ma è inutile farsi illusioni: tutto cospira in senso opposto, la battaglia è solo per tamponare e tardare. L'istinto del gregge e lo spirito del tempo uniti vinceranno. Per forza di gravità.

Approvata legge pro-gay che istituisce il reato di libero pensiero. L'Umbria approva la norma regionale contro l'omofobia. Che però di fatto fa nascere un tribunale degli omosessuali in ambito lavorativo e scolastico, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 6/04/2017, su "Il Giornale". La scusa è sempre la stessa: evitare le discriminazioni gay. Ma dietro la norma contro le "violenze determinate dall'orientamento omosessuale" approvata dal Consiglio regionale dell'Umbria si nasconde molto di più. Un retroterra ideologico con l'unico malcelato obiettivo di mettere un bavaglio, coprire i dissensi, importare un modello unico di pensiero così tanto alla moda quanto minoritario. La legge è tutt'altro che un semplice elenco di buone intenzioni per evitare che i gay vengano ghettizzati. Anzi. Si è trasformata in una sorta di editto con cui le associazioni Lgbt potranno diventare gli inquisitori unici in ambito sanitario, lavorativo e scolastico. Grazie alla leggina voluta dalla maggioranza Pd che sostiene la governatrice Catiuscia Marini, sigle come Arcigay e Anddos avranno libertà di azione nel trasmettere alle scuole l'ideologia gender, nel controllare aziende e enti pubblici e nel promuovere iniziative per far conoscere (e apprezzare) la cultura Lgbt. Non vorremmo esagerare, e neppure rimediare nuova querela, ma se la dottrina da diffondere è quella dei circoli delle dark room, dei glory hole e delle orge omo documentate in più servizi giornalistici, allora c'è motivo di essere preoccupati.

Discriminati per cosa? Per capire tutte le ambiguità della norma umbra pro-Lgbt bisogna partire da una lacuna di fondo che rende tutti gli articoli potenziali museruole alla libertà di parola: nell'articolo 1 si parla infatti di "lotta alle discriminazioni omosessuali", senza però spiegare nello specifico quali atti o espressioni vadano considerate offensive. Come spiegato dal consigliere regionale Sergio De Vincenzi, "la legge non definisce la fattispecie della discriminazione, ma afferma il principio della percezione della discriminazione slegata dal fatto reale accaduto". In sostanza, basta che un gay si senta emarginato per accusare chiunque di omofobia. Anche se non è successo nulla. Per esempio: un padre racconta al figlio che i gay non possono avere bimbi? Potrebbe essere considerata una posizione lesiva della dignità omosessuale. E così potrebbe essere punito da chi ha di fatto istituito il reato di libero pensiero.

Controllo di "qualità gender" nelle imprese. Chi ha avuto l'ardire di leggere fino a questo punto, si sieda e si prepari ad osservare da vicino i punti oscuri dell'ignobile legge. Partiamo dal mondo del lavoro. Il Pd ha avuto la straordinaria idea di assegnare alle suddette associazioni il ruolo di "monitoraggio" in ambito professionale. Costringendo imprese, aziende e pmi a sottostare ai capricci dei leader gay. Diranno che non è vero, ovviamente. Ma sono stati gli stessi promotori ad ammettere nel corso della discussione in aula che alcuni commi sono stati scritti da "loro", ovvero sotto dettatura delle sigle omosessuali.

Le mani sulle scuole. La legge infatti non è difensiva, ma offensiva. Nel senso che non intende solo limitare gli atti di bullismo, ma vuole "favorire la diffusione" della cultura dell'identità di genere. Per trasmettere l'idea che il sesso sia la "percezione che una persona ha di sé" e non un dato biologico, è prevista l'offerta di eventi culturali pro-gay, la promozione di "corsi di formazione professionale per il personale scolastico", di "seminari per i genitori" e di "interventi di consulenza" da parte delle Asl in modo da "rimuovere gli ostacoli" all'accettazione della propria identità di genere. Per fortuna le opposizioni sono riuscite a far emendare l'articolo in cui era previsto l'indottrinamento diretto sui giovani studenti, eliminando i corsi sul gender da scuola e limitandoli a genitori ed insegnanti. E non è poco. Inoltre, la battaglia delle famiglie e del Comitato Difendiamo i Nostri Figli ha fatto sì che non possano essere considerate un reato le dichiarazioni sul gender rese nell'esercizio del diritto di opinione. Una cosa normale, in un Paese occidentale. Ma quando si parla di omofobia, è bene specificare. E questo la dice lunga sull'idea di democrazia sposata dal Pd.

L'Osservatorio-tribunale. Per elevare le sigle gay a giudici di ultima istanza sulle realtà (omo)sessuali, l'Umbria ha ben pensato di creare un Osservatorio regionale speciale che profuma di dittatura della minoranza. Ne faranno parte 6 membri del mondo Lgbt e solo 3 delle associazioni delle famiglie. E hanno il coraggio di chiamarla parità, maledetta coerenza. L'Ente peraltro avrà l'importante ruolo di monitoraggio dei fenomeni di discriminazione e di denuncia di eventuali atti omofobi. A dargli man forte ci sarà il Co.Re.Com, il Comitato Regionale per le Comunicazioni con il compito di imporre la linea del pensiero unico a televisioni, giornali e pubblicità. Controllando i "contenuti" scomodi e organizzando programmi appositi per trattare tematiche omosessuali. Guai a chi non s'allinea.

"Le associazioni gay sanno tutto". "La morte di Luca Varani causata dal traffico di droga conosciuto e tollerato dalle associazioni omosessuali", scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Sabato 19/03/2016, su "Il Giornale". Droga, festini, party e sesso. Sono questi i denominatori comuni delle serate gay romane? Spesso sì. Anche se non sempre. Dopo l’omicidio di Luca Varani qualcosa di questa realtà nascosta è venuta a galla. Un'evidenza che divide anche gli omosessuali. Che la luce si sia accesa sui festini chemsex (sesso e droga), irrigidisce buona parte degli stessi appartenenti alla comunità. La droga e i party "oltre i limiti" sembrano essere ben conosciuti nell'ambiente. A confermarlo sono gli stessi omosessuali che si (auto)definiscono "normali". Ovvero quelli che "non fanno queste schifezze e non spacciano cocaina". La domanda che sorge spontanea, allora, è come sia possibile che sostanze stupefacenti circolino liberamente nei locali e nelle serate organizzate da importanti e autorevoli associazioni gay. “Il giro di droga in certi locali è vicinissimo a parte del movimento Lgbt” - dice Franco, nome di fantasia di un omosessuale che chiede l'anonimato e si fa chiamare "il corvo gay". Marco Prato, infatti, uno dei killer di Luca Varani, era personaggio di spicco della movida romana. Conosciuto praticamente da tutti. Quanti sapevano della sua "doppia vita"? Una alla luce del sole, fatta di party ed eventi e l'altra più oscura incentrata su sballo e droga? “Andavamo tutti alle sue feste e ai suoi apertivi A(h)Però”, dice un gruppo di giovani di fronte ad un bar della gay street a due passi dal Colosseo. “Sentivo ogni tanto Marco - continua un altro ragazzo, che chiameremo Luca - Gli chiedevo i tavoli per gli eventi, era uno accreditato”. Una vicenda che sconvolge e spaventa. C’è chi addirittura chi ha paura di parlare, teme ritorsioni: “Si rischia di subire qualche torto. Non mi stupirebbe di trovare le ruote dell’auto tagliate”. La spaccatura tra una parte dei gay e l’associazionismo romano è evidente. Sotto accusa finiscono l'Adnnos, l'Arci e il circolo Mario Mieli. Qualcuno disegna una demarcazione netta tra chi vuol vivere una "vita normale e non cerca rogne" e "le finocchie della borgata". Ovvero i disinibiti, i "gay repressi", i "malati di sesso" e quelli troppo attratti dalle droghe. "Ma la cosa più indecente - aggiunge Franco - è che stanno cercando di mettere tutti a tacere. A Roma se vuoi stare aperto o hai protezione politica o chiudi”. Prima di continuare, precisa: “Quando parlo di politica mi riferisco al movimento Lgbt in sé. Con il giro di droga fanno più soldi e più clienti”. La notizia ci viene confermata da una ex drag-queen del Muccassina: "Tempo fa sono stata fatta fuori dal giro perché non spacciavo da sotto la gonna come volevano loro". "Il movimento Lgbt protegge queste situazioni - attacca Franco - un po' per convenienza e un po' per omertà. Con il giro di droga fanno più soldi e più clienti”. Ma tutta questa impunità da dove proviene? “Dal ricatto dell’omofobia: se domani dieci pattuglie si presentassero al Muccassasina per una perquisizione, come avviene in altri Paesi europei, le redazioni dei quotidiani sarebbero piene di comunicati di protesta”. Eppure in questa situazione, l’omofobia sembra entrarci davvero poco. Le associazioni gay hanno coperto i traffici di stupefacenti nei loro locali? Dopo quanto successo, hanno preso posizione forte contro certe degenerazioni? Quello che è certo, al momento, è che la cocaina continua a invadere le sale da ballo.

E adesso gender e omofobia arrivano nelle Regioni, scrive Assuntina Morresi il 4 Aprile 2017 su “L’Occidentale”. Gender e omofobia: se le leggi sono ferme in parlamento si apre una strada nei consigli regionali, e stavolta tocca all’Umbria. Oggi, 4 aprile, torna in aula la proposta di legge “Norme contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”.  Diciamo subito che, essendo una legge regionale, non ci sono le sanzioni previste nel testo Scalfarotto sull’omofobia che giace abbandonato in Senato. Lo scopo di questa proposta di legge è quindi finanziare istituzionalmente le associazioni LGBT presenti nel territorio regionale perché pubblicizzino massicciamente la loro attività e diffondano capillarmente a tutti i livelli – dalle scuole agli ambienti di lavoro - la loro ideologia, quella oramai universalmente conosciuta come “teoria del gender”, cioè quell’ambito di pensiero secondo il quale gli esseri umani non sono caratterizzati dall’essere uomini e donne, ma si distinguono per preferenze e comportamenti sessuali (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, appunto, e altre lettere che nel tempo si stanno aggiungendo: I come Intersex, Q come Queer etc.). Si tratta di proclamare il “verbo” della scomparsa della differenza sessuale, e la cifra stanziata per questa operazione “educativa” su scala locale è di 50.000 euro per il primo anno (che poi era il 2016), e poi si vedrà, a seconda della legge di bilancio annuale. La legge è blindata: siamo nel cuore rosso d’Italia, bacino elettorale indiscusso della sinistra del paese, insieme alle ben più importanti vicine Toscana ed Emilia Romagna. In Umbria il PCI-PDS-DS-PD etc. regna incontrastato dal dopoguerra, e ha i numeri per approvare praticamente di tutto, compresa una legge come questa che è l’ultimo provvedimento di cui gli umbri avvertono la necessità. Ma tant’è: nella campagna elettorale permanente in cui siamo piombati la sinistra in crisi ha una disperata necessità di rendersi identificabile dai propri elettori che, una scissione dopo l’altra, rischiano di non orientarsi più; che cosa di meglio, quindi, se non sventolare alta la bandiera della “identità di genere” e dell’ “orientamento sessuale” (art.1, Principi, definizioni e finalità)?

In 14 articoli la legge dispone le regole per l’”educazione” del popolo: Integrazione sociale, formazione e lavoro (art.2); Istruzione (art.3), e poi Responsabilità sociale delle imprese (art.4), Formazione del personale regionale (art.5), Salute e prestazioni sanitarie (art.6), Interventi delle aziende unità sanitarie locali e dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari in materia di orientamento sessuale ed identità di genere (art.7), ovviamente Promozione di eventi culturali (art.8), Tutela della famiglia (!) e accesso ai servizi pubblici e privati (art.9), Misure di contrasto alla discriminazione e alla violenza determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere e sostegno alle vittime (art.10), istituzione di un Osservatorio regionale sulle discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere (art.11), e poi Monitoraggio, comunicazione e informazione (art.12) , per chiudere con Norma finanziaria e Clausola valutativa (artt.13 e 14). 

Avremo tempo nei prossimi giorni di esaminare nel dettaglio i diversi articoli, compresi quelli con un tocco decisamente surreale. Ma qualche dubbio sulla opportunità e sugli obiettivi reali di questo armamentario gender è serpeggiato anche all’interno della stessa maggioranza. Il consigliere regionale Andrea Smacchi, del Pd, aveva infatti presentato un emendamento che recitava: “Ai fini della presente legge non costituiscono discriminazione, violenza, istigazione alla discriminazione o istigazione alla violenza il manifestare liberamente il proprio pensiero, le proprie opinioni o i propri convincimenti riconducibili al pluralismo di idee, né attuare condotte conformi al diritto vigente o ai principi e valori di organizzazioni riconosciute nell’ordinamento giuridico, che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, di religione o di culto”.

Apriti cielo! Sono intervenute le truppe nazionali: il senatore Miguel Gotor, rappresentante in campo dei bersaniani, ha messo tutti sull’avviso “Auspico che l’emendamento del consigliere del Pd Andrea Smacchi sia respinto perché rischia di legittimare nuove discriminazioni nelle scuole, negli ospedali, nelle sedi dei partiti e delle associazioni e nei luoghi di culto. Esso inoltre svuoterebbe un provvedimento di civiltà atteso da oltre dieci anni del suo significato più autentico che è quello di combattere ogni forma di odio e di favorire politiche di inclusione e di rispetto della diversità”.

Non poteva mancare la garrula senatrice Monica Cirinnà che, insieme alla collega Valeria Cardinali ha definito l’emendamento “semplicemente irricevibile”. Auspicando che sia dichiarato inammissibile o almeno che il consigliere abbia “il buon senso di ritirarlo”, le due hanno dichiarato tutto il loro sdegno: “Riteniamo opportuno che ci si interroghi sul modo in cui nel Pd si fa comunità: non è tollerabile che si possa pensare di stare in un partito – che a livello nazionale è stato promotore delle unioni civili – avanzando proposte, come quella del consigliere Smacchi, che ne contraddicono in maniera inequivocabile i valori, gli orientamenti, i propositi”.

Insomma: libertà di parola? Ma come ci avete potuto pensare? Svuota la legge contro le discriminazioni, e, soprattutto, è contraria alla natura stessa del PD!  Onestamente, su questo siamo d’accordo anche noi. Il Consigliere Regionale Sergio de Vincenzi, della Lista Civica Ricci Presidente e a sua volta Presidente dell’Associazione Umbria Next ha guidato l’opposizione alla legge, opposizione che la settimana scorsa (come spiegato nella intervista riportata qua a fianco) ha ottenuto una prima frenata dell’iter di approvazione, denunciando la mancata copertura finanziaria. Nella pagina fb di Sergio de Vincenzi si possono seguire gli eventi nel dettaglio, compresi video estremamente divertenti come quello in cui il consigliere regionale nonché segretario regionale del PD Giacomo Leonelli, cercando di scusarsi con i militanti LGBT furiosi per il disastro in assemblea legislativa, spiega che nel volere andare fino in fondo alla legge loro del PD, nella maggioranza del governo regionale “purtroppo ci rendiamo conto di essere soli. Io sinceramente oggi non mi aspettavo che tutte le opposizioni uscissero dall'aula anche sul tema del numero legale sapendo che alle tre noi avremmo avuto il numero legale”. 

Loro della maggioranza, così soli, poverini, nell'Umbria rossa totalmente dominata dal Pd, così soli che mai avrebbero pensato a questo brutto scherzo delle opposizioni! Opposizioni che addirittura, da veri maleducati, escono dall’aula per far mancare il numero legale, e non aspettano neanche cinque minuti quelli del Pd, pur sapendo che più tardi sarebbe arrivata la Presidente Marini, da Roma, e allora sì che ci sarebbe stato il numero legale…neanche Maurizio Crozza avrebbe potuto dire di meglio.

L’Italia piace ai turisti lgbt, ma potrebbe fare di più. Il Belpaese non è ancora riconosciuto in assoluto come meta gay-friendly, ma la legge Cirinnà sulle unioni civili ha aiutato anche gli operatori del turismo, scrive Luca Zorloni il 4 aprile 2017 su "Wired". Che cosa c’entra la legge Cirinnà con hotel, bed & breakfast o agenzie di viaggio? Un legame c’è. Ed è l’effetto che la norma sulle unioni civili ha avuto sul turismo lgbt (persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali) in Italia. Perché migliora l’immagine del Belpaese agli occhi dei viaggiatori arcobaleno stranieri. L’Italia è da sempre una prima scelta nella programmazione di vacanze in Europa, ma al momento di concretizzare l’acquisto perde posizioni a favore di mete più gay-friendly. Come la Spagna o il Regno Unito, ad esempio. Secondo un sondaggio del tour operator italo-americano Sonders & Beach, presentato alla Borsa internazionale del turismo (Bit) in corso a Milano, il 44% dei turisti stranieri lgbt sogna un viaggio in Italia, ma solo il 37% la considera una destinazione gay-friendly. E dato che la quasi totalità sceglie per le proprie vacanze mete accoglienti verso la popolazione lgbt, l’Italia perde a discapito di altri Paesi una fetta di turisti. Per lo più disposti a spendere. Sonders ha evidenziato che in media pagano 2.060 euro per un soggiorno di 11 notti, contro gli 800 euro per nove notti degli italiani. E qui entra in gioco la legge Cirinnà. “Questa legge sulle unioni civili aiuta, lo vediamo con gli operatori stranieri. C’è una considerazione diversa del Paese”, spiega Alessio Virgili, amministratore delegato di Sonders & Beach, nonché presidente dell’Associazione italiana turismo gay & lesbian (Aitgl). Aitgl ha calcolato che il turismo arcobaleno in Italia muove 2,7 miliardi di euro. Ma è un turismo per lo più interno. Roma si colloca al 17esimo posto delle mete gay friendly dei turisti stranieri, dietro, nell’ordine, a San Francisco, New York, Londra, Amsterdam, Barcellona, Parigi, Berlino, Mykonos, Madrid, Miami, Ibiza, Sidney, Tel Aviv, Los Angeles, Sitges (località spagnola di mare) e Stoccolma. Ma anche gli italiani lasciano le destinazioni lgbt di casa fuori dal podio. Gallipoli è undicesima dopo Barcellona, Mykonos, Canarie, San Francisco, Londra, Sitges, New York, Ibiza, Madrid e Berlino e la storica Torre del lago si colloca dopo Amsterdam e Tel Aviv e davanti a Roma.

Oltre a Gallipoli, Torre del lago, Roma e Milano, “è riconosciuta come meta gay anche l’area della Sicilia orientale: Noto, Catania e Taormina”, spiega Virgili, che con la sua società sta puntando su tour storici a tema gay, sulle orme di Michelangelo a Roma o di Leonardo a Milano, per rilanciare le destinazioni sui mercati esteri. Il sondaggio di Sonders evidenzia che il turista lgbt è in più dell’80% dei casi un laureato e ha un reddito più alto della media comune di chi viaggia. Nel 53% dei casi gli stranieri guadagnano più di 3.050 euro al mese, in Italia il 41% ha una busta paga di 1.500 euro mensili contro il 28% della popolazione totale dei connazionali che viaggiano. Inoltre è un turista connesso: più del 90% usa i social network e, tra gli italiani, il 61% fa uso di car sharing e il 45% ha adoperato almeno una volta piattaforme come Airbnb. Inoltre i turisti lgbt fanno più spesso vacanze. In Italia il 67% contro una media nazionale del 42%. E sono viaggi più frequenti, benché più brevi: almeno tre all’anno.

Relax, cultura e natura sono assi decisivi per scegliere i viaggi. Agli stranieri, inoltre, interessano divertimenti ed eventi. Per questo l’associazione guidata da Virgili, che conta 50 iscritti per lo più tra tour operator, conta di coinvolgere anche gli enti del turismo locali e nazionali. Ossia la politica, che può fare da traino nello sviluppo di piani turistici più inclusivi. I turisti stranieri, ad esempio, si affidano nel 37% dei casi a siti di cultura omosex e il 17% degli intervistati si affida alle agenzie. “L’agenzia può puntare su questa nicchia, offrendo una consulenza specializzata, per identificare destinazioni che non abbiano leggi discriminatorie”, precisa Virgili. Qualcosa si muove anche nel segmento della luna di miele, che oggi pesa fino al 70% del fatturato delle agenzie, e che dopo l’approvazione della legge Cirinnà sta risvegliando un mercato anche in Italia su destinazioni classiche, come il lago di Como. “Gli alberghi sono stati veloci a proporre pacchetti”, precisa Virgili, come nel caso delle catene Radisson e Accor.

Gender: in Perù segnali di speranza contro il potere LGBT. Combattere contro il gender e contro la dittatura LGBT porta i suoi frutti e permette di conseguire la vittoria di qualche battaglia. In Perù il mese scorso un milione e mezzo di cittadini sono scesi in piazza per contrastare il progetto governativo di imporre l’ideologia gender nelle scuole e la dittatura arcobaleno nel Paese. A inizio anno infatti, il presidente Kuczynski ha promulgato un decreto legislativo contro la ‘discriminazione‘, in base al quale viene considerata come aggravante la violenza (non meglio precisata) perpetrata a motivo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. In pratica, con la scusa della lotta al femminicidio, si è cercato di tappare la bocca a ogni possibile critica verso il totalitarismo omosessuale imperante. E infatti i difensori della vita e della famiglia hanno ribattezzato la norma “legge bavaglio”. Ebbene, lo scorso 4 aprile la Commissione Costituzionale del Parlamento sembra aver ascoltato la protesta dei peruviani e ha raccomandato di cancellare alcune parti di questa legge, quelle relative proprio ai temi dell’identità di genere e all’orientamento sessuale. Intendiamoci, ora tocca ai parlamentari votare e decidere cosa fare. Il risultato finale è ancora incerto. Ma è innegabile il passo avanti fatto. La “legge bavaglio” è ora posta in discussione. In discussione anche perché non se ne comprende l’utilità. Il Codice Penale del Perù infatti già punisce l’omicidio e la violenza. Per quale motivo uccidere un omosessuale dovrebbe essere più grave che ammazzare un eterosessuale? Perché la comunità LGBT dovrebbe avere un trattamento privilegiato? I cittadini non sono tutti uguali di fronte alla legge? E non sono tutti esseri umani, a prescindere dai gusti sessuali e dal gender in cui si potrebbero riconoscere? Ogni persona in quanto tale gode di diritti inalienabili che devono essere sempre rispettati, senza tenere in conto le emozioni, i sentimenti e gli affetti che ciascuno prova. L’ideologia gender e arcobaleno, però, non ci sta. Come ne La fattoria degli animali di Orwell, anche le lobby LGBT vogliono che alcune categorie siano più uguali delle altre. Non solo. Vogliono impedire alla gente di pensare con la sua testa. Per questo non ammettono il minimo dissenso verso i dogmi arcobaleno. Comunque, alzando la voce per opporsi alla follia gender, i peruviani hanno ottenuto un primo risultato positivo, segno che la militanza attiva, decisa e senza tentennamenti paga. Certo, per vincere la guerra ci vuole ancora molto, ma questo risultato fa ben sperare e infonde fiducia. Fonte: AciPrensa.

La pretesa della lobby gay, riscrivere la storia in maniera politically correct, scrive Paolo Lami sabato 11 aprile 2015 su "Il Secolo d'Italia". L’obiettivo, dichiarato, era quello di dimostrare che l’omosessualità è bandita e discriminata dai libri di storia e dalle biografie. Con queste premesse politically correct, quaranta anni fa Larry Kramer, scrittore Usa e attivista per i diritti gay, si è messo al lavoro setacciando documenti e archivi per sostenere che grandi presidenti come George Washington, Abraham Lincoln e Richard Nixon erano segretamente omosessuali. E come loro, lo sarebbero altri “mostri sacri” della vita pubblica e della cultura d’America, come gli scrittori Hermann Melville e Mark Twain.

Uno studio romanzato. Quaranta anni dopo l’unica cosa che Kramer è riuscito a tirar fuori per dimostrare la sua tesi è uno studio romanzato, corposo senz’altro ma pur sempre romanzato, di cui è stata pubblicata la prima parte di 800 pagine, che ha già spaccato gli Usa. “The American People: Volume 1 – Search for My Heart” ha acceso ovviamente negli ultimi giorni il dibattito sulla stampa americana che non disdegna di accapigliarsi su queste tematiche. E oggi anche il britannico Guardian scende in campo. Oggi Kramer ha settantanove anni e si gusta con ovvio piacere questo dibattito intorno al suo libro, un dibattito che, alla fine, è funzionale anch’esso alla pretesa della lobby gay, di accreditare come normale e naturale l’omosessualità. Anzi, persino innaturale è l’eterosessualità. «Può sembrare finzione, ma non lo è», assicura Kramer. Che, per accreditare la sua tesi, ricorda come la maggior parte dei saggi storici sia stata scritta da eterosessuali: «Non è stato scritto un solo libro di storia in cui persone gay facciano parte della Storia dai suoi inizi. E’ ridicolo pensare che noi (gay) non ci siamo stati da sempre».

Secondo Kramer – autore di pièce teatrali come “The Normal Heart” e “The Destiny of Me” e del romanzo mai pubblicato “Faggots” (termine dispregiativo per definire i gay), la biografa ufficiale di Lincoln, Doris Kearns Goodwin, ebbe una «crisi isterica» quando le fu suggerita l’ipotesi dell’omosessualità del presidente che abolì la schiavitù, «ma solo perché lei non l’aveva scritto per prima». Sempre secondo lo storico, l’uomo che assassinò Lincoln, John Wilkes Booth, lo fece non perché partigiano dei Confederati che stavano perdendo la Guerra Civile, ma perché il presidente lo aveva “rifiutato”.

Che cos’è la “gaydar”. «Basta solo guardare le fotografie di Wilkes e dell’altro cospiratore (contro Lincoln), Lewis Powell per vedere come fossero pieni della propria bellezza. Noi la chiamiamo “gaydar” (fusione delle parole “gay” e “radar”, cioè la capacità intuitiva degli omosessuali di scorgere analoghi orientamenti negli altri, ndr), una qualità che gli storici “etero” non possiedono»: E così anche Mark Twain, secondo Kramer, «ebbe una intensa vita gay». Solo una provocazione dunque? Lo storico Ron Chernow – autore di una biografia su Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, che Kramer sostiene fosse apertamente omosessuale – sostiene che «non si può saccheggiare la storia per metterla al servizio della propria agenda politica», e altri affermano che “The American People” non fornisce alcuna prova documentale concreta di quanto afferma. Ma in difesa di Kramer accorre, ovviamente, l’attivista per i diritti Lgbt, Aaron Hicklin, secondo cui la presenza degli omosessuali nella storia viene fatta risalire cronologicamente indietro a Oscar Wilde. Prima, secondo Aaron Hicklin, sembra che l’omosessualità non sia mai esistita. Un po’ poco, però, per riscrivere la storia in chiave gay attraverso le “sensazioni” gayradar di un 79enne.

La lobby gay impedisce la libertà di parola, scrive "Uccronline.it" il 26 settembre 2013

Papa Francesco recentemente ha ricordato che «si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby». Ed è veramente un problema se tali lobby sono talmente aggressive da impedire ormai dibattiti pubblici a chi non la pensa come loro. E’ accaduto pochi giorni fa a Casale Monferrato durante un convegno tenuto da un noto avvocato piemontese, Giorgio Razeto e un ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova, il prof. Mauro Ronco. La tematica era la legge sull’omofobia, volendo spiegare perché con essa si rischia di introdurre anche il reato d’opinione. La lobby LGBT ha però impedito lo svolgersi dei lavori, come dimostra questo video. Il convegno è stato organizzato dal Movimento per la vita, Alleanza Cattolica, Comunione e Liberazione, con il patrocinio della Pastorale della Salute e Pastorale Sociale della Diocesi di Casale, sul tema “Gender – omofobia – transfobia: verso l’abolizione dell’uomo?”. Presente anche il sindaco di Casale Monferrato, Giorgio Demezzi. Circa un’ottantina di esagitati, appartenenti a partiti (Sel, Pd e GD), centri sociali e a numerose associazioni omosessuali (Coordinamento Torino pride Glbt, insieme col collettivo Altereva e con Arcigay) hanno atteso al di fuori dell’auditorium San Filippo l’arrivo dei partecipanti, schermendoli e ironizzando sulla presenza del sindaco. Si sono quindi seduti nelle ultime file. Il responsabile della Pastorale sociale don Gigi Cabrino ha introdotto i relatori precisando la posizione della Diocesi: «Qualche giorno fa “Il Monferrato” riportava di un comunicato dell’Arcigay nel quale si domandava quale era la posizione della Diocesi di Casale. È la stessa della Chiesa: estrema misericordia e apertura nel rispetto, però, della dottrina. Non esprimiamo giudizi. Sappiamo però che una legge può influire sulla cultura e riteniamo utile confrontarci in una serata informativa come questa. Ecco perché la Diocesi ha dato il suo patrocinio». I relatori, mentre i contestatori urlavano “buffone!” e “fai schifo!”, hanno spiegato che in sé l’omofobia non esiste in quanto nessuno ha paura dell’omosessuale o lo odia, piuttosto esistono posizioni contrarie alle nozze o adozioni gay. «Nulla di più assurdo», ha commentato il prof. Ronco, «non c’è ragione perché io abbia paura di un gay. Certo, vi è violenza da parte di molti, ma quella è violenza verso i più deboli in generale, che siano gay, donne o disabili». La vera questione, hanno spiegato i relatori, è che la legge sull’omofobia, oltre a aumentare la pena per chi commette violenza contro gli omosessuali, rischia di criminalizzare anche coloro che espongono opinioni critiche sull’omosessualità o difendono il matrimonio come unione tra uomo e donna e ritengono che i bambini debbano crescere solo con un padre e una madre. Introduce dunque il reato d’opinione. «È una legge che mira a punire chi la pensa diversamente dall’ideologia gender e chi dice la verità sul matrimonio. Gli atti discriminatori contro l’orientamento sessuale sono già puniti dal sistema legislativo, addirittura con l’aggravante. Questa è una legge contro la libertà di pensiero, è una legge che si attribuisce compiti di pedagogia morale e gettare discredito su una verità antropologica fondamentale, è una legge-bavaglio», ha spiegato il prof. Ronco. «Basta che lei stia zitto e non la imbavagliamo», hanno urlato dalle ultime file contro il professore, che ha risposto: «Questo mi convince sempre più delle mie posizioni e trovo conferme sulla violenza del vostro comportamento». Da qui in poi è stato impossibile proseguire il convegno, i militanti hanno occupato il palco scambiandosi baci e impedendo lo svolgersi dell’incontro pubblico. L’avversione dei fondamentalisti gay è stata rivolta in particolare verso il prof. Mauro Ronco, già presidente dell’Ordine forense di Torino e già componente del C.S.M., il che vuol dire che non erano disturbati da frasi a effetto ma non volevano proprio che non venisse trattato il tema da chi non la pensa come loro, pur con ragionamenti fondati su logica e scienza giuridica. Proprio in questi giorni il grande filosofo inglese Roger Scruton ha spiegato che si vuole «imprigionare il pensiero con leggi sulla cosiddetta ‘omofobia’ come quella al Parlamento italiano, che altro non è che la criminalizzazione della critica intellettuale sul tema del matrimonio gay. E’ un nuovo crimine intellettuale, ideologico, come lo fu l’anticomunismo durante la Guerra fredda». Questi fatti lo dimostrano.

La lobby gay imbavaglia i giornalisti, scrive Massimo Introvigne il 15-12-2013 su "Lanuovabq.it".  Credevate che l'UNAR, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità ce l'avesse solo con gli insegnanti, imponendo loro d'insegnare obbligatoriamente l'ideologia di genere? Sbagliavate. Ora se la prende con i giornalisti, pubblicando il 13 dicembre un documento tecnicamente incredibile, intitolato «Linee guida per un'informazione rispettosa delle persone LGBT» (in fondo all'articolo si può scaricare il documento). Il modesto titolo «Linee guida» non inganni. Si precisa subito infatti che i giornalisti che non si piegheranno ai diktat dell'UNAR violeranno le norme deontologiche, per cui la denuncia all'Ordine dei Giornalisti è dietro l'angolo. Inoltre il testo - tutto bastone e poca carota - spiega anche che è solo questione di tempo: «l'Italia si sta adeguando» ai Paesi più civili, presto il Parlamento introdurrà una «legislazione specifica» contro l'omofobia e il giornalista che sbaglia rischierà non solo il deferimento all'Ordine ma la galera. E che cosa si deve fare per adeguarsi? Occorre rispettare dieci comandamenti, redatti dagli esperti - quasi tutti di organizzazioni LGBT - che hanno preparato le linee guida.

Primo: non confonderai il sesso con il genere. Il sesso è una caratteristica anatomica, ma ognuno sceglie se essere uomo o donna «indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». È davvero il primo comandamento dell'ideologia di genere, ma ora diventa obbligatorio.

Secondo: benedirai il «coming out». Vietato parlare di «gay esibizionisti»: il giornalista porrà invece attenzione a sottolineare gli aspetti positivi della «visibilità» degli omosessuali e il coraggio di chi si rende visibile.

Terzo: riabiliterai la parola «lesbica».  «Dare della lesbica» non è un insulto: è un complimento. Ma attenzione a non esagerare, promuovendo il «voyeurismo» dei maschietti.

Quarto comandamento: attenzione agli articoli. Se un transessuale si sente donna il giornalista deve scrivere «la trans» e non «il trans». Per Vladimir Luxuria, per esempio - è esplicitamente citato (o citata?) nelle linee guida - vanno sempre usati articoli e aggettivi al femminile. Non importa - al solito - l'anatomia: se qualcuno «sente di essere una donna va trattata come tale».

Quinto: non associare transessuali e prostituzione. E comunque mai parlare di prostitute o prostituti. Il giornalista userà invece l'espressione «lavoratrice del sesso trans». Come è giusto per materie di questo genere, molto si gioca sul sesto comandamento: il giornalista dovrà educare i suoi lettori a considerare cosa buona e giusta il «matrimonio» omosessuale, «o almeno il riconoscimento dei diritti attraverso un istituto ad hoc» . Farà notare che «il matrimonio non esiste in natura, mentre in natura esiste l'omosessualità». Fuggirà come la peste «i tre concetti: tradizione, natura, procreazione», sicuro indizio di omofobia. Ricorderà ai suoi lettori che il «diritto delle persone omosessuali ad avere una famiglia è sancito a livello europeo».

Il sesto comandamento dell'UNAR basta a mettere nei pasticci qualunque giornalista che per avventura fosse d'accordo con il Magistero cattolico.

Se qualcuno sfuggisse al sesto, incalza però il settimo comandamento: vietato parlare di «matrimonio tradizionale» e, per converso, di «matrimonio gay», che il giornalista dovrà invece qualificare come «matrimonio fra persone dello stesso sesso» per non rischiare, anche involontariamente, di diffondere la pericolosa idea secondo cui si tratterebbe di «un istituto a parte, diverso da quello tradizionale».

Difficilissimo poi per il giornalista cattolico - o, che so, per il collaboratore di questa testata - evitare di violare l'ottavo comandamento, il quale in tema di adozioni vieta di sostenere che il bambino «ha bisogno di una figura maschile e di una femminile come condizione fondamentale per la completezza dell'equilibrio psicologico». Il giornalista che sostenesse questa tesi si renderebbe responsabile della propagazione di un «luogo comune», smentito dalla «letteratura scientifica». Vietatissimo, poi, parlare di «utero in affitto», espressione «dispregiativa» da sostituire subito con «gestazione di sostegno».

Il nono comandamento sembra scritto apposta per il caso di Giancarlo Cerrelli, il noto vicepresidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani colpevole di rappresentare troppo efficacemente le ragioni di chi ė contrario alla legge sull'omofobia in televisione e quindi dichiarato persona non gradita nei programmi RAI. «Quando si parla di tematiche LGBT - si legge in un passaggio delle linee guida che sarebbe esilarante se non ci fosse la minaccia di gravi sanzioni per chi sgarra - è frequente che giornali e televisioni istituiscano un contraddittorio: se c'è chi difende i diritti delle persone LGBT si dovrà dare voce anche a chi è contrario». Sembrerebbe il minimo sindacale del pluralismo e della democrazia, specie se parliamo della RAI e di servizio pubblico. 

Ma le linee guida ci dicono che questo «non è affatto ovvio». Il caso Cerrelli insegna. «Cosa deve accadere affinché il contraddittorio fra favorevoli e contrari ai diritti delle persone gay e lesbiche non sia più necessario?». La risposta corretta sarebbe che deve accadere l'instaurazione di una dittatura, per dirla con Papa Francesco, simile a quella del romanzo «Il padrone del mondo» di Benson. La risposta delle linee guida invece è che basta una «scelta puramente politica» - che l'UNAR si arroga l'autorità di fare - per dire basta a questi dibattiti fastidiosi e pericolosi. Il buon conduttore televisivo avrà cura che sia espressa solo un'opinione, quella corretta. «Non esiste una soglia di consenso prefissata, oggettiva, oltre la quale diventa imprescindibile il contraddittorio». Quindi su questi temi se ne deve prescindere. Tornatene a casa, avvocato Cerrelli - in attesa magari di sentire anche per televisione il ritornello scandito da certi simpatici attivisti: «e se saltelli muore anche Cerrelli». Non si salvano, infine, neanche i fotografi. Il decimo comandamento li invita a fare attenzione a che cosa fotografano nei gay pride, evitando immagini di persone «luccicanti e svestite». L'obiezione secondo cui se chi partecipa ai gay pride non si svestisse non correrebbe il rischio di essere fotografato nudo non sembra essere venuta in mente agli esimi redattori del testo. Che però hanno pensato a una possibile difesa del malcapitato giornalista, il quale potrebbe sostenere che lui la pensa diversamente, ma per dovere di cronaca ha ritenuto di riportare anche le strane idee di chi si oppone al «matrimonio» omosessuale, e che magari ha radunato in una sala centinaia di persone. Difesa debole, sentenzia il documento. Il giornalista che riporta dichiarazioni, anche «di politici e rappresentanti delle istituzioni», contrarie alle linee guida può farlo per «dovere di cronaca» ma deve «attenersi ad alcune regole»: «virgolettare i discorsi», spiegare che sono sbagliati, contrapporre dichiarazioni di rappresentanti delle organizzazioni LGBT, che andranno tempestivamente intervistati, usare «particolare attenzione nella titolazione». Non sono forniti esempi, ma il bravo giornalista capisce al volo. Se per esempio un vescovo si dichiara contrario al «matrimonio» omosessuale, il titolo dovrà essere «Fedeli scandalizzati dal discorso omofobo del vescovo» e non «Il vescovo ricorda: la Chiesa non accetta il matrimonio omosessuale». Giornalista avvisato, mezzo salvato. Ma anche italiani e parlamentari avvisati, mezzi salvati. Perché le linee guida per i giornalisti rendono involontariamente un enorme servizio. Spiegano esattamente, nero su bianco, che cosa sarà davvero vietato dalla legge contro l'omofobia. Altro che proteggere le persone omosessuali - com'è giusto che sia, e come già affermano le leggi in vigore - da insulti, minacce e violenze. Qui si tratta della dittatura del relativismo, senza sottigliezze e senza misericordia. Fermiamo questa macchina impazzita prima di ritrovarci tutti in un GULag gestito da militanti LGBT.

LA LOBBY GAY, È DIVENUTA UNA CASTA DI INTOCCABILI? Scrive il 22 Gennaio 2017 "lalucedimaria.it". Nell’ultimo periodo la sensazione che gli omosessuali siano una specie di casta d’intoccabili è sempre più forte, va bene non discriminare, ma al momento si è arrivati ad un punto tale di intolleranza che criticare anche solo una posizione viene ritenuto sintomo di omofobia. Sull’argomento è stata intervistata da La Stampa la scrittrice e psicoterapeuta Silvana De Mari, autrice, tra le altre cose, di decine di libri sull’educazione degli adolescenti, la quale afferma, senza timore di critiche: “I gay? Sono la nuova razza ariana. Vietato parlar male di loro, vietato criticare, vietato esprimere la propria opinione nei loro confronti. Loro vogliono l’omologazione, il pensiero unico “. Un pensiero tanto forte è inviso alla società odierna e questo le è costato una denuncia ed il rischio concreto di essere estromessa dall’ordine dei medici. Chiunque avrebbe ritrattato pur di non subire un processo, ma la dottoressa non si piega all’omologazione del pensiero e decide di difendere strenuamente la sua posizione anche a costo di un danno irreparabile alla sua carriera: “Vede, ci siamo di nuovo. Se non ti adegui al pensiero unico, se sei fuori dal coro. Se dici ciò che pensi sui gay, sulla pedofilia, sei out”. Il problema, secondo la scrittrice, è che la categoria gay non è più paga, ottiene sempre più diritti, sempre più riconoscimenti, ma non bastano mai. Inoltre la società odierna permette questa prepotenza senza opporsi e questo, secondo lei, potrebbe portare ad una forma di contagio: “se in una classe c’è una ragazza bulimica, stia certo che per contagio psicologico nel giro di poco tempo ce ne saranno altre 5 o sei. E con i gay è la stessa identica cosa”. L’idea di fondo della De Mari è che bisogna chiarire ai bambini sin da piccoli la loro identità sessuale altrimenti si corre il rischio che diventino gay. Quando le viene fatto notare che questa è una posizione omofoba, lei risponde con convinzione: “Sono Omofoba”. Qual è il motivo di una posizione così netta e dura contro gli omosessuali? Per la scrittrice tutto si riconnette alla religione cattolica e agli insegnamenti di San Paolo: “San Paolo dice che essere omosessuali è una cosa sbagliata. Ma per i nuovi ariani, leggere San Paolo è un sacrilegio. Ecco, io difendo con queste mie esternazioni il diritto di parola, la mia religione e se vuole anche la libertà di stampa”. L’intervista alla De Mari si chiude con una dichiarazione d’intenti “Faro cadere il movimento LTGB”, la sua è una vera e propria crociata in difesa del diritto di parola ma anche della salvaguardia della famiglia.

Lobby gay e boicottaggio degli omosessuali non allineati, scrive "Radio Vaticana" il 17/03/2015. La maggior parte delle persone con orientamento omosessuale non si identificano nella lobby gay, anzi la subiscono. A dichiararlo è Jean Pierre Delaume Myard, già portavoce del collettivo Homovox, creato in Francia per dare la parola agli omosessuali contrari a nozze e adozioni gay, e autore del libro "Homosexuel contre le mariage pour tous" di prossima pubblicazione in Italia con Rubbettino. Delaume Myard critica il boicottaggio e la campagna d’odio condotti nelle ultime ore contro gli stilisti Dolce&Gabbana, “colpevoli” di aver difeso la famiglia naturale e criticato la pratica dell’utero in affitto.Paolo Ondarza lo ha intervistato:

R. – Dolce&Gabbana sont victimes, pour moi, du lobby gay comme je le suis en France. …Doce&Gabbana, secondo me, sono vittime della lobby gay, come lo sono io in Francia. E’ necessario sapere che se non sei sulla linea di pensiero della Lgbt, sei emarginato e boicottato. Per esempio, io ho scritto un libro, in Francia, e i media e le librerie si sono rifiutati di parlarne. Sono un po’ preoccupato perché dovrebbe uscire, prossimamente, anche da voi, in Italia, con Rubettino.

D. – Dolce&Gabbana hanno criticato in particolare la pratica dell’utero in affitto, la cosiddetta maternità surrogata, legata a grandi interessi economici. Anche lei, come omosessuale, ha più volte posto l’accento su questa questione e sul bisogno che ha un bambino di avere un papà e una mamma…

R. – Dolce&Gabbana sont des personnes responsables; elles ont raison de refuser les mères porteuses …Dolce&Gabbana sono persone responsabili; hanno ragione se rifiutano il concetto delle madri surrogate, intanto perché significa sfruttare i più deboli, i più poveri. Elton John ha acquistato i suoi figli. La donna – è importante ribadirlo – non è una merce, e oltre a questo ogni bambino ha il diritto di conoscere suo padre e sua madre. Invece, questi benpensanti come Elton John o la sinistra europea hanno reintrodotto la schiavitù …

D. – Ecco, questa dittatura del pensiero unico, legata alle lobby Lgbt, apparentemente tollerante ed egualitaria, non lascia spazio al dissenso – questo caso di Dolce&Gabbana lo dimostra – anche quando questo dissenso è espresso da persone omosessuali. Lei ne è stato e ne è tuttora vittima?

R. – J’en ai assez de la dictature gay: je fais la distinction entre “gay” e “homosexuel”, e si l’on ne pense …

Ne ho abbastanza della dittatura gay: io faccio una distinzione tra “gay” e “omosessuale”. Se non la pensi come la lobby Lgbt in quanto omosessuale, sei forzatamente manipolato e la lobby gay ha una reazione omofoba, come se gli omosessuali non potessero pensare con la loro propria testa. La lobby gay è sempre più presente in tutte le istituzioni: bisogna combatterle perché non rappresentano gli omosessuali. La lobby Lgbt vuole distruggere l’istituzione del matrimonio e la famiglia... Non bisogna confondere “omosessuale” e “gay”: i gay sono militanti attivisti …

D. – Questa distinzione tra “gay” e “omosessuali” e quanto lei ha appena detto, crede siano considerazioni condivise dalle persone omosessuali? Perché l’ideologia Lgbt farebbe pensare il contrario …

R. – En fait, on nous fait croire que les homosexuelles demandent le droit à l’enfant. D’abord, …In realtà, ci vogliono far credere che gli omosessuali chiedono il diritto ad avere un figlio. Allora, intanto un figlio non è un diritto. In Francia ci hanno mentito facendoci credere che per esempio la legge Taubira sul matrimonio per tutti era stata chiesta dagli omosessuali: non è così. A chiederla è stata la lobby gay, quella lobby gay che è molto potente in Europa è rappresentata da Igla. In Italia, per esempio, arriveranno le unioni civili: io personalmente sono contrario alle unioni civili come sono contrario al matrimonio gay, perché le unioni civili porteranno con sé la questione dei figli. La nostra sessualità riguarda soltanto noi stessi e non deve scientemente privare un bambino di un padre o di una madre. Gli omosessuali non chiedono niente: questo pensiero non è né richiesto né condiviso dagli omosessuali; è rivendicato da una lobby molto piccola, la lobby gay, che però è molto potente perché ha mezzi economici e controlla i media.

LA LOBBY GAY. Tanti parlano di lobby Lgbt, a guardare tutto ciò vien proprio da pensare che non solo esista ma che abbia ormai preso legami di pressione con ogni settore importante della società. Comunità scientifica compresa, scrive Roberto Gallo su "l’Officina". Uno studio scientifico pubblicato un anno fa, che ha subito fatto il giro dei quotidiani internazionali, ha sostenuto che per far approvare il matrimonio omosessuale basterebbe una conversazione con un attivista omosessuale, la cui esperienza sarebbe in grado di influenzare positivamente le opinioni, rendendole durature anche oltre un anno. La tesi di fondo è che le obiezioni alle istanze Lgbt (Lesbo/Gay/Bisex/Trans) sono ideologiche e istintive, tanto che basta poco per cambiarle. I quotidiani lo hanno promosso come il più grande studio “pro-gay”, ed effettivamente gli studiosi lo hanno presentato tramite la nota retorica. Tuttavia, qualche mese dopo la pubblicazione sulla rivista Science, uno dei due autori, Donald Green, ha ritrattato le conclusioni accusando l’altro autore, Michael LaCour, di aver falsificato i dati: «Sono profondamente imbarazzato da questo stato di cose e mi scuso con gli editori, revisori e lettori di Science», ha detto. Nonostante il rilevamento di numerose inesattezze da parte di altri scienziati, l’articolo è stato comunque pubblicato sulla nota rivista scientifica. La Cour rischia ora di essere perseguito per frode scientifica. Non è certo una novità, già nel 1994 una ricerca sul Journal of Divorce & Remarriage ha analizzato i dati di letteratura pubblicati sulla genitorialità omosessuale e dei suoi effetti sui bambini. I ricercatori hanno concluso: «Ogni studio è stato valutato secondo gli standard accettati della ricerca scientifica, la scoperta più impressionante è stata che tutti gli studi mancavano di validità esterna e non un singolo studio rappresentava la sub-popolazione di genitori omosessuali. Solo tre studi hanno soddisfatto gli standard minimi di validità interna mentre gli undici restanti hanno mostrato minacce mortali alla validità interna. La conclusione che non vi sono differenze significative nei bambini allevati da madri lesbiche rispetto a madri eterosessuali non è dunque supportata dalla ricerca scientifica». Hanno inoltre aggiunto: «Un altro limite reciproco di molti degli studi è stato quello già identificato da Rees (1979), vale a dire, il desiderio politico e giuridico “di presentare una felice e ben regolata famiglia lesbica al mondo”» (p.116). Per non parlare del fatto che la maggior parte degli studi a favore della genitorialità omosessuale sono stati realizzati dalla principale ricercatrice dell’American Psychological Association, Charlotte Patterson, attivista LGBT, già condannata da un tribunale della Florida di falsificazione dei dati: «l’imparzialità della Dr.Patterson», ha sentenziato la Corte, «è venuta in discussione quando prima del processo si è rifiutata di consegnare ai suoi legali le copie della documentazione da lei utilizzata negli studi. Questa corte le aveva ordinato di farlo ma lei ha unilateralmente rifiutato, nonostante i continui sforzi da parte dei suoi avvocati di raggiungere tale scopo. Entrambe le parti hanno stabilito che il comportamento della dr.essa Patterson è una chiara violazione dell’ordine di questa Corte. La dr.Patterson ha testimoniato la propria condizione lesbica e l’imputata ha sostenuto che la sua ricerca era probabilmente viziata dall’utilizzo di amici come soggetti per per la sua ricerca. Tale ipotesi ha acquisito ancora più credito in virtù della sua riluttanza a fornire i documenti ordinati» (1997, JUNEER, Petitioner v Floyd P. Johnson, p. 11). Nel 2012 Loren Marks della Louisiana State University ha analizzato i 59 studi citati dall’American Psychological Association (APA), secondo la quale i figli di genitori gay o lesbiche non sarebbero svantaggiati rispetto a quelli di coppie eteorsessuali, rilevandone l’inconsistenza dal punto di vista scientifico: manca il campionamento omogeneo, c’è assenza di gruppi e di caratteristiche di controllo, i dati sono spesso contraddittori, la portata degli esisti è limitata e si rileva scarsità dei dati a lungo termine, e manca il potere statistico. Nel 2008 un altro studio peer-review ha rilevato che nella maggior parte della letteratura scientifica a favore della non differenza tra bambini cresciuti con genitori omosessuali ed eterosessuali, sono stati soppressi o oscurati potenziali risultati negativi. «Inoltre», è stato aggiunto, «numerosi fattori avversi sono emersi dalla rianalisi dei dati». Infine, nel 2001 uno studio dell’University of Southern California ha rilevato che decine di studi su bambini cresciuti da genitori gay sono stati falsificati per ragioni politiche, in modo da non attirare le ire degli attivisti omosessuali o incoraggiare la retorica anti-gay. Gli autori della ricerca, i prof. Stacey e Biblarz, hanno infatti suggerito che molti studiosi temono che evidenziando le differenze potrebbero fare uno sgarbo alle associazioni Lgbt permettendo agli oppositori della genitorialità gay di utilizzare i dati scientifici a sostegno delle loro posizioni. Tanti parlano di lobby Lgbt, a guardare tutto ciò vien proprio da pensare che non solo esista ma che abbia ormai preso legami di pressione con ogni settore importante della società. Comunità scientifica compresa. Roberto Gallo

La lobby gay di Riccardo Cascioli, il Timone n. 50, febbraio 2006 su "Documentazione.info". Metà dicembre 2005, in Inghilterra: sul canale radiofonico 5 della BBC si parla della nuova legge che consente le adozioni a coppie gay. Tra gli intervenuti una scrittrice cattolica, Lynette Burrows, che spiega con chiarezza i motivi della sua contrarietà. Un ascoltatore, James Miller, la denuncia alla polizia metropolitana che quindi le fa visita e — sono parole della Burrows — un agente le fa «una lezione sui suoi commenti omofobici». Alle lamentele della scrittrice, che non si capacita del perché la polizia perda tempo in quel modo, l’agente le risponde che «ogni segnalazione riguardo l’omofobia è attualmente una priorità per la polizia alla stregua di ogni segnalazione riguardo offese alle minoranze etniche». Passano pochi giorni e nella contea del Lancashire una coppia di settantenni riceve in casa la visita di due poliziotti che per 80 minuti li costringono ad ascoltare una severa lezione sulla loro omofobia. La loro colpa? Essersi lamentati in Comune perché nei locali pubblici di quella amministrazione si distribuiva materiale di propaganda di gruppi militanti gay. Intanto in quella contea, fa notare il Daily Mail, nel 2005 i crimini sono aumentati del 17%.

Mezzi e strategie della lobby. È quello che un quotidiano britannico ha chiamato «l’Inquisizione inglese», ma non è un fenomeno soltanto locale. Anzi, è il clima generato da una campagna internazionale che va avanti da anni e che è condotta da potenti lobby gay che si avvalgono della consulenza di esperti avvocati e specialisti di diritto internazionale. La strategia è quella di inserire in documenti internazionali delle formule che leghino le scelte sessuali ai diritti umani, oppure di creare interpretazioni artificiose di vecchi trattati o convenzioni. Scopo finale è quello di sostituire la tradizionale divisione in sessi (maschile e femminile) con gli orientamenti sessuali, tanto che già alla Conferenza Onu di Pechino sulla donna (1995) si cercò di introdurre il riconoscimento di 5 generi: maschile, femminile, omosessuale maschile, omosessuale femminile e transessuale.

Pressioni sull’Onu. Un esempio chiarissimo è la risoluzione presentata per la prima volta nell’aprile 2003 dal Brasile alla Commissione Onu per i diritti umani (ma sulla spinta dell’International Gay and Lesbian Human Rights Commission — IGLHRC) questa fa addirittura riferimento al «principio di non discriminazione» affermato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 per esprimere la condanna «delle violazioni dei diritti umani sulla base degli orientamenti sessuali» e chiedere alle istituzioni internazionali e ai singoli governi di «prestare la massima attenzione» a questo tipo di violazioni. Significativamente, la risoluzione parla della «educazione ai diritti umani» come «la chiave per cambiare atteggiamenti e comportamenti» di fronte agli orientamenti sessuali.

Pressione sui singoli governi e lotta alla Chiesa. Tra le armi da usare c’è quella della pressione politica ed economica sui singoli governi: un deputato americano, Barney Frank, ha addirittura presentato una mozione al Congresso per rifiutare il sostegno a un accordo commerciale con l’Egitto a causa della discriminazione contro gli omosessuali. Ancora nell’agosto del 2003, alle Nazioni Unite un incontro fu organizzato dalla UN Gay, Lesbian or Bisexual Employees (UNGLOBE - Dipendenti Gay, Lesbiche o Bisessuali dell’ONU), per individuare gli obiettivi immediati da raggiungere. All’incontro — cui non ha mancato di portare un saluto il segretario generale Kofi Annan, che ha espresso sostegno per la causa — si è individuato nelle religioni, e in particolare nella Chiesa cattolica, i nemici da abbattere.

Influenza sull’Unione Europea. Non si può infine dimenticare l’organizzazione storica del movimento omosessuale, ovvero l’lnternational Lesbian and Gay Association (ILGA), presente in 90 Paesi con oltre 400 organizzazioni affiliate. È proprio questo movimento ci porta a spostare l’attenzione verso l’Unione Europea dove l’ILGA può contare su una presenza ben radicata e una importante influenza sull’Intergruppo Europarlamentare di Gay e Lesbiche, molto attivo nel proporre risoluzioni in linea con gli obiettivi sopra descritti, dai matrimoni tra persone dello stesso sesso alle adozioni per coppie gay. I risultati stiamo cominciando a vederli.

Ratzinger: sono riuscito a sciogliere la “lobby gay” in Vaticano. In un libro di memorie di prossima pubblicazione il Papa emerito Benedetto XVI ammette l'esistenza di un gruppo di potere composto da quattro-cinque persone, scrive Andrea Tornielli l'1/07/2016 su "La Stampa". Il libro deve ancora uscire ma fa già discutere. S'intitola «Ultime conversazioni», è un'intervista condotta dal giornalista tedesco Peter Seewald, che già aveva al suo attivo tre libri tratti da conversazioni con Joseph Ratzinger, due da cardinale e una da Papa. Sarà pubblicato nel settembre 2016, in Italia dall'editore Garzanti. Ad anticiparne i contenuti è il vaticanista di lungo corso Luigi Accattoli, sul Corriere della Sera, che lo allegherà al giornale in edicola. Tra i tanti contenuti del nuovo libro c'è un passaggio nel quale Benedetto XVI «ammette di aver saputo della presenza di una "lobby gay" in Vaticano, composta da quattro/cinque persone, e afferma di esser riuscito a sciogliere quel gruppo di potere. Informazione questa - commenta Accattoli - che non si era mai avuta». Nel libro il Papa emerito respinge la critica di chi lo ha considerato troppo «accademico» e concentrato su studio e scrittura e rifiuta di essere considerato un «restauratore» in ambito liturgico. Parla dei suoi tentativi di riformare lo Ior e della piaga della pedofilia, sottolineando le difficoltà che un Papa incontra quando cerca di intervenire sulla «sporcizia nella Chiesa». Racconta di come ha preparato in gran segreto la rinuncia e ammette di aver appreso «con sorpresa» il nome del suo successore: aveva pensato a dei nomi, «ma non a lui». Parla della «gioia» di vedere come il nuovo Papa pregava e comunicava con la folla e descrive la figura umana e papale di Francesco, accennando sia a ciò che lo accomuna a lui, sia a ciò che lo differenzia. Dell'esistenza di una rete gay in Vaticano si era parlato al tempo del primo Vatileaks: secondo alcune indiscrezioni un intero capitolo della «relatio», le conclusioni dell'indagine interna affidata ai cardinali curiali Julian Herranz, Salvatore De Giorgi e Jozef Tomko, sarebbe stata dedicata a questo presunto gruppo di potere. Nel giugno 2013 Papa Francesco aveva fatto un cenno su questo parlando ai vertici della Confederazione latinoamericana dei religiosi (Clar). Il colloquio era avvenuto a porte chiuse e non doveva essere pubblicato, ma una trascrizione sommaria venne resa nota dal sito web cileno «Reflexion y Liberacion». Alcune settimane dopo, sul volo da Rio de Janeiro a Roma, nel luglio 2013, nella prima conferenza stampa sull'aereo Francesco rispose a una domanda su questo: «Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato chi mi dia la carta d’identità in Vaticano con “gay”. Dicono che ce ne sono. Credo che quando uno si trova con una persona così, deve distinguere il fatto di essere una persona gay, dal fatto di fare una lobby, perché le lobby, tutte non sono buone. Quello è cattivo. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega in modo tanto bello questo, ma dice: “non si devono emarginare queste persone per questo, devono essere integrate in società”. Il problema non è avere questa tendenza, no. Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby. Questo è il problema più grave per me».

Papa Francesco e la lobby gay in Vaticano. Vive e prospera un potere parallelo che trama ai danni del Pontefice. Fino a tacere sullo scandaloso passato di monsignor Ricca che Bergoglio, ignaro, ha delegato a rappresentarlo nello Ior. Di questa oscura vicenda l'Espresso rivela fatti, protagonisti e retroscena, scrive di Sandro Magister il 18 luglio 2013 su "L'Espresso". Non è facile. Qui ci sono molti "padroni" del papa e con molta anzianità di servizio», ha confidato qualche giorno fa Francesco all'amico argentino ed ex alunno Jorge Milia. Effettivamente, alcuni di questi «padroni» hanno ordito ai danni di Jorge Mario Bergoglio il più crudele e subdolo inganno da quando è stato eletto papa. L'hanno tenuto all'oscuro delle rilevanti informazioni che, se da lui conosciute per tempo, l'avrebbero trattenuto dal nominare monsignor Battista Ricca "prelato" dell'Istituto per le Opere di Religione. Con questa nomina, resa pubblica il 15 giugno, Francesco intendeva collocare all'interno dello Ior una persona di sua fiducia in un ruolo chiave. Col potere di accedere a tutti gli atti e documenti e di assistere a tutte le riunioni sia della commissione cardinalizia di vigilanza, sia del consiglio di sovrintendenza, cioè del board della disastrata "banca" vaticana. Insomma, col compito di farvi pulizia. Ricca, 57 anni, originario della diocesi di Brescia, proviene dalla carriera diplomatica. Ha prestato servizio per 15 anni in nunziature di vari Paesi, prima di essere richiamato in Vaticano, alla segreteria di Stato. Ma ha conquistato la fiducia di Bergoglio in un'altra veste, inizialmente come direttore della residenza di via della Scrofa nella quale l'arcivescovo di Buenos Aires alloggiava durante le sue visite a Roma, e ora anche come direttore della Domus Sanctæ Marthæ nella quale Francesco ha scelto di abitare da papa. Prima della nomina, a Francesco era stato fatto vedere, come è consuetudine, il fascicolo personale riguardante Ricca, dove non aveva trovato nulla di disdicevole. Aveva anche ascoltato varie personalità della curia e nessuna aveva sollevato obiezioni. Appena una settimana dopo aver nominato il "prelato", però, negli stessi giorni in cui incontrava i nunzi apostolici convenuti a Roma da tutto il mondo, il papa è venuto a conoscenza, da più fonti, di trascorsi di Ricca a lui fin lì ignoti e tali da recare seri danni allo stesso papa e alla sua volontà di riforma. Dolore per essere stato tenuto all'oscuro di fatti tanto gravi e volontà di rimediare alla nomina da lui compiuta, sia pure non definitiva ma "ad interim": sono stati questi i sentimenti espressi da papa Francesco una volta conosciuti quei fatti. Il buco nero, nella storia personale di Ricca, è il periodo da lui trascorso in Uruguay, a Montevideo, sulla sponda nord del Rio de la Plata, di fronte a Buenos Aires. Ricca arrivò in questa nunziatura nel 1999, quando il mandato del nunzio Francesco De Nittis volgeva al termine. In precedenza aveva prestato servizio nelle missioni diplomatiche del Congo, dell'Algeria, della Colombia e infine della Svizzera. Qui, a Berna, aveva conosciuto e stretto amicizia con un capitano dell'esercito svizzero, Patrick Haari. I due arrivarono in Uruguay assieme. E Ricca chiese che anche al suo amico fossero dati un ruolo e un alloggio nella nunziatura. Il nunzio respinse la richiesta. Ma pochi mesi dopo andò in pensione e Ricca, rimasto come incaricato d'affari "ad interim" in attesa del nuovo nunzio, assegnò l'alloggio in nunziatura a Haari, con regolare assunzione e stipendio. In Vaticano lasciarono fare. All'epoca, in segreteria di Stato era sostituto per gli affari generali Giovanni Battista Re, futuro cardinale, anche lui originario della diocesi di Brescia. L'intimità di rapporti tra Ricca e Haari era così scoperta da scandalizzare numerosi vescovi, preti e laici di quel piccolo paese sudamericano, non ultime le suore che accudivano alla nunziatura. Anche il nuovo nunzio, il polacco Janusz Bolonek, arrivato a Montevideo all'inizio del 2000, trovò subito intollerabile quel "ménage" e ne informò le autorità vaticane, insistendo più volte con Haari perché se ne andasse. Ma inutilmente, dati i legami di questi con Ricca. Nei primi mesi del 2001 Ricca incappò in più di un incidente per la sua condotta sconsiderata. Un giorno, recatosi come già altre volte - nonostante gli avvertimenti ricevuti - in Bulevar Artigas, in un locale di incontri tra omosessuali, fu picchiato e dovette chiamare in aiuto dei sacerdoti per essere riportato in nunziatura, con il volto tumefatto. Nell'agosto dello stesso 2001, altro incidente. In piena notte l'ascensore della nunziatura si bloccò e di prima mattina dovettero accorrere i pompieri. I quali trovarono imprigionato nella cabina, assieme a monsignor Ricca, un giovane che le autorità di polizia identificarono. Il nunzio Bolonek chiese l'immediato allontanamento di Ricca dalla nunziatura e il licenziamento di Haari. E ottenne il via libera dal segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano. Ricca, pur recalcitrante, fu trasferito alla nunziatura di Trinidad e Tobago, dove rimase fino al 2004. Anche lì entrando in urto col nunzio. Per essere infine richiamato in Vaticano e tolto dal servizio diplomatico sul campo. Quanto a Haari, all'atto di lasciare la nunziatura pretese che dei suoi bauli fossero inviati in Vaticano come bagaglio diplomatico, all'indirizzo di monsignor Ricca. Il nunzio Bolonek rifiutò e i bauli finirono depositati in un edificio esterno alla nunziatura. Dove rimasero per qualche anno, fino a che, da Roma, Ricca disse di non voler più avere a che fare con essi. Una volta aperti i bauli per eliminarne il contenuto - come deciso dal nunzio Bolonek - vi furono trovate una pistola, consegnata alle autorità uruguayane, e, oltre agli effetti personali, una quantità ingente di preservativi e di materiale pornografico. In Uruguay i fatti sopra riferiti sono noti a decine di persone: vescovi, sacerdoti, religiose, laici. Senza contare le autorità civili, dalle forze di sicurezza ai vigili del fuoco. Molte di queste persone hanno avuto di quei fatti un'esperienza diretta, in vari momenti. Ma anche in Vaticano c'è chi ne è a conoscenza. Il nunzio dell'epoca, Bolonek, si è sempre espresso con severità nei confronti di Ricca, nel riferire a Roma. Eppure una coltre di pubblico silenzio ha coperto fino a oggi questi trascorsi del monsignore. In Uruguay c'è chi rispetta la consegna del silenzio per scrupolo di coscienza. Chi per dovere d'ufficio. Chi tace perché non vuole mettere in cattiva luce la Chiesa e il papa. Ma in Vaticano c'è chi ha promosso attivamente questa operazione di copertura. Frenando le indagini dall'epoca dei fatti a oggi. Occultando i rapporti del nunzio. Tenendo immacolato il fascicolo personale di Ricca. In tal modo ha agevolato allo stesso Ricca una nuova prestigiosa carriera. Dopo il suo ritorno a Roma, il monsignore è stato inquadrato nel personale diplomatico in servizio presso la segreteria di Stato: inizialmente, dal 2005, nella prima sezione, quella degli affari generali, poi, dal 2008, nella seconda sezione, quella dei rapporti con gli Stati, e poi di nuovo, dal 2012, nella prima sezione, con una qualifica d'alto livello, quella di consigliere di nunziatura di prima classe. Tra i compiti che gli sono stati assegnati c'è stato il controllo delle spese delle nunziature. È anche da ciò che è nata quella fama di incorruttibile moralizzatore che gli è stata assegnata dai media di tutto il mondo, alla notizia della sua nomina a "prelato" dello Ior. In più, a partire dal 2006, è stata affidata a monsignor Ricca la direzione prima di una, poi di due e infine di tre residenze per cardinali, vescovi e sacerdoti in visita a Roma, tra cui quella di Santa Marta. E questo gli ha consentito di tessere una fitta rete di relazioni con i più alti gradi della gerarchia cattolica di tutto il mondo. La nomina a "prelato" dello Ior è stata per Ricca il coronamento di questa sua seconda carriera. Ma è stata anche l'inizio della fine. Per le tante persone rette che sapevano dei suoi trascorsi scandalosi, la notizia della promozione è stata motivo di estrema amarezza, ancor più acuta perché vista foriera di danni per l'ardua impresa che papa Francesco ha in corso d'opera, di purificazione della Chiesa e di riforma della curia romana. Per questo alcuni hanno ritenuto doveroso dire al papa la verità. Sicuri che ne trarrà le decisioni conseguenti.

Sesso e potere in Vaticano. Una ragnatela di ricatti e cordate condiziona i vertici della Santa Sede. Con ramificazioni sfuggite anche all'istruttoria interna ordinata da Ratzinger. E al centro c'è sempre lo Ior. Ecco chi combatte Francesco, scrive Gianluca Di Feo il 18 luglio 2013 su "L'Espresso". All'inizio sembravano solo colpi bassi in una partita sotterranea, veleni che tracimavano dalle brecce delle mura leonine. Poi i sospetti si sono consolidati nelle scarne indiscrezioni trapelate dal segreto dell'inchiesta choc disposta da Benedetto XVI. Adesso le notizie taciute a papa Francesco sul passato di monsignor Battista Riccasembrano chiudere il cerchio, in un disegno che ha qualcosa di diabolico: la lobby gay in Vaticano esiste, forte, radicata intorno alla gestione degli affari e dei ricatti. Il sacrilegio di due comandamenti - non rubare e non commettere atti impuri - è proseguito all'ombra di San Pietro, intrecciando passioni mondane e interessi economici in una ragnatela perversa che appare così solida da arrivare fino al vertice dello Ior e sfidare l'autorità del papa con un peccato di omissione senza precedenti. Il nuovo pontefice conosce la "Relationem", il rapporto conclusivo sulla Curia stilato dai tre cardinali investigatori nominati dal suo predecessore. Un'inchiesta meticolosa durata otto mesi, condotta da figure di spessore come Juliàn Herranz, Salvatore De Giorgi e Jozef Tomko, l'austera guida dell'intelligence vaticana nella fase finale della Guerra Fredda. Nella radiografia delle faide che stavano dilaniando la credibilità della Santa Sede, tra i documenti diffusi dal Corvo, i tradimenti persino del maggiordomo personale del papa, la sfida sulla riservatezza dei forzieri più oscuri dell'Istituto opere religiose, i tre inquisitori avevano individuato i due mali che lacerano il Vaticano: sesso e cupidigia. Ma in un lavoro così accurato non c'era nulla che potesse gettare cattiva luce su monsignor Ricca, allora responsabile della struttura che ospita gli alti prelati e dove lo stesso Francesco ha scelto di abitare. Eppure la "Relationem" contiene una denuncia possente di quanto siano profonde le crepe nella Santa Sede. Il dossier consegnato in copia unica a Joseph Ratzinger e da lui trasmesso al successore, stando alle rivelazioni di "Repubblica", partiva da vecchi episodi. Alcuni documentati dalla magistratura, come la rete di prostituzione maschile tra seminaristi e coristi a cui si rivolgeva Angelo Balducci, l'arbitro di tutti gli appalti italiani e gentiluomo di Sua Santità, intercettato mentre interrompeva summit a Palazzo Chigi per informarsi delle prestazioni dei ragazzi. Altri rimasti in sospeso tra gossip e notizia, come il centro per massaggi Priscilla legato a Marco Simeon, il protetto del cardinale Tarcisio Bertone arrivato ai piani alti della Rai. Poco alla volta, l'inchiesta ha ricostruito una mappa di alberghetti, saune e club per incontri gay frequentati da personalità con posizioni chiave nell'amministrazione vaticana. Da questa suburra di relazioni inconfessabili, però, nasceva un groviglio di ricatti capace di tenere in scacco tutta la gerarchia. Nell'accusativo latino i ricatti venivano definiti "impropriam influentiam", termine antico che ricorda il modernissimo reato di "traffico di influenze": il crimine delle lobby che illecitamente si impossessano delle istituzioni. Oltretevere, la minaccia dello scandalo sarebbe giunta a condizionare ogni equilibrio, inclusi quelli che dominano l'apparato finanziario pontificio. Il grande snodo è lo Ior, l'Istituto Opere di Religione, una banca offshore sempre sopravvissuta ai tentativi di pulizia: una costante delle trame del dopoguerra, passando da Michele Sindona, Roberto Calvi e l'Enimont. Fino alle ultime storiacce di soldi riciclati per mafiosi, truffatori, tangentisti, bancarottieri ed evasori: un bancomat a disposizione di chi sapesse conquistare la fiducia di un prelato. L'impressione diffusa è che i magistrati abbiano scoperto solo minima parte di una struttura nerissima, che nasconde capitali enormi di provenienza a dir poco dubbia, mentre le indagini delle procure già si stanno allargando all'Apsa, lo sconfinato patrimonio apostolico con investimenti in immobili di lusso e paradisi fiscali. La lotta intestina per il controllo dell'Istituto si è combattuta in parallelo ai tentativi di renderlo più trasparente, nel rispetto delle leggi internazionali. Non a caso, è stato su questo fronte che si è registrata la prima irruzione del Corvo, diffondendo nel gennaio 2012 una lettera di monsignor Attilio Nicora. Nel testo si citavano le "difese oltranzistiche delle prerogative dello Ior" e il pericolo di "un colpo alla reputazione della Santa Sede". In pochi mesi c'è stata una corsa frenetica alle poltrone che custodiscono il forziere, con più cordate all'opera. La commissione dei tre cardinali ha cercato di ritrarre i volti degli schieramenti in campo. Ha tentato di suddividerli per ordini - gesuiti, salesiani - e per origine geografica - liguri, milanesi - fino a rendersi conto che tutto ormai era trasfigurato in un conglomerato trasversale dai confini opachi. Al centro, il ruolo di Bertone, il segretario di Stato che ha fatto di Genova il punto di riferimento per le decisioni più rilevanti. Impossibile stabilire quanto la "Relationem" abbia pesato sulle dimissioni di Benedetto XVI. Ratzinger è stato periodicamente informato degli sviluppi dell'istruttoria, poi il 17 dicembre ha avuto l'agnizione completa di quanto fosse ramificato il male in quella istituzione dove aveva vissuto per oltre un quarto di secolo. La decisione di incontrare Tomko, Herranz e De Giorgi nell'ultimo giorno del pontificato ha avuto un valore altamente simbolico. Poi è arrivato il conclave che ha scelto Jose Maria Bergoglio, che - come ha detto affacciandosi per la prima volta in San Pietro - «i fratelli cardinali sono andati a prendere quasi alla fine del mondo». Il 23 aprile nella cappella paolina si è rivolto direttamente ai cardinali: «Se noi vogliamo andare sulla strada della mondanità, negoziando con il mondo mai avremo la consolazione del Signore. La Chiesa va sempre tra la Croce e la Risurrezione, tra le persecuzioni e le consolazioni del Signore. E questo è il cammino: chi va per questa strada non si sbaglia». Poi ha ribadito di volere «una Chiesa povera e per i poveri». Sradicare mondanità e ricchezza sarà la sua missione. A partire dallo Ior.

La lobby omosessuale non è "diversa" dalle altre. Come il peggiore dei luoghi comuni, si rafforza negandolo. Più i gay ripetono «non siamo un potere forte, né occulto», più il mondo etero si convince che «sono una lobby potentissima». Così scrive "Il Giornale". Potere gay. Quando Benedetto XVI, parlando ai nunzi apostolici dell’America Latina nel febbraio 2007, ribadì il ruolo centrale del matrimonio nella società contemporanea, «che è l’unione stabile e fedele tra un uomo e una donna», lamentando come la famiglia «mostra segni di cedimento sotto la pressione di lobby capaci di incidere sui processi legislativi», l’universo gay, sentendosi chiamato in causa, rispose sdegnato che la vera lobby, semmai, era quella vaticana... Ma l’opinione pubblica ebbe confermato, ex cathedra, un sospetto magari tendenzioso ma radicato. In Italia, per ben note questioni storiche, il «potere» dei gruppi omosessuali è ancora sotto traccia. Ma nel resto del mondo occidentale, soprattutto nei Paesi anglosassoni dove i termini gay e lobby non hanno alcuna connotazione negativa, l’omosessualità, oltre che una ragione di orgoglio, pride, è anche una questione di potere, power. E’ soprattutto nel mondo degli affari e dell’economia che le quotazioni della «gay corporation» sono in costante aumento: una dettagliata inchiesta pubblicata su Corriere Economia nel marzo 2008 metteva in evidenza la straordinaria capacità da parte dei gay di «fare rete». Una lobby potente e ricca. Anzi, secondo un dossier del 2006 della rivista Tempi, ricchissima. Come fanno notare molti intellettuali, la potenza politico-economica dei gruppi gay è tale da influenzare l’intero ambito sociale, arrivando a imporre le regole del «politicamente corretto». Moda e televisione: proprio i due regni dove il luogo comune del potere gay si rafforza negandolo. Quando il direttore di Vogue Italia Franca Sozzani, intervistata da Klaus Davi, liquidò la lobby omosessuale nel mondo della moda come un «mito», tutti - ricordandosi l’indiscrezione di quel dirigente di Dolce&Gabbana secondo il quale «noi assumiamo solo gay» - hanno inteso esattamente il contrario. Così come non c’è addetto ai lavori del mondo editorial-giornalistico che non ricordi la processione di star della politica e della cultura che sfilò al teatro Manzoni di Milano quando Alfonso Signorini presentò in pompa magna il suo libro sulla Callas. Un parterre che neppure Eco, o Cacciari, o Baricco, o Camilleri - anche tutti insieme - potrebbero mai sognare. Intanto, anche da noi, sull’onda mediatica del successo di film e serial tv politicamente molto corretti e culturalmente molto queer, c’è chi sta pensando di fondare un partito «altro». Al Gay Pride, a Genova, il presidente di Arcigay Aurelio Mancuso ha ribadito la necessità per i gay di «entrare in politica». Sfilando in piazza per andare ben oltre il semplice concetto di lobby.

Arcigay renderà pubblico il proprio atteggiamento nei confronti dei partiti e delle alleanze che si presentano alle elezioni nel corso degli Stati Generali del 1 e 2 marzo a Bologna, perché non può rimanere "inerte davanti alla composizione di due grandi partiti che si contenderanno la leadership dei rispettivi campi", e al nuovo "tentativo di ricomposizione a sinistra e d'alcune aree del centro cattolico".

Lo dice Aurelio Mancuso, Presidente nazionale Arcigay, secondo cui "il sistema politico sta mutando velocemente e questo pone delle questioni anche al movimento lgbt, (acronimo utilizzato come termine collettivo per riferirsi a persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, e Transgender, Transessuali) soprattutto ad Arcigay". "La crisi della politica si sta  evolvendo velocemente - prosegue Mancuso - e ci pone il dovere di interpretare con coraggio il nostro ruolo di soggetto politico e sociale, distante e distinto dai partiti.

Bisogna accelerare la nostra vocazione d'essere fino in fondo lobby sociale degli e delle omosessuali". "Arcigay - sostiene Mancuso – accelererà  il suo processo di trasformazione strutturale, avviato tre anni fa, estendendo ancor di più la sua rete territoriale, impetuosamente cresciuta al punto di raggiungere ormai i 50 comitati provinciali.

Oltre che proseguire su questa strada, metteremo in campo la costruzione sociale ed economica della comunità lgbt italiana, a partire dalle grandi città, ma anche nelle medie e piccole province", per far sì' che "da una parte aumenti la consapevolezza e l'autostima, e dall'altra il peso sociale, culturale ed elettorale". "Già oggi - conclude Mancuso - possiamo orientare molti voti lgbt, nel futuro il nostro compito sarà quello di condividere direttamente con le centinaia di migliaia d'elettori gay e lesbiche programmi, liste, sostegni".

La lobby omosessuale detta legge in Europa, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Esiste una «lobby gay» nelle istituzioni europee? Se ne parla spesso, di solito quando si lanciano generiche accuse o si immaginano complotti ai danni di altre istanze culturali, ideologiche o religiose. Ma come agisce, da chi è spalleggiato e a cosa punta chi si batte - tra corridoi e finanziamenti, convegni e direttive - per quelli che ritiene i diritti del mondo omosessuale? Libero ha provato a sostituire ai tic linguistici un po’ di fatti, raccolti tra Roma, Bruxelles e Strasburgo. Nel tentativo di capire se davvero la «lobby gay» è la più potente in Europa. Primo fatto: l’intergruppo più nutrito del Parlamento europeo, cioè l’organismo che permette ai deputati di scambiarsi pareri su temi precisi, è quello che si occupa di gay e affini. Tema sintetizzato dalla sigla LGTB (omosessuali, lesbiche, transessuali e bisessuali, talvolta scritto LGTBI per comprendere anche gli «intersessuali»). Questo esercito di politici, dotato di una segreteria, è coordinato da 6 vicepresidenti e conta più di 150 eletti di tutti i partiti e Paesi dell’Unione, Italia compresa: ci sono Sonia Alfano, Francesca Barracciu (subentrata a Rosario Crocetta quando è diventato governatore siciliano), Roberto Gualtieri, Gianni Pittella, Niccolò Rinaldi, Gianni Vattimo, Andrea Zanoni. Tutti di centrosinistra. Tale gruppo di pressione ottiene effetti apprezzabili: negli ultimi 15 anni sono numerose le risoluzioni di Bruxelles a favore delle istanze omosessuali. Anche i gruppi partitici teoricamente più «insospettabili» - come gli euroscettici di “Europa delle Libertà e della Democrazia”, che accolgono pure la Lega Nord - hanno al loro interno membri gay. Il capogruppo è Emmanuel Bordez, belga, sposato con un uomo. Ci sono gay dichiarati anche tra i funzionari del parlamento, che a differenza dei politici sono inamovibili. Il Segretario generale della Commissione europea è Catherine Day, irlandese, considerata molto sensibile alle istanze omosessuali. Bazzica le istituzioni europee dal 1975, quando si occupò della Comunità economica per conto dell’associazione degli industriali del suo Paese. Un altro big ritenuto vicino all’universo gay è Klaus Welle, tedesco. Anch’egli è segretario generale. Nell’agosto 2011 un dipendente dell’Europarlamento ha annunciato le dimissioni inviandogli una mail, spedita in copia a tutti gli uffici di Bruxelles e Strasburgo, in cui lo accusava d’essere bisessuale e di assumere le persone che andavano a letto con lui. La mail è stata cancellata da tutti i pc dell’Europarlamento, grazie a un efficace e rigoroso sistema di controllo degli esperti informatici: la copia di quella letteraccia sopravvive solo perché qualcuno se l’era stampata, finché è finita sotto gli occhi di Libero. Le istanze omosessuali sono caldeggiate anche dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali. Ha sede a Vienna ed è stata creata nel 2007. Incassa finanziamenti da Bruxelles e sostituisce il precedente Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia. Sul suo sito ufficiale riporta un sondaggio effettuato nei Paesi dell’Unione e in cui si chiede ai cittadini dei singoli Stati se da loro è diffuso un linguaggio offensivo verso «lesbiche, gay, bisessuali e o transessuali». La maglia nera è della Lituania. Dietro c’è l’Italia e quindi la Bulgaria. Sarebbero i Paesi che, stando alla rilevazione, sono più intrisi di omofobia. Altro fatto: malgrado lo scarso rilievo ricevuto tra i deputati italiani, l’influente associazione omosex chiamata Ilga Europe sta caldeggiando iniziative ad hoc «per l’uguaglianza LGBT nell’Unione europea» in vista delle prossime elezioni. Insomma, nelle istituzioni combattono a favore dei gay parecchi parlamentari, funzionari, organismi come l’Agenzia dei diritti fondamentali. Fuori dal Palazzo, i gay si fanno sentire con le loro associazioni. Ilga Europe è un’organizzazione internazionale non governativa. Riunisce 407 sodalizi provenienti da 45 dei 49 Paesi in Europa. Ha lanciato una mobilitazione per «il sostegno dei diritti umani e l’uguaglianza LGBTI tra i candidati per il prossimo Parlamento europeo e della Commissione europea», sollecitando le associazioni omosex dei singoli Paesi per «individuare» i candidati più sensibili e votarli. L’appello di Ilga chiede di riconoscere giuridicamente il genere trans, programmi contro le discriminazioni, progetti per le famiglie omosessuali. Tra chi s’è detto favorevole all’iniziativa ci sono dieci politici austriaci, cinque belgi, due ciprioti, tre danesi, tredici finlandesi, sette francesi, diciassette tedeschi, due greci, otto irlandesi, un lettone, tre lussemburghesi, quattro di Malta. E ancora: nove olandesi, tre polacchi, un portoghese, tre sloveni, sei spagnoli, quattordici svedesi, ventitré del Regno Unito. Si fa prima a elencare i Paesi che non hanno politici che hanno aderito all’appello di Ilga: oltre all’Italia, ci sono Croazia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Estonia. Dal 1997 Ilga Europe gode dello status partecipativo nel Consiglio d’Europa e dal 2001 - come scrive l’associazione sul suo sito - «riceve il suo più grande finanziamento da parte della Commissione europea». Dal 2006 è riconosciuta nel Consiglio economico e sociale dell’Onu. Quando, nel 2004, il cattolico Rocco Buttiglione fu silurato dalla Commissione Giustizia dell’Europarlamento, l’allora ministro per gli Italiani nel Mondo Mirko Tremaglia non le mandò a dire: «Povera Europa, i culattoni sono in maggioranza». Un modo colorito, per non dire volgare, di tirare in ballo la famigerata lobby. La si può chiamare come si crede, ma a Bruxelles la sensibilità gay conta. Il 4 febbraio 2014, il giorno dopo l’altolà francese alla nuova legge sulle nozze gay, Bruxelles vota la risoluzione contro l’omofobia e la discriminazione. I cattolici provano a protestare ma non c’è partita. Voti a favore 394. Contrari 176. Astenuti 72. La relatrice Ulrike Lunacek (austriaca dei Verdi e lesbica dichiarata) esulta: «Molti di noi, lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali hanno vissuto, per troppo tempo, la propria vita nella paura», paura anche di «essere buttati fuori dalle nostre case, scuole o posti di lavoro». La Lunacek, come detto, è dei Verdi: ricordiamo che il copresidente dei Verdi europei è il tedesco Daniel Cohn-Bendi, attivo sia a Berlino che in Francia e colonna delle battaglie omosex. Tornando alle risoluzioni pro omosessuali, spesso vengono inserite in un discorso più ampio che chiede di azzerare le discriminazioni tutte. Comprese quelle che coinvolgono handicappati e minoranze etniche. Anche per questo le istanze gay faticano a trovare efficaci contraltari. Solo negli ultimi 15 anni, tra le altre cose, Bruxelles ha sfornato: nel 1998 la risoluzione «sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione»; nell’ottobre 2000 la risoluzione dell’Europarlamento per la «parità di trattamento in materia di occupazione»; nel 2001 un programma d’azione anti-discriminazione; nel 2005 una risoluzione per la protezione delle minoranze; nel 2006 una risoluzione anti-omofobia, riaggiornata un anno dopo per «l’intensificarsi della violenza razzista e omofoba»: nel 2007 altra risoluzione sull’omofobia; nel 2009 una sui diritti fondamentali. Nel 2011 ecco il documento su «violazione delle libertà di espressione e discriminazioni basate sull’orientamento sessuale in Lituania». Nel settembre 2011 viene votata una risoluzione su diritti umani e orientamento sessuale. Nel maggio 2012 altra dichiarazione contro l’omofobia. Nel luglio 2012 la risoluzione sulla violenza contro le lesbiche e per i diritti di «lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali in Africa». Pochi mesi fa, alcuni parlamentari italiani hanno rinunciato a organizzare un convegno con Luca Di Tolve, già mister gay che ha dichiarato d’essere tornato etero a Medjugorje. Ora è sposato con una donna e racconta la sua storia di «conversione». E così si becca accuse pesanti dal popolo LGTB: nel maggio 2013 scatenarono una campagna per impedire un suo convegno in Veneto. Confidenza di un deputato a Libero: «Sa, qui in Europa siamo costretti a lavorare coi funzionari. E se decidono di boicottarci con la scusa che siamo anti-gay, per noi è la fine».

Premier gay Di Rupo: "Nudo per il Belgio". Polemiche nel paese fiammingo per una sequenza del documentario sulla sua vita, scrive “Libero Quotidiano”. Esplode la polemica in Belgio. Il Primo Ministro Elio Di Rupo, omosessuale dichiarato di 62 anni, ha fatto il passo più lungo della gamba: in un reportage dedicato alla sua vita, il premier belga di origine abbruzzese, si spoglia davanti la telecamera, mostrandosi nudo di spalle. Avvertendo nell'aria il calo di consenso politico, nel countdown verso le elezione di maggio, l'uomo ha deciso di mostrarsi (in parte) senza veli. E nonostante il documentario, di una decina di minuti, sia stato giudicato "scandaloso" da molti, è il portavoce di Di Rupo che chiarisce il significato di questo gesto: "Si tratta di un reportage rispettoso, la scena è stata girata il 21 luglio scorso, dopo una cerimonia e prima di un incontro pubblico". Pochi secondi di nudo che hanno scatenato il giudizio negativo degli spettatori: "Non sa proprio che altro inventarsi per far parlare di sé!", ha dichiarato un ragazzo belga, dopo aver visto il filmato. Non è mancato nemmeno il commento della trasmissione On refait le monde che ha espresso il suo punto di vista: "Perché il primo ministro ha bisogno di mettersi a nudo per far parlare di sé? Qual è il messaggio politico?". Elio Di Rupo, eletto Primo Ministro con il partito socialista, rischia ora di restare senza camicia, in tutti i sensi; sembra infatti, il suo avversario, l'indipendentista di Nva, sia il favorito per le prossime votazioni in Belgio.

Crocetta: "Sono gay però mi piacciono pure le donne". Il presidente della Sicilia: "Ci sono anche delle ragazze che mi...". Poi su Renzi: "Voleva fare il premier", scrive “Libero Quotidiano”. Poche idee e ben confuse. Non si parla di come amministrare la Sicilia da Palazzo d'Orleans, ma di sessualità. A parlare è Rosario Crocetta, presidente dell'isola, dichiaratamente omosessuale: "Sono gay - spiega ai microfoni di Un giorno da pecora su Radio 2 - ma ciò non significa che non mi piacciano le donne. Qualche donna che mi arrapa ci sarà pure". In ogni caso, continua, "la mia ormai è l'età della riflessione".

La lobby degli omo ora punta al potere. Il partito degli omosessuali getta la maschera: spera di trasformare la supremazia culturale in predominio politico. Non si accontentano più della parità: adesso puntano alla vittoria, scrive Mario Giordano, Giovedì 20/09/2012, su “Il Giornale”. C'era una volta il gay pride, l'orgoglio gay. Adesso c'è il gay party, il partito gay. C'era una volta la rivendicazione dei diritti. Adesso c'è la rivendicazione del governo. C'era una volta l'aspirazione all'uguaglianza. Adesso c'è l'aspirazione al potere. Non si capisce quello che sta succedendo in Italia se non si esce un po' dagli schemi abituali (destra/sinistra, Pd/Pdl) e si provano a mettere in fila i fatti sotto una luce diversa. E diversa, nella circostanza, sia detto senza alcuna allusione. Nichi Vendola in una intervista a Pubblico, il nuovo giornale di Luca Telese, lancia la bomba della propria voglia di paternità, spaccando volutamente il Pd. Il medesimo Nichi Vendola, in precedenza, aveva annunciato il matrimonio con il suo fidanzato storico, il giovin canadese Eddy, creando altrettanto scompiglio. Giuliano Pisapia a Milano accelera sulle unioni civili, riempiendo i giornali di Riccardo&Roberto o Paolo&Giuseppe che celebrano para-matrimoni davanti alle istituzioni. Altri sindaci (dal genovese Doria al napoletano De Magistris) sono pronti ad accodarsi. In Sicilia Rosario Crocetta si candida con corredo di ostentazione omosessuale, come se l'essere gay bastasse per salvare la Regione dal crac economico. Rosy Bindi alla festa democratica di Bologna viene assalita a suon di riso e brillantini. Vogliamo andare avanti?  Sono tanti piccoli segnali di un percorso scritto: il partito dei gay, evidentemente, ha gettato la maschera. Basta con i travestimenti e le piume di struzzo, basta con il folclore dei gay pride, basta con la muccassassina e l'allegria del carnevale bisex, basta con gli scherzi e i lazzi: ora si fa sul serio. Ora si punta al potere. La lobby esce allo scoperto. Non si accontenta più di fare una campagna per i diritti: fa una campagna per il governo. Legittima, per l'amor del cielo. Ma devastante per i medesimi partiti, a cominciare proprio dal Pd. Non si riesce a cogliere, infatti, la difficoltà con cui i vertici democratici maneggiano la candidatura Vendola e il fastidio provocato dal suo crescendo di dichiarazioni esplosive, non si riesce a interpretare questo continuo alzare il tiro del governatore pugliese in sintonia con i sindaci della nouvelle vague di sinistra, se non si prende atto del salto di qualità che sta facendo il movimento gay: da rassemblement sostanzialmente libertario e un po' gruppettaro a struttura che punta alla scalata dei vertici delle istituzioni. Dalle paillettes alla livrea, dai carri allegorici alla stanza dei bottoni. Il percorso era stato preparato con cura. Come ogni ascesa al potere che si rispetti, infatti, era cominciata sul versante culturale. Così, nel corso degli anni, abbiamo assistito a un'escalation di film gay, personaggi gay, fiction gay, amori gay, canzoni gay... Da Nonno Libero ai reality, ormai, non c'è più una storia che non preveda un ruolo importante per un omosessuale, a parte forse la Bella Addormentata e Cappuccetto Rosso. E comunque sul cacciatore nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco. Si è arrivati al paradosso che la presunta diversità è la normalità: una famiglia tradizionale, mamma papà e due figlioli secondo natura, non la si vede nemmeno nella pubblicità della Barilla. Invasi tutti gli spazi comunicativi, dunque, non restava da compiere che l'ultimo passo, e cioè trasformare la supremazia culturale in supremazia politica. Ecco fatto: la lobby si sta muovendo e spara in alto. Il punto, come è evidente, non sono le primarie del Pd o le fughe in avanti di Giuliano da Milano: il punto è la discesa in campo del partito omosessuale che non s'accontenta più della sbandierata parità ma ora vuole la vittoria. Che, dopo una storia passata in minoranza, si candida a guidare la maggioranza. Chi l'avrebbe detto: la colorata sfilata del gay pride punta a finire fra le grisaglie del palazzo. E non per creare scompiglio, ma per dettar legge.

Gay Pride: cos'è, cosa significa oggi e com'è nato. All'origine i moti di Stonewall del 1969, una ribellione alla persecuzione degli omosessuali, scrive il 9 giugno 2018 Panorama. Il 9 giugno per le vie di Roma si muove il Gay Pride 2018, che si infila in una girandola di cortei di orgoglio LGBT sparsi per l'Italia. Proprio a Roma, nel 1994, si tenne il primo Gay Pride nazionale ufficiale, dopo che dimostrazioni pubbliche in difesa dei diritti degli omosessuali si svolsero in Italia sporadicamente e localmente già dagli anni '70: la prima manifestazione avvenne il 5 aprile 1972 a Sanremo, come protesta contro il "Congresso internazionale sulle devianze sessuali" voluto dal Centro italiano di sessuologia, di matrice cattolica. Se oggi le parate del Gay Pride sono feste colorate in cui, rivendicando i diritti della comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) intanto si gioca con la sessualità, con corpi in mostra, perizoma esibiti, muscoli lucidati ed esposti, esprimendo intanto anche la "normalità" dell'amore senza schemi predefiniti, con famiglie etero e arcobaleno sorridenti a sfilare pacatamente, all'origine di questa parata ci sono episodi di violenza, i cosiddetti moti di Stonewall. E la voglia di ribellarsi alla persecuzione. 

Ecco cos'è il Gay Pride e come nasce. Cosa sono i moti di Stonewall. Lo "Stonewall Inn" è un bar gay in Christopher Street nel Greenwich Village di New York. Nella notte tra venerdì 27 giugno e sabato 28 giugno del 1969 la polizia irruppe nel bar. La polizia era solita effettuare "retate" in night club e locali gay, annotando le generalità dei presenti (e spesso pubblicandole sui giornali), trovando ogni motivo per fare arresti con accuse di "indecenza". Capitò anche quella notte, ma in quell'occasione gli avventori si ribellarono. Si creò una mischia. Quando i poliziotti uscirono con gli arrestati la folla attorno si animò e sopraffece le forze dell'ordine costringendole a ritirarsi nel bar. Diversi gay vennero isolati e picchiati dalla polizia. Bottiglie e pietre furono lanciate dai dimostranti, al grido dello slogan "Gay Power!". Furono arrestati 13 manifestanti, feriti 4 agenti e un numero imprecisato di manifestanti. 

Com'è nato il Gay Pride. I moti di Stonewall avevano scoperchiato la pentola a pressione. Il malessere della comunità LGBT per le continue angherie della polizia era esploso e stava prendendo una coscienza politica e organizzata. A fine luglio 1969 a New York si formò il Gay Liberation Front (GLF), il movimento di liberazione omosessuale, che ispirò simili organizzazioni nel resto del mondo (in Italia si dovette aspettare il 1971). A un anno dalla rivolta di New York, in città, in commemorazione dei moti di Stonewall il GLF organizzò una marcia dal Greenwich Village a Central Park, a cui parteciparono tra le 5mila e le 10mila persone. Era la nascita del Gay Pride. Il 28 giugno è stato eletto come Giornata mondiale dell'orgoglio LGBT. E da quel 1969 molti cortei del Gay Pride in tutto il mondo si svolgono a giugno, proprio per celebrare la ribellione alla persecuzione degli omosessuali.

Cos'è il Gay Pride. Le parate e le marce che si tengono a giugno celebrano il "Gay Pride", ovvero l'orgoglio ("pride") di essere gay, opposto alla vergogna e allo stigma sociale. Si sottolinea un'accezione positiva contro la discriminazione e la violenza nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Lo scopo è promuovere l'autoaffermazione e la dignità LGBT, i diritti all'uguaglianza, aumentare la visibilità LGBT come gruppo sociale, costruire una comunità e celebrare la diversità sessuale e la varietà di genere. Il simbolo di questo orgoglio è la bandiera arcobaleno, che differisce da quella della pace per la disposizione speculare dei colori. Oggi però si preferisce parlare di "Pride", piuttosto che di "Gay Pride", per comprendere così non soltanto gli omosessuali ma tutta la realtà arcobaleno. 

Quando il potere forte è gay. Tim Cook è un manager da sballo che decide di dirsi gay per aiutare gli altri. Encomiabile. Poi ci sono i problemi. La gay culture pretende di eguagliare ciò che è diverso, e in questo è prepotente e minacciosa, scrive Giuliano Ferrara su "Il Foglio" del 1 Novembre 2014. Tim Cook è quello dello smartphone, del tablet, dell’airbook e di tutte le utili diavolerie che amiamo usare, perfino quando non le incensiamo o cerchiamo di non rendercene schiavi. E’ grande amico e sodale del capo di Goldman Sachs, il re di Wall Street, Lloyd Blankfein. E’ un potere forte, anzi fortissimo, con aspetti anche controversi quanto alla gestione della – scusate il vecchio termine classista – “forza di lavoro” (nel formichiere asiatico se la passano così e così, i suoi dipendenti). E’ un potere ideologico, erede dell’impronta perfino religiosa o addirittura messianica che il suo predecessore Steve Jobs diede alla fame di vita di nuove generazioni di esseri umani che sono anche e sopra tutto, dato il loro ambiente di lavoro e di produzione, dato il core business, nuove generazioni di consumatori. Tim ha i ritratti di Luther King e di Robert Kennedy, come da noi più modestamente Walter Veltroni, appesi al posto d’onore sui muri del suo ufficio. Tim è americano fin nel midollo e parla la lingua del sogno e della città in cima alla collina, un faro delle libertà umane. Tim è gay, è omosessuale. Lo sapevano tutti, ma Tim ha deciso di dirlo apertamente in una occasione retorica solenne. E’ stata una lectio magistralis, è un manifesto il suo discorso, il suo coming out. Il mondo è a rumore. Grande risonanza, ha detto solidale, ammirato, incantato, il capo di Goldman Sachs. Il filo ideologico del discorso è semplice e in tutti i media mondiali ha fulminato l’immaginazione collettiva. “A me che sono nato in Alabama, luogo di arretratezza e discriminazione per eccellenza, Dio ha fatto tra altri anche il regalo, uno dei più grandi, di essere gay; per questo ho potuto avere empatia per le minoranze, tutte, e per chi è discriminato in nome della sua diversità. E ora – conclude Tim – esco allo scoperto perché la mia privacy è meno importante della mia vocazione ad aiutare altri che soffrono, che si chiudono nel loro altrove sessuale rispetto agli standard maggioritari: hanno diritto al mio aiuto”. Non è magico? Non è perfetto? Non è una grandissima figata? Non è so american? Sì e no, diciamo noi. E’ bello che un potere forte, impersonato da un manager che sta in cima alla classifica dei ricchi e famosi, e mostra libri dei conti aziendali da record ogni anno, si pieghi su un aspetto sofferente della condizione umana ovvero il senso di esclusione e di frustrazione sentito da tanti che provano l’amore che non osava dire il suo nome ancora venti, trent’anni fa. E’ bello che ci venga ricordata l’inciviltà della paura del sesso contro natura, l’omofobia. E’ bello che tutto questo venga fatto per proteggere la diversità sessuale e insieme per esigere la perfetta eguaglianza di tutti gli esseri creati da Dio di fronte al diritto e alla cultura. Non bello. Bellissimo. Poi arrivano problemi seri. La differenza cardine della condizione umana non è la diversità degli orientamenti sessuali, una variante importante e anche feconda in certi casi ma caduca, legata alla cultura, allo spirito di ogni tempo in forma differenziata, variante che oggi aspira giustamente alla libertà di dirsi come si è anche con orgoglio, di riconoscersi e abbattere muri di incomprensione e inimicizia fatti di pregiudizi. La differenza cardinale è quella tra uomo e donna o tra maschio e femmina. Chiedo scusa ai vescovi Bruno Forte e Mogavero, cookiani dell’ultima ora, ma questa è la differenza intorno a cui gira il mondo nei secoli dei secoli, a partire dalla procreazione non come scelta ingegneristica ma come atto d’amore fertile. E a questa differenza o diversità sono legati il matrimonio e i figli, almeno nell’occidente cristiano e nella stragrande maggioranza delle civilizzazioni antropiche. Qui Tim, sostenitore dei matrimoni gay e dell’eguaglianza anche delle funzioni parentali, toppa. O meglio confonde amore, piacere, gratificazione spirituale con concetti desueti ma ancora solidi come famiglia, educazione di figli maschi e femmine, attesa del frutto del matrimonio tra uomo e donna, tra donna e uomo se preferite. Tim e quelli che la pensano come lui qui toppano non per ragioni di dottrina, ma per ragioni di logica e di cultura stringenti. Ragioni che anche Luther King e Robert Kennedy, famosi “puttanieri” oltre che icone della giustizia per tutti, hanno creduto giuste nella loro epoca, magari facendo leva sui loro pregiudizi capaci di generare sogni e incubi. La gay culture va criticata perché eguaglia ciò che è differente, perché omologa intollerabilmente ciò che creaturalmente, e non dico biblicamente se no incorro nella scomunica, è altro da sé, et pour cause. La libertà di essere omosessuali e di definirsi anche gay è una conquista preziosa, per motivi che non sto nemmeno a richiamare tanto sono chiari di per sé, ma è una minaccia culturale, una prepotente minaccia di marketing che ora è approdata all’altezza dei poteri forti, quando diventa eguaglianza come moralismo sentimentale e diritto come desiderio. Let different human beeings be different. 

Se i gay da perseguitati diventano persecutori. Sul sito storico della comunità italiana la lista di proscrizione contro le unione e le adozioni, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Il sito web storico della comunità gay italiana ieri ha pubblicato una lista di proscrizione dei parlamentari di sinistra scettici o contrari alla nuova legge sulle unioni e sulle adozioni di coppie omosessuali. Da perseguitati a persecutori, da vittime dell'indice a puntatori di indice, da discriminati a discriminatori: è un peccato che i gay non riescano a uscire dal ghetto nel quale erano stati chiusi per anni non senza sofferenze. Ghetto che oggi non esiste più, se non nella mente di chi ha paura ad affrontare il mare aperto dell'eguaglianza, per certi versi più complicato e rischioso della trincea della diversità. Chiunque di noi singolarmente o in quanto categoria - può lamentare carenze e limitazioni delle proprie libertà o aspirazioni. Ma nessuno di noi può imporre allo Stato le proprie ragioni se non attraverso i processi della democrazia. La coscienza di parlamentari di sinistra e di destra - contrari alle adozioni tra persone dello stesso sesso (o a trasformare le unioni civili in matrimoni religiosi di Stato) non conta meno di chi la pensa diversamente. E per quel poco che vale, la mia di coscienza è in sintonia con quella degli onorevoli messi all'indice dalla comunità gay. Penso che ognuno abbia il diritto di amare chi meglio crede, anche perché l'amore è un sentimento non condizionabile dalla ragione, figuriamoci dal legislatore. Penso anche che un coppia omo o etero che sia debba potersi tutelare reciprocamente e che lo Stato bene fa a introdurre nel diritto strumenti in grado di garantirlo. Ma andare oltre cioè parificare qualsiasi amore a quello tra uomo e donna - significa entrare in un campo minato. Come la mettiamo con la poligamia, con la pedofilia tra un adulto e una bambina innamorata e consenziente? E se - per paradosso - uno è innamorato del suo gatto può pretendere per lui la reversibilità della pensione? Non scherziamo. Libero amore in libero Stato, questo sempre. Ma uno Stato deve anche essere libero di dire dei no se una richiesta può minare, direttamente o indirettamente, la tenuta del sistema sociale e valoriale su cui è fondato. Per esempio, che i bambini non si comperano, non si ordinano a terzi, non li si costruiscono in laboratorio. Questo vale sia per coppie omo che etero. Perché tra le tante eguaglianze e i tanti diritti da rispettare, ci sono anche i loro, convitati di pietra di questa discussione.

Chi ci sta, alzi la mano. Perché a decidere tutto non sia «il potere dei più buoni», scrive il 31 Gennaio 2015 Francesco Agnoli su “Tempi”. Gli ultimi vani tentativi dei cattolici di incontrarsi in politica hanno segnato l’incapacità di avere un’idea comune. Ma in questo torpore fioriscono associazioni e iniziative. C’è qualcosa da difendere e promuovere. Recentemente, in una lunga intervista sull’aereo di ritorno dalle Filippine, papa Francesco ha parlato di povertà, di finanziarizzazione economica, di ingiustizie sociali, di Humanae Vitae e, a proposito del gender imposto ai paesi poveri, di colonialismo ideologico: ha spaziato cioè in campi apparentemente diversi, per dire che tutto si tiene; che il credente non è un estraneo, uno straniero della vita terrena, ma una creatura che intravede nella molteplicità della realtà il filo unitario che la tiene insieme. E quel filo è la persona umana, così come Dio l’ha voluta: creatura che origina dall’amore di Dio stesso, tramite l’amore di un uomo e una donna. Può un cristiano passare accanto a un fratello povero e non fermarsi, come il buon Samaritano? Può credere che la giustizia sia un affare solo dei politici o dei magistrati? Può, nello stesso modo, assistere passivamente al tentativo di togliere a un bimbo non il pane ma la sua stessa identità, i suoi genitori, quel contesto d’amore che Dio ha voluto come luogo in cui germogli, nella solidità e nella fiducia, la vita di ogni creatura umana? Non può. Anche se il prendere posizione può scatenare un putiferio. Si stava ancora celebrando la libertà di espressione senza limiti, innalzando cartelli con la scritta “Je suis Charlie”, e i grandi giornaloni dedicavano, nelle pagine interne, ampio spazio a un quesito: si può accettare una conferenza pro famiglia, con il patrocino della Regione Lombardia? Possiamo davvero dare a tutti il diritto di parola? La campagna delegittimatrice preventiva, e quindi censoria, contro quel convegno, ha svelato la sostanza dell’idea di libertà di molti: libertà di deridere, di desacralizzare ogni valore, ogni realtà. Null’altro. Si decide di accusare qualcuno, falsamente, di aver bollato gli omosessuali come malati, per poi condannare questo qualcuno come malato, psicopatico, criminale, in altre parole “omofobo”! Il colmo dell’assurdo. Ma perché? Non c’è rispetto della logica, né dell’altro, nei predicatori del relativismo. Già gli antichi sofisti greci, con i loro Ragionamenti doppi, lo avevano ben chiaro: se non esiste la verità, dello stesso oggetto o persona si può dire tutto e il suo contrario. L’importante è vincere. Così gli intolleranti tacciano gli altri di intolleranza, e i violenti dell’ideologia tacciano i pacifici di violenza. Così i numeri (400 fuori, a contestare, duemila dentro, ad applaudire) possono essere capovolti senza scrupoli, scambiando il dentro con il fuori e il fuori con il dentro. Così i censori, che volevano impedire un libero convegno, tacciano di censura chi ha ingenuamente impedito che un giovane, unico su duemila presenti, decidesse di fare, in casa altrui, il suo discorso, salendo d’imperio sul palco. Il giornalista collettivo e la sua idea alla moda sono “la misura di tutte le cose”. Del resto, il gender è esattamente questo: ognuno è misura di se stesso, sino al punto di poter negare ciò che è. Benedetto XVI la chiamava dittatura del relativismo. Va avanti da tempo: i sostenitori dell’aborto hanno difeso la fecondazione artificiale in nome del diritto dei bambini a nascere; i fautori dell’eutanasia, rivendicano la sperimentazione occisiva sugli embrioni umani per curare i malati gravi. Ai tempi del divorzio, i fautori della legalizzazione dicevano di volerla per il bene della famiglia; nel 1978 la legge sull’aborto, necessaria secondo la propaganda per porre fine agli aborti clandestini, depenalizzò gli stessi aborti clandestini (oggi assai numerosi, ma non interessano più a nessuno, né i bambini, né le madri). Oggi, gli amici della libertà sessuale sono i nemici della differenza sessuale; i sostenitori del libero amore, vogliono il bollino del sindaco per i conviventi e il matrimonio omosessuale in costituzione; i sostenitori dell’emancipazione femminile difendono il commercio degli ovuli e il ritorno alla schiavitù femminile con l’utero in affitto… E sempre si sentono i più buoni: «È il potere dei più buoni», avrebbe detto Giorgio Gaber. Una direzione irresistibile? E i cattolici? Abbiamo visto cosa abbia significato per buona parte del mondo cattolico la scelta, per tanti anni, di non sporcarsi le mani con la politica; di non entrare nelle discussioni sull’etica, per evitare il moralismo. La fede si è piano piano ritirata dalle menti e dal cuore di tanti, assediata in uno spazietto sempre più stretto, sinché un giorno è definitivamente evaporata in modo quasi impercettibile, perché era già ininfluente, inutile. Oggi c’è una sfida immensa per l’Europa. Questa Europa che, in quanto figlia della fede cristiana, ha visto la genesi delle idee di persona, di libertà e di sacralità della vita, laddove vi erano prima la schiavitù, l’infanticidio seriale, i giochi sanguinari dei circhi… proseguirà nella sua corsa verso l’autodistruzione? L’Europa di oggi, che tramite i missionari e la sua cultura ha portato nel mondo le sue più grandi invenzioni (le università, gli ospedali, la medicina, la scienza…), esporterà oggi e domani solo scetticismo e morte? Il papa, si diceva, ha parlato di colonialismo ideologico: continueremo a cercare di travolgere anche gli altri popoli, come gli africani, imponendo il gender dietro ricatto (o gender nelle scuole e matrimoni gay nelle legislazioni, o niente aiuti economici, come hanno denunciato al Sinodo i vescovi africani), mentre questi stessi popoli hanno da tempo intrapreso un cammino verso la civiltà cristiana, e hanno sempre più chiaro che quello stesso matrimonio che qui si vuole distruggere lì sta significando la crisi della poligamia, il riconoscimento della dignità delle donne, la liberazione di tanti uomini e dei figli stessi? Molti osservatori sembrano rassegnati: questa è ormai la direzione irresistibile presa dalla storia. Nel mondo cattolico, almeno a livello macroscopico, sembra regnare la resa. Politicamente, Todi 1 e 2 hanno segnato chiaramente l’incapacità di avere un’idea di politica. A menare le danze dell’incontro fu il direttore del Corriere della Sera; da fuori si spiegò previamente ai cattolici che sì, avrebbero potuto anche incontrarsi, riaggregarsi, mettendo però da parte i princìpi non negoziabili. Così da Todi uscì il governo Monti, e il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, a cui era stata promessa l’Istruzione, lasciò un incarico assai prestigioso per scivolare nella casellina vuota dei Beni culturali: ai cattolici, i musei. Poi, alle elezioni del 2013, il ripetersi dell’operazione giolittiana del 1913 (un nuovo patto Gentiloni, che dovrebbe restare alla storia come “patto Monti-Riccardi”): i cattolici mettano pure i voti e qualche sporadico candidato, il resto lo faranno Monti e i suoi uomini. Così furono garantiti alcuni posti in parlamento ai cattolici di Scelta Civica, senza alcun disegno, se non quello altrui, a cui si doveva essere funzionali. Tanto che Monti – mentre veniva fotografato un giorno sì e uno no a Messa, con il Papa, con il cardinal Bertone… –, piazzava nel suo contenitore esponenti di mondi del tutto antitetici a quello cui chiedeva i voti, candidando financo Alessio De Giorgi, direttore di Gay.it (costretto poi a ritirarsi per non essere travolto dagli scandali legati alle attività poco edificanti dei suoi siti). Quel governo, con il ministro Elsa Fornero, colpì una delle ultime risorse della famiglia italiana, le nonne; pose le basi per la colonizzazione gender nelle scuole, e preparò la quasi scomparsa dei cattolici dal parlamento che risulterà eletto nel maggio 2013. Ricordiamo cosa accadeva a quella data. Sembrava che certe idee portate avanti per anni dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sulla vita e la famiglia, fossero completamente scomparse dalla politica. Che il disegno di legge Scalfarotto, che promette la galera a chi difenda il matrimonio tra l’uomo e la donna, e lo dica forte e chiaro, dovesse passare in un giorno d’estate, senza dibattito né in parlamento né nel paese. E ad esso sarebbero seguiti matrimoni gay, eutanasia, utero in affitto, o, come si dice ormai sempre più spesso, gestazione per altri… Rotta la diga, infatti, le acque tracimano da ogni parte. Ma contro l’aspettativa dei più, è accaduto qualcosa. I processi storici sono lunghi, ma, come la valanga che cresce, inesorabili. Ci vogliono dei Davide che sfidino Golia, e la partita si riapre. La legge Scalfarotto si arenò grazie a una pattuglia di coraggiosi e tenaci: Eugenia Roccella, Carlo Giovanardi, Alessandro Pagano…Mentre costoro arginavano la frana, mentre la nuova e crescente realtà dei Giuristi per la vita faceva rinascere la voce del diritto naturale, sorgevano, in sordina, la Manif Pour tous Italia, e da un piccolo gruppo di persone al di fuori della politica e delle associazioni, Le sentinelle in piedi: un fenomeno associazionistico spontaneo, leggero, dal basso, non di semplice protesta, ma di ricostruzione e di educazione. Non contro qualcuno, ma per testimoniare pubblicamente che vi sono dei beni di tutti da difendere e da promuovere. Qualcuno ricorda il 2005? Un mondo di cattolici ma anche di laici, come Giuliano Ferrara, di medici, giuristi, lavoratori, giornalisti… costretto alla sfida referendaria, produsse in pochi mesi una quantità incredibile di incontri sul territorio, di libri, testimonianze e persino una vittoria referendaria quasi miracolosa, che certamente avrebbe dovuto servire da punto di partenza, e non di arrivo. Nonostante l’avversità di gran parte dei partiti e dei media. Qualcosa di simile sta riaccadendo? È tutto un pullulare di associazioni e iniziative: Manif, Sentinelle, il mensile Notizie pro Vita, la nascita di Vita è, di Articolo 26 contro l’imposizione del gender nelle scuole, di Nonni 2.0, Sì alla famiglia, la Festa della famiglia naturale istituita in Veneto dalla consigliera leghista Arianna Lazzarini…, fino alla nascita di un quotidiano cartaceo come La Croce di Mario Adinolfi. Là dove sembrava non crescesse più erba, il risvegliarsi di forze assopite, e in gran parte, di forze nuove. Con bella novità: la capacità di parlarsi, di allearsi, di intraprendere un percorso comune, al di là delle differenti provenienze. In nome di valori universalmente condivisibili: non è la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, all’articolo 16, a dichiarare che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato»?

In Parlamento le caste e le lobbies vanno per farsi le leggi. Scalfarotto: "Io, primo gay dichiarato al governo, chissà ora Giovanardi cosa farà..." Il neo sottosegretario: spero di essere stato scelto per i miei meriti, io non mi considero un gay professionale, scrive Concetto Vecchio su "La Repubblica" il 1 marzo 2014.

Sottosegretario Scalfarotto!

"Sto andando a giurare".

È vero che Renzi l'avrebbe inserita nella lista solo per dare un dispiacere a Giovanardi?

"Oddio, dice sul serio?"

Così pare. Galeotto fu l'ultimo attacco.

"Ma quello per cui "se io diventavo sottosegretario cadeva il governo"?".

Quello lì.

"Pensa! Io non gli avevo mica dato importanza. Il solito Giovanardi esorbitante, poco elegante".

Eppure deve dirgli quasi grazie.

"Giovanardi è tecnicamente monomaniaco: parla solo di droghe, Ustica, gay.

(Improvvisamente dubbioso).

Però voglio sperare che Renzi mi abbia scelto anche per altre ragioni".

Ma sicuro, la stima molto.

"E io sono onorato, è una grande responsabilità".

E come l'ha saputo?

"Da Maria Elena Boschi. Mi ha mandato un messaggio: "Lavorerai con me"".

Non avrebbe preferito occuparsi di diritti civili?

"Ma io non mi considero un gay professionale. Occuparmi del titolo V mi appassiona moltissimo: le riforme saranno cruciali".

Franco Grillini però ha fatto notare che lei è il primo gay dichiarato al governo.

"E un po' ha ragione. Come sorprendersi per la prima donna ministro della Difesa, il primo ministro di colore, siamo una società più lenta di altre, ma stiamo evolvendo".

Perché la Barracciu indagata in Sardegna e Gentile sospettato di pressioni sui giornalisti in Calabria?

"Non so, non mi sono noti i processi decisionali, sono persone che non conosco, quindi non mi sembra elegante commentare".

L’ipocrisia linguistica sulle unioni civili gay. Sia i favorevoli sia i contrari si nascondono dietro parole inglesi (stepchild adoption) o strani giri di parole oscure. Matrimonio non si può dire? Chiamiamolo «gaytrimonio», scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” del 20 gennaio 2016. Tutto gira intorno a una parola: matrimonio, guai a chi lo bestemmia. Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilingua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessuali, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituzionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchini sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali? Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolismo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatamente definita (articolo 1) come «specifica formazione sociale». Ma da quale specie si è specializzata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Appellativo chilometrico, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso. Negli anni Settanta fu la volta della legge sull’aborto (n. 194 del 1978), dove si parla di contraccettivi. E come vengono denominati? «Mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile». Prova a chiederne una confezione al farmacista, bene che vada ne otterrai in cambio qualche pasticca contro l’emicrania. E a proposito di procreazione, di figli, di figliastri. L’istituto maggiormente divisivo, la norma che può incendiare il Parlamento, consiste per l’appunto nell’adozione del figliastro, ossia del figlio naturale del partner. Siccome il fumo dell’incendio s’avvertiva già nell’aria, i difensori della legge hanno provato a battezzare l’istituto stepchild adoption, confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei loro oppositori. Niente da fare, qualche oscuro interprete deve averli smascherati. Allora hanno scritto la norma in lettere ostrogote. Occultandola nell’articolo 5, intitolato «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184», che s’apre con queste parole: «All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge…». Un altro buco nell’acqua, li avrà traditi qualche esperto di lingue orientali. L’ultima risorsa, a quanto pare, consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciuto al nostro ordinamento. Più che una norma, un aperitivo. Tre secoli fa Ludovico Muratori (Dei difetti della giurisprudenza) puntava l’indice contro le oscurità legislative, denunziando un vizio etico, prima ancora che giuridico. Aveva ragione: l’ipocrisia verbale, oggi come allora, è il cancro dei nostri costumi nazionali, e non soltanto nella sfera del diritto. Mentre l’uso di «parole precise» comporta un impegno d’onestà, come ha osservato in ultimo Gianrico Carofiglio. D’altronde, in caso contrario, resta impossibile lo stesso confronto delle idee. Dovrebbero saperlo proprio i politici cattolici, che in questi giorni si stanno dando un gran daffare per edulcorare il testo della legge sulle unioni civili, per annacquarne le parole. «Sia il vostro dire: sì sì, no no; il di più viene dal maligno», recita la massima evangelica (Matteo, 5, 37). Ma c’è sempre un di più, c’è sempre un aggettivo accozzato alla rinfusa al solo scopo di confondere le menti, nel linguaggio col quale ci governano i politici italiani. Oppure c’è un tabù, in questo caso il matrimonio gay. Chiamiamolo «gaytrimonio», e non ne parliamo più. 

Manifesto blasfemo su Gesù: ma il giudice grazia l'Arcigay. Chiesta l'archiviazione per il manifesto che promuoveva una festa al Cassero di Bologna. Uomini travestiti da Gesù mimavano pratiche sessuali con una grossa croce, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 3/03/2017, su "Il Giornale". Era tutto uno scherzo. Una semplice burla in cui tre uomini vestiti da Gesù e due ladroni (con tanto di corona di spine) mimavano pratiche sessuali con una grossa croce infilata nel didietro. Blasfemia? Vilipendio? Offesa alla religione e ai tanti cristiani italiani? Macché: per il pm di Bologna il caso è da archiviare. E tanti saluti alle proteste contro l'Arcigay. Riavvolgiamo il nastro. Nel marzo del 2015 esplose un'enorme polemica a Bologna dopo che il Cassero, storico il circolo omosessuale legato all'Arcigay e "convenzionato" con il Comune, pubblicò sulla sua pagina Facebook una locandina per pubblicizzare la serata "Venerdì credici". Immagini di dubbio gusto, e che moltissimi considerarono offensive e fuori luogo. I consiglieri comunali Valentina Castaldini (Ncd), Marco Lisei (Fi) e il capogruppo alla Regione di Forza Italia, Galeazzo Bignami, presentarono un esposto in procura. Il procuratore aggiunto, Valter Giovannini, disse che avrebbe valutato le denunce "con attenzione". Ma ieri il pm Morena Plazzi ha archivato il tutto. La motivazione? Secondo la toga, quell'immagine non si tratta di vilipendio ma "espressione, in forme certo criticabili per la qualità dei contenuti umoristico-satirici, delle istanze culturali e sociali promosse dall'associazione". Uno scherzo, insomma. Solo una burla. Eppure l'Arcigay non la presentò come un vignetta ironica, spiegando che alcuni avevano deciso di "dissacrare o irridere un simbolo religioso": "Il conflitto tra comunità Lgbt e la parte politicizzata dei cattolici - disse il Cassero - preesiste alla nostra festa e alle famigerate immagini, questo è un dato indispensabile per comprendere perchè una persona omosessuale decida di dissacrare o irridere un simbolo religioso. Quel gesto rappresenta una liberazione rispetto a un simbolo che quelle persone percepiscono come oppressivo". Liberazione, dicono. Ma da cosa? L'allora Vescovo di Bologna, Carlo Caffarra, definì la locandina gay "libertà d'insulto" preludio della "fine delle democrazia". Aveva ragione lui. Infatti ciò che sorprende è come le associazioni gay, sempre pronte a gridre all'omofobia contro qualsiasi opinione non conforme al loro pensiero, non usino lo stesso metro di misura su immagini che potrebbero essere definite "cristianofobe". Immaginate una festa della parrocchia sul tema dell'amore etero pubblicizzata con una locandina in cui i fedeli deridono una coppia gay. Cosa farebbero le associazioni omo? Parlerebbero di omofobia. Ovvio. Per fare un esempio, nel 2015, Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center della Capitale, disse che i manifesti anti-utero in affitto affissi a Roma inducevano "all'omofobia". Stessa storia con l'islam. "Se una cosa simile fosse stata fatta noi deridendo la religione islamica o la comunità musulmana - attacca Galeazzo Bignami - ci avrebbero buttato in galere gettando le chiavi, indicendo manifestazioni di solidarietà per loro e organizzando presidi contro la xenofobia e l'intolleranza. Ma visto che si colpiscono i valori Cristiani e i cattolici tutto è consentito". Ecco: questa disparità di trattamento è la morte della democrazia di cui parlava Caffarra. Ovvero la libertà di insulto a senso unico.

Arci intelligenti! Scrive Alessandro Bertirotti il 6 marzo 2017 su "Il Giornale". È tutta questione di… male-essere. Cercherò di scrivere l’essenziale, di fronte a questa notizia, perché penso che, volendo, potremmo discuterne quasi all’infinito. Ciò che non riesco ancora a comprendere, e mi scuso per la mia debole intelligenza, specialmente di fronte a tanta arguzia Arcigay, è la motivazione che porta alcune persone a sentire la necessità di organizzare cose così determinanti per il benessere del Paese, e il suo progresso evolutivo. La satira, e lo abbiamo visto ampiamente in questi ultimi tempi, può sconfinare facilmente nella blasfemia, come nell’arroganza, o nella pretestuosità, ma non si considera sufficientemente che la satira stessa può essere completamente inutile, ossia può rappresentare qualcosa di cui si può fare tranquillamente a meno. Insomma, qualche cosa senza della quale si può vivere tranquillamente e serenamente. Io insegno ai miei studenti di design che il valore antropologico di un atto creativo risiede nella sua possibilità di colmare un vuoto con un nuovo significato, grazie al quale si può migliorare l’evoluzione della specie. Bene, se ammettiamo che sia così – cosa che evidentemente alcuni signori come quelli citati nella notizia invece non ammettono affatto -, questo tipo di iniziative, comprese quelle del magistrato, non fanno altro che dimostrare il baratro di senso all’interno del quale stiamo tutti precipitando. Non vorrei che, in realtà, si continuasse a cadere senza che nessuno ci avverta che lo stiamo facendo quotidianamente.

La vittoria del pasticciere che rifiutò la torta ai gay. Per i giudici non ha discriminato ma ha solo detto "No" a un messaggio che non condivideva, scrive Giovedì 11/10/2018 su "Il Giornale". La Corte suprema britannica si è pronunciata a favore di una pasticceria dell'Irlanda del Nord, gestita da una famiglia cattolica osservante, che si era rifiutata di preparare una torta nuziale per un matrimonio gay. Con una decisione unanime, la più alta Corte britannica ha ribaltato la precedente sentenza che aveva giudicato la «Ashers Baking Company» colpevole di discriminazione. La famiglia McArthur, proprietaria della pasticceria, aveva avanzato le proprie convinzioni personali per annullare un ordine fatto nel giugno 2014 dal militante pro gay, Gareth Lee. L'ordine prevedeva che la torta fosse decorata con una replica in frangipane di Ernest e Bart, i personaggi dei Muppets, adornati con lo slogan: «Sostieni il matrimonio gay». Ma Daniel McArthur, direttore della compagnia di sei pasticcerie che impiega circa 80 persone, ha spiegato che l'ordine era «contrario» alle credenze della sua famiglia e agli «insegnamenti biblici». Aveva deciso quindi non rifiutarlo. «È profondamente umiliante e contrario alla dignità umana rifiutare un servizio a una persona a causa della sua razza, sesso, disabilità, orientamento sessuale, religione o convinzioni», ha affermato il giudice della Corte suprema, Brenda Hale. «Ma non è quello che è successo in questo caso», ha aggiunto spiegando che i pasticcieri «non si sono rifiutati di eseguire» l'ordine a causa dell'orientamento sessuale di Lee, ma a causa della natura del messaggio. «I pasticcieri non avrebbero avuto il diritto di rifiutare di fornire i loro prodotti al signor Lee perché è omosessuale o perché sostiene il matrimonio omosessuale, ma è molto diverso costringerli a fornire un dolce con un messaggio con cui sono in profondo disaccordo», ha dichiarato. La decisione è stata accolta come una «vittoria per la libertà di espressione» da Peter Tatchell, uno dei principali attivisti britannici per i diritti degli omosessuali. «Sebbene io sia fortemente in disaccordo con l'opposizione (della famiglia McArthur) all'uguaglianza del matrimonio, in una società libera, né loro né nessuno dovrebbero essere costretto a sostenere un'idea politica a cui è contrario», ha scritto in una dichiarazione. Secondo l'attivista, la sentenza apre anche alla possibilità per le aziende di «rifiutarsi» di «trasmettere un messaggio politico che non condividono. Ciò include il diritto di rifiutare messaggi sessisti, xenofobi o razzisti».

MEDIA. PROPAGANDA E PROSELITISMO GAY.

La bella, la bestia, il gay Maurizio Acerbi l'8 marzo 2017 su "Il Giornale". Ricapitoliamo. La settimana scorsa, il regista dell’imminente (nelle sale) La bella e la bestia, Bill Condon, rilascia un’intervista a Matt Cain, del magazine Attitude, rivelando, a proposito del personaggio di LeTont: «È una persona che un giorno vuole essere Gaston e il giorno dopo vorrebbe baciare Gaston. È un personaggio che non sa ciò che vuole e che si è appena reso conto di provare questi sentimenti. E Josh Gad lo interpreta in modo sottile, delizioso, rendendolo magico e bello. Non voglio svelare nulla, ma alla fine ci sarà la prima scena gay in un film Disney». Ovviamente, notizia non passata inosservata, tanto da scatenare, soprattutto che in Russia, in un primo momento, avevano pensato di non proiettare il film. Il deputato Vitaly Milnow aveva scritto una lettera al ministro della cultura Vladimir Medinsky chiedendo di prendere posizione contro il film di Disney. “Una vergognosa propaganda di relazioni peccaminose e pervertite mascherata da favola per bambini”, scrive Milnow. “Sono convinto che lo Stato debba proteggere i bambini dalle brutture del mondo – continua il deputato – preservando la loro purezza e tenendoli lontani da questi pericolosi fenomeni”. E conclude: “Il nostro compito è tenere lontano il film dagli schermi. ‘La bella e la bestia‘ deve essere vietato. La risposta di Medinsky sembrava non escludere questa possibilità: “Appena avremo delle copie della pellicola le esamineremo e valuteremo il da farsi in base alla legge”. Invece, poi, il funzionario del governo Vyacheslav Telnov, che dirige l’unità cinematografica del Ministero della Cultura, ha fatto sapere che il film ha ottenuto il via libera da parte delle autorità locali. “Daremo la licenza di distribuzione cinematografica senza problemi. L’età minima è 16 anni.” che rappresenta una scelta importante tenendo conto il target infantile di riferimento. Perfetto, ma cosa si vedrà mai di così scandaloso in quella prima scena gay? Principi azzurri che baciano altri principi azzurri? Dichiarazioni d’amore? Niente. All’anteprima di ieri sera, mi sono confrontato con altri colleghi perché, magari, mi era sfuggita questa famosa scena, ottenendo, però, uguale conforto. L’unico particolare, ma è una supposizione che abbiamo fatto, è una canzone nella quale LeTont balla e ancheggia (fin troppo caricaturale) e che finisce con lui che abbraccia da dietro il suo Gaston. Il quale si gira e lo guarda perplesso con LeTont che con occhi da cerbiatto gli domanda: “Un po’ troppo?”.  Tra l’altro, ad un certo punto, domandano a LeTont: “Perchè non hai una donna?” e lui, invece di fare coming out e giustificare il peso dell’operazione, risponde “Perchè sono appiccicoso”. Appiccicoso? Insomma, l’utilizzo cripto-gay, detto-non detto, che si fa di LeTont nel film, non avvalora, secondo me, lo sbandierare fatto nell’intervista. E quindi? Sul finire del cartone del 1991, dal quale il film è tratto, Guardaroba veste, durante il combattimento, un avversario da donna. Il quale, terrorizzato, fugge via. Nel live action, invece, gli uomini che si ritrovano in panni femminili sono tre e uno di questi apprezza gli abiti. Tanto che nel ballo finale, mentre LeTont danza con una donna, avviene uno scambio di coppie e il fido scudiero di Gaston si ritrova a ballare, mano nella mano, proprio con il ragazzo di cui sopra. Il tutto dura un secondo, ma lo sguardo tra i due è compiaciuto. Il vero rischio è che si finirà per mettere sotto silenzio l’unica cosa che conti: il film, a mio modesto parere, è di una noia mortale, soporifero. Sciapo come certi piatti da all you can eat: belli fuori, insapori dentro. Con buona pace di Walt.

Baci lesbo a I bastardi di Pizzofalcone, esplode la polemica. Gassmann: "Porta bene", scrive ADNKronos il 3/02/2017. "È troppo se chiediamo alla Rai di Campo dell’Orto di tenere la propaganda della sessualità libera, sia essa etero o omo, fuori dalla prima serata? È proprio necessario che in qualsiasi trasmissione, sia un talk show, un festival canoro, una produzione di Rai Fiction quale che ne sia il genere, commedia o poliziesco, debba contenere scene esplicite di sesso omosessuale?". A chiederselo è Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Area popolare. "La signora che ha scritto ad Avvenire denunciando la gratuita, non giustificata cioè dall’intreccio narrativo, scena di sesso tra due donne che ha scandalizzato sua figlia nella puntata del 23 gennaio della serie 'I bastardi di Pizzofalcone' ha ragione da vendere - ha detto Lupi - A quell’ora i bambini davanti alla televisione sono tanti. Fino a quando noi cattolici, ma chiunque ancora creda nella funzione educativa della famiglia, dovremo finanziare con il nostro canone l’incontinenza visiva e le pulsioni ideologiche e non solo di registi e autori pagati con il denaro pubblico?". "Non si tratta di essere bacchettoni - ha precisato - Ho difeso con forza la fiction sul commissario Rocco Schiavone da strumentali attacchi moralisti perché aveva una sua ragion d’essere e una sua coerenza narrativa che in questo caso sono assolutamente irrintracciabili. Rai 1 ha una sua immagine e una sua tradizione, a torto o a ragione è ancora considerata una rete per famiglie. Su questo episodio faremo un’interrogazione in Commissione di vigilanza Rai". Lupi ieri ha annunciato l'invio di una "lettera al presidente della Vigilanza perché il direttore di rete di Rai 1 venga convocato quanto prima per una audizione". Alessandro Gassmann, intanto, ha postato su Twitter: "Voglio ringraziare l'Avvenire per la polemica sulle scene lesbo di Pizzofalcone! Portano bene! A lunedì!!".

I migliori coming out da Supergirl a Grey’s Anatomy e Pretty Little Liars: le 5 coppie lesbiche più amate delle serie tv. Il coming out in Supergirl 2 apre ad una serie di riflessioni e ad una classifica che mette insieme le coppie lesbiche più amate della tv, scrive il 14 novembre 2016 Piera Scalise. Da Supergirl a Orphan Black, da Grey’s Anatomy a Pretty Little Liars: baci omosessuali, coming out, amore lesbo, sono ormai termini entrati di diritto nel nostro linguaggio e nella nostra vita quotidiana. Chi segue le serie tv sa bene che anche il mondo della serialità da sempre ha avuto le sue pioniere nella lotta ai diritti civili e proprio per questo abbiamo voluto stilare una piccola classifica per mettere insieme le cinque lesbiche più amate delle serie tv. L’idea è arrivata soprattutto dopo l’ennesima rivelazione che arriva da oltreoceano e che riguarda Supergirl 2. Era da un po’ che si vociferava su un possibile coming out nella serie tv The CW ma proprio in queste ore è arrivata quella che sembra essere una piccola conferma. Stiamo parlando di Alex (il personaggio interpretato da Chyler Leigh), sorella di Kara (Melissa Benoist), e del suo conflitto vissuto in questi primi episodi della nuova stagione. Alex ha avuto modo di conoscere Maggie e proprio grazie a lei è riuscita a farsi qualche domanda in più sulla sua sessualità Lo stesso papà della serie, Kreisberg, ha voluto sottolineare il fatto che qualcosa sta per succedere e che l’episodio 2×06 porterà con sé un momento di svolta. Vista l’incertezza del momento, abbiamo deciso di lasciarla fuori dalla nostra mitica classifica che non possiamo non aprire con Orphan Black. Cosima e Delphine si fanno amare “nella buona e nella cattiva sorte” e lo hanno fatto da quel primo momento all’università mettendo in scena un esempio di quell’amore che non muore e che riesce a superare ogni ostacolo e problema. Le due sono passate oltre i pregiudizi, una sparatoria e la malattia di Cosima, chi o cosa potrebbe mai dividerle? Per il quarto posto abbiamo scelto l’amore a sorpresa (non per i telespettatori) di Piper ed Alex in Orange is The New Black. Le detenute più note del mondo delle serie tv ci hanno messo un po’ prima di lasciarsi andare all’evidenza ma poi anche per loro sono arrivate le prime complicazioni (vedi il tradimento di Piper) e il conseguente raffreddamento del loro rapporto, almeno in teoria. Non sappiamo come andrà a finire tra di loro ma quello che è certo è che hanno insegnato a tutti che quello che prevale è il benessere personale e la voglia di seguire i propri istinti senza rimanere ingabbiati in limiti e preconcetti. Dobbiamo dire la verità, per il podio ci abbiamo pensato un po’ sicuri solo che il primo posto non poteva che essere per due dei personaggi più amati delle serie tv. Ma andiamo per ordine iniziando dalla medaglia d’argento sperando di non essere linciati. Sul podio più basso non possiamo che posizionare The 100 e una delle coppie più amate e che fa discutere i fan in tutto il mondo: le Clexa, ovvero Lexa e Clarke. Il loro amore non ha avuto una lunga durata per via del sacrificio di Lexa a favore della sua gente, ma alcuni fan sperano ancora che qualcosa possa cambiare. Sarà davvero così? Una coppia che sicuramente ha fatto sognare in molti e che ha ottenuto il nostro secondo posto è quella formata dalle Emison, ovvero Emily ed Alison di Pretty Little Liars. La loro storia non ha mai avuto un vero e proprio momento stabile ma i loro sguardi, le loro carezze e la loro alchimia ha conquistato i fan sin dalla prima stagione. Tra alti e bassi, situazioni tragiche e momenti clou, le due si stanno avviando verso il gran finale. Se Emily ha ormai raggiunto la consapevolezza di essere lesbica, anche Alison alla fine metterà da parte la maschera dell’ambiguità? Alti e bassi, scossoni, matrimoni e tradimenti anche per la coppia regina della nostra classifica ovvero quella formata dalle Calzona, Callie e Arizona di Grey’s Anatomy. Le due sono sempre riuscite a risorgere dalle ceneri almeno fino a che non è arrivata la guerra con tanto di divorzio e sentenza di affidamento. Siamo sicuri che le due non torneranno ad essere la coppia che abbiamo sempre amato e apprezzato? 

Bud Spencer contro i media di regime: “In Italia parlano di te solo se sei comunista o frocio”, scrive Alvise Losi su Libero Quotidiano il 30 giugno 2016 il giorno del funerale di Carlo Pedersoli (Napoli, 31 ottobre 1929 - Roma. 27 giugno 2016). Bud prima era stato sempre riservato. Anche se il suo pensiero aveva avuto modo di esprimerlo in diverse occasioni, come a una conferenza, quando a un ragazzo che rivendicava di essere ateo rispondeva con intelligenza: «Non esiste al mondo un uomo o una donna che non abbia bisogno di credere in qualche cosa: tu credi che Dio non esista, quindi credi in qualche cosa». Altro che sganassoni e frasi da contrabbandiere perdigiorno: Bud era ben diverso dai personaggi dei suoi film. «È il signore che vi manda», gli dice fiducioso il mormone Tobia in Lo chiamavano Trinità. «No, passavamo di qui per caso», risponde sincero nei panni di Bambino. Niente di più lontano da quello che Bud pensava. «Ho bisogno di credere perché, nonostante il mio peso, mi sento piccolo di fronte a quello che c’ è intorno a me. Se non credo sono fregato». E in un’intervista aveva persino scherzato sulla sua scomparsa. «Quando il Padreterno mi chiamerà voglio vedere che succede, e se non succede niente allora mi incazzo». E lo avrebbe fatto a modo suo naturalmente. Ma il Bud che tanti hanno amato e amano era lo stesso che a volte si lasciava andare a frasi al limite del politicamente corretto. A chi gli chiedeva come mai la critica italiana lo celebrasse poco, a differenza di quanto accadeva in altri Paesi, l’ormai 80enne Pedersoli diceva «forse perché non sono né gay né trans e ho la stessa moglie da cinquant’ anni». Pensiero che aveva anche ribadito per spiegare come mai la sua biografia Altrimenti mi arrabbio fosse un best seller in Germania, ma un mezzo flop in Italia. «Qui parlano di te solo se sei frocio o comunista», sottolineava, senza paura di essere criticato. «Intendiamoci, non ho niente contro i gay. Quello che fa la persona che ho davanti in camera da letto non sono affari miei. Quando ci parlo, il pensiero delle sue abitudini sessuali non mi sfiora neanche lontanamente. Siamo liberi, puoi fare tutto quello che vuoi». Non a caso amava ricordare, da napoletano verace, che la sua regola di vita fosse «Futtetenne». E nessuno ha interpretato nella vita quella finta indifferenza, quella capacità di ridere sempre sulle cose, quel «vivi e lascia vivere» con la stessa grandezza di Bud. 

Il Festival di Sanremo gay con Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. Il 67° Festival della musica italiana che si terrà a Sanremo dal 7 all’11 febbraio si appresta ad essere il festival più gay di sempre. Condotto da Carlo Conti e Maria De Filippi, ideatrice del “Trono Gay” e nota sostenitrice della causa LGBT, il festival avrà infatti come super ospiti tre “big” della propaganda gay come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. I tre cantanti negli ultimi tempi hanno infatti fatto parlare di sé più, conquistando le copertine di riviste e quotidiani, per le proprie dichiarazioni sul tema dell’omosessualità che per le proprie prestazioni canore. Dopo i cartelloni gay e i braccialetti arcobaleno delle passate edizioni prepariamoci dunque ad un altro Festival in cui si salirà sul palco la “bellezza” e la “normalità” omosessuale attraverso tre icone del mondo LGBT come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro.

Adinolfi contro la "Gaystapo" sanremese: "Non voglio pagare il canone per l'utero in affitto di Tiziano Ferro". Il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, accusa Carlo Conti di utilizzare la tv pubblica per promuovere l'ideologia gender: tra gli ospiti su cui punta il dito Tiziano Ferro e Ricky Martin, scrive Maria Elena Pistuddi il 18 gennaio 2017. Non bastava la polemica sui feti che cantano ad agitare le notti di Carlo Conti, anche quest'anno conduttore e direttore artistico del Festival della canzone italiana. A rendere il clima "sanremese" più frizzante del solito ci ha pensato il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi, che si è scagliato contro il conduttore toscano, reo secondo lui di considerare la kermesse una sorta di "Momento di propaganda gay". Il conduttore del quotidiano "La Croce", non nuovo a questo tipo di accuse, già l’11 gennaio scorso, dopo la conferenza stampa del Festival di Sanremo 2017, aveva espresso il suo disappunto sulla presenza al festival di artisti come Tiziano Ferro e Ricky Martin. Il suo intervento a gamba tesa su Carlo Conti recava il titolo "A Sanremo il gotha dei locatori di uteri". Adinoldi aveva poi argomentao: "Al festival di Sanremo del 2015 pagammo come famiglie italiane il supercachet da ospite straniero a tal Conchita Wurst, tizio poi sparito completamente dai radar e sfido chiunque a citarmi il titolo di una "sua" canzone. L’unico motivo per cui fu invitato fu il suo essere icona gender, uomo con la barba in abito da donna". Poi proseguiva: "Il festival 2016 ci regalò l’accoppiata omo-etero di testimonial dell’utero in affitto: Elton John e Nicole Kidman furono i due superospiti stranieri che prosciugarono il budget, sempre gentilmente pagato dalle famiglie italiane, di un’edizione che passò alla storia per l’obbligatorio nastrino arcobaleno distribuito dai dirigenti Rai ai cantanti a sostegno della lobby lgbt, in pieno dibattito sulla legge sulle unioni gay". Nel suo lungo post-accusa, Adinolfi si sofferma sugli ospiti della prossima edizione della kermesse canora e spara a zero. "Ora si torna al teatro Ariston e il supercachet come famiglie italiane dobbiamo pagarlo a Tiziano Ferro che deve comprarsi un figlio da un’americana che lo partorirà, a Ricky Martin che se ne è già comprati un paio, a Mika che almeno nel suo one man show su Raidue candidamente ammetteva “sono omosessuale, non posso diventare padre”. Il post si chiudeva con una minaccia velata: "Propagandare in Italia la pratica dell’utero in affitto, anche solo pubblicizzarla, è reato passibile di due anni di carcere e un milione di euro di multa. Caro Carlo, tienilo come promemoria". Le accuse sono proseguite nel corso di un'intervista rilasciata a Radio Cusano. Dove il giornalista ha parlato, sempre riferendosi a Sanremo, di "Gaystapo". In questo contesto di polemiche sui gusti sessuali dei futuri ospiti del Festival della canzone italiana si inserisce il coming out di Michele Bravi, vincitore di X Factor nel 2013 e in gara tra i big, che ha affidato a una intervista a "Vanity Fair" il racconto del suo primo amore con un uomo. Con la premessa che non "bisogno di fare coming out perché nessun giovane si stupisce che mi sia innamorato di un ragazzo, e penso che nessuno dei miei coetanei si tirerebbe indietro se gli capitasse di provare un’emozione per una persona dello stesso sesso”. Bravi nella lunga intervista parla di una bellissima storia d'amore con un ragazzo che fa il regista e la definisce "perfetta e bellissima" anche se "ti mancano le regole del gioco e quando le impari spesso è troppo tardi". Parole dolcissime e cariche di significato che si spera non finiscano per innescare nuove polemiche. Sanremo, d'altronde, a questo ci ha abituato. 

Mika: prima dell'esibizione del 9 febbraio 2017 a Sanremo che sconfina nel musical, in cui dialoga con l’orchestra giocando a interpretarne in fraseggi, l’artista anglo-libanese lancia il suo messaggio arcobaleno, a favore delle diversità. “Se qualcuno non vuole accettare tutti i colori del mondo e pensa che un colore è migliore e deve avere più diritti di un altro o che un arcobaleno è pericoloso perché rappresenta tutti i colori… Beh, peggio per lui. Questo qualcuno lo lasciamo senza musica”, sottolinea, suggellando un festival che si conferma gay-friendly anche quest’anno.

Mi dimetto da frocio! Scrive Nino Spirlì, Giovedì 9 febbraio 2017, su "Il Giornale".  E basta! Si chiude, seppur con dispiacere, un capitolo durato – gloriosamente – 35 anni. Da quella prima volta in caserma, nel cuore delle nebbie delle Langhe, fino a qualche ora fa. Ma, veramente, giuro!, ne ho piene le balle di questa catasta di “frocetti” che sta subissando, se non l’Umanità intera, almeno la nostra Identità. Son troppi e troppo esagerati. Esasperano tutto: dall’immagine esteriore alla qualità della propria anima. Si sono talmente spinti oltre ogni plausibile confine, che non sanno più da dove siano partiti e perché. Facce di gomma, culi di silicone, sguardi da gatti infuriati. Spiumati più di un’oca da cuscino, ma muscolosi quanto e più di Rambo e Rocky shakerati insieme, seppur bigolodipendenti; oppure bugiardamente barbuti e pur sempre con la mente calamitata da ogni patta incrociata nella metro; argentini nei guizzi vocali come sigaraie da tabarin e apparecchiati come troie da saloon, anche fra i banchetti del mercatino rionale. Scemi e ignoranti, imitano le dee, ma non ne conoscono il nome e le virtù. Gusci vuoti di vite buttate. Eppur presenti in ogni dove: dagli altari, infettati dalle foie di frustrati altrimenti senza futuro, fino alle cattedre delle scuole, minati dalle false teorie su un genere che spezza la Natura e forza la Società. Presenti, e celebrati da altrettanti ignoranti “padroni di casa”, nei salotti mediatici e nelle piazze dell’Arte, dove la Chiamata perde il contatto col Divino e diventa un bercio stridulo di pretesa attenzione. Travestiti da manager d’industria, funzionari statali, mercanti, artigiani… In uniforme, in camice, in tuta… Froci per convenienza, per moda, per carrierismo, per curiosità, per assuefazione, per rabbia. Per ignavia. Sfrontati, arroganti, pretenziosi, volgari, razzisti ed eterofobi. Garantiti dal Potere, che li teme. Ingrassati dalla politica, che ne patisce i ricatti. Coccolati da vecchie puttane ingioiellate e ripulite dalla fede al dito; tutelati da leggi zoppe quanto il gatto e la volpe di collodiana memoria; accontentati nei sacramenti e nelle onorificenze. Padroni di un mondo che cambia dignità come fosse una mutanda pisciata di notte, pontificano e dispongono. Vomitano nuovi dogmi che la strada patisce ed accetta, preoccupata di non farsi crocifiggere, da una stampa impastata con inchiostro a sette colori e banalità, su quella cosa che non è cosa e che molti chiamano teoria del gender. Ma che, poi, tacciono quando, invece, dovrebbero denunciare i martirii patiti da quelli come noi che muoiono, massacrati nei paesi islamici, nei paesi a regime comunista, in mezza africa, negli abissi dell’estremo oriente. Ecco, io non ci sto ad ingrossare le fila di questi frocetti da commedia americana! Volevo essere ricchione alla vecchia maniera, io! E, dunque, mi ritiro! Volevo, sì, essere ricchione senza “matrimonio”; senza figli da consegnare al pubblico ludibrio, in un mondo che non è ancora pronto a cotanta provocazione; senza l’assurda pretesa di cancellare la bellezza della Santità del Padre e della Madre, non solo fra le calde mura domestiche, ma anche su un rigoroso certificato di nascita; senza la pietosa bugia che siamo tutti un po’ omosessuali, in fondo. Perché non è così! No, mondo! Non ci sto più! Mi fermo. Mi sposto in un angolo. E non sono più frocio. Non consumo più, né atti, né sentimenti. Per rispetto. A me, ad un Lui, ad una Lei. Al Cielo e alla Terra. Tornerò quando l’ultimo dei mentitori avrà ritrovato il buco dal quale è uscito e si sarà dileguato in quell’abisso dal quale qualcuno, scaltro e malfattore, lo ha convinto ad uscire per interpretare la commedia. La tragica commedia della morte della Dignità Umana. Fra me e me. 

Strategie di Comunicazione. Ecco le tecniche segrete usate dagli artisti per promuoversi sui media, far parlare di loro giornali e tv ed aumentare le vendite delle loro opere, scrive il 26 gennaio 2017 Michele Rampino Fondatore di ComunicatiStampa.net. (Questo articolo ha un puro scopo didattico riguardo le tecniche Pr usate dagli artisti per promuoversi e non vuole essere un giudizio sui comportamenti e sulla vita degli artisti menzionati). In questo articolo scoprirai la tecniche di pubbliche relazioni segrete che i cosiddetti “Vip” usano per promuoversi sui media, far parlare tutti di loro per rimanere sulla cresta dell’onda, e far decollare le vendite delle loro opere. Lo scorso dicembre, quasi sotto Natale, verso sera, stavo rientrando a casa in auto e stavo ascoltando il giornale radio quando all’improvviso una notizia cattura la mia attenzione: Tiziano Ferro dichiara di vivere negli Usa perché dice di volere un figlio con l’utero preso in affitto da una donna. Ora, se segui un po’ le cronache saprai che Tiziano Ferro ha dichiarato la propria omosessualità già da qualche anno ormai e, da uomo o donna di mondo quale sei, sicuramente questa cosa non ti fa più né caldo e né freddo. Saprai però che l’argomento “utero in affitto” è un tema molto caldo, che fa molto discutere sia nel nostro paese che nel resto del mondo (sono molti infatti coloro che si domandano e dibattono sul fatto se sia etico e giusto “creare” un figlio in provetta per poi farlo crescere in un utero affittato da una terza donna per la gestazione, rivendicandone infine la paternità alla nascita). Ascoltata la notizia comincio a riflettere sul fatto che, qualche giorno prima, mi pareva di aver ascoltato proprio un nuovo brano di Tiziano Ferro in radio e dato che sono del mestiere ecco che mi si accende una lampadina: “Vuoi vedere che…”.

Arrivato a casa parcheggio, prendo il cellulare, vado su Spotify (per chi non lo sapesse è un’app per ascoltare musica) per verificare il profilo di Tiziano Ferro e…bingo! Scopro che il suo ultimo album è uscito il 2 dicembre 2016, cioè solo una ventina di giorni prima della diffusione della notizia sull’utero in affitto. Sai cosa vuol dire questo?

Vuol dire che ci sono buone probabilità che la notizia controversa sul bambino da creare con l’utero in affitto è stata diffusa ad arte proprio per innescare delle polemiche e far parlare i media dell’artista. Ora, già mi pare di vedere i tuoi dubbi e le tue perplessità al riguardo ma seguimi per qualche altro minuto e ti spiegherò tutto con calma.

Rientrato a casa sono andato subito a verificare su Google i dettagli sulla notizia. Dato che l’argomento è dibattuto scopro che la dichiarazione di Tiziano Ferro, come previsto, ha creato un mare di polemiche e migliaia di articoli, oltre ad aver fatto imbestialire i “difensori della famiglia tradizionale”, con proteste, opinioni ed interviste contrastanti sui vari giornali, tv, radio e siti web. Scopro inoltre che la notizia ha avuto origine da una intervista su Vanity Fair uscita il 20 dicembre 2016, cioè solo 18 giorni dopo l’uscita dell’album. Cerco le notizie pubblicate con le parole chiave “figlio Tiziano Ferro” e mi escono fuori, dal 20 dicembre 2016 ad oggi 25 gennaio 2017, giorno in cui scrivo, ben 9.140 risultati, tra post, contenuti e notizie che online parlano dell’argomento, di cui ben 2.050 notizie pubblicate su testate giornalistiche presenti su Google News. Ti è tutto più chiaro ora? Se non lo è ti basta unire i puntini: Tiziano Ferro ha un album in uscita da promuovere, a distanza di soli 18 giorni fa uscire una intervista su Vanity Fair in cui fa delle dichiarazioni abbastanza controverse sul fatto di volere un figlio con l’utero in affitto, rispetto alle quali le reazioni erano facilmente prevedibili e….boom! Migliaia e migliaia di articoli, servizi radio e tv e post su internet che parlano di Tiziano Ferro. Facendo ricerche su Ferro scopro un’altra chicca che lo riguarda: il 6 gennaio 2017 il cantante diffonde la notizia, tramite Sky, che “si vuole sposare”, ed eccoti servito un altro bello argomento “hot” in grado di far discutere i media e far parlare mezzo paese di lui e delle sue scelte. Sono ben 4.640 gli articoli creati dal 6 al 25 gennaio, di cui ben 816 notizie presenti su Google News: un numero minore di articoli rispetto alla precedente notizia, perché ormai l’argomento “matrimonio gay” non fa più notizia come in precedenza visto che è diventata quasi una cosa comune, ma comunque un numero sempre importante, che ha continuato a tenere alta l’attenzione sull’artista. Se sei scettico sul fatto che siano tutte apparizioni mediatiche studiate ad arte per far parlare dell’artista, un particolare che dovrebbe farti riflettere è questo: Tiziano Ferro è single, per sua stessa dichiarazione. A che pro quindi la dichiarazione sullo sposarsi se non ha nemmeno un compagno?

Una dichiarazione anomala se ci rifletti bene, giustificata a rigor di logica da un solo obiettivo: parlare e far parlare di lui, ben sapendo che la cosa avrebbe tenuto accesi i riflettori sulla sua persona, guarda caso in un periodo in cui è appena uscito il disco. Se poi cerchi ancora notizie su Ferro vedrai altre notizie di gossip di una sua eventuale partecipazione a Sanremo come co-conduttore: in realtà è stato confermato che parteciperà come super ospite, altro evento che gli darà visibilità e che sta facendo e farà parlare di lui ancora per un po’. Insomma, a ben guardare pare proprio una scaletta ben studiata di dichiarazioni ed eventi lanciati ad arte per tenere sempre ben in vista l’artista nel periodo di promozione del disco. E attenzione: non sto mettendo in dubbio la veridicità delle cose dette da Tiziano Ferro. Sarà senza dubbio tutto vero quanto da lui affermato e senz’altro ci crederà al fatto di volere un figlio e di volersi sposare. Quello che sto dicendo è che ha detto e fatto cose, sulla cui veridicità ripeto non pongo dubbi, ben sapendo che avrebbero fatto parlare i media e fatto discutere di lui le persone di mezzo mondo (perché Ferro è molto famoso anche all’estero) con una scaletta di dichiarazioni e presenze ben studiata e precisa, in un periodo in cui ha bisogno di visibilità per la promozione dell’album.

Gli addetti stampa, i Pr, gli artisti più famosi e tutti gli addetti del settore conoscono molto bene queste tecniche di comunicazione. o pubbliche relazioni se preferisci, e concordano strategicamente con gli stessi artisti cosa dire e quando dirlo, con lo scopo di metterli sotto i riflettori e portarli all’attenzione del grande pubblico. Chi lavora in un ufficio stampa o nelle Pr in genere ha il preciso compito di stimolare i giornali, le tv ed il web a parlare del proprio cliente, perché nell’ambiente tutti sanno bene che più si parla sui media dell’artista e più aumentano le vendite. Questo perché la visibilità ottenuta sui media equivale ad una enorme pubblicità gratuita su centinaia di siti web, giornali, tv e radio e solitamente più è grande la polemica e più spazio le viene dedicata. E più visibilità e apparizioni sui media ottengono gli artisti e più diventano famosi, e più diventano famosi più vendite delle loro opere ottengono. Il principio della visibilità è lo stesso che fa impennare le vendite di libri e dischi alla notizia della morte di un’artista (e anche delle opere d’arte, ma qui entra in gioco anche la speculazione di quanti sperano in un valore futuro maggiore delle opere): le vendite aumentano semplicemente perché tutti i media stanno parlando di quell’artista e grazie all’ enorme visibilità molti vengono stuzzicati nella curiosità e sono portati a comprare qualcosa dell’artista di cui tutti parlano, un cd o un libro o anche solo il download di una canzone, per saperne qualcosa in più di più di lui e per conoscerlo meglio. Ricapitolando:

Più visibilità sui media = più notorietà = più vendite. Chiaro il concetto? La prossima volta che ti capita di vedere polemiche che coinvolgono artisti o professionisti facci caso, quasi sempre c’è di mezzo un’opera, un libro, un film o un album appena usciti da promuovere. Questo accade perché nell’animo umano alberga una profonda curiosità, che ci porta ad esempio a fermarci per strada per vedere due che si azzuffano. La stessa curiosità che ti fa fermare il dito durante lo zapping Tv per vedere 2 tizi che litigano o discutono animatamente. Ecco perché quasi sempre sui media trovi polemiche su tutto: le liti e le polemiche alzano gli ascolti perché attirano attenzione e sono capaci di distoglierti dalle tue cose, mettendo sotto i riflettori i protagonisti della zuffa. Calcola poi che dalle polemiche hanno tutti da guadagnarci: le tv ed i giornali producono “intrattenimento” guadagnando in cambio attenzione, visualizzazioni e click per le loro pubblicità, i lettori e gli spettatori si divertono dando sfogo alla loro curiosità ed i protagonisti della polemica ottengono pubblicità gratuita per sè e le loro opere.

Guarda caso digitando la parola “cantante” in Google News oggi vuoi sapere cosa mi compare? Tutti stanno parlando di un cantante turco che dichiara di essere il padre di Adele. Guardacaso…Che sia vero o meno i giornali di mezzo mondo stanno parlando di questo sconosciuto cantante turco, e puoi scommetterci la testa che da domani le sue quotazioni, vendite e cachet subiranno un’impennata. Capito ora come funziona il circo mediatico? Spero ora ti sia tutto più chiaro su come fanno i cosiddetti “Vip” a promuoversi gratuitamente sui giornali ed in tv. Se anche tu vuoi promuoverti sui media e vuoi che i giornali parlino di te devi lanciare una notizia che “strategicamente” sia impattante e che ti faccia uscire dall’anonimato, innalzandoti dal solito chiacchiericcio e torpore quotidiano. Devi fare, scrivere o dire qualcosa di importante che faccia saltare i giornalisti sulla sedia e farli venir voglia di contattarti per scrivere un pezzo su di te. Come già ti suggerivo in questo precedente articolo sulle alcune strategie di Pr che potrebbero esserti utili. Se credi però di essere un artista “puro” e non ti va di promuoverti con queste tecniche ti dico solo una cosa: purtroppo oggi funziona così. Non basta solo la bravura. Oltre al talento se vuoi sfondare devi saperti promuovere nel modo giusto perché hai bisogno di visibilità. E devi essere bravo a farti vedere e notare dai media, dal pubblico e dalle persone che contano. Il mondo è pieno di artisti famosi, bravissimi a pubblicizzarsi ed a mettersi in luce, ma magari molto meno talentuosi rispetto ad altri meno famosi. Oggi ti ho preso ad esempio Ferro ma se vai a ben vedere quasi tutti sono famosi perché sanno padroneggiare queste tecniche e sono bravi a far parlare i media di loro.

Il mondo è pieno di artisti anonimi molto più bravi dei cosiddetti “Vip” ma che purtroppo nessuno conosce perché non hanno saputo e non sanno pubblicizzarsi nel giusto modo. Il mondo è pieno di talenti anonimi, che continuano a sperare nel buio delle loro camere, ma che non sanno come fare a sfondare ed avere il tanto sognato successo.

E' mistero sul tweet pubblicato da Francesco Facchinetti sul suo profilo. Durante la prima serata del festival di Sanremo (9 febbraio 2016), il figlio del tastierista dei Pooh ha commentato la scelta di alcuni cantanti di presentarsi con un nastro colorato in mano a fovore delle Unioni civili, scrivendo: "Unica cosa che mi irrita è questo ostentare il sostenere i diritti delle coppie GAY. Non ho nulla contro la cosa ma sembra veramente forzato". E sul social network è subito scoppiata la polemica. Anche Alessandro Gassmann ha replicato: "Non si tratta di ostentare, ma di riconoscere, con i doveri, anche i diritti di TUTTI. Irritato?". Il tweet dell'ex presentatore di X Factor è stato poi cancellato e lo stesso Facchinetti ha dato la colpa a non si sa chi: non è stato lui né le persone che lavorano per lui. E sempre attraverso un tweet ha fatto sapere che ha intenzione di indagare. Ma questo non ha fatto altro che alimentare ancora di più la polemica.

Il Festival di Sanremo 2016 è alla sua seconda serata e continuano gli artisti che si stanno esibendo sul palco del Teatro Ariston mostrando i nastrini arcobaleno a favore delle unioni civili. Nella prima serata del Festival cantanti come Arisa, Noemi, Enrico Ruggeri e Irene Fornaciari, sono saliti sul palco con un nastrino color arcobaleno, a sostegno delle unioni civili. Noemi ha deciso di schierarsi a favore dei diritti dei gay abbellendo l’asta del suo microfono con tantissimi lunghi nastrini colorati. A dar loro manforte è intervenuta Laura Pausini, invitata come super ospite. Nella seconda serata, invece, i primi big in gara a presentarsi con gli ormai famosi nastrini sono stati Dolcenera, Patty Pravo, Valerio Scanu e Francesca Michielin. Anche il super ospite della seconda serata Eros Ramazzotti, ha cantato i suoi maggiori successi con il nastrino arcobaleno.

L’Italietta dei nastri arcobaleno si ritrova sul palco dell’Ariston. Davanti alla tv nell’inutile attesa di frasi shock di Elton John La kermesse canora diventa sponsor del decreto Cirinnà, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” l’11 febbraio 2016. Guardando Sanremo, vien da chiedersi se sarebbe definibile musica The roastbeef of Old England, vecchia canzone popolare inglese che esalta il vitello arrosto, perchè rende i soldati «valorosi» e «nobilita i cuori». In quelle strofe del ‘700 si ammonisce a non cedere alle raffinatezze culinarie » delle effemminate Italia, Francia e Spagna». No, questa non è musica, chiaro. C’è «effemminate» nel testo, e mai potrebbe trovar albergo nel circone politicamente corretto, questi giorni costretto a camminare sul ciglio della par condicio ideologica in casa di Mamma Rai. Al massimo, mette giù un piedino, per bagnarsi nel gayo oceano, ossequiando il dogma dell’essere al passo coi tempi. E allora ecco i nastrini arcobaleno, portati sul palco per testimoniare l’assenso dell’areopago vip al Ddl Cirinnà. Ecco una giornata consumarsi nell’attesa di di Elton John all’Ariston manco fosse il lancio dello Sputnik. Ci sarà o no il marito? Dirà «datemi un utero in affitto e solleverò il mondo?» Tutta l’Italia videodipendente diventa una immenso salone di parrucchiera, dove si «prevede», si sparla, si duella a colpi di luoghi comuni. Poi, Elton John arriva, dice una cosa scontata, cioè che mai avrebbe pensato di diventare padre, del suo compagno di vita neanche l’ombra. Coitus interruptus. Come le frasette buttata là dalla Pausini sulla necessità di rispettare i diversi (perché c’è qualcuno di mentalmente sano, forse, che vorrebbe sterminarli?), o come qualche battutina dell’ottima Virginia Raffaele, conduttore morale del Festival. E lo spottino sulla famiglia «fondamentale, qualsiasi essa sia», lanciato da Ramazzotti. Anche lui, ieri, con il nastro arcobaleno («questa cosa è importante», ha detto). Feticcio di un impegno fatto coi gadget e non con gli argomenti, una strizzatina d’occhio senza esagerare. Ma se davvero una questione è importante, allora bisogna viverla fino in fondo. Essere di rottura, prendersi responsabilità. Come gli ubriaconi inglesi che cantavano del vitello arrosto. Però, se questo è il campo da gioco, sfidiamo ad alzare la posta. E invitiamo qualche cantante a presentarsi con un nastro nero. Perché? Per il lutto della delle nostre libertà ed essenza. Per i ragazzi che abbiamo perduto all’estero, tipo Valeria Solesin e Giulio Regeni. Oppure per Paolo e Barbara, 40 anni lui e 46 lei, che lunedì l’hanno fatta finita con il gas di scarico della macchina nel mantovano perché sfiancati dai problemi economici. Nero per le ragazze di Colonia, prede carnali nella mattanza islamica di Capodanno. Banale, scontato? Forse, ma almeno guardiamo alle ferite profonde. Perciò, ora vediamo se qualcuno ha il coraggio di portar su questo nastro nero. Se ciò dovesse accadere, poi, tenetevi pure la vostra saga arcobaleno dagli istinti propagandistici mal inibiti, che tanto si è capito dove volete andare a parare. Anzi, l’anno prossimo fate presentare il Festival direttamente da Vladimir Luxuria, che ha già spiegato come si truccherebbe meglio di Gabriel Garko (di sicuro sarebbe intellettualmente molto più vivace). Andate avanti con questo trionfo di giacchette attillate, con questo tripudio di botox gommoso su volti maschili ben piallati. Non è roba per noi.

Un Sanremo arcobaleno tra coccarde e tweet politici. Il Festival della canzone italiana è diventato teatro di diverbi via Twitter tra i politici. Più che delle canzoni si è parlato di unioni civili tra nastrini arcobaleno che svolazzavano sul microfono della metà dei cantanti e difese e accuse al ddl Cirinnà, scrive Micol Treves il 10 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Dopo la pioggia: l’arcobaleno. Coloratissimo. Artistico. Nubifragio sulla città dei fiori per il primo giorno di kermesse, fino a sera. Quando si placa la tempesta, comincia la festa. E coccarde coloratissime sfilano sul proscenio, illuminate dai riflettori, appese ai microfoni di alcuni artisti (Noemi, Stadio, Fornaciari, Bluvertigo, Ruggeri). Cinque su dieci: i numeri danno manforte alla polemica che da ore aleggia su questa 66esima edizione del festival. Su Twitter parte il can can: l’hashtag? #Sanremoarcobaleno. Piomba solidarietà ai cantanti temerari. Conti non commenta. La politica, sì: “Dopo nastri arcobaleno esporre il Tricolore per le foibe”, cinguetta Gasparri”. E ancora il leader della Lega, Salvini, sull’ospitata di Elton John voluta da Rai Uno: “Strapagarlo per esaltare le adozioni gay è una vergogna. Ma è il festival della canzone o un comizio politico?”. Ecco. Pronta la risposta della senatrice Cirinnà: “Sanremo è lo specchio della società italiana, per questo la solidarietà degli artisti nei confronti di un provvedimento tanto atteso non mi sorprende. E' un qualcosa che probabilmente ci racconta che il Paese reale è più avanti della politica. Se la cosa può toccare il dibattito parlamentare? Può aiutare i colleghi più scettici a capire che là fuori c'è un mondo a colori, variegato. Che le convinzioni personali vanno sì difese ma senza perdere di vista il fatto che, come legislatori, siamo chiamati a dare risposte. A tutti. In special modo a chi vive ancora fuori dalla tutela delle leggi”. A buttare acqua sul fuoco, come sempre, come da manuale, è il direttore di rete, Giancarlo Leone: “Ognuno è libero di portarsi le coccarde che vuole. I cantanti non devono neanche informarci. L’iniziativa è loro”. Così, questa mattina in conferenza stampa. Libertà di coscienza. Ma l’iniziativa, da dove arriva? Da gay.it, ovviamente. E da Andrea Pinna, vincitore in pectore di Pechino Express. Le coccarde incriminate sono passate di mano in mano, fino al retro palco dove, si vocifera, il team di Noemi abbia contribuito a farle avere agli artisti. Un successone. “Esibirmi con la coccarda mi è sembrato un modo sorridente, un segnale affettuoso su un tema sul quale mi sembra che si dibatta abbastanza”, ha spiegato Enrico Ruggeri. “Sono contento di avere partecipato a questa iniziativa. Solo in 5 su 10 hanno aderito? Credo perché gli altri non l’hanno intercettata”. E ancora, a proposito di stepchild adoption: “Per adesso non ho un’opinione precisa a riguardo. Per il resto non si parla di diritti ma di logica, non c’è neanche da discutere”. E a chi sostiene che questo sia, ormai, un festival molto (forse troppo, a questo punto) Lgbt, risponde Carlo Conti: “Spero che resti il festival della canzone italiana, ma siamo nel 2016, uno dei temi è anche questo. Il nostro è un evento dove si raccontano tante sfaccettature della società. Noi lasciamo libertà”. Vedremo.

Parla Veneziani: "A Sanremo Povia processato e il monarca dei gay Elton John esaltato", scrive Adriano Scianca il 10 febbraio 2016. "Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto. Povia fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità...". Marcello Veneziani non ha visto la prima puntata del Festival di Sanremo, ma sulla kermesse e sui messaggi ideologici lanciati sembra essersi fatto lo stesso un'idea. E a IntelligoNews dice: "Non è più democrazia, ma dittatura del proprio tempo".

Veneziani, ha visto Sanremo? 

«No, assolutamente no». 

Avrà letto, tuttavia, che quest'anno, fra Elton John e i nastri arcobaleno, c'è stato un tema che ha dominato la prima serata del Festival... 

«In realtà Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto, anche in passato c'erano stati dei casi simili. Del resto quando ci fu qualcuno, come Povia, che tentò di proporre una canzone che affrontava l'omosessualità da un altro punto di vista, fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità, quindi...».

Non crede che sia un po' assurdo prendere il miliardario Elton John come esempio di tipica famiglia gay felice?

«Esattamente. Si prendono sempre casi estremi, o per drammaticità, o per situazioni opposte e non paragonabili con la quotidianità. Di fatto sono modelli non esportabili».

Intanto si va avanti con il ddl Cirinnà. Per il Parlamento è una priorità. La maggioranza degli italiani, tuttavia, la pensa diversamente. È la solita scissione tra Paese legale e Paese reale? 

«Cessato l'appello al popolo, resta l'appello alla modernità. O all'Europa. Si cerca sempre una nuova fonte di legittimità. Non è più democrazia, ma è dittatura del proprio tempo». 

Ha seguito il dibattito di qualche giorno fa fra pediatri e psichiatri sull'opportunità di affidare figli a coppie omosessuali?

«Era un dibattito sul filo tra scienza ed esperienza. Del resto l'impressione è che molti degli studi su questo argomento siano falsificati, escludendo i dati che vanno in una direzione non voluta. Mi sembra assurdo che nessuno sin qui si sia posto il problema di sapere se questa cosa possa portare dei danni ai bambini. Si dice che basta “essere felici”. Nessuno si chiede se sia felice il bambino, però». 

Cosa risponde a chi dice che a un bambino basta l'amore per essere felice? 

«È una motivazione psicolabile. Con l'amore si può giustificare tutto, del resto...».

Ha notato come sul tema delle unioni civili si usi sempre la metafora spaziale già tipica dei marxisti, quella della linea retta in cui c'è chi sta più “avanti” e chi più “indietro” rispetto al senso della storia? 

«Devo dire che questo è l'argomento più forte in favore delle unioni civili, questo determinismo storico per cui ogni opposizione contro lo spirito del tempo è inutile. L'idea di tradizione funziona esattamene al contrario, o quanto meno si basa sulla continuità e non implica che qualsiasi passo avanti sia un progresso, sia pure per finire nell'abisso. L'idea che esistano solo un “avanti” e un “indietro” va contro la multidirezionalità della storia. È l'unico lascito dell'ideologia progressista che è rimasto in piedi». 

Con la differenza che una volta al termine della linea retta c'era la società senza classi, oggi c'è la società senza sessi... 

«O anche la non-società, ovvero una costellazione di casi individuali che se ne vanno per conto proprio. Ed è paradossale che partendo da una seppur vaga ispirazione socialista si sia finiti alle idee della Tatcher secondo cui “la società non esiste”...».

Ma quello arcobaleno è un simbolo cristiano (cooptato poi dal mondo Lgbt), scrive “Papa Boys” il 10 febbraio 2016. Ieri è andata in onda la prima serata del Festival di Sanremo, ci si aspettava il solito spot Lgbt (come accaduto l’anno scorso) ed invece le proteste preventive hanno funzionato. Ovviamente l’egemonia omosex che domina, questo ed altri Paesi occidentali, non poteva rinunciare completamente ad un’occasione così ghiotta per imporsi con prepotenza, sono così apparsi i nastri arcobaleno legati al microfono dei cantanti. Una manifestazione, sicuramente puerile, ma comunque accettabile se pensiamo che il concreto rischio era la promozione plateale dell’utero in affitto da parte di Elton John noto per aver egoisticamente privato due bambini dell’amore materno. Eppure, pochi sanno che l’arcobaleno è da sempre un simbolo cristiano. Lo ha spiegato recentemente padre John Paul Wauck, professore dell’Università Santa Croce di Roma, commentando la scelta della Santa Sede di colorare con l’arcobaleno l’albero di Natale in piazza San Pietro: i colori dell’arcobaleno hanno «un significato biblico: è il segno dell’alleanza di Dio con l’umanità e con tutto il creato». Soltanto negli anni ’90 venne cooptato dal mondo Lgbt, ma è sempre stato importante nel mondo giudaico-cristiano con collegamenti soprattutto per la festa di Natale: «Come segno celeste dell’amore di Dio per l’umanità, l’arcobaleno è un precursore della stella di Betlemme, che annuncia la nascita di Gesù Cristo, il Messia, che è venuto a portare la pace sulla terra. Dal tempo di Noè, Dio aveva preparato un’alleanza di pace e ogni arcobaleno era un promemoria continuo di essa, che si sarebbe compiuta e realizzata in Gesù». E’ stato spiegato che il brano biblico più famoso in cui si fa riferimento all’arcobaleno è il capitolo 9 del libro della Genesi, a conclusione della narrazione del diluvio. A partire dal v. 8 si descrive la stipulazione di un’alleanza tra Dio, da una parte, e Noè, i suoi figli, i loro discendenti (quindi l’umanità intera nella prospettiva del racconto biblico) e tutti gli animali, dall’altra: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne (cioè ogni essere vivente, uomo o animale) dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gen 9,11). Nei successivi vv. 12-16 si insiste sul «segno» di quest’alleanza che è l’«arco sulle nubi», ovvero l’arcobaleno. E’ possibile, comunque, che la descrizione dell’arcobaleno come «segno dell’alleanza» riprenda tradizioni o racconti o convinzioni popolari al riguardo. Un simbolo di pace e di promessa per la cultura cristiana, cooptato prima dai movimenti pacifisti degli anni ’60 e poi dal movimento gay. Non è la prima volta che accade, anche il tema dell’ecologia è un antico valore prettamente cristiano, sensibilità nata nel Medioevo e poi ideologizzata da radicali, malthusiani e neo-ambientalisti. Così come quello della povertà, valore prettamente cristiano poi “saccheggiato” dal marxismo, che sopra vi ha costruito una demagogica e mortifera ideologia. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Ho sentito, due mesi fa, che una persona ha detto, per questo parlare dei poveri, per questa preferenza: “Questo Papa è comunista”. No! Questa è una bandiera del Vangelo, non del comunismo: del Vangelo! Ma la povertà senza ideologia, la povertà». E ancora: «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».

Un Festival arcobaleno, ma per le foibe un solo minuto. Da due giorni le unioni gay tengono banco a Sanremo. Ma Conti dedica solo una frase al Giorno del Ricordo, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 10/02/2016 su “Il Giornale”. Nastri e bracciali arcobaleno, ospiti che non mancano di parlare del loro concetto di famiglia, battute e appelli vari. Mentre dentro e fuori dal Parlamento tiene banco il ddl Cirinnà, il Festival di Sanremo si è trasformato quest'anno in un lungo spot a favore delle unioni civili e della cosiddetta stepchild adoption, la norma che permette di adottare il figlio del partner. Eppure nel giorno della ricordo ci si aspettava che almeno uno degli intermezzi fosse dedicato a ricordare i morti delle foibe. Soprattutto dopo che da più parti era arrivato l'appello a portare sul palco dell'Ariston oltre alla bandiera arcobaleno anche il Tricolore, simbolo di una strage e un gesto di unità nazionale. Un appello che a quanto pare non è stato accolto, visto che Carlo Conti ha dedicato all'evento nemmeno un minuto e si è limitato a una frase striminzita prima di annunciare Elio e Le Storie Tese. "Ricordiamo per non dimenticare", ha detto il conduttore di Sanremo. A pensar male si direbbe che gli autori si fossero totalmente dimenticati della ricorrenza e che abbiamo buttato lì una frase solo per far contenti i vari Gasparri & Co. Anche se Giorgia Meloni ringrazia su Twitter: "Grazie Carlo #Conti per aver parlato a #Sanremo2016 del #GiornodelRicordo e aver onorato la memoria dei martiri delle # foibe e dell'esodo".

QUELLI…PRO GAY.

La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale".  In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.

Le inquietanti origini della lobby gay, scrive Stefano Zecchinelli il 6 marzo 2017 su “L’Interferenza”. Un mito della propaganda lgbt è la contrapposizione fra nazismo ed omosessualismo, essendo l’omosessualità antitetica al “bigottismo machista” della dittatura hitleriana. Le cose non stanno così. Hitler coltivò una elite di feroci nazionalisti omosessuali che celebravano il culto della virilità. La cultura pre-nazista preparò la matrice ideologica dell’omosessualismo hitleriano, basti pensare allo scrittore antisocialista Karl Heinrich Ulrichs, più volte messo alla berlina da Marx ed Engels, oppure al testo Sesso e carattere di Otto Weininger dove vennero gettate le basi del lobbismo gay e dell’antisemitismo neocolonialista. Secondo Weininger il grado di emancipazione di una società si misura dalla “maschilizzazione delle elite”, mentre l’ebreo è per sua natura “donna” quindi “spiritualmente inferiore”. Il suo libro è un vero e proprio delirio ideologico. Leggiamo: “L’uomo ha impegnato la sua parte migliore per l’uomo. Il nostro spirito più essenziale, superabbondante, più puro e le migliori performance di noi stessi nascono in un modo o nell’altro sotto la luce di un uomo superiore che li ha stimolati”

1. Molto tempo dopo la Lobby dei gay sostituirà l’antisemitismo con l’islamofobia appoggiando l’imperialismo israeliano nella impunita pulizia etnica della Palestina storica. Questa ideologia partorì le milizie gay dei Männerbünde, omosessuali cultori dell’autorità, della gerarchia e di uno dei miti dello Stato nazionalista (e capitalista): l’eroe maschile. I Männerbünde si unirono alle Squadre d’Assalto di Hitler macchiandosi di numerosi crimini. Lo storico Stefan Zweig scrive che durante i primi anni della dittatura nazista: “Berlino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimenti e pub. Il sabba si scatenò quando i tedeschi riversarono sulla perversione tutta la loro veemenza e il loro amore per la metodicità. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte… Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo (praticando la prostituzione maschile) e nei bar si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uomini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano davanti agli occhi indulgenti della polizia… una sorta di pazzia parve cogliere la classe media”

2. Fu il gay di estrema destra, il razzista Edmund Heines, a far diventare le “camicie brune” la divisa ufficiale delle S.A. dando a questa organizzazione terroristica una immagine cupa e di sopraffazione. Molti uomini vicinissimi ad Hitler erano gay ed il più importante era Ernest Rohm, organizzatore dei gruppi paramilitari del Partito dei lavoratori tedeschi poi Partito nazionalsocialista tedesco. Si trattava di una idea aristocratica ed antipopolare basata sul governo di una “elite gay” coerentizzata da alcuni (pseudo)scrittori di estrema destra. Nel 1912 Hans Bluher scrisse il saggio Il movimento tedesco dei Wandervögel come fenomeno erotico in cui viene descritto l’indottrinamento omosessuale fra i giovani. Questa elite “paramilitare” dopo il 1918 si macchierà di numerosi eccidi di operai esaltando il militarismo prussiano ed il suprematismo razziale. Le milizie gay si sporcheranno le mani del sangue degli operai berlinesi che, sotto la guida di Rosa Luxemburg, rivendicavano il Comunismo dei Consigli. L’omosessualismo, da oltre un secolo, è una ideologia di destra, profondamente reazionaria ed antipopolare. La Lobby dei gay nasce proprio in quel drammatico momento storico. Nella Germania pre-hitleriana i kapò di quella che sarà la terribile dittatura nazista si dilettavano – quando non massacravano i militanti di sinistra – nei locali gay berlinesi dandosi al libertinaggio e alla prostituzione maschile. Che tipo di omosessuale era il gay delle Squadre d’Assalto? Si trattava di un uomo prigioniero di un mondo senza donne, fatto di culturismo, marce e violenza. Mentre il gay “destroide” di Ulrichs è una donna prigioniera in un corpo maschile – Ulrichs utilizzerà la definizione catastrofica “terzo sesso” – l’omosessuale nazifascista è un uomo che disprezza le donne, indotto all’irrazionalismo derivante da miti senza senso e volgari sproloqui nazionalistici. Queste due fazioni della Lobby dei gay sono ancora in vita soprattutto negli Usa. Dopo il 1934 ed il massacro della “Notte dei lunghi coltelli” la situazione si rovescerà e gli omosessuali verranno imprigionati, torturati e castrati dalla dittatura nazista. Il Codice Penale del 1935 ne dispose l’internamento e nel 1942, quando Goebbels lanciò la “guerra totale”, i gay vennero internati nei lager e sottoposti ad un regime schiavista e razzista che, a moltissimi malcapitati, non lasciò scampo. Nonostante tutto molti collaborazionisti furono omosessuali tanto da spingere lo scrittore antifascista francese, Jean Guéhenno, a dire: “Problema sociologico: perché tanti omosessuali tra i collaborazionisti?”. Se i gay venivano anch’essi schiacciati così come le masse impoverite dalla guerra inter-imperialista, l’omosessualismo rimaneva un rito di iniziazione della “massoborghesia” (Gramsci) e della elite aristocratica. Non è un caso che Usa ed Israele abbiano mutuato una parte della ideologia perversa del nazismo, sia nel campo dei costumi che del razzismo eugenetista. Tel Aviv è la patria del “genderismo omosessualista” ma anche una delle città più razziste del mondo, con il governo israeliano impegnato in un mostruoso progetto di pulizia etnica e di massacro etnico e religioso nei confronti del popolo palestinese. Erano omosessuali gli scrittori nazisti Robert Brasillach e Pierre Drieu La Rochelle; lo stesso ideologo dei terroristi neonazisti di Ordine Nuovo. Julius Evola, passato dall’apologia dello sterminio hitleriano all’ esaltazione del sionismo e dei crimini israeliani, era solito allungare le mani sui giovani allievi. Lo scrittore di estrema destra Maurice Sachs abitò, per un certo periodo di tempo, in un bordello gay ed il suo comportamento politico era così ambiguo che l’anarchico antifascista Moreno Marchi lo definì: “truffatore, perdigiorno, scroccone, ladro, fallito, abietto e malvagio delatore omosessuale, alcolizzato ed ebreo convertito, ex seminarista e collaboratore della Gestapo”. La Lobby dei Gay, prima di passare armi e bagagli dalla parte della “Sinistra Imperiale” con la tesi balorda sul “terzo sesso”, si afferma a destra aderendo al fascismo ed al nazismo. Una storia sconosciuta nonostante qualche storico abbia provato ad entrare nel merito, scomodo, scomodissimo per molti opportunisti. Il capo incontrastato del neonazismo statunitense, Michael Kuhnen, fece pubblicare nel 1986 un libro intitolato Nazionalsocialismo ed omosessualità in cui esaltava la tradizione omoerotica all’interno dello Squadre d’Assalto. Secondo questo neonazi il Quarto Reich doveva essere fondato da una elite gay, antiborghese ma anche profondamente razzista e filocolonialista. Il modello politico tornava ad essere il ‘’nazismo di sinistra’’ di Rohm e dei fratelli Strasser mentre il nazismo successivo al 1934 venne accusato d’essere borghese e di conseguenza omofobo. Un delirio senza senso dato che le S.A. rivolsero la loro ferocia contro i lavoratori e i ceti popolari già umiliati dall’imperialismo franco-inglese.

Michael Kuhnen era molto amico del neofascista francese Michel Caignet, protagonista di una campagna diffamatoria ai danni del giornalista radicale Thierry Meyssan – omosessuale ed amico personale dell’ex presidente iraniano Ahmadinejad – conclusa con la condanna, in sede processuale, di Caignet. Meyssan ha dedicato un ottimo articolo (come sempre) al tema “nazismo ed omosessualità” in cui ricorda l’accaduto: “À partir de 1989, j’ai régulièrement et vainement saisi le Parquet et le ministre de l’Intérieur des agissements de cette organisation de malfaiteurs. Paul Quilès étant ministre de l’Intérieur, un membre de son cabinet m’a indiqué de vive voix que Michel Caignet ne serait pas inquiété, ni pour ses activités néo-nazies, ni pour ses activités pédophiles, car il savait “rendre des services”. Devant mon obstination et celle de mes amis, Michel Caignet intenta une campagne de presse et diverses machination contre moi. Il fut en définitive condamné en diffamation à la suite d’une action intentée par mon avocat, Maître Antoine Comte”.

3. Il Partito Nazionalsocialista statunitense si connota come una sorta di ‘’grande partito dei gay islamofobi e razzisti’’; la destra della Lobby dei gay, ora impegnata ad appoggiare Donald Trump. I locali gay frequentati dai neonazisti ci mostrano delle immagini raccapriccianti, figli, non sempre riconosciuti, di una società capitalista ormai in decomposizione. E le stesse copertine dei giornali pro-Gay sono simili a quelle dei giornalacci dei neonazisti. Il capitalismo non ha più nulla da offrire se non depravazione. Il mondo gay vanta molti attivisti per i diritti civili ma l’origine della Lobby dei gay – ora vergognosamente schierata con la guerrafondaia Clinton – è a molti sconosciuta. I sinceri democratici, che nulla hanno a che vedere con il razzismo islamofobo e sionista sostenuto anche dalla ideologia genderista, sono capaci di prendere atto di queste inquietanti radici storiche di quel potere che cerca di manovrarli?

Il caso. Parla De Mari: “l’omosessualità non esiste”, scrive il 22/02/2017 Mattia Rossi su “Il Giornale”. Immolata sull’altare del politicamente corretto per aver messo in guardia, con prove scientifiche alla mano, i rischi clinici dell’omosessualità. A raccontarsi ad OFF è la dottoressa Silvana De Mari, medico con alle spalle 40 anni di chirurgia endoscopica, psicoterapeuta e scrittrice fantasy tradotta in tutto il mondo, alla quale è stato minacciato un processo all’Ordine dei medici per le sue frasi sull’anormalità dell’omoerotismo. Le sue affermazioni stanno facendo discutere, diventando un vero e proprio caso. Proprio per questo sulle nostre pagine siamo aperti ad ospitare una risposta dal mondo omosessuale.

Dottoressa, come va con l’Ordine dei medici?

«E chi li ha più sentiti? Mi hanno scritto una raccomandata con l’invito di andare a parlarci il lunedì per il lunedì. Impossibile. Mi hanno riscritto il giovedì per il lunedì. Il mio avvocato ha chiesto le motivazioni e io, intanto, ho continuato a parlare e citarli per nome e cognome indicando le mie perplessità riguardo i loro minacciati provvedimenti. Tutti zitti. A ruggire, almeno, ci si tolgono le iene e i coiote di torno.»

Le sue parole sull’omosessualità sono state forti. Ne è nato un pandemonio…

«Guardi, io invece ringrazio i gay che mi fanno da cassa di risonanza. E, anzi, continuerò a parlare.

Ridirebbe tutto tale e quale, quindi?

«Potrei, forse, cambiare idea a seconda che possa piacere o meno? Quelle affermazioni le ho fatte perché sono vere. L’omosessualità non esiste, come non esistono gli omosessuali: esistono persone che si sono fatte incastrare in un ruolo adolescenziale. Ciò che fa male al fisico dell’uomo, fa male anche alla psiche».

Esiste la normalità?

«Certo. In biologia è ciò che consente la prosecuzione della specie. Nasciamo XX e XY. La normalità è l’uomo attratto dalla donna e la donna attratta dall’uomo. La penetrazione anale non lo è: la cavità anorettale fa parte dell’apparato digerente e il suo compito è espellere le feci, non farsi penetrare da un pene. A loro piace? Benissimo, contenti loro… ma a farlo passare come normalità non ci sto. Noi odiamo vomitare, ma i bulimici amano vomitare. Un uomo vuole mettere il pene nella cavità anorettale di un altro? Nel momento in cui si vuole normalizzare pubblicamente questa pratica io, come medico, ho il dovere di dire che è una pratica che favorisce un numero spaventoso di malattie, esattamente come ho il diritto, anzi il dovere di affermare i danni del fumo. Questo non vuol dire odio per i fumatori».

La sua quarantennale esperienza di medico cosa insegna?

«I gay costano una valanga di quattrini, si ammalano continuamente: un pene che entra nella cavità anorettale spacca le fibre dello sfintere interno e lacera la mucosa. Lo vedo quotidianamente. Ci parlo, con gli omosessuali. Bisogna curarli di sifilide, incontinenza anale, virus orofecale, vaccinazioni contro l’epatite A, farmaci antiretrovirali… Io amo moltissimo le persone omosessuali, per questo desidero il loro bene e che vivano appieno la loro vita. In una situazione di castità la loro vita si allunga, e di molto: non dovrebbe essere normale raccomandarla?»

Sembra, invece, che la persona omosessuale sia vittima del proprio ambiente da pride. È così?

«La vera cultura gay per me è quella del servizio delle Iene sull’Unar: soldi pubblici in dark room; con uno che mangiava le feci del proprio cane e scriveva questo sui bambini: “Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro”. Io, da contribuente, ho il diritto di chiedere che blocchino i finanziamenti al Circolo Mario Mieli oggi stesso».

Scatterà immediata l’accusa di omofobia.

«L’omofobia è un diritto umano. È un mio diritto provare ripugnanza perché questa ripugnanza fa parte della fisiologia umana. Posso ritenere pedofilia, necrofilia, zoofilia, coprofagia pratiche quantomeno nauseanti? Posso indignarmi perché ai gay pride si sbeffeggia il cristianesimo, ma, chissà come mai, non si vedono carri contro Maometto? Il movimento LGBT è totalmente indifferente verso le persecuzioni di omosessuali nell’islam. Perché?»

A proposito di Maometto, come vede l’attuale immigrazione islamica?

«Questa immigrazione sconvolge i nostri paesi. Gli immigrati, al 90% sono maschi islamici tra i 15 e i 45 anni che vengono a invaderci. Non sono integrabili con noi. Una minoranza è integrabile solo in quanto minoranza, in piccoli gruppi: qui, invece, sono masse che approdano per conquistarci».

Con il supporto del Governo italiano.

«Il Governo non sta facendo l’interesse del popolo, ma un uomo di governo deve fare ciò che vuole il popolo. Loro impongono e basta. Gli ultimi quattro Governi, con le loro folli condotte, stanno modificando il tessuto antropologico del paese».

Che ne pensa di quello che definiamo politicamente corretto, il pensiero unico?

«Ci lamentiamo se veniamo offesi. Eppure essere offesi fa parte dell’essere umano. La dittatura del politicamente corretto nasce per imbavagliare una civiltà nel momento in cui viene sovvertita. È la dittatura della minoranza che esaspera una sua situazione di vittimismo, una situazione il più delle volte artificiosa. L’“omosessualità statale” è una mostruosa tirannide. L’omosessuale deve essere un po’ pirata con la coscienza di essere trasgressivo: l’uniformazione annienta sé stessi e la propria dignità».

E la scuola? Nascono come funghi i corsi antidiscriminatori…

«Il bullismo fa parte della vita. Dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi a tenere testa ai bulli. I corsi di antibullismo e i giochi al rispetto delle scuole sono terrificanti e sono il cavallo di battaglia dell’Unar e del pensiero gender.  La scuola non si occupi di affettività, si occupi di istruire. Sono i genitori a insegnare a non aggredire e a resistere all’aggressione. Perché, vede, tutti saremo aggrediti, fa parte dell’essere umano, della vita, non esiste un mondo dove nessuno aggredisce qualcun altro».

Lei è anche un’affermata scrittrice di libri per ragazzi. Quando ha iniziato a scrivere?

«Ho iniziato a scrivere nel 1988 e il mio primo libro è stato pubblicato nel 2000. Una dote dello scrittore è l’ostinazione. L’ultimo elfo è tradotto in 21 lingue. Hania è una saga che parla del Male. E di come sconfiggerlo».

Perché il genere fantasy?

«Perché ho capito che col linguaggio fantasy è possibile parlare degli argomenti più atroci rimanendo su un genere leggero. Parlo del male che esiste in quanto male e non va banalizzato, parlo di genocidi, parlo del libero arbitrio. Storie forti per dare coraggio».

Il coraggio. Qual è il messaggio più importante da dare, oggi, in tempi di dittatura della minoranza?

«Che, come diceva Chesterton, 2+2 fa 4 e che l’erba è verde. La verità è, ormai, la vera trasgressione».

Inchiesta choc de Le Iene: "Palazzo Chigi finanzia prostituzione gay". Le Iene svelano il finanziamento di Palazzo Chigi soldi ad una associazione gay nei cui circoli si consumerebbero rapporti sessuali a pagamento. Il direttore dell'Unar: "Verificheremo", scrive Claudio Cartaldo, Domenica 19/02/2017, su "Il Giornale". Associazioni gay, Unar, Palazzo Chigi, finanziamenti e migliaia di euro. Sono questi i protagonisti dell'inchiesta che andrà in onda stasera su Italia 1 a "Le Iene". Nel servizio realizzato da Filippo Roma, a finire sotto accusa è una associazione cui fanno capo alcuni circoli, saune e centri massaggi dedicati al mondo omosessuale e che alcune settimane fa si è aggiudicata un bando da 55mila euro dell'Unar, l'Ufficio Nazionale anti-discriminazioni razziali del Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio. Con questi soldi pubblici, secondo quanto emerge dal servizio de Le Iene, all'interno dei circoli ci sarebbero episodi di sesso e prostituzione. Uno scandalo che nasce dalla segnalazione anonima di un contatto intervistato da Filippo Roma. " In realtà questi circoli non sono altro che dei locali con ingresso a pagamento - spiega il testimone - dove si incontrano persone gay per fare sesso, a volte anche questo a pagamento. si tratta di un’associazione di imprenditori del mercato del sesso gay. Si nascondono dietro l’etichetta di associazioni di promozione sociale. Le stesse che dovrebbero avere come mission quella di aiutare le persone, ma in realtà, il loro unico scopo è quello di fare soldi senza pagare le tasse". Le associazioni, infatti, in quanto tali non dovrebbero sottostare ad alcune regole che i locali commerciali sono costretti a rispettare. "Sfruttando la denominazione di associazione a cui sono concesse delle agevolazioni - spiega il testimone - Se si trattasse di un locale commerciale dovrebbero pagare le tasse sull’ingresso, sulle bibite, su tutto ciò che viene venduto, compresi i massaggi. E dovrebbero anche comprarsi una licenza. Alle associazioni invece, non è richiesto niente di tutto questo, proprio perché l’attività principale dovrebbe essere senza fini di lucro. Basta andare sui siti di quei posti per capire che cosa offrono". In alcuni locali gay romani, come già raccontato in una inchiesta esclusiva de ilGiornale, accade che all'interno delle "dark room" si compri e consumi droga, oltre che fare sesso al buio. "Sono delle stanze buie dove la gente entra vestita, nuda, per fare sesso con chi capita, senza guardarsi in faccia - spiega l'intervistato - Là dentro succede di tutto, molto spesso senza nemmeno usare protezioni. Ti puoi immaginare i rischi per le malattie. Quello che trovo assurdo è che un’associazione come questa, con circoli, saune, centri massaggi, dark room, ma soprattutto dove si pratica la prostituzione, possa aver vinto un bando della Presidenza del Consiglio, soldi pubblici". Già, la prostituzione. Perché secondo quanto emerso dall'inchiesta de Le Iene, alla fine dei massaggi ai clienti viene chiesto se voglio un "extra" di natura sessuale. "Esistono dei veri e propri listini, ogni cosa ha il suo prezzo. - spiega l'intervistato - Quasi tutti quelli che chiedono il massaggio lo fanno per avere prestazioni sessuali, altrimenti andrebbero in qualsiasi altro centro che costa anche di meno". Con le telecamere nascoste Filippo Roma ha documentato quello che sarebbero sesso libero (e a pagamento) nelle dark room, confermando i racconti del segnalatore. Inoltre in alcuni siti di questi circoli ci sono dei tariffari per prestazioni sessuali a pagamento. La Iena ha intervistato anche Francesco Spano, direttore dell’Unar, chiedendogli delucidazioni sul finanziamento di queste associazioni e sui controlli effettuati. Spano spiega che l'Unar per concedere finanziamenti si basa su "quello che ci dichiara lo statuto delle associazioni". Ma di fronte all'evidenza delle immagini mostratigli dalla Iena, promette controlli e verifiche, finora limitati a "controlli cartacei e formali": "Mi ha dato l’informazione - dice Spano - Comunque, guardi, io oggi stesso, ora torno in ufficio, convocherò il Presidente di *** e verificherò questa cosa, perché se l’attività è, come voi dite, legata alla prostituzione, ci mancherebbe altro". Poi conclude: "Chiederò se c’è una difformità rispetto a quello che è dichiarato nello statuto e quella che è la loro attività svolta. Nel caso, annulleremo questa assegnazione.

Palazzo Chigi finanzia la prostituzione omosessuale: lo scoop de "Le Iene", scrive “Libero Quotidiano" il 19 febbraio 2017. Unar sta per «Ufficio anti-discriminazioni razziali». All’interno del Dipartimento Pari opportunità della presidenza del consiglio, si occupa di promuovere la «parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni» razziali, etniche e sessuali con campagne di comunicazione e adottando progetti «in collaborazione con le associazioni no profit». Nel mirino della iena Filippo Roma è finito un finanziamento di 55mila euro ad un’associazione di «promozione sociale» dietro cui, secondo la trasmissione televisiva, si nasconderebbe il business del sesso gay a pagamento. Ecco il testo del servizio che andrà in onda stasera su Italia 1. Con che criteri l’Unar sceglie le associazioni da accreditare e finanziare con migliaia di euro? Il suddetto ufficio del governo ha come compito quello di contrastare le discriminazioni su razza o sesso e a tal fine gestisce anche denaro proveniente dai contribuenti. Accreditate nel registro dell’Unar si annoverano alcune associazioni molto conosciute come Amnesty International, Unicef, Croce Rossa Italiana, Comunità di Sant’Egidio. In questo elenco, però, compaiono anche associazioni poco o per niente note. Una di queste, con l’ultimo bando assegnato qualche settimana fa, si è aggiudicata circa 55.000 euro. Di cosa si tratta? Proprio su questa associazione un segnalatore, che ha preferito tenere nascosta la propria identità, ha fatto avere a Filippo Roma le seguenti dichiarazioni.

Segnalatore: In realtà questi circoli non sono altro che dei locali con ingresso a pagamento, dove si incontrano persone gay per fare sesso, a volte anche questo a pagamento.

Iena: Quindi tu ci stai dicendo che in questi circoli si fa sesso e pure a pagamento?

Segnalatore: Sì, perché si tratta di un’associazione di imprenditori del mercato del sesso gay. Si nascondono dietro l’etichetta di associazioni di promozione sociale. Le stesse che dovrebbero avere come mission quella di aiutare le persone, ma in realtà, il loro unico scopo è quello di fare soldi senza pagare le tasse.

Iena: In che modo?

Segnalatore: Sfruttando la denominazione di associazione a cui sono concesse delle agevolazioni. Se si trattasse di un locale commerciale dovrebbero pagare le tasse sull’ingresso, sulle bibite, su tutto ciò che viene venduto, compresi i massaggi. E dovrebbero anche comprarsi una licenza. Alle associazioni invece, non è richiesto niente di tutto questo, proprio perché l’attività principale dovrebbe essere senza fini di lucro. Basta andare sui siti di quei posti per capire che cosa offrono.

Iena: Che cosa sono le dark room? (ndr, sul sito di uno di questi circoli tra i servizi offerti vengono citate le «dark room»).

Segnalatore: Sono delle stanze buie dove la gente entra vestita, nuda, per fare sesso con chi capita, senza guardarsi in faccia. Là dentro succede di tutto, molto spesso senza nemmeno usare protezioni. Ti puoi immaginare i rischi per le malattie. Quello che trovo assurdo è che un’associazione come questa, con circoli, saune, centri massaggi, dark room, ma soprattutto dove si pratica la prostituzione, possa aver vinto un bando della Presidenza del Consiglio, soldi pubblici.

Iena: Chi è che si prostituisce?

Segnalatore: Normalmente lo fanno i massaggiatori. Finito il massaggio chiedono esplicitamente al cliente se vuole andare oltre, con qualche servizietto extra a pagamento. Esistono dei veri e propri listini, ogni cosa ha il suo prezzo. 

Iena: Normalmente quanti clienti si fanno fare il massaggio extra?

Segnalatore: Quasi tutti quelli che chiedono il massaggio lo fanno per avere prestazioni sessuali, altrimenti andrebbero in qualsiasi altro centro che costa anche di meno.

Iena: Ma come è possibile che alla Presidenza del Consiglio non si accorgano di queste cose?

Segnalatore: Effettivamente è strano. È ancora più strano che il direttore dell’Unar, l’ufficio che distribuisce i finanziamenti, sia associato a uno di questi circoli.

Riguardo a quest’ultima sua affermazione, il segnalatore dice di essere a conoscenza dei riferimenti relativi al presunto tesseramento del direttore dell’Unar. Si tratterebbe del codice socio e del numero della tessera, con data di rilascio e di scadenza e data di nascita fornita dal socio al momento dell’iscrizione. La Iena decide per tanto di far luce sulla vicenda recandosi in alcuni di questi circoli. Filippo Roma mostra quindi immagini esclusive che confermerebbero come tra le attività prevalenti in questi luoghi ci sarebbe la pratica del sesso libero e anche estremo. In alcuni casi, servizi come dark room o glory hole sono chiaramente segnalati sui siti di questi circoli. A volte, i servizi di massaggi offerti all’interno dei suddetti circoli, come affermato dal segnalatore, includerebbero anche, con tanto di tariffario, prestazioni extra che prevedono sesso a pagamento. (...) Per avere delucidazioni in merito alle parole del segnalatore anonimo, Filippo Roma intervista Francesco Spano, direttore dell’Unar.

Iena: Lei è il direttore dell’Unar, giusto?

Spano: Sì.

Iena: Che è l’organismo della Presidenza del Consiglio che si occupa di assegnare una serie di fondi a varie associazioni che sono in prima linea contro le discriminazioni sessuali e razziali, giusto? 

Spano: Sì, fra i compiti ha anche quello di gestire l’attività contro la discriminazione.

Iena: Queste associazioni per essere accreditate presso il registro dell’Unar che requisiti fondamentali devono avere?

Spano: Devono avere tutta una serie di requisiti di legge previsti che si possono trovare anche sul nostro sito. 

Iena: Infatti, li abbiamo trovati e abbiamo letto questa cosa qua che tra…

Spano: Scusate un secondo...

Iena: Prego, prego (ndr, il direttore Spano si allontana). Aspetti, ma dove va?

Spano: Un secondo, riesco subito.

Quando gli vengono chiesti quali sono i requisiti per essere accreditate presso il registro dell’Unar, Spano entra improvvisamente negli uffici della Presidenza del Consiglio dicendo di aver ricevuto una telefonata. Filippo Roma raggiunge Spano in un secondo momento per rivolgergli ulteriori domande:

Iena: Avvocato, ci eravamo preoccupati che fosse andato via o scappato.

Spano: No, scusate ero al cellulare, perché devo scappare? Anzi, vi chiedo scusa.

Iena: Ci mancherebbe altro. Tra le varie associazioni che nel 2016 hanno ottenuto questi finanziamenti della Presidenza del Consiglio ce n’è una che ha ottenuto 55 mila euro.

Spano: Partecipava ad un progetto, mi pare.

Iena: Esatto. E come attività preminente, ha ben altro.

Spano: Allora, noi stiamo a quello che ci dichiara lo statuto delle associazioni.

Iena: Però, dicevo, a voglia a fare tante altre cose rispetto alla lotta contro la discriminazione…

Spano: A noi risulta che fa questo, poi non so che altro fa.

Iena: Glory Hole, sa che cos’è?

Spano: No, assolutamente no.

Iena: È una pratica sessuale dove c’è un buco …

Spano: Questo non lo so. Ora, grazie se mi date questa segnalazione grazie, ora verificheremo.

Iena: dark room?

Spano: No, ora questo lo verificheremo, insomma, l’importante...

Iena: Ci hanno segnalato dark room dove avviene un po’ di tutto… 

Spano: Questa sarà una cosa che riguarderà la vita privata delle persone, non rileva a noi, però, verificheremo. 

Iena: Per carità, questa è la vita sessuale delle persone, però, soprattutto, in questi circoli si pratica la prostituzione.

Spano: Questo spero di no. La prostituzione è un reato.

Iena: E si pratica nei circoli accreditati con l’Unar?

Spano: No, questo no. Allora, assolutamente no, le posso assicurare. Noi verifichiamo.

Iena: Le assicuro io, invece. Le faccio vedere un filmato, guardi...

Spano: Non mi interessa il filmato.

Iena: Come non le interessa il filmato? Lei è quello che dispensa questi finanziamenti pubblici.

Spano: Nel senso, ci credo, lo verificheremo.

Iena: Guardi un po’ che abbiamo visto. (ndr, Filippo Roma mostra il filmato al direttore). Questo è un massaggio che avviene dentro a una sauna, un massaggiatore che propone un extra. Un extra di natura sessuale. Poi, un’altra sauna… 

Spano: No, no, non mi interessa questa cosa, grazie… Ci credo, dal punto di vista di vederlo non mi aggiunge niente. Mi ha dato l’informazione. Comunque, guardi, io oggi stesso, ora torno in ufficio, convocherò il Presidente di *** e verificherò questa cosa, perché se l’attività è, come voi dite, legata alla prostituzione, ci mancherebbe altro. 

Iena: Lei come direttore dell’Unar, non svolge dei controlli su cosa combinano queste associazioni?

Spano: Le ripeto, io faccio un controllo cartaceo e formale su quello che viene dichiarato.

Iena: Un po’ a caso?

Spano: No, no, non è che posso andare nei circoli a vedere cosa succede, questo non…

Iena: Direttore, questo lo sappiamo noi che non facciamo parte dell’Unar e non lo sa lei che è il direttore dell’Unar?

Iena: 55 mila euro. Ma perché i contribuenti italiani devono finanziare con le proprie tasche associazioni dove si pratica la prostituzione? 

Spano: Assolutamente no.

Iena: Lei, di fronte a queste scene, se la sente di assegnare questi fondi?

Spano: Ora, su questo faremo la verifica che stiamo facendo e se fosse un’associazione che, come voi dite, con questi fondi sosterrebbe la prostituzione ovviamente no. Ma va in automatico, le assicuro. Stia tranquillo, su questo guardi sono tranquillissimo.

Iena: Con un direttore che controlla così le associazioni che ricevono questi fondi non sono tranquillissimo... 

Spano: Stiamo ulteriormente facendo dei controlli. Oggi stesso, io, anche grazie alla vostra segnalazione, convocherò il Presidente di *** e chiederò se c’è una difformità rispetto a quello che è dichiarato nello statuto e quella che è la loro attività svolta. Nel caso, annulleremo questa assegnazione.

Iena: Lei non conosceva l’attività di ***?

Spano: L’attività di *** la conosco come attività di promozione, di seminari, hanno un giornale, cose di questo tipo. 

Iena: Perché qualcuno ci ha detto che lei è socio dell’associazione ***?

Spano: No, assolutamente no. Non so di cosa stai parlando.

Iena: Sicuro? Perché a noi sono arrivati degli estremi di una tessera…

Spano: Ora però devo andare…

Iena: Abbiamo quasi finito, poi la lasciamo andare.

Spano: La prego davvero.

Iena: Ci risulta un numero di tessera, ***, fatta il XX.X.XXXX a nome suo.

Spano: Non so, io no ho…dove e come?

Iena: Non è tesserato?

Spano: No.

Iena: E perché noi abbiamo questi estremi?

Spano: Non lo so.

Iena: Ci toglie una curiosità per cortesia?

Spano: Sì.

Iena: Noi ci chiediamo. Sia mai che chi dispensa fondi pubblici a una serie di associazioni, sia anche socio di quella associazione, no? Se no ci sarebbe un conflitto di interessi?

Spano: Ora vi devo salutare, però, davvero. Arrivederci.

Ecco i soldi ai bordelli gay (e la faida tra club omosex). Le false associazioni "socio-culturali" si fanno guerra per aggiudicarsi finanziamenti e appoggi politici, scrive Nino Mater, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale". Una guerra fratricida all'interno delle stesse associazioni gay. Una faida per accaparrarsi la fetta maggiore della torta dei fondi riservati alle sigle «anti-omofobia». E affermare la propria leadeship politica all'interno della galassia di comitati e sottocomitati che, teoricamente, dovrebbe «combatte ogni forma di sessuofobia». È questa la «pista» da seguire per capire chi e cosa c'è dietro il servizio choc delle «Iene» che ha svelato come, al di là della facciata di un club «socio culturale», si nascondesse un privè con attività di prostituzione maschile. Nulla di particolarmente grave se non fosse che quel locale risulta affiliato all'Anddos (Associazione nazionale contro le discriminazioni da orientamento sessuale) per la quale sono stati stanziati 55 mila euro di fondi pubblici (ma ora il bando è stato sospeso). All'Anddos era iscritto anche Francesco Spano l'ormai ex direttore dell'Unar, l'ente governativo che avrebbe dato il placet alla somma destinata all'Anddos. Dopo il servizio delle «Iene», Spano si è dovuto dimettere dalla guida dell'Unione anti discriminazioni razziali (l'Unar, appunto), che fa capo al dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. All'indomani dello scoop delle «Iene» i vertici dell'Anddos hanno avvalorato la tesi della «vendetta trasversale» con un comunicato ufficiale che contempla una frase sibillina: «A seguito di una indagine interna, riteniamo di avere sufficienti elementi per affermare quale associazione si sia resa responsabile di una tale macchinazione (vale a dire il servizio delle «Iene» ndr)». Un'accusa nemmeno tanto velata alle sigle «concorrenti» che negli ultimi anni si sono viste penalizzate dall'aumentato «peso» economico e politico dell'Anddos. All'ingresso di molti club privè appare ancora il vecchio avviso: «Ingresso riservato solo ai tesserati Arci». Ma, in realtà, la tessera che viene compilata all'interno dei circoli è quella dell'Anddos che, da sigla gemellata con l'Arcigay, si è nel tempo resa autonoma «rubando», per così dire, una consistente fetta di «mercato» alle sigle tradizionalmente egemoni in questo settore. Di qui invidie e colpi bassi. Ed è tra queste trame velenose che va letta probabilmente anche la soffiata che ha portato l'inviato delle «Iene» all'interno del club dello scandalo. A quel punto risalire alle responsabilità del direttore dell'Unar è stato un gioco da ragazzi. Francesco Spano, del resto, con quel suo cappottino rosso e l'aria spaurita di chi è stato colto con le mani nella marmellata, si prestava perfettamente al ruolo di capro espiatorio. Lui stesso ci ha messo del suo: prima cercando di fuggire, poi raccontando un po' di bugie. La sua testa è saltata ma la vera testa da far saltare sarebbe quella che ha concepito l'Unar come una sorta di slot machine per tenersi buoni bacini di utenza elettorale, distribuendo a pioggia un bel po' di soldi; e si sa che quando devi coltivare questo o quell'orticello privato, non puoi andare troppo per l sottile con l'innaffiatoio dei fondi pubblici. E così capita di «bagnare» anche associazioni che si spacciano per «socio culturali» ma che in realtà propugnano ideali semplicemente «socio sessuali». Nulla da eccepire, a patto però che non venga fatto coi soldi del contribuente e truffando il fisco su tutta una serie di attività (a partire dalla vendita di alcolici e cibo per finire alla gestione di viaggi e merchandising vario). Una costante - questa del business esentasse ai danni dell'erario - permessa da varie gabole legislative che parificano i circoli «socio bordellari». Categoria da cui l'Anddos si dissocia: «Abbiamo presentato all'Unar un progetto finalizzato a sostenere e potenziare i Centri ascolto e antiviolenza (Caa) che forniscono assistenza psicologica, medica e legale gratuita a chi è vittima di discriminazioni o necessita di ascolto e informazioni sui temi della sessualità e della salute». E poi: «Siamo stati ritenuti idonei al finanziamento a fronte di un bando con regole e procedure precise e di un progetto presentato in partenariato con La Sapienza Università di Roma». Peccato che l'Università La Sapienza si sia affrettata a smentire «qualsiasi coinvolgimento».

Orge gay, chi è Francesco Spano: il ruolo di Elsa Fornero nell'Unar. Mistero sui progetti finanziati, scrive “Libero Quotidiano” il 22 febbraio 2017. Fino a pochi giorni fa, nessuno sapeva cosa fosse l'Unar, l'Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali travolto dal caso delle orge gay finanziate dalla presidenza del Consiglio. Un caso su cui hanno alzato il velo Le Iene. E così, spulciando nella storia di questo organismo, si scoprono diverse magagne: i fondi gestiti in modo poco trasparente; l'evasione fiscale delle realtà ad esso collegate; il fatto che con il contrasto alle discriminazioni, checché ne dica Monica Cirinnà, ha ben poco a che spartire; la mancata trasparenza nella gestione dei fondi. L'Unar, di fatto, è il frutto di una frenetica attività di lobbying istituzionale. Venne fondato nel 2003 presso la presidenza del Consiglio, ha dunque 14 anni, ma la "svolta gay" arriva grazie ad Elsa Fornero: quando era ministro del Lavoro con delega alla Pari opportunità, con un atto amministrativo, allargò le competenze dell'Unar al mondo Lgbt (lesbo, gay, bisex, trans). Da anni, Carlo Giovanardi si batte affinché si faccia chiarezza su quest'organismo, sulle sue consulenze e sui suoi meccanismi: nel giro di poco tempo, da che la Fornero ci mise le mani, l'Unar è diventato l'ente governativo in assoluto più vicino e rappresentativo del mondo omosex. È in questo contesto che si arriva, nel 2016, alla nomina di Francesco Spano, il presidente dell'Unar che si è dimesso in seguito allo scandalo. Un nome voluto da Giovanna Melandri: da tempo Spano era vicino agli ambienti dem ed era stato a capo della Consulta giovanile per il pluralismo religioso e culturale, istituito proprio dalla Melandri. Di Spano, addirittura, si trova una foto che lo ritrae al fianco di Agostino Vallini, cardinale vicario di Roma. In pochi lo conoscevano fino a quando ha fatto una figura barbina davanti ai microfoni di Filippo Roma, quando ha balbettato sui finanziamenti concessi dall'ente che presiedeva a circoli dove si praticavano orge omosessuali, prostituzione e pratiche erotiche e sadomaso estreme.

Ma ora il caso si allarga. Già, perché come sottolinea Il Tempo ci sono altri finanziamenti sospetti concessi dall'Unar. Nel dettaglio, i fari sono puntati su 1,4 milioni di euro, concessi a due vincitori di bandi promossi lo scorso 4 novembre: 200mila euro sono andati a diversi Comuni, il grosso della torta invece ad associazioni che promuovono progetti contro le discriminazioni. Ma quali progetti sono stati finanziati? Mistero: sul sito dell'Unar non ci sono tracce. "Bisognerebbe chiedere al direttore, ma si è dimesso - spiegano dall'ente -. E il dirigente è in ferie". A chi vanno, dunque, quei soldi?

Scandalo Unar, la sauna gay (davanti un palazzo di cardinali) finanziata due volte dallo Stato, scrive di Roberta Catania il 24 Febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. La sauna gay nel centro di Roma, quella denunciata dalle Iene come luogo di prostituzione maschile, è stata finanziata due volte dallo Stato. La prima, come scoperto da noi di Libero, acquistata grazie a un mutuo da 560mila euro concesso da Mps, la banca fresca di salvataggio con i soldi pubblici stanziati da questo Governo; la seconda, come spiegavano una settimana fa nella trasmissione tv, con i soldi dei finanziamenti pubblici dell'Unar, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei ministri, della quale il presidente si è dimesso in seguito alla scandalo. Già quattro anni fa, ebbe risonanza la questione della sauna gay i cui vapori circondavano il terrazzo di un cardinale che abita nell' attiguo palazzo di Propaganda Fide, stabile che la congregazione della chiesa aveva acquistato il 30 settembre 2008 per 20 milioni e 233 mila euro. Un prezzo importante, soprattutto perché le 19 unità immobiliari al civico 2 di via Carducci, a due passi da piazza della Repubblica e nei pressi di via Veneto, quello stesso giorno la "Mag. Industrie srl" e la "Cig immobiliare srl", in qualità di «intermediari», guadagnarono 11 milioni di euro avendo appena comprato per 9 milioni il palazzo da "Italease". Il signorile stabile rivenduto lo stesso giorno a Propaganda Fide per più del doppio, lasciò nelle tasche della "Cig" 346.200 euro, forse a titolo di onere per l'aiuto, ma l'enorme plusvalenza si suppone che finì al presidente e amministratore unico della "Mag. Industrie", il signor Eligio Cucchetti, classe 1934, o dirottata nelle tasche di qualcuno che è riuscito a non lasciare traccia nei registri generali. La questione, nonostante il clamore scoppiato in scia all' inchiesta sulla Cricca del G8, finì in un nulla di fatto. Oggi torna d' attualità per il servizio del giornalista Filippo Roma, che con le telecamere nascoste è entrato nella sauna e documentato per le Iene come dietro il paravento dell'associazione culturale non ci sia niente che giustifichi i finanziamenti pubblici di Palazzo Chigi, ma prenda vita un esplicito mercato del sesso gay. Una mercificazione che ha un tariffario preciso, alla varietà delle prestazioni corrisponde una variazione di prezzo. Ebbene, per questo "circolo" gay di via Aureliana 40, nel signorile palazzo attiguo a quello nella sua traversa di via Carducci, il 22 giugno 2009 il Monte dei Paschi di Siena concesse alla "Genesi 2000 srl" un mutuo per 560mila euro. Un capitale prestato a 10 anni e che consentì alla società di Maurizio Floccari e di Mario Marco Canale di comprare un «esercizio per fini sportivi» in via Mario Pagano 2 e, a meno di duecento metri, il locale attiguo al loro ristorante, "Aurelia 44", il famoso immobile tramutato nell'«associazione Europa Multi Culb, affiliata ad Anddos», che - dal sito Internet ufficiale si legge - «focalizza una particolare attenzione sul diritto alla salute fisica e psicologica degli associati», evidentemente - secondo il servizio delle Iene - lasciando scaricare lo stress attraverso prestazioni extra listino di massaggiatori compiacenti. "Genesi 2000 srl" è di Floccari e Canale, che compaiono come soci anche della "Ram 3 Group srl", che invece possiede 340 mq in via Aureliana 46, inglobando il ristorante "Aurelia 44", che figura anche come sede legale della società costituita l'8 gennaio del 2003 insieme a Webb Alan Edward e ad Antimo Di Fuccia. A questo punto pare plausibile che dai quattro amici che avevano investito nella ristorazione, due hanno poi deciso di espandersi prendendo il fabbricato al civico 40 per «garantire salute fisica e psicologica agli associati» dell'EMC. Non a caso uno dei due è Mario Marco Canale, presidente dell'Anddos, l'Associazione Nazionale contro le Discriminazioni da Orientamento Sessuale, che ieri si è scagliato contro il servizio delle Iene, annunciando «azioni legali» per avere intervistato il presidente dimissionario dell'Unar, svelando il suo orientamento sessuale dicendo che era anch' egli tesserato all' EMC, la sauna accusata di «favorire la prostituzione omosessuale» sotto al balcone di uno dei cardinali più potenti. L' imbarazzo che serpeggia nel quartiere dove sorgono i ministeri del Lavoro, dell'Economia e dell'Agricoltura non riguarda tanto i finanziamenti pubblici, quanto la vicinanza con il palazzo acquistato a più riprese da Propaganda Fide a prezzi - oltretutto - fuori mercato. Un alto prelato abita al primo piano dello stabile in via Carducci 2: un appartamento di dodici vani, corredato da ampio terrazzo che sovrasta buona parte di via Aureliana. Per l'esattezza, il balcone è precisamente sopra all' EMC, che ha ottenuto parte dei 55mila euro stanziati dal Governo per la Anddos (adesso revocati dal ministro Boschi) e si suppone che il cardinale debba sopportare da parecchi anni il continuo e «gioioso» via vai dei soci che sfilano sotto le sue finestre.

Ora chiamatele "dispari opportunità". Siamo l'unico posto al mondo dove un'associazione che si occupa di contrastare la discriminazione razziale e sessuale l'ormai celebre Unar foraggia club sulle porte dei quali è scritto che le donne non possono entrare, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 23/02/2017, su "Il Giornale". Non chiamiamole più pari opportunità. Per favore. Strappiamo il velo. Al massimo saranno dispari. Ma certo non sono pari. Siamo l'unico posto al mondo dove un'associazione che si occupa di contrastare la discriminazione razziale e sessuale l'ormai celebre Unar foraggia club sulle porte dei quali è scritto che le donne non possono entrare. Come se fossero dei cani. Circoli che, dopo essersi lavati la coscienza distribuendo qualche volantino politicamente corretto, diventano bordelli omosessuali. E non si capisce, dunque, perché loro possano farlo e gli eterosessuali no. E questo non è sessismo? Non è un intollerabile atto di razzismo nei confronti della prostituzione femminile che nonostante sia la professione più antica del mondo continua a essere anche la più vituperata? Vogliamo creare un'organizzazione ad hoc - ovviamente statale - che si occupi anche di questa odiosa discriminazione? Siamo il Paese delle dispari opportunità, dove per difendere una minoranza si prende a pesci in faccia la maggioranza, dove l'amicizia conta più del merito e la tessera vale più di un curriculum e dove l'iniziativa privata vale sempre meno di quella pubblica e parastatale. Perché, per inciso, questi circoli non solo usavano soldi pubblici per farsi degli affari tanto privati da essere intimi. Ma lo facevano anche con delle grosse agevolazioni fiscali. Perché un circolo - a prescindere da quello che si compie tra le sue segrete mura - gode di un regime di tassazione tutto speciale. Ecco l'ennesima disparità. Un'altra discriminazione. Perché nel nostro Paese l'ipocrisia è così connaturata da essere divenuta legge. E se tu fai finta di fare associazionismo e magari ti impegni anche per il sociale, possibilmente nel nome di un egualitarismo accattone o della difesa di chissà quale diversità, vedrai che qualche agevolazione ti piove addosso. E potrai anche vendere Coca-Cola e mojiti senza rilasciare scontrini fiscali e pagare meno di Imu e Iva. Poco importa che poi dentro invece che bibite si venda carne umana, come dimostrano le cronache di questi giorni. Alla faccia del povero disgraziato che ha aperto un bar due metri dopo e deve pagarsi tutte le tasse come le persone comuni. Ma di quelle non si occupa nessuno, non sono abbastanza pari. Evidentemente.

LA DIVULGAZIONE PRO-GENDER.

Il nazi-femminismo ed il gender entrano nella scuola, scrive il 10 luglio 2015  su "avoiceformen.com". In base all’articolo 16 della nuova legge sulla scuola, femministe saranno assunte a spese nostre per indottrinare i bambini alla falsa e calunniosa ideologia secondo cui esisterebbe una «violenza di genere».  Tale ideologia, secondo cui le donne sarebbero vittime e gli uomini violenti, è sostenuta dai centri anti-violenza per sole donne spesso coinvolti in false accuse contro i papà finalizzati ad aiutare donne separate a sottrarre i figli e ad abusarli alienandoli a credere che i papà siano cattivi. Il tutto ebbe inizio negli anni 70, quando donne per bene come Erin Pizzey e Anne Cools fondarono i primi centri anti-violenza, che aiutando sia uomini che donne ebbero enorme successo. Le femministe, in cerca di una falsa buona causa con cui mascherare il proprio progetto criminale di distruggere le famiglie arricchendosi con false accuse, si impadronirono di tali centri cacciando con la violenza chi li aveva fondati. Dopo aver tentato di resistere alle minacce di morte contro i suoi figli, all’uccisione del suo cane, Erin Pizzey fuggì in America abbandonando i centri anti-violenza alle femministe, che avviarono «l’industria multi-milionaria delle false accuse». In Italia, per ottenere soldi pubblici per i loro centri le femministe hanno nel 2011 usato la stampa per montare la calunnia del “femminicidio”, quando in realtà l’Italia è uno dei paesi al mondo più sicuri per le donne. Un parlamento di pecore, sentendo parlare di “violenza sulle donne”, approvò la Convenzione di Istanbul senza accorgersi che era un cavallo di Troia che nascondeva l’ideologia gender ed il nazi-femminismo. La crisi economica ha per ora rallentato i finanziamenti di stato alle calunnie contro i papà separati, ma appoggiandosi a tale Convenzione, le femministe hanno ora ottenuto di entrare nelle scuole. Questa volta numerosi parlamentari hanno tentato di opporsi alla nuova legge, che sta costando molti voti al Partito Donnista che la ha imposta. E, per fortuna, la società civile sta capendo cosa si nasconde dietro a queste manovre: centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro l’ideologia gender, e sentinelle promettono di vigilare per proteggere i bambini da uno stato che vuole usare le scuole per indottrinarli ad una falsa ideologia dell’odio.  Una famiglia può proteggere i figli iscrivendoli ad una scuola privata che prometta di non indottrinare i bambini.

Scuola di Stato Lgbt. Ecco cosa insegnerà ai nostri figli il maestro unico della “teoria del gender”, scrive il 3 Febbraio 2014 Benedetta Frigerio su “Tempi”. Ora che il governo ha stanziato 10 milioni per mandare studenti e insegnanti a lezione di sessualità gay, tutti impareranno ad «aprirsi» verso le unioni omosessuali e gli altri temi dell’agenda arcobaleno. La nostra inchiesta. È ufficiale. Senza rumore, in punta di piedi, il governo italiano ha dato il via libera a un programma di istruzione degli studenti e di aggiornamento degli insegnanti secondo la visione che della sessualità e dell’affettività hanno le organizzazioni militanti sotto la bandiera gay. Si rischia di trasformare la scuola in una palestra di scontro, proselitismo e indottrinamento ideologico? Niente di tutto questo, sostengono gli “esperti” ingaggiati nell’operazione. Si tratta solo di «ampliare le conoscenze e le competenze di tutti gli attori della comunità scolastica sulle tematiche lesbo, gay, bisessuali, transessuali (Lgbt); favorire l’empowerment delle persone Lgbt nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni». E in conseguenza di «contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori». Come si realizzeranno questi obiettivi? Con «percorsi innovativi di formazione e di aggiornamento per dirigenti, docenti e alunni sulle materie antidiscriminatorie, con un particolare focus sul tema Lgbt e sui temi del bullismo omofobico e transfobico (…). In particolare la formazione dovrà riguardare: lo sviluppo dell’identità sessuale nell’adolescente; l’educazione affettivo-sessuale; la conoscenza delle nuove realtà familiari». Queste, all’epoca del governo Monti, erano le “linee guida” che l’allora ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero, approvò sotto l’impegnativo titolo di “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”. Linee che vengono ora confermate e finanziate dal governo Letta. Ripetono in molti che questa “Strategia nazionale” si sia resa necessaria per applicare una raccomandazione europea del 2010 (Cm/rec 5) uscita dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Anche in quella sede, però, viene precisato che «una raccomandazione non è vincolante e non ha conseguenze sul piano giuridico», semplicemente «consente alle istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e di suggerire linee di azione senza imporre obblighi giuridici». Dunque né un ministro né tantomeno i governi italiani erano vincolati a dar seguito a “posizioni” elaborate negli uffici di Bruxelles. Se ne poteva e doveva discutere pubblicamente in Italia, in parlamento, nel mondo della scuola, visto che si tratta di opinioni e non di direttive, invece che porsi problemi e agire per default, “perché lo dice l’Europa”? Evidentemente sì. Ma tant’è, a partire dal novembre 2013, il governo Letta ha ereditato la famosa “Strategia” pensando bene di finanziarla con 10 milioni di euro dei contribuenti. E chi attuerà concretamente tale “Strategia”? Per decreto della presidenza del Consiglio dei ministri del 20 novembre 2012, essa verrà implementata nelle scuole grazie alle ventinove associazioni che hanno partecipato alla stesura della stessa. Associazioni tutte rigorosamente di area Lgbt e precisamente queste qui, secondo l’ordine in cui compaiono nel decreto del governo Monti: Comitato provinciale Arcigay “Chimera Arcobaleno” Arezzo, Ireos Centro Servizi Autogestito Comunità Queer, Arcigay, Comitato Provinciale Arcigay “Ottavio Mai” Torino, A.Ge.Do, Parks – Liberi e Uguali, Equality Italia, Ala Milano Onlus, Arci Gay Lesbica Omphalos, Polis Aperta, Dì Gay Project, Circolo Culturale Omosessuale Mario Mieli, Gay Center, Gay Help Line, Famiglie Arcobaleno, Arcilesbica Associazione Nazionale, Rete Genitori Rainbow, Shake Lagbte, Circolo Culturale Maurice, Associazione Icaro Onlus, Circolo Pinkus, Cgil Nuovi Diritti, Mit Movimento Identità Transessuale, Associazione Radicale Certi Diritti, Avvocatura per i Diritti Lgbt Rete Lenford, Gay.net, I Ken, Consultorio Transgenere, Libellula, Gay Lib. Ora, secondo il decreto 104/2013 controfirmato dal presidente Napolitano, gli insegnanti saranno tenuti a partecipare a lezioni di aggiornamento per migliorare le loro competenze relative «all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere». La “teoria del genere” diviene dunque ufficialmente materia scolastica (e guai a chi pensa, discute e, eventualmente, contesta: il ddl Scalfarotto sull’“omofobia” non è lì, pronto per essere definitivamente approvato – questione di giorni, dicono in Senato – proprio per impedirlo?). In effetti già nel 2011 il Friuli Venezia Giulia, allora governato dal centrodestra di Renzo Tondo, aveva lanciato un progetto pilota in materia. Il programma fu premiato dal presidente della Repubblica con un’onorificenza destinata alle iniziative ritenute particolarmente meritevoli. E il plauso presidenziale spalancò le porte all’applicazione di quel modello pionieristico, promosso dai circoli gay e inizialmente chiamato “A scuola per conoscerci”. Oggi, dopo l’elezione alla presidenza regionale della renziana Debora Serracchiani, quel modello è diventato un ben più impegnativo “Progetto regionale di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo omofobico: rilevazione del problema, strategie d’intervento e attività di formazione”. Il compito di attuarlo spetta direttamente all’Ufficio scolastico regionale, al dipartimento di Scienze della vita dell’Università di Trieste e alle associazioni Circolo Arcobaleno Arcigay Arcilesbica Trieste e Gorizia, Arcigay Nuovi Passi di Udine e Pordenone e Arcilesbica Udine. «Questo risultato è il frutto di più di due anni di lavoro, svolto con costanza e in maniera gratuita dai volontari delle associazioni Lgbt», spiega la professoressa Giovanna Pelamatti, rappresentante dell’ateneo triestino per la raccolta dati nelle scuole. «Abbiamo deciso di muoverci sia sul fronte scientifico sia su quello educativo. E lo scorso dicembre il progetto è stato approvato dall’assessorato del Lavoro, Formazione, Istruzione e Pari opportunità. Inizialmente la Regione ci ha assegnato solo cinquemila euro simbolici, ma ci ha messo gratuitamente a disposizione alcuni psicologi. Presto saranno stanziati i fondi necessari per tutto il 2014». Il programma, già avviato nei licei statali, coinvolge un campione di duemila studenti rappresentativi di ogni tipologia di scuola superiore e di tutto il territorio regionale. «Ci occupiamo – racconta Pelamatti – di distribuire questionari a studenti, docenti e personale amministrativo delle scuole per monitorare il livello di omofobia». Domandiamo cosa si intende nei questionari distribuiti per “omofobia”. «Come “cosa si intende”? Chiediamo quante volte alunni e docenti hanno assistito o partecipato a comportamenti fisici ma anche verbali offensivi nei confronti degli omosessuali e come hanno reagito». E se un alunno avesse sentito dire da qualcuno, mettiamo in casa, che “l’omosessualità non è naturale”, avrebbe dovuto segnalarlo nei questionari come “comportamento omofobico”? «Certo. Il nostro scopo è contrastare ed eliminare gli stereotipi. E abbiamo successo. Nelle scuole dove è già stata svolta un’attività educativa analoga alla nostra non c’è più traccia di pensieri omofobici, neppure tra gli studenti più refrattari alle regole. Sono questi i risultati che hanno portato il presidente Napolitano a premiare i circoli Arcigay. E altre Regioni, come l’Emilia Romagna, il Piemonte e la Basilicata, a chiedere di esportare il progetto». Quali sono i contenuti essenziali? «Insegniamo la “teoria del genere”, tra i cui contenuti fondamentali c’è che, indipendentemente dal sesso biologico, si può e si deve essere liberi di scegliere il proprio orientamento sessuale. Certamente poi moduliamo le lezioni, visto che riguardano un pubblico di studenti compreso tra la terza media e l’ultimo anno di liceo». Nelle classi, continua la professoressa, si affronta anche il tema «della flessibilità, per dire che non siamo mai uguali a noi stessi e possiamo cambiare», fino alla questione delle «famiglie omosessuali e dell’adozione. Sempre in chiave di “normalità”, perché il nostro obiettivo, ripeto, è combattere l’omofobia». A delineare nel dettaglio questo tipo di insegnamento è il responsabile della formazione del progetto, il professor Davide Zotti, presidente del Circolo Arcobaleno Arcigay e Arcilesbiche di Trieste e Gorizia: «Spieghiamo che l’identità sessuale è una costruzione frutto di diversi dati. C’è quello relativo al sesso biologico, per cui una persona nasce maschio o femmina. C’è l’identità di genere, che può essere diversa da quella biologica, perché una persona può non riconoscersi in essa. Esiste poi il ruolo di genere, quello che ci è imposto dalla società e dalla cultura attraverso il cliché secondo cui i maschi hanno certe caratteristiche diverse dalle femmine. E poi c’è l’orientamento sessuale, che include l’attrazione verso le persone del proprio sesso e che è naturale, innato: sfatiamo il mito che sia un problema derivante da vissuti particolari o da traumi». Ovviamente però, continua Zotti, non saranno presentati i percorsi legati alle cosiddette “teorie riparative”, che dimostrano che le persone con emozioni omosessuali possono cambiarle. Nella conversazione con il nostro interlocutore a questo punto nasce un piccolo screzio. Perché non spiegate anche le cosiddette “teorie riparative”? Esiste anche una letteratura al riguardo. Circolano testimonianze. Persone che provavano disagio nel vivere la propria omosessualità e che in seguito a un certo approccio psicoanalitico sono cambiate. «Veramente non mi risulta. Comunque alcuni sanno già che cosa vogliono a tredici anni, altri lo decidono più tardi». Non le sembra rischioso questo determinismo? Si potrebbero confondere i ragazzi nella fase delicata dell’adolescenza. «Ma come fa una giornalista a parlare ancora così? Si vergogni!». Anche a Roma l’assessorato alla Scuola ha approvato per l’anno scolastico in corso la campagna “Lecosecambiano@Roma”, con il fine di contrastare il bullismo omofobico tra gli studenti delle superiori. E anche in questo caso sono stati stanziati fondi per ricerche sul fenomeno “omofobia” e programmati incontri formativi con la partecipazione di esponenti del mondo della cultura, del cinema, del teatro e della medicina. Fra gli altri spiccano i nomi di Serena Dandini, ex madrina del Gay Pride, di Maria Sole Tognazzi, firmataria della lettera inviata al sindaco Marino per invitarlo «a chiedere agli insegnanti di parlare di omosessualità, di bisessualità e transessualità», di Francesca Vecchioni, che nel 2012 venne immortalata sulla copertina del settimanale Chi insieme alla sua compagna e alle due gemelline concepite con fecondazione eterologa in Olanda. Il Comune di Venezia si distingue invece per un “Piano di formazione 2013-2014” riservato alle “educatrici e insegnanti dei servizi per l’infanzia comunali” che ha «l’obiettivo di aumentare le informazioni relative alle nuove tipologie di famiglia in Italia» e «di accrescere la conoscenza sulle famiglie omogenitoriali e sui loro bambini». Tiziana Agostini, assessore alle Politiche educative, spiega a Tempi che «tutto è nato dal fatto che nelle nostre scuole abbiamo famiglie omogenitoriali. Quindi il progetto mira alla formazione delle educatrici per la comunicazione e all’apertura verso le famiglie omosessuali». Nell’ordinamento legale italiano, però, non esiste una tale tipologia di famiglia. “Rispetto della legalità”. O no? «Io parto da quello che è la realtà e che bisogna accettare per non creare disordini», replica Agostini. Ma secondo questa linea del “non creare disordini”, quante cose illegali e reali che ci sono in giro dovremmo accettare? Non potrebbe, questa logica dell’ineluttabile, accendere un disordine ancora più grande nei bambini piccolissimi? «Io non posso farci niente se i fatti stanno così. E come assessore con delega alla Cultura delle differenze mi spetta di agire: qui ci dobbiamo preoccupare che sia tutto ben ordinato e rassicurante per i nostri bimbi. Questo è il ruolo che mi è stato assegnato. Ed è quello che ci richiede una società pluralista e laica». Ma è rassicurante un’enfasi psicologista che – sono le parole usate nel progetto formativo – suona così: «Succede talvolta che gli sguardi e le parole che gli adulti rivolgono ai bambini veicolino una valorizzazione o una svalutazione legate al maschile e al femminile che si insinua negli esempi, nei giochi e nei giocattoli, nei libri letti, nelle filastrocche e nelle fiabe, nei modi di dire»? L’assessore rincara: «Se è per questo anche parlare di colori “maschili” e colori “femminili” non è rassicurante e serve solo a ipostatizzare i bambini e a ghettizzarli in stereotipi». Il rosa e l’azzurro ipostatizzano e ghettizzano? «Certo. È per causa di questi steccati ideologici che poi la società è divisa e frammentata».

LA QUESTIONE GENDER. Linee guida per i mass media, testi nelle scuole, iniziative di formazione per gli insegnanti degli asili, persino riscritture della modulistica di istituzioni pubbliche: l’ideologia del gender, che pretende di annullare il dato della differenza sessuale per sostituirlo con una astratta equiparazione di tutti i possibili orientamenti, sta scendendo dal piano del dibattito di idee per entrare nella vita quotidiana di cittadini e famiglie. In questo dossier raccogliamo cronache, interviste, analisi e documenti pubblicati da Avvenire su questo decisivo tema.

Tutti pazzi per il gender, scrive “La teoria del gender è un’ideologia a sfondo utopistico basata sull’idea, già propria delle ideologie socio-comuniste e fallita miseramente, che l’eguaglianza costituisca la via maestra verso la realizzazione della felicità. Negare che l’umanità è divisa tra maschi e femmine è sembrato un modo per garantire la più totale e assoluta eguaglianza – e quindi possibilità di felicità – a tutti gli esseri umani. Nel caso della teoria del gender, all’aspetto negativo costituito dalla negazione della differenza sessuale, si accompagnava un aspetto positivo: la totale libertà di scelta individuale, mito fondante della società moderna, che può arrivare anche a cancellare quello che veniva considerato, fino a poco tempo fa, come un dato di costrizione naturale ineludibile”. A scriverlo è la storica Lucetta Scaraffia (“La teoria del gender nega che l’umanità sia divisa tra maschi e femmine”, L’Osservatore Romano, 10 febbraio 2011). Chi è che vuole negare l’esistenza e la differenza tra maschi e femmine? E quando sarebbe successo? Rispondere è facile: nessuno e mai. Tuttavia da qualche tempo è emersa questa strana e inesistente creatura, metà fantasia, metà film dell’orrore: è l’“ideologia del gender”. Non è facile individuarne la data di nascita, ma quello che è certo è che nelle ultime settimane la sua ombra minacciosa è molto invadente. È buffo vedere quanta paura faccia il riflesso di quest’essere mostruoso (ma allucinatorio come Nessie), nato in ambienti angustamente cattolici, conservatori e ossessionati dalla perdita del controllo. Il controllo sulla morale, sul comportamento, sull’educazione e sul rigore feroce con cui si elencano le categorie del reale con la pretesa che siano immutabili e incontestabili in base a un argomento d’autorità: “È così perché lo diciamo noi”. Questa perfida chimera che vorrebbe annientare le differenze sessuali si nutre della continua e intenzionale confusione tra il piano biologico (“per fare un figlio servono un uomo e una donna”) e quello sociale e culturale (“per allevare un figlio o per essere buoni genitori bisogna essere un uomo e una donna”). Come vedremo, perfino il piano biologico è meno rigido e, no, non significa che “non ci sono differenze biologiche tra uomo e donna” – nessuno lo ha mai detto. Ma le Cassandre della “ideologia del gender” combattono contro un nemico che hanno immaginato, o che hanno costruito, stravolgendo il reale, per renderlo irriconoscibile e poterlo così additare come un mostro temibile (si chiama straw maned è una fallacia molto comune: si prende un docile cane di piccola taglia e lo si trasforma in un leone famelico; poi si litiga con il padrone del cane e lo si accusa di irresponsabilità: “Girare con una bestia feroce in luoghi affollati e con tanti bambini!”). Perché essere tanto spaventati da esseri che non esistono e da ombre sulle pareti? Perché non girarsi per rendersi conto, finalmente, che va tutto bene? Se state poco sui social network e scegliete bene le vostre letture forse non ne avete mai sentito parlare. Ma è sempre più improbabile che non ne sappiate nulla visto che lo scorso 21 marzo Jorge Maria Bergoglio ha detto che la “teoria del gender” fa confusione, è uno sbaglio della mente umana e minaccia la famiglia. “Come si può fare con queste colonizzazioni ideologiche?”, ha domandato. Un paio di giorni dopo Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aggiunto che “l’ideologia del gender” si “nasconde dietro a valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione… ma in realtà pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. È addirittura una “manipolazione da laboratorio”. E poi si è rivolto accorato ai genitori: “Volete voi questo per i vostri figli?”. E qualche giorno più tardi ci è tornato il cardinale Carlo Caffarra, ricorrendo a una metafora oftalmica: “Esiste oggi una cataratta che può impedire all’occhio che vuole vedere la realtà dell’amore di vederlo in realtà. È la cataratta dell’ideologia del ‘gender’ che vi impedisce di vedere lo splendore della differenza sessuale: la preziosità e lo splendore della vostra femminilità e della vostra mascolinità”. Minacce individuali e familiari, errori mentali, colonizzazioni ideologiche, furti di identità e di umanità, manipolazioni, cataratte: mai tanti e tali disastri erano stati attribuiti a qualcosa che non esiste. Chi se la prende con la presunta “ideologia del gender”, come dicevo, confonde intenzionalmente i termini e i concetti per deriderli, banalizza le differenze per farne una caricatura, si ostina a non capire le questioni e invece di domandare spiegazioni si nasconde dietro una presuntuosa e rivendicativa ignoranza. Ci sono molti esempi e vengono dalla cronaca (tra gli ultimi il gioco “porno” all’asilo di Trieste) o da documenti più o meno ufficiali (sempre di area ultraconservatrice e fortemente miope). Eccone un altro esempio, forse più grave ancora perché Roberto Marchesini è psicologo e psicoterapeuta (“Il ragazzo curato a ormoni per diventare ragazza”, La Bussola Quotidiana, 9 marzo 2015): “Non importa se ci sono due cromosomi Y, o un cromosoma Y e due X: se c’è il cromosoma Y siamo maschi, punto. E non è questione di organi genitali: siamo maschi o femmine in tutto il nostro corpo, perché ogni cellula del nostro corpo ha quel benedetto cromosoma. Possiamo mutilarci, possiamo aggiungerci appendici siliconiche in ogni parte del corpo, depilarci, limarci la mascella e sottoporci a qualsiasi altra tortura, ma resteremo maschi. Senza genitali, magari, con protesi sul petto, ma sempre maschi. Quindi non è possibile che questo ragazzo diventi una ragazza. Qualcuno ha mentito ai genitori e a lui. […] È l’ideologia di genere che ci fa credere una cosa assurda, cioè che sia possibile ‘cambiare sesso’. Si chiama ideologia proprio per questo”. In questo caso la confusione è aumentata da possibili interventi (ormonali e chirurgici). Su questo torneremo. Sempre a marzo, Paola Binetti era molto allarmata: “Presentata all’Onu richiesta di inserire movimento femminista e alle associazioni Lgbtq, nel quadro teorico e pratico del ‘sistema gender’” (5 marzo 2015, Twitter). C’è anche il filosofo Diego Fusaro che, in occasione della polemica scatenata da Dolce & Gabbana, aggiunge un po’ di Asimov che ci sta sempre bene. Fusaro: “Dolce e Gabbana? Li attaccano perché ora c’è la prova. Gender, siamo all’ingegneria sociale”, 16 marzo 2015. Alla domanda, “Dopo tutte le polemiche gli asili nido di Trieste hanno fatto bene a fare retromarcia sui ‘giochi gender?’” Fusaro risponde: “Ormai per manipolare bisogna partire anzitutto dai bambini. Siamo al cospetto di una vera e propria ingegneria sociale, è evidente, una mutazione antropologica direbbe Pasolini, si cerca di inculcare fin dalla giovane età che non esistono uomini e donne ma ognuno si sceglie il sesso che vuole. Tutto ciò per me è una sciocchezza, i sessi sono due, poi ci sono tutti gli orientamenti sessuali possibili, ma un omosessuale resta sempre un uomo così come una lesbica rimane sempre una donna”. Ho già detto che nessuno vuole eliminare la differenza tra uomini e donne? È davvero un peccato che Fusaro abbia rinunciato al ruolo principale della filosofia: cercare di chiarire i termini e i concetti. Offrirsi cioè come uno strumento per capire meglio e non per mescolare le parole come si farebbe in un caleidoscopio, perché il risultato non è più colorato ma più annebbiato. Spesso completamente fuori fuoco. Per capire come l’“ideologia del gender” rimescoli parole a caso – aspirando a sembrare qualcosa di sensato – dobbiamo fare una premessa.Le definizioni sono arbitrarie, ci servono per semplificarci la vita. Dovremmo sempre ricordarci però che la realtà è un insieme in cui i confini netti non esistono – ma esistono contiguità, sovrapposizioni, intrecci sui quali tracciamo linee e diamo definizioni – e che, più conosciamo più possiamo (o dobbiamo) specificare, come quando ci avviciniamo a qualcosa (sedia, tavolo, gioco: provate a dare una definizione necessaria e sufficiente e vi accorgerete che è meno facile di quanto possiate immaginare). Ciò non significa che non esistono differenze o che sia tutto nella nostra testa (nella nostra percezione), almeno nella prospettiva realista. Significa che quello che osserviamo è più fluido di un interruttore che spegne e accende una luce. Lo si dimentica a volte. Lo si rimuove sempre quando si parla di (ideologia del) gender. La biologia, per cominciare, fa distinzioni meno nette rispetto ai termini maschio/femmina. In biologia ci sono i due estremi (M e F), ma ci sono anche molte possibilità intermedie. Esistono molti stadi di intersessualità, come l’ermafroditismo, la sindrome di Morris e quella di Swyer, e ci sono casi in cui è controversa la definizione di intersessualità, come la sindrome di Turner o di Klinefelter (si veda il film XXY). Anche alcune di queste condizioni sono definite patologiche (disordini di differenziazione sessuale o di sviluppo sessuale), ma pure definire una “patologia” non è così agevole come potrebbe sembrare. Questo soltanto se parliamo di sesso, ovvero dell’appartenenza a un genere sessuale indicato come XX e XY (sono i cromosomi sessuali a distinguere, a un certo punto dello sviluppo embrionale, gli individui che saranno maschi da quelli che saranno femmine). Se però cominciamo a parlare di identità di genere, di ruoli e di orientamenti sessuali le cose si complicano ulteriormente. Si può essere di sesso M e avere una identità sessuale maschile oppure femminile (oppure ambigua, oscillante, cangiante). Nulla di tutto questo è intrinsecamente patologico o sbagliato e soprattutto ciò che è femminile e maschile è profondamente determinato culturalmente, tant’è che i ruoli maschili e femminili cambiano nel tempo e nello spazio. Il rosa non è intrinsecamente un colore da femmine (F), almeno lo è in modo diverso rispetto all’avere o no l’utero, anche se si può essere donne – in un senso meno claustrofobico della riduzione del ruolo femminile a un patrimonio cromosomico o al possesso di alcuni organi sessuali – senza averlo: perché sei nata senza, perché te l’hanno tolto, perché eri nata come M ma la tua identità di genere è femminile. I ruoli sono il risultato di stratificazioni lunghe e tortuose e non rappresentano qualcosa di immobile e determinato per sempre, né tanto meno quello che è giusto e buono (trasformare tutto questo in “mica pretenderete che due uomini si riproducano?” è un problema di chi equivoca così malamente e non del gender). Poi ci sono le preferenze o gli orientamenti sessuali: eterosessuale, omosessuale, bisessuale, queer, eccetera. Ci sono anche gli asessuali (in Giappone le percentuali di individui non interessati alle relazioni affettive e sessuali sono altissime) e ovviamente ci sono i casti, non per mancanza di interesse sessuale ma per un fioretto come Sophia Loren in Ieri, oggi e domani, oppure per un voto di castità meno temporaneo. “Ideologia del gender” (cioè del genere sessuale) non vuol dire nulla. È come dire ideologia del sapone o del cielo. Tra l’altro è ancora più insensato se si pensa che è attribuita a chi vuole alleggerire la pressione del dover essere – perciò in caso dovrebbe essere “anarchia del gender”, o “relativismo del gender” visto che per alcuni è un insulto essere relativista (anche questo rasenta l’insensatezza, soprattutto se ci ricordiamo che l’alternativa è l’imposizione e il dogmatismo).La sfumatura di imposizione che si vuole attribuire, dal sapore complottista, suona davvero strana perché imporre un giogo meno stretto è un po’ bizzarro. Sono quelli che strepitano contro la temibile “ideologia del gender” che vogliono imporre decaloghi e regole rigide e stabilite da loro – mentre i gender studies si muovono in un dominio di libertà, in una fluidità dei modelli (individuali e familiari); sono per la loro desacralizzazione e per i diritti per tutti. Basta cercare su Google. Basterebbe anche solo leggere il recente documento approvato dall’Associazione italiana di psicologia che ha l’intento di “rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane” e di “chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia del gender’”. Non ha molto senso nemmeno il termine “omosessualismo”, se non in un senso di scherno e di intenzionale disprezzo. Peggio di “frocio”, perché almeno frocio è limpidamente aggressivo (poi ovviamente l’offesa dipende dal contesto, dalle intenzioni dei mittenti e dallo spirito dei destinatari) mentre “omosessualista” ammicca a una correttezza formale e superficiale che nasconde la convinzione che tu faccia schifo e sia inferiore in quanto non eterosessuale – è l’“in-quanto” a essere sbagliato, sia in senso dispregiativo sia in senso adulatorio. Non c’è nessun merito a essere donna o lesbica. E non c’è nemmeno nell’essere omosessuale, casto o indeciso. Ma, è chiaro, non c’è nemmeno un demerito o un peccato. C’è un altro termine che suscita reazioni scomposte: cisgender. È un termine usato per indicare la coincidenza tra il genere sessuale (M o F) e l’identità sessuale (maschile e femminile). Gli ottusi abituati a distinguere solo M e F come XX e XY (e a pensare come giusto solo l’orientamento eterosessuale, immaginato fisso e immobile come Aristotele pensava la sua cosmologia) ne sono spiazzati e reagiscono come si reagisce alle scuole medie davanti all’ignoto: ridono imbarazzati, giudicano quello che non sanno e non vogliono sapere come un capriccio di menti disturbate. Rivendicano identità che nessuno vuole mettere in discussione – “io sono femmina!” – un po’ come succede quando si parla di matrimoni e di famiglie: “Volete distruggere la famiglia!”. Stanno cercando di fare il contrario di quanto è avvenuto con il termine queer: originariamente un insulto, è stato trasformato nel tempo fino a diventare una parola dal significato ampio ma essenzialmente non dispregiativo (ci sono i dipartimenti universitari queer e queer studies nelle università più prestigiose – si veda Yale, per esempio). Ci sono poi ovviamente le patologie sessuali, le perversioni o le ossessioni, che sono indipendenti dall’essere M, F, eterosessuale o indeciso. Per fare un esempio cattolico ufficiale della miopia che caratterizza l’“ideologia del gender”, basta leggere il discorso del santo padre Benedetto XVI del 21 dicembre 2012, perché nonostante alcuni ci tengano a sottolineare che la loro avversione non c’entra con la religione, si parte sempre dalla dicotomia M e F (e spesso lì si rimane, come in un’inutile corsa sul posto): “Egli [il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim] cita l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir: ‘Donna non si nasce, lo si diventa’ (On ne naît pas femme, on le devient). In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma ‘gender’, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato. Proprio questa dualità come dato di partenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: ‘Maschio e femmina Egli li creò’ (Gen 1,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più”. Se non si riesce a sottrarci a questa visione semplicista e ingessata quando si parla di sesso (biologico), è inevitabile che quando è necessario introdurre la differenza tra gender, identità e ruolo di genere e preferenze sessuali l’effetto è quasi comico. È ovvio che de Beauvoir intendesse qualcosa di molto diverso da quanto Bernheim lascia intendere, proprio come chi oggi è tanto spaventato dal gender. Il comico muta in grottesco quando si azzardano metafore al rialzo: “L’ideologia del #gender è più pericolosa dell’Isis”, avverte durante la messa don Angelo Perego, parroco di Arosio (Como). E non è certo il primo né il più originale. Tony Anatrella, prete e psicoanalista, nella prefazione del volume Gender, la controverse denuncia la cultura di genere come un’ideologia totalitaria, più oppressiva e perniciosa dell’ideologia marxista. L’elenco è molto lungo e poco fantasioso. Un capriccioso puntare i piedi contro la frammentazione di una realtà che non è mai stata monolitica (ma solo presentata come tale) e, inevitabilmente, contro la (ri)attribuzione dei diritti. Sarebbe già abbastanza ingiustificabile usare fantasmi e spauracchi per limitare i diritti, soprattutto perché garantire diritti a tutti non li toglie a nessuno. Ma tutto questo rischia di diventare inutilmente crudele quando è diretto ai bambini e agli adolescenti – scenario non inverosimile se si pensa che uno dei luoghi di scontro è proprio la scuola. Non solo: ritrovarsi con dei genitori che ti mandano a farti aggiustare se sei frocio o ridicolizzano la tua identità di genere (che non è come la vorrebbero loro o come dice il prete) “perché sei piccolo” è davvero penoso. Si sopravvive (non sempre), ma c’è un carico pesantissimo di dolore evitabile.“Chi difende i diritti del bambino diverso?”, domandava Paul B. Preciado in un articolo di due anni fa. “I diritti del bambino che vuole vestirsi di rosa. I diritti della bambina che sogna di sposarsi con la sua migliore amica. I diritti del bambino e della bambina queer, omosessuale, lesbica, transessuale o transgender. Chi difende i diritti del bambino di cambiare genere se lo desidera? Il diritto alla libera autodeterminazione del genere e della sessualità. Chi difende i diritti del bambino a crescere in mondo senza violenza di genere e senza violenza sessuale?”. Dovremmo rispondere a tutte queste domande (dovrebbero provare a rispondere gli agitatori della “ideologia”), ricordando che “mio padre e mia madre durante la mia infanzia non proteggevano i miei diritti. Proteggevano le norme sessuali e di genere che loro avevano assorbito dolorosamente, attraverso un sistema educativo e sociale che puniva ogni forma di dissidenza usando la minaccia, l’intimidazione, la punizione, la morte”.

Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è? Scrive il 17 ottobre 2015 "Libre Idee". Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender». A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omicidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo. Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar». Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo». Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla». L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile». La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso? Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini». Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)». Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attenzione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto». Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio. «Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”. Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare». E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia». Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender». A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omicidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo. Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar». Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo». Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla». L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile». La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso? Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini». Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)». Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attenzione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto». Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio. «Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”. Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare». E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».

Docenti a scuola di teorie pro-gender. Ed è bufera. In una scuola di Roma corso per "educare alle differenze". Con il patrocinio del Comune. I genitori protestano, scrive Giovanni Masini, Lunedì 21/09/2015, su "Il Giornale". Nella fucina degli insegnanti pro-gender: a Roma la due giorni per «educare alle differenze». A fianco della cartina d'Italia, sul muro, alcune locandine colorate con diverse famiglie. Un bimbo, due bimbi, due mamme, due papà. Non è la scuola del futuro, a Roma è già realtà. Sabato e domenica alla scuola Cattaneo, in pieno Testaccio, è andata in scena la due giorni di «Educare alla differenze» - appuntamento irrinunciabile per chi vuole introdurre nelle scuole italiane «un altro genere di informazione»: decisamente gay-friendly e, come va di moda ripetere, «libero da pregiudizi». È la fucina degli insegnanti «pro-gender» (o pro-studi di genere che dir si voglia). Ad organizzare tutto sono tre associazioni vicinissime alla galassia Lgbt, con tanto di patrocinio del Comune di Roma. Docenti e genitori imparano come combattere il bullismo, ma anche come insegnare ai bimbi a liberarsi dagli «stereotipi di genere»: per la fascia d'età 0-6 anni, le insegnanti ricompongono in modo non convenzionale le fiabe ritagliate su fogli di carta: la principessa libera il principe, mentre la nonna va al ballo con il rospo. Biancaneve ingenua e bellissima - ça va sans dire - è un modello nefasto e superato. Altrove si utilizzano giochi da tavolo per riscrivere il vocabolario. Sulle carte del Memory, un maschio e una femmina costruiscono una casa: per distinguere le carte i bimbi sono costretti a dire «il muratore» e «la muratrice». C'è la teoria del genderbread, per cui l'identità sessuale non è mai definita ma sempre in divenire, mentre a proporre un «laboratorio sull'identità sessuale degli adolescenti» è il centro lgbt bolognese «Cassero», noto per aver organizzato una festa in cui uomini travestiti da Gesù mimavano atti sessuali con una grossa croce. Nell'aula a fianco, il tavolo «fuori programma» ospita «De-generiamo», un laboratorio di «quasi-danza» che vuole riflettere su «identità e stereotipi» esplorando «autoerotismo, post-pornografia, dominazione e sottomissione, bondage e burlesque». Il tutto nella cornice di un evento organizzato da associazioni che si propongono come interlocutrici del Miur al tavolo che dovrà discutere le linee guida per attuare la riforma della Buona scuola laddove (comma 16 legge 107/2015) parla di «educare alla parità tra i sessi, prevenire violenza di genere e discriminazione, informare e sensibilizzare studenti, docenti e genitori». Il ministro - pardon, ministra - Giannini ha annunciato querele contro chi insinui che la riforma contenga riferimenti al gender. Come regolarsi con queste associazioni: ammetterle o no al tavolo del Miur, farle entrare o no in classe? Le associazioni dei genitori già sono sul piede di guerra e promettono battaglia.

Il gender nelle scuole viene insegnato. Ecco le prove, scrive Matteo Borghi l'8-10-2015 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Quando l’hanno accusata di voler diffondere la teoria gender nelle scuole, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha prima negato con forza, per poi parlare di «truffa culturale» e minacciare addirittura la denuncia. Eppure, nelle scuole italiane (che lo preveda o meno la "Buona scuola”, che è appena partita), l’insegnamento di gender c’è eccome. Anche se nulla è istituzionalizzato e controllato dal governo, sono state tante le scuole che hanno dato spazio alla teoria gender (che lo ricordiamo, sostiene che l’identità sessuale non sia altro che una libera costruzione dell’individuo) camuffandola magari sotto l’egida della lotta all’omofobia e alla discriminazioni, con cui ovviamente non c’entra nulla. Un dato di fatto che, due giorni fa, ha spinto il gruppo regionale della Lega Nord a presentare una mozione, redatta dai consiglieri Jari Colla e Massimiliano Romeo, contro l’insegnamento del gender nelle scuole. «Premesso che i trattati del diritto internazionale sanciscono in modo chiaro e inequivocabile il diritto di priorità da parte dei genitori del genere di istruzione ed educazione da impartire ai loro figli», si legge nella mozione e «ritenuto che negli ultimi anni è venuta ad affermarsi una pericolosa tendenza di molti istituti scolastici all’utilizzo di progetti di educazione sessuale […]» legata alla teoria di gender e che «nella suddetta teoria l’educazione all’affettività ha la tendenza a diventare sinonimo di educazione alla genitalità e alla masturbazione precoce, priva di riferimenti etico e morali, fin dall’età infantile». Non solo. «Nel materiale informativo favorevole alla teoria gender la famiglia composta da donna e uomo è vista come stereotipo da superare». L’obiettivo della mozione è far sì che la teoria gender non venga insegnata e «si agisca sulle autorità scolastiche preposte […] perché vengano ritirati dalle scuole i libri e il materiale informativo che promuove la teoria». «Quando si fanno mozioni del genere», ha commentato Romeo, «si viene subito accusati di essere omofobi o d’inventarsi qualcosa che non esiste. Invece il gender esiste, viene insegnato, e contrastarlo non vuol certo dire odiare o discriminare gli omosessuali”». I casi di insegnamento sono tanti. Fra i libri vietati dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (clicca qui) ce n’è uno, Nei Panni di Zaff (M. Salvi, F. Cavallaro, Fatatrac), che racconta come «avviene spesso che il maschietto voglia vestirsi da bambina e giochi con le bambole sognando di fare la ballerina o che la bimba voglia vestirsi da maschio e sogni di fare il calciatore» e che è tuttora in circolazione in molte scuole materne (dai tre ai sei anni) lombarde. Un racconto che ricorda da vicino il Gioco del rispetto promosso nel marzo scorso in alcune scuole del Friuli Venezia Giulia in cui – come riportano le cronache - ai bambini veniva chiesto di indicare i reciproci organi genitali travestirsi con abiti del genere opposto. E non è l’unico caso di un'iniziativa simile. Nel giugno dell’anno scorso il Comune di Monza ha promosso il “Progetto Rainbow” per insegnare ai bambini delle elementari cosa sono l’omosessualità e la transessualità. Come? Con una serie di nove dvd fra cui spiccava il film Da Lucas a Luus, che sponsorizza la transessualità a bambini fra gli 8 e i 10 anni, parlando di una “bambina”, nata bambino (clicca qui). Il promotore del progetto, Alessandro Gerosa (Sel), ha spiegato il senso del progetto così: «Perché tutte/i le/gli alunne/i nell’età della crescita scolastica possano sviluppare un’identità di genere ed un orientamento sessuale consapevole». Una modalità di illustrare il genere con l’asterisco usata anche in una serie di volantini distribuiti in alcune scuole, che titolavano: “Libera tutti/e”. Già perché dire “tutti” avrebbe discriminato le donne, mentre “tutte e tutti” i transessuali e le persone con un’identità di genere “liquida” o non ben definita (per non scontentare nessuno Facebook ha invitato a scegliere fra 56 diversi generi sessuali). Meglio, quindi, creare un vero e proprio abominio linguistico per non scontentare e non offendere nessuno. Una vera e propria mania per il politically correct di cui tutto l’occidente è ormai affetto (clicca qui). Gli insegnamenti che abbiamo sopra descritto sono, del resto, ancora nulla rispetto alla famosa tabella dell’Oms che parla della necessità di fornire informazioni su: «gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione infantile precoce» (per bambini da 0 a 4 anni), «relazioni con persone dello stesso sesso» (4-6 anni), «le scelte riguardanti la genitorialità, la gravidanza, l’infertilità, l’adozione l’idea base della contraccezione (è possibile pianificare e decidere sulla propria famiglia), i diversi metodi contraccettivi, gioia e piacere nel toccare il proprio corpo (masturbazione/ auto-stimolazione), rapporti sessuali» (6-9 anni), «orientamento di genere comportamenti sessuali dei giovani (variabilità nei comportamenti sessuali), piacere, masturbazione, orgasmo; sintomi, rischi e conseguenze delle esperienze sessuali non protette» (9-12). E non è una “bufala”, come hanno gridato alcuni, ma è tutto scritto in un documento ufficiale dell’Oms, da pagina 40 a pagina 50. Ovviamente sul tema ognuno può avere e tenersi l’opinione che vuole. Negare però che in alcune scuole italiane ci sia l’insegnamento del gender vuol dire però negare la realtà. 

La Giannini denunci pure, ma la "buona" scuola apre davvero al gender. Il ministro annuncia azioni legali contro chi vede nella riforma un assist al gender. Ma la riforma favorisce programmi scolastici controversi e basati sull'ideologia di genere, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 16/09/2015, su "Il Giornale". "Chi ha parlato e continua a parlare di teoria 'gender' in relazione al progetto educativo della Governo di Renzi sulla scuola compie una truffa culturale. Ci tuteleremo con gli strumenti a nostra disposizione, anche per vie legali". Il ministro Stefania Giannini vuole denunciare chi vede nella legge varata dal governo un viatico per far arrivare nelle scuole le teorie di genere. Un attacco frontale nei confronti di chi legittimamente vuole evidenziare il rischio di una deriva "gender" della riforma della scuola. Il ministro Giannini oggi ha inviato una circolare del Capo Dipartimento "a tutti i dirigenti scolastici" per provare a spiegare che a nella "Buona scuola" non si parla di "gender". E se ci si ferma alle parole, in effetti la Giannini ha ragione. Di certo nessuno potrà trovare nella legge questa parola. Ma ciò che ha spaventato molti genitori e numerose associazioni è che tra le pieghe della norma si celi un assist a chi fa di tutto per far arrivare queste teorie agli studenti italiani. Un appiglio che associazioni Lgbt e simili possono usare per portare a lezione programmi che ricalcano in pieno le teorie di genere. Tutto ruota attorno al comma 16. Che testualmente recita: "ll piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013". La Buona Scuola, sottolinea la Giannini, "esplicita dei criteri di sensibilizzazione all'interno delle scuole all'educazione, alla parità tra i sessi, perchè questa è una società dove la condizione della donna sul piano sociale, culturale ed economico deve fare dei passi avanti e alla sensibilizzazione dei ragazzi nella prevenzione della violenza di genere". Ed è proprio qui che casca l'asino. Secondo molti osservatori della legge, infatti, proprio grazie alla formulazione "violenza di genere" si possono creare "storture applicative" che vanno al di là della sensibilizzazione contro la violenza e scadono nella somministrazione ai ragazzi della teoria gender. Anche la Camera dei Deputati, l'8 luglio, ha approvato un ordine del giorno (n. 9/2994-B/5) che riconosce "una serie di storture applicative, che sono andate ben al di là dell’istanza, da tutti condivisa, di prevenire la violenza di genere e le discriminazioni". Secondo il ministro, invece, "la sintesi di questo comma 16 incriminato ingiustamente è l'introduzione della cultura della non discriminazione di ogni tipo, razziale, etnico e religioso, è l'introduzione della cultura della tolleranza e dell'accoglienza". Temi che, conclude Giannini, "la scuola in un Paese avanzato e moderno ha sempre introdotto in varie forme e che noi rinnoviamo in questa legge dello Stato". Ma non solo. Dopo gli appelli del Cardinale Angelo Bagnasco, infatti, l'attenzione si è rivolta all'articolo 5, comma 2 della legge 93 del 2015. Al punto 5.2 è scritto che si intende "superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere (...) sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica". "Approccio di genere", cos'altro può essere se non l'ideologia che alcuni legittimamente combattono? Non si parla esplicitamente di "gender" nella "Buona Scuola". Ma portare in Tribunale chi lancia l'allarme che la legge si presti ad essere utilizzata per altri scopi è sciocco. Se non contro la libertà di opinione. Quelli contro cui la Giannini non esclude "azioni legali" chiedono solo il diritto di dire che il comma16 possa aprire le porte alle associazioni varie che si occupano di educazione sessuale e di lotta all'omofobia per inserire - come a volte accade - programmi controversi. Un esempio su tutti, il programma di educazione sessuale promosso dalla Regione Emilia Romagna "W l'Amore" che al suo interno contiene frasi rivolte ai ragazzi cui si insegna che "non c'è un modo giusto per essere maschi e femmine e non ci sono caratteristiche esclusivamente maschili e femminili". Ovvero che l'essere uomo o donna non dipende dal dato biologico, ma solo da quello culturale e emotivo.

Il fulcro della teoria del gender.

"Nella Buona Scuola la teoria gender c’è". La denuncia dell’associazione ProVita: "Il ministro non ci racconta la verità". "Che il Ministro ci denunci! Non possiamo tacere la verità! La teoria gender nella Buona Scuola c'è! La Giannini, negando che nella legge sulla Buona Scuola vi siano aperture alla teoria gender, è arrivata a minacciare azioni legali contro coloro che sostengono il contrario. La circolare diramata dal MIUR, checché ne dica il ministro, non ci rassicura per niente: in essa si continua ad usare l’espressione «genere» e non «sesso», quando la nostra Costituzione all’art. 3 parla proprio di «distinzione di sesso». Finora i progetti sul gender sono stati finanziati dagli Enti locali, dal MIUR e dall'UNAR. Con la legge «Buona Scuola» si invita specificamente ad educare alla «parità di genere». Ecco il comma 16 dell'art. 1 della legge 107, «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013». Per capire che il «genere» in questi testi è altra cosa rispetto al «sesso biologico» e che segue la logica della teoria gender bisogna riferirsi al contesto normativo e soprattutto:

-Alla Convenzione di Istanbul, attuata di fatto dalla legge 119, dove è scritto che con il termine «genere» ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini e fa riferimento ad orientamento sessuale, identità di genere e prospettiva di genere.

-Al Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (approvato a Maggio 2015), che richiama in particolare l'obbiettivo di superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell'essere donne e uomini (…) nel rispetto dell'identità di genere, culturale, religiosa, dell'orientamento sessuale (…) mediante l'inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica.

Del fatto che il termine «genere» in queste normative fosse problematico in sé, era consapevole persino il Governo italiano in sede di firma della Convenzione di Istanbul: l'Italia depositò presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con la quale dichiarava che «applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali». La dichiarazione era motivata dal fatto che la definizione di «genere» contenuta nella Convenzione (l'art.3, lettera c) era ritenuta «troppo ampia e incerta e presentava profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano». Purtroppo la dichiarazione interpretativa era troppo vaga («nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali») e non ha scongiurato il pericolo, avveratosi con l'attuazione della convenzione mediante la legge 119 del 2013 e con l'adozione del «piano d'azione straordinario» nel mese di maggio 2015, dell'adozione del termine «genere» invece di «sesso», e di una interpretazione secondo la prospettiva (teoria) gender. Non possiamo poi dimenticare che da quando è ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini non ha fatto nulla per impedire che nelle scuole venissero proposti ai nostri bambini e ragazzi progetti fondati sulla teoria gender e/o sull'omosessualità, come abbiamo riportato nel dossier "Scuola, casi gender" sul nostro sito notizieprovita.it. Perciò i genitori devono vigilare sui programmi scolastici di questo anno accademico che potrebbero includere corsi ispirati alle teorie del Gender, consigliamo a tutti i genitori di prendere visione del "Vademecum per proteggere i tuoi figli" sempre visibile sul nostro sito". Antonio Brandi, ProVita Onlus.

LA MATERNITA’ SURROGATA.

Femministe contro la maternità surrogata: «La madre non si cancella», scrive Raffaele Buscemi, il 3 dicembre 2015 su "Documentazione.info". Avevamo già parlato di una coalizione di associazioni femministe provenienti da tutta l’Europa che si era formata per portare alla Conferenza dell’AIA un documento molto dettagliato e altrettanto critico sulla pratica dell’utero in affitto e della maternità surrogata. Adesso, come riporta il blog "La 27° ora", è il turno delle femministe francesi di dire la loro sull'argomento di fronte alle crescenti domande di iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madre surrogata in California, Russia, India o altrove. Il prossimo 2 febbraio all’Assemblea Nazionale si terrà un convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa») cui parteciperanno ricercatori, parlamentari francesi ed europei, associazioni femministe. L’assise è stata lanciata da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, impegnata da anni nella lotta contro la maternità surrogata con la sua associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona) e autrice del saggio Corps en miettes («Corpi sbriciolati», Flammarion). Agacinski, che è docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, spiega: «Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa (…) Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione (…)». Anche le femministe italiane si sono fatte sentire sul tema "utero in affitto". La prima a scendere in campo senza se e senza ma è stata Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano. «Non esiste un diritto di avere figli a tutti i costi, eppure ce lo vogliono far credere: finito il tempo delle grandi aggregazioni e dei partiti, è un nuovo modo di fare politica cercando consensi. L’utero in affitto si innesta in questa tendenza, anche se è nato prima, negli Usa, con gli effetti che sappiamo. È la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne». Paola Tavella, giornalista e autrice di un libro contro le tecniche di procreazione assistita dal titolo Madri Selvagge, non ha molti dubbi: «Io penso – dice – che un essere umano non si possa né vendere né comprare. Da un’indagine femminista indipendente su questa tematica viene fuori che l’80% delle donne che vengono affittate sono analfabete. In India si stanno muovendo per chiedere il divieto di questa pratica. Lì le donne vengono tenute nei capannoni, quando capiscono quello che sta succedendo scappano e le suocere, i mariti, le riportano indietro».

Le femministe europee contro l'utero in affitto, scrive Gianluigi Marsibilio, il 10 aprile 2015 su "Documentazione.info". Una coalizione di associazioni femministe provenienti da tutta l’Europa, tra cui anche diverse sigle che rappresentano collettivi lesbici, si è formata per portare alla Conferenza dell’AIA un documento molto dettagliato e altrettanto critico sulla pratica dell’utero in affitto e della maternità surrogata. L’associazione capofila arriva dalla Svezia ed è la Swedish Women’s Lobby che ha coinvolto le altre realtà femministe nel tentativo di cercare di arginare la legiferazione di questa pratica considerata dalla varie sigle come una forma di sfruttamento del corpo della donna e una violazione dei diritti umani. Le obiezioni all’utero in affitto sono molteplici e si basano sulla convenzione della Cedaw (convenzione Onu contro la discriminazione delle donne) che già dal 1979 è stata adottata dalle nazioni membro. Tutte le problematiche riguardo la maternità surrogata e tutte le sue declinazioni, vengono esposte in un documento, in cui si analizzano punto per punto le criticità di questa realtà e che noi abbiamo riassunto in questi 4 punti:

Squilibrio sociale ed economico: presupposti per lo sfruttamento delle donne. Il mercato occidentale si rivolge principalmente alle donne di paesi più poveri per effettuare queste pratiche. Uno studio citato nel dossier, rivela come il 50% delle donne che si mette a disposizione per una maternità surrogata sia completamente analfabeta e si affidi a mediatori pronti ad interpretare per loro i termini legali del contratto, che spesso sono firmati inconsapevolmente. Tutto questo non fa altro che aumentare l’enorme squilibrio che esiste tra compratori e madri surrogate che, accettando queste condizioni, rinunciano di fatto al rispetto dei diritti delle donne sulla maternità.

Maternità surrogata tra altruismo e commercio. Il rapporto mostra che in alcuni paesi quali ad esempio il Regno Unito e gli Stati Uniti, sia legale effettuare questa tecnica grazie alla libera disponibilità delle donne, ma non è possibile dimostrare se dietro questa scelta ci siano pressioni di natura sociale o economica. Per lo più si tratta comunque di persone con una certa disponibilità economica che affittano l’utero di persone meno abbienti.

Conseguenze mediche della pratica. Nel documento vengono analizzate le pericolosità dal punto di vista medico, come il rischio di depressione, incontinenza ed altri gravi disagi. Inoltre viene evidenziato come la pericolosità di alcune pratiche utilizzate per partorire in paesi come l’Indi, metta ancor più in pericolo la vita delle madri e dei nascituri.

Il corpo femminile ridotto a un incubatore. Come associazioni femministe rifiutano fortemente l'idea che porta con se il concetto di utero in affitto: ovvero che le donne possano essere utilizzate come contenitori e incubatori e che la loro capacità riproduttiva possa essere acquistata così come, di fatto, vengono acquistati i bambini appena partoriti.

L’industria delle madri surrogate e l’impatto sul corpo femminile. L’associazione svedese considera inoltre l’impossibilità di stipulare un contratto su una materia di fatto chiaramente illegale poiché sfrutta il corpo femminile e i suoi organi riproduttivi a vantaggio di altri, e si pone inoltre interrogativi sulle decisioni da prendere nel caso in cui la madre surrogata decidesse di recedere dal contratto. Infine le femministe sottolineano l’esistenza di un vero e proprio mercato che gira intorno alla maternità surrogata, creando un volume d’affari sempre maggiore. Tutto ciò contribuisce, secondo il documento firmato da Gertud Astrom (Presidente della Sweedish Women’s Lobby) a rendere il corpo femminile un ‘’contenitore” utile solo ad incrementare le casse di questa nuova industria. I dati sull’utilizzo di questa pratica non sono del tutto chiari dal momento che è impossibile quantificare le cliniche che attuano la tecnica dell’utero in affitto ma, grazie ad uno studio dell’Università di Aberdeen che ha coordinato alcune agenzie internazionali, si è visto come dal 2006 al 2010 sono registrati dati in forte crescita.

Alla confusione sui dati corrisponde una situazione poco chiara anche a livello legislativo nei vari paesi della comunità internazionale, per questo il gruppo European women’s lobby, che coordina le organizzazioni femministe di tutti gli stati membri dell’Ue e conta più di 2000 partner, propone spesso al Parlamento Europeo interrogazioni sulla giungla legislativa a cui si rischia di andare incontro. La posizione sembra chiara e la gran parte delle organizzazioni appoggia la mozione dell’UE adottata nel 2011 contro lo sfruttamento del corpo della donna. Proprio grazie a questa costante vicinanza alle istituzioni una lunga serie di associazioni femministe e per i diritti civili tra cui la già citata associazione svedese, la Romanian Women’s Lobby, il CADAC, la Lune (associazione di lesbiche francesi) e il CBC (centro per la bioetica e la cultura), ha redatto un dossier di 24 pagine in cui si spiega perchè la maternità surrogata dovrebbe essere considerata come una pratica non conforme al rispetto dei diritti umani. Il documento punta a far capire come questa tecnica si avvicini moltissimo ad una forma moderna di schiavitù e analizza i pericoli psicologici a cui si va incontro utilizzando questa forma di maternità (per esempio il fatto che i bambini appena nati siano oggetto di contratti o che in nessun documento o accordo internazionale si parli di diritto ad avere un figlio). Cerca inoltre di mettere in luce le numerose diseguaglianze, sia di natura economica che di natura psico-fisica che questa pratica comporta.

Utero in affitto, l'appello di 50 lesbiche per fermare la pratica, scrive Raffaele Buscemi, il 27 settembre 2016 su "Documentazione.info". Cinquanta lesbiche italiane hanno promosso un documento (qui il testo completo) contro l'utero in affitto. Si tratta della prima durissima presa di posizione da parte di donne omosessuali italiane. Non si tratta però della prima presa di posizione a livello europeo. Già l'anno scorso una coalizione di associazioni femministe di tutta Europa, tra cui anche sigle di associazioni di lesbiche, aveva pubblicato un documento in cui elencavano tutte le obiezioni contro questa pratica. Anche il parlamento europeo si era detto contrario alla maternità surrogata il 17 dicembre 2015, all’interno del Rapporto annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo. I promotori del documento l'hanno definito come "non proibizionista, ma contrario agli scambi di denaro per comprare e vendere esseri umani". In nome dell’autodeterminazione delle donne e dei diritti dei neonati, le cinquanta firmatarie dell'appello "rifiutano la mercificazione delle capacità riproduttive delle donne". "Rifiutano la mercificazione dei bambini". "Chiedono a tutti i Paesi di mantenere la norma di elementare buon senso per cui la madre legale è colei che ha partorito, e non la firmataria di un contratto, né l’origine dell’ovocita". "Chiedono a tutti i Paesi di rispettare le convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono firmatari e di opporsi fermamente a tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale, abolendo le (poche) leggi che l’hanno introdotta". "È un tema su cui si discute da molto - spiega Daniela Danna, tra le promotrici dell'iniziativa - abbiamo cominciato a raccogliere firme prima dell'estate. Il dibattito italiano sta volgendo a regolamenti come protezione dallo sfruttamento, ma questa è una illusione". "Chi sostiene la gpa parla di un dono da parte della donna 'portatrice della gravidanza'. Ma è un 'dono' che ha un costo in Canada e California fino a 100mila euro, 30-40mila se si contatta la donna direttamente senza intermediazioni".

Vendola, la nascita di Tobia è un caso politico, scrive il 29 febbraio 2016 “Avvenire”. ​Nichi Vendola e il suo compagno Eddy Testa hanno avuto un bambino tramite la pratica della maternità surrogata. Sabato pomeriggio in una clinica in California, dopo una gestazione portata avanti da una madre in affitto, è nato il piccolo Tobia Antonio. All'indomani del voto sulle unioni civili che ha però escluso le adozioni del figlio del compagno nel caso di coppie gay, saranno i giudici italiani a dover decidere sul riconoscimento della paternità di Vendola (il padre biologico del bimbo è il compagno Eddy). La nascita del piccolo è stata in queste ore al centro di un duro scontro politico e ha riacceso la polemica sulle conseguenze che l'introduzione della stepchild adopotion (stralciata dal ddl sulle unioni civili ma in agguato nel ddl sulla riforma delle adozioni che dovrebbe venire discusso nei prossimi mesi) potrebbe portare. Vale a dire il ricorso alla maternità surrogata in maniera sempre più consistente da parte delle coppie omosessuali. "Il figlio del compagno di Vendola, nato grazie a un contratto di utero in affitto, per cui la madre ha dovuto abbandonare il suo bambino appena nato, potrà essere rapidamente riconosciuto in Italia dal leader di Sel grazie alla nuova legge sulle unioni civili", afferma Eugenia Roccella, parlamentare di Idea. "Se la coppia ricorrerà alla nuova legge, infatti, - spiega - il tribunale consentirà l'adozione a Nichi Vendola senza problemi e senza neppure aspettare la nuova legge sulle adozioni. È chiaro a tutti così - conclude - che la stepchild adoption è già una realtà, e che lo scopo della legge è la legittimazione dell'utero in affitto e della nuova filiazione di mercato". La deputata di Area Popolare Paola Binetti mette in guardia il Pd: "non voteremo una legge sulle adozioni che comprenda la stepchild". "Sappiamo dalla cronaca che un bambino può costare 120mila euro; l'onorevole Rossi ci ha detto che il suo è costato quasi 100mila euro, pensiamo che questa cosa sia una forma di schiavismo", ha detto ancora Binetti. Di "sfruttamento proletario dello stato di bisogno economico di due donne, quella che ha donato gli ovuli e quella che ha affittato l'utero", parla il deputato Gian Luigi Gigli di Democrazia solidale. "La sinistra da paladina dei diritti umani si è trasformata in promotrice di desideri individuali". Di "nuovo modello antropologico" e di "donne ridotte a schiave" parla anche Alessandro Pagano, coordinatore del Comitato Parlamentari per la famiglia chiedendosi come mai le femministe e il presidente Boldrini non hanno nulla da dire. Rocco Buttiglione, vicepresidente dei deputati di Ap, mette l'accento sul dolore di quella donna di cui nessuno parla. "Una mamma senza il suo bambino" che lo ha sentito scalciare e crescere per nove mesi sapendo già che però non sarebbe stato suo visto che "era stato venduto già prima del concepimento". Dal Pd arriva la voce fuori dal coro di Beppe Fioroni che invita il suo partito a non insistere sulle adozioni per le coppie gay concentrandosi invece sui problemi reali del Paese come le tasse e il lavoro. "Il figlio di Vendola? È nato un bambino orfano di madre". Non usa mezzi termini Massimo Gandolfini, portavoce del comitato 'Difendiamo i nostri figli e tra gli organizzatori del Family Day al Circo Massimo. La vicenda del figlio di Nichi Vendola "ci lascia attoniti". Marco Griffini, presidente dell'Aibi, (Amici dei Bambini), esprime un giudizio "totalmente negativo", sottolineando che "l'utero in affitto è una forma di schiavitù nella forma più aberrante". "Dovrebbero restituire il bambino alla mamma, così che possa crescerlo. Mi meraviglio -aggiunge - che una persona che ha fatto della politica una scelta di vita possa fare una cosa simile. Come movimento di famiglie adottive - sottolinea - siamo attoniti". Si congratula per la nascita di un bambino ma resta perplessa sull'utero in affitto Laura Boldrini, presidente della Camera, che da Londra confessa di aver difficoltà ad accettare questa pratica, soprattutto "quando queste maternità avvengono in Paesi in via di sviluppo, quando ragazze povere si prestano". Resta da vedere ora quale sarà il destino del piccolo Tobia Antonio: dovrebbe risultare cittadino canadese, Paese di origine del padre biologico, e di una madre che non desidera essere identificata. Vendola potrebbe adottarlo in Canada e allora potrebbe chiedere in Italia il riconoscimento dell'atto canadese. Oppure potrebbe presentare richiesta di adozione in Italia, che andrebbe di fronte ai giudici sotto la fattispecie di adozione in casi speciali.

Caso Vendola: altro che «diritti», siamo al mercato dell'umano, scrive Marco Tarquinio l'1 marzo 2016 su “Avvenire”. "E venne un tempo…Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore". Karl Marx, Miseria della Filosofia.

"​Gentile direttore, Nichi Vendola, fondatore di Sel, fautore assoluto del ddl Cirinnà sin dalle primissime versioni, ha “avuto” ieri un bambino. Da un ovulo di donna californiana, impiantato in una donna di origine indonesiana, con un seme del suo compagno italo-canadese, il tutto a pagamento, negli Usa. L’avevamo sentito dire: «Ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia, vorrei correre a prendermi cura di quella creatura». Ma è la stessa menzogna evocata (in ordine alfabetico) da Boschi, Cirinnà e Renzi: i bambini orfani non li “prendono in cura” (anche perché ci sarebbero già tante coppie uomo-donna in lista d’attesa), li producono. Sfruttando le donne. Ecco che cosa fanno quelli come Vendola e il senatore del Pd Sergio Lo Giudice. La legge Cirinnà, tra le altre cose, è una legge ad personam per miliardari e comunque per ricchi e potenti". Filippo Sassudelli - Trento.

"Caro direttore, Tg1 Rai di domenica 28 febbraio, ore 13.30. Il conduttore annuncia, testuale: «Paternità per Niki Vendola. In California è nato il figlio biologico del compagno Eddi». A seguire, servizio sulla riforma della legge sulle adozioni, estese a tutti con intervento compiaciuto di Debora Serracchiani alla scuola di formazione del Pd. Quasi tutti i quotidiani on line e i vari siti titolano e riferiscono in termini simili. Per riassumere: utero di donna di origini indonesiane più ovulo di donna californiana (madre biologica) più apporto di uno dei maschi. Se la madre è un «concetto antropologico» – ce lo insegna la coppia costituita dal senatore Lo Giudice (Pd) e compagno – lo è anche il padre… Ma da un paio di anni – “Avvenire” ne ha dato puntualmente conto – circolano le indicazioni Unar anche per i giornalisti, sui termini di genere da usare e da evitare. Le “veline” del ventennio fascista forse erano meno ridicole. Ebbene, in tre giorni: prima il Senato che approva le Unioni civili senza più stepchild adoption (adozione del figliastro), poi l’annuncio di Monica Cirinnà e colleghi di una prossima riforma ad hoc della legge sulle adozioni che apra alle persone omosessuali, poi la notizia su Vendola “padre”. È la «dittatura del pensiero unico», con la complice adesione di molti giornalisti. Papa Francesco ne ha parlato spesso, ed ecco ci siamo. Rimangono pochi uomini politici, pochi mezzi di informazione, ma moltissimi cittadini comuni (inclusi quelli del Family Day) che non tacciono e non si piegano. Il premier Renzi vuole «andare nelle parrocchie» a spiegare le unioni civili. Clericalismo a parte – può incontrare cittadini cattolici in tanti altri luoghi –, venga a spiegarci anche questo, gliene chiederemo volentieri ragione. Nel seggio elettorale, per le amministrative e per il referendum confermativo, decideremo noi". Gianluca Segre - Torino.

Il fatto di cronaca al centro di queste due lettere (e di altre che stanno piovendo in redazione) è già oggetto oggi degli ampi e approfonditi commenti che ho affidato a Marina Corradi e a Francesco Ognibene e questo mi consente di limitarmi, qui, a un paio di sottolineature in risposta ad altrettante specifiche questioni poste dai lettori. La prima annotazione riguarda la natura di «legge per ricchi e potenti» della normativa sulle unioni civili approvata in prima lettura al Senato nonché – arguisco – di altri progetti che, secondo le dichiarazioni di Monica Cirinnà, dovrebbero portare alla cosiddetta “adozione gay”. Se, come intendo, il principale motivo di questa affermazione del lettore Sassudelli è legato al ricorso all’utero in affitto da parte di chi richiede l’adozione del figlio del compagno in un’unione gay, direi che si tratta di una mezza verità. La verità tutta intera è che non tutte le persone omosessuali sono ricche e potenti, ma tutte le madri surrogate “acquistate” da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere. La seconda sottolineatura è per il linguaggio “politicamente corretto” usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale. Siglato da un politico di sinistra che ha contribuito a “comprare” gli ovociti di una donna e il corpo di una madre per far “fare” un figlio biologico del proprio compagno e intestarsene a sua volta la paternità legale (all’estero) e politica (in Italia) in violazione di una legge anti–schiavista del proprio Paese. Stavo per ricorrere a un’immagine di papa Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella che pubblichiamo qui accanto. Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli «diritti».

Per soddisfare un suo desiderio il paladino dei poveri e degli oppressi è andato all'estero come un facoltoso signore, ha reso orfano della madre un bambino e ha eluso la Costituzione e le leggi della Repubblica. Ma non era un uomo di sinistra?": se lo chiede Famiglia Cristiana, parlando del caso del figlio di Nichi Vendola in apertura del sito in un commento di Francesco Anfossi.

Sulla nascita del figlio di Nichi Vendola, dice la sua Vittorio Sgarbi, e lo fa con un post, pubblicato da “Libero Quotidiano” l’1 marzo 2016, di rara violenza su Facebook, nel quale, tra le altre, spiega che "dal culo non esce niente". Di seguito, il post di Sgarbi: “Non può essere, quello appena nato, il figlio di Vendola. Dal culo non esce niente. Vendola ha un marito ed è contemporaneamente padre. Due persone dello stesso sesso non generano. Ma di cosa stiamo parlando? I bambini devono essere concepiti, educati e evoluti sulla base di ciò che la natura consente. Di bambini bisognosi è pieno il mondo, e si possono aiutare in tanti modi. Quel bambino è una persona che si sono costruiti a tavolino, come un peluche. E' insopportabile”.

Qualche ora prima, sulla pagina Facebook del critico era apparso un altro post, che sintetizzava così il pensiero di Sgarbi: “I neonati si attaccano alle tette, non ai coglioni”.

Utero in affitto, Beppe Grillo: perché mi spaventa l’idea di un sentimento low cost. L’intervento del leader dei Cinque Stelle: «Nulla a che fare con l’omosessualità o l’eterosessualità, ma è la logica del “lo facciamo perché è possibile”». La lettera di Beppe Grillo dell’1 Marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”. “Le questioni etiche nel periodo del low cost possono assumere degli aspetti paradossali, al limite del ridicolo... scusate: del tragico. Il fenomeno del low cost avvicina molti esseri umani a stati transitori di benessere immaginario quando, nella migliore delle ipotesi, quelle stesse persone stanno facendo da tristi tappabuchi, nelle sempre più disperse, e tante, basse stagioni di ogni cosa: il prezzo dell’albergo di lusso, quello di una vacanza romantica, quello della felicità, e quello dei diritti rende le idee delle persone sempre più confuse! Ed è curioso come il prezzo delle creature viventi possa diventare così basso, e trattabile, proprio quando è altissimo il pericolo di sconvolgimenti irreparabili dello stato sociale e morale di un popolo. Proprio le creature viventi, e tutto ciò che le garantisce in vita, mi sembra non abbiano più un valore percepito. Peggio vanno le cose e più sono le nullità che scorrono sugli schermi utilizzando le parole amore, felicità, dignità umana...come se anche queste stessero subendo una sorta di inflazione. Mentre confondiamo l’economia con la finanza ancora peggio ci comportiamo, anche nel nostro intimo, quando confondiamo quelli che adesso mi permetto di chiamare diritti intimi! Come la paternità, la maternità e l’amore. Sento utilizzare la parola amore in modo talmente pressappochista da provare un dolore, intenso, che nessuna forma di ironia può risolvere. È veramente possibile che si blateri di amore e diritti intimi pensando a Vendola proprio mentre stiamo dimenticando chi ha messo al mondo noi? Mi riferisco a quelli che chiamiamo anziani, quelli che stiamo dichiarando inutili senza neppure più arrossire! E allora: chi sono io per dire alle persone di rinunciare a delle opportunità che appaiono stupefacenti? E se è così: chi sarei io per rivendicare, al semplice scopo di salvarli, i diritti della persona a cominciare dalla sua dignità, per finire con il fatto che si tratta di una certa persona, di una tal coppia oppure di un operaio, di un poliziotto, un pensionato, un bambino in Siria dove ti uccidono i videogiochi dal cielo, insieme a tutti gli individui che compongono il tessuto interstiziale della società. Forse uccidere a distanza degli esseri umani provoca una gioia che io non ho alcun diritto di criticare. Se tutto è possibile, uccidere giocando è diventata una realtà prima che nasca la perversione giusta per gioirne. Quanto è lontano Nichi Vendola da quello che sta succedendo nel mondo reale per permettersi di comportarsi con una majorette che rotea strane mazze colorate guidando un corteo di pareri in svendita. C’è qualcosa del concetto di utero in affitto che mi spaventa. E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure l’eterosessualità; mi spaventa la logica del «lo facciamo perché è possibile»: un po’ com’è diventato facile attaccare tutto alla bolletta della luce. Così, mi perdo in questi nuovi moti di provare dolore e manifestare gioia, spaventato dalla facilità con cui li modifichiamo. Terrorizzato dal contesto di assoluta disinformazione da cui sentiamo provenire quelle parole. Incredulo e confuso: nessuno vorrà spiegare perché stiamo vivendo nel mondo del precotto low cost delle idee, dei riferimenti morali e della gioia. Scandalizzarsi perché qualcuno trova buffo Vendola ma non dice nulla — oppure dimentica apposta — quello che sta succedendo a chi si suicida per un debito mi spaventa. Insieme a quelle definizioni strane: utero in affitto, soldato, sacrificio, insostenibilità, abbandono... Tutti rinchiusi e allontanati dalla vista mentre si chiacchiera pensando soltanto se ci si è sbiancati a sufficienza i denti da mostrare nell’ennesimo talk show”.

Nichi, vai a vivere in California dove non ci sono squadristi…scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. “Non c’è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca. Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dall’espressione “utero in affitto”. Questo bambino è figlio di una bellissima storia d’amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita. Quelli che insultano e bestemmiano nei bassifondi della politica e dei social network mi ricordano quel verso che dice: “ognuno dal proprio cuor l’altro misura” (anche se capisco che citare Dante non faccia audience)”. Queste le parole con cui Nichi ha ringraziato il suo pubblico. L’oscar come miglior comunista d’Europa, miglior alchimista, come non esempio in un ruolo da non protagonista e più brutta mammo d’Italia goes to Nichi. Ragazzi l’Oscar l’ha vinto lui. Sì, Di Caprio e Morricone, d’accordo. Uno lo sfottevano, l’altro è vecchio. L’Oscar lo ha vinto Nichi. Punto. Pensate sia facile assemblarsi un figlio? Un pezzo qui, un pezzo lì; la gravidanza da seguire, i ruoli di cui tenere conto – soprattutto a vent’anni da oggi -, le ecografie, i selfie su whatsapp con il pigiamino azzurro in mano – ci siamo quasi! -, i dottori da sentire, le mani da incrociare davanti al caminetto, i bagagli da preparare, le telefonate da fare… Uff! Che stress! Quasi, quasi conveniva avere la patatina per farlo in natura un figlio…Già si sente in casa il piccolo Tobia chiamare i genitori: “Mamma Nichi? Papà 135.000?” Un Oscar non facile per un film impossibile. Nichi, che lo ha vinto anche per la peggior interpretazione di un madre. Riassumendo la situazione che ha portato al riconoscimento più ambito per Nichi Vendola. L’ex governatore della Regione Puglia è diventato mammo/a/e/i/o/u di un bambino del quale il vero padre (o padre naturale o padre genetico o santodioaiutacitu) è Eddy Testa, il quasi quarantenne fidanzato di Vendola, la madre vera (o madre naturale o..etc) è una californiana e l’utero in prestito è di un’indonesiana. Uno spaccio folle di ovuli e spermatozoi, un cast incredibile, inscenato da un signore in lotta per la dittatura del proletariato da anni, già PCI, poi Rifondazione, poi capopopolo di SEL, ora in continua evoluzione a pugno chiuso, che per fare il mammo ha speso più di 100.000 Euro.  Un immenso gettito di umanità per un Nichi che rideva al telefono sui tumori dell’ILVA. E noi, poi, saremmo squadristi perché obbrobriosamente schifati da figuri e situazioni del genere? Fà una cosa Nichi, pigliati a Eddy, al (povero) piccolo Tobia, alla foto di Stalin, Lenin, Mao Tse Tung, Carlo Marx, Cip & Ciop, all’indonesiana, alla California, e vai dove più ti aggrada, magari lontano dall’Italia squadrista, bigotta, cafona e cattolica. È facile fare il mammo col vitalizio degli italiani. Ciao Nichi, insegna agli angeli come si governa la Puglia. And the Oscar goes to…

L’outlet dei bambini, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. Ho provato a farmi un giro nel supermercato dei feti e ne sono uscito inorridito. Da qualche giorno non si parla d’altro: Nichi Vendola e il suo compagno Eddy sono diventati papà. Grazie a un utero in affitto. E detta così sembra una cosa quasi normale. A qualcuno fa senso, ad altri schifo. Ma ormai questa locuzione “utero in affitto” la abbiamo sentita ripetere così tante volte dalla nostra stupida politica che ci pare normale. Sembra uno dei tanti temi su cui si accapigliano in Parlamento per dare un senso alla loro esistenza o alla loro rendita politica. “Utero in affitto”. Beh pure gli appartamenti si prendono in affitto, anche le automobili. I motorini, i quad, persino i libri e gli smoking. Insomma io sentivo parlare di questo utero in affitto ma non pensavo a cosa volesse effettivamente dire. Era un “sovrappensiero”, come nella vecchia canzone dei Bluvertigo. Poi ho letto un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel quale veniva spiegata alla perfezione la dinamica di questa pratica: il costo per i futuri genitori, lo stipendio della proprietaria dell’utero e della donatrice degli ovuli, nel caso ce ne fosse bisogno. E ho letto il nome della più famosa clinica che pratica questo tipo di interventi: Growing Generations. Ho digitato il nome su Google e mi sono fatto un giro di un paio d’ore in questa fabbrica di bambini. Solo così ho capito cosa è l’utero in affitto. Solo sfogliando il catalogo delle “egg donors”, le donatrici di ovuli, mi sono trovato faccia a faccia con quello che non può non sembrare un mercato di esseri umani. Sulla home page del sito scintillano i denti di una famiglia sorridente. Tutti felicissimi e belli. Biondi, mori, lattei, olivastri, con gli occhi chiari o scuri. Tutti i fenotipi. La mercanzia è tutta in vetrina e il magazzino offre tutte le varietà in commercio. Poi si inizia la navigazione: ci sono i menù e le offerte per gli aspiranti genitori, per le aspiranti madri surrogate e per le donatrici di ovuli. Tutto chiaro e preciso, come nelle migliori brochure commerciali. D’altronde qui si paga e si paga pure bene: sborsa tanti soldi chi vuole un nano scintillante e ne riceve altrettanto chi lo ospita durante la gestazione e chi fornisce gli ovuli. Il figlio è un bene di lusso. C’è un calcolatore che in base alle assicurazioni sanitarie e i contratti che stipuli computa immediatamente il costo dell’operazione. Come nei car configurator dei siti delle case automobilistiche: cerchi in lega, sedili in pelle, navigatore. Ma la configurazione del nascituro è appena iniziata. Nella clinica del futuro si può scegliere tutto, basta iscriversi per iniziare lo shopping. Si parte con la scelta del donatore di ovuli: razza (afroamericano, caucasico, asiatico ecc), peso, altezza, colore dei capelli e degli occhi. Si selezionano tutti gli optional. Pura eugenetica. Il sogno di Mengele. Dopo aver smarcato tutte le voci preferite si avvia la ricerca. E, come in un macabro Facebook degli ovuli, compaiono le immagini dei profili delle donatrici. È il social network dei cromosomi. E le donatrici ci tengono a far sfoggio delle loro ottime credenziali genetiche: book fotografico con prole al seguito per dimostrare di avere buoni lombi, video di auto presentazione e curriculum. Più ovuli hanno già dato è più sono affidabili. E più vengono pagate. Una specie di usato sicuro, di certificazione di garanzia. E fa un po’ effetto immaginare il leader di Sel che si mette a selezionare la razza, questa parolaccia che quelli come lui volevano strappare dai dizionari. La stessa filosofia vale per le madri surrogate, cioè le donne che ospiteranno ovuli e partoriranno i bambini. La loro scelta è ancora più complessa, perché durante i mesi di gestazione dovrà interagire con i futuri genitori. Il catalogo è ampio e stilato con minuzia di particolari. Tutta l’operazione (con ovuli e madre surrogata, come nel caso dell’ex governatore, altrimenti si può anche portare un ovulo da impiantare) costa sui 145mila dollari ai futuri genitori. Un servizio per coppie abbienti. Ma non state a preoccuparvi, per chi non ha subito tutta la liquidità il sito ricorda in continuazione che si possono finanziare sino a 100mila dollari con un tasso di interesse del 5 per cento. Un affarone. Alla concessionaria dei figli tutto è possibile. Per ora non fanno leasing ma magari prima o poi fanno anche un buy back, non si sa mai che poi il pargolo rompa i coglioni e i genitori lo vogliano riportare in clinica. Alla madre surrogata, che viene seguita passo dopo passo e stipula un minuzioso contratto legale, vanno almeno 40mila dollari. Alla donatrice 8mila dollari per la prima donazione e dalla seconda in poi 10mila. Tutto calcolato. Tutto stipulato. Tutto perfetto. Tutto normato e tutto incredibilmente anormale. Un meccanismo di ingegneria genetica perfettamente rodato. Ecco, è sfogliando questo catalogo di umanità in vendita che si capisce veramente cosa sono l’utero in affitto e la maternità surrogata, queste locuzioni si staccano dalla strumentalità della politica e assumono la tridimensionalità di una pratica che può cambiare il mondo. Sono le meraviglie della scienza? Ma ne siamo davvero certi? Lasciamo perdere Nichi Vendola e il suo compagno, mettiamo da parte anche il fatto che queste cliniche siano utilizzate principalmente, ma non esclusivamente, da coppie omosessuali. Perché il problema non è quello, non solo quello almeno. Il problema è capire se è giusto costruirsi un figlio “sartoriale” selezionando pure il colore dei capelli e sfruttando – con la consapevolezza altrui, ovviamente – il corpo di un’altra donna. Per soddisfare le proprie voglie, perché si è omosessuali o magari per non portarsi dietro nove mesi di pancia, oppure per non perdere il lavoro a causa della maternità, è giusto far nascere un bimbo perfetto nel ventre di una donna costretta a venderlo per fare soldi? Non è una questione di religione o di fede – che io non ho – è una questione di umanità. Perché è evidente che questo è un mercato e che, in quanto tale, risponde solo alle regole del mercato. Che sono tra le migliori in circolazione. Ma per comprare le scarpe o il ferro, non i bambini. E le donne. Una volta i più poveri erano proletari, che non avevano nulla se non la prole. Ora che i figli sono un bene di lusso si chiameranno uteritari? Ovulitari? Forse stiamo giocando troppo agli apprendisti stregoni, ai piccoli chimici senza accorgerci che siamo solo grandi cinici.

Così Vendola apre la via socialista alla fabbrica di bimbi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Basta dare uno sguardo ai siti che organizzano l’utero in affitto per capire la dimensione politica del neosocialismo. I soggetti coinvolti sono tre. Il donatore di ovuli (egg donator, in inglese fa più impressione), la proprietaria dell’utero e i genitori surrogati. Tutti e tre hanno un prezzo. Nel mercato degli ovuli si va dagli 8mila ai 10mila euro. La donna che dovrà tenerlo in grembo dai 35mila ai 50mila dollari. Per i genitori il costo supera i centomila dollari. Il sito growing generations propone finanziamenti fino a 100mila dollari, con tassi al 5,99%, per una durata massima fino a sette anni. Immaginiamo che, per il momento, non si possano chiedere ipoteche sui bambini. In questo supermercato si concretizza l’orribile sogno di una sinistra che ci vuole tutti «innaturalmente» uguali. C’è qualcosa che (solo) apparentemente non funziona se, a livello ideale, l’uso di questo supermercato viene condiviso dal pensiero di sinistra-egalitario ed è invece bandito dalla destra-mercatista. Verrebbe infatti da pensare che si tratta di una deformazione del modello capitalistico. Libertari, alla Murray Rothbard, hanno sempre pensato e scritto che gli esseri umani possano disporre come meglio credono delle proprie proprietà, compreso il corpo. In questo caso però le parole chiave non sono quelle dei libertari, ma principi di uguaglianza. Anzi ne sono la loro sublimazione. In un mondo, ritenuto a torto sempre più diseguale, la frontiera da abbattere è quella del diritto alla maternità-paternità. Perché due uomini o due donne non possono essere uguali ad una coppia tradizionale? L’alta marea della lotta alle diseguaglianze dunque si alza. Per i liberali resta ancora la parità di opportunità. Il neosocialismo confuta e aggira il concetto. Con l’utilizzo della tecnica (l’utero in affitto) le opportunità si allargano a tutti. Per il momento, e questa è la drammatica contraddizione di oggi, la tecnica è appannaggio solo delle coppie omo ed eterosessuali più ricche. Ma una volta sdoganato il principio e cioè riconosciuto il diritto universale ad avere un figlio, come un tempo si lottò per il diritto allo studio o alla salute, per quale dannato motivo restringerlo al censo? I liberali di ieri e di oggi combattono contro la folle idea di redistribuire il reddito per azzerare le diseguaglianze, quelli di domani dovranno occuparsi di frenare la tecnica affinché non ci renda tutti uguali.

LE UNIONI IN-CIVILI.

Le unioni INcivili fanno dei brutti scherzi, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Il ripugnante caso del figlio di Nichi Vendola e Eddy Testa (nella foto) ha scatenato una serie infinita di obbrobri sotto forma di immagini e affermazioni da parte di tutti. Del resto una legge che di per sé è già un abominio non poteva che generare una serie di altri mostri. A cominciare dalla sua promotrice, Monica Cirinnà, moglie del chiacchieratissimo ex senatore dal 2001 al 2008 Esterino Montino, indagato per le spese pazze del Pd in Regione Lazio nello scandalo Fiorito. Quando si candidò a sindaco di Fiumicino e dovette rinunciare, con molta riottosità, al suo stipendio da senatore, nel 2013 garantì una candidatura sicura a Palazzo Madama alla moglie animalista convinta del Pd. Un senatore in famiglia fa sempre comodo. Questa donna (nella foto mentre si sbellica dalle risate e ne ha un gran motivo), rimasta nell’ombra per tre anni, da sempre riconosciuta solo per essere la moglie di Esterino, è venuta alla ribalta per aver legato il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. “Un mostro giuridico, ben lungi dal soddisfare le aspettative di gay e lesbiche”, lo definisce l’esperta di diritto di famiglia Daniela Missaglia. Un’entità giuridica informe che svuota dall’interno quelle poche regole che reggevano il diritto di famiglia fino ad oggi. Una bandiera (arcobaleno) sventolabile da una sola parte minoritaria delle coppie di fatto: quella omosessuale. Per gli etero resta pressappoco tutto come prima. L’unica schifezza che per fortuna è stata bloccata in extremis ovvero l’adozione nella forma della stepchild adoption da parte di una coppia gay, è una vittoria di Pirro perché a colpi di sentenze la giurisprudenza la introdurrà – come sta già facendo – anche senza un dettato normativo e al riguardo la stessa Cirinnà va già dicendo di avere pronto un ddl ad hoc, facendo rientrare dalla finestra ciò che non è entrato dalla porta principale. Poi se uno vuole ed economicamente può, fa come Vendola e si fa fare un figlio da una donna indonesiana in Canada, comprandoselo per 10mila dollari come un cesto di insalata al mercato. Il massimo disgusto che ha fatto rivoltare lo stomaco persino alla vendoliana Laura Boldrini. Qualcuno si chiede per caso questo Tobia Antonio come potrà mai crescere? Di sicuro non se lo chiede Denis Verdini (nella foto ride con Riccardo Mazzoni), al quale dei gay non importa assolutamente nulla, come ha avuto modo lui stesso di dire, ma ha a cuore solo l’unione civile con il suo figlio (politico) prediletto, Matteo Renzi: “Io e lui siamo uniti dalla fiorentinità. Siamo franchi, diretti, un po’ alla Monicelli”, ha detto da Vespa. Sì, sicuramente entrambi dei fuoriclasse della supercazzola. E poi c’è chi come Licia Ronzulli, in tutto questo caos primitivo, mette una toppa che è peggiore del buco. “Si vendono e si affittano gli oggetti. No all’utero in affitto. No alla compravendita dei bambini. No allo sfruttamento delle madri in affitto. No al traffico delle madri in affitto”, scrive l’ex eurodeputata sui social. Il tema è di quelli seri ed è impossibile da non sottoscrivere il convincimento della dirigente di Forza Italia. Sotto la frase però la Ronzulli, forse pensando di dare più forza al suo spot, pubblica una sua foto con reggiseno sportivo da pilates, con le spalline abbassate, i capelli scarruffati, un maglione grigio aperto, le mani sui fianchi, la pancia nuda e addominali ben in vista con su scritto a pennarello “Not for sale. Not for rent” (nella foto) invitando i suoi “seguaci” a fare lo stesso. Un messaggio giusto, ma secondo me comunicato male. Una battaglia contro la mercificazione del corpo, mercificando il proprio non inizia sotto i migliori auspici. La Ronzulli, con questa immagine, esprime certamente un concetto condivisibile, ma con una foto di cattivo gusto rischia di sortire l’effetto opposto. Guai poi ad esprimere un parere contrario su Facebook. Ci ho provato ma la Ronzulli, prima ha risposto stizzita che non ha tempo da perdere con certe conversazioni, e poi ha cancellato i tre commenti che hanno osato criticarla. Si salvano, quindi, solo “Brava Licia!”, oppure “Sei bellissima!” ai quali lei risponde con un cuoricino o un bacino. A questo punto mi associo anch’io, visto che oggi è la giornata mondiale dei complimenti. Così non rischio di essere censurato di nuovo. Di cosa sono capaci queste unioni INcivili.

Quando l’amore diventa un nastrino, scrive l'11/02/2016 Nino Spirlì su "Il Giornale". Pensavo di aver visto, sentito e imparato tutto riguardo all’amore. Da quello materno a quello passionale di una puttana lautrecchiana, innamorata del sogno di riscatto. Dall’amore fraterno, al caldo delle pareti di casa, a quello corposo fra commilitoni in battaglia. Fino a quello scomposto dentro ai cessi delle stazioni o nelle umide saune per bugiardi solitari e soli. Ma l’amore a mezzo nastrino, esposto fra le canzoni del festival della canzone piddina, no. Quello non lo conoscevo ancora. E, con me, qualche milione di italiani. Tutto ci saremmo potuti aspettare, compresa la gag ironica di qualche comico strapagato coi dollaroni del canone, ma il gran pavese di bandierine eque e solidali attorcigliate ai microfoni, ai polsi, alle dita dei cantanti, ci ha colti alla sprovvista. Come dire, al ridicolo non c’è mai fine. Io, infatti, sarei sprofondato per la vergogna, solamente a pensare di diventare pennone umano di banali bandiere da gaypride. E su! Prima la rasentavamo, ora ne siamo impastati di scempiaggine e ipocrisia. Così vogliamo risolvere la nostra partecipazione ai “temi sociali”? Con un fiocchetto arcobaleno? O con una parolina buttata lì, fra il liso e il frusto, in una microintervista? Pessimo servizio alla causa. Pessimissimo, oserei azzardare. Sa tanto di “Mi piace” di feisbucchina abitudine. Un clic e via. Si partecipano così, ormai, auguri e condoglianze, dolori e gioie infinite. A Sanremo, lo stesso. Una treccia sciolta di nastrini da fioraia di sette colori, e il frocio è servito. Che pena! Sia gli artisti che i commentatori. Ma, soprattutto, che tristezza i ricchioncelli felici sui social. Che sono pronti a crocifiggere il prete come loro, ma battono le mani e zompettano sulle sedie quando scorgono un accenno di solidarietà alla causa gaya da parte del loro idolo canterino. Se, poi, alla pugna (che spesso non è così grande) partecipa anche l’attorello zigomato di fresco, Evviva! La guerra è vinta! Maddechè, commenterebbe il mio amichetto romano. Bastasse questa ennesima trovata da bancarellari per convincere zia Maria che la nipote lesbica non è “difettosa”! Il problema è che zia Maria morirà convinta che, quella volta che sua sorella scivolò, incinta, per le scale, sicuramente “dentro” qualcosa accadde, e nacque per quel qualcosa la nipotina a cui non piacciono i maschi. Difettosa, appunto. Per cambiarla, questa mentalità disinformata, dovremmo, noi “difettosi” evitare provocazioni e processioni col culo di fuori. Dovremmo viverla, noi per primi, serenamente, la nostra omosessualità. Svegliarci, noi per primi, sinceri, sereni. Fare colazione sereni, andare a lavorare sereni, al cinema, a teatro, al mercato, a scuola, in caserma, in ospedale… Sempre sereni. Parlare con i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici. Perché non siamo né migliori, né peggiori degli altri. Siamo come. Quando lo avremo capito noi, noi per primi, sarà tempo di famiglia. Ora, no. Troppi carri e poca umiltà. Troppo fard. Troppe paillettes. Troppe bugie. Troppo astio. Quasi odio. E silenzi assordanti fra le mura di casa. Mentre fuori è tutto un nastrino. Cretino.

Unioni civili: tutte le anomalie giuridiche, scrive Luigi Ferrarella, Corriere della Sera, 13 maggio 2016. La nuova legge sulle unioni civili itnroduce ventinove effetti indiretti sulle norme penali, dall’aggravante per l’omicidio ai sequestri di persona, alcuni dei quali alquanto bizzarri. Li ha analizzati Luigi Ferrarella in un articolo apparso sul Corriere della Sera. Sembra che nessuno si sia posto la domanda sugli effetti collaterali nel diritto penale della nuova legge sulle unioni civili. Con esiti paradossali, nella corsa del governo a blindare il voto con la fiducia. Il testo Cirinnà, infatti, premette che le disposizioni che contengono la parola «coniuge» si applicano «anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile».

L’omicidio. Il riflesso più evidente è sull’omicidio, la cui pena base 21-24 anni sale a 24-30 anni se si uccide il coniuge: ma poiché l’omicidio non è certo norma a rafforzamento «degli obblighi derivanti dall’unione civile», l’aggravante non potrà pesare su assassini legati da unioni civili alla persona assassinata, mentre continuerà a valere per mariti e mogli. Stesso schema nei sequestri di persona: quando il pm blocca i beni utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, il blocco non potrebbe essere imposto al coniuge legato da unione civile con il rapito.

L’abuso d’ufficio. Curiosa anche la situazione dell’abuso d’ufficio commesso da pubblici ufficiali che non si astengano in presenza di un interesse di un prossimo congiunto come il coniuge: continuerà a essere reato per mariti e mogli, ma non potrà incriminare i partner di una unione civile. Idem la «bigamia», che finirebbe per non avere rilevanza penale in relazione alle unioni civili tra lo stesso sesso, mentre la manterrebbe solo tra coniugi uomo e donna.

I riflessi su altri reati. Discriminazioni al contrario, cioè più sfavorevoli per le unioni civili, parrebbero crearsi per tutta una serie di condizioni che il codice continuerebbe a concedere solo a marito e moglie: la non punibilità per chi fa falsa testimonianza, mente al pm o compie favoreggiamento personale del prossimo congiunto; la non punibilità di chi a favore di un prossimo congiunto commette reato di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con finalità di terrorismo; la non punibilità del furto o della truffa ai danni del partner non legalmente separato. E qualche paradosso si creerebbe anche nei tribunali, dove oggi un giudice deve astenersi se il coniuge fa il pm o è persona offesa dal reato: sbarramenti che non varrebbero per partner dello stesso sesso legati da unioni civili. Il fatto poi che «l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» sia stabilito dalla nuova legge solo per le unioni civili e non anche per le convivenze di fatto, discriminerà i partner della prima categoria che, diversamente da quelli della seconda, nel penale rischieranno l’accusa di omicidio o lesioni personali per l’eventuale medesima condotta di «mancata prestazione di cure o di alimentazione».

L’ultimo treno. A questa montagna di effetti indiretti c’è alla Camera un solo cenno nel parere del «Comitato per la legislazione» il 12 aprile sul solo tema dell’omicidio aggravato. Come rimediare se oggi la fiducia impedirà correttivi? Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano, arrivato in uno studio per penalecontemporaneo.it a contare 29 effetti penalistici «indiretti e inconsapevoli» delle nuove norme, indica come ultimo treno forse «il decreto delegato di coordinamento che il Governo dovrà adottare entro 6 mesi sulle unioni civili. Ma sulle convivenze di fatto manca un’analoga delega legislativa».

I dubbi dei non cattolici sulle unioni e adozioni gay, scrive Raffaele Buscemi, il 10 febbraio 2015 su "Documentazione.info". Nonostante in moltissimi abbiano provato a ridurre il dibattito sulle unioni e sulle adozioni ai gay a un semplice "cattolici contro tutti", in queste settimane abbiamo notato che si sono alzate moltissime voci al di fuori del mondo cattolico che hanno sollevato ragionevoli dubbi sull'argomento. Dal giornale "Il manifesto" a Dario Fo, passando dalle associazioni femministe internazionali. Abbiamo deciso di raccogliere le più significative in questo articolo.

Il presidente della Società Italiana di Pediatria, Giovanni Corsello.  «Non si può escludere che convivere con due genitori dello stesso sesso non abbia ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale nell’età evolutiva. La maturazione psicologica di un bambino si svolge lungo un percorso correlato con la qualità dei legami affettivi all’interno della famiglia e con i coetanei. La qualità delle relazioni umane e interpersonali, nonché il livello di stabilità emotiva e la sicurezza sociale di un bambino - osserva il presidente dei pediatri italiani - sono conseguenze di una maturazione psicoaffettiva armonica». E cita l’esistenza di studi e ricerche cliniche che hanno messo in evidenza che questi processi possono rivelarsi incerti e indeboliti da una convivenza all’interno di una famiglia conflittuale, «ma anche da una famiglia in cui il nucleo genitoriale non ha il padre e la madre come modelli di riferimento». Purtroppo la nota ufficiale è stata rimosso dal sito della Società Italiana di Pediatria ma il testo quasi completo si può leggere qui.

Dario Fo: "Libertà di coscienza sulle unioni civili? Bene: sono temi personali". Anche Dario Fo, pur essendo tendenzialmente favorevole al ddl Cirinnà ha ammesso: "anche io ho dei dubbi su alcuni aspetti". Sollevando dubbi sulle adozioni ai gay, si è detto favorevole a lasciare alla coscienza dei singoli parlamentari il voto sulla questione. Senza ordini di partito. 

Marco Pannella: la legge Cirinnà mi lascia qualche dubbio. Marco Pannella, stupisce i suoi interlocutori, la legge Cirinnà prima di essere votata andrebbe sottoposta a studio, bisognerebbe studiare le razioni scientifiche, farsi un'opinione e solo dopo votarla.

Il Manifesto ha fatto notare come la "maternità surrogata sia uno scambio ineguale". Il giornale comunista ha scritto: nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che – ricordiamolo – ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico. 

Marco Politi del "Fatto quotidiano" ha sottolineato che quella sulle unioni è una battaglia ideologica scollegata dalla realtà. Il giornalista infatti scrive: E’ un festival dell’ipocrisia il dibattito mediatico sulle unioni civili, se non si va al nocciolo della questione. Si vuole o no la donna-forno? L’insistenza sull’adozione è tutta ideologica: rivela la volontà di affermare che due padri, due madri o un padre e una madre sono un fatto identico e che la differenza delle storie va considerata irrilevante. E soprattutto va considerato irrilevante il modo con cui il bambino è venuto al mondo. Generato o prodotto? Non deve importare.

La moratoria internazionale richiesta dalle associazioni femministe. La maternità surrogata, l'utero in affitto e la compravendità di bambini "non sono un diritto". Un appello contro la pratica dell'utero in affitto e la richiesta all'Europa di metterla al bando. Il desiderio di rompere quello che viene definito "un silenzio conformista su qualcosa che ci riguarda da vicino". A promuoverlo sono le donne di Senonoraquando. A firmare, un mondo vasto che va dal cinema alla letteratura, dal campo universitario a quello delle associazioni per i diritti. Così ci sono Stefania Sandrelli, Giovanni Soldati, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Claudio Amendola, Francesca Neri, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Micaela Ramazzotti. E poi intellettuali come Giuseppe Vacca, Peppino Caldarola, la scrittrice Dacia Maraini. E ancora le suore orsoline di Casa Rut a Caserta, l'associazione Slaves no more di Anna Pozzi, Aurelio Mancuso, già presidente di Arcigay e ora di Equality Italia.

"La Stampa" ha scoperto che così come è proposta la legge le unioni proposte sarebbero "nulle se uno dei due è gay"

Qui si inserisce un possibile discorso su chi e come ha scritto il disegno di legge. Un ddl che vuole entrare in materia di diritto civile passando dalla costituzione ma senza citare il diritto minorile. E scritto in maniera abbastanza confusa se, come fa notare "La Stampa":  il disegno di legge sulle unioni civili (il famoso Cirinnà) prevede la nullità delle medesime unioni se uno dei partner è omosessuale. Pensate a due uomini che decidano di unirsi civilmente: bene, secondo il ddl così come è stato scritto, se uno dei due uomini è gay, l’unione civile è nulla.  Questo paradosso nasce dal fatto che esiste una norma che prevede la nullità dell’unione se uno dei coniugi scopre la «deviazione sessuale» dell’altro; e in giurisprudenza si definisce «deviazione sessuale» proprio l’omosessualità.

Quanta ipocrisia su una riforma che non serve. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali, scrive Piero Ostellino, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Mentre nel nostro Stato post-fascista e presovietico - ci sono decine di diritti umani disattesi dalla legislazione pubblica, il Parlamento, invece di porvi rimedio, perde tempo a trovare una forma giuridica che disciplini le unioni civili fra individui dello stesso sesso (che è, poi, la formula ipocrita con la quale la politica, quando non sa come cavarsela, utilizza un sinonimo per non usare il termine autentico nella circostanza matrimonio sarebbe troppo impegnativo). A che servano, poi, le unioni civili se non a produrre consenso a chi le ha proposte è difficile dire. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali. Che si sentisse la necessità di creare l'istituto giuridico delle unioni civili sarebbe difficile sostenerlo anche da parte di chi è omosessuale, e ciò non tanto per ragioni morali, che restano indiscutibili, e neppure per ragioni giuridiche, bensì, diciamo così, per ragioni di costume. Conosco coppie di omosessuali che non ne hanno mai avvertito l'esigenza e che, tanto meno pensano di sposarsi... convinte, come sono, che il matrimonio sia storicamente l'unione fra un maschio e una femmina...E, allora, che dire? Personalmente, penso che ognuno abbia il diritto di fare ciò che più gli piace, tenuto anche conto che una legislazione, in proposito, esiste già e nessuno se ne lamenta. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e felicemente sotto la legislazione vigente e che non si sognerebbero mai di sposarsi facendo ridicolmente il verso al matrimonio fra individui di sesso diverso. Non ne faccio una questione morale o sociale, ci mancherebbe! anche se la famiglia è sociologicamente il primo nucleo attorno al quale, notoriamente, si è costituita la società civile... Ne faccio solo una questione di senso comune nella convinzione che, dopo tutto, ciascuno ha il diritto di fare ciò che più gli piace, senza che altri ci metta il naso.... La politica, che specula sui sentimenti del prossimo per guadagnare consensi, mi fa francamente schifo... E questo delle unioni civili a me pare ne sia è il caso... Si è usato il sinonimo di unione civile per non usare quello, più impegnativo, di matrimonio, anche se ci sono non pochi omosessuali che si sposerebbero e, quel che è esteticamente peggio, con lo stesso rito e le stesse procedure, di quello fra individui di sesso differente...Una cosa è certa: continuerò ad avere gli stessi rapporti di amicizia e di affetto nei confronti dei miei amici omosessuali, accoppiati o no che siano, anche se non aderiranno all'unione civile e non la celebreranno... cosa di cui, del resto, per parte loro, non mostrano affatto di avvertirne l'urgenza... Faccio pertanto, i miei sinceri auguri a quelli che vi aderiranno e celebreranno un'unione civile, anche se, in tal caso, sarebbe pleonastico aggiungervi il rituale «e figli maschi»... Non ne avranno per la contraddizione che non o consente - e neppure, credo, ne adotteranno (altro problema di cui si discute in questi giorni). Continuerò a frequentarli come prima...

«Sono cresciuta con due mamme e questa è la mia storia. Per favore, non approvate il matrimonio gay», scrive il 22 Novembre 2014 Benedetta Frigerio su “Tempi”. B.N. Klein ha reso la sua testimonianza davanti alla Corte d’appello del Texas: «Nella comunità Lgbt i bambini sono usati per provare che le famiglie gay sono come le altre». «Conosco la loro violenza. Sono stata una loro vittima. Non sono loro le vittime. Per favore, usate buon senso e mantenete in Texas la definizione di matrimonio tra uomo e donna». Nell’aula del quinto circuito della Corte d’appello dello Stato del Texas la signora B.N. Klein, 54 anni, è stata chiamata a testimoniare riguardo alla sua vita come figlia di una coppia di lesbiche e attiviste Lgbt. La legge texana definisce il matrimonio come unione tra uomo e donna ma a febbraio, dopo il ricorso di una coppia, un giudice federale ha dichiarato incostituzionale il divieto di celebrare nozze gay. Lo Stato del Texas ha fatto ricorso e la signora Klein ha reso la sua testimonianza in aula il 15 settembre nell’ambito del processo di appello. «Ho visto – ha esordito Klein – che i bambini nelle famiglie gay sono spesso trattati come arredi da mostrare pubblicamente per provare che le famiglie gay sono esattamente come quelle eterosessuali. Mio fratello più piccolo è stato usato per questo scopo». Anche a Klein è stato assegnato un ruolo da piccola: «Mi chiedevano di difendere mia madre e la sua compagna anche quando non venivano criticate. Dovevo alzarmi e dire cose di questo tipo: “Non puoi permetterti di parlare così ai miei genitori!”». Nella comunità gay, continua, ai bambini «insegnavano che quasi tutti gli ebrei (come me) e la maggioranza dei cristiani sono stupidi, che odiano i gay e sono violenti. Mi hanno insegnato che i gay erano più creativi e artistici perché non erano sessualmente repressi e che erano naturalmente più sensibili. Inutile dire che non era la mia esperienza». A 11 anni Klein scoprì «che la comunità gay aveva anche un’ossessiva ed invasiva preoccupazione per la sessualità dei loro figli. Incoraggiavano l’attività sessuale perché erano “aperti di mente”. Mia madre mi disse che essere vergine era da stupidi». Questo «dimostra che [gli attivisti Lgbt] guardano i figli come una mera estensione di sé e non come esseri umani separati da loro». Influenzata dal clima, durante l’adolescenza «non ho mai avuto un fidanzato né interesse per gli uomini. (…) Non mi era neppure permesso di esprimere la mia femminilità nel modo di vestire». Dopo il divorzio dei genitori, la madre si è portata dietro Klein nella casa della compagna, dove ha vissuto «fino alla morte». La nuova casa «era sempre in pessimo stato», anche se «né mia madre né la sua partner lavoravano». Però le due donne erano «molto attive nella causa della “liberazione gay”», motivo per cui «i pasti erano infrequenti» e «quando venivano preparati erano o bruciati o crudi. Pesavo 36 chili a 16 anni». La sera, mentre la compagna beveva, la madre si drogava. La maggioranza delle comunità gay frequentate dalla madre di Klein «si fondavano su sesso e odio», la droga «era abbondante» e «assunta apertamente». L’aspetto più difficile della vita di Klein era rappresentato dal «dover rendere continuamente omaggio alla loro omosessualità». In generale, «la loro omosessualità condizionava qualsiasi cosa: le loro amicizie, quello che leggevano, le vacanze che facevano». Come gli altri membri della comunità Lgbt conosciuti da Klein, «odiavano tutte le persone religiose (…) e ogni persona che non era omosessuale, perché essendo gay si percepivano come dotati di intelligenza e gusti superiori. (…) Era un’ossessione condivisa da molti dei loro amici e conoscenti». È per questo che «ad ogni cameriera veniva chiesto di “portare un po’ d’acqua per la mia amata”. Ad ogni commesso [dicevano] “noi stiamo insieme”». Ogni persona che incrociavano «doveva essere informata della loro omosessualità». Spesso le due donne rimproveravano la gente usando qualche pretesto, «a volte magari si trattava della madre o del fratello di qualche mio compagno di classe. E questo rendeva la mia vita ancor più difficile». Per loro «non contava la storia di una persona», i «suoi successi» o «fallimenti», perché «l’unica cosa che importava era cosa pensasse dei gay. Questo mi trasmise una certa arroganza e una visione a senso unico che nessun bambino così piccolo dovrebbe sviluppare», perché «non gli permette di vedere le persone nel loro complesso» né «di trovare un posto nel mondo quando gli si insegna a vivere nel disprezzo». Quando le due donne capirono che Klein non approvava il loro modo di vivere «fui condannata a una vita di dura ostilità da parte di mia madre e della sua compagna. Portata avanti con il sostegno di tutti i loro amici gay». Fra gli episodi più eclatanti, Klein racconta di quando si ruppe una tibia e rimase alcune settimane in ospedale praticamente senza ricevere visite, perché la madre «non amava le occhiate dell’infermiera». Uscita dall’ospedale, la tibia fece infezione e Klein iniziò a provare dolori fortissimi per cui «non potevo smettere di piangere». Ma solo dopo tre mesi la madre la portò dal medico perché secondo la compagna stava «cercando di attirare l’attenzione». Il medico constatò che l’osso non si era riposizionato correttamente, perciò «fui sottoposta a diverse operazioni chirurgiche, da sola». La madre e la compagna «portavano il gatto dal veterinario più di quanto io vedessi il medico». Ora «tutti direbbero che sono state irresponsabili, ma ogni adulto che passava allora in casa era d’accordo con loro: fingevo il dolore per attirare l’attenzione». A causa della noncuranza circa il suo stato di salute, la ragazza non riuscì a terminare le scuole superiori e «non fui mai incoraggiata né aiutata a recuperare quanto perso. Allo stesso modo mia madre e la sua compagna non mi insegnarono a guidare». Dopo molte peripezie, Klein riuscì a rimediare ai buchi nella sua educazione e a iscriversi all’università. Pensando di riguadagnarsi la stima delle due donne, Klein ne informò la madre solo per sentirsi dire che «ero troppo stupida e ignorante e che l’università aveva fatto un errore e che tutti i suoi amici e chiunque mi conosceva erano d’accordo sul fatto che fossi uno “zero”». La madre cercò perfino di farla espellere dalla State University di New York ma un professore, capendo la situazione, riuscì a proteggerla: «Mi disse anche di stare lontana da mia madre e dalla sua compagna. Mi spiegò che erano malsane e offensive. Questi erano termini che non avevo mai sentito e che allora non capii». Solo più avanti la ragazza si rese conto pienamente dei danni psicologici subiti, quando si ritrovò a provare «una completa liberazione» in seguito alla morte della compagna e della madre, nonostante «il dispiacere». Capì poi di non essere la sola: «Poco tempo fa ho parlato con un uomo cresciuto [nella comunità Lgbt], sapendo che sua madre era morta gli ho scritto un biglietto per digli che mi dispiaceva: “Era una donna gradevole”. Mi ha risposto dicendo: “Gradevole non è ciò che era, ma ormai è acqua passata”. Sapevo cosa intendeva». Klein non pensa che «tutti i gay siano de facto cattivi genitori» ma «so che la comunità gay non ha mai messo i figli al primo posto, se non come un pezzo di proprietà, un errore del passato o uno strumento politico». Racconta di un uomo ricco, amico della madre, «che cercò di abusare di mio fratello» e condanna la comunità Lgbt in quanto «maschilista» perché le donne vengono usate dagli attivisti uomini come strumenti per ottenere figli. Ecco perché ritiene che il matrimonio gay sia «un cavallo di Troia che non farebbe che danneggiare le donne e i bambini». Come lei stessa è stata danneggiata: «Ho speso la maggior parte della mia vita nella paura. Sapendo che potevo essere calunniata o molestata su internet o altrove (…) e che due o più attivisti avrebbero potuto provare a farmi perdere il lavoro» o «toccare la mia famiglia. Ho ancora paura. Conosco la loro violenza. Sono stata una loro vittima. Non sono loro le vittime». Klein oggi ha una famiglia sua e se ha deciso di testimoniare è per i bambini: «So dalla mia esperienza e da quella di altre persone cresciute in famiglie Lgbt che» crescere in una famiglia del genere «danneggia i bambini». Oggi «l’unica immagine che vedete delle famiglie gay è manipolata e controllata» ma esistono molti casi di abusi. Come quello eclatante di Mark Newton e Peter Truong, i due papà gay condannati «per gli abusi sessuali sul figlio». Se questo caso è stato riportato è «solo perché l’abuso è così palese che non è possibile nasconderlo», ma so di «molti uomini, esposti e attivi nella comunità gay, che avevano rapporti sessuali con i figli dei loro amici». Conclude Klein: «Può funzionare [una simile famiglia]? A volte sì, certo. Tutto può funzionare qualche volta. Ma questo non significa che vada nell’interesse primario dei bambini». Per questo «chiedo alla Corte di usare buon senso e di essere prudente. (…) Per favore, mantenete in Texas la definizione di matrimonio tra uomo e donna».

Sgarbi show alla Camera: "I matrimoni gay? Sono 'culimoni'", scrive “ADN Kronos” il 29/10/2015. Dai matrimoni gay che "andrebbero chiamati 'culimoni'", alla "catastrofe" delle donne in politica, come Boldrini e Bindi, quest'ultima "peggio persino di Verdini, che è il massimo della nequizia umana"; passando per la famiglia come "luogo dell'orrore" e Giovanardi linciato in piazza dall'Arcigay stile Saddam Hussein. E' lo show alla Camera di Vittorio Sgarbi, invitato da Carlo Giovanardi per una conferenza sulle unioni civili. Tra avventure boccaccesche ("Ho avuto figli che poi le madri hanno attribuiti al loro marito cornuto. Ci sono due-tre casi in cui ho fatto da donatore assistito...") ed altri aneddoti tratti dalla vita privata, il critico d'arte ha parlato della sua esperienza di padre: "Ho tre figli che ho riconosciuto ma non ho visto per anni e posso confermare che loro hanno mantenuto per me un amore non ricambiato. Io non amo i miei figli, se non di un amore che è quello che ho per tutta l'umanità". "Il padre - ha spiegato - è una figura ininfluente, ma potenziata dalla storia e dalla società nel ruolo del pater familias, di una famiglia che esisteva quando la donna fortunatamente era priva di potere. La donna è chiaramente superiore all'uomo e l'uomo lo sa, per questo l'ha umiliata finché ha potuto", e a un certo punto poi è diventato "un genere inferiore. Avete mai visto un ministro uomo delle pari opportunità? Siamo a un momento sociale di conclusione dell'uomo". Tema da cui Sgarbi è partito per parlare della "catastrofe" delle donne in politica: "Guardate la Pivetti, la Boldrini... L'Anselmi, che ha inventato la P2 che non c'è, la Bindi... Perfino Verdini, il massimo della nequizia umana, è meglio della Bindi". Una volta la donna doveva essere "protetta ed esiliata in una casa, doveva coltivare i bambini e non rompere i coglioni. Il matrimonio? Si chiama così perché il punto centrale è la madre, il dono della modernità. La famiglia è il luogo dell'orrore, dove tutto capita: cosa c'è di peggio? In questo nucleo c'è solo una cosa da difendere: il diritto del bambino", ha sottolineato lo scrittore. I matrimoni omosessuali, secondo Sgarbi, "dovrebbero essere chiamati 'culimoni' perché non c'è maternità possibile. Ma meglio due padri che nessuno", ha comunque riconosciuto il critico. "Prendi un ragazzo dell'Etiopia che è messo in un orfanotrofio senza nessuno, dopo che la madre vera l'ha abbandonato: chiunque si occupi di lui, che sia maschio o femmina, anche Giovanardi che ha un cuore di pietra capirà che è meglio che nessuno". Piccolo siparietto poi con Giovanardi, definito da Sgarbi "un sovrintendente ai valori etici": "Ormai è su una posizione su cui non è neanche più il Papa. Viene disegnato come un reazionario ma cerca di difendere quel mondo antico che viene tutelato in tutti i livelli (la cucina, i monumenti, ecc.), meno che nei valori etici" e la sua battaglia "lo porterà al martirio in una piazza dell'Arcigay, come se fosse Saddam Hussein", ha ironizzato Sgarbi suscitando l'ilarità generale.

Battersi per i gay non serve alla lotta di classe. Ci concedono i diritti civili, distruggono quelli sociali. E lo chiamano «progresso», scrive Diego Fusaro su “Lettera 43” il 12 Gennaio 2016. Lasciate che vi spieghi in due parole perché non faccio mie le battaglie omosessuali, pur non avendo assolutamente nulla contro gli omosessuali e, anzi, pensando che l'omosessualità sia perfettamente secondo natura. Gli omosessuali non sono una classe sociale. Marxianamente, non ha alcun senso essere contro gli omosessuali o dalla parte degli omosessuali. Ha invece senso stare in concreto dalla parte dei lavoratori e degli oppressi, omosessuali o eterosessuali che siano. Del resto, non si capisce perché un omosessuale disoccupato o precario dovrebbe lottare insieme (e sentirsi affratellato) con un omosessuale miliardario o broker finanziario. L'alleato non è l'omosessuale o l'eterossessuale: è il lavoratore, lo sfruttato, omosessuale o eterosessuale che sia. Complici le prestazioni della fabbrica dei consensi, il nemico è oggi sempre individuato nell’altro particolare, mai nel sistema economico dominante; con la conseguenza, del tutto paradossale, per cui il giovane disoccupato islamico si illuderà che il suo rivale sia il giovane disoccupato cristiano e non il magnate della finanza che pratica la delocalizzazione del lavoro e la volatilizzazione dei capitali. O, ancora, l’omosessuale disoccupato o precario riterrà surrettiziamente di essere più simile a un omosessuale proprietario di imprese multinazionali che a un eterosessuale disoccupato o precario. Il potere raggiunge il grado massimo del controllo sulle anime, allorché riesce a convincere le menti degli schiavi che il nemico sia chi è nella loro stessa condizione o, addirittura, chi sta più in basso e non più in alto rispetto a loro: che il nemico sia, appunto, l’omosessuale o l’eterossessuale, il destro o il sinistro, il bianco o il nero, e non il capitale finanziario, il classismo planetario, l’alfiere della finanza. Questo è il solo punto fondamentale della questione. Quando la lotta si ridispone come conflitto tra gli ultimi, come guerra tra omosessuali ed eterosessuali, migranti e autoctoni, uomini e donne, il potere vince e stravince: la contraddizione classista diventa invisibile. Per questa via, il “grande dissenso” - così potremmo battezzarlo, variando la nota formula di Marcuse - è dispersivamente frammentato nei mille rivoli delle opposizioni secondarie o, in ogni caso, tali da distogliere l’attenzione dalla contraddizione principale e da creare contrapposizioni tra gli ultimi. Per questa via, si polverizza la coscienza di classe e si impedisce preventivamente il costituirsi di un fronte unitario degli offesi del pianeta contro l’oligarchia finanziaria e in difesa di un assetto autenticamente democratico, fondato su rapporti tra individui - omosessuali ed eterosessuali che siano - liberi, uguali e solidali. Per queste ragioni, non ho nulla contro i diritti civili o contro le unioni civili. Contesto, però, la prospettiva secondo cui il matrimonio gay sia il maximum dell’emancipazione possibile; ancora, critico fermamente il fatto che le sinistre puntino ormai solo sulle battaglie civili rinunciando completamente a quelle sociali. La dinamica in atto è esattamente questa: concedere diritti civili per nascondere che stanno rimuovendo linearmente quelli sociali. E hanno pure il coraggio di chiamare questa follia «progresso». Parola di Matteo Renzi: «Nel 2016 legge sulle unioni civili». Matteo Renzi, colui che rottamò l’articolo 18. Distruggono il lavoro e i diritti sociali e nascondono questo processo elargendo i diritti civili. Non vi è altro da aggiungere.

Perché rinunciamo a fare figli. Madri da paura. Oltre le statistiche ci sono le domande sul futuro, gli egoismi, le ansie, gli ingorghi del femminismo e le irresponsabilità dei padri. Fra punture, camici bianchi e ostinazioni. Un’indagine di Annalena Benini su “Il Foglio” del 23 Gennaio 2016. E adesso che puoi avere tutto, cosa c’è che non va? Adesso che puoi decidere, puoi vivere, puoi dire no, puoi chiedere aiuto, puoi diventare chi sei. Adesso che non devi liberarti da un’oppressione. Ora che puoi correre incontro ai tuoi desideri. Fare un po’ come ti pare, abbracciare il caos. Non dirmi che hai paura, adesso. Paura di perdere qualcosa, paura di non avere abbastanza cose. Paura di non essere brava come scrivono nei libri. Paura di annoiarti. Paura di diventare cattiva. Paura di amarlo poco, di amarlo male. Paura di soffocare gli altri desideri. Paura di dire: voglio un figlio, e se tu amore invece non lo vuoi, se te ne stai lì sulla porta a dire no, è presto, è tardi, non so, allora però adesso spostati, che mi stai bloccando il traffico. Paura, adesso che sai bene il mondo che cos’è, di farne ricominciare un altro, però sconosciuto: insieme alla vita di un figlio viene alla vita, sempre, nuovamente, anche il mondo, ricomincia da capo. E’ uno sconvolgimento, una sovversione, non è vero che è soltanto un fatto naturale. Non lo è. Per lui che nasce, ma anche per te che torni nuovamente a nascere, questa volta come madre, che metti una vita a disposizione della vita, tiri un calcio al sé immutabile e fai entrare nei pensieri e negli incubi la baby-sitter, le malattie, le cadute dal quarto piano, gli orsi affamati, le dimissioni in bianco, l’utero retroverso. Per il padre, che in sala parto, stravolto, si accorge per la prima volta di questo principio di alterità, e dell’incognita: non sapevamo, non abbiamo mai saputo e non sapremo mai, nonostante quindici ecografie anche tridimensionali, chi stavamo aspettando. E per tutti quelli che stanno intorno a guardare, e sentono un’energia potentissima che arriva addosso ed è la vita nuova. Per il mondo, che da quel momento accoglie l’uomo in più, così somigliante a tutti eppure totalmente diverso. Così simile a te, o con quel modo di muovere le mani che riconosci eppure nessuno gli ha mai insegnato, somigliante ma sconosciuto, misterioso, un altro. E’ uscito da te, ma non sei tu, è altro sangue, nuovi desideri, e il bisogno carnale che ha di te. Ti guarda e piange, ti guarda e aspetta, lo guardi e sì, adesso lo vedi quanta paura, quanta voglia avevi. Il 2015 è stato in Italia un anno senza figli. Poche nascite, un minimo storico continuamente superato da nuovi minimi storici. Meno di cinquecentomila bambini, meno del 2014, meno del 2013, meno dell’anno precedente e così via. Decine di migliaia di figli che non sono venuti al mondo, molti mondi in meno da far ricominciare. E’ brutto anche solo scriverlo, sembra un film distopico in cui l’umanità si estingue e i cani randagi vanno a caccia di bambini, ma nascono meno persone di quante ne muoiono, ed è da più di vent’anni una tendenza piuttosto continua, salvo un piccolo boom nel 2006 (gli statistici dicono: grazie agli immigrati) che però non ha spostato la media nazionale: un figlio virgola tre per coppia, adorato, viziato, analizzato, conteso, sulle spalle del quale far pesare tutto il mondo nuovo, tutti questi anziani (e i loro diritti alle pensioni) che lo osservano, lo studiano, scrivono manuali su come crescerlo nel modo migliore, come giocare con le costruzioni e avere successo nella vita, come sbagliare e avere successo, come colorare fuori dagli spazi e avere successo, come usare l’iPad e avere successo, come fare a botte e non farsi sgridare, come rassicurare la madre sul fatto che è la migliore del mondo: madre elicottero tigre orso libellula chioccia riccio (senza parlare della terribile madre coccodrillo), per ogni bambino cento manuali, per ogni manuale un tipo di madre diversa ma concentrata nel tirare fuori il meglio e vincere la gara, e tutti gli anziani in cerchio, molto preoccupati, molto ansiosi, fissano da sotto gli occhiali il bambino con l’abito d’oro e gli dicono: hai paura vero, adesso che tocca a te? Perché se i bambini diminuiscono, se ogni nascita è un evento sociale, una prova di coraggio, il figlio che viene al mondo porta con sé quel che resta dell’idea di futuro. E’ lui stesso, la sua esistenza, o il sogno di lui, la prova di una speranza, di un desiderio ingovernabile che si fa largo in mezzo ad altri desideri, ad altri bisogni, che supera le opposizioni, i discorsi sull’opportunità, sulla precarietà, e che sgomita e lavora dentro e prende spazio, e una notte fa dire a un ragazzo dentro un letto, sopra un divano, su una spiaggia o dentro un’automobile: proviamoci dai, che ci importa, e sull’onda di quel “che ci importa” (che ha dentro l’amore, l’abbandono, la libertà) può arrivare la sorpresa, l’incertezza di una vita certissima che sovverte ogni equilibrio, manda all’aria tutti i programmi e fa vincere, sopra questo mondo teso all’eliminazione di ogni incognita, la tenerezza insieme allo sgomento. Oppure succede qualcos’altro, in un’altra notte dentro una stanza d’albergo, un ventilatore sulla testa perché a Ho Chi Minh d’estate si muore di caldo, e un’amica chiede all’altra, alla fine di un lungo aggiornamento sui tumulti sentimentali, per questi fidanzati sofferenti, tormentati, coetanei infinitamente ragazzini, “ma tu tra dieci anni come vedi la tua vita?”. Questa domanda non era un giudizio, era una curiosità, un modo per addormentarsi chiacchierando sotto il ventilatore, ma a lei è arrivata addosso come un vento freddo, dentro il caldo che faceva lì: a trentaquattro anni, con tutto quello che voglio, con questo desiderio di mondo e di amore e di bellezza e anche con queste teste di cazzo di cui mi innamoro, io però che cosa voglio, adesso che tengo gli occhi fissi su quel ventilatore e non posso più dormire, lo so: voglio un figlio. A Ho Chi Minh di notte il desiderio ha preso il sopravvento, e al ritorno a Roma lei ha detto a lui: spostati, la mia vita deve passare da qui, o vieni dentro o te ne vai fuori. “Il desiderio della madre – ha scritto lo psicoanalista Massimo Recalcati in “Le mani della madre” (Feltrinelli) – non può essere ridotto al ‘voler avere un figlio’; non è ricerca spasmodicamente attiva del figlio, ma disposizione all’attesa… E’ necessario un ‘sì’ radicale”. Questa disposizione all’attesa, questa disposizione alla sorpresa, all’incertezza, al futuro, e questa voglia che brucia nello stomaco, a un certo punto, che fa cambiare strada, cambiare sguardo, che si fa largo fra altre mille cose anche bellissime, e supera terrori e disastri e calcoli matematici, e dentro grida “sì” (e riguarda però non soltanto le donne al cospetto della possibilità di una vita nuova, riguarda anche gli uomini, riguarda i genitori che verranno), sta drammaticamente diminuendo in Italia, ogni mese un po’ di più, ogni mese meno mondo da scoprire, e ogni anno si alza ancora un po’ l’età media in cui una donna ha il primo figlio. Siamo a trentun anni e mezzo, e ai corsi preparto per ogni ventottenne terrorizzata ci sono almeno tre trentanovenni in preda al panico. Sembra sempre troppo presto, anche quando è un po’ tardi, e questa lotta tra la biologia e la paura, tra la biologia e la razionalità, tra la biologia e il controllo, tra l’amore e la programmazione (anche tra l’amore e i fidanzati stronzi), ha creato, a poco a poco, nuove possibilità, molta tecnologia, conquistata con le unghie e con i denti, lotte durissime e scontri culturali e ideologici, amicizie infrante in nome degli embrioni (chi sarebbe pronto a usarli per farsi ricrescere i capelli, chi li chiama ciascuno per nome e li iscrive all’università), convinzione a intermittenza che il congelamento degli ovuli salverà le nostre vite e le carriere e guarirà i disastri sentimentali di tutte le splendide quarantenni, ma il risultato non cambia: i nuovi nati non aumentano in alcun posto del mondo, le donne che fanno figli diminuiscono anche in Francia e mercoledì scorso il Figaro ha dedicato quattro pagine a questa “chute inquiétante”, della natalità: uno virgola novantasei figli per donna, per la prima volta da quasi vent’anni, “simbolo inquietante per il rinnovamento delle generazioni”, e ha accusato Hollande, e in generale la gauche, “di avere sacrificato la famiglia sull’altare di una solidarietà non equa” (il matrimonio per tutti, scrive il Figaro, è stato la priorità, e la famiglia è stata privata da questa politica incoerente di tre miliardi di euro). Perché, ognuno al proprio posto, dal proprio punto di vista, pensa di avere la spiegazione, il colpevole, lo sbaglio occidentale (per Emil Cioran sarebbe semplicemente questo: “Quando un popolo ama la vita, rinuncia implicitamente alla sua continuazione”), qualcosa che spieghi lo stupore, e anche il sospetto, che proviamo nel guardare le famiglie numerose (due genitori atei di quattro figli raccontano che la prima domanda è sempre: siete molto religiosi?, siete contrari alla contraccezione?, ma loro non sono contrari a niente, nemmeno alle domande sceme: per anni avevano provato ad avere un figlio, e non succedeva, avevano deciso di non decidere niente, di non pensarci più, poi non pensandoci più lei è rimasta incinta quattro volte in dieci anni, e però “abbiamo fatto qualche figlio, non degli attentati”). Mio nonno, che aveva fatto i figli negli anni Cinquanta e poi nei Sessanta, mi diceva quando ero bambina: tu non sposarti mai eh, non fare figli, i figli sono una schiavitù, lo diceva ridendo ma un po’ serio, lui che amava andare in giro per le campagne, portarmi gatti in regalo, abbracciare gli alberi anche, e forse tornare a casa la sera, dentro un appartamento di città da cui si vedeva il fiume ma solo dalla finestra, non era sempre esaltante. Mio padre e mia madre, che studiavano a Bologna nei primi anni Settanta e avevano venticinque anni quando sono nata io, mi dicevano ugualmente: non fare figli, non sposarti, e intanto si tiravano qualche piatto, mia madre ogni tanto lanciava delle magliette dentro una borsa di pelle e mi diceva mettiti la giacca che ce ne andiamo, ma non andavamo mai via davvero, e nel frattempo hanno fatto mia sorella, e le dicevano: mi raccomando, non fare figli. Non li abbiamo mai ascoltati, né loro né mio nonno, non abbiamo mai pensato che volessero dire qualcosa di terribile come: peccato che siete nate, piccole e pesanti catene alla caviglia che hanno impedito ai genitori di realizzarsi e andare liberi in giro per il mondo, e sono sicura di no, era solo un modo di sentirsi un po’ speciali, disincantati, ideologici negli anni in cui fare figli era totalmente ovvio ma cominciava a sbattere contro le esigenze di libertà femminile, contro “la fine della dedizione assoluta”, come l’ha definita la filosofa femminista francese Elisabeth Badinter in un suo libro importante, “L’amore in più, storia dell’amore materno” (Fandango), e a un certo punto, dentro le lotte e le sigarette e la ribellione, quasi tutte le ragazze indossavano dei camicioni sotto cui si intravedeva la pancia (mia nonna nemmeno si era accorta di essere incinta, andava a insegnare in una scuola di campagna in motorino, con il cane che le correva dietro, però un giorno non le si chiudeva più la gonna e allora le è venuto un dubbio). Loro prima di noi non erano più ricchi, più preparati, più sicuri, ben serviti, mantenuti o accuditi dallo stato, i loro genitori avevano visto la guerra, avuto fame e paura e tormento, probabilmente non erano nemmeno più solidamente innamorati, erano però più disposti a fare spazio, anche a farlo prima, ad abbandonarsi con fiducia incosciente a una promessa di futuro che sarebbe arrivato sotto forma di bambino rosa e di nuove paure di povertà e sofferenza, ma un bambino in fondo non aveva bisogno di chissà quale dispiegamento di forze e di oggetti e allora, come ha scritto Natalia Ginzburg in un racconto del 1962, “baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che così dev’essere se appena è possibile, almeno nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini”. Il sentimento verso i figli, e quindi verso il domani, può prevedere anche l’eventualità delle scarpe rotte e la coscienza della fragilità (prima eravamo pronti a gettarci fra i cannibali, bere acqua dalle pozzanghere, lanciarci dagli aerei, mangiare vermi vivi, dormire a casa di sconosciuti con coltelli fra i denti, adesso per bere un biccher d’acqua abbiamo bisogno di uno sterilizzatore, e gettiamo sulle cose uno sguardo sospettoso che prima non ci riguardava), ma mai mai mai può contenera quest’idea occidentale di appassimento. Appassimento di speranza, vitalità, possibilità, nonostante scarpe sempre asciutte e nuove, incapacità di scegliere il proprio passo: è questo il disegno che compie la paura, girando su se stessa e attorno al resto delle cose della vita, trovando che sia troppo presto, troppo tardi, troppo casino, troppo pericoloso, troppo impossibile. Troppo difficile, dopo, avere tutto, che è poi l’argomento principale del dibattito anglosassone sulla maternità, con tutte le signore del potere che spiegano, con questo senso molto concreto della vita quotidiana, che invece basta lavorare spesso da casa, chiedere sempre aumenti, sposare un uomo servizievole, restare magre. Secondo la storica Marina D’Amelia, che ha scritto anche un libro sull’evoluzione della madre, “c’è nel profondo un conflitto, anche non accettato, tra la libertà della donna e le esigenze di cura: la maternità è anche un evento narcisistico e le donne si sono conquistate molte altre aspettative di gratificazione”. Gli psicoanalisti dicono che vivere un figlio come un ingombro, come un ostacolo alla propria realizzazione, come possibilità di offuscamento di sé ha generato questa donna freudiana innamorata di sé, che quando diventa madre fa molti danni, soprattutto con le figlie femmine: una specie di cannibalessa che svaluta tutto ciò che lei non è. Invece Giulia ha trentasei anni e vuole un figlio da quando ne aveva diciotto, ma ha paura che poi non le diranno più: quanto sei brava, vieni a progettare anche questo palazzo?, e il suo fidanzato, pochi anni in più, le dice: godiamoci un po’ di tempo noi prima, andiamo a bere un bicchiere, andiamo in Messico a Natale, “e allora anche a me vengono i dubbi, perché lui fa una faccia spaventata”. Ma tu, tu che cosa vuoi? Io voglio farlo con tanta voglia io, ma pure con tanta voglia lui, non con tanta paura noi. Fanno discorsi sensati, parlano di welfare che non c’è e di accoglienza che manca, di uomini che non lasciano il posto alle donne incinte sull’autobus, di capi che le licenziano, di nord Europa più evoluto (“In Olanda la puericultrice va a casa, pagata dallo stato!”), e anche di caviglie grosse e di cellulite, dell’eventualità di impazzire e di perdere il senso dell’umorismo (“e se poi parlo solo di pappe biologiche e di sculture con la pasta di pane?”), ma poi dicono tutti: paura. La parola è sempre: paura. Negata, rimangiata, derisa. “Ma no io non ho per niente paura, te lo giuro, ma quale paura, ho solo paura di diventare troppo ansiosa con un bambino, e poi lui non vuole farlo, ha paura di essere troppo vecchio”. Antonella ha trent’anni e mezzo, il suo fidanzato quarantasei. Per fare un figlio serve una disposizione ad aspettarlo, oltre alla fortuna di riuscire a concepirlo, con o senza l’aiuto e la fatica di aghi, ormoni, insuccessi, ginecologhe che guardano preoccupate il tracciato della tua “riserva ovarica” e scuotono la testa. Serve un uomo (anche se a volte invece non serve, può andarsene a quel paese, ma Elisabeth Badinter, spesso contraria agli uomini e anche ai figli, ha preso atto “di questa irriducibile volontà femminile di condividere con l’uomo e l’universo e i figli”), un uomo che dica: sono qui, però promettimi che smetti di fumare. Sono qui, però giura che non andrà alla Montessori. Sono qui, ci pensiamo insieme. Lo facciamo insieme. Anzi, ora che ci penso, sento che ho le doglie: la psicoanalista Simona Argentieri li ha definiti “padri materni” in un pamphlet pubblicato da Einaudi: uomini dolci e apprensivi che si inchinano davanti a bambini molto accessoriati, li porgono con delicatezza alle madri per l’allattamento on demand (a richiesta), mandano messaggi agli amici: oggi pesiamo sei chili e quattrocento grammi e siamo lunghi cinquantasette centimetri. Ho visto un padre di quarant’anni, al suo primo bellissimo figlio, alzarsi da una lunga tavolata di amici e dire, in una trattoria in Umbria: scusateci un momento, noi andiamo ad allattare, e dirigersi fieramente, moglie accanto e neonato in braccio, verso un luogo più riparato. E uscire di corsa sotto la pioggia, in preda a un impulso irrefrenabile, per andare ad acquistare il maialino divora pannolini, un bidone cilindrico bianco e blu che quando ci getti dentro un pannolino lo comprime. Lui ha preteso il diritto di precedenza sul cambio pannolino, anche di notte, lei glielo ha ceduto volentieri ma adesso è gelosa, dice: ormai preferisci il maialino a me, non ci butti nemmeno più i pannolini per non offenderlo. Lui, che prima del figlio partiva per viaggi solitari, stava giorni senza parlare, faceva a botte allo stadio, scalava le montagne e frequentava suonatrici di flauto con poncho peruviani che dormivano nelle soffitte gelate, adesso ha scelto il riscaldamento a pavimento perché il bambino possa gattonare sereno, e usa ogni sera il mostruoso aspira muco, una cannuccia nella narice del bambino e una nella bocca del padre, perché il bambino dorma sereno, anche se non ha il raffreddore. “La responsabilità verso un figlio si è ulteriormente aggravata”, dice Marina D’Amelia, “si sono modificati i criteri di allevamento di un bambino, gli standard di bravi genitori sono altissimi e costosi, in termini di libertà, denaro, tempo per sé”. Mia figlia quando è nata ha dormito per un anno in una carrozzina in corridoio, poi in un lettino in corridoio, poi in una stanzetta tutta per sé, che infatti ha odiato e tornava sempre in corridoio con i libri accatastati intorno e la polvere a cui non è per fortuna allergica. “Abbiamo paura di un soffio di vento, d’una nuvola in cielo”, scrive Natalia Ginzburg ne “I rapporti umani”, “non verrà la pioggia? Noi che avevamo preso tanta pioggia, a testa nuda, coi piedi nelle pozzanghere! Adesso abbiamo un ombrello. E ci piacerebbe avere anche un portaombrelli, a casa, nell’anticamera”. E pensiamo che senza portaombrelli, senza umidificatore, senza maiale porta pannolini, senza carta da parati con i coniglietti, senza nonni disposti a portarlo a judo e a violino, senza risparmi per farlo studiare a Cambridge, anche, sarebbe da irresponsabili fare un bambino. E’ la nuvola minacciosa dell’accudimento compulsivo, stabilito nei dettagli, amplificato da un’idea affaticata di presente, davanti alla quale anche la più hippie delle amiche si trasforma in una signora del bridge con i capelli cotonati che stringe oscuri rapporti con altre madri ossessive, è questa idolatria competitiva a creare tormenti e senso preventivo di inadeguatezza (“le mie ansie hanno l’ansia”, dice Charlie Brown): un figlio sembra un’impresa per pochi bionici eletti oppure integralisti cattolici, o milionarie annoiate e biologiche. Quando abbiamo perso la leggerezza, lo slancio verso il futuro, quell’allegra tristezza da scarpe rotte indossate con baldanza e sbadataggine? Qualcosa ha gettato in noi le radici della timidezza, il presente non supera la soglia del tempo, e tutto intorno vediamo pericoli, scarafaggi, chiodi arrugginiti, precipizi, violenza, rinunce e inganni anche del cuore. Margherita, che ha avuto il primo figlio a quarant’anni, dopo avere abortito a trenta perché lui era un irresponsabile e lei si sentiva sola, dopo avere detto non avrò più figli perché non me li merito, perché dentro di me i fiori appassiscono e fuori di me non cresce più nulla, ha incontrato un uomo che le si è inginocchiato davanti: voglio una bambina che abbia i tuoi occhi. E lei ha vuto paura. Non dei pannolini e del lavoro, non delle notti in bianco o degli attentati: paura di non essere in grado di volere abbastanza bene a qualcuno a cui sarei stata legata per sempre, ha detto. Paura di sentirmi dentro una gabbia e di impazzire. Ma lui insisteva, voleva chiamare la bambina come sua madre, e una sera dopo una festa lei è rimasta da sola con un’amica, tutti erano andati via, il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare, dice Stefania Sandrelli in cucina con i piatti sporchi e gli occhi lucidi ne “La famiglia” di Ettore Scola, e l’amica le ha detto: fallo questo bambino, se non lo amerai lo dai a me, lo amerò io al posto tuo, lo amerò io abbastanza per tutti, io che non li ho fatti i figli perché ho aspettato tanto, troppo, fino a quando quel coglione mi ha detto che aveva messo incinta la sua insegnante di spagnolo. Se non l’ho ucciso, se non mi sono uccisa, potrò amare tuo figlio come se fosse mio. Si sono messe a piangere, hanno finito il tiramisù rimasto nei piatti degli altri, hanno bevuto champagne caldo dalla bottiglia, e Margherita ha buttato via la pillola che prendeva di nascosto (a trentanove anni, che la prendi a fare? le ha detto la sua amica, presuntuosa che sei) ma non succedeva niente. La ginecologa le ha prescritto una serie di analisi e poi le ha guardate con una specie di ghigno. “E’ praticamente impossibile, e più passa il tempo più lo sarà”. Per timidezza, e per quel senso di colpa che le fa dire sempre: me lo merito, per il passo indietro che tengono a volte quelle nate a metà degli anni Settanta (tutta l’autocoscienza delle loro madri, e l’ingorgo del femminismo in provincia, e la sensazione, fin da piccole, di avere un compito preciso: non disturbare), Margherita non aveva mandato al diavolo la ginecologa, anzi si era aggrappata diligente a quelle punture nella pancia, gli ormoni, esaminare l’ovulo, chiedergli come si sente stamattina, sei abbastanza vigoroso per farti fecondare? Vari insuccessi nel giro di un anno, e la fatalistica convinzione che era meglio non disturbare oltre. “Me lo merito”, anche. Così, quando ha avuto un ritardo di diciotto giorni, Margherita ha pensato che era sicuramente “la menopausa precoce”. Sudava, aveva un nodo allo stomaco, una sensazione strana di sdoppiamento, ha anche pensato: sono malata, me lo merito. L’amica l’ha incontrata per un caffè in piazza Farnese e le ha detto subito: quand’è che sei diventata così cretina? Andiamo a fare il test. Quale test? Di gravidanza, ma che cosa ti è successo, hai battuto la testa? No, ma è la menopausa, oppure il cancro. Solo una vera amicizia può passare attraverso il fuoco dei più violenti improperi, e così è stato per loro. Sul test è comparsa una croce blu, identica alla croce blu delle istruzioni: se il risultato è incinta, comparirà una linea blu che incrocia l’altra linea blu. E adesso? E adesso che cosa? Adesso che faccio? Adesso vai dalla ginecologa e le sfasci lo studio e le dici che è una stronza. Ma Margherita ci teneva al suo passo indietro e alla timidezza, così andò dalla ginecologa che cambiò solo un poco la forma del ghigno e le fece l’ecografia in silenzio, poi le disse che comunque c’era un distacco della placenta e doveva mettersi a letto per almeno due mesi, forse tre, “alla tua età rischi molto, poi se tutto invece va bene programmiamo il cesareo”. Margherita ubbidiva, stava a letto e pensava che se lo meritava, e che era meglio non affezionarsi a quei due centimetri dentro la pancia, meglio non pensare al nome, meglio non pensare a niente. Al massimo tornerà tutto come prima, forse dentro di me non deve crescere niente, devo solo aspettare la dissoluzione, però vestita carina, e intanto mangiare biscotti sul divano. Lui, anche dopo aver scongiurato il pericolo dei primi tre mesi, le ha impedito di prendere l’autobus, l’automobile, il taxi, le ha proibito di portare fuori il cane, le ha chiesto di non cucinare, di non lavorare, di non urlare, di respirare piano. Una sera in cui lei ha bevuto un bicchiere di vino, le ha detto: “Ti riterrò responsabile di qualunque cosa succeda a mia figlia”. Allora lei ha raccolto la timidezza, se l’è messa in tasca e l’ha mandato al diavolo, si è accesa una sigaretta ed è uscita di casa a mezzanotte, con il cane che abbaiava di gioia e strattonava il guinzaglio. Il giorno dopo ha cambiato ginecologa. La bambina è nata maschio, e Margherita ha sentito una cosa che si scioglieva dentro, come una gioia forte, come un dolore che scappa via, e giura di aver visto, nella piantina sul davanzale della finestra, un fiore giallo che sbocciava. L’ho visto mentre si apriva, capisci? Ma avevi le doglie, urlavi, deliravi, hai tirato un calcio al tuo fidanzato, te lo sei sognato. Margherita non ha replicato, è ancora timida ma senza più timidezza, e dentro di sé ha tenuto sempre quel fiore giallo che si apre piano, e non c’è nessun’altra strada se non aprirsi, è quello il destino. E’ il destino dei desideri, dei pensieri, del cielo, dell’amore, è il destino della civiltà. Andare avanti oltre quello che conosciamo, oltre il recinto della prudenza e della stanchezza, del ritmo affannoso per cercare il nostro posto e l’equilibrio, e attraversare i momenti di abitudine e compiacimento, senza più uno stupore, solo lamentarsi e preoccuparsi, fare domande sospettose, ostinarsi sui dettagli, sui piccoli desideri, invece che su quelli grandi. Così che i piccoli desideri soffocano senza farsene accorgere quelli grandi, perché nei piccoli desideri parla soltanto la ragione e muove sentenze, disserta, cita studi recentissimi sulla conciliazione di carriera e famiglia, sul ritorno del morbillo in forme pesantissime, sul denaro necessario per portare due bambini al mare a prendere aria, e l’incolumità personale sembra minacciata da questa specie di malinconico cinismo, dall’abitudine alla rinuncia, così che guardiamo i passeggini degli altri, le pance a Parigi, i figli della badante moldava nelle foto in camera da letto, e pensiamo: che coraggio, ma che egoismo, e torniamo alle nostre occupazioni con un senso di fastidio e di tumulto insieme. Un padre di due figli, separato, che adesso ha cinquant’anni e si rotola con loro nella colla e poi nelle piume di piccione e li porta alle feste e fa sculture di pongo e da anni ha le spalle dei maglioni macchiate di bava di bambino addormentato, dice che era convinto che “mettere al mondo un figlio fosse un atto di violenza”. In un mondo cattivo e stanco, che cosa ci farà un bambino? Come crescerà, su quali strade camminerà, e a che cosa mi costringerà a rinunciare? Tutta questa collettiva lucidità, e dunque scetticismo, questo allargamento delle responsabilità dei genitori, questa età adulta continuamente rimandata ma anche indagata e offesa, ha creato un’intolleranza impaurita per il domani (oltre alla consapevolezza che è ancora e sempre tutto centrato sulle capacità femminili di cura, spiegano i sociologi: i figli, gli anziani, questo presente fatto di lunga vita, che ignora la famiglia ma le lascia tutto sulle spalle). Ma le indagini sociali, le statistiche, le filosofie, e anche la fiducia in tecniche che salveranno la nostra fertilità e il nostro momento perfetto dalla disperazione, e tutti i diversi pezzetti del puzzle che compone le cause di nascite sempre più rare, perdono la loro spaventosità davanti a ogni neonato dentro un marsupio per strada, o due gemelli in un passeggino doppio, uno dorme e l’altro piange, e quella madre spinge il passeggino con una forza che nessun rapporto Istat può sfiorare. La paura di vivere se ne va vivendo. E anche se un mattino ci si sveglia nichilisti, le sorprese arrivano ancora. Per questo racconto sulla natalità caduta ho mandato un messaggio un po’ timido, all’ultimo momento, a Margherita. So che non ha tempo, il suo bambino non ha nemmeno sei mesi, ma le ho scritto: dimmi soltanto di che cosa avevi paura, prima. Lei mi ha risposto subito: “Dei serpenti, dell’Isis, delle scogliere, delle trombe dell’ascensore, delle smagliature sulla pancia, ma soprattutto di cambiare, e di non essere capace di farlo”. Però avevi questo desiderio, sempre. “Per dire una cosa un po’ trash, sai quella canzone di Baglioni, la paura e la voglia di essere nudi? Ecco, oltre a quella io ho sempre avuto anche la paura e la voglia di avere un figlio”. Ma ti posso telefonare? “No”. Perché? “Sto in un casino”. Hai un bambino buonissimo, hai il cane che bada a lui, non fare la fanatica. Margherita allora mi ha inviato un’immagine su Whatsapp, ma non riuscivo ad aprirla, e comunque tutte queste foto di neonati, mille foto al giorno in qualunque posa, anche vestiti da coccinella per carnevale, sono ricattatorie: bisogna sempre rispondere che meraviglia, e se non rispondi sei Erode. Ma questa volta stranamente non era una bambina vestita da coccinella, e nemmeno la foto di un bagnetto, né il video di una ninnananna o del primo gorgheggio. Era una specie di termometro bianco, con due striscette blu incrociate. “Ho fatto il test adesso mentre mi scrivevi, non so come sia potuto succedere”. Davvero non ne hai idea? “Quasi nessuna, e sono molto preoccupata: non ho più paura”. 

Magdi Allam: “Diritti ai gay? Così sovvertiamo società e abbiamo calo natalità”, scrive il 14 maggio 2014 Gisella Ruccia su “Il Fatto Quotidiano”. “Se noi dobbiamo recuperare questo grave deficit demografico, dobbiamo sostenere la famiglia naturale, perché, piaccia o meno, solo il sodalizio tra un uomo e una donna può rigenerare la vita. Se vogliamo incentivare la natalità, dobbiamo sostenere la famiglia naturale”. Lo afferma Magdi Cristiano Allam, candidato per Fratelli d’Italia alle elezioni europee, durante il talk show politico “Lo Schiaffo”, su Class Tv. “Se noi diciamo” – continua – “che l’essere eterosessuali, bisessuali, omosessuali, lesbiche, transessuali, intersessuali devono corrispondere a pari diritti sul piano del matrimonio e delle adozioni dei figli, noi sovvertiamo quello che è stato tradizionalmente, per ragioni biologiche e non ideologiche, la struttura fondante della nostra società”. Il conduttore Marco Gaiazzi ribatte che il calo demografico in Europa non è certo dovuto a un’esplosione di omosessuali nel mondo. “No” – replica il giornalista egiziano – “ma si scardina culturalmente la centralità della famiglia naturale nel momento in cui questa Europa ci dice che la base su cui si fonda la società non è più il rapporto dialettico tra uomo e donna, ma l’orientamento sessuale. Noi abbiamo bisogno di rigenerare la vita, perché diversamente la società finisce. Se non facciamo figli, la società finisce. E con la società finisce anche la nostra civiltà”. “Non vedo il nesso”, ribadisce Gaiazzi. “Questo” – afferma Allam – “è un fatto che riguarda la concezione della società nella quale la famiglia naturale è sempre più emarginata e sempre più vessata”.

Le nozze gay suicidio dell'Europa. I matrimoni omosex scardinano i valori della famiglia naturale. Unico rimedio alla crisi demografica del continente, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 04/02/2013, su "Il Giornale". La legalizzazione del matrimonio omosessuale in Francia e in Gran Bretagna, una realtà già presente in Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo, Islanda, che è stata accreditata dall'Unione Europa e dal Consiglio d'Europa, evidenzia che in questa Europa è prevalso il relativismo valoriale che scardina le fondamenta della costruzione sociale incentrata sulla famiglia naturale. Non si tratta solo della violazione di un «valore non negoziabile», secondo l'espressione cara a Benedetto XVI, ma innanzitutto di un venir meno alla ragione e al legittimo amor proprio. L'Europa è in assoluto l'area del mondo che ha il più basso tasso di natalità e, purtroppo, l'Italia è tra i Paesi europei che ha il più basso tasso di natalità. Ebbene, se noi - al fine di porre un argine a questo suicidio-omicidio demografico - usassimo la ragione e facessimo prevalere il sano amor proprio, dovremmo sostenere la centralità della famiglia naturale perché, piaccia o meno, è solo dall'unione tra un uomo e una donna che può generarsi la vita. Concretamente per favorire la natalità dovremmo sostenere la maternità, ciò che oggi si traduce nell'attribuzione di congrui sussidi per le madri che scelgono di dedicarsi a tempo pieno o anche a tempo parziale alla famiglia, ai figli e alla casa, riconoscendo la valenza economica del lavoro domestico. Proprio recentemente in Francia da un'inchiesta pubblicata dal Figaro emerge che il lavoro domestico corrisponde a circa il 33% del Pil! Invece questa Europa relativista non solo non sostiene la famiglia naturale, ma ha scelto di scardinarla dalle fondamenta sostenendo che la società non si basa più sul rapporto tra uomo e donna, ma che dobbiamo far riferimento a cinque parametri che corrispondono all'orientamento sessuale, dove l'essere eterosessuali, bisessuali, omosessuali, lesbiche e transessuali, deve essere considerato la piattaforma sociale a cui corrispondere assoluta parità sia per ciò che concerne il matrimonio sia per l'adozione dei figli. Ed è così che in quest'Europa relativista che rischia di scomparire sul piano demografico per quanto attiene alla popolazione autoctona, il matrimonio omosessuale viene indicato come l'apice di una civiltà i cui capisaldi sono la negazione della cultura della vita, ovvero la legalizzazione dell'aborto, dell'eugenetica e dell'eutanasia. Gli ideologi del relativismo demografico ritengono che il problema sia facilmente risolvibile spalancando le frontiere agli immigrati provenienti da Paesi che hanno un più alto tasso di natalità, operando in un contesto puramente quantitativo, a prescindere dalla dimensione qualitativa che concerne la condivisione o meno dei diritti fondamentali della persona, del rispetto delle regole fondanti della civile convivenza, della disponibilità a integrarsi per cooperare alla costruzione di un futuro migliore. Ecco perché se questi immigrati sono, ad esempio, i cinesi dediti all'invasione economica o gli islamici dediti all'invasione religiosa, il risultato sarà inesorabilmente il tracollo della civiltà europea in parallelo al declino della popolazione autoctona. Tutto ciò dovrebbe essere considerato ragionevole e di buon senso. Ebbene, se oggi non lo è, significa che abbiamo messo in soffitta la ragione e non ciò vogliamo più del bene, facendo prevalere un'imposizione ideologica ispirata al relativismo valoriale che nega la nozione stessa di verità e al buonismo che ci porta ad anteporre le istanze altrui anche a dispetto delle conseguenze negative per noi stessi. Ecco perché questo pregiudizio ideologico si configura come una dittatura relativista che, per un verso, è l'altro lato della dittatura finanziaria e, per l'altro, è supportato dalla dittatura mediatica. Anche la dittatura finanziaria fa venir meno la centralità della persona come depositaria di un valore intrinseco, della famiglia naturale e della comunità di uomini e donne liberi, sostituendoli con la centralità della moneta, delle banche e dei mercati. E né la dittatura relativista né la dittatura finanziaria potrebbero affermarsi senza il supporto della dittatura mediatica che, mistificando la realtà, ci propina una rappresentazione ideologica facendosi sembrare come l'apice della civiltà ciò che il fondo del baratro in cui siamo precipitati non avendo più la certezza di chi siamo, delle nostre radici, fede, valori, identità e regole. L'epilogo di questa deriva è la dittatura in senso letterale, dove anche se siamo chiamati a partecipare al rito delle elezioni, ne sappiamo anticipatamente l'esito perché la triplice dittatura relativista, finanziaria e mediatica non consentono alcuna devianza rispetto al «nuovo ordine mondiale». Ciascuno di noi sarà libero di produrre e di consumare, di copulare con chi gli pare, di credere in Gesù o Allah a condizione di metterli sullo stesso piano, ma non potremo affermare la verità, credere nei valori non negoziabili e perseguire il bene comune.

Family Day. Una marea di bella gente. Un ciclone di vite normali, scrive il 31 Gennaio 2016 Luigi Amicone su "Tempi". Finalmente si affaccia una luce nuova. Si muove un sacco di gente. Si capisce cos’è uno sguardo benevolo e non risentito al mondo comune. Quasi un milione e mezzo di famiglie italiane sono in miseria, abbondantemente al di sotto della soglia di povertà. E il parlamento non vede come priorità – e strilla che questa sarebbe la nostra “maglia nera in Europa”, questa l' “arretratezza”, “lo scandalo”, “l’inciviltà”- il fatto che non abbiamo ancora fatto le “unioni civili”. Che non scimmiottiamo ancora il matrimonio. Che non abbiamo ancora dato i bambini al desiderio di due uomini o due donne. Bambini che saranno condannati a non avere una madre e un padre. Ci sono poco più di 500 bambini in Italia, dati Istat, e non 100 mila, venuti al mondo per il desiderio di due adulti che sono andati a comprarsi un utero in affitto o inseminazioni artificiali all’estero. E deve diventare un mercato, un’opera di umanità, un timbro della mutua, la pratica di separare la procreazione dalla sessualità e fare della vita nascente un prodotto dell’industria genetica ed eugenetica (perché se poi il figlio non è come lo vuole il desiderio, si prende e lo si butta via)? Ritorno alla realtà. In pieno delirio di propaganda, bufale e prepotenza ideologica, succede un 30 gennaio 2016, Roma, Family Day. Possibile? Possibile che gente che non ha soldi, giornali, televisioni, organizzazione, in sole due settimane riescano a riempire la piazza più grande d’Italia? Qualcosa si è mosso nel più profondo dei cuori e delle coscienze degli italiani. Improvvisamente i sondaggi si sono fatti persone. E quell’80 per cento di stimati contrari alla legge Cirinnà costruita sul pilastro del simil matrimonio e delle adozioni, si è materializzato per le vie della capitale. Una marea di bella gente. Un ciclone di vite normali. Una cascata di varietà di interpreti la famiglia fatta non di tradizione o di figli, amori ed esistenze perfetti, come una teoria o una pubblicità. Ma di umanità normalissima che cammina nella buona e nella cattiva sorte. Nella concordia e nei cerotti sulle ferite. Semplicemente realtà, l’unica realtà che possa definirsi famiglia, un uomo e una donna, figli, nonni, zii e che d’ora in poi si ricorderà che il 30 gennaio 2016 sono stati a Roma. In ambasceria e rappresentanza di quell’80 per cento di italiani che pensano alle persone omosessuali con tutti i diritti necessari. Ma i bambini no. I bambini non si toccano. E il matrimonio è una cosa tra un uomo e una donna. Non perché lo dice una tradizione o il prete. Ma perché così stanno le cose. Perchè questa è la verità. E perché puoi chiamare le cose come ti pare ma quella cosa lì dice una e una sola verità possibile: la scintilla della vita nasce tra due corpi e anime che non sono uguali, nasce tra due alterità. Questa è la risposta alla legge Cirinnà e al seguito di prepotenza acida e di bugie dolciastre sparse a piene mani sull’evidenza che la vita è fatta di una mamma e un papà, i bambini non sono merce dei desideri adulti, gli adulti si dessero una regolata. Il mondo dei capricci e dei narcisi sta riempiendo la società di un “non si capisce più niente” e “non si costruisce più niente”. Finalmente si affaccia una luce nuova. Si muove un sacco di gente. Si capisce cos’è uno sguardo benevolo e non risentito al mondo comune. Pochi sofismi: se del raduno oceanico dei sindacati nel 2001 al Circo Massimo i giornali scrissero la meraviglia dei 3 milioni di Cofferati, ieri, nello stesso posto, con un oceano che è esondato fino a lambire i palazzi della Fao, ce n’erano comunque più della piazza di Cofferati e più di quanto negli ultimi vent’anni si ricordi su qualsiasi piazza italiana. Ma perché milioni di persone, gente semplice, gente gente, mamme soprattutto, padri e bambini, che già tiran la carretta durante la settimana, si sobbarcano anche il sacrificio di ore e ore di treno o di autostrada, da Trieste e da Trapani, per un gesto di pura presenza, nient’altro che presenza? Quando rimontiamo sul Frecciarossa dopo la giornata campale, mentre sale sul predellino un amico si volta e ci dice: “Tu pensa, siamo venuti a Roma per dirci un’ovvietà. Per dirci che quando non ci sono le nuvole il cielo è sereno”. E dire che il cielo ieri era pieno di nuvole. E noi che eravamo lì, a un certo punto abbiamo visto che in cielo spuntava il sole. Così come da quella piazza, ha detto a un certo punto dal palco il regista e oratore della giornata Massimo Gandolfini, è spuntato un faro – altro che “fanalino d’Europa” - che con l’altra Europa fende di luce l’oscurantismo imperante. Non indietro è l’Italia. È avanti ed è di traverso a quell’intruglio di falsificazione e violenza che è l’ideologia, l’industria e il commercio dell’indifferenza sessuale. Se l’Italia fosse il fanalino di coda dell’Europa, come effettivamente lo è la legge Cirinnà che buon ultima viene a pappagallare i famosi paesi del blabla e caos Lgbt, due milioni di persone non si metterebbero in marcia con la naturalezza e fulmineità dimostrata ieri, da e per Roma. Rilanceremo fino al dettaglio il grande e appassionato intervento conclusivo di Gandolfini. Un capolavoro che ha ripreso e sistematizzato con potenza e chiarezza argomentativa impeccabile il lavoro e le ragioni che in tanti, sfidando la manipolazione vigente nell’informazione di massa, hanno svolto in questi mesi nelle piazze, scuole e ambienti di lavoro. Infine è successo che un popolo ha preso il treno, il pullman o l’aereo così come si prende l’ascensore di casa. Adesso i politici che dicono di essere stati al Circo Massimo “col cuore” devono ricordarselo bene questo gesto naturale di un mare di gente comune. Dopo il cuore, o rischiano anche la poltrona piuttosto che accettare una legge irriformabile, sbagliata e folle. O si scordino che tutto sarà come prima. La resistenza è nell’aria. La guidano le mamme e i papà. Renzi deve stare tranquillo. Se passa la rottamazione della famiglia secondo natura e Costituzione, se i bambini diventano merce e il matrimonio la borsa della spesa al bazar dei desideri, lui ha finito di bulleggiare.

Terribile la storia raccontata da un giornale locale, scrive “Vox News” del 4 gennaio 2016. Si parla tanto di calo demografico, ma quando degli italiani fanno figli – magari troppi, vista la loro condizione, ma non è questo il punto – non li si aiuta, anzi, li si punisce. Carmela, 36 anni, e il marito Pasquale, 45 anni, vivono ormai con un solo figlio di 34 giorni. Dopo che gli assistenti sociali del Comune si sono presi gli altri 9: cinque maschi e cinque femmine. Ora tre (tutti maschi, i più grandi: 17, 15 e 14 anni) sono in una comunità. Gli altri sei (da 12 a 2 anni) in due case famiglia. E Dio solo sa che enorme business sono le case famiglia. Gli ultimi due saranno tolti definitivamente alla famiglia, per finire adottati. Almeno questa è l’intenzione degli ‘assistenti sociali’. I giudici del Tribunale dei Minori, dal 14 gennaio cominceranno a esaminare il loro caso. I due genitori non sono, ovviamente, liberi da responsabilità, ma le famiglie si aiutano, non si distruggono. Ci chiediamo perché per i giovani maschi africani ci siano gli hotel, anche a Napoli, e invece per una famiglia di 12 membri, italiani, c’è invece solo un monolocale. A Napoli la situazione abitativa è drammatica, ma allora perché non impegnarsi a risolverla, invece di importare immigrati? E il vescovo, invece di aprire i ricchi spazi della Curia ai clandestini, perché non si occupa di questa famiglia?

Il Foglio: calo demografico dovuto alle donne laureate. Camillo Langone su "Il Foglio" del 29 gennaio 2016 vede una correlazione tra calo delle nascite e aumento delle lauree femminili in Italia. Ecco qui l’articolo completo: “Ai padri con figlie in età da università. Anche lo storico americano Steven Mintz, professore dell’Università del Texas e autore di “The prime of life. A history of modern adulthood”, vede nella laurea una causa del declino demografico: “Il rallentamento dell’economia e la crescita dell’importanza attribuita a una buona formazione universitaria fa sì che sempre più giovani ritardino il matrimonio o scelgano di non sposarsi”. Non solo in Italia, dunque, ma nell’intero Occidente l’istruzione universitaria di massa, che sposta troppo in avanti la scelta di riprodursi, si configura come un pericolo per la sopravvivenza della società. Oltre che per la trasmissione dell’onomastica famigliare e del dna genitoriale. I padri ci pensino bene prima di mandare all’università le figlie (Mintz parla dei figli in generale ma siccome la fertilità maschile si conserva più a lungo il problema è innanzitutto femminile): commetterebbero un gesto antisociale.”

“Famiglie, vi odiamo!”. Che pena l’Italia che non vuole i bimbi al ristorante ma accetta i cani ovunque. Gli italiani sono diventati tutti gidiani, anche se André Gide non lo si è mai sentito nominare. l’Europa sta morendo di sterilità e un dandy inizio millennio come me, che seguendo la tradizione le famiglie le detesta, quando legge che il ristorante romano “La fraschetta del pesce” vieta l’ingresso ai bambini viene colto dallo sconforto, scrive Camillo Langone il 21 Gennaio 2016 su "Il Foglio". "Famiglie, vi odiamo”. Gli italiani sono diventati tutti gidiani, anche quelli, e saranno la stragrande maggioranza visti i dati Istat sulla lettura, che André Gide non l’hanno mai nemmeno sentito nominare. “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità”, scriveva lo scrittore francese nei “Nutrimenti terrestri”, ed era l’idiosincrasia di un dandy fin de siècle, al tempo dell’Europa prolifica. I tempi sono cambiati, i secoli sono passati, l’Europa sta morendo di sterilità e un dandy inizio millennio come me, che seguendo la tradizione le famiglie le detesta, quando legge che il ristorante romano “La fraschetta del pesce” vieta l’ingresso ai bambini viene colto dallo sconforto. L’Italia che nella canzone di De Gregori era metà giardino e metà galera adesso è metà ospizio e metà canile: esteticamente parlando non si può dire un progresso. Fosse soltanto la folcloristica, plurisecolare scortesia dell’oste romano, pazienza. Ma chiaramente il titolare della Fraschetta del pesce è un avanguardista dell’estinzione nazionale. Dietro questo ristoratore, che forse non a caso alza la sua serranda nei pressi del cimitero del Verano, c’è l’Italia compattamente erodiana dal Brennero al Canale di Sicilia e quindi da Giazza, provincia di Verona, dove la pizzeria Al Torrente fa sapere che i bambini “troppo vivaci” non sono graditi mentre i cani sì, fino a Barletta dove nel ristorante Bacco hanno mandato una mia amica ad allattare in bagno, di nascosto, come una drogata dedita alla puntura di eroina. Al ristorante Bacco è stata appena comminata una stella Michelin, e avendoci mangiato abbastanza di recente non riesco a capirne il motivo. O invece sì, lo intuisco: la guida Michelin fa parte del gran complotto malthusiano che sta depauperando il continente. Al Bacco e agli altri ristoranti della guida pneumatica fanno gioco i vecchi ricchi, i sodomiti silenziosi, i dozzinali dandy fuori tempo massimo che aborrono la prole ma le cui ricche pensioni sono o saranno pagate dai giovani che la pensione non la vedranno nemmeno col binocolo. Futuro, questo sconosciuto. Ovviamente ogni pagliuzza ha sempre la sua trave: l’apartheid nei confronti dei bambini riposa sui problemi causati dalla loro maleducazione. Li si accusa di essere chiassosi, fastidiosi. Il che è spesso vero ma non c’entra nulla. A parte che i bambini non mordono, a differenza dei cani molto apprezzati (mediante appositi cartelli) dai ristoratori e dagli albergatori estinzionisti, se aspettiamo una generazione di bambini educati facciamo in tempo a scomparire del tutto. Lo avete voluto Rousseau, il metodo Montessori, Reggio Children? E adesso vi tenete il pargolo sfrenato. Gli stessi che al ristorante si lamentano dei bimbi molesti sono i delatori pronti a denunciare i genitori che domano la prole attraverso le benedette punizioni corporali. A me i bambini non piacciono perché in loro la componente animale è ancora molto forte: sono pertanto egoisti e cattivi tipo bestie, soltanto l’educazione e la pressione sociale possono renderli passabilmente umani. Ma chi li respinge sta strangolando la vita e si merita di frequentare il Verano dove i pianti vengono soffocati nei fazzoletti e non disturbano chi non vuole essere disturbato dalla realtà.

Checco Zalone e le adozioni gay: Su Twitter infuria la polemica, scrive "Meltybuzz.it" il 06/gen/2016. Checco Zalone ha portato un matrimonio gay sullo schermo, ma nel 2011 si schierò contro le adozioni. Su Twitter la vicenda è molto discussa. Checco Zalone, nel suo nuovo film Quo Vado, ha portato sugli schermi un matrimonio gay (non è uno spoiler, non aggiungeremo altro se non l'avete ancora visto). Questo articolo de “Il Giornale”, però, ha riportato alla ribalta un'intervista rilasciata da Zalone a Vanity Fair nel 2011 in cui il comico si schierava a favore delle unioni civili ma assolutamente contro il fatto che coppie omosessuali potessero adottare dei bambini. Questa frase, che non necessariamente contraddice il film (visto che nella pellicola si vede un matrimonio, cosa nei confronti della quale non si era espresso negativamente), sta creando un polverone su Twitter con accuse di omofobia nei confronti di Zalone, come possiamo notare dai commenti di @alexyahoo “Boicotterò Checco Zalone, non andrò a vedere il suo film” e di @IlMici8 “Parliamoci chiaro! Checco Zalone può pensare e dire quello che vuole sui gay! Ma essendo personaggio pubblico non si stupisca delle reazioni”.

Unioni civili, quando Zalone diceva no alle adozioni gay. Nei suoi film le nozze gay sono già realtà. Ma nel 2011 l'attore disse: "Sì alle unioni, ma non ammetto l'adozione", scrive Giovanni Corato Martedì 5/01/2016 su "Il Giornale". È stato da più parti definito "l'italiano medio". Una caratteristica che sarebbe alla base del suo successo. Stiamo parlando di Checco Zalone, che sta spopolando con il suo "Quo Vado?". Nell'ultimo film - così come già in "Cado dalle nubi" - l'attore ha rappresentato uno dei temi di maggior discussione in parlamento: le unioni civili. Ma cosa ne pensa "l'italiano medio Zalone" della questione? Sul tema era già stato interrogato nel 2011, in un'intervista aVanity Fair. Allora la sua posizione era chiara: "È giusto che ci siano le unioni civili mentre non ammetto l’idea che una coppia omosessuale possa adottare un bambino".

Benedetto sia Zalone che illumina la fede del popolo. Fu la versione "rustica" del Guercino. Le sue opere sono trepidanti testimonianze di umile devozione, scrive Vittorio Sgarbi Domenica 3/01/2016 su "Il Giornale". Avevo coltivato in gran segreto il culto di un pittore a tutti sconosciuto, e pieno di una poesia semplice, rurale, contadina. Aveva il nome più insolito e raro rispetto ai maestri vicini, noti e meno noti, dello stesso tempo, il Guercino, Guido Reni, Matteo Loves: emiliano come loro, e con un vivo istinto della vita e della natura. Zalone si chiama. Benedetto Zalone. E oggi il suo nome è il più popolare tra quelli che corrono sulle bocche dei giovani, dopo tanti precedenti profanati. Si inizia con Carpaccio, tramutato in carne cruda sottile (così che il piatto si è mangiato il pittore), e si prosegue con scultori oscurati da politici: Andreotti (da Libero a Giulio), Gelli (da Lelio a Licio); altri pittori umiliati da cantanti, Morandi (Giorgio da Gianni), Rossi (Gino da Vasco), Ligabue (Antonio da Luciano), Tiziano (chi? Tiziano Ferro?). E ancora, travolti, Baudo (Luca da Pippo) e Sacchi (Andrea da Arrigo). Per arrivare, oggi, a Zalone. Checco, non Benedetto; la cui fama supera di secoli il silenzio, e minaccia di essere durevole nella satira nichilista del nostro tempo, come toccò piu di mezzo secolo fa ad Alberto Sordi, e un secolo fa a Chaplin (da Elisabeth a Charlie). Dunque sarà sempre più difficile far intendere che Zalone da Cento (non da Bari) è stato un pittore originale e autentico; un alter ego rustico del Guercino, che non si mosse dalla sua patria, dalla sua città, a cavallo fra due capitali estensi, Ferrara e Modena, l'una arrivata alla fine, l'altra capace di attrarre i più grandi artisti moderni, Bernini e Velázquez. Così, (Benedetto) Zalone nasce nel 1595 a Pieve di Cento e a casa lascia la Madonna con i santi Francesco e Orsola, la Madonna di San Luca con quattro Santi, per la chiesa di San Pietro, la Madonna di Loreto, la Madonna con i santi Bonaventura e Francesco (nella Pinacoteca civica), trepidanti testimonianze di una devozione popolare, profondamente partecipata da un'umanità commossa, e colma di speranza in quella che non è una liturgia o una celebrazione di riti, ma una fede nella certezza di Dio e nella misericordiosa intercessione della Vergine. La Controriforma e le indicazioni ancora recenti sulle immagini sacre del cardinale Paleotti sono lontane; il popolo dei credenti «vede» e sente la divinità vicina, il suo calore, la sua presenza. Sarà così anche nel più impegnativo capolavoro dello Zalone, dopo la tela umanissima per la chiesa di San Pietro a Cento: la potente, maestosa, e insieme vera, pala con il San Matteo e l'angelo sotto la protezione della Madonna in cielo adorata da san Nicola da Tolentino e santa Francesca Romana, per la chiesa di Sant'Agostino (ora in Pinacoteca). Qui Zalone mostra compostezza e un intuitivo, spontaneo classicismo che nulla deve a Guido Reni, ma ha tutta la forza di una rinnovata e umanissima visione del sacro, reverente e accostante, solenne e protettiva. Zalone non conosce Caravaggio, ma, in questo vigoroso ed esitante San Matteo come in quello ostinato, senza la protezione del cielo, per la Chiesa del Voto di Modena, ha la stessa immediatezza e brutale umanità che troviamo nella prima versione del San Matteo e l'angelo in San Luigi dei Francesi, e persegue il vero non della natura, ma del pensiero e della volontà. A Modena un vecchio determinato e riflessivo è accompagnato da un angelo giovane e discreto, mite badante di un uomo incolto e cocciuto nella sua risoluzione di scrivere. Analfabeta, Matteo non si preoccupa di tenere i libri mai letti sotto i piedi, nella posizione più compatibile con la sua ignoranza, mentre l'angelo lo compatisce con rassegnato e immutato affetto, e vigila con benevolenza sul testo che viene scrivendo l'improvvisato evangelista, molto concentrato, sotto un cielo padano annuvolato. Da questo, intuitivamente caravaggesco, avvicinamento, Zalone approda al suo capolavoro, in due versioni, l'una a Digione, l'altra presso di me: il Riposo nella fuga in Egitto, un'invenzione commovente nella quiete di un bosco sul fiume. La Madonna non riposa dalla stanchezza ma dalla funzione di madre, e contempla innamorata il bambino fra la braccia di Giuseppe, come mai prima era stato, in tutte le innumerevoli rappresentazioni della Sacra famiglia. Sempre ad assistere era il san Giuseppe, e il gruppo sacro era la Madonna con il bambino. Ora la Madonna, dolcissima e serena, guarda il figlio dormire sotto la paterna protezione, sottolineata dalla mano sotto la testa del bambino, in un quieto pomeriggio di primavera, al tramonto. Siamo verso il 1640, e Guercino è lontano, si sta avvicinando al forzato idealismo di Guido Reni, ma Zalone ne ricorda la poesia degli anni giovanili, fresca, rugiadosa, nei paesaggi bagnati da piogge recenti. C'è una magia, un incanto, in questi riposi, che va oltre ogni letteratura e ogni compiacimento. Chi scoprì il primo, il piccolo rame del Museo Magnin di Digione, fu Carlo Volpe, valoroso studioso bolognese, che lo interpretò «come un ritratto domestico ambientato sul ciglio dell'aia, alla fine della giornata». Zalone si è difeso, restando per tanto tempo riparato. Non poteva immaginare che il suo nome, per un comico equivoco, sarebbe diventato tanto popolare. Benedetto Zalone.

L’ADOZIONE GAY E LESBICA.

8 marzo 2017 Adozione riconosciuta a due uomini gay: è la prima volta in Italia. Il tribunale dei minori di Firenze ha riconosciuto l'adozione di due bambini di una coppia omosessuale consentendo la trascrizione anche in Italia dei provvedimenti di una corte britannica. E' la prima volta in Italia. I due fratellini sono stati adottati da due uomini, di cittadinanza italiana, nel Regno Unito dove vivono da tempo. "Per la prima volta viene riconosciuta in Italia l'adozione di minori all'estero da parte di una coppia di uomini", commenta Rete Lenford, avvocatura per i diritti lgbt. Questo infatti non è un caso di stepchild adoption, in cui il figlio può essere adottato dal partner del genitore, i due bambini non hanno alcun legame di sangue con i genitori. Il Tribunale di Firenze ha recepito una recente sentenza della Corte di Cassazione sulla trascrivibilità in Italia dell’atto di nascita di un bambino nato da due donne in Spagna, una cittadina spagnola e l’altra italiana, ritenendo che esso “non è enucleabile esclusivamente sulla base dell’assetto ordinamentale interno, ma è da intendersi come complesso di principi ricavabili dalla nostra Costituzione e dai Trattati Internazionale cui l’Italia ha aderito e che hanno ai sensi dell’art. 117 Costituzione lo stesso rango nel sistema delle fonti della costituzione”. Peraltro, aggiungono i giudici fiorentini, la sussistenza dei requisiti ex art. 36 comma 4, esclude una valutazione discrezionale da parte dell’autorità giudiziaria italiana. Non di meno si sottolinea come dalla documentazione prodotta sia emerso che “si tratta di una vera e propria famiglia e di un rapporto di filiazione in pena regola che come tale va pienamente tutelato”. E il Parlamento? E le leggi italiane? Ignorate, ma non è certo la prima volta e la sentenza sembra tutt’altro che storica: era accaduto già lo scorso anno, a Roma, in quel caso per due donne. Solo che ogni volta si ricomincia col battage mediatico…

Gay, tribunale Firenze riconosce prima adozione ottenuta da due padri. Per la prima volta in Italia viene riconosciuta l'adozione di minori all'estero da parte di una coppia di uomini. I due bambini non avevano alcun legame biologico con i due adulti e non erano, come nel caso della stepchild adoption, stati adottati da uno dei due adulti, scrive Raffaello Binelli, Giovedì 9/03/2017, su "Il Giornale". Il tribunale dei minori di Firenze ha dato il via libera all'adozione di bambini da parte di due coppie di gay. Nello specifico si tratta di due fratellini, adottati da due uomini (cittadini italiani), ma residenti nel Regno Unito e di una bimba di due anni, adottata da un italiano e un americano che vivono a New York. I giudici fiorentini hanno disposto la trascrizione, anche in Italia, dei provvedimenti emessi dalla Corte britannica: ai bambini viene così riconosciuto lo status di figli e la cittadinanza italiana. I casi in questione sono i primi nel nostro Paese e differiscono dalla cosiddetta stepchild adoption (quella garantita da alcuni giudici a coppie dello stesso sesso). Nei casi su cui è intervenuto il tribunale dei minori di Firenze, infatti, siamo in presenza di un’adozione legittimante: ossia i due bambini non avevano alcun legame biologico con i due adulti. I giudici nella sentenza scrivono che "si tratta di una vera e propria famiglia e di un rapporto di filiazione in piena regola che come tale va pienamente tutelato". I due papà residenti nel Regno unito si sono rivolti ad "Avvocatura per i diritti Lgbti - Rete Lenford" per ottenere in Italia la trascrizione dei provvedimenti emessi dall'autorità straniera. "Per la prima volta - dichiara la Rete Lenford - viene riconosciuta in Italia l'adozione di minori all'estero da parte di una coppia di uomini". Il tribunale di Firenze, con un'articolata motivazione, ha accolto integralmente le richieste dell'avvocata Susanna Lollini che li ha seguiti, compiendo una completa disamina della disciplina del riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri che riguardano i minorenni e "ritenendo corretto l'inquadramento della fattispecie nell'ipotesi di cui all'art. 36 comma 4 della legge n. 184/83, in materia di adozioni". Il tribunale ha riconosciuto "l'interesse superiore del minore" a conservare lo status di figlio, riconosciutogli da un atto valido in un altro Paese dell'Unione Europea e che il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione esistente nel Regno Unito, determinerebbe una 'incertezza giuridica' che pregiudicherebbe l'identità personale dei minori.

Firenze: un giudice autorizza la prima adozione gay in Italia. Un tribunale di Firenze dispone il riconoscimento dell'adozione di due fratellini avvenuta in Inghilterra da parte di una coppia omosex, scrive il 9 marzo 2017 Panorama. Non era mai accaduto prima, in Italia. Il tribunale dei minori dei Firenze ha riconosciuto a una coppia di genitori italiani omosessuali che risiedono in Inghilterra l'adozione di due fratellini che era stata già disposta da una corte britannica. Disponendo la trascrizione automatica dei provvedimenti di adozione emessi dal tribunale inglese, i due bambini saranno ora considerati dalla legge italiana cittadini del nostro Paese, nonché figli della coppia che li aveva adottati in Inghilterra. Si tratta, dal punto di vista giurisprudenziale, di una sentenza di grande portata, destinata a a creare un precedente molto importante. Una sentenza che va ben oltre la questione - molto dibattuta in parlamento - della stepchild adoption, tecnicamente l'adozione del figliastro, sulla quale ha rischiato di arenarsi la legge sulle unioni civili voluta dal governo Renzi. E che, per di più, ponendo al centro il superiore interesse del minore, sottrae alla valutazione discrezionale dei giudici la trascrizione dell'adozione avvenuta all'estero. In una nota diffusa dalla Rete Lenford, l'avvocatura dei diritti LGTB, le ragioni del carattere innovatore di questa sentenza vengono spiegate con queste parole. La disposizione normativa prevede che l'adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero ad istanza di cittadini italiani che dimostrino di avere soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia purché conforme ai principi della Convezione dell'Aja 29 maggio 1993 sulle adozioni internazionali Rete Lenford. In sostanza, a patto che la coppia gay abbia risieduto nel Paese dove è avvenuta l'adozione per almeno due anni, e a patto che l'adozione stessa non confligga con la Convenzione del 1993, sarà possibile ottenere il riconoscimento dell'adozione avvenuta all'estero. Spiega il tribunale: «La Convenzione non pone limiti allo status dei genitori adottivi, ma richiede unicamente la verifica che i futuri genitori adottivi siano qualificati e idonei all'adozione, esame che nel caso di specie è stato puntualmente effettuato dalle autorità inglesi, riservando l'eventuale rifiuto alla sola ipotesi che il riconoscimento sia manifestamente contrario all'ordine pubblico». Il tribunale ha peraltro fatto propri con questa sentenza i principi espressi dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 19599/2016 in un caso precedente di trascrivibilità in Italia dell'atto di nascita di un bambino nato da due donne in Spagna. L'atto di nascita, secondo la Cassazione, non è enucleabile esclusivamente sulla base dell'assetto ordinamentale interno, ma - ha spiegato la Rete Lenfrod - «è da intendersi come complesso di principi ricavabili dalla nostra Costituzione e dai Trattati Internazionale cui l'Italia ha aderito e che hanno ai sensi dell'art. 117 Costituzione lo stesso rango nel sistema delle fonti della costituzione». Il tribunale ha spiegato anche nella sentenza che l'«incertezza giuridica» che deriverebbe dal mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione esistente nel Regno Unito influirebbe negativamente sulla definizione dell'identità personale dei minori. È soddisfatta l'avvocato Maria Grazie Sangalli, della Rete Lenford: «L'elemento di transnazionalità di queste vicende familiari gioca un ruolo fondamentale; la giurisprudenza ha stabilito che l'ordine pubblico internazionale non frappone ostacoli al riconoscimento della continuità dei rapporti che si costituiscono all'estero, per realizzare il preminente interesse dei bambini». C'è però ancora un pezzo di strada da fare per realizzare una piena eguaglianze giuridica secondo le associazioni che si battono per i diritti genitoriali delle coppie gay: «È ancora più evidente, a questo punto, l'inammissibile situazione di disuguaglianza in cui versano tutte quelle famiglie che non presentano questi tratti di transnazionalità, alle quali il legislatore nega in modo ideologico qualsiasi forma di riconoscimento e tutela».

Firenze, riconosciuta dal tribunale la prima adozione in Italia a due padri gay. La sentenza: "E' una vera e propria famiglia e un rapporto di filiazione in piena regola che come tale va pienamente tutelato". La vicenda è stata seguita da Rete Lenford: "E' stato stabilito che non ci sono ostacoli al riconoscimento della continuità dei rapporti che si costituiscono all'estero", scrive "La Repubblica" il 9 marzo 2017. Un altro passo avanti sulla strada dei pari diritti fra coppie etero e omosessuali. Il Tribunale dei minori di Firenze ha disposto la trascrizione anche in Italia dei provvedimenti emessi da una Corte britannica e ha così riconosciuto l’adozione di due bambini da parte di una coppia gay. E' la prima volta che accade in Italia anche se una seconda coppia gay si è vista riconoscere sempre dal Tribunale dei minori di Firenze l'adozione di una bambina. La coppia, un italiano e un americano, vive a New York, dove ha adottato una bimba che ora ha due anni e nove mesi e alla quale viene riconosciuto lo status di figlia e la cittadinanza italiana. Nel primo caso i fratellini sono stati adottati dai due uomini, cittadini italiani, nel Regno Unito, dove risiedono da anni: "Per la prima volta viene riconosciuta in Italia l'adozione di minori all'estero da parte di una coppia di uomini", fa sapere Rete Lenford, l'Avvocatura per i diritti Lgbti a cui si sono rivolti i due papà. Avvocatura Lgbt: ''Adozione gay avvenuta all'estero, in Italia ancora non si può''. Si tratta di una differenza sostanziale rispetto alla cosiddetta stepchild adoption (letteralmente 'adozione del figliastro'), che consentirebbe al figlio di essere adottato dal partner (unito civilmente o sposato) del proprio genitore. In questo caso, invece, si tratta di un’adozione a tutti gli effetti di due bambini che non avevano legami biologici con i padri che ora diventano, a tutti gli effetti, genitori. Nella nota diffusa dalla Rete Lenford si legge: "La disposizione normativa prevede che l'adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero ad istanza di cittadini italiani che dimostrino di avere soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia purché 'conforme ai principi della Convezione' (Convenzione dell'Aja 29 maggio 1993)". Si tratta di un'ipotesi che si differenzia dalla disciplina che riguarda l'adozione internazionale da parte di cittadini italiani che risiedono nel nostro Paese e da quella prevista dal diritto internazionale privato che "impone il riconoscimento automatico di provvedimenti stranieri che riguardano genitori adottivi stranieri e minori stranieri o non in stato di abbandono (art. 41 L. n.218/1995)". Il Tribunale di Firenze ha quindi proceduto alla verifica della conformità alla Convenzione dell'Aja della sentenza britannica con la quale era stata disposta l'adozione di due fratellini, "chiarendo che la Convenzione non pone limiti allo status dei genitori adottivi, ma richiede unicamente la verifica che i futuri genitori adottivi siano qualificati e idonei all'adozione, esame che nel caso di specie è stato puntualmente effettuato dalle autorità inglesi, riservando l'eventuale rifiuto all'ipotesi che il riconoscimento sia manifestamente contrario all'ordine pubblico". In merito all'ordine pubblico internazionale, il Tribunale di Firenze - si legge nel comunicato diffuso dalla Rete Lenford - "fa propri i principi espressi dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 19599/2016 in un caso di trascrivibilità in Italia dell'atto di nascita di un bambino nato da due donne in Spagna", una cittadina spagnola e l'altra italiana, ritenendo che esso "non è enucleabile esclusivamente sulla base dell'assetto ordinamentale interno, ma è da intendersi come complesso di principi ricavabili dalla nostra Costituzione e dai Trattati Internazionale cui l'Italia ha aderito e che hanno ai sensi dell'art. 117 Costituzione lo stesso rango nel sistema delle fonti della costituzione". Nell'esaminare l'ulteriore parametro, rappresentato dall'"interesse superiore del minore", il Tribunale fiorentino chiarisce che deve essere salvaguardato il diritto dei minori a conservare lo status di figlio, riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro Paese dell'Unione Europea (preceduto da una lunga, complessa e approfondita procedura di verifica), e che il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione esistente nel Regno Unito, determinerebbe una "incertezza giuridica" che influirebbe negativamente sulla definizione dell'identità personale dei minori. Peraltro, aggiungono i giudici fiorentini, la sussistenza dei requisiti ex art. 36 comma 4, esclude una valutazione discrezionale da parte dell'autorità giudiziaria italiana. Non di meno si sottolinea come dalla documentazione prodotta sia emerso che "si tratta di una vera e propria famiglia e di un rapporto di filiazione in piena regola che come tale va pienamente tutelato". L'avvocata Lollini ha espresso soddisfazione per il provvedimento così importante e ben motivato, dichiarando: "E' innegabilmente una grande soddisfazione sotto l'aspetto personale e professionale, ma lo è ancora di più sotto l'aspetto umano. Prima di tutto per i due padri che hanno creduto fin dall'inizio nelle buone ragioni della loro richiesta, nonostante le difficoltà che avevamo loro prospettato; per i due bambini che si sentono a tutti gli effetti cittadini italiani e per l'insostituibile contributo giuridico dell'avvocato Roberto De Felice. Ogni provvedimento favorevole come questo è il risultato del paziente lavoro di studio di ciascuno di noi, avvocati di Rete Lenford o di Famiglie arcobaleno, del coraggio delle persone omosessuali che ci affidano le loro vicende più care e dell'impegno ermeneutico dei giudici". Felice anche la presidente di Avvocatura per i diritti Lgbti - Rete Lenford, avvocata Maria Grazia Sangalli, per quella che definisce una tappa storica per il riconoscimento dei diritti delle famiglie arcobaleno: "L'elemento di transnazionalità di queste vicende familiari gioca un ruolo fondamentale; la giurisprudenza ha stabilito che l'ordine pubblico internazionale non frappone ostacoli al riconoscimento della continuità dei rapporti che si costituiscono all'estero, per realizzare il preminente interesse dei bambini. E' ancora più evidente, a questo punto, l'inammissibile situazione di disuguaglianza in cui versano tutte quelle famiglie che non presentano questi tratti di transnazionalità, alle quali il legislatore nega in modo ideologico qualsiasi forma di riconoscimento e tutela". Le reazioni. Apprende con soddisfazione la sentenza l'assessore del Comune di Firenze Paola Concia tra le promotrici delle unioni gay che proprio oggi ha celebrato la prima unione a Palazzo Vecchio. "Se non si completa la legge sulle unioni civili i tribunali continueranno a fare da soli. - spiega Paola Concia - Quello arrivato oggi con questa sentenza è solo l'ultimo segnale che questa cosa deve essere fatta". Il decreto del tribunale di Firenze, secondo Concia, "mostra grande buonsenso", ed è stata emessa, sottolinea "nell'esclusivo interesse dei minori; del resto, nel vuoto legislativo, i tribunali fanno da soli". La legge sulle unioni civili, "comunque molto avanzata", aggiunge, " fu mutilata delle adozioni con una polemica assurda e fuori luogo sulla maternità surrogata. Io dico: il Parlamento si faccia carico di ripristinare il normale rapporto tra politica e magistratura, con la politica che fa leggi ed i magistrati che le applicano anziché dover fare da soli". Di tutt'altro tenore il commento del leader della Lega Nord Matteo Salvini: "Esiste una parte della magistratura che ormai fa sfacciatamente politica. E' inaccettabile una sentenza che riconosca un'adozione in favore di due uomini. Che governo e parlamento rendano più veloci le adozioni per le coppie di uomini e donne. La Lega ora e sempre dirà no alle adozioni gay e agli uteri in affitto". Sulle vicenda interviene anche Alberto Gambino, presidente di Scienze e Vita, associazione vicina alla Cei: "Il nostro Parlamento non è più sovrano nel disciplinare queste situazioni. L'Italia - ha detto il giurista cattolico - sta abdicando ai propri valori democratici e sta immettendo nel proprio ordinamento culture e riferimenti che non sono interni al nostro ordine pubblico".

Le adozioni gay non sono vietate dalla Costituzione. Così avanzano i diritti (dei bambini), scrive Matteo Winkler il 9 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". E’ di oggi la notizia, lanciata dal sito dell’associazione di avvocati Rete Lenford – Avvocatura per i diritti Lgbti (di cui faccio orgogliosamente parte), di un provvedimento del tribunale dei minori di Firenze che ha riconosciuto, in Italia, un’adozione pronunciata in Inghilterra a favore di due genitori dello stesso sesso. Si tratta di una decisione importante per il panorama giuridico italiano (ma non solo), almeno per due ragioni. Per la prima volta un giudice italiano afferma che è possibile riconoscere un provvedimento di adozione estero a favore di una coppia omosessuale. L’unico precedente in materia, fondamentalmente ignorato dalla dottrina italiana perché poco noto e forse anche per la sua estrema ovvietà all’epoca in cui fu reso, è costituito da una pronuncia del tribunale dei minori di Brescia del 2006, che dichiarava l’adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale contraria all’ordine pubblico internazionale, semplicemente perché il nostro Paese non riconosce il matrimonio omosessuale. Dieci anni dopo, da Firenze arriva l’esito opposto: l’adozione di due bambini in Inghilterra da parte di una coppia gay non è contraria all’ordine pubblico. Si badi bene: quando parliamo di ordine pubblico internazionale – a conferma del fatto che in ambiti come l’adozione di minori, la definizione di famiglia e il riconoscimento giuridico delle persone omosessuali non è mai opportuno né utile fermarsi allo slogan o alla petizione di principio, ma è necessario adeguarsi a un certo tecnicismo – ci riferiamo a un concetto ben preciso del diritto, una nozione che è in grado di impedire il riconoscimento, nel nostro ordinamento, di valori, relazioni o atti provenienti da altri Paesi. L’ordinamento italiano, infatti, non costituisce una cittadella inespugnabile, ma piuttosto un castello i cui cancelli sono sempre aperti verso l’esterno e i cui guardiani (i giudici) sono pronti ad accogliere valori, relazioni o atti che nel nostro Paese non esistono, anche quando non fanno parte della nostra cultura o del nostro modo di concepire la vita della società. Tale apertura, tuttavia, è consentita solo finché questi valori, relazioni o atti non attentano a quelli che la giurisprudenza chiama “principi etico-giuridici”, ossia quei valori sui quali il nostro ordinamento non è disposto a transigere, sui quali insomma non c’è compromesso. Per cambiare metafora, il nostro Paese è come una porta girevole: a volte va bloccata perché ciò che essa consente di far entrare è inaccettabile e pericoloso. È insomma, per usare le parole della Cassazione, oltre la nostra “soglia di salvaguardia”. Dove si collochi questa soglia all’interno dell’ampio spettro di valori condivisi dalla nostra comunità è oggetto di una letteratura che possiamo dire sterminata. Ma qualcosa da dire c’è. Ora, il messaggio offerto dal tribunale fiorentino, a pari dell’ordinanza della scorsa settimana della Corte d’Appello di Trento e di una serie sempre più abbondante di decisioni giudiziarie, è che l’omogenitorialità non si pone al di fuori del nostro diritto, ma ne è parte integrante e, per tale ragione, non è contraria all’ordine pubblico internazionale. Valgono qui le considerazioni che sono ormai entrate nella quotidianità dei repertori giudiziari:

– che, statistiche alla mano, i bambini non subiscono alcun danno nel vivere e crescere nell’ambito di famiglie composte da persone dello stesso sesso;

– che queste famiglie non possono essere discriminate, perché il loro contributo alla società e la loro dignità non possono essere messi in discussione;

– che non esiste un solo modello di famiglia, ma tanti modelli quanti è in grado di concepirne la società umana, attraverso le relazioni, l’amore, l’affetto, la vicinanza e l’aiuto nella pratica quotidiana, con tutte le sfide e gli ostacoli che essa pone;

– che la nostra Costituzione e la nostra legge non possono essere interpretate come delle trincee nelle quali sotterrarsi in attesa dell’arrivo del nemico, ma come una torre, la più alta e possente nel nostro castello, dalla quale possiamo osservare tutto, compreso ciò che non ci piace ma che nonostante ciò continua a esistere ed anzi deve continuare a esistere in un Paese plurale, democratico e – ancora una volta – aperto.

Il giudice si mette insomma nei panni dei bambini. Due minori (non ne conosciamo l’età, ma potrebbe trattarsi di adolescenti, essendo l’adozione da parte di coppie gay e lesbiche in vigore in Inghilterra dal 2004), adottati in Inghilterra da due padri che li amano e dei quali sono giuridicamente figli in Inghilterra, devono confrontarsi con la capacità dell’Italia di aprirsi alle famiglie omogenitoriali. Ecco la sfida. Quella stessa sfida che la politica, con la legge sulle unioni civili che ha stralciato le norme sull’adozione, ha rifiutato brutalmente di accettare, sulla pelle delle decine di migliaia di figli delle famiglie arcobaleno che popolano il nostro Paese. E la risposta, per quanto articolata e complessa, non può essere che una sola: che, come scrive il tribunale, “deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli”. Per questa via, l’adozione deve essere riconosciuta. Perché questa è anzitutto una battaglia dei bambini. Una battaglia che nessuno può permettersi di perdere.

Adozioni gay, a Roma il tribunale dice sì. La prima volta in Italia, scrive martedì 1 marzo 2016 "Il Secolo D’Italia". Stepchild adoption? L’adozione del figliastro, stralciata dalla legge sulle coppie gay che ha tenuto sulle corde il Parlamento e l’opinione pubblica per mesi, rientra dalla finestra con una sentenza choc che farà discutere.

Via libera all’adozione incrociata. Il tribunale per i minorenni di Roma ha riconosciuto l’adozione “incrociata” a una coppia di donne forzando la legge attuale con un’interpretazione molto estesa delle adozioni in casi particolari, Si tratta del primo caso in Italia, secondo quanto rendono noto con grande soddisfazione Famiglie Arcobaleno e Rete Lenford. Le bambine, di 4 e 8 anni, sono nate una da una donna e l’altra dalla sua compagna grazie all’ inseminazione praticata in Danimarca. Il tribunale ha riconosciuto il diritto delle due donne ad adottare la figlia dell’altra. Lo stratagemma per il via libera all’incrocio sta nel riferimento alla fattispecie delle “adozioni in casi particolari” già prevista dalla norma in vigore. Interpretata evidentemente in senso molto ampio. Le bambine avranno lo stesso doppio cognome ma per la legge non saranno sorelle.

La sentenza del Ttibunale per i minorenni. Il Tribunale per i minorenni di Roma, dunque, ha accolto i due ricorsi proposti dall’avvocatessa Francesca Quarato, socia di Rete Lenford e componente del gruppo legale di Famiglie Arcobaleno. «Questo nuovo ulteriore provvedimento, che resta nella scia delle già note sentenze, ha una peculiarità rispetto alle precedenti: le minori in favore delle quali è stata riconosciuta l’adozione sono, infatti, nate ciascuna da una delle due donne della coppia. In questo modo ognuna ha un genitore biologico ed un genitore sociale, entrambi con piena e pari capacità e responsabilità genitoriale», commenta l’avvocatessa.  Una forzatura della normativa attuale che di fatto consente l’adozione da parte di una coppia omosessuale, vietata in Italia. In mancanza di una normativa sull’adozione da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso – ha ammesso Maria Grazia Sangalli, presidente di Rete Lenford – il percorso per giungere all’adozione da parte di queste coppie è possibile solo interpretando la normativa in vigore in senso ampio ed evolutivo. La forma di adozione oggetto di tali sentenze rimane quella dell’adozione in casi particolari, che conferisce al minore minori garanzie rispetto al riconoscimento di una genitorialità piena e legittimante».

Due gemelli affidati a coppia gay, entrambi sono padri, scrive il 28 Febbraio 2017, "Il Dubbio". Storica sentenza della Corte d’appello di Trento: “La volontà di cura più importante del legame biologico”. I bambini nati negli Stati Uniti con la maternità surrogata. Si tratta di una decisione storica: per la prima volta viene riconosciuta in Italia a 2 uomini la qualifica di padri di due bambini nati negli Stati Uniti tramite il metodo della maternità surrogata, o gestazione per altri (Gpa). La sentenza è stata emanata dalla Corte d’appello di Trento che ha riconosciuto la legislazione americana in materia: “Il provvedimento giuridico straniero stabilisce la sussistenza di un legame genitoriale tra due minori nati grazie alla gestazione per altri e il loro padre non genetico” si legge nella motivazione della Corte. Il carattere storico della sentenza, salutato dalle associazioni per i diritti civili, sta nel fatto che l’elemento biologico non è più considerato discriminante nel legame tra figlio e genitori: “Nel nostro ordinamento non è previsto un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra il genitore e il nato; all’opposto deve essere considerata l’importanza assunta a livello normativo dal concetto di responsabilità genitoriale che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed accudire il nato; la favorevole considerazione da parte dell’ordinamento al progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli anche indipendentemente dal dato genetico, con la regolamentazione dell’istituto dell’adozione; la possibile assenza di relazione biologica con uno dei genitori (nella specie il padre) per i figli nati da tecniche di fecondazione eterologa consentite”.

"Purtroppo i veri sconfitti sono i bambini". De Palo: un figlio nasce sempre da una mamma, le donne si ribellino, scrive Serena Sartini, Venerdì 10/03/2017, su "Il Giornale". «Il giorno dopo l'8 marzo, è surreale vedere una situazione di questo tipo». Gianluigi De Palo, presidente del Forum famiglie, l'organismo della Cei in tema di famiglia, è duro nei confronti della sentenza del Tribunale di Firenze che ha concesso l'adozione di due fratellini a una coppia di uomini.

Come commenta la sentenza del Tribunale per i minorenni di Firenze?

«Un figlio, sfido chiunque a dimostrare il contrario, nasce sempre da una mamma. Io credo che con questa sentenza i veri sconfitti siano in primo luogo i bambini e con loro le donne. Una donna, una madre, al netto della sua visione politica o ideologica non può accettare una decisione del genere e starsene in silenzio».

Perché siete contrari all'adozione di bambini a una coppia gay?

«Quale è l'elemento più fragile e bisognoso di cura di questa storia? Semplice: i due bambini. Noi, ed è assurdo doverlo ribadire, siamo convinti che un bambino abbia bisogno di una mamma e di un papà. Ma la vera domanda che le pongo è: vengono prima i desideri di due uomini ad avere dei figli o quelli di due bambini ad avere una Famiglia? Se iniziamo a dubitare anche su questo punto la situazione diventa grave perché non si tutela il più debole. La legge 184 sull'adozione mette al centro il bambino e non l'adulto. Con questa sentenza un bambino da soggetto di diritti diventa oggetto di diritto altrui. Noi siamo convinti che sia lui il soggetto di diritti, ed è lui che deve essere primariamente tutelato».

Avete paura che questa decisione sia preludio alla stepchild adoption?

«Oggi c'è grande interesse per la stepchild adoption perché riguarda gli adulti, mentre per le migliaia di bambini abbandonati l'interesse è scarsissimo. Da una parte negli orfanotrofi italiani ci sono 35mila bambini. A cui si aggiungono i 400 neonati abbandonati ogni anno alla nascita e le adozioni nazionali che si aggirano ogni anno tra le 1.000 e le 1.300. Dall'altra ci sono oltre 5 milioni di coppie formate da un uomo e una donna senza figli... mi sembrano dati evidenti che fanno riflettere. Trovo assurdo che questo tipo di sentenze si basino più su pressioni ideologiche, anche internazionali, che non sull'applicazione delle leggi italiane».

Adozioni a coppie gay: tutti i ragionevoli dubbi della scienza, scrive Francesco D'Ugo, il 19 gennaio 2016 su "Documentazione.info". Il 26 gennaio inizierà al Senato la discussione sulle unioni civili a partire dal testo del ddl Cirinnà. Per questo motivo si sta tornando a parlare del tema delle “adozioni gay”. Spesso la discussione è viziata da prese di posizione ideologiche o dalla circolazione di dati non confermati o falsi. Abbiamo già parlato dell’argomento, presentando il punto della ricerca riguardante l’opportunità o meno di affidare minori a una coppia dello stesso sesso.

Tuttora provengono da varie fonti ragionevoli dubbi sull’argomento, ve ne elenchiamo alcuni:

•   Uno degli studi più autorevoli sul tema è la ricerca comparsa sulla rivista “Social Science -Research” a cura di Mark Regnerus, professore di sociologia dell’Università di Austin (Texas of University). Lo studio ha mostrato come ci sia svantaggio per i minori cresciuti con genitori che hanno avuto almeno una relazione omosessuale nella loro vita. Infatti, secondo la ricerca, il 12% di essi pensa al suicidio (contro il 5% dei figli di coppie etero), sono più propensi al tradimento (40% contro il 13%), sono più spesso disoccupati (28% contro l’8%), ricorrono più facilmente alla psicoterapia (19% contro l’8%), sono più spes­so seguiti dall’assistenza sociale rispetto ai coetanei cresciuti da coppie etero­sessuali sposate. Nel 25% dei casi hanno contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%), sono genericamente meno sani, più poveri, più inclini al fumo e alla criminalità. Nonostante la ricerca abbia il limite di non analizzare nello specifico i figli di coppie omogenitoriali, rappresenta un punto di partenza empirico che rende ragionevoli i dubbi sul tema delle “adozioni gay”.

•   In Australia 150 medici, tra cui molti psichiatri, hanno firmato una sottomissione di richiesta al Senato per opporsi al matrimonio omosessuale. Nelle loro motivazioni hanno anche criticato la concessione agli omosessuali di poter adottare dei bambini, privando questi ultimi del diritto di crescere con un padre e una madre. In particolare, hanno citato la posizione dell’American College of Pediatricians, secondo cui «esporre i bambini allo stile di vita omosessuale può aumentare il rischio di danno emotivo, mentale e anche fisico».

•   La psicanalista Claude Halmos, una dei massimi esperti riconosciuti in età infantile, ha sostenuto che «i bambini hanno bisogno di genitori di sesso diverso per crescere». La questione, ha scritto, non è se «gli omosessuali maschili o femminili sono “capaci” di allevare un bambino», ma che essi non «possono essere equivalenti ai “genitori naturali”». «Un bambino – prosegue la studiosa– è in fase di costruzione e, come per qualsiasi architettura, ci sono delle regole da seguire se si tratta di “stare in piedi”. Quindi, la differenza tra i sessi è un elemento essenziale della sua costruzione» infatti essi si “costruiscono” attraverso «un “legame” tra il corpo e la psiche, e i sostenitori dell’adozione si dimenticano sempre il corpo il mondo che descrivono è astratto e disincarnato».

•   Secondo Maria Rita Parsi, psicologa e fondatrice dell’associazione “Movimento Bambino”, la differenza sessuale dei genitori gioca un ruolo fondamentale in alcune fasi della crescita, infatti «quando si arriva alla fase del complesso edipico è importante avere una doppia realtà di riferimento, maschio e femmina».

•   Per la psicologa Silvia Vegetti Finzi «non è irrilevante che il figlio di una coppia omosessuale non possa confrontarsi, nella definizione di sé, con il problema della differenza sessuale. La psicoanalisi non è una morale e non formula né comandamenti né anatemi ma, in quanto assume una logica non individuale ma relazionale, mi sembra particolarmente idonea a dar voce a chi, non essendo ancora nato, potrà fruire soltanto dei diritti che noi vorremo concedergli».

•   In Italia, Francesco Paravati, presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO) ha dichiarato in merito alle cosiddette “nuove famiglie” (divorziati, conviventi, omosessuali…): «Quello che c’è di scientifico oggi dimostra che il bambino cresce confuso nell’identità perché perde i punti di riferimento, sia nelle “famiglie” monoparentali che nelle unioni omosessuali. Il problema a carico del bambino è una difficoltà ad interloquire con punti di riferimento chiari». In questi contesti familiari, ha continuato Paravati, «diventa un bambino meno sociale, un bambino che matura più tardi, con ritardi nel linguaggio». In particolare, i figli delle coppie omosessuali «La problematica è data principalmente dal fatto che il bambino, soprattutto nei primi anni di vita, è più confuso in cui manca un riferimento ad un’identità di entrambi i genitori. Avere due mamme, una mamma che fa da papà diventa difficoltoso, anche nei riscontri dell’ambito sociale. Il punto principale è la crescita in uno stato di confusione per quanto riguarda i punti di riferimento genitoriali, importante nella vita psicologica di un bambino». Non ci sono evidenze su impatti sulla salute fisica, ma «non vanno sottovalutate le problematiche sul benessere dell’umore e del linguaggio, che possono essere impattate in un bambino che cresce in un contesto particolare».

•   Rimangono infine da considerare le testimonianze di persone che sono cresciute con genitori omosessuali. Riportiamo quella di Heather Barwick, cresciuta da una coppia di due donne, che ha affermato: «l’assenza di mio padre ha creato un enorme buco in me» e quella di Dawn Stefanowicz, figlia di un padre omosessuale, poi morto di AIDS, che oggi si pronuncia contro il matrimonio omosessuale negli Stati Uniti. La Stefanowicz ha scritto della sua esperienza in un libro (Out From Under: The Impact of Homosexual Parentinge) e ha raccolto le testimonianze di più di 50 figli adulti cresciuti da genitori LGBT e che condividono con lei preoccupazioni sul matrimonio e la genitorialità omosessuali. Molti di loro sostengono di lottare con la propria sessualità per via dell'influenza dell'ambiente familiare in cui sono cresciuti.

•   Un documento dell’American Academy of Pediatrics ha sostenuto che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli citando a proprio favore 21 articoli scientifici. Come ha rilevato però il sito Critica Scientifica, il documento non esprime un’ipotesi supportata empiricamente, ma ha più l’aspetto di una raccolta di ipotesi, non ancora verificate, sull’argomento. Uno di questi lavori è una rassegna di 34 ricerche, ma delle ricerche analizzate in questa rassegna una sola aveva un numero di soggetti superiore a 100: una ricerca analizza 7 soggetti; circa un terzo delle ricerche non prende in considerazione lo stato di salute dei bambini; 26 ricerche su 34 (più del 76%) utilizza un campione di convenienza; 12 ricerche non hanno un gruppo di controllo; solo 4 ricerche hanno utilizzato, come gruppo di controllo, coppie eterosessuali con bambini concepiti naturalmente. Tutte queste limitazioni sono ammesse dall’autrice, la dottoressa Fiona Tasker, che comunque afferma: «La ricerca passata in rassegna suggerisce che l’accudimento gay o lesbico non influenza il benessere dei bambini per quanto riguarda lo sviluppo».

•    Occorre infine una precisazione sul numero di coppie dello stesso sesso con figli nel nostro Paese: in un articolo, il Corriere della Sera ha riportato che i figli di coppie omosessuali in Italia sarebbero 100mila. A sostegno di questa informazione, il Corriere ha fatto riferimento a uno studio del 2005 (condotto da Arcigay con il contributo dell’Istituto Superiore di Sanità) che dice che il 5% della popolazione omosessuale italiana ha almeno un figlio. Come è ben spiegato qui per arrivare ad affermare questo numero è stato considerato che gli omosessuali in Italia sono circa 1 milione (dato Istat). Da questo deriverebbe che 50mila persone hanno un genitore omosessuale. Si raggiunge la cifra di 100mila solo affermando che il censimento ha una quota di “non dichiarato” pari al 100% di quella dichiarata. In ultimo precisiamo che, ammesso che la cifra fosse verificata, qui non si tratta di figli che vivono in coppie dello stesso sesso, ma di figli che hanno il padre o la madre che si sono dichiarati omosessuali al momento del sondaggio. Attualmente, invece, l’unico dato disponibile e verificato (tratto dal censimento dell’Istat del 2011) dice che le coppie dello stesso sesso con figli sono 529.

Adozioni gay: i punti deboli degli studi a favore, scrive Francesco D'Ugo, il 27 gennaio 2016 su "Documentazione.info". Abbiamo recentemente parlato dei dubbi della scienza riguardo le cosiddette adozioni gay. Non abbiamo ancora parlato, però, degli articoli che invece ne sostengono la legittimità e che sostengono che non ci sia differenza per un bambino nel crescere in una famiglia omogenitoriale o eterogenitoriale. In questo caso vorremmo fare riferimento a due raccolte di articoli che citano studi favorevoli alle adozioni gay. Una è un documento dell’American Academy of Pediatrics che ha sostenuto che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli citando a proprio favore 21 articoli scientifici. L’altra è citata in un articolo pubblicato il 27 gennaio 2016 su Il Fatto Quotidiano. L’articolo dichiara: «una recente analisi della letteratura scientifica sull’omogenitorialità compiuta da Adams e Light nel 2015 ha passato in rassegna tutte le pubblicazioni scientificamente accreditate al mondo per concludere che, intorno agli anni 2000, la comunità scientifica internazionale ha raggiunto l’unanimità sul principio che non sussistano differenze significative tra figli di genitori omosessuali e di quelli eterosessuali». Purtroppo, però, per quanto riguarda la prima raccolta, il sito Critica Scientifica rileva che il documento non esprime un’ipotesi supportata empiricamente, ma ha più l’aspetto di una raccolta di ipotesi, non ancora verificate, sull’argomento. Infatti, delle ricerche considerate dalla rassegna una sola aveva un numero di soggetti superiore a 100: una ricerca analizza solo 7 soggetti; circa un terzo delle ricerche non prende in considerazione lo stato di salute dei bambini; 26 ricerche su 34 (più del 76%) utilizzano un campione di convenienza; 12 ricerche non hanno un gruppo di controllo; solo 4 ricerche hanno utilizzato, come gruppo di controllo, coppie eterosessuali con bambini concepiti naturalmente. Tutte queste limitazioni sono ammesse dall’autrice, la dottoressa Fiona Tasker, che comunque afferma: «La ricerca passata in rassegna suggerisce che l’accudimento gay o lesbico non influenza il benessere dei bambini per quanto riguarda lo sviluppo». Un problema simile lo ritroviamo anche nella seconda raccolta: infatti, in questo caso gli studi che prendono in considerazione più di 100 soggetti sono solo tre (i quali non superano i 226 partecipanti), ma quelli in cui il campione è più rappresentativo non danno risposte inerenti alla salute e al benessere di bambini cresciuti da coppie omosessuali. È quello che emerge anche dal sito Famiglie Arcobaleno che presenta la rassegna, nella sinossi dei risultati che accosta ad ogni articolo:

- 1999, The National Lesbian Family Study: 2. Interviews with mothers of toddlers, Gartrell N., Banks A., Hamilton J., Reed N., Bishop H., Rodas C. eseguito su un campione di 156 madri omosessuali «A distanza di due anni dalla prima intervista, nelle famiglie esaminate è possibile osservare una divisione egualitaria delle responsabilità di cura del bambino». 

- 2009, Omofobia interiorizzata e genitorialità omosessuale: una ricerca condotta con un gruppo di gay e lesbiche italiani, Pacilli M.G. Taurino A. eseguito su un campione di 212 soggetti omosessuali «Emerge un atteggiamento positivo degli omosessuali intervistati circa le competenze omogenitoriali, che riconoscono come adeguate e soddisfacenti. Lo stereotipo della genitorialità come funzione connaturata al mondo femminile, già pervasivo negli uomini e nelle donne eterosessuali, risulta diffuso anche negli uomini e nelle donne omosessuali». 

- 2010, Omosessualità e desiderio di genitorialità: indagine esplorativa su un gruppo di omosessuali italiani, Rossi R., Todaro E., Torre G., Simonelli C., eseguito su un campione di 226 soggetti omosessuali: «Un’ampia maggioranza del gruppo esprime un desiderio di genitorialità e l’intenzione di portarlo a compimento. Si riscontra un forte interesse per la costruzione di un futuro familiare, motivato da desideri che parlano di similarità ed universalità molto più che di una diversità stereotipata».

Considerando i limiti di queste ricerche evidenziati in questo articolo e i ragionevoli dubbi sollevati da più parti e di cui abbiamo parlato in un nostro articolo precedente potremmo dire che ad oggi affermazioni del tipo "la scienza ha dimostrato che" siano quanto meno azzardate. Probabilmente sia in un verso che nell'altro. Probabilmente perchè sociologia e psicologia non sono scienze esatte tali da poter arrivare un verdetto netto in un campo, come quello della famiglia o della "felicità", che valica i confini del misurabile perchè tocca anche argomenti che sono principalmente morali.

Adozioni gay: ricerche condizionate dall’ideologia, scrive Costanza Stagetti, aquaviva2000.com (2004), su "Documentazione.info". I bambini allevati da due individui dello stesso sesso hanno le stesse opportunità dei bambini allevati in famiglie con un padre e una madre? Fino a poco tempo fa la risposta a questa domanda era "no". Tuttavia politici, sociologi, media e anche associazioni mediche oggi asseriscono che è giunto il momento di abolire il divieto per le coppie omosessuali di adottare bambini. Per convalidare la loro posizione i sostenitori delle adozioni gay citano i numerosi studi che avrebbero dimostrato l'assenza di differenze significative tra i bambini allevati da coppie omosessuali e quelli cresciuti in famiglie tradizionali. La portavoce del governo spagnolo, Maria Teresa Fernandez de la Vega, dopo l'approvazione il 1 ottobre scorso (2004) di un progetto di legge che, se approvato dal Parlamento, farà della Spagna il terzo paese europeo dopo l'Olanda e il Belgio ad autorizzare il "matrimonio omosessuale", ha dichiarato: «La Spagna si situa così all'avanguardia dell'Europa e del mondo nella lotta contro una discriminazione secolare che toccava i nostri concittadini». Sulla questione dell'adozione, la più polemica, la signora de la Vega ha affermato che «ci sono migliaia di bambini che in Spagna già vivono con un genitore omosessuale e più di cinquanta studi provano che non c'è differenza tra i bambini che crescono con genitori omosessuali e gli altri».

Ricerche a forte contenuto ideologico. Il problema è, tuttavia, che molti di questi studi non rispondono ad accettabili standard di ricerca psicologica, sono compromessi da difetti metodologici e sono sostenuti più da programmi politici che da un'obbiettiva ricerca della verità. La presenza di tali difetti metodologici invaliderebbe qualsiasi altra ricerca condotta in altre aree. L'indifferenza su tali mancanze da parte delle riviste scientifiche può essere attribuita alla volontà "politically correct" degli esperti di "dimostrare" che l'ambiente omosessuale non è differente dalla famiglia tradizionale. Questa conclusione è riproposta anche dalla American Psychological Association nella cui dichiarazione ufficiale sulla genitorialità omosessuale ad opera dell'attivista lesbica Charlotte J. Patterson della University of Virginia si legge: «In sintesi, non c'è alcuna prova che le lesbiche e i gay siano inadatti ad essere genitori o che lo sviluppo psicologico dei  figli di omosessuali sia compromesso in qualche suo aspetto... Non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di omosessuali sono svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori eterosessuali».

Problemi relativi alla ricerca sulla genitorialità omosessuale. Ad un esame più attento, tuttavia, questa conclusione non è così sicura come sembra. Nel paragrafo successivo Patterson fa delle precisazioni e scrive: «Bisogna riconoscere che la ricerca sui genitori omosessuali e i loro figli è ancora molto recente e relativamente scarsa.... Studi longitudinali che seguono famiglie di gay e lesbiche nel tempo sono assolutamente necessari». Inoltre Patterson riconosce che «la ricerca in questa area ha presentato varie controversie metodologiche» e che «sono state sollevate domande riguardo il campionamento, la validità statistica e altre questioni tecniche». (Belcastro, Gramlich, Nicholson, Price, & Wilson, 1993). Aggiunge significativamente: «La ricerca in questa area è stata anche criticata per non aver usato gruppi di controllo in modelli che richiedono tali controlli...Un'altra critica è stata che la maggior parte degli studi hanno coinvolto pochi campioni e che ci sono state inadeguatezze nelle procedure di valutazione impiegate in alcuni studi». Sebbene ammetta i gravi errori metodologici che metterebbero in discussione i risultati di qualsiasi altro studio, Patterson incredibilmente dichiara che «anche con tutte le domande e/o limitazioni che possono caratterizzare la ricerca in questa area, nessuna delle ricerche pubblicate suggerisce conclusioni differenti da quelle che abbiamo precedentemente esposto...» Ma qualsiasi conclusione è attendibile nella misura in cui lo è la prova su cui si fonda.

Numero insufficiente di campioni. Gli studi che esaminano gli effetti della genitorialità omosessuale sono inficiati da un numero insufficiente di campioni. Non avendo trovato nessuna significativa differenza fra un gruppo di 9 bambini educati da lesbiche e un gruppo simile di bambini educati da genitori eterosessuali, S. L. Huggins ha ammesso: «Il significato e le implicazioni di questo risultato sono incerti, e il numero ridotto di campioni rende difficile qualsiasi interpretazioni di questi dati». Una relazione di J. M. Bailey in Developmental Psychology, commentando gli studi sui figli di genitori omosessuali, indica che «gli studi disponibili non sono sufficientemente ampi da produrre valore statistico». S. Golombok e F. Tasker ammettono nel loro studio successivo sui figli educati da lesbiche, «È possibile che il basso numero di campioni abbia portato ad una sottovalutazione del significato delle differenze fra i gruppi a causa di una bassa validità statistica (errore tipo II)» Altrove essi avvisano che gli effetti negativi sui bambini educati da lesbiche «potrebbero non essere stati rilevati a causa del numero relativamente basso di campioni. Ne consegue che, sebbene siano state individuate delle tendenze, è necessario fare attenzione nell'interpretare questi risultati». Nel suo studio pubblicato in Child Psychiatry and Human Development che mette a confronto i figli di madri omosessuali e eterosessuali, G. A. Javaid con franchezza ammette che «i numeri sono troppo bassi in questo studio per trarne delle conclusioni». Nel suo studio sulle "famiglie" lesbiche, Patterson ammette la parzialità dei campioni: «dovrebbero essere riconosciuti alcuni problemi riguardo la scelta dei campioni. La maggior parte delle famiglie che hanno preso parte al Bay Area Families Study avevano a capo delle madri lesbiche bianche, ben istruite, relativamente benestanti e abitanti nell'area della baia di San Francisco. Per questi motivi non può essere fatta alcuna rivendicazione sulla rappresentatività del presente campione».

Appena la ricerca si fa approfondita, subito risaltano le differenze tra i due tipi di genitorialità. Al contrario, R. Green in Archives of Sexual Behavior,  ha scoperto che i pochi studi sperimentali che includevano un numero di campioni anche solo modestamente più alto (13-30) di maschi e femmine educati da genitori omosessuali ...«hanno rilevato differenze di sviluppo statisticamente significative fra bambini allevati da genitori omosessuali in confronto a quelli allevati da genitori eterosessuali Ad esempio, i bambini educati da omosessuali hanno un maggiore incoraggiamento dai genitori nello scambio dei ruoli di genere e una maggiore inclinazione al travestitismo».

La mancanza di campioni casuali. I ricercatori usano campioni a caso per garantire che i partecipanti allo studio siano rappresentativi della popolazione che viene studiata (ad esempio gay o lesbiche). I risultati che derivano da campioni non rappresentativi non possono essere legittimamente generalizzati. L. Lott-Whitehead e C. T. Tully ammettono il punto debole del loro studio sulle madri lesbiche: «Questo studio era descrittivo e quindi aveva intrinseci limiti metodologici pari a quelli di altri studi simili. Forse il limite più serio riguarda la rappresentatività...Il campionamento a caso era impossibile. Questo studio non pretende di portare un campione rappresentativo e quindi non si può ipotizzare una sua generalizzazione». N. L. Wyers riconosce di non aver usato il campionamento casuale nel suo studio sui partners omosessuali, rendendo il suo studio «vulnerabile a tutti i problemi associati ad una selezione a senso unico dei partecipanti». Golombok scrive del suo studio: «un ulteriore obiezione ai risultati risiede nella natura dei campioni studiati. Entrambi i gruppi erano volontari ottenuti attraverso associazioni e riviste gay. Ovviamente questi non costituiscono un campione a caso e non è possibile conoscere quali parzialità siano coinvolte nel metodo de selezione dei partecipanti».

La mancanza di anonimato dei partecipanti alla ricerca. Le procedure di ricerca che garantiscono l'assoluto anonimato sono necessarie per prevenire una fonte di parzialità riguardo chi acconsentirà a partecipare quale soggetto della ricerca e garantiscono la veridicità e la sincerità delle loro risposte: M. B. Harris e P. H. Turner osservano sul Journal of Homosexuality: «La maggior parte dei genitori omosessuali che partecipano a tali ricerche si preoccupano della loro paternità/maternità e dei loro figli, e la maggior parte ha  un'identità gay pubblica. È difficile identificare i genitori omosessuali "segreti" e i loro problemi possono esser piuttosto diversi da quelli dei genitori più apertamente gay». Harris e Turner hanno impiegato tecniche superiori di ricerca per assicurare il completo anonimato dei loro soggetti. Come risultato, al contrario di altri studi, essi hanno riportato problemi associati alla genitorialità omosessuale che non erano stati riportati dagli studi precedenti: «Forse l'anonimato della presente procedura di campionamento ha reso i soggetti più disponibili a riconoscere quei problemi rispetto a quelli degli studi precedenti».

Falsa rappresentazione di sé. La mancanza di campionamento casuale e l'assenza di controlli che garantiscano l'anonimato fanno sì che i soggetti presentino al ricercatore un'immagine fuorviante che si conforma alle opinioni del soggetto e rimuove l'evidenza che non si conforma all'immagine che il soggetto desidera presentare. Nel suo National Lesbian Family Study N. Gartrell ha scoperto che 18 studi su 19 riguardanti i genitori omosessuali usavano una procedura di ricerca che era contaminata da questa falsa rappresentazione di sé. Gartrell menziona i problemi metodologici di uno studio longitudinale sulle "famiglie" lesbiche: «Alcune possono essersi presentate volontariamente per questo progetto poiché erano motivate a dimostrare che le lesbiche sono capaci di crescere bambini sani e felici. Nella misura in cui questi soggetti potrebbero desiderare di presentare sé stessi e le loro famiglie nella miglior luce possibile, i risultati dello studio possono essere intaccati da tendenziosità». Harris e Turner ammettono, riguardo al loro studio: «non c'è modo di conoscere quanto sia rappresentativo il campione...... L'alta proporzione di soggetti gay che hanno manifestato la volontà di essere intervistati indica che forse erano interessati agli argomenti trattati nel questionario e che quindi erano desiderosi di rivelare la loro omosessualità ai ricercatori.  Inoltre, anche se il questionario era anonimo, i genitori gay avrebbero potuto essere particolarmente interessati a enfatizzare gli aspetti positivi della loro relazione con i figli, immaginando che i risultati avrebbero potuto avere implicazioni in futuro sulle decisioni di custodia. Di conseguenza ogni generalizzazione deve essere considerata con prudenza...Poiché tutti i dati riferiti a voce dalle persone sono soggetti a parzialità e poiché i genitori possono deliberatamente o inconsciamente minimizzare la misura dei conflitti con i loro figli, questi risultati non possono essere presi per buoni».

Adozioni gay: il no degli esperti, scrive Costanza Stagetti, aquaviva2000.com (2004), su "Documentazione.info". Alcune ricerche sembrano indicare la “normalità” dell’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali. Ad un esame più attento, però, tali ricerche risultano carenti e un po’ “ideologiche” (vedi approfondimento), mentre rimangono in piedi le motivazioni che inducono a ritenere dannoso per dei figli lo stile di vita omosessuale dei genitori.

Promiscuità omosessuale. Gli studi indicano che l'omosessuale maschio medio ha centinaia di partner sessuali nel corso della vita, uno stile di vita condiviso anche dai cosiddetti omosessuali impegnati e che non porta ad un'atmosfera sana per la crescita dei bambini. A. P. Bell e M. S. Weinberg, nel loro studio sull'omosessualità maschile e femminile, hanno scoperto che il 43% dei maschi omosessuali bianchi aveva fatto sesso con almeno 500 partners, il 28% con almeno 1000. Nel suo studio sul profilo sessuale di 2.583 anziani omosessuali pubblicato sul Journal of Sex Research, Paul Van de Ven ha rilevato che la maggioranza di essi aveva avuto un numero di partner sessuali compreso tra 101 e 500." Inoltre, dal 10,2% al 15,7% di essi aveva avuto un numero di partner compreso tra 501 e 1000. Un ulteriore gruppo che andava sempre dal 10,2% al 15,7% aveva dichiarato di averne avuti più di mille. Un' indagine condotta dalla rivista omosessuale Genre ha rilevato che il 24% degli intervistati aveva avuto nella vita più di 100 partners sessuali. La rivista notava che diversi intervistati ne avevano avuti più di mille. Nel suo studio sull'omosessualità maschile in Western Sexuality: Practice and Precept in Past and Present Times, M. Pollak ha scoperto che "sono poche le relazioni omosessuali che durano più di 2 anni, inoltre numerosi uomini dichiarano di aver avuto centinaia di partner nel corso della vita."

Promiscuità nelle coppie omosessuali. Anche in quelle relazioni omosessuali in cui i partner si considerano impegnati in un'unione stabile, il termine "relazione impegnata" normalmente indica qualcosa di differente da quello che significa nel matrimonio eterosessuale. In The Male Couple, gli autori David P. McWhirter e Andrew M. Mattison riportano che in uno studio di 156 maschi impegnati in relazioni la cui durata variava da 1 a 37 anni, solo 7 coppie avevano una relazione sessuale esclusiva, e questi uomini stavano insieme da meno di 5 anni. Per dirla in un altro modo, tutte le coppie la cui relazione durava da più di 5 anni avevano incluso qualche condizione per un'attività sessuale esterna alla coppia. La maggior parte di essi intendeva le relazioni sessuali esterne alla coppia come la norma e vedeva come un'oppressione l'adozione degli standard monogami. In Male and Female Homosexuality, M. Saghir e E. Robins hanno rilevato che il maschio omosessuale medio vive in una relazione la cui durata è compresa fra 2 e 3 anni. Nel suo studio sulle pratiche sessuali degli omosessuali anziani sul Journal of Sex Research, Paul Van de Ven ha scoperto che solo il 2,7% degli omosessuali ha avuto un solo partner sessuale nel corso della vita.

Coppie omosessuali e coppie eterosessuali a confronto. Per sgombrare il campo dall'illusione che esista qualche equivalenza fra le pratiche sessuali delle relazioni omosessuali e il matrimonio tradizionale, le statistiche riguardanti la fedeltà sessuale all'interno del matrimonio sono rivelatrici: In Sex in America, definito dal New York Times "Lo studio più importante del comportamento sessuale americano dopo il rapporto Kinsey," Robert T. Michael riporta che il 90% delle mogli e il 75% dei mariti dichiara di non aver mai fatto sesso all'infuori del matrimonio. Un'indagine su 884 uomini e 1288 donne pubblicata su Journal of Sex Research ha rilevato che il 77% degli uomini sposati e l'88% delle donne sposate era rimasta fedele alle promesse matrimoniali. Un'indagine telefonica condotta per Parade magazine su 1049 adulti selezionati per rappresentare le caratteristiche demografiche degli Stati Uniti ha scoperto che l'81% degli uomini sposati e l'85% delle donne sposate riferiva di non aver mai infranto le promesse matrimoniali. Se anche il tasso di fedeltà citato da questi studi è lontano dall'ideale, tuttavia c'è un'enorme differenza fra l'insignificante tasso di fedeltà rilevato tra gli omosessuali e il 75/90% indicato per le coppie sposate. Questo indica che perfino le relazioni omosessuali "impegnate" rivelano una fondamentale incapacità alla fedeltà e all'impegno che è assiomatica nell'istituzione del matrimonio.

Patologie collegate alle relazioni omosessuali. È noto che gli uomini omosessuali sono soggetti ad un'elevata incidenza di malattie sessualmente trasmesse. Quando l'AIDS fu osservato per la prima volta nel 1981 venne definito GRIDS (Gay Related Immunodeficiency Syndrome) poiché tutti i casi sembravano riguardare uomini gay. In seguito venne scoperto anche nei tossicodipendenti che si iniettano droga e in altri gruppi. Negli ultimi 20 anni sono stati spesi milioni di dollari per educare la comunità omosessuale a praticare il cosiddetto sesso sicuro prevedendo che l'HIV/AIDS avrebbe cessato di essere specificamente una malattia dei gay. Tuttavia questa previsione non si è avverata. In Australia l' Annual Surveillance Report per l'HIV/AIDS del 2000 dichiara: «La trasmissione dell'HIV in Australia continua ad avvenire prevalentemente attraverso i contatti sessuali fra uomini. Approssimativamente l'85% di tutte le trasmissioni HIV in Australia avvengono attraverso questa via. Allo stesso modo, la maggior parte delle diagnosi di nuove infezioni HIV riguardavano uomini che avevano avuto contatti omosessuali». Inoltre, l'HIV/AIDS report indica che «l'indagine periodica della comunità gay di Sydney che copre un arco di 6 mesi ha recentemente individuato un aumento nella proporzione di residenti che riportano sesso anale non protetto con partners casuali. La proporzione è andata aumentando dal 14% del febbraio 1996 al 28% dell’agosto 1997 e al 32% del 1999...il numero di uomini con gonorrea rettale è aumentato progressivamente dai 72 del 1997 ai 195 del 1999».

Malattie come l’Aids colpiscono più le lesbiche che le eterosessuali. Le lesbiche hanno problemi simili anche se meno pronunciati. Nell'anno 2000 sono state intervistate 1432 donne lesbiche che erano state ospiti di una clinica di Sydney per malattie sessualmente trasmesse tra il 1991 e il 1998. Le lesbiche furono messe a confronto con un gruppo di controllo eterosessuale.  Entrambi i gruppi vennero esaminati sulle infezioni sessualmente trasmesse quali clamidia, gonorrea, herpes genitale, papillomi e furono intervistati sulla loro storia sessuale. La maggior parte delle lesbiche aveva avuto in passato relazioni sessuali con uomini. Solo il 7% di queste donne era stata esclusivamente lesbica per tutta la vita. Il 22% delle lesbiche contro l'11% delle eterosessuali era o era stata una prostituta e il 23% contro il 4% delle eterosessuali si era iniettata droghe. Le lesbiche avevano o avevano avuto anche più infezioni a trasmissione sessuale rispetto al gruppo di controllo eterosessuale e riportavano maggiore frequenza di rapporti sessuali con uomini omosessuali o bisessuali o con persone che si iniettavano droghe.

L’esclusività della relazione non esclude il rischio di contrarre malattie. Anche quelle relazioni omosessuali che vengono definite "monogame" non sono necessariamente esenti da tali rischi. La rivista AIDS ha riportato che gli uomini impegnati in relazioni stabili hanno rapporti anali e orali con maggior frequenza rispetto a quelli senza un partner fisso. Poiché il rapporto anale è collegabile a una moltitudine di infezioni batteriche e di malattie sessualmente trasmesse tra cui l'Aids, l'esclusività della relazione non riduce il rischio di contrarre tali malattie. Uno studio inglese pubblicato sullo stesso numero di AIDS ha confermato questo dato avendo rilevato che la maggior parte degli atti sessuali a rischio fra gli omosessuali avvengono nelle relazioni stabili.

Effetti sulla vita dei bambini del modo di vivere omosessuale. Di estrema importanza sono gli effetti di un tale stile di vita sui bambini. Brad Hayton scrive: «gli omosessuali...presentano ai bambini una povera visione di matrimonio. I bambini imparano dall'esempio e credono che le relazioni coniugali abbiano carattere transitorio e prevalentemente sessuale. Le relazioni sessuali sono principalmente per il piacere piuttosto che per la procreazione. E imparano che la monogamia in un matrimonio non è la norma e dovrebbe essere scoraggiata se si vuole una buona relazione coniugale».

Violenza nelle relazioni omosessuali. Gli omosessuali, specialmente le lesbiche, hanno tassi più elevati di violenza domestica rispetto alle coppie eterosessuali. Susan Holt, coordinatrice dell'unità di violenza domestica del Los Angeles Gay and Lesbian Center, ha detto nel 1996 che «la violenza domestica è, dopo l'AIDS e l'abuso di droghe, il problema più grande che colpisce oggi la comunità omosessuale in termini di letalità». Uno studio sul Journal of Interpersonal Violence ha esaminato il conflitto e la violenza nelle relazioni tra lesbiche. I ricercatori hanno trovato che il 90% delle lesbiche studiate era stato oggetto di uno o più atti di aggressione verbale da parte della partner nel corso dell'anno precedente allo studio, con il 31% che riportava uno o più casi di abuso fisico. In un'indagine su 1099 lesbiche, il Journal of Social Service Research ha rilevato che «quasi più della metà delle lesbiche riportava di aver subito abusi da parte della partner. Le forme di abuso più frequentemente indicate erano abuso verbale/emotivo/psicologico e abuso fisico/psicologico». Nel loro libro Men Who Beat the Men Who Love Them: Battered Gay Men and Domestic Violence, D. Island e P. Letellier postulano che «l'incidenza della violenza domestica tra gli uomini gay sia quasi doppia rispetto alla popolazione eterosessuale».

Tasso di violenza all'interno del matrimonio. Un fatto poco noto è che le relazioni omosessuali sono molto più violente di quanto lo sono quelle coniugali tradizionali: The Bureau of Justice Statistics (U.S. Department of Justice) riporta che le donne sposate in famiglie tradizionali sperimentano il tasso più basso di violenza in confronto alle donne che vivono altri tipi di relazione. Con ciò concorda uno studio del Medical Institute for Sexual Health: è da notare che la maggior parte degli studi sulla violenza famigliare non fanno distinzioni tra partner coniugato e non coniugato. Gli studi che fanno questa distinzione hanno scoperto che la relazione coniugale tende ad avere il minor tasso di violenza se confrontata con le convivenze.

Alta incidenza di problemi psicologici fra gli omosessuali. Un'indagine nazionale sulle lesbiche pubblicata sul Journal of Consulting and Clinical Psychology ha scoperto che il 75% delle quasi 2000 intevistate aveva cercato aiuto psicologico di qualche tipo, molte per trattamenti a lungo termine della depressione: nel campione preso in esame c'era un'alta prevalenza di comportamenti e circostanze della vita collegabili a problemi di salute mentali.  Il 37% aveva subito abusi fisici e il 32% era stata stuprata o molestata sessualmente. Il 19% era stata vittima di incesto. Almeno 1/3 usava tabacco quotidianamente e il 30% beveva alcool più di una volta a settimana; il 6% beveva quotidianamente. Una su 5 fumava marijuana più di una volta al mese. Il 21% del campione aveva pensieri suicidi, a volte o frequentemente, e il 18% aveva effettivamente cercato di togliersi la vita...Più della metà si era sentita qualche volta troppo nervosa per compiere le attività ordinarie nel corso dell'ultimo anno e più di 1/3 si era sentita depressa.

Abuso di droghe fra le lesbiche. Uno studio pubblicato su Nursing Research ha rilevato che le lesbiche sono 3 volte di più soggette all'abuso di alcool e ad altri comportamenti compulsivi: come la maggior parte degli alcolisti, 32 (91%) dei partecipanti aveva abusato di altre droghe oltre che dell'alcool, e molte riportavano comportamenti compulsivi con il cibo (34%), con la codipendenza (29%), con il sesso (11%) e il denaro (6%). Il 46% delle partecipanti era stata una forte bevitrice con frequenti ubriacature.

Rischio più elevato di suicidio. Uno studio sui gemelli che ha esaminato la relazione fra omosessualità e suicidio, pubblicato su Archives of General Psychiatry, ha scoperto che gli omosessuali con partner erano complessivamente a maggior rischio di problemi di salute mentale ed erano 6,5 volte più soggetti dei loro gemelli a tentativi di suicidio. Il tasso più alto non era attribuibile alla salute mentale o all'abuso di sostanze stupefacenti. Un altro studio pubblicato simultaneamente su Archives of General Psychiatry ha seguito 1007 individui dalla nascita. Quelli classificati come gay, lesbiche o bisessuali erano significativamente più soggetti a problemi di salute mentale. D. Bailey, nei suoi commenti pubblicati sullo stesso numero della rivista, prendeva le distanze da varie spiegazioni dei risultati, come quella secondo la quale «il diffuso pregiudizio contro le persone omosessuali è causa della loro infelicità o peggio della loro malattia mentale». In Olanda, dove il clima culturale è molto tollerante, uno studio su 7.076 soggetti ha mostrato che i disturbi psicologici degli omosessuali sono molto frequenti.

Ridotta aspettativa di vita. La longevità degli omosessuali è stata oggetto di uno studio di un'equipe di ricercatori statunitensi guidata dal dott. Paul Cameron i cui risultati sono stati pubblicati nel 1994. In un arco di tempo di 13 anni, l'equipe ha confrontato 6737 annunci funebri comparsi su 18 pubblicazioni omosessuali con un vasto campione di annunci funebri comparsi su normali pubblicazioni. Quelli presi dalle pubblicazioni normali coincidevano con la longevità media statunitense: l'età media di mortalità per gli uomini sposati era 75 anni e 79 per le donne. Per gli uomini non sposati o divorziati l'età media era di 57 anni e 71 per le donne non sposate. Gli omosessuali avevano un'aspettativa di vita molto più breve. Gli omosessuali maschi che morivano di AIDS avevano un'età media di 39 anni e quelli che morivano per altre cause vivevano solo un pò più a lungo arrivando ad un'età media di 42 anni. Le lesbiche avevano una longevità media di 44 anni. Per quanto riguarda la sopravvivenza fino ai 65 anni di età, la differenza era ancora maggiore. Le pubblicazioni normali mostravano che l'80% degli uomini sposati e l'85% delle donne sposate raggiungeva i 65 anni di età contro il 32% degli uomini non sposati o divorziati e il 60% delle donne non sposate. Per gli omosessuali il quadro era inquietante: solo il 10% degli uomini omosessuali e il 20% delle lesbiche raggiungeva l'età di 65 anni. Uno studio pubblicato su International Journal of Epidemiology sui tassi di mortalità degli omosessuali concludeva: «In un importante centro canadese, l'aspettativa di vita per gli uomini gay e bisessuali all'età di 20 anni è da 8 a 20 anni minore rispetto agli altri uomini. Se lo stesso tasso di mortalità dovesse continuare, si stima che quasi la metà degli uomini gay e bisessuali che sono oggi ventenni non raggiungeranno il 65° anno di età. Volendo essere ottimisti possiamo dire che gli uomini gay e bisessuali di questo centro urbano stanno ora godendo della stessa aspettativa di vita che avevano tutti gli uomini canadesi nel 1871».

Confusione dell'identità sessuale. La tesi secondo cui l'ambiente omosessuale non conduce i bambini allo stile di vita omosessuale è negata dall'evidenza sempre maggiore che i bambini allevati in tali ambienti sono più soggetti al comportamento omosessuale e a intraprendere la sperimentazione sessuale. Gli studi indicano che lo 0,3% delle femmine adulte riporta di aver praticato il comportamento omosessuale nell'ultimo anno, lo 0,4% lo ha praticato negli ultimi 5 anni, e il 3% dichiara di aver sempre praticato l'omosessualità nel corso della vita 25. Uno studio in Developmental Psychology ha rilevato che il 12% delle figlie di lesbiche diventano a loro volta delle lesbiche, un tasso che è almeno 4 volte il tasso di lesbismo nella popolazione femminile adulta. Numerosi studi indicano che mentre quasi il 5% dei maschi riporta di aver avuto ogni tanto un'esperienza omosessuale nella vita, il numero degli omosessuali regolari è considerevolmente basso: tra l'1 e il 2% dei maschi riporta un comportamento omosessuale esclusivo nel corso di più anni successivi. Tuttavia J. M. Bailey ha scoperto che il 9% dei figli maschi adulti di padri omosessuali erano a loro volta omosessuali: «Il tasso di omosessualità nei figli maschi (9%) è diverse volte più alto di quello indicato dalle indagini sulla popolazione generale ed è imputabile ad una trasmissione di padre in figlio». Sebbene essi abbiano tentato di trarre conclusioni diverse, lo studio di Golombok e Tasker ha rivelato una chiara connessione tra omosessualità ed essere allevati da una coppia di lesbiche. «Con riferimento all'effettivo coinvolgimento in relazioni omosessuali, c'era una significativa differenza tra i gruppi.... Nessuno dei bambini cresciuti in famiglie eterosessuali aveva avuto relazioni omosessuali». Al contrario, 5 (29%) delle 17 figlie ed 1 (13%) degli 8 figli di coppie omosessuali riferiva di aver avuto almeno una relazione omosessuale. Questi risultati sono stati confermati recentemente da uno studio apparso su American Sociological Review. Gli autori Judith Stacey e Timothy J. Biblarz alludevano al “political incorrectness" dei loro risultati che mostravano tassi più elevati di omosessualità fra i bambini cresciuti in ambiente omosessuale: «Riconosciamo i rischi politici conseguenti al fatto che studi recenti indicano come i figli di genitori gay sono più soggetti a intraprendere a loro volta un'attività omosessuale». Stacy e Biblarz hanno anche rilevato che «alcuni risultati sul numero di partner sessuali dei figli indicano che: le ragazze adolescenti cresciute da madri lesbiche sembrano essere sessualmente più avventurose e meno caste...In altre parole, i figli (specialmente le ragazze) allevati da lesbiche sembrano allontanarsi dai ruoli sessuali tradizionali, mentre i figli cresciuti da madri eterosessuali sembrano conformarsi ad essi».

Incesto nelle "famiglie" con genitori omosessuali. Le statistiche indicano che gli omosessuali sono più soggetti degli eterosessuali ad abusare dei bambini: il 23% dei maschi omosessuali e il 6% delle lesbiche ha avuto qualche contatto sessuale con minorenni; questo secondo il Gay Report del 1979, che sicuramente non nutre prevenzioni contro gli omosessuali, e secondo altre fonti. Uno studio in Adolescence ha confermato questi dati: un'elevata percentuale (29%) degli adulti figli di genitori omosessuali è stato oggetto di molestie sessuali da parte del genitore omosessuale, contro lo 0,6% di adulti figli di genitori eterosessuali...Avere un genitore omosessuale sembra aumentare il rischio di incesto di circa 50 volte. Questo fenomeno può essere spiegato con il fatto che tra gli uomini omosessuali si riscontra una percentuale di vittime di abusi sessuali maggiore rispetto agli uomini eterosessuali. Come è noto e documentato da tempo i maschi vittime di abusi sessuali in età infantile o adolescenziale hanno maggiori probabilità di altri di riprodurre sui minori le violenze subite, probabilmente per un processo di identificazione con l'aggressore. In un'indagine svolta nel 2001 su 942 adulti interrogati su eventuali abusi sessuali subiti nell'infanzia e nell'adolescenza, Marie E. Tomeo ha riportato che ben il 46% degli uomini omosessuali contro il 7% degli eterosessuali e il 22% delle lesbiche contro l'1% delle donne eterosessuali riferiva di aver subito molestie sessuali.

Un progetto politico: ridefinire il matrimonio. L'intenzione degli attivisti omosessuali non è semplicemente quella di rendere possibile ai gay e alle lesbiche la condivisione della vita coniugale convenzionale. Per loro stessa ammissione essi aspirano a cambiare il carattere essenziale del matrimonio, rimuovendo proprio gli aspetti della fedeltà e della castità che promuovono la stabilità della relazione: Paula Ettelbrick, ex direttore legale del Lambda Legal Defense and Education Fund, ha dichiarato, «Essere frocio è molto di più che mettere su casa, dormire con una persona dello stesso sesso e cercare l'approvazione dello stato....Essere frocio significa fare pressione sui parametri del sesso, della sessualità e della famiglia e in tal modo trasformare il tessuto sociale». Secondo lo scrittore e attivista omosessuale Michelangelo Signorile, lo scopo degli omosessuali è: battersi per il matrimonio fra persone dello stesso sesso e per i suoi benefici e poi, una volta assicurato questo, ridefinire completamente l'istituzione del matrimonio, chiedere il diritto di sposarsi non come modo per aderire ai codici morali della società, ma piuttosto per smitizzare un mito e modificare radicalmente un'istituzione arcaica.... L'azione più sovversiva che possono intraprendere gli omosessuali....... è di trasformare interamente la nozione di "famiglia". Signorile va oltre fino a ridefinire il termine monogamia: Per questi uomini il termine monogamia non significa necessariamente esclusività sessuale.... Il termine "relazione aperta" ha assunto per moltissimi uomini gay un particolare significato: una relazione in cui i partner fanno spesso sesso all'esterno, mettono via il loro risentimento e la loro gelosia, e discutono l'un l'altro della loro attività sessuale esterna o condividono i partner sessuali. Le opinioni di Signorile e Ettelbrick riguardo il matrimonio sono molto diffuse nella comunità omosessuale. Secondo il Mendola Report, solo il 26% degli omosessuali crede che l'impegno sia la cosa più importante in una relazione coniugale. L'ex omosessuale William Aaron spiega perché perfino gli omosessuali "impegnati" non praticano la monogamia: nella vita gay, la fedeltà è quasi impossibile. Poiché l'impulso omosessuale sembra essere costituito in parte dal bisogno di "assorbire" mascolinità dal partner sessuale, l'omosessuale deve costantemente cercare nuovi partner. Conseguentemente i matrimoni omosessuali che hanno più successo sono quelli in cui c'è un accordo tra i due nell'avere relazioni esterne mantenendo l'apparenza di una relazione stabile. Anche quelli che sostengono il concetto di "famiglia" omosessuale ammettono la sua inadeguatezza per i bambini: nel suo studio su Family Relations, L. Koepke osservava, «Anche gli individui che considerano le relazioni omosessuali una scelta legittima per gli adulti avvertono che i bambini soffrirebbero nell'essere cresciuti in tali famiglie». L'instabilità, la vulnerabilità alla malattia e la violenza domestica che prevalgono nelle relazioni omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, normalmente renderebbero inadatti tali ambienti a garantire la custodia dei bambini. Tuttavia, nell'attuale clima culturale che preme per legittimare la pratica dell'omosessualità in ogni area possibile della vita, tali considerazioni sono spesso ignorate.

I bambini hanno bisogno di un padre e di una madre. I tentativi di ridefinire la vera natura della famiglia ignorano il patrimonio di saggezza delle culture e delle società di antica data, che testimoniano come il modo migliore di allevare i bambini sia la famiglia composta da un padre e da una madre tra loro sposati. L'importanza della famiglia tradizionale è stata confermata da ricerche che mostrano come i bambini provenienti da famiglie formate da due genitori sposati ottenevano migliori risultati in campo accademico, finanziario, emotivo e comportamentale. Un ambiente omosessuale non può sostituire la famiglia: i bambini hanno bisogno sia di un padre che di una madre.  Blankenhorn discute il differente ma necessario ruolo che padre e madre svolgono nelle vite dei figli: «Se le madri sono portate a prestare speciale attenzione alle necessità presenti, fisiche ed emotive dei figli, i padri sono portati a prestare speciale attenzione a quei tratti del carattere necessari per il futuro, quali l'indipendenza, la fiducia in se stessi, la volontà di superare dei limiti e di correre dei rischi». Blankenhorn spiega ancora: «Paragonato all'amore di una madre, l'amore di un padre è spesso più esigente, più determinante e significativamente meno condizionato....Per il bambino, dall'inizio, l'amore della madre è un'indiscussa fonte di benessere e base del legame umano. Ma l'amore del padre è quasi un pò più lontano, più distante e contingente. Paragonato all'amore della madre, quello del padre deve spesso essere ricercato, meritato, guadagnato attraverso i meriti». Il sociologo David Popenoe conferma che madri e padri svolgono ruoli differenti nelle vite dei loro figli. In Life without Father Popenoe scrive, "Attraverso il gioco i padri tendono a mettere in rilievo la competizione, la sfida, l'iniziativa, il rischio e l'indipendenza. Le madri, al contrario, mettono in rilievo la sicurezza emotiva e la sicurezza personale."

Complementarietà delle figure paterna e materna. I genitori educano anche alla disciplina in modo diverso: «Mentre le madri offrono grande flessibilità e comprensione nella loro disciplina, i padri offrono estrema prevedibilità e linearità. Entrambe le dimensioni sono determinanti per un regime educativo efficiente, bilanciato e umano». Gli aspetti complementari che madri e padri apportano all'educazione dei figli derivano dalla innata differenza fra i due sessi e non può essere arbitrariamente sostituita. Nonostante le accuse di discriminazione sessuale e di omofobia, con i tentativi di negare l'importanza sia del padre che della madre nell'educazione dei figli, la struttura famigliare più antica di tutte si rivela essere la migliore. Nell'Esortazione Apostolica Familiaris Consortio del 1981, Papa Giovanni Paolo II riassumeva l'importanza delle famiglie basate sul matrimonio: «La famiglia possiede vincoli vitali e organici con la società, perché ne costituisce il fondamento e l'alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini e nella famiglia essi trovano la prima scuola di quelle virtù sociali, che sono l'anima della vita e dello sviluppo della società stessa». Nulla di tutto questo è possibile nelle coppie omosessuali che sono per definizione incapaci di creare progenie e di contribuire alla "procreazione della razza umana". Qualsiasi bambino che si trovi in una "famiglia" omosessuale è necessariamente ottenuto o da una coppia sposata o altrimenti attraverso l'unione sessuale di un uomo e una donna, artificialmente o in modo naturale. Quindi, paradossalmente, queste situazioni non possono fare a meno del grembo della società - l'unione di un uomo e di una donna - che essi così veementemente negano. In It Takes a Village, Hillary Rodham Clinton fa riferimento, forse inavvertitamente, alle indelebili "leggi della natura" quando osserva che «ogni società richiede una massa critica di famiglie che si conformino all'ideale tradizionale». Per similitudine, un organismo richiede una massa critica di cellule sane per sopravvivere, e - come ogni oncologo sa - meno cellule anormali ci sono meglio è. In una società democratica, coloro che scelgono di coabitare in regimi familiari alternativi come le unioni omosessuali, hanno la libertà di farlo. Ma una cosa è la tolleranza, un'altra è la promozione e la celebrazione. Affidare i bambini a queste coppie è assolutamente inaccettabile e una società che si batte per tali unioni a spese della famiglia tradizionale, lo fa a suo rischio e pericolo.

REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.

Quando la Giustizia è ideologizzata. Se da una parte si nega il diritto alla maternità ed alla paternità per una coppia normale e regolare, dall'altra parte i giudici riconoscono lo stesso diritto ad una coppia di lesbiche.

Reato di anzianità, scrive Martedì 14 marzo 2017 Massimo Gramellini su “Il Corriere della Sera”. Da oggi in Italia esiste il reato di anzianità e la pena consiste nella sottrazione di un minore ai genitori biologici da parte della cosiddetta Giustizia. Una signora del Monferrato ha avuto il torto inemendabile di mettere al mondo sua figlia a 56 anni. Il marito ne ha dodici di più, ma i padri brizzolati non fanno scalpore: il problema è lei. Basta un episodio risibile - la bimba che rimane da sola in macchina qualche minuto, mentre i genitori scaricano le borse della spesa e le scaldano il biberon - per accendere il falò del pregiudizio. I vicini di casa sbirciano dalla finestra e denunciano, gli assistenti sociali prontamente intervengono. Come ha osato quella donna partorire a un’età simile? Deve essere perversa, degenere. La piccola viene data in affido e poi in adozione, nonostante una sentenza definitiva assolva i genitori dall’accusa di abbandono. Fino al capolavoro kafkiano di ieri. Chiamata a pronunciarsi sull’adottabilità della creatura, la Corte d’Appello riconosce che la madre e il padre non hanno fatto niente di male, eppure si rifiuta di restituire loro la figlia perché ormai sono passati sette anni e per lei si tratterebbe di un trauma. Ma quel tempo è trascorso per colpa dell’apparato burocratico, che prima ha sottratto senza motivo la bambina ai suoi genitori e poi ha tardato a riportarla a casa in nome di un pregiudizio legato all’anagrafe. Tutto questo nel Paese che non toglie la patria potestà ai mafiosi, si riempie la bocca con la sacralità della famiglia e tira avanti grazie all’impegno quotidiano di milioni di nonni. Saranno dichiarati fuorilegge anche loro?

La rabbia di Luigi e Gabriella: «Non ci permettono di darle il nostro amore». Nel Monferrato la battaglia legale era iniziata nel 2010, pochi giorni dopo la nascita. Lui ha 75 anni, lei 63. La coppia non ha contatti con la figlia da 4 anni: non ci arrendiamo, scrive Giusi Fasano, inviata a Mirabello il 13 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Gomiti puntati sulle ginocchia e testa bassa fra le mani. Luigi Deambrosis è seduto davanti alla porta di casa. Segue il filo di chissà quale pensiero fissando la punta dei suoi scarponi e nemmeno si accorge che c’è qualcuno al cancello. Sente chiamare il suo nome, alza gli occhi. «Mi spiace deluderla ma io non so più che cosa dire, a sto’ punto, mi creda. Non ci capisco più niente». Sono le tre del pomeriggio e quest’uomo disperato rimane immobile sotto il sole, scuote appena la testa, dice frasi lasciate a metà. «Stavolta ci avevamo sperato... Ma come si fa...».

Come si fa ad accettare che un bel giorno qualcuno venga a casa tua e ti porti via la bambina sognata e voluta da una vita? Se lo sono chiesti milioni di volte, lui e sua moglie Gabriella. «Non ci hanno lasciato il tempo di dimostrare che saremmo stati buoni genitori» ha ripetuto lei più volte da quando la sua bambina è stata dichiarata adottabile. Il tempo è sempre stato il loro nemico più feroce. È da quando la piccola è arrivata nelle loro vite che lo sentono pesare addosso, insopportabile. Sono anni che la Giustizia gli ricorda che il loro tempo non sta passando, sta finendo. Anni a sentirsi dire che, se la loro bambina tornasse a casa, il rischio sarebbe creare quel paradosso per cui sono i bimbi a occuparsi dei genitori.

«Ma i periti della corte d’Appello hanno detto che siamo a posto, che non abbiamo nessuna patologia, che non siamo due genitori indegni e che l’età non conta» prova a ragionare Luigi alzando la testa. «Conta l’amore che le avremmo dato» per dirla con vecchie parole di Gabriella che adesso non è a casa. Luigi non fissa più la punta dei suoi scarponi. Piange e guarda un pezzetto del suo giardino appena seminato. Ha degli ematomi fra il naso e l’occhio destro. «È una cosa da niente, mi sono fatto male lavorando in campagna» si giustifica, «tempo qualche giorno e passa tutto, e invece mi sa che quell’altro dolore non passerà mai».

L’altro dolore ha una faccina e una famiglia che Luigi e Gabriella non conoscono. Non sanno niente delle persone che stanno crescendo la loro figlia e non la vedono da più di quattro anni. «Noi siamo la mamma e il papà, capisce? Provi a immaginare che cosa significhi non vederla più...». Con gli occhi pieni di lacrime Luigi ribadisce che «anche la Cassazione ha detto che l’età non conta e che non siamo genitori indegni. Io non sono un avvocato e non so a questo punto che cosa si possa fare ma quello che so è che non tiriamo su nessuna bandiera bianca. Non ci arrenderemo neanche stavolta, ci mancherebbe altro». A Mirabello — era già successo in passato — sono schierati tutti con loro, ma è una magra consolazione: «Purtroppo lei sa meglio di me che questo non conta proprio niente». Sembra sfinito, Luigi. Le parole con il contagocce. Dice che «la notizia l’ho sentita alla radio», giura che «prima o poi ce la faremo» e ripete che non sa spiegarsi «perché ci hanno fatto di nuovo tutto questo». Non capisce perché, ieri, ancora una volta la Giustizia ha preso le loro speranze e le ha fatte a pezzi.

Torino, il giudice toglie la bimba ai genitori-nonni: "È adottabile, resterà con la sua nuova famiglia". Luigi Deambrosis e Gabriella Carsano "genitori nonni" di Casale Monferrato in tribunale a Torino con la loro avvocata. Ai coniugi di Casale Monferrato, 75 anni lui e 63 lei, la piccola era stata tolta nel 2010 a causa di una denuncia per abbandono poi rivelatasi infondata, scrive il 13 marzo 2017 "La Repubblica". La Corte d'Appello di Torino ha confermato lo stato di adottabilità della bimba che era stata allontanata dalla coppia di "genitori-nonni" di Casale Monferrato (Alessandria)(75 anni lui, 63 lei) a pochi mesi dalla nascita. I giudici hanno respinto il ricorso presentato dalla coppia: la bambina contesa, dunque, resterà con la famiglia adottiva. È stata accolta la tesi del procuratore speciale della piccola che, tre settimane fa, aveva chiesto. L'avvocato della coppia, Adriana Boscagli, intende impugnare il provvedimento: "Certamente la sentenza tiene conto dello stato attuale della bimba, che vive con un'altra famiglia e dell'eventuale trauma conseguente alla separazione, ma prima o poi bisognerà spiegarle che i suoi genitori sono altri e come mai è stata allontanata da loro" dice il legale, e annuncia: "Confidavamo in una Corte più coraggiosa - ha aggiunto il legale - che considerasse i genitori naturali come una coppia assolutamente in grado di prendersi cura della bambina. Ora faremo ricorso in Cassazione".

A Mirabello tutto il paese si schiera dalla parte dei genitori-nonni. "Il tribunale ha fatto una cavolata". È questo il commento unanime degli abitanti di Mirabello, il piccolo centro del Monferrato dove abitano i genitori-nonni, dopo la sentenza della Corte d'Appello di Torino di non revocare lo stato di adottabilità per la bimba che era stata allontanata dalla coppia a pochi mesi dalla nascita. È stato nel 2013, quando la Corte d'appello civile ha confermato il giudizio del tribunale, che la piccola è stata inserita in una famiglia adottiva, e sottratta per sempre alla coppia di Casale Monferrato. Mentre i Deambrosis lottavano da un tribunale all'altro per riaverla indietro, lei cresceva accudita da altri genitori che l'avevano legittimamente per effetto di un terzo procedimento giudiziario: una sentenza di adozione. Anche la Cassazione, in un primo momento, ha ritenuto valide le motivazioni dei giudici torinesi che avevano "tagliato il cordone". Il motivo? Si sarebbe scoperto dopo, a giugno 2016: quando, con un iter straordinario, l'avvocata Adriana Boscagli ha chiamato di nuovo in causa la Suprema corte in un ricorso per revocazione, riuscendo a ottenere il ribaltamento della sentenza. La sua idea, poi confermata dai giudici, era che alla base di tutte le precedenti sentenze c'era stato un errore: quell'originaria accusa di abbandono della bambina da parte del papà, che invece è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio perché di sette minuti di "abbandono" si era trattato, in realtà. Giusto il tempo di prepararle il biberon. "Andavamo e venivamo tra l'auto e l'appartamento, la tenevamo costantemente d'occhio: è stata nel seggiolino 7 minuti, il tempo di scaldarle il latte " aveva spiegato Deambrosis. Non solo. Secondo la Cassazione, che aveva disposto il nuovo processo d'appello, tutte le sentenze precedenti avevano sullo sfondo un pregiudizio riguardo all'età di Luigi e Gabriella, che non a caso sono stati ribattezzati dall'opinione pubblica "genitori nonni". Lui adesso ha 75 anni e lei 63. Quando è nata la figlia ne avevano 69 e 57. E c'è chi sostiene che già in ospedale, dopo il parto, fossero stati allertati i servizi sociali per la questione dell'età. Ma la legge non prevede limiti "per chi intende generare un figlio" ha scritto la Cassazione. Ora si attendono le motivazioni: che, come aveva specificato la Suprema Corte, non potranno tenere conto né dell'età avanzata dei due genitori, né della vicenda di "abbandono" poi finita in un nulla di fatto.

Bimba tolta ai genitori-nonni, lo psicologo: 'Un giorno dovrà conoscere tutta la sua storia". "La bambina ormai da parecchi anni sta con la famiglia affidataria. Sarebbe problematico tornare indietro". Questa l'opinione di Massimo Ammaniti, professore di psicopatologia dell'età evolutiva, in merito alla decisione della Corte d'Appello di Torino che ha confermato l'adottabilità della bambina nata dalla coppia di "genitori-nonni" di Casale Monferrato (75 anni lui, 63 lei).  Ma lo psicologo aggiunge: "Bisognerebbe trovare una soluzione che faccia coesistere i genitori biologici con quelli affidatari o adottivi. E poi un giorno va ricostituita la verità storica della sua nascita, la figlia dovrà conoscere i suoi genitori biologici". A monte di tutta questa vicenda, un allontanamento della piccola dalla famiglia di origine in seguito a una denuncia di abbandono dalla quale madre e padre biologici furono pienamente assolti". Intervista di Giulia Santerini.

Genitori-nonni, Melita Cavallo: ''Giudicati inadatti all'adozione già prima della nascita della bimba''. L'età dei "genitori-nonni" di Casale Monferrato nella storia della loro bimba data in affido a un'altra famiglia c'entra relativamente. Così la pensa l'ex Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, Milano e Napoli Melita Cavallo. Che ricorda: "La coppia era stata giudicata inadatta all'adozione nazionale e internazionale. Poi la donna a 57 anni praticò l'inseminazione artificiale eterologa, che ai tempi era vietata per legge. Il rapporto madre figlia venne messo sotto osservazione a lungo in ospedale. E solo in seguito ci fu l'elemento scatenante dell'allontanamento della piccola per la denuncia per abbandono di minore a 18 giorni di vita". Accusa dalla quale i genitori vennero pienamente assolti. Spiega Cavallo: "I giudici dei minori devono guardare all'interesse del bambino anche a costo di causare un grande dolore agli adulti". Intervista di Giulia Santerini.

Se da una parte si nega il diritto alla maternità ed alla paternità per una coppia normale e regolare, dall'altra parte i giudici riconoscono lo stesso diritto ad una coppia di lesbiche.

Roma, Tribunale riconosce stepchild adoption a coppia di donne. Le due mamme romane hanno avuto una bambina grazie alla fecondazione eterologa, scrive il 13 marzo 2017 "La Repubblica". Una nuova sentenza del Tribunale civile di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption per una coppia di mamme romane che hanno avuto una figlia grazie alla fecondazione eterologa. La vicenda riguarda una coppia di donne, una giornalista e una scrittrice, che hanno avuto una figlia grazie alla fecondazione eterologa. "Vivevo nel terrore, senza esagerazioni, che mi potesse accadere qualcosa o che potesse accadere qualcosa a nostra figlia. Vivevo nel terrore di non essere in grado di fare nulla: adesso con questa sentenza per quanto non si tratti di un'adozione piena, per quanto si sia dovuto ricorrere ad avvocati e tribunali per veder riconosciuto un diritto fondamentale, adesso, dopo quasi quattro anni, posso finalmente respirare". E' quanto afferma la giornalista di Repubblica Rory Cappelli, mamma non biologica ma riconosciuta oggi grazie alla sentenza del Tribunale civile di Roma, in un comunicato dell'associazione Famiglie Arcobaleno. "La bambina che ho cullato, consolato, che ho visto crescere, che ha imparato a parlare anche insieme a me, che ho curato quand'era malata, che mi ha fatto commuovere perché con le sue manine mi faceva una carezza, la bambina che mi ha sempre chiamato mamma, adesso la mamma, l'altra mamma, ce l'ha per davvero, anche per lo Stato. Potrò stracciare la delega che mi permette di andare a prenderla a scuola. Potrò rifare i documenti, metterci anche il mio nome e partire con lei. Potrò esserle accanto senza che nessuno si possa domandare chi sono".

Adozioni gay, nuovo ok dal tribunale di Roma a una coppia di donne. Il tribunale civile di Roma riconosce la stepchild adoption ad una coppia di donne gay. La bambina nata con la fecondazione eterologa avrà due mamme, scrive Alessandra Benignetti, Lunedì 13/03/2017, su "Il Giornale". Dopo la sentenza del tribunale dei minori di Firenze, che la scorsa settimana ha riconosciuto nell’interesse dei minori l’adozione di due bambini da parte di una coppia di uomini gay, oggi il tribunale civile di Roma ha riconosciuto la "stepchild adoption", ovvero l’adozione del figlio del partner, ad una coppia di donne. Le due donne, una giornalista ed una scrittrice, entrambe romane, hanno avuto una figlia attraverso la fecondazione eterologa ed oggi i giudici del tribunale civile di Roma hanno stabilito che la piccola potrà avere due mamme, riconoscendo anche la mamma non biologica come genitore della bambina. Si tratta della “prima sentenza della Corte di Appello passata in giudicato senza che vi siano stati ricorsi dalla procura”, ha specificato in una nota l’associazione Famiglie Arcobaleno, che definisce la sentenza “un nuovo passo in avanti”.

“Con questa sentenza, per quanto non si tratti di un'adozione piena, per quanto si sia dovuto ricorrere ad avvocati e tribunali per veder riconosciuto un diritto fondamentale, adesso, dopo quasi quattro anni, posso finalmente respirare”, ha commentato Rory Cappelli, giornalista e compagna della madre biologica della bimba, “la bambina che ho cullato, consolato, che ho visto crescere, che ha imparato a parlare anche insieme a me, che ho curato quand'era malata, che mi ha fatto commuovere perché con le sue manine mi faceva una carezza, la bambina che mi ha sempre chiamato mamma, adesso la mamma, l'altra mamma, ce l'ha per davvero, anche per lo Stato”. Dopo la sentenza del tribunale dei minori di Firenze, però, ancora una volta i giudici hanno sostituito il legislatore. La "stepchild adoption", non è, infatti, contemplata nella legge sulle Unioni Civili approvata lo scorso maggio e attualmente non esiste in Italia una legge sulle adozioni gay. Il 29 marzo dello scorso anno è stato depositato al Senato un disegno di legge sulla stepchild adoption, dal titolo “Norme per l'adozione coparentale” a firma del senatore PD, Luigi Manconi. Il testo del ddl, secondo quanto riporta l’Ansa, prevede “la piena parificazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso alle coppie unite in matrimonio in punto di adozione coparentale” e una più ampia “revisione della normativa sulle adozioni”. Ma sul testo del disegno di legge, fermo dallo scorso maggio in commissione Giustizia al Senato, non è stato ancora avviato l’esame.

Le mamme quarantenni e la solitudine dei figli unici. In passato le famiglie numerose erano una comunità di soccorso, scrive Francesco Alberoni, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Le donne avevano il primo figlio già a diciotto anni e molti altri dopo, per cui, cresciuti, i ragazzi avevano dei fratelli e delle sorelle. Avevano poi degli zii e dei cugini. Sebbene in questa comunità parentale ci potessero essere degli screzi e dei dissapori essa costituiva un'area di soccorso. Anche se eri malato, se non avevi lavoro, c'era sempre un tuo fratello o una tua sorella o un tuo cugino che correva in aiuto, ti assisteva. Nel linguaggio corrente è il fratello colui che ti sta più vicino, colui su cui puoi sempre contare. Ancor oggi diciamo «mi ama come un fratello». La grande famiglia poteva essere povera, ma ti proteggeva contro le avversità del mondo esterno. Ma oggi, con il crollo delle nascite, sono poche le famiglie in cui ci saranno dei fratelli. Ci sono solo figli unici che vedono i loro compagni a scuola o al circolo sportivo ma poi a casa sono soli e dipendenti dai genitori. Dopo i vent'anni molti si innamorano e spesso questo potrebbe essere il vero grande amore della loro vita. Ma non sempre va bene. Alcuni sono impegnati nello studio, altri negli stage e nella carriera; altri, soprattutto i maschi, non vogliono ancora legami ma continuare la loro vita adolescenziale. Così spesso questo amore non riesce a sbocciare in tutto il suo splendore e non genera una stabile coppia amorosa che desidera un figlio. Ci sono molte separazioni precoci e molte donne deluse perché non hanno realizzato quello che sognavano, e a trent'anni non sono sicure di volere dei figli. Lo decideranno a quaranta e sarà un figlio unico. Ma la vita di questi figli unici, quando i loro genitori invecchieranno e avranno bisogno di aiuto, sarà triste. E sarà ancor peggio quando invecchieranno loro perché non avranno nemmeno un fratello che li va a trovare. Già adesso le case sono piene di costose badanti, ma un giorno saranno troppe e non ci sarà più il denaro per mantenerle. Saranno fortunate le coppie che avranno un figlio e un nipote e soprattutto quelle che avranno saputo tener acceso fra loro una scintilla dell'amore e dell'innamoramento, vincendo il pregiudizio che l'invecchiamento sia la morte dei sensi e dell'amore. 

Utero in prestito, in un libro-inchiesta la voce delle donne sui perché della (libera) scelta. C'è chi lo fa per soldi e chi per altruismo, chi per amicizia e chi per tutti i motivi insieme. E non vogliono essere chiamate madri surrogate, perché "essere madri significa crescere e amare un figlio, non solamente partorirlo", scrive Silvana Mazzocchi il 14 marzo 2017 su "La Repubblica". L'autrice di Mio tuo suo loro, Serena Marchi Maternità surrogata, madri che partoriscono per altri. Una scelta che divide, un argomento per noi fuorilegge che scatena accese discussioni e interminabili polemiche. C'è chi difende la libertà delle donne di scegliere, e dunque anche quella di partorire per altri, chi condanna questa pratica senza se e senza ma e chi denuncia il rischio che, soprattutto le donne povere, siano spinte o costrette a vendersi per coloro che pagano. In breve, siano di fatto comprate, come schiave. Ma, raramente o mai, vengono ascoltate le protagoniste, le madri surrogate, come vengono definite con un termine che a molte donne non piace. Un libro – inchiesta Mio tuo suo loro (Fandango), di Serena Marchi, giornalista da tempo impegnata su tematiche femminili, dà ora voce alle madri che prestano il proprio utero e un pezzo della loro vita per partorire figli destinati ad altri e punta a verificare sul campo che cosa queste donne pensano nella realtà.

Perché lo fanno? Convinta della necessità di tenere al centro della questione la libera scelta delle donne, Marchi è andata a intervistarle. Ha percorso quasi 35.000 chilometri, ha attraversato gli Stati Uniti e mezza Europa, ha visitato le loro case, si è immersa nel loro ambiente sociale. E faccia a faccia, pelle a pelle, ha parlato con loro e con le loro famiglie. Le donne hanno risposto e raccontato: lo hanno fatto e lo fanno per motivi diversi, per soldi, per interesse certamente (e, in proposito, sarebbe stato interessante avere un dato, sebbene per approssimazione, di coloro che sono state pagate). Ma lo hanno accettato anche per altruismo, amicizia, affetto, oppure per convenienza mista a tutto il resto. Sempre, però assicura l'autrice, scegliendo liberamente. O quasi sempre. Poiché, come sottolinea la stessa Marchi, "la letteratura scientifica riporta che i ripensamenti delle donne che hanno partorito per altri costituiscono una percentuale relativamente bassa, confinabile tra l'1 per cento e il 4-5 per cento (Nicola Carone, In origine è il dono, Il Saggiatore 2017). Mentre le altre sono felici, soddisfatte e fiere di quello che hanno fatto." Come spesso avviene per le questioni inerenti alla libertà individuale, specie quando confliggono anche con le convinzioni religiose e con la morale corrente, non avviene quasi mai che si riveda la propria opinione. E, probabilmente neanche Mio tuo suo loro servirà a spostare l'asse degli schieramenti, ma cambiare sguardo e ascoltare la voce delle donne protagoniste può essere comunque utile per acquisire una conoscenza più esaustiva sull'argomento. Potrà servire a restituire il posto giusto alla centralità della donna, qualsiasi sia la motivazione che esprime. Resta da dire che, per completare davvero il quadro, sarebbe utile ascoltare anche le parole di quella fetta (piccola, ma esistente) di donne che, dopo averlo fatto, ci hanno ripensato. O magari di quelle che avrebbero potuto farlo, ma non hanno accettato.

Faccia a faccia, dall'Ucraina, agli Stati Uniti, all'Europa. Che cosa hanno da dire 'le donne che partoriscono per altri'?

«Raccontano chi sono e perché hanno deciso di partorire figli per altri. Hanno tutte figli propri e non vogliono essere chiamate madri surrogate. Per loro, essere madri significa crescere e amare un figlio, non solamente partorirlo. Hanno quindi molto chiara la distinzione tra gravidanza e maternità e tengono separate le due cose lucidamente. Restano sorprese delle discussioni molto accese che si susseguono da qualche anno nel nostro Paese e ridono quando si chiede loro se non si sentono usate, sfruttate, schiavizzate. Sono donne che hanno ben presente cosa significhi scegliere e hanno una forte consapevolezza del proprio corpo. Le donne decidono anche per chi partorire, nessuno glielo impone. E spesso scelgono coppie in cui la donna ha subito l'esportazione dell'utero per un cancro o che ricordano loro la sofferenza di amici o famigliari vissuta da vicino. La letteratura scientifica poi riporta che i ripensamenti delle donne che hanno partorito per altri costituiscono una percentuale relativamente bassa. Le altre sono felici, soddisfatte e fiere di quello che hanno fatto».

La maternità surrogata è al centro di mille polemiche, perfino tra le femministe. Lei ha svolto un'inchiesta sul campo, qual è il suo parere?

«A me pare che fino ad oggi si sia fatto un processo senza conoscere fino in fondo la realtà dei fatti e senza dare spazio alle protagoniste. Le donne che partoriscono per altri sono state sentite raramente, la loro voce non ha avuto peso e sono state raramente interpellate nei dibattiti. Esiste molta confusione e molti pregiudizi sul mondo della gestazione per altri, perché è una realtà molto complessa e articolata, fatta sicuramente da infinite sfumature di grigi e che va a toccare le viscere di tutti noi. Io credo fermamente nella libertà di scelta delle donne, perché le donne hanno una coscienza, anche se a qualcuno può sembrare impossibile. Le donne che ho incontrato non sono obbligate da nessuno. Mi chiedo come si faccia ad essere così sicuri di certe posizioni e quindi così convinti che la propria idea, la propria etica e i propri pensieri debbano essere imposti a tutti gli altri. Andrei molto cauta, soprattutto nella richiesta dell'abolizione mondiale della gestazione per altri. Perché in questo modo si negherebbe la libertà di scelta; anche se ce ne fosse solo una che sceglie di partorire per altri, io la rispetterei».

Madri surrogate e libertà. Che idea si è fatta dopo aver ascoltato la voce di tante donne?

«Che le donne non sono, fortunatamente, tutte uguali. Che ognuna di noi ha le proprie idee e le proprie convinzioni. Ognuna delle portatrici ha una sua storia, una sua 'missione', un suo perché. E ognuna delle donne che decide di diventare madre con la gestazione per altri altrettanto. Le cose e le situazioni sono molto diverse da Stato a Stato, da cultura a cultura e non si può continuare a giudicare tutto con il metro eurocentrico, è riduttivo e soprattutto inutile. Per questo resto ferma sul mio pensiero: dovremmo continuare a lottare per la libertà di scelta di ogni singola donna, qualunque essa sia. Si fa presto a giudicare e a condannare, magari senza conoscere come stanno veramente le cose. Si può non essere d'accordo, si può non capire e si può non condividere. Ma è nostro dovere rispettare».

Padri gay, le sentenze che aggirano la legge escludono le donne, scrive Lucetta Scaraffia il 14 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Pubblichiamo l'editoriale dell'Osservatore Romano dal titolo «Contro le donne. Le sentenze che riguardano le coppie di maschi»:

Siamo stati in molti a individuare — dietro i casi recenti di sentenze che in Italia hanno riconosciuto la possibilità alle coppie omosessuali di essere genitori, nonostante la persistente assenza di leggi che lo permettano — un disegno politico. Cioè la volontà di aggirare, attraverso una sentenza di tribunale, la proibizione della legge. Già questa prassi costituisce un fatto sconcertante, perché nei Paesi democratici le leggi vengono fatte e votate da un Parlamento eletto, e perciò rappresentativo delle opinioni dei cittadini. Di conseguenza, non si può negare che, con queste iniziative, si travalica di fatto la volontà popolare, infliggendo un danno non irrilevante alla democrazia. Ma c’è un altro aspetto, ancora più inquietante, dietro questo modo di procedere. Le decisioni prese dai tribunali riguardano quasi tutte, forse al novanta per cento, coppie di omosessuali maschi. Certo questo, dal punto di vista sociale, si spiega benissimo: gli uomini sono tuttora favoriti rispetto alle donne dal punto di vista del reddito e dell’accesso alle risorse, e quindi per loro è più facile agire in giudizio per aggirare la legge, per soddisfare il proprio desiderio. Ma la maggiore forza sociale non spiega tutto. C’è anche un altro aspetto, infatti. In generale, le coppie omosessuali di maschi con figli cercano e ottengono una maggiore visibilità di quelle femminili. Basta pensare alle esibizioni trionfali del figlio da parte di personaggi famosi con i loro partner. Non è casuale. In questi casi non viene esibita solo una felicità familiare raggiunta, ma molto di più: viene esibita come possibile una realtà impossibile. I due uomini sembrano voler festeggiare un risultato che di fatto è un furto, una rapina, che consiste nell’avere finalmente rubato alle donne quello che maggiormente il genere maschile ha sempre invidiato loro, cioè la possibilità di dare la vita. Nei casi più gravi, la madre gestatrice, ridotta a puro strumento del desiderio maschile, pagata come un animale da riproduzione, è di fatto cancellata. In altri casi anche l’adozione, se pure solo dal punto di vista simbolico, cancella la presenza materna, la dichiara non necessaria. L’esibizione, comunque, non fa che confermare che il figlio è di due uomini, venuto al mondo grazie alla forza performante del loro desiderio. Tutti sappiamo che è un falso, che esiste in realtà una madre gestatrice e una che ha venduto l’ovulo, oppure una che ha abbandonato il figlio, ma l’immagine dei due uomini e del bambino vorrebbe convincere l’osservatore che siamo di fronte a una realtà ormai indiscutibile. Altro che invidia del pene, verrebbe da dire al dottor Freud! E c’è un’altra conferma in negativo di quanto appena detto: le donne che, certo in misura minore, cercano di costituire una famiglia omosessuale, tuttavia non si esibiscono mai, preferiscono stare nell’ombra, forse anche per proteggere i figli da una curiosità fastidiosa. Tutto questo impone di riflettere sulle possibili conseguenze di ciò che sta accadendo. L’obiettivo dichiarato è affermare il diritto alla filiazione degli omosessuali, pubblicizzato da allegre famiglie arcobaleno e da dichiarazioni di progresso della libertà individuale. Ma la conseguenza non dichiarata, pur se ormai evidente, è un’altra: siamo di fronte a un ennesimo capitolo della lotta degli uomini per rimettere le donne al loro posto, per emarginarle, per escluderle. Arrivando a escluderle dalla cosa più importante di tutte: la procreazione di un essere umano. Forse il loro sogno di sempre.