Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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I DELITTI DI STATO

 

STEFANO CUCCHI

 

& COMPANY

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA.

QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

SOMMARIO

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

LA DISUGUAGLIANZA DELLA GIUSTIZIA.

DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.

TORTURA DI STATO.

TORTURA, TORTURATI E TORTURATORI.

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

IL CASO DI STEFANO CUCCHI.

IL CASO DI RICCARDO MAGHERINI.

IL CASO DI GIUSEPPE UVA.

IL CASO DI ALDO BIANZINO.

IL CASO DI FEDERICO ALDROVANDI.

IL CASO DI RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

IL CASO DI LUIGI MARINELLI.

IL CASO DI MICHELE FERRULLI.

IL CASO DI FEDERICO PERNA.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

IL CASO ISIDRO DIAZ.

IL CASO DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI.

IL CASO DI ANDREA SOLDI.

 

 

  

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

Sarah Scazzi, avvocato di Cosima rivela: “Innocente, è preoccupata per sua figlia Sabrina”, “Urban Post” il 7 marzo 2016. Le dichiarazioni di Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, in merito alla condanna della sua assistita e della figlia Sabrina: “In carcere da innocenti, Cosima è preoccupata per la figlia”. A otto mesi dalla sentenza con la quale i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Taranto avevano confermato in secondo grado la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ritenute colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi, rispettivamente nipote e cugina delle due donne, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010, il loro avvocato rompe il silenzio. Francesco De Jaco, il legale che rappresenta Cosima Serrano, è intervenuto in merito al ricorso in Cassazione, in attesa che il prossimo giugno inizi il processo. “L’ambiente in cui i due primi processi si sono svolti erano inidonei ad essere teatro di questa tristissima vicenda, lo ha detto anche il procuratore generale della Corte di Cassazione. Lui stesso aveva sostenuto la tesi dell’incompatibilità ambientale del processo”, così De Jaco nel suo intervento alla trasmissione “Legge o giustizia”, su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. L’avvocato ha dunque evidenziato i gravi ritardi nelle procedure, e un presunto vizio di fondo che avrebbe irrimediabilmente intaccato il corretto svolgimento dei procedimenti a carico delle due donne: “A tutt’oggi le motivazioni del processo di secondo grado non sono ancora state depositate. I 90 giorni che la Corte d’Assise si era assegnata sono stati ampiamente superati, anche quelli della successiva proroga. Avrebbero dovuto essere notificate un mese e mezzo fa. Noi invece avremo tassativamente 45 giorni per ricorrere in Cassazione, replicando alle motivazioni della Corte d’Assise. Già questo dimostra che questo processo non si doveva svolgere a Taranto”. A fronte di queste esternazioni, l’avvocato De Jaco ha poi auspicato che il processo in Cassazione possa finalmente svolgersi senza alcun condizionamento: “Noi ci auguriamo che finalmente un giudice terzo possa valutare con più serenità ed equilibrio quello che è successo […] Cosima è abbattuta, è preoccupata per la figlia più che per se stessa. Lei è angustiata perché afferma che per lei la vita è finita, mentre per la figlia non è finita e quindi è un’assurdità che Sabrina sia in carcere nonostante sia innocente. Queste due donne sono in carcere per un processo che i giudici descrivono come d’istinto, un processo basato su un omicidio d’impeto e un omicidio d’impeto non può essere stato commesso da due persone. Cosima e Sabrina non sono molto legate, Sabrina era molto più legata al padre. Cosima aveva una funzione educativa nella famiglia, che era una famiglia matriarcale”.

Sarah Scazzi, intervista esclusiva all’avvocato di Cosima Serrano: “Processo costruito sul nulla”. Intervista esclusiva di Michela Becciu su UrbanPost del 6 aprile 2016 a Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, condannata all’ergastolo insieme alla figlia, Sabrina Misseri, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Ecco le parole del legale in vista del ricorso in Cassazione. Presto inizieranno due nuovi processi per il caso Sarah Scazzi: uno avrà come imputate una serie di persone coinvolte nelle vicenda e accusate di falsa testimonianza – tra cui Ivano Russo e Michele Misseri – l’altro vedrà i difensori di Sabrina Misseri e Cosima Serrano fare ricorso in Cassazione contro la conferma dell’ergastolo in Appello nei confronti delle due donne, ritenute responsabili dell’omicidio della piccola Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010. Le motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’Appello di Taranto il 27 luglio 2015 confermò la condanna all’ergastolo per le due donne non sono state ancora depositate. Perché? Cosa si cela dietro questo madornale ritardo? E ancora, esistono prove ‘schiaccianti’ della colpevolezza di Cosima e Sabrina? Perché le perizie tecniche sulle celle telefoniche che avrebbero scagionato la signora Serrano, disposte del Tribunale nel processo d’Appello, non hanno di fatto portato alla assoluzione della zia e della cugina di Sarah Scazzi? Queste ed altre domande UrbanPost le ha rivolte direttamente a lui, Francesco De Jaco, legale difensore della signora Cosima Serrano. Ecco come ci ha risposto:

Una sentenza di condanna all’ergastolo per la sua assistita confermata in Appello dalla Corte d’Assise di Taranto, e un notevole ritardo nella deposizione delle motivazioni della stessa. Come se lo spiega, avvocato?

“Un ritardo abnorme, nel senso che sia nel primo grado che in questo le due Corti si sono spese con molto ritardo relativamente al periodo assegnato per presentare le motivazioni. Io me lo spiego molto semplicemente, perché questo è un processo costruito sul nulla e per poterlo motivare in qualche modo ovviamente ci vuole tempo; è chiaro che hanno difficoltà: se fosse una cosa semplice, le avrebbero già depositate le motivazioni. Siccome hanno difficoltà nel costruire ‘una’ verità, è chiaro che i tempi si allungano. Il problema però non è solo questo. Il problema è che alla data del deposito delle motivazioni poi partiranno termini per 45 giorni per depositare il nostro appello, e questa non è certamente parità di diritti tra accusa e difesa”.

Quindi secondo lei la verità processuale in questo caso non c’è, nei due gradi di giudizio non è stata accertata?

“La verità processuale non c’è nella misura in cui non si intende riconoscere al Misseri la sua funzione di omicida, purtroppo costruendo una verità diversa e che non trova nessun riscontro nelle vicende processuali e dibattimentali è chiaro che c’è complessità nel dover redigere delle motivazioni”.

Anche se il tempo che avrete a disposizione sarà poco, lei ha già idea di come affrontare il nuovo processo in Cassazione e di quale strategia difensiva adottare, o attende prima di conoscere queste motivazioni? Chiederete nuovi accertamenti?

“Beh, certo, le motivazioni sono fondamentali per come poi costruire il ricorso in Cassazione, sta di fatto però che alcune delle decisioni già indicate attraverso la sentenza di secondo grado ci favoriscono nel costruire un’ipotesi di difesa, cioè – per essere molto più semplici e diretti – l’assoluzione dal reato di falsa testimonianza di due persone che erano nel processo e che avevano dichiarato che il Buccolieri (il fioraio Giovanni Buccolieri, che dichiarò di avere assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, per poi ritrattare tutto dicendo che il suo era stato solo un sogno ndr) – che sarebbe ‘il sognatore’ – aveva sempre affermato che era un sogno quello che aveva raccontato. Il che significa che quello che hanno detto è vero, e se è vero quello che hanno detto, è vero che quello del Buccolieri – che pure non è mai stato ascoltato né nel primo né nel secondo grado perché si è avvalso della facoltà di non rispondere – è stato un sogno, e questa è una posizione. L’altra posizione è stata evidenziata proprio dalla Corte, nel momento in cui ha affidato a dei super tecnici la valutazione della prima indagine fatta dai Ros sui cellulari, che hanno stabilito che quel rilevamento anzitutto non poteva essere ripetuto e quindi non poteva entrare nel processo come atto ripetibile, e secondariamente non si poteva dare per scontato assolutamente il fatto che fosse un accertamento, come dire, valido”.

Nel processo d’Appello si era infatti parlato della possibilità che queste perizie tecniche scagionassero la sua assistita, però alla luce dei fatti sembra non abbiano sortito l’effetto sperato, visto che la condanna all’ergastolo per la signora Cosima Serrano è stata confermata. 

“L’hanno scagionata infatti … purtroppo il processo come tutti sanno si è svolto a Taranto, ma come pochi sanno il procuratore generale della Corte di Cassazione per la prima volta durante la vicende giudiziarie italiane ha sostenuto, sposando le tesi nostre, quindi difensive, che l’ambiente tarantino non fosse idoneo a svolgere il ruolo di equa valutazione in un giudizio di questo genere e quindi era necessario spostare il processo. La Corte di Cassazione – che è sempre prudente in queste circostanze – ha ritenuto di non accogliere la richiesta del procuratore generale né quella della difesa e ha lasciato il processo a Taranto con, ovviamente, lo sviluppo che già ci aspettavamo … Il problema è che Taranto era condizionato dall’evento stesso e dalla forza mediatica che ormai aveva sposato una tesi che era quella della Procura (perché probabilmente fa maggiore auditel) e quindi era chiaro che poi si arrivasse, purtroppo, ad un risultato assolutamente fuori dal senso che dovrebbe avere la giustizia e ci ritroviamo adesso di fronte a delle persone (Cosima Serrano e Sabrina Misseri ndr) che noi riteniamo assolutamente estranee ed innocenti in carcere, con un colpevole riconosciuto e riconosciutosi assolutamente libero”.

Michele Misseri è stato rinviato a giudizio con l’accusa di autocalunnia, infatti.

“Certo, perché ha detto che è stato lui ad uccidere, ma siccome non gli hanno creduto gli hanno appioppato la denuncia per autocalunnia; il problema è, come dire, che l’ipotesi accusatoria che si è costruita la procura e che è stata sposata per difendere la stessa procura dai tribunali e dalla Corte d’Assise di Taranto portano a questa soluzione assolutamente iniqua, poi vedremo che cosa succederà in Cassazione … noi cercheremo di utilizzare tutte le armi che ci mette a disposizione il Codice per riportare nei giusti binari una vicenda così drammatica”.

Lei crede che potranno emergere nuovi elementi a favore della sua assistita, durante il processo in Cassazione? 

“Posso dirle che tutti gli elementi emersi finora nel processo sono a favore della mia assistita, t-u-t-t-i. Per cui non si comprende come si possa arrivare ad una conferma di condanna. Devo dire, anche valutando in modo assolutamente obiettivo ed estraneo le circostanze e gli eventi dibattimentali, io non riesco a trovare nulla che possa portare ad una affermazione di responsabilità, poi si vedrà, non sono depositario della verità e se troverò anche in Cassazione chi mi smentisce, ne prenderò atto, insomma”. 

La signora Cosima Serrano ha taciuto per anni, mai una parola sulla vicenda. Perché d’improvviso, solo al processo d’Appello, quando forse ormai era troppo tardi, ha deciso di rilasciare dichiarazioni spontanee?

“No, no. Il problema era legato anzitutto ad una strategia difensiva. Sia chiaro a tutti: quando si è imputati mai ci si deve sottoporre né a interrogatorio né alle dichiarazioni spontanee, per un semplice motivo, perché tutto quello che viene detto a proprio favore non viene preso in considerazione, ma basta una sfumatura che in qualche modo possa essere a sostegno dell’accusa, che viene presa come elemento fondamentale. Noi abbiamo deciso di non far parlare la signora Serrano, quando lei al dibattimento in Corte d’Assise ha chiesto di fare delle dichiarazioni spontanee, non abbiamo potuto far altro che accogliere la sua richiesta. Lei avrebbe sempre voluto dire la sua, siamo stati noi difensori che abbiamo ritenuto non fosse necessario”.

Michele Misseri si infuria con l'inviata di "Pomeriggio Cinque". L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto alle domande poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata, scrive Claudio Torre, Martedì 03/05/2016, su “Il Giornale”. Sabrina Misseri ai domiciliari in un convento? A fare chiarezza sul futuro della ragazza che, insieme alla madre Cosima Serrano, è stata condannata all'ergastolo in secondo grado per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi è Pomeriggio 5. Il programma condotto da Barbara d'Urso ha interpellato a riguardo don Aldo del convento di Fabriano: "Non sappiamo di richieste di trasferimento in convento, ma quella di Sabrina e della mamma è una richiesta di essere accolte ai domiciliari in una nostra struttura. Non si tratta di conventi ma di vivere in comunità in case-famiglia, ma la richiesta è stata respinta". La domanda è stata presentata però dalla stessa Sabrina. A riguardo le inviate del programma hanno provato a sentire un commento da parte del padre di Sabrina, Michele. L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata mentre replicava: "Devo chiamare i carabinieri? Qui c'è un divieto...". "Abbiamo incontrato qui Michele Misseri e da lui avremmo voluto sapere cosa ne pensa di questa richiesta della figlia ma per tutta risposa ha aggredito la nostra troupe con una secchiata d'acqua come potete vedere dalle immagini e come potete vedere da questa pozzanghera d'acqua", con queste parole si chiude il servizio. Dopo averla cacciata via a secchiate davanti casa, in via Deledda ad Avetrana, Michele Misseri ha inaspettatamente deciso di rilasciare una intervista alla inviata di Pomeriggio 5, che gli ha posto delle domande inerenti al processo sulla inchiesta Scazzi bis che inizierà il prossimo 1° giugno e lo vedrà tra i 13 imputati (tra cui Ivano Russo), accusato del reato di autocalunnia. Il contadino di Avetrana rompe dunque un silenzio che oramai durava da anni e, intercettato dalla giornalista durante il lavoro nelle sue campagne, ha parlato dell’omicidio della nipote 15enne Sarah Scazzi, di cui si autoaccusa pur non essendo ritenuto credibile dai magistrati. “Sono stato io ad ucciderla, Sabrina e Cosima sono innocenti” – ha detto in lacrime il tristemente noto ‘zio Michele’ – “Vivo ogni giorno con il rimorso, ogni volta che scendo in garage penso a Sarah … Io l’ho uccisa ma tanto nessuno mi crede. La verità la sappiamo solo io e Gesù che sta sopra di noi…”. “Sabrina sta in carcere da innocente. Le chiedo perdono per quello che le ho fatto (accusarla dell’omicidio per poi ritrattare ed assumersi la responsabilità ndr)”; A Sabrina il padre augura di fare ritorno a casa "perché è brutto stare in carcere" e le chiede perdono: "Tutti i giorni devo vivere sempre con questo rimorso. Io Sabrina sono già sei anni che non la vedo più. L'ho vista le ultime volte al processo" ma "comunque - conclude - le scrivo sempre". “Mi devo mettere in ginocchio davanti a loro a chiedere perdono per quello che ho fatto – prosegue Misseri – Io non vedo Sabrina da sei anni, l’ho vista nell’ultimo processo, le scrivo sempre, ho visto nei suoi occhi tanta tristezza. E’ dimagrita tanto. A lei chiedo solo perdono e di tornare a casa”. Michele Misseri ha inoltre parlato di Ivano Russo, anche lui tra gli imputati del processo che sta per iniziare, accusato di false attestazioni ai magistrati e sospettato di essere stato in casa Misseri poco prima che Sabrina e Cosima uccidessero la povera Sarah: “No, Ivano non c’era in casa in quel momento. No è stato mai presente in casa quel giorno”, ha assicurato il contadino.

Sabrina Misseri, nuovo ricorso: «Concedetemi di essere utile agli altri», scrive Lino Campicelli su "Il Quotidiano di Puglia” il 4 maggio 2016. Un atto d’appello e una memoria difensiva per appellarsi ai giudici, in sintesi, affinchè non siano «impietosi con una persona che mostra desiderio di socializzazione e aiuto verso il prossimo». L’atto d’appello è quello discusso ieri dall’avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo (con sentenza confermata in secondo grado) insieme con la madre Cosima Serrano per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi. In tutti gli atti, sia quelli depositati all’esame del Tribunale sia quelli di cui è stata proposta sinossi in fase di discussione orale, l’avvocato Marseglia non ha pronunciato mai il termine “responsabile” nè quello “colpevole”. In sostanza, ha evidenziato la difesa, la posizione di Sabrina Misseri, sul punto, è quella di un imputato su cui ancora non grava una sentenza definitiva passata in giudicato. Ergo, Sabrina Misseri è ancora da ritenere garantita dal principio della “presunzione di non colpevolezza” che è a fondamento dell’ordinamento giuridico nel nostro Paese. Tradotto in soldoni, il ricorso proposto dall’avvocato Marseglia, che ha impugnato il “no” con cui la Corte d’assise d’appello ha respinto la richiesta di concedere a Sabrina i domiciliari in una struttura gestita da religiosi, convento o casa-famiglia che dir si voglia, ha fatto leva sulle sentenze della Corte di Cassazione in riferimento alla disciplina delle misure cautelari personali, ma anche sulle ragioni umanitarie che imporrebbero una diversa considerazione della posizione dell’imputata. Per di più, dopo una sintetica ricostruzione delle motivazioni che hanno indotto l’Assise di secondo grado a respingere l’istanza e a ritenere congrua la misura della detenzione in carcere per Sabrina, l’avvocato Marseglia ha polemicamente rilevato come «non v’è chi non veda come la permanenza in carcere di Sabrina Misseri sia, allo stato, determinata esclusivamente dalla severa condanna riportata; circostanza che, invece di esaurire la sua inequivoca valenza cautelare sul piano della gravità indiziaria, viene sistematicamente opposta anche a sostegno della inalterata permanenza delle esigenze cautelari, apparentemente integrata da motivazioni specifiche, ma invero più tautologiche ed euristicamente ispirate». Sabrina Misseri, secondo la prospettazione difensiva, non può essere definita eternamente «socialmente pericolosa», in assenza di fatti che la “dipingano” come fonte permanente di pericolo per gli altri, nè può patire la sussistenza di esigenze cautelari da preservare in assenza di circostanze che impongano la necessità di tutelarle. In pratica, secondo l’avvocato Marseglia, la detenzione in carcere di Sabrina è da considerare “forzata”.

Niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano, scrive Maria Sirsi il 9 aprile 2016 su “Ciak Social”. La Corte d’assise d’appello di Taranto ha respinto le istanze di scarcerazione presentate dalla difesa delle due imputate, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, le due avetranesi condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In alternativa, chiedevano di poter essere ristrette ai domiciliari in due strutture religiose dell’Italia centro-settentrionale. Invece, rimarranno in carcere…niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano. Le due donne hanno sperato per lunghi giorni in questa possibile “riconversione” dello stato detentivo, ma l’ufficialità al “no” è giunta ieri attraverso l’ordinanza firmata dalla Corte che nell’estate dell’anno scorso, ha confermato il carcere a vita inflitto in primo grado per il sequestro e l’uccisione della piccola Sarah, avvenuto nell’agosto del 2010. Secondo gli avvocati Nicola Marseglia, Franco Coppi, Luigi Rella e Francesco De Jaco, sarebbero diversi i motivi per i quali l’istanza si sarebbe dovuta accogliere. La lunga detenzione già sofferta e l’assenza del deposito della motivazione della sentenza di secondo grado (è prevista entro il mese). Sempre dal punto di vista dei legali delle due donne, non vi sarebbe possibilità alcuna che le imputate possano inquinare le prove, fuggire o reiterare il medesimo reato, motivo per cui non esiste il principio che impone come categorica la sola misura del carcere. Altro motivo che aveva indotto la difesa a chiedere la sostituzione della misura detentiva, è il desiderio di Sabrina e di Cosima Serrano, di rendersi utili agli altri. A tale proposito, i legali avevano anche individuato tra conventi e casa-famiglia, strutture disponibili ad accogliere le due imputate. Però secondo la pubblica accusa, l’unica misura è e resta quella della detenzione in carcere. 

L'ipotesi del legale di Michele Misseri. DELITTO AVETRANA, GLI IMPUTATI POTREBBERO ARRIVARE LIBERI IN CASSAZIONE, scrive il 15 aprile 2016 di Daniel Moretti. L’Avvocato Luca La Tanza, legale di Michele Misseri, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia” condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Gli sviluppi del processo. “Io mi sono ritrovato a difendere Michele Misseri quando già si autoaccusava dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi –ha spiegato La Tanza-. Al termine del procedimento di primo grado, Misseri è stato condannato a 8 anni per soppressione di cadavere. Io ho garantito a Misseri la difesa strettamente tecnica, nel senso che non faccio nulla per andare contro la sua tesi ma non posso ovviamente neanche dire che è stato lui a commettere l’omicidio. Quindi io lo difendo dall’accusa di soppressione di cadavere. La mia linea difensiva mira a cercare di trasformare il reato da soppressione ad occultamento, che prevede una pena massima di 3 anni, mentre la soppressione di 10 anni”. Le motivazioni della sentenza di appello non sono ancora state depositate. “Dal 1 febbraio –ha spiegato La Tanza- sono ripresi a decorrere i termini per la decadenza delle misure cautelari per tutti gli imputati, da Cosima e Sabrina fino a Michele, che scadranno ad ottobre prossimo. Una volta che verranno depositate le motivazioni della sentenza di appello, bisognerà fare le notifiche a tutte le parti. Una volta che tutti avranno le notifiche ci saranno 45 giorni per presentare ricorso in Cassazione. Di conseguenza i ricorsi dovranno essere inviati a Roma e Roma dovrà fare le notifiche per la fissazione per l’udienza. Se si riesce ad avere l’udienza di Cassazione entro ottobre c’è la possibilità di avere la parola fine, ma se non si riesce tutti gli imputati al processo in Cassazione arriveranno liberi”. Resta in carcere Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in primo e secondo grado (con la madre Cosima Serrano), per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Il Tribunale del Riesame (presidente De Tomasi) il 5 maggio 2016 ha respinto l’atto di appello presentato dalla difesa di Sabrina Misseri contro la decisione della Corte d’assise d’Appello del 4 aprile scorso che aveva respinto la richiesta di concessione degli arresti domiciliari in una comunità diocesana di Fabriano. L'impugnativa era stata accompagnata da una memoria difensiva degli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia. La Corte d’Assise d’appello aveva scritto nel provvedimento di rigetto che «la richiesta misura degli arresti domiciliari non risulta adeguata a contenere i prevedibili impulsi aggressivi della Misseri».

Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Un Giorno in Pretura e lo scandalo delle motivazioni. Una giustizia senza vergogna. Comunque la si pensi sulle responsabilità è giustappunto scandaloso permettere tutto ciò. La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video. Roberta Petrelluzzi è la ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura”. Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere in diretta tutte le fasi del dibattimento sul processo del delitto di Sarah Scazzi. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini agli altri media. Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado, non essendo parte nel processo. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se pronunciate da chi, con il suo lavoro, di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Il 25 giugno 2016, al momento dei saluti per l’ultima puntata del ciclo di stagione della trasmissione televisiva “Un giorno in pretura”, Roberta Petrelluzzi, conduttrice del programma, ha speso delle splendide parole per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Voglio richiamare la vostra attenzione su una vicenda che mi ha molto coinvolta e che mi sta molto a cuore: la storia di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi sono in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. È stata questa la ragione che una giovane ragazza e sua madre, che si dichiarano disperatamente innocenti, sono da cinque anni in carcere. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio, dando al termine “mediatico” tutta la valenza negativa che alcune volte merita.» Ciononostante qualche direttore di giornale, interpellatomi per l’oggetto della nota stampa, mi rinfacciava il fatto che la sentenza era complessa e le motivazioni, quindi, dispendiose. Trasparendo la loro indole colpevolista e filo magistrati, io replicavo che questo succedeva solo a Taranto ed in questo caso, facendo notare, a fil di diritto, che l’ordinamento prevede, appunto, la complessità delle motivazione, di fatto prevedendo i termini di 90 giorni, rinnovabili, se del caso. Ma non all’infinito, dio toga piacendo. Mettiamoci in testa che a Taranto, come nel resto d’Italia, deve valere la forza della legge e mai la legge del più forte. In questo caso delle toghe, spalleggiate dai media, che speculano su queste disgrazie.

Appello mamma di Sarah: «Giudici fate presto», scrive Mimmo Mazza il 29 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È passato quasi un anno dalla lettura del dispositivo con il quale la corte d’assise d’appello il 25 luglio del 2015 scorso confermò l’ergastolo per Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio e del sequestro di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana scomparsa il 26 agosto del 2010. Oltre undici mesi sono trascorsi senza però che siano state depositate le motivazioni alla base di quella decisione, un ritardo che va oltre i 90 giorni previsti dal terzo comma dell’articolo 544 del codice di procedura penale quando - come in questo caso - la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni. Se entro il prossimo 15 ottobre non sarà stata emessa sentenza definitiva da parte della Cassazione, Sabrina Misseri tornerà in libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare, essendo stata arrestata il 15 ottobre del 2010 e per la legge italiana non si può essere sottoposti a custodia cautelare per più di sei anni in assenza di sentenza definitiva. Per la madre Cosima, invece, la decorrenza dei termini è fissata per il 26 maggio del 2017, a sei anni dal suo arresto. A scrutare con attenzione a quanto accade nella sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non sono solo i principali imputati ma anche Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, che ha voluto affidare alla Gazzetta il suo pensiero. «Sto vivendo da quasi sei anni un momento terribile che sembra non avere mai fine. Ho vissuto - spiega la signora Concetta - con intensa partecipazione, ma altrettanta angoscia, i primi due processi. Sto vivendo con angoscia l’attesa di vedere finalmente la fine di questo percorso giudiziario. Un percorso che, al momento (e salvo conferma definitiva), ha dato un volto ed un nome agli assassini di mia figlia. E questo grazie al senso di responsabilità, impegno e professionalità di tutti coloro che hanno portato avanti un lavoro faticoso e meticoloso, mettendoci l’anima e la loro sensibilità, nel rispetto di una persona che non c’è più e che ancora attende giustizia definitiva». Senza toni polemici e anzi con il rispetto che ha sempre portato alle forze dell’ordine e alla magistratura, la mamma di Sarah affronta il caso del mancato deposito delle motivazioni con tutto quello che il relativo ritardo può comportare. «Mi auguro, per quel che posso comprendere in termini giuridici, che tutto questo lavoro - dice Concetta alla Gazzetta - possa trovare un attento ma sollecito completamento, pur nel rispetto di tutte le parti processuali. E dico questo con sincera gratitudine e riconoscenza per quel che è stato fatto, ma con l’auspicio profondo di vedere finalmente chiusa la vicenda processuale di mia figlia. Perché, per il resto, nulla potrà rimarginare una ferita troppo profonda e sempre aperta».

Dalla sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non giungono anticipazioni, né previsioni riguardo la data di deposito delle motivazioni, data dalla quale decorrerà poi il termine per lo scontato ricorso in Cassazione. Eppure il verdetto di secondo grado, almeno nel dispositivo, è quasi del tutto simile a quello del primo, giunto il 20 aprile del 2013 e poi motivato con 1631 pagine depositate il 12 marzo del 2014, quindi anche in quel caso a quasi un anno dalla lettura del verdetto in aula.

Processo Scazzi, Giangrande contro la “giustizia lumaca”. Scrive Carmine Alboretti l'1 Luglio 2016 su “La Discussione”. “Undici mesi per scrivere le motivazioni di una sentenza di condanna sono obiettivamente un’aberrazione del diritto”. Ad affermarlo è l’avvocato Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie che si è occupato fin dall’inizio dell’omicidio di Sarah Scazzi.

Avvocato lei è di Avetrana?

«Sì, sono un concittadino della povera vittima e delle imputate considerate colpevoli di quel delitto, ma non le conoscevo personalmente. Mi sono occupato del loro caso da giurista e come sociologo, scrivendo anche diversi volumi in merito».

Libri nei quali ha spiegato il suo punto di vista?

«Niente affatto. Mi sono limitato a raccontare cosa avveniva giorno per giorno sia sul versante giudiziario che su quello mediatico. Tutto qui».

Lei denuncia la lunghezza dei tempi di deposito delle motivazioni: perché?

Non è una valutazione solo mia. Anche Roberta Petrelluzzi ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura” ha segnalato questa anomalia».

In che senso?

«Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere tutte le fasi del dibattimento. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini anche agli altri media».

E allora?

«Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se si considera che di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Nell’ultima puntata del programma, al momento dei saluti, ha rivolto un pensiero a Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, segnalando che le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio».

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.   

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede a Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»    

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale...e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato…un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso, vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»

Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo, Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c…”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…, e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

«Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri. Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti, si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione –, nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Toghe innominabili, scrive Filippo Facci il 12 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Piercamillo Davigo non è più lui. Da presidente dell'Anm è stato investito da così tante bufere che ogni sua uscita pubblica ora suona imbarocchita da distinguo e premesse: sabato ha parlato a un convegno dei Cattolici democratici (sarà questo: era pieno di democristiani) e ogni volta premetteva che «non penso che tutti i politici rubano, rubano in molti... Non credo siano tutti mascalzoni, ma...». Ce l'hanno rovinato. Fortuna che non manca di che obiettargli. Ha parlato di «politici che non si vergognano più» e verrebbe da chiedergli quando mai si siano vergognati i magistrati colti in castagna: anche perché fare i loro nomi è proibito. Già. Dovete sapere che la sezione disciplinare del Csm ogni anno sanziona blandamente con ammonimenti, censure e perdite di anzianità una serie di magistrati che, per esempio, non hanno pagato il conto al ristorante, hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, o semplicemente non lavorano, o sono mezzi pazzi (uno l'hanno visto chiedere l'elemosina per strada, un altro ha spalmato l'ufficio di nutella, un altro ha urlato «ti spacco il culo» a un avvocato) e però i loro nomi non sono divulgabili. Il Csm ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali, come d'obbligo solo per i minori e le vittime di violenze sessuali: eppure parliamo di gente che giudica della vita altrui. Ecco, dottor Davigo: secondo lei è giusto?

Subisci e taci ti intima il sistema gognatico medio-giudiziario.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.  

Come si dice..."Cane non mangia cane!". Toga non tocca toga e alla fine perdono sempre i cittadini. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno, scrive Alessandro Sallusti (la destra politica), Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". A riprova che i magistrati non sono esseri superiori, esenti dai limiti e vizi di noi comuni mortali, un importante pubblico ministero di Roma, Francesco Scavo, titolare dell'inchiesta sui marò e di quella sull'omicidio di Luca Varani, è stato processato dal Csm per molestie sessuali nei confronti di alcune avvocatesse: apprezzamenti imbarazzanti a sfondo sessuale, avance e «repentini palpeggiamenti». Dopo aver accertato i fatti, che sanzione ha deliberato il Csm? Censura e trasferimento d'ufficio, come giudice, al tribunale di Viterbo. Ora, qui non parliamo di un manager sporcaccione o di un impiegato esuberante, ma di un magistrato. Cioè di un professionista che avendo in mano le vite e i destini di altri uomini dovrebbe dimostrare doti di equilibrio al di sopra di ogni sospetto. Doti evidentemente incompatibili con il profilo psicologico di un molestatore seriale. Che continuerà invece ad operare, non più come accusatore ma, peggio mi sento, come giudice. Non voglio ironizzare in base a quali giudizi Francesco Scavo emetterà le sue sentenze a carico di imputati magari difesi da giovani avvocatesse. Ma dico che è come se un pilota trovato positivo al test antidroga, invece che messo a terra venisse spostato a pilotare un aereo solo un po' più piccolo. Come se un chirurgo alcolizzato fosse trasferito dal grande ospedale a uno di provincia. Volereste su quell'aereo? Vi fareste curare in quell'ospedale? Penso di no. E allora mi chiedo perché i cittadini di Viterbo debbano finire nelle mani di un giudice poco equilibrato. E la risposta è una sola: la magistratura italiana usa due pesi e due misure, a seconda che si tratti di noi o di loro, e chissà quante volte accade perché il caso Scavo non è certo una eccezione. Se Piercamillo Davigo, neo presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di dare dei ladri a tutti i politici e di considerare imprenditori e cittadini colpevoli fino a prova contraria, facesse un bel po' di pulizia in casa sua, il Paese ne avrebbe certamente maggiori benefici. Ma è come chiedere al tacchino di anticipare il Natale. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno.

Storia di magistrati, di malagiustizia e del popolo che paga sempre…Come un magistrato viene beccato dalla polizia nei cessi di un cinema che fa un pompino a un ragazzino ed esce dalla vicenda con una promozione che farà lievitare anche gli stipendi dei suoi colleghi. Un costo da 70 milioni di euro all’anno…Il “pompino” più caro della storia, scrive Stefano Livadiotti (la sinistra politica), giornalista del settimanale L’ ESPRESSO (tratto dal libro “MAGISTRATI L’ULTRACASTA”). Un magistrato viene sorpreso in un cinema di periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. E il Consiglio superiore della magistratura lo riabilita. Con una sentenza grottesca che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi. Ecco i verbali segreti di tutta la storia. Sono le 18 di un freddo pomeriggio di dicembre quando L.V., rispettabile magistrato di corte d’appello con funzioni di giudice del Tribunale di Milano, fa il suo ingresso nella sala dell’Ariel, un piccolo cinema all’estrema periferia occidentale di Roma. Sullo schermo proiettano il film western La stella di latta. Ma ad attirare Vostro Onore nel locale non sono certo le gesta di John Wayne nei panni dello sceriffo burbero. No, a L.V., che ha ormai 41 anni suonati, dei cow-boy non frega proprio un fico secco. Se si è spinto tanto fuori mano è perché è in cerca di tutt’altro. Così, dopo aver scrutato a lungo nel buio della platea, individua il suo obiettivo. E, quatto quatto, scivola sulla poltroncina accanto a quella occupata dal quattordicenne I.M. Quello che succede in seguito lo ricostruisce il verbale della pattuglia del commissariato di Polizia di Monteverde che alle 19.15 raggiunge il locale su richiesta della direzione. “Sul posto c’era l’appuntato di polizia G.P., in libera uscita e perciò casualmente spettatore nel cinema, che consegnava ai colleghi sopravvenuti due persone, un adulto e un minore, e indicava in una terza persona colui che aveva trovato i due in una toilette del cinema. L’adulto veniva poi identificato per il dottor L.V. e il minorenne per tale I.M. Il teste denunciante era tale F.Z”.L’appuntato G.P. riferiva che verso le 19, mentre assisteva in sala alla proiezione del film, aveva sentito gridare dalla zona toilette: “zozzone, zozzone, entra in direzione!”. Accorso, aveva trovato il teste Z. che, indicandogli i due, affermava di averli poco prima sorpresi all’interno di uno dei box dei gabinetti, intenti in atti di libidine. Precisava, poi, lo Z. che, entrato nel vestibolo della toilette, aveva scorto i due che si infilavano nel box assieme, richiudendovisi. Aveva allora bussato ripetutamente, invitandoli a uscire, ma senza esito. Soltanto alla minaccia di far intervenire la Polizia l’uomo aveva aperto, tentando di nascondere il ragazzo dietro la porta.” “Il minorenne, a sua volta, raccontava che verso le 18 era seduto nella platea del cinema intento a seguire il film quando un individuo si era collocato sulla sedia vicina: poco dopo questi aveva allungato un mano toccandogli dall’esterno i genitali. Egli aveva immediatamente allontanato quella mano e l’uomo se n’era andato. Ma dopo dieci minuti era ritornato, rinnovando la sua manovra. Questa volta egli aveva lasciato fare e allora l’uomo gli aveva sussurrato all’orecchio la proposta di recarsi con lui alla toilette, promettendogli del denaro. Egli s’era alzato senz’altro, dirigendosi alla toilette, seguito dall’uomo. Entrati nel box, l’uomo gli aveva sbottonato i calzoni, ed estratto il pene lo aveva preso in bocca.” Adescare un ragazzino in un cinema è un fatto che si commenta da solo. Che a farlo sia poi un uomo di legge, o che tale dovrebbe essere, appare inqualificabile. Ma non è solo questo il punto. Se i fatti si fermassero qui, non potrebbero essere materia di questo libro. Invece, come vedremo, la storia che comincia nella sala dell’Ariel giovedì 13 dicembre del 1973, per concludersi ingloriosamente 8 anni dopo, va ben oltre lo squallido episodio di cronaca. Per diventare emblematica della logica imperante almeno in una parte del mondo della magistratura ordinaria (di cui esclusivamente ci occuperemo, senza prendere in considerazione quelle contabile, amministrativa e militare). Cioè, in una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola. Quel giorno, e non potrebbe essere altrimenti, V. viene dunque arrestato. Vostro Onore cerca disperatamente di negare l’evidenza. S’arrampica sugli specchi, raccontando di aver pensato che il ragazzino si sentisse male e di averlo quindi seguito nel bagno proprio per assisterlo. Ma non c’è niente da fare: l’istruttoria conferma la versione della polizia. Così, il Tribunale di Grosseto rinvia a giudizio V. per “atti osceni e corruzione di minore”. E, il 28 dicembre del 1973, si muove anche la sezione disciplinare del Csm, l’organo di governo della magistratura, che lo sospende dalle funzioni. V. sembra davvero un uomo finito. Ma non è così. Il 21 gennaio del 1976, il verdetto offre la prima sorpresa. Con il loro collega, i giudici toscani si dimostrano più che comprensivi. Il tribunale della ridente cittadina dell’alta Maremma ritiene infatti che, “atteso lo stato del costume”, l’atto compiuto da V. nella sala del cinema vada considerato soltanto come contrario alla pubblica decenza. Come, “atteso lo stato del costume”? Cosa succedeva all’epoca nei cinema di Grosseto: erano un luogo di perdizione e nessuno lo sapeva? Boh. Andiamo avanti: “Conseguentemente, mutata la rubrica nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’articolo 726 del codice penale, lo condanna alla pena di un mese di arresto […] Per quanto poi riguarda la seconda parte dell’episodio, esclusa la procedibilità ex officio, essendo ormai il fatto connesso con una contravvenzione, proscioglie il V. per mancanza di querela dal delitto di corruzione”. Ma il procuratore generale non è d’accordo, e questa è una buona notizia per tutto il paese. E V., che pure dovrebbe fregarsi le mani, neanche. Entrambi presentano ricorso. Si arriva così all’8 marzo del 1977, quando a pronunciarsi è la corte d’appello di Firenze, che ribalta il precedente giudizio. Ma lo fa a modo suo. Per i giudici di secondo grado, quelli di V. sono atti osceni. Evviva. Però, siccome il primo approccio con il ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto, il fatto non costituisce reato. V. se la cava quindi con una condanna a 4 mesi, con la condizionale, per la sola corruzione di minori. E di nuovo, non contento, ricorre, con ciò stesso dimostrando la sua incrollabile fiducia nella giustizia. Assolutamente ben riposta, come dimostra il terzo atto della vicenda, che va in scena due anni dopo, il 30 marzo del 1979: “La corte suprema, infine […] annulla senza rinvio limitatamente al delitto di corruzione di minorenne, a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia”. Amen. V. era definitivamente sputtanato davanti a tutti i colleghi. Ma senza più conti in sospeso con la legge. E tanto bastava al Consiglio superiore della magistratura (d’ora in avanti Csm), che il successivo 29 giugno revocava la sua sospensione, rigettando una richiesta in senso contrario del procuratore generale della cassazione, perché “le circostanze non giustificavano l’ulteriore mantenimento […] di una sospensione durata cinque anni e mezzo”. A V. restava da superare solo un ultimo scoglio: il verdetto della sezione disciplinare. Ed è proprio in quella sede che la storia assumerà i toni più grotteschi. La sceneggiata finale, come racconta nel dettaglio la sentenza finora inedita, scritta a macchina e lunga 12 pagine, si svolge il 15 maggio del 1981, quando si riunirono i magnifici 9 della giuria che deve esaminare il dossier n. 294. Molti di loro faranno una carriera coi fiocchi. C’è l’allora vicepresidente del Csm, che è addirittura Giovanni Conso, futuro numero uno della consulta e ministro della giustizia, prima con Amato e poi con Ciampi. C’è Ettore Gallo, che all’inizio degli anni novanta s’accomoderà anche lui sul seggiolone di presidente della corte costituzionale. C’è Giacomo Caliendo, che siederà poi nel governo di Silvio Berlusconi, con l’incarico di sottosegretario alla giustizia. C’è Michele Coiro, che sarà procuratore generale del Tribunale di Roma e poi direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ancora: i togati Luigi Di Oreste, Guido Cucco, Francesco Marzachì e Francesco Pintor, e il laico Vincenzo Summa. Chi pensa che in un simile consesso le parole siano misurate con il bilancino è completamente fuori strada. Vista dall’esterno, la sede del Csm ha perfino un che di lugubre, ma quando si riunisce la sezione disciplinare l’atmosfera è più quella del Bagaglino. La sentenza offre un campionario di spunti dalla comicità irresistibile. Come quello offerto dal medico di V., che lascia subito intendere quale incredibile piega potrà prendere la vicenda. “Veniva anche sentito il medico curante, dottor G., che testimoniò di aver sottoposto il V. a intense terapie nell’anno 1970 a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave metallico di una bassa porta. Si trattava di ferita trasversale da taglio all’alta regione frontale, che il medico suturò previa disinfezione. Vostro Onore, insomma, aveva dato una craniata. E allora? “Benché fosse rimasto per dieci giorni nell’assoluto prescritto riposo, il paziente accusò per vari mesi preoccupanti disturbi, quali cefalee intense, sindromi vertiginose, instabilità dell’umore, turbe mnemoniche. Le ulteriori terapie praticate diedero temporaneo sollievo, ma vi furono frequenti ricadute, soprattutto di carattere depressivo, che si protrassero fino al 1972 […] È emerso che la madre dell’incolpato è stata ricoverata per 25 anni in clinica neurologica a causa di gravi disturbi.” Che c’entra?”, direte voi. Tempo al tempo. Dopo quella del luminare, la seconda chicca è la testimonianza dell’amico notaio. “All’odierno dibattimento sono stati escussi sette testimoni, dai quali è rimasta confermata l’irreprensibilità della vita dell’incolpato, prima e dopo il grave episodio, e soprattutto la serietà dei suoi studi e del suo impegno professionale. In particolare, il notaio dottor M. ha ricordato il fidanzamento del dottor V.con la sorella, assolutamente ineccepibile sul piano morale per i quattro-cinque anni durante i quali egli ha frequentato la famiglia. Il matrimonio non è seguito per ragioni diverse dai rapporti tra i fidanzati, che sono anzi rimasti buoni amici.” Par di capire, tra le righe, che V. non molestasse sessualmente la fidanzata. La credibilità della qual cosa, alla luce della sua successiva performance con il ragazzino, appare, questa sì, davvero solida. Nonostante le strampalate deposizioni, gli illustri giurati sembrano decisi a fare sul serio. E subito escludono in maniera categorica di poter credere alla versione che il collega V., a dispetto di tutto, si ostina a sostenere. “I fatti,” tagliano corto, “vanno assunti così come ritenuti dai magistrati di merito dei due gradi del giudizio penale”. Poi, però, cominciano a tessere la loro tela. “E tuttavia ciò che colpisce e stupisce, in tutta la dolorosa e squallida vicenda, è la constatazione che l’episodio si staglia assolutamente isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intera esistenza, fatta di disciplina morale, di studi severi e di impegno professionale.” Come diavolo abbiano fatto a stabilire che “l’episodio si staglia assolutamente isolato”, i giurati lo sanno davvero solo loro. Ma andiamo avanti. La prosa è zoppicante, però vale la fatica: “Tutto questo non può essere senza significato e non può essere spiegato se non avanzando due diverse ipotesi. O l’episodio ha avuto carattere di improvvisa e anormale insorgenza, quasi di raptus, la cui eziologia va ricercata e messa in luce; oppure se, al di sotto delle apparenze, sussiste effettivamente una natura sessuale deviata o almeno ambigua, è doveroso stabilire perché mai essa si sia rivelata soltanto e unicamente in quell’occasione, durante tutto il corso di un’intera esistenza”. L’alto consesso propende, ça va sans dire, per la prima delle due ipotesi. “Già […] i giudici penali avevano adombrato suggestivamente, in presenza dei referti clinici, della deposizione del curante e di quella del maresciallo S. che eseguì l’arresto, che la capacità di intendere e di volere del V., al momento del fatto, doveva essere scemata a tal punto da doversi ritenere ‘ridotta in misura rilevante’, e ciò – secondo i giudici – “per una sorta di psicastenia, di una forma di malattia propria, tale da alterare specialmente l’efficienza dei suoi freni inibitori contro i suoi aberranti impulsi erotici’“. Poste le premesse, i giudici dei giudici preparano il gran finale, citando il parere pro veritate di due professori, scelti naturalmente dalla difesa di V. “Secondo gli psichiatri […] l’episodio in esame, non soltanto costituisce l’unico del genere, ma esso, anzi, ponendosi in netto contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici che, iniziatisi nel 1970, si trovavano in piena produttività nel 1973, all’epoca del fatto. Durante il quale, pur conservandosi sufficientemente la consapevolezza dell’agire, restò invece completamente sconvolta la ‘coscienza riflettente’, cioè la rappresentazione preliminare degli aspetti etico-giuridici della condotta da tenere e delle sue conseguenze. Il che ha reso inerte la volontà di inibire quelle spinte pulsionali su cui il soggetto non riusciva più a esprimere un giudizio di valore.” Tutta colpa, dunque, della “coscienza riflettente”, che era andata in tilt. Ma come mai? Chiaro: “Su tutta questa complessa situazione il trauma riportato nel 1970 ha svolto un ruolo – secondo i clinici – di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità, fino all’organizzazione della sindrome esplosa nell’episodio de quo”. Vostro Onore, dunque, dopo la zuccata è diventato scemo? Neanche per sogno. Lo è stato, ma solo per un po’. “D’altra parte, poi, proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi a seguito del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti, hanno favorito il completo recupero della personalità all’ambito della norma, come è testimoniato dai successivi otto anni di rinnovata irreprensibilità.” Adesso insomma Vostro Onore è guarito e può senz’altro rimettersi la toga. “Il che comporta essersi trattato di un episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza tuttavia lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità.” Conclusione, in nome del popolo italiano: “Il proscioglimento, pertanto, si impone”. Addirittura. “La sezione assolve il dottor V. perché non punibile avendo agito in istato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto”. Il procuratore se n’è fatta una ragione e non propone l’impugnazione. Il futuro ministro non ha nulla da eccepire. Il collega che siederà sullo scranno di presidente della consulta se ne sta muto come un pesce. E, diligentemente, i giurati mettono la firma sotto una simile sentenza. Dove si racconta la storiella di uno che ha sbattuto la testa e tre anni dopo è diventato scemo e ora però non lo è più. A parte il fatto che una zuccata prima o poi l’abbiamo presa tutti, magari pure Conso e Gallo, e qualcuno di noi da piccolo è perfino caduto dalla bicicletta: ma non è che poi ci siamo messi proprio tutti a dare la caccia ai ragazzini nei cinema di periferia. Il fatto che la sezione disciplinare del Csm non sia esattamente un tribunale islamico non è certo una notizia. Nel capitolo 3, intitolato Gli impuniti, ne racconteremo davvero di tutti i colori. Ma il caso di V.è al di là di ogni limite. Anche perché la sua storia non è rimasta sotto traccia come molte altre. Al contrario, nel mondo della magistratura è diventata molto, ma proprio molto popolare. Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice. Il libro lo ha infatti scritto quando aveva appena lasciato il Csm, di cui era consigliere: “A conclusione della vicenda V. non solo aveva ripreso servizio, ma era stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di cassazione, conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni. E, avendo cumulato nel frattempo molti scatti di anzianità sul suo stipendio di consigliere d’appello, si trovò per il principio del trascinamento a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, allora, grazie all’istituto del galleggiamento, ottennero un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal nostro magistrato”. Come consigliere, Mellini aveva modo di accedere agli archivi segreti del Csm. E così si era tolto la curiosità di fare due conti. “Pare che tale marchingegno abbia comportato per lo stato un onere di oltre 70 miliardi.” Tanto è costato ai cittadini italiani il caldo pomeriggio del pedofilo in toga. Trasformato d’un colpo da reprobo a benefattore dell’intera categoria. La domanda è inevitabile. Quando hanno deciso di prosciogliere il collega, Lor Signori del Csm non avevano a portata di mano un pallottoliere per fare due conti? O, al contrario, hanno prosciolto V. proprio perché i conti li avevano fatti, eccome? La risposta è arrivata nel 1993: il 29 settembre V. si è visto negare l’ultimo passaggio di carriera, quello alle funzioni direttive superiori della Cassazione. Eppure, i fatti sulla base dei quali è stato giudicato erano gli stessi di prima. Sarà perché nel frattempo era stato abolito il galleggiamento? E quindi nessuno avrebbe beneficiato di una sua ulteriore promozione?

«Le botte in cella una lezione di vita» Parola di giudice, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 26 luglio 2016, su "Il Dubbio". Assarag incise quello che accadeva nel carcere di Parma. Tre mesi di registrazioni choc, con le voci di poliziotti che raccontavano episodi di botte ai detenuti. Il Gip di Parma ha scritto la parola fine sulla vicenda Rachid Assarag, il quarantenne marocchino che aveva accusato gli agenti penitenziari del carcere emiliano di averlo picchiato sistematicamente per mesi. Nel 2010, grazie all'aiuto della moglie Emanuela che riuscì a fargli avere un registratore, Assarag incise quotidianamente quello che accadeva nel carcere di Parma. Tre mesi di registrazioni choc, con le voci di agenti che raccontavano senza remore episodi di aggressioni e botte ai detenuti. La vicenda balzò agli onori della cronaca solamente a settembre del 2014, quando il settimanale L'Espresso pubblicò un articolo dal titolo «Galera, botte e omertà». Nel pezzo, oltre a raccontare i pestaggi subiti da Assarag, era anche descritto il clima all'interno del carcere di Parma, dove i medici e gli operatori penitenziari, pur conoscendo quanto accadeva, non denunciavano per paura di subire ritorsioni. Le denunce, però, le aveva presentate Assarag. Quattro denunce per le violenze subite di cui, dal 2010, si erano perse le tracce. Solamente grazie al clamore mediatico suscitato dall'articolo di stampa, il pubblico ministero di Parma decise di verificare «quali procedimenti penali fossero allo stato pendenti». Se non fosse stato per l'articolo, infatti, «si sarebbe proceduto all'archiviazione, attesa la contradditorietà del quadro probatorio e l'impossibilità di svolgere ulteriori indagini per scadenza dei termini». L'avvocato di Assarag, Fabio Anselmo, depositò allora le trascrizioni delle registrazioni. Iniziò, quindi, una attività d'indagine per falso e calunnia nei confronti degli agenti della polizia penitenziari. La Squadra Mobile della Questura di Parma ascoltò decine di persone fra guardie, medici e operatori in servizio al carcere di Parma. A dicembre del 2015, terminata l'istruttoria, il pm decise per l'archiviazione di tutte le posizioni. Le registrazioni, infatti, sono «rese note solo quattro anni dopo i fatti, una tempistica che rende estremamente ardua la ricostruzione dei fatti». Alcuni dei dialoghi sono molto "crudi". In una conversazione con Assarag, una guardia dichiara che dentro il carcere comandano loro e non esistono né avvocati né giudici. Al riguardo, il pm, premesso che l'affermazione è «inquietante», dato però «che la guardia non ha mai usato violenza nei confronti di Assarag, tali affermazioni paiono essere più delle lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto, che delle minacce o delle affermazioni di supremazia e di negazione dei diritti». L'archiviazione suscitò polemiche. L'avvocato Anselmo parlò di «reality della vita carceraria». Il Pm di Parma, duramente criticato, venne difeso dalla locale sezione dell'Anm che, anzi, evidenziò lo scrupolo con cui erano state condotte le indagini. La vicenda venne riproposta a marzo di quest'anno al grande pubblico, grazie ad un servizio della trasmissione televisiva Le Iene, dal titolo "Lezioni di vita carceraria", dove, oltre a ripercorre l'iter processuale, venivano anche riproposti gli audio incriminati. La parola fine, dunque, il 21 luglio scorso, quando il Gip di Parma, rigettando la richiesta di opposizione, ha stroncato ogni aspettativa di Assarag confermando l'archiviazione. Le registrazioni «non consentono di collocare nel tempo gli episodi e, di conseguenza, non possono essere riferite con certezza agli episodi denunciati. Le registrazioni - prosegue il Gip - sono di non facile e sicura interpretazione essendo estrapolate da dialoghi intervenuti tra il detenuto e persone non individuate (agenti, medici, psicologi). Inoltre, le dichiarazione di Assarg presentano incongruenze tali da compromettere l'attendibilità della sua ricostruzione». Sentita dal Dubbio, la moglie di Assarag, ha dichiarato: «Che paese civile, quello che ti obbliga a fare casino, per ottenere qualcosa. E nel nostro caso abbiamo ottenuto un'archiviazione. La procura di Parma - prosegue - di fronte al mondo della giustizia è una goccia nell'oceano. La storia è tutt'altro che chiusa. La richiesta di archiviazione del Pm, confermata dal Gip, non intacca il contenuto delle conversazioni registrate in carcere. Al contrario, l'ostinazione a voler insabbiare tutto, mi fa capire quanto quelle tracce possano aprire scenari difficili da gestire, per cui preferiscono perdere tempo, per poi chiudere tutto con una prescrizione. Quanta libertà intellettuale e coscienza c'è, in una sentenza simile?» Assarag dal 2009 sta scontando una condanna a nove anni e quattro mesi di carcere per stupro. In questi anni è stato trasferito in undici carceri diverse (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella) attualmente è recluso a Bollate. A breve il Tribunale di Sorveglianza di Milano dovrà esprimersi sulla sua richiesta dei domiciliari.

Ma in carcere, spesso ci vanno gli innocenti.

Luttazzi, la vita distrutta per una telefonata sbagliata, scrive Valter Vecellio il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". È un caldo giorno di giugno di quarantasei anni fa; un poliedrico artista di successo, attore, cantante, direttore di orchestra, musicista, regista, scrittore, showman, conduttore televisivo e radiofonico senza sapere neppure perché si trova ammanettato e gettato in galera. Quell’artista si chiama Lelio Luttazzi; viene arrestato assieme a un altro attore all’apice del suo successo, Walter Chiari. Le accuse parlano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Poi si saprà che tutto si regge su un qualcosa di incredibile: un giorno, non si ricorda neppure quando, si è limitato a “girare” a uno sconosciuto, che poi si scopre essere uno spacciatore, un messaggio che gli ha affidato l’amico Walter Chiari. Non ha fatto altro: qualcosa tipo: «Walter dice che…». Per quel “messaggio” trascorre trentatré giorni in carcere; poi, finalmente lo rilasciano: la sua posizione chiarita. Si rendono conto che è innocente, colpevole di nulla, estraneo a tutto. Insomma, un clamoroso errore giudiziario; nel frattempo qualcosa “dentro” si rompe, nulla più è come prima. Luttazzi si ritira: quello che patisce non si sana, è irrisarcibile, quello che si è incrinato, è incrinato per sempre. Ne deve passare del tempo, prima che riesca a trovare la forza e la voglia per apparire in qualche rara trasmissione televisiva, di incidere qualche cd con musiche come l’amato swing. Perché ricordare questa vicenda? Intanto perché è sempre serbarne la memoria, il nostro è un paese dal facile crucifige, dove spesso colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, poi si rivelano innocenti. Quei trentatré giorni di prigione, quel macroscopico errore giudiziario, per concludere che le accuse sono senza fondamento per Luttazzi sono una ferita irrimarginabile, la vita cambia e nulla è più come prima. «Pesa. Ci faccio i conti in continuazione», racconta. Parte di quel trauma è raccontato in un libro, Operazione Montecristo (Mursia editore). Lo definisce «uno sfogo e un modo per sopravvivere. Stavo in galera, chiuso in una celletta d’isolamento piccolissima, bugliolo, secchio. Come le bestie. Avevo ottenuto dei quaderni e delle matite. Uno sfogo e un passatempo». Uno sfogo e un passatempo… Il tempo, si dice, placa e attutisce. Luttazzi conferma e insieme smentisce: «Il rancore si è stemperato negli anni. Però per l’ingiustizia subita ho ancora parecchio fastidio. Proprio io che sono sempre stato contrario alle droghe, mai una prova che l’avessi presa perché non l’ho mai presa in vita mia. E poi, Walter. Tutti lo dicevano, ma io lo difendevo, non l’ho mai visto fare queste cose. E stavamo sempre insieme. Certo era sfrenato, sempre sopra le righe anche in casa, avrei dovuto capire…». Il pensiero poi corre a Enzo Tortora: «Poveraccio, l’hanno assassinato. Andai a trovarlo in ospedale, e ho pianto. Ecco se con qualcuno devo ancora avercela, è con i giudici che neanche nel caso Tortora capirono…». Capirono… Più propriamente non vollero capire: perché capire si poteva e doveva subito; e in particolare avrebbero dovuto e potuto capire proprio i magistrati. Una vita cambiata, stravolta: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il Pubblico Ministero che mi aveva interrogato, e non mi aveva creduto». Luttazzi non viene creduto. Irrilevante ci siano o no delle prove, lo si sbatte in carcere perché, “semplicemente”, non viene creduto…Uscito dal carcere. Luttazzi si ritira. La tempra del tenace triestino gli consente di resistere, in qualche modo aiuta; e infatti, ogni tanto, lo si ritrova: una serie di concerti jazz di cui è grande appassionato; uno, al Teatro all’aperto a Villa Margherita, è memorabile, gli viene conferito il premio “Una vita per il Jazz”. Dopo un lungo silenzio, nel 2005 esce il cd “Lelio Luttazzi and Rai Orchestra 1954”: sono le registrazioni storiche della radio degli anni ‘50, trasmesse dalla radio appunto nel 1954; sono brani suoi, ma anche interpretazioni di Parlami d’amore Mariù, di Vittorio De Sica, un omaggio a Cole Porter, e un duetto con Gorni Kramer. Poi, eccolo ospite d’onore, nell’ottobre 2006, di Fiorello Viva Radio2, che in quell’occasione va in onda contemporaneamente alla radio e in televisione. Due anni dopo va da Fabio Fazio, a Che tempo che fa; e il 19 febbraio del 2009 partecipa al Festival di Sanremo condotto da Paolo Bonolis; in quell’occasione accompagna al pianoforte Arisa, che canta Sincerità. Da un anno è tornato a vivere, definitivamente, a Trieste assieme alla moglie Rossana. Per l’occasione Pupi Avati gira un film-documentario, Rai5 lo manda in onda il 30 ottobre 2011. Luttazzi, “El can de Trieste”, è già morto. Una lunga malattia, l’8 luglio 2010, lo stronca. Ha 87 anni. Stile impeccabile, colto, elegante e scanzonato conduttore di una storica trasmissione radio, Hit Parade, ma anche tantissime altre cose… Per dire: è lui che scrive le colonne sonore di alcuni film che sono “classici”, come Totò, Peppino e la Malafemmina; e forse non tutti sanno che ha avuto anche esperienze di attore. Per esempio ne L’Ombrellone di Dino Risi; ma anche L’avventura di Michelangelo Antonioni; Oggi, domani, dopodomani di Marco Ferreri, Luciano Salce, Eduardo De Filippo; L’illazione che anche dirige.

E l’impegno politico? C’è stato anche questo. Rigorosamente laico con venature anticlericali, gli si accredita una fama di craxiano. «Tutto cominciò - spiega - perché portavo un garofano all’occhiello come Cole Porter, e allora mi avvicinai a quel partito». Certo non di destra, “senza fanatismi”; e diffidente d’istinto quando sente parlare di “patria”: «Io mi sono fatto tutto il fascismo, con quella parola usata come scusa per uccidere la libertà». Si iscrive anche al Partito Radicale. Marco Pannella lancia la campagna: “Diecimila iscritti entro il 31 dicembre del 1986”, pena lo scioglimento. In quell’occasione, per restare ai soli personaggi dello spettacolo, si iscrivono, “perché il Partito Radicale viva”, Dario Argento e Liliana Cavani, Damiano Damiani e Giorgio Albertazzi; Pino Caruso e Carlo Giuffré, Enrico Maria Salerno e Mario Scaccia, Ugo Tognazzi Roberto Herlitza, Domenico Modugno, Claudio Villa, Rita Pavone e Teddy Reno… e tra loro, appunto, Luttazzi.

Un nuovo caso Tortora. Il dramma di un militare incarcerato per errore. L'accusatore del conduttore guidava la procura che mise in cella il soldato Raiola. Poi prosciolto, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 28/07/2016, su "Il Giornale". Un errore clamoroso, la vittima sacrificale per eccellenza che torna sull'altare della giustizia italiana. Francesco Raiola come Enzo Tortora. Un militare tutto d'un pezzo come il celebre giornalista, quasi trent'anni dopo, nella stessa terra e con un copione sconcertante che colpisce per la facilità con cui ancora oggi si finisce in carcere. Allora, negli anni Ottanta, l'inventore di Portobello fu ammanettato sulla base di alcune grossolane calunnie, fabbricate in serie da una squadra di pentiti. Ora, o meglio il 21 settembre 2011, Raiola viene catturato come trafficante di droga per via di alcune intercettazioni lette con la lente del pregiudizio dai pm di Torre Annunziata. «Io - racconta il militare che è stato in Afghanistan e Kosovo - parlavo di mozzarelle, due chili, ma loro si erano convinti che si trattasse di una partita di stupefacenti. E quando con un collega discutevo della Tv con ingresso Mediaset per le partite, non utilizzavo un linguaggio criptato come loro pensavano, ma effettivamente di un apparecchio da comprare in un centro commerciale». Uno scivolone investigativo all'interno dell'inchiesta Alieno che il giovane, sposato e con due figli, paga a caro prezzo: quattro giorni di isolamento, ventuno in cella a Santa Maria Capua Vetere, più cinque mesi ai domiciliari e la fine della carriera in divisa. Un disastro cui per fortuna pone rimedio, almeno sul piano giudiziario, il gip di Nocera Inferiore che ha ereditato per competenza il fascicolo da Torre Annunziata: il giudice si accorge che le accuse non stanno in piedi e proscioglie Raiola in udienza preliminare, senza nemmeno spedirlo a processo. Ma a rendere ancora più incandescente il caso ci sono quelle suggestioni, quei rimandi, quegli incroci con il caso Tortora. Diego Marmo, il pm che nel 1985 definì il presentatore «un cinico mercante di morte» è nel 2011 il procuratore capo di Torre Annunziata, anche se l'indagine che porta a 73 arresti non è farina del suo sacco. E Mary Tagliazucchi, la reporter che ha scoperto la vicenda e l'ha raccontata sul sito ofcsreport, accosta Raiola a Tortora in un colloquio con Francesca Scopelliti, la compagna del presentatore, suscitando il suo sgomento. «Mi ricordo ancora oggi le sue bretelle rosse - dice Scopelliti a proposito di Marmo - i suoi toni esacerbati ed esasperati tanto da avere la bava alla bocca». E, ascoltata la via crucis di Raiola, afferma durissima: «Per quanto mi riguarda Diego Marmo dovrebbe solo ritirarsi a vita privata». Marmo oggi è in pensione: le sue scuse, arrivate trent'anni anni dopo, sono state respinte senza esitazione al mittente. Lui continua a ripetere che una carriera ricca di soddisfazioni e risultati non può essere impiccata su quell'unico pur dolorosissimo errore, dovuto alla «troppa foga». E invece Marmo si porta dietro il fantasma di Tortora e ad ogni suo passo pubblico, ad esempio la nomina nel 2014 ad assessore alla legalità nel comune di Pompei, puntuali riesplodono le polemiche. Anche perché il sistema giustizia funziona male e produce ancora errori inammissibili. Come quello del soldato che ora vorrebbe rientrare nell'esercito che invece l'ha bandito. La giustizia dovrebbe essere riformata ma tutti i progetti si sono arenati e l'opinione pubblica considera ormai le toghe una casta nella casta: troppi magistrati non sono stati puniti dopo aver sbagliato. Anzi hanno fatto carriera sui loro errori.

Processi show e pentiti a tempo. Dopo Tortora nulla è cambiato. La fiction rai sul conduttore arrestato ingiustamente per droga e camorra dimostra solo che i guai dei nostri tribunali sono gli stessi di trent'anni fa, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 02/10/2012, su "Il Giornale".  «Dove eravamo rimasti?». Con queste parole Enzo Tortora tornava in televisione nel febbraio 1987 dopo essere stato vittima della più sconvolgente vicenda di malagiustizia all'italiana. E proprio Il caso Enzo Tortora - Dove eravamo rimasti? si intitolava la miniserie andata in onda con successo su Raiuno ieri e l'altro ieri. Una ricostruzione forse modesta dal punto di vista artistico, come molti hanno fatto notare. Ma in fondo cosa importa se Ricky Tognazzi non sembra a suo agio nei panni del protagonista? Nulla. Conta aver raccontato una storia che illumina non solo il passato ma anche il presente. Infatti lo sceneggiato, che si apre con l'arresto del conduttore di Portobello, avvenuto alle quattro di mattina del 17 giugno 1983, potrebbe anche riferirsi a fatti avvenuti ieri. Turba scoprire come i momenti salienti della storia non siano lontani dalla cronaca recente e propongano al pubblico temi di stretta attualità. Tortora fu dato in pasto alle telecamere: prima di essere accompagnato fuori dalla questura, con le manette in vista, fu trattenuto sei o sette ore al fine di attendere la luce migliore per le riprese televisive. Ed ecco la giustizia spettacolo. Prima e dopo questo episodio, vediamo i pentiti, Pasquale Barra in particolare, ma anche Giovanni Pandico e Gianni Melluso, incastrare Tortora, rovesciandogli addosso accuse assurde: essere affiliato alla Nuova Camorra Organizzata e spacciare cocaina. Mancano però riscontri oggettivi, fino a quando non sbuca una agendina appartenuta a un camorrista, contenente nome e numero di telefono di Tortora. Un granchio colossale. Perché, come si appurerà, sulla agendina c'è scritto «Tortona» e l'utenza non appartiene allo showman. L'elenco dei delatori si allunga. Confessando, si ottengono migliori condizioni di detenzione, come scrivevano i giornali dell'epoca, e magari una riduzione della pena. Ed ecco i pentiti a orologeria. A proposito di giornali. Spesso, nella fiction, irrompono le prime pagine di quotidiani e settimanali. In effetti, le notizie uscivano a getto continuo. Ed ecco la violazione del segreto istruttorio. Quando Tortora entra a Regina Coeli, a Roma, il pubblico assiste a scene di degrado. Igiene inesistente, affollamento delle celle, detenuti in precarie condizioni di salute. È la situazione cronica di molte prigioni italiane, come ha appena ricordato il presidente Giorgio Napolitano. Ed ecco la questione carceraria. Nel cortile, durante l'ora d'aria, Tortora viene preso a male parole da un detenuto, il quale gli rinfaccia di avere importanti avvocati alle spalle. Non verrà dunque dimenticato in galera mentre altri rimangono per anni in attesa di giudizio. Ed ecco le lentezze intollerabili dei tribunali. Tortora fu condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. La Corte d'Appello di Napoli, nel 1986, lo assolse con formula piena. Il conduttore morì a 59 anni, il 18 maggio 1988. Nel 1987, proprio sull'onda del «caso Tortora», fu votato un referendum per estendere la responsabilità civile ai giudici. Passò con l'80 per cento dei suffragi. Il problema si trascina da allora, e se ne parla in continuazione, l'ultima volta questa estate, ma nulla di concreto è stato fatto. Che fine fecero i magistrati di quel processo? Avanzarono in carriera. Ecco cosa scrive Vittorio Pezzuto in Applausi e sputi (Sperling & Kupfer, 2008), la biografia di Tortora che ha ispirato la fiction: «Felice Di Persia? Membro del Csm e procuratore capo della Repubblica di Nocera Inferiore; Lucio Di Pietro? Procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e procuratore generale della Repubblica di Salerno; Diego Marmo? Procuratore generale presso il tribunale di Torre Annunziata; Luigi Sansone? Presidente della VI sezione penale della Corte di Cassazione; Orazio Dente Gattola? Presidente di sezione del tribunale di Torre Annunziata nonché apprezzato giurista». L'Italia può ancora specchiarsi nella vicenda Tortora. Dove siamo rimasti? A trent'anni fa.

E poi ci sono i "Fine pena, mai".

«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano», scrive Damiano Aliprandi il 22 luglio 2016, su "Il Dubbio". La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila. Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”. La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”. Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile? Alla trasmissione Radio carcere, condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale - in sintonia con quello della Bernardini - che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia? Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre?”, ha risposto “è in cella!”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti?” Nel carcere di L’Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile. Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate. Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza. Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata. Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato "fine pena mai" e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.

LA DISUGUAGLIANZA DELLA GIUSTIZIA.

Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?

Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. ​Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

Non solo Meloni con Almirante, le strade intitolate che hanno fatto polemica. Stefano Cucchi, Oriana Fallaci, Bettino Craxi. Non sono pochi i personaggi "divisivi", per lo più politici, che hanno fatto nascere battaglie toponomastiche in tutta Italia. Dopo la proposta della candidato sindaco a Roma che vuole dedicare una strada all'ex repubblichino, ecco gli altri casi celebri, scrive Maurizio Di Fazio il 23 maggio 2016 su “L’Espresso”. “Se diventerò primo cittadino, intitolerò una strada a Giorgio Almirante” esclama Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e candidata alla carica di sindaco di Roma. Fioccano le proteste e le polemiche: è tuttora troppo controverso il ricordo del fu padre-padrone del Movimento sociale italiano, a 28 anni dalla sua scomparsa. Quantomeno per intestargli una via di una grande città: il nome dell’ex repubblichino ricorre già (sotto forma di strade, giardini e circonvallazioni) nelle mappe urbane e nel google maps di numerosi piccoli centri del centro-sud, nonché di capoluoghi di provincia come Foggia e Viterbo. Nel 2014 la Provincia di Latina (città fondata col nome di Littoria durante il fascismo) decise di dedicargli una rotonda a Borgo Sabotino, e il Premio Strega Antonio Pennacchi commentò: “Questa vicenda dimostra che il problema non sono i fasci, ma gli stupidi. Una classe politica deficitaria su tutto pensa di rincuorare il proprio popolo agitando la bandiera della provocazione”. Ogni anno i Comuni italiani sono invasi da una pletora di richieste di intitolare corsi, viuzze, slarghi, rondò, piazze, monumenti e parchi a personaggi della storia recente o recentissima che non hanno ancora fatto pace con la Storia condivisa della nostra nazione, e forse non la faranno mai. Per lo più politici, ma anche vittime di abusi di polizia, giornalisti, intellettuali e artisti “divisivi” in vita e dopo la morte, specie se avvenuta da poco. La legge che presiede alle denominazioni toponomastiche è invece vecchissima: risale al 1927, e stabilisce che di norma non si possono intitolare carreggiate e piazze a persone decedute da meno di dieci anni, salvo deroghe e delibere di giunta degli Enti locali. Senza dimenticare che in Italia solo il 4 per cento della strade possiede un’identità femminile: per il resto, è il Risorgimento a dettare tuttora la linea. A intervalli regolari ci si contorce sulle intitolazioni viarie della discordia. A marzo il Comune siciliano di Acireale ha approvato l’intestazione della Cittadella dello sport a Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia negli anni ottanta, “esempio di una caparbia intelligenza che ha illuminato la sua città riservandole un posto di rilievo nel panorama nazionale” sostengono i pro: “reo confesso di Tangentopoli” rammentano gli altri. Un anno e mezzo fa la Giunta di Roma ha licenziato a larga maggioranza una mozione destinata ad assegnare a Stefano Cucchi una via o una piazza della capitale. Assumendo la sua odissea a "simbolo della necessità di riformare il sistema di procedura penale e penitenziale in senso garantista", sarà questo il testo della targa commemorativa: "Stefano Cucchi, ragazzo". Contrarissimo il solito Carlo Giovanardi. Un mese fa la commissione toponomastica di Cremona ha cassato la petizione presentata da un gruppo di cittadini per intitolare una strada alla giornalista e scrittrice toscana venuta a mancare il 15 settembre del 2006: “Oriana Fallaci è un personaggio che divide, un simbolo dello scontro di civiltà” ha annotato uno dei membri della commissione. Una vexata quaestio, questa relativa al rapporto tra l’autrice di “Un uomo” e “La rabbia e l’orgoglio” e le edizioni di Tuttocittà stampate dopo la sua morte: e se il sindaco di Firenze Dario Nardella ha ormai aperto ufficialmente a una prossima via o vicolo o piazzetta Fallaci, e a Milano le è stata “consacrata” un mese fa una sala del Pirellone, il Campidoglio ha respinto invece nel 2014 ogni possibilità. A meno che non diventi nelle prossime ore il cavallo di battaglia di uno degli aspiranti sindaci romani, in chiave anti-Meloni/Almirante. Analoga sorte maledetta è toccata a Bettino Craxi. La prima a pensare all’ex segretario socialista in chiave toponomastica fu, a dieci anni esatti dal suo trapasso, l’allora primo cittadino di Milano Letizia Moratti. I suoi successori però cambiarono subito discorso, e del nome dell’ex potentissimo segretario socialista non c’è traccia oggi nemmeno in qualche sottopasso della periferia milanese. Anche qui per trovare una via Craxi bisogna spostarsi in provincia, a Ragusa per esempio, o direttamente in qualche paesino dell’Italia profonda. E se è vero che la musica è una metafora perfetta della più dura lotta politica e di pensiero che sopravvive (anche a lungo) ai suoi artefici, due mesi fa il Comune di Napoli si è impegnato a intitolare tre rotatorie, nel quartiere Vomero, a mostri sacri come Roberto Murolo, Renato Carosone e Sergio Bruni. Meglio di niente, anche se i cultori della canzone napoletana desidererebbero magari un boulevard “Tu vuò fa l’americano”. Quantomeno sul solco di Capo D’Orlando, in provincia di Messina, dove nel 2002 è stato inaugurato il "Lungomare Luciano Ligabue, artista contemporaneo".

La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere, scrive Angelo Mincuzzi il 19 giugno 2016 su L’urlo del “Il Sole 24ore”. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate? “Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) non è stato ancora tradotto in italiano ma meriterebbe di esserlo se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia. Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto? Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello. Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco». Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata. È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre. Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista”. Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo. All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo. La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia. Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori. E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica. La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P”, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto. Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.

La diseguaglianza della giustizia, scrive Michele Ainis il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". La Giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l'analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all'altro del nostro territorio. E alle deficienze s'accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d'ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l'"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov'è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell'utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l'istituto dell'accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d'accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l'eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l'essenziale, l'informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c'è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l'essenziale. Un esempio? La giustizia, per l'appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s'addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l'usuale prospettiva. L'eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mo' di corollario, che l'applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell'accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l'universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extragiuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d'ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l'udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d'un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un'ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un po' distratti, meglio controllare. Con un'indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c'è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l'indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l'immagine d'un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d'udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d'arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c'è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c'era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d'un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l'arretrato.

I giudici arroccati nelle loro “garanzie” rendono la legge diseguale per tutti. Orlando sulla prescrizione e un libro della politologa Piana, scrive Marco Valerio Lo Prete il 28 Giugno 2016 su "Il Foglio”. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in visita ad alcuni uffici giudiziari siciliani, ha detto che “non esiste un nord e un sud nell’ambito della giustizia”. E quella che a una prima lettura potrebbe apparire come una carezza buonista a tutto il sistema, contiene in realtà un messaggio critico che gli addetti ai lavori hanno carpito. “Dalle performance legate alle prescrizioni, emerge che nello stesso paese, con le stesse leggi e spesso anche con le stesse condizioni materiali, ci sono uffici che hanno, rispetto ai procedimenti sottoposti, il 30-40 per cento di prescrizioni e altri che stanno sotto il 2 o l’1 per cento. E anche in questo caso non sono le solite Trento e Bolzano, che vengono sempre citate come realtà virtuose: sono spesso, invece, uffici del Mezzogiorno, uffici di frontiera che però sono in grado di dare una risposta perché nel corso del tempo hanno prodotto elementi di innovazione organizzativa”, ha detto Orlando. In altre parole: cari magistrati, rimboccatevi le maniche, perché tante delle attuali disfunzioni del pianeta giustizia non sono colpa del governo ladro ma dipendono da voi. E’ questa una delle riflessioni al centro dell’ultimo libro della politologa Daniela Piana, pubblicato dal Mulino e intitolato “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”. Con linguaggio scientifico, quasi asettico, la studiosa dell’Università di Bologna mette in dubbio che l’uguaglianza di fronte alla legge sia oggi garantita a tutto tondo nel nostro paese. Con indagini sul campo e dati alla mano, l’autrice sottolinea infatti che “il diritto garantisce” ma “la funzione rende reale ed effettiva tale garanzia. Fra il diritto e la funzione (rendere giustizia) intervengono diversi fattori”, che a loro volta influenzano “quelle variabili che rendono diseguale o potenzialmente diseguale l’accesso alla giustizia resa al cittadino e alla collettività”. Un procedimento di diritto del lavoro viene definito nel distretto di Milano in 280 giorni in media (meno di 10 mesi), contro i 1.371 giorni di media (quasi quattro anni) nel distretto di Bari; allo stesso tempo, all’interno del distretto di Milano, una causa di diritto della famiglia si chiude in 142 giorni a Busto Arsizio e 258 giorni a Milano, poi – nel distretto di Bari – in 447 giorni a Foggia e in 536 giorni a Trani. Per la politologa Piana “non trova riscontro nella realtà dei fatti” l’ipotesi che “maggiore è il numero dei magistrati che lavorano in un tribunale, maggiore la performance e minore il numero di giorni per definire i procedimenti”. Infatti “ad Ancona la scopertura dell’organico togato è del 17 per cento, mentre a Belluno del 18 per cento. I tempi medi del primo ufficio sono di 224 giorni, mentre nel secondo 326. Palermo ha una scopertura dell’organico togato dell’11 per cento, mentre Milano del 16 per cento. I tempi medi di Palermo sono 436, quelli di Milano 229”. Piuttosto sembra incidere di più, secondo Piana, il personale amministrativo presente nei tribunali. Anche qui, però, non è questione di “quantità”: “Il rapporto Cepej (del Consiglio d’Europa, ndr) pubblicato nel 2014 rileva che solo il 2,5 per cento del personale non togato (cioè del personale non appartenente al corpo dei magistrati) è specializzato in management”. Nel resto d’Europa va diversamente: il tentativo di offrire una risposta in termini di professionalità ed efficienza ha spinto gli uffici giudiziari di altri paesi, come l’Olanda, ad avvalersi sistematicamente di figure professionali specializzate in management e accounting. D’altronde mentre il budget allocato complessivamente per il comparto nel nostro paese è in linea con gli standard europei – l’1,5 per cento del pil, come in Germania, il doppio del Belgio (0,7), poco meno di Francia (1,9) e Paesi Bassi (2) –, noi ci caratterizziamo per una ripartizione delle stesse risorse particolarmente generosa verso il solo sistema giudiziario (i tribunali) e sparagnina invece nei confronti degli utenti (vedi per esempio il patrocinio a spese dello stato). “I dati del Cepej mostrano che nel 2008 l’Italia spende 1,9 euro per cittadino per l’accesso alla giustizia contro una media europea di 7,2”. Così non c’è da meravigliarsi se sui media hanno trovato eco negli ultimi anni le proteste per l’eliminazione di tutte le sezioni distaccate dei tribunali, come anche la cancellazione di 31 tribunali e di 31 procure, avviate dal governo Monti, mentre è passato quasi sotto silenzio il fatto che “le recenti analisi dell’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia istituito dal ministro della Giustizia Orlando (…) hanno mostrato che la revisione della geografia giudiziaria ha comportato un miglioramento generale dei tempi con cui vengono definiti i procedimenti”. E’ l’organizzazione, bellezza! La politologa Piana lo ripete e lo dimostra, senza addossare croci in maniera preconcetta, rilevando che anche la politica preferisce annunciare il cambiamento senza poi seguire da vicino “il governo del cambiamento”. La sorte della riforma Mastella docet: solo nel 2015, a otto anni dall’entrata in vigore di quella legge, il Consiglio superiore della magistratura ha stilato incentivi e meccanismi di valutazione previsti dal testo per gli incarichi diretti e semidirettivi. Ecco spiegato perché “l’Italia è un paese che si è lungamente qualificato per un alto grado di garanzie ordinamentali e processuali e al contempo per un basso rendimento nella risposta resa al cittadino”. Siamo il paese con le norme e le garanzie per i giudici “più belle del mondo” ma allo stesso tempo il paese più condannato dalle corti europee per la lunghezza dei processi e quello in cui sono peggiori gli indicatori oggettivi e soggettivi sullo stato di diritto.

Una giustizia giusta, fino a prova contraria, scrive Silvia Dalpane il 20 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Significativa la testimonianza dell'infermiera di Piombino, vittima di un vero e proprio processo mediatico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: «Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia». Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l'infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l'ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l'accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l'indagine della procura di Livorno: «Sono qui perchè spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all'amara constatazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali». Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L'Italia infatti è soltanto l'ottavo paese dell'Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: «Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti». Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: «Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l'intervento dell'inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato». L'ex presidente del consiglio indica negli Usa l'esempio da seguire: «Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l'appello è più lungo del primo grado: un'inciviltà difficile da comprendere e accettare». Dall'ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all'attualità: «Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all'interno di alcune categorie c'è ancora oggi dell'omertà». Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: «Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo». Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l'Italia è chiamata a ispirarsi: «Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all'Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l'anno». Non è mancato un riferimento all'indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: «Alcuni dirigenti di Standard & Poor's sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti». Per l'ex ministro della Giustizia Paola Severino l'Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: «La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell'asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l'avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l'applicazione delle regole vengono prima della repressione». Il presidente dell'Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: «Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d'innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L'opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino nè come vadano affrontate». Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all'università di Palermo: «Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull'attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo». Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. «Rappresentano un'esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all'ambito penale», ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all'impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: «Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L'Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese». Smentiti tanti luoghi comuni: «Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D'altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi...».

Chirico: «Il mio corpo è uno strumento di lotta...» Intervista di Errico Novi del 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Marco è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite». Bisogna essere sfacciati per mettersi a parlare di giustizia dalla parte degli indagati, per sfidare il mainstream forcaiolo. E ad Annalisa Chirico il coraggio non manca, l’entusiasmo neppure né una splendida indole pannelliana che «mi porta a considerare il mio corpo uno strumento di lotta: l’ho imparato da quel gigante che è Marco Pannella, certo». E adesso questa giornalista che con un’intervista a un togato del Csm è capace di far scoppiare un caso istituzionale da restare nella storia di Palazzo dei Marescialli, presiede un movimento che «intende promuovere una vera riforma del sistema giudiziario italiano». Si chiama “Fino a prova contraria”, è una specie di bandiera con su impresso l’articolo 27 della Costituzione e ha in programma un incontro per martedì prossimo a Palazzo Wedekind intitolato “Cambiamo la giustizia per cambiare l’Italia”, con il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il professor Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, oltre ai giuristi, imprenditori e magistrati che Annalisa ha coinvolto nella sua associazione.

Di questi tempi si rischia, a mettersi contro il mainstream giustizialista.

«Be’ ci sono polemiche persino per il fatto che alla presentazione interverrà Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che i pm continuano a inseguire armati di manette fino in Cassazione, e l’ex ergastolano Giuseppe Gulotta che si è fatto 22 anni di carcere prima di vedersi dichiarato innocente. Noi comunque non ci proponiamo come un’associazione di vittime della giustizia ma per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia del processo mediatico, un caso tutto italiano che si regge sulla commistione incestuosa tra giornalisti e magistrati».

Andate controvento.

«Sono contenta del riscontro che abbiamo trovato già dal giorno del battesimo a Villa Taverna con l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, mi pare che siamo già riusciti a conquistare una certa autorevolezza. Già ci riconoscono come movimento che si batte per una giustizia più efficiente in funzione di un Paese più competitivo. Sono soprattutto gli stranieri che hanno bisogno di essere rassicurati sul funzionamento del processo, in Italia. Gli americani sono rimasti choccati dal caso Amanda Knox. La grandissima parte dell’opinione pubblica Usa è rimasta incredula nello scoprire che con il sistema processuale italiano si può essere dichiarati innocenti dopo quattro anni di carcere. Ci sono altre vicende in cui il collegamento con il sistema economico è ancora più netto».

Ad esempio?

«Il caso Ilva, in cui un polo siderurgico di livello mondiale è già stato oggetto di sequestri di beni alle persone nonostante, dopo diversi anni, si sia ancora alle battute iniziali del processo».

Fai esempi che difficilmente possono intenerire l’opinione pubblica assetata di condanne.

«E invece io credo che già ora qualcosa tenda a cambiare. Ci sono episodi che segnano un passaggio, lo fu il cosiddetto referendum Tortora che raccolse un consenso fortissimo. Credo che oggi la battaglia in difesa delle garanzie per le persone indagate, degli imputati, possa far breccia nell’opinione pubblica. Anche grazie al fatto che il re, cioè la magistratura, è nudo».

A cosa ti riferisci.

«Agli episodi che hanno spezzato l’incantesimo del magistrato infallibile: penso a quando si è scoperto il valore degli immobili di Di Pietro, al capitombolo elettorale di Ingroia, alla giudice Silvana Saguto coinvolta nello scandalo di Palermo sui beni confiscati, a un caso come quello di Morosini che racconta in un’intervista come la corrente Md intenda impegnarsi contro il governo sul referendum costituzionale».

Quell’intervista c’è stata o no?

«Mi attengo alla prima smentita di Morosini, in cui parlò di colloquio informale che lui riteneva non avrebbe dovuto essere inteso come intervista».

Tu perché l’hai inteso come intervista?

«Perché a un certo punto ho cominciato a prendere appunti sul taccuino, e davo per scontato che lui avesse compreso la mia intenzione di riportare le sue parole. D’altronde mi era parso che lui potesse essere interessato a rendere pubbliche quelle considerazioni per giochi interni alla sua corrente».

E invece?

«E invece lui pensava che prendessi appunti chissà perché. Dopo il comunicato dell’Anm e l’intervento del guardasigilli ha pronunciato una smentita completa, per mettersi in salvo. Io a quel punto, per la simpatia che ho nei suoi confronti, sono rimasta silente».

Vi siete più sentiti?

«Come no. Siamo rimasti in buoni rapporti».

Davvero? Non ti ha sbranato al telefono?

«No. Sa che non ho infierito, né lo ha fatto il mio giornale, il Foglio».

I togati del Csm sono impreparati all’esposizione mediatica?

«I magistrati in generale usano la comunicazione benissimo. E ci riescono grazie al fatto che quasi tutti, a cominciare dai giornaloni, ben si guardano dal far loro le pulci come fanno con i politici».

Sei stata provocatoria con il libro Siamo tutte puttane, continui a esporti in modo temerario: esagero se dico che in questo sei un po’ pannelliana?

«Io mi considero pannelliana, considero il mio corpo uno strumento di lotta, l’ho imparato dai radicali, anche grazie al lavoro fatto all’Strasburgo quando Marco era deputato europeo. Lui è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite. Le cose che scrivo e che porto avanti costituiscono un unico habitat umano con il modo in cui vivo e le persone che conosco».

Ecco, ma prima o poi il Fatto ti toglierà la pelle di dosso.

«Il Fatto si è già occupato di me e dei miei fidanzati veri o presunti in varie occasioni. Ho molta simpatia per Marco Travaglio, un uomo eccentrico e incline allo spettacolo».

A proposito di simpatie: con Chicco Testa vi siete lasciati così male?

«Lasciati? Ma che dici?»

Lo hai scritto tu sul Giornale di Sallusti.

«Macché. È qui vicino a me mentre parlo al telefono. Quell’articolo aveva un tono letterario, parla di Becoming, il memoir della Williams su come si risorge dopo una separazione».

E se d’improvviso sparissi e ti limitassi a scrivere senza apparire mai?

«Non potrei mai scrivere semplicemente degli articoli. Porto avanti delle battaglie proprio perché scrivo quello che Annalisa pensa».

DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità… Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione… Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette...non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.

Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".

Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.

Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure.  Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.

E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte”, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:

Carlo Giuliani, 2001.  Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.

Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.

Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.

Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.

Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.

Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara: “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.

TORTURA DI STATO.

Firenze. Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.

Milano. Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto. Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti, intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.

Frosinone. In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006. I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.

Monza. Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.

Napoli. Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.

Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana. Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale. Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi. Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi. Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità. Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più. E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.

Detenuto suicida a Terni: la procura apre un’inchiesta, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de il Garantista. Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella di aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013. Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi «che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico». A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che «un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina». Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che «lo toglievano anche dal lavoro di barbiere». A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che si sarebbe impiccato se lo avessero chiuso; ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che «se non si impiccava, lo uccidevano loro». Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – i due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta «ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella». Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno «si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo». Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore «che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto». Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione. Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria, confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luce su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario- giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato “perfetto”.

E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo». Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri su “Il Garantista”. «Carissimi/e compagni/e, Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito! Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.»

Torture alla Diaz. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia, scrive Patrizio Gonella su “L’Espresso”. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia. A quattordici anni dalle brutalità della Diaz è arrivata la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Come già aveva scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in Italia non si può punire per tortura in quanto manca il crimine. Così i giudici di Strasburgo ci hanno condannato per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante ma anche perché a causa dell’assenza del delitto nel nostro codice in Italia vi è l’impunità per torturatori. Nei prossimi giorni la Camera discuterà la proposta di legge approvata oramai molti mesi fa al Senato. Non è il migliore dei testi. E’ incoerente rispetto al dettato Onu, eppure bastava tradurre dieci righe dall’inglese in italiano. Alla scuola Diaz e al carcere illegale di Bolzaneto si è ritenuto che si potesse instaurare uno stato di eccezione. Il film Diaz di Daniele Vicari ha il merito di avere fatto conoscere a molti giovani di oggi, che nel 2001 erano poco più che bambini, cosa accadde a Genova in quei giorni. Una vergogna nazionale. Uno Stato che non si è costituito parte civile nei procedimenti penali a Genova nei casi Diaz e Bolzaneto, ad Asti per le violenze in carcere, a Roma nel caso della morte di Stefano Cucchi, a Ferrara nel caso Aldrovandi, a Lecce nel caso Saturno etc. etc.. Non solo. Gli imputati in questi procedimenti penali hanno spesso fatto passi in avanti nella carriera nel corso del processo, o quanto meno non hanno subito alcuna sanzione disciplinare. Il messaggio è in questi casi devastante. E’ un messaggio inequivocabile di legittimazione e incentivazione alla perpetrazione di pratiche illegali di tortura. Un messaggio che serve a segnare la forza del potere punitivo incontenibile rispetto a ogni anelito illusorio e ingenuo di legalità democratica. Se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia una questione di mele marce. La tortura non è mai una questione di mele marce salvo non venga incrinato quello spirito di corpo che dal basso arriva sino all’alto e che si propaga dal singolo poliziotto sino alle più alte cariche istituzionali. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione di squadre e corpi speciali. Il crimine, anche quello più spietato, lo si deve sconfiggere nella legalità e con gli strumenti ordinari del diritto.

Morti di botte, il filo rosso. Da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli interrogatori, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”. Luigi Manconi insegna sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. È stato senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. È presidente dell'associazione 'A Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di isolamento del carcere di Perugia.

Cucchi, Uva, Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non chiarite. Ci sono novità?

«Ce ne sono, di positive e di negative, in tutti e tre i casi».

Da dove cominciamo?

«Cominciamo da una notizia positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».

Perché questa è una novità positiva?

«Il pubblico ministero aveva accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico: il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella morte vengano cercate altrove».

Dove, precisamente?

«Nella caserma dei carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».

Necessità di ulteriori approfondimenti, insomma.

«Assolutamente sì. Del resto secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai stato sentito in quattro anni».

Mai?

«Neanche una volta. Si tratta quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».

Con quale caso andiamo avanti?

«Con quello di Stefano Cucchi, per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».

Per stabilire cosa?

«Per rispondere all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».

La richiesta di nuova perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.

«Sì, ma ce n'è anche un'altra di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto in appello perché il fatto non sussiste».

E questo cosa significa?

«Significa che a vari livelli viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».

Uno scenario agghiacciante…

«Che si protrae anche nelle ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel momento lei riteneva ancora viva».

E sulla vicenda di Aldo Bianzino?

«Solo novità negative, purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».

Ad esempio?

«In una delle ultime udienze un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».

Sembra incredibile.

«Eppure è documentato in modo incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede si giudicava solo l'omissione di soccorso».

Facendo un passo indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che caratterizzano ognuna di esse?

«Certamente il fatto che uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».

Uno per tutti?

«La vicenda di Luciano Isidoro Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».

Anche in questo caso le violenza sarebbero avvenute in caserma?

«Sia in caserma che fuori. Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa».

Un percorso difficile?

«Sì, perché c'è sempre una spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli. Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “Licenza di tortura”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia: la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni, il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette...non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “colluttazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.  

Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.

Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di scomunicare “solo” i mafiosi. "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l'ostia", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”.  «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo». Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità" del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell'assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l'assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c'è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all'assessore: «Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia annuisce e prende appunti con un'assistente: «Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi». Nella sala c'è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c'è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell'inchino... (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all'abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr)». A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi?», si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: «Ci vogliono punire», dice. «Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male». Nella "sala della socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c'è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all'incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all'assessore le attività dell'istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un'ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l'ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».

Morto in carcere “per infarto” ma la famiglia: «Era pieno di lividi». Il trentottenne moldavo era detenuto a Terni, scrive Damiano Aliprandi il 18 Settembre 2018 su "Il Dubbio". È stato ritrovato senza vita nel carcere di Terni, ma i familiari non credono che si sia trattato di un infarto. Grazie ad alcuni dettagli pubblicati da Il Giornale, emergerebbero due fatti gravissimi: la denuncia di maltrattamenti e le cure mediche. Secondo quanto affermato dal quotidiano, il corpo dell’uomo sarebbe stato pieno di lividi e per questo la famiglia vuole vederci chiaro. Secondo i familiari, arrivati dalla Moldavia, la situazione era tranquilla quando sono andati a trovarlo in carcere. Il moldavo, 38enne, era stato arrestato a Milano, appena sceso dall’aereo che arrivava dal suo paese. «Aveva commesso un piccolo furto – ha detto un amico al quotidiano – e per questo era finito sotto processo. Lui non si presentò in aula e lasciò l’Italia e per questo fu condannato a un anno e otto mesi». A Terni era arrivato dopo due mesi di carcere a Milano e lì sarebbero cominciati i problemi: fino ad essere trovato cadavere nella sua cella il mattino del 14 settembre 2018. Da sei mesi, da quando era in carcere a Terni, aveva cominciato a lamentare dei dolori alla pancia. Era stato visitato, ma i medici non avrebbero riscontrato nulla e gli avrebbero somministrato un farmaco che, almeno a detta dell’amico, gli avrebbe provocato maggior dolore. L’uomo si è sempre lamentato delle pessime condizioni carcerarie: diceva alla sorella che le galere italiane erano peggio di quelle africane. I soldi che chiedeva alla sorella, che vive a Londra, a lui non sarebbero mai arrivati. Ancora ignote, invece, le cause del decesso. La famiglia ha chiesto di vedere il corpo e «all’inizio non volevano neanche farlo vedere ai genitori. Poi hanno cambiato idea. Era tutto pieno di lividi, con il sangue che usciva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie. Non può essere stato un infarto», dice sempre l’amico. Sul caso interviene pubblicamente anche la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini. «È stato pestato? Da chi? Oppure non ha ricevuto cure sanitarie? Chiederò al garante dei detenuti di approfondire e riferire alla Regione, intanto la Asl sta approfondendo la parte di sua competenza», ha scritto su Facebook. Se ci siano stati maltrattamenti è ancora tutto da verificare e presto si saprà di più, ma rimane l’allarme dal punto di vista sanitario. Il diritto alla salute sembra passare in secondo piano di fronte al sistema punitivo. Un altro caso, oltre a quello del carcere di Terni, riguarda Ciro Rigotti. Il detenuto sta morendo nel suo letto del reparto rianimazione all’ospedale Cardarelli: ha un tumore alla faccia e al cervello, che gli lascia poco tempo ancora da vivere. La malattia avrebbe presentato i primi sintomi quattro mesi fa, quando il 62enne, nella sua cella del carcere di Poggioreale (dove deve scontare nove anni per droga) ha avvertito i primi dolori all’orecchio, con conseguenti perdite di sangue dal naso. Secondo Nunzia, sua figlia, non ci sono dubbi: gli avrebbero somministrato antidolorifici e tamponato la perdita con dell’ovatta. Ma il dimagrimento sempre più forte del padre ha portato la famiglia a chiedere una visita specialistica, che ha riscontrato un polipo nel naso a metà luglio. Purtroppo, però, la tac richiesta è stata fatta solo una settimana fa ed ora è troppo tardi. Al fianco dei familiari, anche Pietro Ioia, presidente dell’associazione degli ex detenuti, che racconta come nel carcere di Poggioreale «quando scorre sangue a qualche detenuto», questo viene curato con «antidolorifici o la cosiddetta pillola di Padre Pio». E tutto ciò perché nel penitenziario napoletano «non ci sono medici specialistici per interventi celeri». La famiglia di Rigotti ha presentato un esposto alla Procura, che potrebbe aprire a breve un fascicolo per accertare eventuali responsabilità. Nel frattempo però Ciro Rigotti è ufficialmente detenuto e quindi, anche se è un malato terminale, non può ritornare a casa dove passare gli ultimi mesi circondato dall’affetto dei suoi cari. Di fatto è un detenuto, quindi i familiari possono vederlo solo di giovedì, così come accade in carcere per i colloqui.

Trento, si è suicidato in cella. Il perito: era idoneo alla reclusione. Arrestato per aver appiccato un incendio, aveva una precaria situazione psicofisica. Il Garante dei Detenuti, dopo una visita nella casa circondariale, ha denunciato alla Procura la situazione di alcune stanze della sezione di isolamento, segnalata da alcuni reclusi, scrive Damiano Aliprandi il 20 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Era stato portato al carcere trentino di Spini di Gardolo e messo nella cella dell’infermeria insieme a un altro detenuto. Tre giorni dopo il suo ingresso nella casa circondariale, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita impiccandosi al cancello della cella. La tragedia è accaduta nella notte di venerdì scorso e nel momento del suicidio, non solo c’era un unico agente per coprire quattro posti di servizio, ma soprattutto non c’era alcun medico o infermiere. Quando l’agente ha fatto visita alla cella, ha trovato l’uomo impiccato: per lui non c’era purtroppo nulla da fare. Eppure non doveva neppure starci in carcere visto il suo stato psicofisico mentale precario. Si chiamava Luca Soricelli e aveva trentacinque anni. Era stato arrestato lunedì notte dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto folle. Quando i carabinieri lo avevano fermato era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso di carburante le pompe del distributore e aveva appiccato il fuoco. L’intervento di uno dei gestori prima e quello dei vigili del fuoco poi aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono stati comunque ingenti. Dal momento dell’arresto non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità a essere rinchiuso in una cella. È stato processato per direttissima. Luca era risultato idoneo per il carcere. Talmente idoneo che si è poi impiccato con un lenzuolo intorno al collo. Eppure la storia di Luca, segnata dal disagio sociale che intaccato la sua capacità psichica, era cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. Eppure, prima della sentenza, è stato condotto preventivamente in carcere. Tre sono i motivi per giustificare la custodia cautelare: il pericolo di reiterazione del reato, il pericolo di fuga o l’inquinamento delle prove. Per una persona con problemi psichiatrici come Luca Soricelli, c’è solo il primo pericolo. Ma nei casi compiuti da persone con disturbi psichici esiste il trattamento sanitario obbligatorio. I detenuti a Trento, stando agli ultimi dati del Dap, sono 337. Secondo il Sappe l’organico è di 214 agenti, ma gli effettivi sono di fatto sono solo 108 e di questi molti vengono impiegati per i piantonamenti altasca l’ospedale. La notte della tragedia doveva esserci qualcuno a sorvegliare il trentacinquenne, ma l’agente incaricato doveva coprire quattro posti contemporaneamente. Pochi minuti di assenza e c’è stata l’impiccagione. Nel carcere di Trento, da quando è stato inaugurato, a fine gennaio 2011, sono avvenuti quattro suicidi. Ma c’è un altro problema che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha denunciato alla Procura. Nel suo rapporto racconta di aver visitato la sezione di isolamento. All’ingresso ci sono due stanze: una, a destra, utilizzata come magazzino, mentre un’altra, a sinistra (indicata come stanza 2706) trovata vuota, arredata solo con un armadio di metallo, che presentava sulla parete segni di colpi da cui partivano striature nere e sotto delle piccole macchie a forma di schizzi di colore bruno che potevano essere indicativi di sangue. Il comandante di reparto, presente al momento della visita, ha ipotizzato che il sangue, qualora accertato, potesse essere dovuto ad atti di autolesionismo. A questa stanza, la delegazione del garante, era arrivata su segnalazione di diversi detenuti: sia di alcuni ospitati a Trento nel giorno della visita, sia di altri non più detenuti a Trento e incontrati in altri Istituti, che avevano fornito convergenti indicazioni. La stanza era stata indicata come luogo in cui alcuni di essi avevano subito percosse da parte di personale della Polizia penitenziaria. Mauro Palma ha quindi chiesto che si faccia luce sulla natura e sull’origine delle macchie sul muro e di sapere quale sia ufficialmente l’uso della stanza 2706. Qualora si accerti che all’origine vi siano atti di autolesionismo, il Garante chiede di sapere perché persone a rischio siano state messe in una stanza non detentiva priva di qualsiasi arredo tipico di una stanza di pernottamento e non in infermeria o in una stanza dove sia possibile una continua osservazione. Qualora invece tale ipotesi non venisse confermata e le macchie risultassero di sangue, chiede che ne venga trasmessa informazione alla Procura della Repubblica, anche in considerazione delle altre denunce che questo stesso Garante ha ricevuto nonché di quanto apparso sulla stampa dopo una specifica audizione del responsabile sanitario da parte della Prima commissione del Consiglio della Provincia di Trento. La Procura, in seguito all’esposto, aveva aperto un’indagine. Recentemente però ha chiesto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo le accuse infondate. Ma il garante ha presentato opposizione. Ora si attende l’udienza davanti al gip.

Detenuto registra frasi shock: "Le botte ti saranno utili, la Costituzione non vale in questo carcere". Le parole degli agenti penitenziari: "Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima", scrive Maria Novella De Luca il 04 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c'è bisogno che ti picchio anch'io". Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, "ci vogliono il bastone e la carota". Un giorno di pugni e l'altro no, "così si ottengono risultati ottimi". E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto "il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima", e, dice ancora il brigadiere, "non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia. La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall'avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto. Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall'inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per "scassarlo" di botte, o il sovrintendente ammette: "questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Agente con accento napoletano: "Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto". Rachid: "Perché mi volevate picchiare". "Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù". Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama "brigadiere". Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria. Rachid registra e registra. Incalza anche: "Voi qui non applicate la Costituzione". La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva "fermati" all'agente che lo stava picchiando) è incredibile: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent'anni. In questo carcere la Costituzione non c'entra niente...". Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l'associazione "A buon diritto" di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti "si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l'istituzione carcere che non funziona". Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: "Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un'impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative". Rachid: "Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna". E il "superiore" invece di smentirlo difende l'uso della violenza come metodo rieducativo. "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi". Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi. Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, "disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti". Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l'associazione "A buon diritto": "Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata".

A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". La guardia carceraria si lascia andare: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da “l’Espresso”. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Neppure il medico è disposto a intervenire: «Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita». Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che «a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo “alla politica” di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni», dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. «La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare». Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio.

La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», ammetteva un poliziotto. Ecco gli audio in esclusiva acquisiti dalla magistratura, scrive ancora Giovanni Tizian su "L'Espresso". Un'inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l'anno scorso da “l'Espresso”, sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all'abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all'interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da “l'Espresso”, e acquisiti dai magistrati su richiesta dell'avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l'indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. «Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall'ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella». Nell'album fotografico mostrato ad Assarag durante l'interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall'ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c'è l'abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all'interno delle celle esistesse un'unica legge, non scritta: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare.  L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». Assarag è assistito dall'avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Il legale, in una memoria, scrive: «A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani.

C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso". Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento. Il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul “Giornale” scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è “L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti”. Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): «Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo il Giornale, Anselmo «il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica». Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia». Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati “mediatici” avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla “Nuova Ferrara”, Anselmo dice: «senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi» e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce “morti di Stato”, persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio.

CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.

La condizione di “Condannati preventivi”. Le manette facili di uno stato fuorilegge.

Quando in uno Stato, che si definisce “Culla del Diritto”, la metà dei suoi detenuti in carcere sono innocenti e nessuno dei ben pensanti liberi e criminali impuniti se ne “fotte”, allora è uno Stato che non merita rispetto. Non meritano rispetto nemmeno la massa che lo abita e che si accapiglia solo sui soldi e non sui valori civili e sulla la dignità umana.

Parlar con il popolino non conviene, questo sa più della laurea che tieni. Su questi argomenti è sempre negazione, perché?!? Perché l’ha detto la televisione!!!” (parte di una poesia di Antonio Giangrande). Si scrive per i posteri affinchè si ridia onore a chi oggi onore non ha.

E SE UN DOMANI IL DANNATO FOSSI TU !!!

Quasi un detenuto su due è recluso nelle galere italiane in regime di custodia cautelare. In altre parole, carcere preventivo. La detenzione dietro le sbarre in assenza di una sentenza di condanna ha assunto dimensioni abnormi, che sono valse al nostro Paese la maglia nera in Europa. Se oggi in Italia è più facile andare in carcere in assenza che non a seguito di una condanna; se i processi hanno una durata elefantiaca e spesso un’estinzione quasi certa; se quintali di carcere preventivo in celle dove può succedere di tutto, e di tutto infatti vi succede, vengono dispensati senza che vi sia un meccanismo efficace per ottenere riparazione in caso di ingiusta detenzione; se oggi un magistrato può spedirti dietro le sbarre con una formuletta di rito senza che tu abbia alcun mezzo per difenderti (anzi spesso la detenzione ostacola l’articolazione di una vera difesa); se tutto questo è vero, allora esiste un problema.

Esiste un Caso Italia. Le manette strette ai polsi di presunti colpevoli ci paiono la norma. Ma di normale non c’è nulla.

ConDANNATI preventivi”: Se il carcere preventivo è abuso.

Questo è libro di Annalisa Chirico.

Adriana è la badante romena accusata dell’omicidio di un’anziana: 3 anni di carcere e poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste, la vecchia è morta d’infarto. Elizabeth è considerata la referente italiana di un cartello internazionale di droghe: quattro anni di galera seguiti da altri sei con obbligo di dimora, poi l’assoluzione e il ricongiungimento con la figlia salutata dieci anni prima in Colombia.

Sono alcune delle storie che racconto in “ConDANNATI preventivi”, che non è un libro sul carcere ma sulla giustizia in Italia. Attraverso casi più o meno noti (da Alfonso Papa a Raffaele Sollecito, da Lele Mora a Silvio Scaglia) si accende una luce sui nodi irrisolti della giustizia italiana, un vero manicomio dove è più facile finire in galera prima della condanna e poi uscire una volta condannati. Da strumento di cautela processuale la custodia cautelare dietro le sbarre è diventata anticipazione della pena e mezzo per estorcere confessioni. E’ l’antidoto alla irragionevole durata dei processi. Il 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, la metà di questi sarà dichiarata innocente. Nel 2011 lo Stato italiano ha versato 46 milioni di euro per ingiusta detenzione, 235 euro è il prezzo di un giorno di libertà negato. Dal 1988, anno dell’entrata in vigore della legge Vassalli, ad oggi le condanne irrogate nei confronti di magistrati per dolo o colpa grave sono state quattro in tutto. Avete capito bene. Condannati preventivi – Le manette facili di uno Stato fuorilegge” di Annalisa Chirico è un pamphlet di denuncia, scritto con linguaggio battagliero e polemico, spesso esuberante, scrive Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali”. L’autrice, del comitato nazionale di Radicali Italiani, scrive su “Panorama” e “Il Giornale”; ha affidato la prefazione del suo lavoro a Vittorio Feltri e la postfazione di Giorgio Mulè, attuale direttore di “Panorama”. Nella sue due paginette, Feltri si pronuncia per l’amnistia come condizione per rientrare nella legalità, definisce le carceri un “museo degli orrori” ed elogia i Radicali. Anche Annalisa Chirico utilizza l’intero armamentario lessicale tipicamente pannelliano: tortura legalizzata, Stato criminale, Corte costituzionale come “suprema cupola della mafiosità partitocratica” e via dicendo; cita di continuo Pannella, D’Elia, Bernardini, Arena, “Radio Carcere” e “Radio Radicale”. La prima parte del libro è sicuramente la più interessante e istruttiva: 70 pagine in cui scorrono molti protagonisti, noti e meno noti, delle cronache e degli orrori giudiziari italiani. Si comincia con il deputato Alfonso Papa, che sottolinea le “scorrettezze” sia del Parlamento, sia dei magistrati (a partire dagli interrogatori) per finire con le condizioni di vita nell’inferno di Poggioreale. Poi via via tutti gli altri, ognuno dei quali descrive un aspetto particolarmente scandaloso e tragico. Lele Mora che perde 35 chili e fa 400 giorni di carcere preventivo per bancarotta. I giornali si chiedono: “Quanto c’è di vero nella sua conversione morale?” invece di interrogarsi sul trattamento cui è stato sottoposto. Poi si parla di “Giancarlo” accusato di una scalata alla Lazio che non ha mai tentato, e di Silvio Scaglia, uno degli italiani più ricchi, che dalle Antille affitta un aereo privato per attraversare l’Atlantico e presentarsi al giudice e viene incarcerato per il “pericolo di fuga e inquinamento delle prove”. Si racconta di una sconosciuta Elisabeth accusata di narcotraffico, incontrata da Sergio D’Elia e difesa dagli avvocati radicali Caiazza e Rossodivita, completamente scagionata dopo 9 processi nel corso di 13 anni. Quando le dicono “Lei è libera” si chiede: “E adesso cosa faccio? Dove vado?”. Amanda Knox e Salvatore Sollecito (delitto Meredith, Perugia) totalizzano 1450 giorni di carcere in due, per poi essere assolti con grande ira popolare. Amanda accusa Patrice Lumumba (che per sua fortuna ha un alibi di ferro) ma ritratta subito: ha fatto il suo nome solo perché distrutta da un interrogatorio/tortura. In attesa di giudizio le vengono negati i domiciliari con la motivazione che non avrebbe dimostrato “rimorso” (!?!?). Adriana, badante rumena, viene accusata di avere ucciso la vecchia che assisteva: tre anni dentro, per poi scoprire che già l’autopsia aveva dimostrato la morte per infarto: il fatto non sussiste. Massimiliano Clerico si fa il carcere per calunnia (?!?!?!) mentre le lettere anonime calunniose le aveva mandate un altro: è assolto ma la sua ditta intanto fallisce. Renato Raimondi fa un giorno di carcere, il Gip non convalida l’arresto: rimborso minimo 235,82 euro. Lo Stato gliene versa 200 poi Equitalia gli chiede 136,05 euro di tassa per la registrazione della sentenza in Cassazione. Dopo l’assoluzione definitiva riceverà un rimborso di 3.000 euro. Daniela, prostituta sieropositiva, viene accusata di “tentate lesioni volontarie gravissime” per avere avuto rapporti non protetti. Ma negligenza e imprudenza non possono essere “tentate”, il reato può essere solo doloso e non colposo.

Assolta, chiede l’indennizzo ma le viene negato: la sua condotta è comunque “riprovevole”, il giudizio morale prevale sul diritto. P.O. viene arrestato per droga, è pluri-pregiudicato ma questa volta non c’entra. Viene assolto, lo Stato è condannato a rimborsare entro 120 giorni ma inizia una guerra di carte bollate, riceve i soldi solo 6 anni e mezzo dopo. Salvatore Ferraro è un caso notissimo (delitto Marta Russo, Sapienza Roma). Chirico racconta l’interrogatorio scandaloso della testimone Alletto (tutta l’Italia lo ha visto nella videocassetta di Panorama) che dice: “Io in quell’aula non c’ero, mi prenderanno per pazza”, e il pm: “No, la prenderemo per omicida.

Lei entra in carcere e non esce più”. Così la Alletto accusa Scattone e Ferraro. Il Tribunale del riesame respinge l’istanza di scarcerazione scrivendo che “il movente sta nell’assenza di movente”. Anche Liparota, altro testimone, prima conferma la (estorta) testimonianza della Alletto, poi ritratta dicendo di essere stato costretto dalle eccessive pressioni. Ferraro sta in carcere fino alla condanna, poi appena condannato... esce: una giustizia folle, alla rovescia. Se avesse confessato il falso, accusando Scattone, sarebbe uscito subito. Dulcis in fundo, a Ferraro viene chiesto dall’Università un milione di euro di risarcimento danni. In realtà deve pagarli Scattone ma il giudice... si è sbagliato, ha confuso i due. Eh già, il giudice si è sbagliato, sorride amaro Ferraro. Aldo Scardella si impicca a 24 anni nel carcere di Cagliari nel 1986. Lo avevano sbattuto dentro perché sospettato di una rapina ma non c’entrava nulla, i veri colpevoli saranno trovati e condannati molti anni dopo. Il suo suicidio è un omicidio di Stato. Procuratore capo, giudice istruttore e Pm si rimpallano le responsabilità per la decisione dell’isolamento. Emergono i pessimi rapporti interni al Tribunale, le polemiche, le rivalità personali. A Scardella è intestata una piazza cittadina. Infine Giuliano Naria, il cui caso è notissimo, la più lunga custodia cautelare della storia d’Italia, morto di cancro a 50 anni.

La seconda parte del libro è meno interessante, più ripetitiva.

L’autrice ricorda Enzo Tortora, ma anche Clementina Forleo che nel ’94 assolve Melluso dalla querela per diffamazione perché, al di là di quanto stabilito dal processo, “i fatti potrebbero essere andati diversamente”. Si descrivono le carceri come “discarica sociale”, “fabbrica di mostri”, luoghi di pena corporale eccetera. Ci si dilunga sulle motivazioni che dovrebbero giustificare la carcerazione preventiva – gravi indizi di colpevolezza, pericolo di fuga, reiterazione e inquinamento delle prove – per dimostrarne il mancato rispetto e l’intima incongruenza con il dettato costituzionale. Si denuncia la non terzietà del giudice e la mancata separazione delle carriere, le ripetute condanne in sede europea. Si ricorda la vicenda giudiziaria di Corrado Carnevale, accusato di complicità con la mafia e poi assolto da tutto. Si denuncia la giustizia per campagne emergenziali: prima il terrorismo, poi la mafia, poi ancora la corruzione politica. Tangentopoli viene descritta come un golpe moralizzatore a opera del “partito dei magistrati” (Mellini) Un magistrato, Marcello Maddalena, parla di “momento magico” dopo l’arresto, quando “l’arrestato si preoccupa meno della solidarietà nei confronti dei correi e più della rapida conclusione della sua disavventura”.

Le ultime pagine parlano del reato di stupro e di una magistratura che opera con il fiato sul collo degli umori popolari, montati dalla televisione. Un paragrafo è dedicato al braccialetto elettronico, misura mai decollata nonostante le ingenti somme investite (100 milioni spesi, 10 braccialetti sperimentati in tutto) mentre in altri paesi funziona perfettamente: 100.000 in Usa, 60.000 nel Regno Unito. Nelle conclusioni, Chirico cita ancora Pannella: l’amnistia contro la “flagranza criminale”, le prescrizioni come amnistia strisciante e di classe. Secondo l’autrice, la carcerazione preventiva va impedita tout court, completamente e per tutti, le carriere separate, l’obbligatorietà dell’azione penale abolita, le leggi ex-Cirielli e Fini-Giovanardi abrogate (37% di detenuti in Italia per reati connessi alla droga, contro una media europea del 15%). Per contro, la legge Vassalli sulla responsabilità non è mai stata veramente applicata: dal 1988, 406 cause avviate, 34 dichiarate ammissibili e solo 4 concluse con una condanna. L’autrice propone l’istituto della sospensione della pena e messa in prova del detenuto e l’introduzione delle liste d’attesa per le carceri (come in Norvegia) con arresto domiciliare. Sicuramente l’attitudine della giovane autrice (classe 1986) di parlare in prima persona e di rivolgersi direttamente ai lettori (“Tendono le mani attraverso le sbarre, a te si aggrappano e tu ti senti così piccola, così impotente”; “Non prendetelo come un invito all’eversione ma come un monito: qui ci stanno fregando, ora lo sapete”; “Dovrebbe preoccuparci tutti. Io sono preoccupata, non so voi”) non contribuisce ad accrescerne l’autorevolezza. Piccoli peccati di presunzione che Annalisa Chirico saprà presto lasciarsi alle spalle, nel corso della brillante carriera giornalistica e politica che sicuramente l’aspetta.

«Il carcere preventivo? Una vergogna italiana», scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”.

«Lo Stato italiano sottrae pezzi di vita più o meno ampi a cittadini innocenti». Alfonso Papa, magistrato e deputato del Pdl, dopo essersi fatto nel 2011 ben 157 giorni di reclusione, 101 dei quali in carcere, per un presunto coinvolgimento nell'inchiesta sulla P4, si occupa a tempo pieno della condizione carceraria. E ha idee molto chiare su come la carcerazione preventiva rappresenti nel nostro Paese uno strumento di tortura.

Papa, davvero la carcerazione preventiva è una stortura tutta italiana?

«Guardi, in nessun Paese democratico vi si fa ricorso in modo così massiccio. Le statistiche ci dicono che il 43 per cento dei detenuti sono soggetti in attesa di giudizio e per cui vale quindi la presunzione di innocenza. E che di questi il 50 per cento è poi riconosciuto non colpevole già nel giudizio di primo grado. Per questo sostengo che lo Stato rubi pezzi di vita». Pezzi di vita trascorsi peraltro in condizioni disastrose. I detenuti italiani hanno a disposizione meno di 3 metri quadri l'uno, collocandosi a metà strada tra quanto la legge stabilisce per le salme (1 mq) e i maiali di allevamento (3 mq). Non a caso nelle carceri italiane c'è un morto ogni cinque giorni, quasi tutti suicidi. L'Italia ripudia la pena di morte ma non nelle proprie galere. Inoltre per chi subisce la carcerazione preventiva la tortura è doppia: difficilmente infatti esce di prigione migliore di quanto era prima».

La responsabilità di tutto ciò è soltanto della magistratura?

«Certo fa riflettere il modo in cui la magistratura metta in atto alcuni meccanismi di autodifesa. Ma anche la classe politica deve vergognarsi un po', Pdl compreso. Anche se la carcerazione preventiva può essere uno di quei temi di civiltà con il quale il Pdl potrebbe riempire un momento di vuoto politico. Sono convinto che non siano i Fiorito a uccidere la politica italiana, ma la mancanza di battaglie per gli ideali».

Lei ha costituito il comitato per la prepotente urgenza. Che cos'è?

«Intanto il nome: fu il Presidente della Repubblica a parlare un anno e mezzo fa di prepotente urgenza a proposito della situazione carceraria, salvo poi occuparsi di tutto in quest'ultimo anno e mezzo, compreso sostituire un governo scelto dal popolo con uno non eletto, tranne che di questa prepotente urgenza. Riuniamo diverse associazioni che vogliono costituire una fondazione per l'applicazione dell'articolo 27 della Costituzione. Con noi collaborano persone come Lele Mora. Personalmente ho presentato un progetto di legge contro l'abuso della carcerazione preventiva e visito un carcere all'incirca ogni dieci giorni. E sono sicuro che col tempo le coscienze si smuoveranno».

Anche il nostro (ex) direttore Alessandro Sallusti rischia di finire in galera.

«Il caso Sallusti è la punta dell'iceberg di questo gulag che è diventato l'Italia. In nessun Paese esiste il carcere per un reato intellettuale, di opinione, per di più non commesso personalmente ma in base al principio della responsabilità oggettiva. Lascia sbigottiti la volontà di emanare una condanna esemplare che va a colpire chissà perché Sallusti prevedendone niente di meno che la pericolosità sociale. Questa è una vicenda importante, che ci fa riflettere sull'assoluta mancanza di democrazia nel nostro Paese. E che soprattutto ci mostra in quale modo lugubre e medievale il carcere, la gattabuia, venga evocata come vera risposta per tutti quei comportamenti non condivisi. Anche se poi il problema vero non sono i Papa o i Sallusti, ma le migliaia di persone senza volto, senza dignità, che sono la vera carne al macero del sistema carcerario italiano».

Tortura. Al parlamento Ue con il dossier sul «caso Italia», scrive Giuliano Santoro il 12.03.2016 su il “Manifesto”. Sono i familiari delle vittime di abusi polizieschi. Le istituzioni dovrebbero chiedere loro scusa. Ma per avere udienza, dovranno oltrepassare i confini nazionali e arrivare fino a Bruxelles. Lo faranno il 15 marzo prossimo, quando – in occasione della Giornata internazionale contro la violenza poliziesca – una nutrita delegazione porterà al Parlamento europeo le storie di mala polizia. Le ha raccolte in un dossier Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che organizza la missione belga assieme all’eurodeputata della Sinistra unitaria europea Eleonora Forenza. Ci saranno i volti e le storie tragiche dei parenti delle vittime, che hanno dovuto sfidare il silenzio per rivendicare giustizia: Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Lucia Uva (sorella di Giuseppe), Claudia Budroni (sorella di Dino), Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni), Domenica Ferrulli (figlia di Michele), Andrea Magherini (fratello di Riccardo) e Osvaldo Casalnuovo (padre di Massimo). «Vogliamo portare in Europa quella che chiamiamo l’anomalia italiana – spiega Luca Blasi di Acad – fatta di torture, alimentata da un sistema penale sbilanciato, coltivata dalle emergenze permanenti. I casi che in questi anni abbiamo seguito non sono opera di qualche mela marcia ma sintomo di un deficit strutturale nei corpi di polizia e nella macchina delle giustizia. Chi calpesta i diritti gode di appoggi mediatici, coperture giuridiche e sostegno politico. Prova ne è la mancanza di una legge sul reato di tortura». Impossibile non menzionare gli abusi commessi nei giorni del G8 di Genova. Eleonora Forenza quindici anni fa era in quelle strade, da giovanissima manifestante. Presentando l’iniziativa dell’audizione, ci tiene a sottolineare come la repressione colpisca in tutta l’Europa. Basti pensare ai casi delle leggi contro i movimenti in Spagna, alla violazione dei diritti dei migranti e alle deroghe al diritto dello stato d’emergenza in Francia. «Tutto ciò – dice la parlamentare europea – è anche l’altra faccia dell’austerità. È in questo contesto che si dipana il ‘caso Italia’ con le sue specificità». Ilaria Cucchi ammette che in passato aveva osservato queste faccende con un certo distacco. «Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me, di perdere un fratello e di dover sfidare la rete di omertà e i muri di gomma degli apparati di sicurezza». Adesso i parenti in cerca di giustizia si conoscono e si sostengono a vicenda. Molti casi giudiziari vengono seguiti dall’avvocato Fabio Anselmo, che confessa che la missione di Bruxelles è al tempo stesso «un atto di fiducia e anche una mossa di disperazione». Anselmo ha sperimentato in questi anni l’importanza della comunicazione e del rapporto con l’opinione pubblica. Se n’è accorto quando prese in mano le carte del primo caso d’abuso. Riccardo Rasman, trentaquattrenne con problemi psichici, venne ucciso a Trieste da tre poliziotti nell’ottobre del 2006. «Il caso stava per essere archiviato – rievoca Anselmo – Ma grazie ad un’interpellanza parlamentare finì sulle pagine dei giornali locali e il corso degli eventi mutò. Per la prima volta in vita mia assistetti alla revoca di un’archiviazione e poi alla condanna, seppure lieve, degli agenti coinvolti». A distanza di dieci anni, con in mezzo le tante facce della Spoon River carceraria e repressiva, ecco l’ultima storia di violenza in divisa seguita da Anselmo. La vittima si chiama Rachid Assarag. È un detenuto che ha denunciato pestaggi nelle carceri di Parma, Prato e Firenze. Per di più, Assarag è riuscito a registrare le voci di agenti, medici, operatori e psicologi all’interno del carcere: gli dicono che è inutile denunciare e in qualche caso lo minacciano spiegandogli che in carcere non valgono le garanzie minime. Proprio ieri, il tribunale di Parma ha riconosciuto come rilevanti le registrazioni avventurosamente raccolte dall’uomo, disponendo una perizia che cerchi di associare a quelle parole inquietanti dei volti e delle responsabilità. Assarag si è presentato dal giudice in sedia a rotelle, coi segni di un nuovo, ennesimo pestaggio compiuto alla vigilia dell’apparizione in tribunale. Del suo caso e di tanti, troppi altri, si parlerà la settimana prossima a Bruxelles.

L’8 Marzo 2016, Festa della Donna, è andato in onda un servizio di “Le Iene” realizzato da Matteo Viviani in cui si parla di un problema sempre di grande attualità: le torture nelle carceri italiane. Come mai queste cose succedono nelle carceri? Perché lì non esistono leggi dice l’intervistato. Matteo Viviani per realizzare questo servizio di “Le Iene” ha intervistato un ex Agente di Polizia Penitenziaria e un ex detenuto del carcere di Asti i quali hanno raccontato all’inviato Mediaset quello che accade all’interno delle mura della prigione in questione (ma molto probabilmente in tutte), lontano dalle telecamere di sorveglianza, da qualsiasi forma di testimonianza e soprattutto dalla legge, dato che il nostro codice penale non prevede il reato di tortura. Punizioni e torture, tra cazzotti e bastonate e angherie di altro tipo nei racconti di Andrea Franciulli, ex guardia carceraria, e Andrea Cirino, ex detenuto carcerario. I racconti trascendono nella terribile storia di un giovane ragazzo di circa 30 anni lasciato morire di fame in carcere e successivamente proclamato innocente dalla magistratura.

Servizio shock di Viviani a Le Iene; lontano dalle telecamere di sorveglianza il racconto di atrocità commesse in carcere, scrive Roberto Accurso. Un servizio che non ha tardato nel fare discutere molto quello di Viviani a Le Iene, che racconta la cruda realtà delle carceri italiane. Un ex Agente e un ex detenuto del carcere di Asti raccontano infatti all’inviato del programma d’inchiesta di Italia 1 quello che accade all’interno delle mura della prigione, lontano dalle telecamere di sorveglianza, e da qualsiasi vincolo legislativo. Il codice penale non prevede assolutamente infatti il reato di tortura ma ciò che spesso succede è che si oltrepassino i limiti e che non siano più garantiti alcuni diritti fondamentali ai detenuti. Il racconto ha scatenato subito un grande tam tam sui social network, facendo interrogare in molti sulla gravità dell’accaduto. Se infatti il servizio mostra la testimonianza di ciò che è accaduto nel carcere di Asti, con molta probabilità si avvicina alla situazione tragica di molti altri istituti di detenzione.

Cucchi, Uva, Magherini: “Autonomia dei magistrati non sia impunità". Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: "Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare?", scrive la Redazione di “Blitz Quotidiano”. Sul tema della responsabilità dei magistrati, Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva, i cui cognomi corrispondono ai casi di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini hanno scritto una lettera aperta a Rodolfo Sabelli, presidente della Associazione Nazionale Magistrati (ANM), che è stata pubblicata dal Fatto nella sua edizione di domenica 15 giugno col titolo: “Da Cucchi a Uva: anche i pm devono pagare”. Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: “Caro dottor Rodolfo Sabelli, scriviamo per conto dei nostri cari Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini. Vogliamo mettere in chiaro che, nonostante lo Stato ci abbia riconsegnato i nostri cari affidati alla sua custodia come cadaveri, noi non abbiamo in alcun modo perso la fiducia nelle Sue istituzioni e, tantomeno, la nostra fede democratica. Noi riteniamo che l’indipendenza della magistratura sia un valore essenziale per il suo buon funzionamento e irrinunciabile per un Paese civile e democratico. Ci consenta però di dirle che noi guardiamo l’associazione che lei rappresenta da una prospettiva privilegiata. Privilegiata dalle tragedie che le nostre famiglie si sono trovate a dover affrontare. Noi crediamo di poter serenamente dire che dietro questi sacrosanti principi di autonomia e indipendenza si celano fenomeni di totale deresponsabilizzazione, quando non addirittura impunità. Noi ammiriamo quei pm che quotidianamente e in silenzio rendono con onestà e professionalità un servizio indispensabile al civile vivere insieme. Che mettono a repentaglio la loro vita. Che sono innamorati della Giustizia. Sono tanti. Tutti o quasi tutti. Ecco noi dobbiamo esprimerle, nel nostro piccolo, tutte le nostre perplessità su quanto succede, o meglio non succede, quando si verifica quel quasi. Se per esempio a Varese un pm paralizza un’indagine per 5 anni con comportamenti sistematicamente censurati da tutti i giudici di volta in volta interpellati. Se questo pm trasforma la sua funzione in un esercizio di potere fine a se stesso arrivando a umiliare e offendere i familiari della vittima fino a esser sottoposto a procedimento disciplinare. Se a Firenze un altro pm, in occasione di una morte sospetta di un ragazzo di 40 anni in mano ai carabinieri, si dimentica di andare sul posto per effettuare le prime indagini delegandole agli stessi carabinieri. Sa a Roma un pm e un giudice, nonostante abbiano di fronte un ragazzo ferito a botte e palesemente sofferente – tanto che morì sei giorni dopo – non se ne accorgono e nemmeno lo guardano in faccia sbattendolo in galera come un albanese senza fissa dimora, quando invece è cittadino italiano con regolare residenza. Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare? Le anomalie della Procura di Varese sono note a tutti.  Che a Firenze sia stato necessario che la famiglia di Riccardo Magherini tenesse per scelta la salma del proprio caro in una cella frigorifera per oltre tre mesi, per consentire al pm di svegliarsi, sequestrarla, iscrivere i protagonisti del suo scellerato fermo sul registro degli indagati e procedere poi alle operazioni post autoptiche, è ormai arcinoto. Che a Roma, a causa di quella “collettiva distrazione” sia iniziato il calvario del povero Stefano, terminato con la sua morte nelle terribili condizioni che sappiamo, è ancora arcinoto. Ma a quei pm nulla ma proprio nulla è accaduto. La prova? Venga a Varese il 30 giugno prossimo. Venga con noi. E si preoccupi perché proprio l’impunità di quei comportamenti può costituire il maggior pericolo per l’autonomia e indipendenza che tanto a cuore sta a noi tutti”.

Ma la gente sa cosa succede nei tribunali?

Una sentenza che brucia forte, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ieri la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il reato di tortura condotta dallo Stato. Il riferimento è ai fatti di Genova del 2001, ma la condanna è molto più vasta. Dice che abbiamo leggi medievali, che vanno cambiate ma nessuno si decide a cambiarle, ed è sulla base di quelle leggi che non è stato possibile punire i responsabili del massacro di Genova, e -sempre sulla base di quelle leggi – la polizia ha la possibilità di tornare a torturare, e in effetti ci sono stati dopo Genova – Cucchi, Aldovrandi, Bianzino, Uva, Bifolco… – molti casi noti di tortura e chissà quanti restati segreti. La sentenza della Corte Europea getta un ombra di vergogna sul nostro paese. E soprattutto sui giorni infernali del luglio 2001 a Genova. La polizia e i carabinieri si scatenarono, uccisero un ragazzo, ne ferirono centinaia, la maggior parte giovanissimi, inermi, pacifici. La città per tre giorni fu in mano a un terrore poliziesco che fu definito (da un poliziotto pentito) “macelleria messicana”, e dal moderato leader dei ds, massimo D’Alema “notte cilena”. Sembrava di stare in America latina. Nessuna istituzione reagiva, nessun partito, nessuno cercava di fermare la furia di Stato. E’ stata la pagina più nera scritta dal governo Berlusconi nei circa dieci anni nei quali è stato al potere (alternandosi con Prodi). La sinistra non glielo ha mai rinfacciato, perché non gli sembrava così grave. La sinistra, in questi vent’anni, si è occupata molto di più delle avventure amorose di Berlusconi. E, in buona fede, ha creduto che a rovinare l’immagine dell’Italia sia stata Ruby, e non la ferocia dei poliziotti della mattanza di Genova. Del resto la sinistra – il partito dei Ds, più precisamente – si schierò contro il movimento no-global in quelle giornate, e addirittura, dopo l’uccisione da parte dei carabinieri di Carlo Giuliani – 23 anni, abbattuto a revolverate – ritirò l’adesione al corteo del giorno dopo. Fu un corteo oceanico: giovani, sindacalisti della Fiom, moltissimi cattolici, preti suore: ma la Cgil e i Ds non c’erano e il segretario dei Ds (che era Fassino) se la prendeva coi black block, non con la polizia. E neppure se la prendeva col vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, ex- fascista, che in quei giorni ebbe un rigurgito della sua vecchia ideologia e si piazzò in caserma, a Genova, a guidare personalmente la polizia scatenata. Non è stato mai chiaro del tutto chi e perché volle quella vergogna poliziesca. La polizia stessa, i carabinieri, gli ex-fascisti di Fini, Berlusconi in persona, l’America che partecipava al G8 col suo presidente Bush? Mistero. Certo è che i tempi erano molto aspri in Italia. Qualche mese prima, in marzo, quando il governo Berlusconi ancora non c’era e al governo c’era l’Ulivo di Prodi e il ministero dell’Interno era Enzo Bianco, della Margherita, a Napoli era successo qualcosa di molto simile a quello che poi successe a Genova. I no-global furono chiusi in piazza Plebiscito, fu resa loro impossibile la fuga, e poi furono bastonati per ore. Molti furono portati poi in caserma e bastonati ancora, torturati come a Genova. Genova provocò un sussulto, in Italia, che durò più o meno un mese. In Parlamento la sinistra si arrabbiò un po’. Poi finì tutto: il movimento no- global, che era un movimento politico, di alternativa, fu sostituito dai Girotondi, un movimento molto vasto, in mano alla magistratura e ai giornali (soprattutto Repubblica). Il movimento dei girotondi spazzò via i temi politici posti dai no-global e concentrò l’attenzione dell’opposizione sulle questioni giudiziarie di Berlusconi. Nessuno chiese le dimissioni di Berlusconi per la mattanza di Genova – né tantomeno di Fini – ma per il Lodo Alfano…La Corte Europea, con una quindicina d’anni di ritardo, si è pronunciata. E lo ha fatto sulla base di un ricorso presentato da un singolo cittadino, Arnaldo Cestaro, che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Cestaro, quella notte del 22 luglio, stava dormendo tranquillo all’interno della scuola Diaz – chiusa per le vacanze estive – che era stata concessa all’organizzazione del contro-G8 per ospitare i “forestieri”. Il contro-G8 era stato convocato da un gran numero di movimenti no global, pacifisti, sindacali e cattolici, per contestare la riunione del G8 (cioè dei capi di Stato delle grandi potenze) che si teneva, appunto a Genova, e che doveva stabilire come i giganti del mercato privato avrebbero dovuto guidare e incanalare la “globalizzazione”. Il contro-G8 durò una settimana, ma raggiunse il suo momento più forte negli ultimi tre giorni, quando tenne tre grandi manifestazioni. Cestaro – dicevamo – quella sera dormiva tranquillo, anche perché ormai le manifestazioni erano finite, erano state oceaniche, e nonostante le defezioni dei partiti di sinistra e le provocazioni della polizia, avevano avuto un clamoroso successo anche internazionale. Tutti i giornali del mondo ne parlavano. La mattina dopo era prevista la smobilitazione. Ma Cestaro, nel cuore della notte, venne svegliato all’improvviso dai rumori di gente che cercava di sfondare la porta. Lui pensò ai black block che rompevano le palle. Invece la porta venne giù ed entrarono centinaia di poliziotti scatenati, e armati fino ai denti, che iniziarono a massacrare a bastonate chiunque trovavano nelle aule. A lui gli ruppero subito un braccio, poi una gamba, poi lo colpirono in testa, e lui sentiva le urla dei ragazzini, affogati dal sangue, che chiamavano la mamma, in italiano, in inglese, in danese… Durò almeno un ’ora e mezzo. A nessuno da fuori fu permesso di intervenire. Poi trascinarono i prigionieri per strada, chi in ambulanza chi sul cellulare. E chi era in grado di camminare fu portato in questura o a Bolzaneto. Alla caserma degli orrori. E li le torture proseguirono, furono atroci, lunghissime, aiutate anche da medici vigliacchi. Fu l’orgia del sadismo di stato. Quasi nessuno ha pagato. Le vittime, invece, non sono mai riuscite a liberarsi da quell’incubo, hanno avuto, quasi tutte, danni permanenti, fisici o psichici. La sentenza della Corte Europea adesso ci impone di approvare la legge che istituisce il reato di tortura. Però, oltre alle forze di polizia, ci sono parecchie altre forze, anche in Parlamento, che sono contrarie. Il reato di tortura, tra le migliaia di reati che ogni giorno politici e magistrati riescono a inventarsi, è uno dei pochissimi che limita il potere dello Stato e non i diritti dei cittadini. Dve essere questo il motivo per il quale sarà molto difficile farlo approvare. P.S. Cestaro ha ottenuto un risarcimento di 45 mila euro Non è un granché: gli hanno rovinato la vecchiaia e lo pagano con una cifra modesta. Ora però è possibile che centinaia di altre vittime delle torture di Genova presentino il ricorso. E sicuramente vinceranno. Speriamo. Chi non è stato a Genova in quei giorni non può nemmeno immaginarsi cosa successe. Chi c’è stato non si è mai dimenticato di quel clima di follia. A ripensarci viene in mente che magari non è vero che le cose, in Italia, vadano sempre peggio. Oggi, probabilmente, una mostruosità come Genova non si potrebbe più ripetere. La polizia di oggi non è quella di quel luglio. Meno male, no?

Franco Califano, morto a Roma il 30 marzo 2013 a 74 anni. Personaggio “contro”, finisce due volte in prigione: una volta nel 1970, per possesso di stupefacenti (in cui fu coinvolto anche Walter Chiari, assolto poi con formula piena) e, una seconda volta, nel 1983 ancora per droga, con l’aggravante del porto abusivo di armi (stavolta è coinvolto Enzo Tortora, anche lui assolto). L’esperienza della prigione segnerà la vita di Franco Califano, che inciderà un album per esorcizzare in qualche modo il dolore: “Impronte digitali”. «Io sono stato assolto “perché il fatto non sussiste” e non per non avere commesso il fatto, dopo tre anni e mezzo di carcere, senza mai una lacrima o una lamentela, senza sbraitare, senza dire nulla. E all’epoca non c’era il risarcimento dei danni». In quanti pensano a Califano come una vittima sacrificale della giustizia? Eppure lo sono stati Walter Chiari, Lelio Luttazzi ed Enzo Tortora, finiti «al gabbio» proprio come Califano, per le stesse indagini, poi riabilitati come simboli dell’ingiusto martirio. Riusciva a scherzarci: « Sono finito nel processo con Walter Chiari e Lelio Luttazzi, poi con Tortora, mai un processo tutto per me». Tre anni e mezzo dentro poi l’assoluzione, tutte e due le volte, perchè il fatto non sussiste «senza una scusa, ma non mi piango addosso. L’ho presa come una esperienza in più. Una brutta cosa, però io ho la forza di pensare ad altro». Superficiale quanto basta, o forse solo abituato al peggio. Finì in cella la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, poi assolto con formula piena, nella vicenda giudiziaria vergognosa che coinvolse anche Walter Chiari, stroncandone la carriera. Da quella esperienza carceraria Califano trovò spunto per far nascere un album, “Impronte digitali”. Califano finì nuovamente in carcere per lo stesso motivo e più il porto abusivo di armi nel 1983, volta insieme al conduttore televisivo Enzo Tortora in un'altra vicenda emblematica di mala giustizia. In entrambi i processi Califano fu assolto “perché il fatto non sussiste”. Subito dopo la sua morte il primo a ricordare quelle ingiuste vicissitudini giudiziarie, via twitter, è Vittorio Feltri: “È morto Califano. Fu incarcerato due volte – scrive -. Innocente. Nessun risarcimento. Quante ne ho viste di storie così. Quante ingiustizie. Dolore”. Dopo questa seconda esperienza chiese aiuto e sostegno all'allora leader del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi. Ne ottenne una risposta e poi questo rapporto si tramutò in amicizia. Successivamente il Califfo (1992) prima che la tempesta di Tangentopoli travolgesse tutto l'arco socialista in Italia decise di candidarsi, nelle fila del Psdi, il Partito Socialdemocratico italiano, senza però essere eletto. Successivamente venne sempre “bollato” come cantante vicino alla destra anche se diceva di sé: “Io sono liberale, anticomunista”. Forse, scrive “Il Foglio”, sono proprio la catena d’oro al collo ed i braccialetti la cause dell’ostracismo schifiltoso contro “il trucido” cui l’ha dannato un certo ambiente, anche prima della sua doppia avventura giudiziaria risoltasi con quelle che chiama “le assoluzioni strapiene”, una volta nel 1970, ai tempi del processo Walter Chiari, e una volta nel 1983, ai tempi del processo Tortora, solo che Califano viene citato un po’ meno di Walter Chiari ed Enzo Tortora, come tragico esempio di errore giudiziario. Ascolta volentieri Radio Radicale, il Califfo, e però si sente un reietto della memoria garantista: gli altri “giustamente esaltati” come vittime di malagiustizia, lui “ingiustamente dimenticato” come vittima di malagiustizia, gli altri “presi nel mucchio” perché famosi, lui preso nel mucchio “per riempire un buco dopo la scarcerazione di Walter Chiari” e poi perché, “nel paese del fango”, aveva il curriculum giusto (“amicizie losche, vizi esibiti, look malavitoso, modo di esprimermi volgare e anticonformista, un passato truce, nessuna protezione politica”, scrive in “Senza manette”). Un tipo adatto ai reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico internazionale di stupefacenti (il cui uso Califano aveva sempre ammesso per uso personale), sfruttamento della prostituzione, anche allora reato perfetto per prove imperfette. Ancora oggi il Califfo non si capacita del perché “soltanto Bettino Craxi” (altra foto su un comodino del salotto) si interessò alla sua sorte di “innocente dietro le sbarre”, disperato come nel primo collegio da cui era “evaso scalzo” da bambino, idolo dei detenuti (“com’è a letto quell’attrice?”, gli chiedevano i carcerati stanchi dei giornaletti porno) e impaurito a morte dall’apatia che aveva preso il compagno di cella Pietro Valpreda. (“Chi mi vuole prigioniero non lo sa, che non c’è muro che mi stacchi dalla mia libertà”, dice, non a caso, la strofa di una delle sue canzoni più celebri, “La mia libertà”). Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. E Califano serviva, eccome: il suo passato, il suo non aver mai nascosto amicizie “pericolose”, l’uso ammesso della cocaina, serviva evidentemente per legittimare i precedenti arresti, in omaggio a teoremi che cominciavano a scricchiolare. Solo che anche Califano era innocente, con la camorra e i suoi traffici non aveva nulla a che fare; e da quelle accuse, alla fine, venne assolto. Ricordare quell’arresto, quella pagina che il buon gusto impedisce di qualificare come si vorrebbe, significava ricordare e rievocare tutta quella vicenda. Meglio ignorare tutto, confidare sul tempo trascorso, e sulla memoria che si scolora… Fummo davvero in pochi, in quei giorni, a osservare che anche per quel che riguardava Califano i conti non tornavano. Ci si cominciò a interessare alla sua vicenda in seguito all'accorato appello al presidente della Repubblica di allora lanciato da Gino Paoli. Califano, detenuto da mesi, si mise in contatto con noi: «Sono frastornato e distrutto, perchè un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile... Ho in testa brutte cose... venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così...». Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava il buon senso – meglio: il “senso buono” - di Jules Maigret. Scienza, buon senso e senso buono, con tutta evidenza assenti, e limitiamoci a questo. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare.

Questa è la sorte che tocca ai presunti carnefici ed alle vittime cosa è riservato?

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.

Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;

Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;

Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;

Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;

Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;

Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;

Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;

Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;

Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;

Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;

Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;

Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;

Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;

Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;

Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;

Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti

(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015

Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015) 

Non li uccise la morte ma due guardie bigotte. Aldrovandi, Bianzino, Sandri, Uva, Cucchi...scrive di Davide Falcioni venerdì 22 giugno 2012. "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". Fabrizio De André - Un Blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971). Per cercare l'anima a Federico Aldrovandi ci si misero in 4. Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto. Quattro poliziotti. C'era chi teneva e chi picchiava. Chi picchiava lo fece talmente forte che due manganelli si spezzarono sul corpo di Federico, che ostinatamente resisteva a quelle sferzate e tentava di ribellarsi, finché non venne immobilizzato. Morì verso l'alba per asfissia da posizione, con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Successivamente i quattro poliziotti descrissero Federico come un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Da ieri quello che per anni è stato chiamato "Caso Aldrovandi" potrà essere chiamato "omicidio Aldrovandi". La Corte di Cassazione di Roma ha confermato le condanne a 3 anni e 6 mesi di reclusione a Pollastri, Pontani, Forlani e Segatto, responsabili di omicidio colposo per aver ecceduto nell'uso della forza. La vita di un ragazzo di 18 anni vale 3 anni e 6 mesi di reclusione. Comprensibilmente in molti hanno giudicato la pena troppo tenera, ma va considerata anche la verità storica che finalmente è stata definita. Una sentenza stabilisce che un ragazzo è stato ammazzato da alcuni poliziotti. Per un paese come l'Italia, dove queste cose vengono spesso occultate, è un fatto importante. Ma il caso di Federico Aldrovandi non è isolato. Come documentato dall'Osservatorio Repressione dal 1945 sono decine i cittadini uccisi per mano delle forze dell'ordine, che spesso hanno represso nel sangue manifestazioni di protesta. Senza considerare la repressione giudiziaria: oltre 15mila sono i denunciati dai fatti del G8 di Genova ad oggi: un tentativo, evidentemente, di trasformare lotte politiche in fatti di comune delinquenza. Per ragioni di spazio ci concentreremo sugli uomini morti a seguito di un fermo di polizia. Se siano stati uccisi, o se la morte sia sopraggiunta per altre ragioni, a noi non è dato saperlo con certezza. Nel caso di Aldrovandi possiamo, sentenza alla mano, parlare di omicidio: la stessa cosa non si può dire (almeno, non con rigore giornalistico) per altre situazioni che però destano preoccupazione, tra tentativi di depistaggio e insabbiamenti. Sempre per ragioni di sintesi, partiremo da Genova 2001, dai giorni torridi del luglio di 11 anni fa che videro la morte del giovane Carlo Giuliani. Carlo aveva 23 anni. Manifestava, insieme a migliaia di compagni, all'assemblea del G8 di Genova, in una città blindata e ferita da disordini e scontri continui. Carlo morì a Piazza Alimonda, ucciso da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava all'interno di un Land Rover di servizio. Carlo venne colpito subito dopo aver afferrato da terra un estintore. Una ricostruzione affidabile della vicenda, con immagini da punti di vista differenti, è stata effettuata da Lucarelli nella trasmissione Blu Notte. Dopo aver esploso il colpo, diretto allo zigomi di Giuliani, il mezzo dei Carabinieri passò ben due volte sul corpo del ragazzo. Il carabiniere Placanica è stato prosciolto dall'accusa di omicidio colposo: avrebbe sparato, secondo i giudici, per legittima difesa. L'11 luglio del 2003 all'interno del carcere Le Sugheri di Livorno venne ritrovato il corpo di Marcello Lonzi, 29 anni, in un lago di sangue. Secondo la giustizia italiana il ragazzo sarebbe morto per cause naturali (il caso è stato archiviato) ma le foto del carcere e all'obitorio mostrerebbero chiarissimi segni di pestaggio. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, ha condotto per anni una battaglia per la verità sulla morte del figlio. Riccardo Rasman morì il 27 ottobre del 2006 a Trieste. Nella sua casa di via Grego fecero irruzione le forze dell'ordine. Il ragazzo, affetto da sindrome schizofrenica paranoide, dovuta a episodi di nonnismo subìti durante il servizio militare, era in uno stato di particolare felicità: il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare come operatore ecologico. Ascoltava musica ad alto volume, lanciando un paio di petardi dal balcone. Qualcuno chiamò il 113 denunciando il baccano, arrivarono due volanti, gli agenti entrarono a casa dell'uomo, lo immobilizzarono e ammanettarono a seguito di una colluttazione. Come per Aldrovandi, Riccardo Rasman sarebbe morto per asfissia: benché fosse ancora ammanettato i poliziotti continuarono a schiacchiargli la schiena impedendogli la respirazione. Il 14 ottobre del 2007 fu la volta di Aldo Bianzino, falegname, in una cella del carcere di Perugia. Venne arrestato due giorni prima insieme alla compagna per coltivazione e detenzione di piantine di canapa indiana. Aldo era in buona salute: morì, ufficialmente, per cause naturali (a seguito di una malattia cardiaca). Una perizia medico legale effettuata dal dottor Lalli e richiesta dalla famiglia rivelerà, invece, la presenza di 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Ne seguì un processo conclusosi con l'archiviazione ma, grazie all'insistenza di amici e familiari e all'apertura di un blog, negli ultimi mesi si sta tentando di riaprire le indagini. Neanche un mese dopo, l'11 ottobre 2007, nell'autogrill di Badia al Pino verrà ucciso Gabriele Sandri, tifoso della Lazio. Ad ammazzarlo un colpo di pistola esploso dall'agente di polizia Luigi Spaccarotella, che in quel momento si trovava dall'altra parte della carreggiata. Il poliziotto verrà condannato in tutti e tre i gradi di giudizio per omicidio volontario. Giuseppe Uva morirà il 15 giugno del 2008. Venne fermato dai Carabinieri insieme ad un amico, che raccontò: “Avevamo bevuto. Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portarono via, li misero in due stanze diverse. L'amico sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo. La sorella Lucia disse: "Era pieno di lividi. Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”. “Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”. Venne violentato? Il 24 giugno del 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano (Firenze). Era stato arrestato a seguito di un'indagine su una società di San Marino responsabile di una truffa informatica. Venne trovato impiccato a un laccio nel bagno del carcere. Tutto avrebbe fatto pensare a un suicidio, ma la mamma di Niki non ci sta e, ancora una volta, scrive su un blog: "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona. Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento". Il 25 luglio del 2008 muore nel carcere Marassi di Genova Manuel Eliantonio, 22 anni. Era stato in discoteca e, a seguito di un controllo di Polizia, gli rilevarono tracce di alcol e stupefacenti. Per questo venne fermano, tentò la fuga ma venne acciuffato e incarcerato. Dopo sette mesi de detenzione per resistenza a pubblico ufficiale e a meno di un mese dal rilascio muore. L'autopsia parla di intossicazione da butano ma non spiega i lividi sul suo corpo. Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo del 2009, a soli 19 anni. Era stato arrestato per aver fatto il palo in una rapina. Tre giorni dopo aver varcato il portone del carcere di Piazza Lanza si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda. Così è stato scritto nella relazione di servizio e questo ha confermato anche il gip Alfredo Gari che ha già respinto una prima richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla famiglia del ragazzo. Ma la madre Grazia La Venia non ci sta: "Mio figlio non può essersi suicidato, non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi". Al suo fianco ora si schiera l’associazione Antigone, che ha denunciato: "Nel corso delle indagini preliminari non è stato disposto il sequestro della cella, né del lenzuolo con il quale Castro si sarebbe impiccato a questo, si aggiunga che non è stato sentito nessuno del personale di polizia penitenziaria intervenuto, né il detenuto che avrebbe portato il pranzo a Castro e che sarebbe l’ultima persona ad averlo visto ancora da vivo". Il 21 luglio del 2009, Stefano Frapporti, operaio di 48 anni, sta tornando da lavoro in sella alla sua bicicletta quando viene fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella. Ufficialmente morirà suicida, ma tra gli amici da anni è in vigore una battaglia per chiedere chiarezza. Il 58enne Franco Mastrogiovanni morirà il 4 agosto del 2009 dopo 4 giorni di trattamento sanitario obbligatorio e dopo essere rimasto legato più di 80 ore a un lettino, alimentato solo di flebo e sedato con farmaci antipsicotici. Il video della sua agonia fece il giro del mondo. Tutti conoscono la storia di Stefano Cucchi, geometra di 31 anni morto nel reparto carcerario dell'Ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Stefano era accusato di detenzione di stupefacenti. Morì di edema polmonare dopo 8 giorni di agonia, nei quali perse 7 chili. Sul suo corpo, le cui foto sconvolsero l'Italia, venne rilevata una vertebra fratturata, la rottura del coccige, sangue nello stomaco e altri traumi sparsi ovunque. Gli agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace. E la lista potrebbe essere ancora lunga, se contenesse anche i nomi dei detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi anni, spesso a causa delle condizioni disumane in cui versano le carceri. La soluzione del caso Aldrovandi dovrebbe indurre a far chiarezza anche su tutti gli altri. Verso i quali, come abbiamo visto, troppo spesso è prevalsa la superficialità di giudizio quando non un assurdo spirito cameratesco. Si ringrazia l'Osservatorio sulla Repressione.

Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane. Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile», scrive Carmine Gazzanni il 20 Aprile 2016 su “L’Inchiesta”. Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall'accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall'accusa di aver seviziato l'operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. «Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita». Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.

TORTURA, TORTURATI E TORTURATORI.

IL NOSTRO CUPO FUTURO, scrive Mattia Feltri de “La Stampa”, nel suo post dell’8 luglio 2017 su facebook. La sentenza della Cassazione su Bruno Contrada non dovrebbe essere un semplice atto d'accusa contro la magistratura, o contro la politica, ma un atto d'accusa sul nostro modo di ragionare e di reagire ai problemi. Gran parte della legislazione antimafia è emergenziale, e dunque uno strappo alla regola dello stato di diritto. Il 41bis, e cioè il carcere duro per i mafiosi, è un esempio. Un esempio di palese tortura, per la precisione, che abbiamo deciso di accettare, o di non vedere, in nome di una lotta d'emergenza a un problema eccezionale, la mafia. E' già abbastanza interessante che queste leggi eccezionali durino da decenni, diventando così ordinarie, e facendo dell'Italia uno stato che ha in parte rinunciato alla sua Costituzione e allo stato di diritto, e lo ha fatto stabilmente. Non vado oltre, non voglio discutere le leggi antimafia perché si passa immediatamente per fiancheggiatori ideologici della criminalità organizzata. Le leggi emergenziali furono varate, con successo, negli anni del terrorismo rosso e nero, e servirono per combatterlo e vincerlo. Da allora se ne fa uso, qua e là, oltre la mafia. L'ultima legge approvata al Senato, chiamata codice antimafia, estende il sequestro cautelativo dei beni ai casi di corruzione se ci sia associazione per delinquere. Traduco: se uno è sospettato (semplicemente sospettato) di corruzione in associazione con altri, gli si possono sequestrare i beni. Quelli della famiglia, l'azienda, tutto. Con questa legge (per fortuna non ancora definitiva) nel biennio 92-93 lo Stato avrebbe potuto sequestrare il 70-80 per cento delle grandi aziende italiane, dalla Fiat in giù, cancellando dalla faccia dell'Italia l'impresa privata. E farlo prima di una sentenza di condanna. Tutto questo ha una spiegazione e una conseguenza. La spiegazione è che, disarmati davanti alla plateale illegalità dell'intero paese (non soltanto mafia e corruzione, ma evasione fiscale, assenteismo, truffe delle e alle banche, truffe delle e alle assicurazione, noi siamo una specie di associazione per delinquere fatta di sessanta milioni di italiani) non sappiamo che reagire con una smania repressiva montante, dilagante, fatta di inasprimento delle pene e leggi emergenziali. La conseguenza è che stiamo disarticolando lo stato di diritto, attribuendo alla magistratura un potere sterminato (così che poi gli errori giudiziari diventano sempre più devastanti), ma soprattutto stiamo fornendo armi formidabili a un governo che domani, o dopodomani, ispirato da sentimenti illiberali, avrebbe gioco più facile di instaurare una dittatura. Ora, noi pensiamo che la democrazia sia incrollabile e non lo è. Già oggi l'Italia non è più psicologicamente democratica, e lo si evince dalla furia e scorrettezza del dibattito pubblico. Le dittature non sono mai arrivate annunciate, ma di colpo, e quando era troppo tardi. Non buttiamoci giù. E' sabato. C'è il sole.

La nuova Legge sulla tortura: la maschera di un reato per un convitato di pietra. Tortura. Parola grossa. Ora in Italia esiste una legge che la prevede e la punisce come reato. O, almeno, così sembra, scrive Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" l'8 Luglio 2017. La legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Forse, anche per la tortura, c’è un uomo nero che non si deve scoprire: il potere cautelare e i suoi titolari. La tortura, in linea generale ma chiara, è un abuso, commesso da chi detiene legalmente una persona, verso di essa. L’abuso è commesso con violenza, fisica o psichica: sia mettendola in atto, sia solo minacciandola. A vari fini. Ma il fine eminente è la confessione. La confessione è l’affermazione che la persona detenuta fa al torturatore, di un comportamento variamente ritenuto colpevole: proprio o, più frequentemente, anche altrui. A ciò indotto dalla promessa, esplicita o larvata, o dalla speranza, che la violenza cessi, o che la minaccia sia riposta. Il cerchio si chiude, dunque, dicendo che la tortura è l’esercizio di un dominio legalistico assoluto, di un’istituzione coercitiva, su un essere umano. Questo è: per esperienza e dottrina acquisite lungo i secoli, in Italia, e dovunque nel mondo; ma in Italia, essendo culla del diritto, siamo anche culla dei suoi profili, per così dire, meno esemplari. Facile, no? Nemmeno per sogno. Perché la legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Due parole, due: perché a fare “ermeneutica” si affaticano vanamente le meningi: e poi, non serve a granché. Andiamo alla grossa, che basta e avanza. In primo luogo, ci imbattiamo in un “Chiunque”. Ma che c’entra il “chiunque”, se siamo in un ufficio di una Forza di Pubblica Sicurezza (ma non solo, come vedremo)? Si vuole dire che è tortura anche l’atto del vicino matto, che ci chiude in garage, e ci incatena o peggio? Niente da fare: sarebbero lesioni, sequestro di persona e altro, più o meno aggravati; già previsto. Poi leggiamo che alla tortura metterebbero capo “più condotte”. Ah sì? E cos’è “condotta”, al singolare, allora? Un atto che si compie entro la sfera di dominio corporeo dell’autore? E di un atto formale, o legale, come un provvedimento apparentemente ineccepibile, che ne facciamo? E, comunque, se, nel primo caso, finisce che un bel pugno magari non basta, a configurare la tortura, proprio perché è uno; ecco che, il secondo, ci fa intravedere da cosa o da chi la nuova Legge realmente svicola, per chi cavilla. Un provvedimento, anche solo dal punto di vista corporeo, implica l’intervento di più soggetti, ciascuno dei quali è competente per una parte, ma non per le altre: sicché risulterebbe impossibile riferirgli le molteplici “condotte” che pure ci sarebbero. E peggio sarebbe se, al contrario, si volesse considerare il provvedimento in termini “funzionali”, come una unità “procedimentale”, indistinguibile dalle singole parti che la compongono: proprio perché allora sarebbe solo uno. E tanto, solo per considerare la faccenda dal punto di vista delle “più condotte”. Ma abbiamo solo intravisto l’uomo nero che non si deve scoprire. Proviamo a vedere meglio. E’ prevista l’ipotesi che “i fatti di cui al primo comma”, siano commessi da “pubblici ufficiali” (ma va’?), e ne verrebbe una circostanza aggravante; però, ecco la magia: questa “non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Eccoci.

Questo accorgimento liberatorio, che pare riferirsi solo ad un’ipotesi secondaria (una semplice circostanza aggravante), ci svela a chi si sta pensando. Perché, ponendo l’accento sulle “sofferenze” che, nell’impianto della fattispecie, costituiscono “l’evento” causato dalle “più condotte”, e presentandoci l’ipotesi che queste si diano in un certo “ambiente” (“legittime misure privative o limitative di diritti”), esso ci mostra in realtà che “tortura”, oggi, non è la fune di una carrucola, o i ferri roventi, ma l’arnese custodiale: siamo in Procura, non in un sotterraneo ammuffito. E’ parsa allora precipitosa l’affermazione del dott. Carlo Nordio, che pure è voce sempre acuta, e attenta a rilevare le miserie del nostro sistema giudiziario: “Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici.” Ma l’uso della custodia cautelare per estorcere confessioni non è una distopia normativa, come oggi dicono i colti: è una prassi rivendicata e ampiamente legittimata, dei cui alti e bassi sostenitori sono noti nomi, cognomi e soprannomi. Critiche dolenti da convegno, a parte. I sommari lineamenti “dell’istituto”, presentati all’inizio di queste righe, per ciascuno che volesse, infatti, si attagliano senza la minima forzatura proprio ai casi nostri. In questi termini, appare ancor più chiaro che la previsione principale, quella rivolta a “chiunque”, è una maschera; sotto, al primo posto, c’è chi ha realmente il potere di “cagionare” “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale”. Il quale, però, gode di quella che, di fatto, è una scriminante generale e automatica. Una volta posto al riparo dalle responsabilità per la “tortura da provvedimento”, il “pubblico ufficiale”, non avrà soverchie difficoltà a porsi al riparo anche dalla norma “principale”, per come è congegnata. Che poi, questa trama di previsioni e di sottintesi, possa riferirsi anche a soggetti appartenenti alle Forze dell’Ordine, è ovvio; dato che “le misure privative o limitative di diritti” implicano necessariamente il loro intervento materiale: ma costoro agiscono, anche quando sono Alti Ufficiali, alle dipendenze “funzionali” del Pubblico Ministero. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Ma sia chiaro: il grande demerito, per il consolidarsi del regresso istituzionale, culturale e civile in Italia, è di simili riformatori: con la loro sesquipedale, servile sciatteria. Un demerito che, ogni giorno di più, appare persino maggiore di quello acquisito dalla magistratura associata: in questi infelicissimi, ultimi venticinque anni.

Passa la legge contro la tortura, ma non piace a nessuno. Contrario il centrodestra, che parla di una norma punitiva nei confronti delle forze dell'ordine, e negativo anche il parere di Si e Mdp, che si sono astenuti dal voto finale perché considerano il testo approvato “debole”, “poco incisivo” e “inefficace”, scrive il 6 luglio 2017 "L'Espresso". La tortura in Italia ora è reato. A tre anni dall'inizio dell'iter parlamentare, l'aula della Camera ha approvato definitivamente (con i soli voti del Pd e di Ap, l'astensione di M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori e il no di Fi, Cor, Fdi e Lega) il disegno di legge che punisce con il carcere da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi o con crudeltà, cagiona a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia “sofferenze fisiche acute” o un trauma psichico verificabile. Gli anni di carcere salgono a fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale. Molte le polemiche e i distinguo all'indomani del voto, con un centrodestra compatto nel considerare le nuove norme come punitive nei confronti delle forze dell'ordine cui, sostiene Alessandro Pagano della Lega, “legherà le mani”, mentre per Giorgia Meloni la legge è addirittura “un'infamia voluta dal Pd per criminalizzare le forze dell'ordine”. Contro, compatti, anche i sindacati delle forze dell'Ordine. Per il Consap si tratta di una “legge vergogna che è solo uno spot di vendetta per i fatti del G8 di Genova” mentre il Sap la considera come “un manifesto ideologico contro poliziotti”. Per ragioni opposte, poi la legge non soddisfa nemmeno la sinistra non Pd: Si e Mdp si sono astenuti dal voto finale perché considerano il testo approvato “debole”, “poco incisivo” e “inefficace”. E il M5S, che pure dichiara di considerare la legge “giusta”, si è astenuto dichiarando di voler “migliorare le norme non appena possibile”. Il governo invece apprezza. La ministra Anna Finocchiaro parla di “un passaggio importante, per il quale il Parlamento lavora da quasi vent'anni e del quale non possiamo che essere soddisfatti”. E il Partito democratico difende la legge: “nessun intento punitivo”, chiarisce la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti che considera invece il ddl “equilibrato e giustamente severo nei riguardi di un reato odioso e grave come quello di tortura”, con il merito di colmare “a quasi 30 anni dalla ratifica della Convenzione Onu, un macroscopico vuoto normativo più volte denunciato in sede europea e internazionale”. Le pene sono pesanti: fino a 12 anni. Tuttavia, il reato richiede una pluralità di condotte (più atti di violenza o minaccia) oppure deve comportare “un trattamento inumano o degradante”. Specifiche aggravanti, peraltro, scattano in caso di lesioni o morte. Non si ha invece tortura nel caso di sofferenze risultanti unicamente da “legittime misure limitative di diritti”. Se, poi, a torturare è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri, la pena è aggravata con un extra che va da 5 a 12 anni. Rischia anche il pubblico ufficiale che istiga a commettere il delitto di tortura e non viene obbedito: la legge prevede che debba comunque andare in carcere per 3 anni. Il testo prevede poi che nessuno possa essere espulso, respinto o estradato verso paesi dove vi sia il fondato rischio, tenendo anche conto della presenza di violazioni dei diritti umani gravi e sistematiche, che sia sottoposto a tortura. Inoltre, qualsiasi dichiarazione o informazione estorta sotto tortura non è utilizzabile in un processo; tuttavia, varrà come prova contro gli imputati di tortura. Infine, nessuna immunità per cittadini stranieri imputati o condannati per tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale.

Legge sul reato di tortura: che cos'è e perché è contestata. Dopo quattro anni potrebbe finalmente essere approvata. Ma le critiche fioccano: "Con questo testo non ci sarebbero state le condanne del G8 di Genova", scrive il 5 luglio 2017 Panorama.  Dopo l'ok del Senato il 17 maggio scorso, la legge che introduce nel codice penale il reato di tortura torna alla Camera dei Deputati, che probabilmente il 5 luglio l'approverà definitivamente. Un atto che finalmente risponde, secondo Amnesty International, a quanto richiesto dalla Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite, ratificata dall'Italia nel 1989. E soprattutto risponde alle nere vicende del G8 di Genova e alla violenta irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz, nella sera buissima del 12 luglio 2001. Ecco in cosa consiste la nuova legge sul reato di tortura, il suo percorso travagliato e i pareri a favore e i tanti contro (lo stesso ideatore e primo firmatario della legge, Luigi Manconi del Pd, ora se ne dissocia). 

Le tappe travagliate della legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi presentò il ddl nel 2013. È da oltre tre anni che il testo sul nuovo reato di tortura viene rimpallato da una Camera all'altra. Era il 5 marzo 2014 quando il Senato - dove ha avuto inizio l'iter legislativo - lo approvò la prima volta. La Camera dei Deputati l'ha quindi modificato rispedendolo a Palazzo Madama il 9 aprile 2015.  Dopo averlo tenuto nel cassetto per oltre due anni, il Senato l'ha di nuovo modificato e inviato a Montecitorio il 17 maggio 2017. 

Cosa dice il ddl sul reato di tortura. La tortura diventerebbe un nuovo reato del codice penale, numero progressivo 613 bis, delineato in sei articoli. Ciò che accende la polemica si concentra soprattutto nelle prime righe. L'articolo 1 prevede che "Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minore difesa, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Se il reato è commesso da "un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da 5 a 12 anni". L'articolo 2 stabilisce che le dichiarazioni ottenute attraverso il delitto di tortura non sono utilizzabili in un processo penale.

Quali sono i punti criticati. Sotto accusa soprattutto alcuni passaggi del primo articolo della nuova legge, passaggi di dubbia interpretazione o che rendono difficile dimostrare il reato.

"Verificabile trauma psichico": come si verificherebbe tale trauma?

"Mediante più condotte": se il reato è commesso tramite una sola condotta cosa succederebbe?

"Un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona": quali sono i parametri per valutarlo? 

"Abuso di poteri" e "violazione dei doveri": sarà necessario dimostrare anche che ci sono state queste condizioni, nel caso di pubblico ufficiale coinvolto.

Cosa dice chi contesta la legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi, prima firma del ddl, non si riconosce più in questa nuova legge: "Il mio testo, che presentai nel 2013 il primo giorno della legislatura, è stato stravolto", tanto che si è rifiutato di votarlo. Gli fa eco sul Foglio Matteo Orfini, presidente del Pd, che definisce la legge così scritta "inutile": "Ce l'ha detto anche l'Europa, è fatta di compromessi al ribasso. In un paese che ha avuto i casi Cucchi, Aldrovandi, Genova, ci vorrebbe maggior coraggio". La legge in Italia è attesa da più di vent'anni, ma così stilata fallisce il proprio scopo perché si allontana molto dalla Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti approvata dalla Assemblea Generale dell'Onu nel 1948, è il parere di Area democratica per la giustizia, il cartello delle correnti di sinistra nella magistratura. Che sostiene: "Apre la strada a valutazioni incerte ed è destinata a rendere ancor più complesse ricostruzioni giudiziarie già per loro natura delicate e difficoltose", "consente di considerare tortura solo i comportamenti ripetuti (si parla di violenze, minacce e condotte, al plurale); richiede che le sofferenze inflitte alla vittima siano acute, senza dare rilievo al loro protrarsi nel tempo; consente la punibilità della tortura mentale solo se il trauma psichico conseguente è verificabile; non garantisce un'efficace repressione ai trattamenti inumani o degradanti che non assurgono a livello di gravità della tortura". La bocciatura arriva anche da giuristi come Vladimiro Zagrebelsky, addirittura dalle toghe protagoniste dei processi del G8 alla Diaz e a Bolzaneto che hanno presentato un appello al presidente della Camera, spiegando che questa legge sarebbe stata inutile per punire molti degli abusi del 2001. Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani presso il Consiglio d'Europa, ha scritto ai presidenti della Camera e del Senato parlando di legge è "disallineata" rispetto alla giurisprudenza della Corte e alle raccomandazioni della Commissione europea. A Repubblica Manconi è lapidario: "Con il testo che sta per essere approvato gran parte delle violenze alla scuola Diaz non sarebbero considerate tortura". Le preoccupazioni del centrodestra sono invece opposte: il timore è che il ddl risulti "un atto ostile contro le Forze dell'ordine" e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia assicura che alla Camera "questa vergogna" verrà cancellata.

Chi difende la legge, nonostante tutto. A sorpresa, tra chi difende la nuova legge, c'è Amnesty International, l'organizzazione che difende i diritti dell'uomo. Antonio Marchesi il presidente di Amnesty International Italia, a Radio Radicale ha detto: "Il ddl non ci piace. Riteniamo che comunque rappresenti un piccolissimo passo avanti. Amnesty è un'organizzazione pragmatica, che si dà obiettivi concreti". Turandosi il naso, prende quel che viene: "Tra il niente e questa schifezza, Amnesty sceglie di avere qualcosa".

Tortura, via libera della Camera. Con 198 sì il reato è legge: fino a 12 anni di carcere. I contrari sono stati 35, gli astenuti 104. Hanno votato a favore Pd e Ap, mentre molte forze, tra cui M5S, Sinistra italiana e Mdp, non hanno votato. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge, scrive il 5 luglio 2017 "La Repubblica”. L'aula della Camera ha approvato in via definitiva il ddl che introduce il reato di tortura nell'ordinamento italiano. I sì sono stati 198 (Pd e Ap), i no 35 (Fi, Cor, Fdi e Lega), gli astenuti 104 (M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori). Le pene previste sono pesanti: la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, che salgono fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge. Quattro anni di stop, di divisioni tra le forze politiche e di tentativi di insabbiamento. L'iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato il 22 luglio del 2013, per poi essere licenziato un anno dopo, è approdato alla Camera nel 2015 per poi tornare nuovamente all'esame di palazzo Madama e, infine, essere licenziato da Montecitorio. Più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento, il testo non ha subito ulteriori modifiche durante l'ultimo esame. Si tratta di un provvedimento che ha diviso le forze politiche: voluto dal Pd e sostenuto dagli alleati di governo, gli alfaniani di Alternativa popolare, è invece stato osteggiato dalle forze di centrodestra, Lega e FdI in testa. I detrattori della legge sostengono che si tratta di un provvedimento punitivo nei confronti delle forze dell'ordine, limitandone il campo d'azione. Niente di tutto ciò, hanno sempre replicato Pd e governo, nessuna "norma vessatoria", al contrario si tratta di un provvedimento che "colma una lacuna" e fa sì che l'Italia "non sia più fanalino di coda", è stata sin dall'inizio la posizione dei sostenitori del testo.

• LE PENE. L'articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La pena sale da 5 a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

• ARTICOLO 2 . L'articolo 2 stabilisce che "le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili" in un processo penale.

• LESIONE GRAVE. Se c'è "una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà". Se invece "dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta".

• ISTIGAZIONE. Viene anche punito da 6 mesi a 3 anni "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura".

• STOP ESPULSIONI. Sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione - sostanzialmente aderente al contenuto dell'articolo 3 della Convenzione Onu - precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.

• ESTRADIZIONE. Viene poi previsto l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

• IMMUNITA'. Il provvedimento esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L'immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l'Italia da parte di uno Stato estero. Seguono l'articolo 5 (invarianza degli oneri) e l'articolo 6 (entrata in vigore).

• REAZIONI. "In Italia da oggi c'è il reato di tortura nel codice penale. Una legge da noi profondamente criticata per almeno tre punti: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari". Così in una nota l'Associazione Antigone. La legge approvata che incrimina la tortura non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu - denuncia Antigone -. Per noi la tortura è e resta un delitto proprio, ossia un delitto che nella storia del diritto internazionale, è un delitto tipico dei pubblici ufficiali". "Quella approvata oggi dal Parlamento, che introduce con quasi 30 di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. È carente sotto il profilo della prescrizione" dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. "A 33 anni della Convenzione Onu, l'Italia ha una legge contro la tortura. Un risultato importante, il migliore possibile oggi in Parlamento", afferma la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro. "Il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Se avessimo cambiato di nuovo questa legge non sarebbe mai nata", ha sottolineato il capogruppo dem in commissione Giustizia, Walter Verini. "Questo governo e questa maggioranza stanno riempiendo il Codice penale di norme assurde, con un diritto penale del consenso, modaiolo. Un diritto penale di consegna del Paese alle Procure, scambiando la giustizia con le indagini. Un atteggiamento gravissimo del quale pagheremo tutti le conseguenze", attacca Francesco Paolo Sisto, secondo il quale il Pd sta "trasformando il nostro Paese in uno stato di polizia". Per FdI "passa l'infamia del ddl tortura voluto dal Pd: una legge che non punisce la tortura ma serve solo a criminalizzare le Forze dell'Ordine", dice Giorgia Meloni. "Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. È un giorno amaro", è la linea pentastellata. Critiche anche le forze di sinistra: sia Mdp che Sinistra italiana si sono astenute, bollando il testo come una legge "debole, inefficace e poco incisiva".

La tortura diventa reato (tra le polemiche): pene fino a 12 anni, scrive Alessandro Di Matteo il 6 luglio 2017 su "Il Secolo XIX". Per la sinistra fuori dal Pd è troppo poco, per Fi e il centrodestra è troppo, ma il reato di tortura adesso fa parte del codice penale e chi lo commette rischia fino a 10 anni di carcere, che possono diventare 12 se il colpevole è un pubblico ufficiale. Non è stato un percorso facile, ci sono voluti quattro anni per arrivare al via libera, ma ieri la Camera ha dato l’ok definitivo con il sì del Pd e di Ap, l’astensione di M5s, Sinistra italiana e Mdp e il no di Fi, Fdi e Lega. Il crinale è stretto, da un lato si cerca di tutelare chi si trova ad essere privato della libertà, dall’altra si è voluto evitare una norma troppo limitativa per chi deve garantire la sicurezza dei cittadini. Le aggravanti sono previste se a commettere il reato è un «pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio», ma non si applicano se le sofferenze derivano unicamente «dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Una formula di compromesso, inserita alla fine dell’iter per cercare di evitare che le forze dell’ordine si trovino a dover rispondere del reato di tortura anche per le normali azioni repressive che fanno parte del loro dovere. Ma saranno considerate aggravanti anche le «lesioni personali comuni» e le «lesioni gravi», che comporteranno un aumento fino a un terzo della pena, mentre per le lesioni «gravissime» la pena aumenta della metà. Infine, in caso di morte come conseguenza della tortura la condanna sarà a 30 anni, se l’evento non era «voluto» e all’ergastolo se invece l’obiettivo era proprio l’uccisione della persona. Anna Finocchiaro, a nome del governo, parla di un «risultato importante che colma una grave mancanza nel nostro ordinamento. Il testo è il migliore possibile, nelle condizioni date. L’applicazione concreta delle nuove norme ci dirà se sarà necessario successivamente introdurre eventuali correttivi». Quasi identiche le parole di Laura Boldrini, presidente della Camera, è «un passaggio decisivo, ma come sempre potrà essere il Parlamento, sulla base della concreta applicazione delle norme, ad apportare le modifiche che si dovessero rivelare necessarie». Anche Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia, invita al pragmatismo: «Certo, il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato quello che approvammo qui alla Camera ben due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Ovviamente no». Per Amnesty international, invece, «non è una buona legge, ma è un passo avanti». A sinistra non è d’accordo Nicola Fratoianni, Si, la legge è un «pasticcio, non consentirà di perseguire in modo efficace chi si rende autore di questi orrendi atti». Tesi simile a quella di M5s: «Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. E’ un giorno amaro». Per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi, «l’Italia ha paura di una vera legge sulla tortura». Al contrario, per Gregorio Fontana di Fi la legge è uno «schiaffo alle forze dell’ordine, un provvedimento intimidatorio che rischia di compromettere l’operatività delle forze di polizia». E anche per la Lega «si legano le mani alle forze di polizia».

Approvato il reato di tortura, il Sap reagisce: la paginata su "Il Tempo" contro il ddl, scrive il 6 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". La Camera ha approvato, in via definitiva, il ddl che ha introdotto il reato di tortura nell'ordinamento italiano: 198 i sì, 35 i contrari, 104 gli astenuti (tra questi, M5s, Sinistra Italiana e Mdp). Dopo oltre quattro anni, dunque, uno dei più controversi disegni di legge è stato approvato: ora, i poliziotti, rischiano fino a 12 anni di carcere. E a criticare l'approvazione del ddl, contro il quale da tempo si battono le forze dell'ordine, su Il Tempo è apparsa una paginata pubblicitaria del Sap, il sindacato autonomo di polizia, non nuovo a queste iniziative. La pubblicità è quella che potete vedere nella foto: "Tortura per brava gente". Esplicito il pensiero del Sap: "Una legge è come una bottiglia...potrebbe contenere del buon vino...in realtà poi vi è metanolo". Secondo il Sap, "la legge sul reato di tortura è un pessimo groviglio giuridico" poiché "così come strutturato non reprime i comportamenti di tortura ma punta solo a delegittimare le Forze dell'ordine". Secondo il sindacato, che chiede "che siano puniti severamente i comportamenti di tortura", quello appena approvato è "un manifesto ideologico contro le forze di Polizia".

Chi tutela l’onore delle divise. Combattere gli abusi conviene anche alle forze dell’ordine, scrive Luigi Manconi il 13 ottobre 2016 su "L'Espresso". La mamma di Stefano Cucchi abbracciata da Luigi ManconiNegli ultimi anni, chi ha meglio tutelato l’onore delle forze di polizia? Coloro che hanno negato pervicacemente abusi documentati e illegalità inequivocabili, oppure chi ha denunciato i singoli reati commessi da singoli pubblici ufficiali? Non c’è dubbio chePatrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Domenica Ferrulli e altre ancora abbiano salvaguardato il prestigio delle forze di polizia, assai più di quanto goffamente tentato dai negazionisti (ministri dell’Interno e della Difesa, sindacati corporativi e giovanardi vari). Sono state, infatti, quelle donne intrepide e intelligenti a mostrare le violenze subite dai propri familiari (e parte della magistratura ha dato loro ragione), mettendo sotto accusa non “la polizia”, bensì quegli appartenenti a essa che si sono resi responsabili di gravi crimini. Perché questo è il punto. Un’ampia, seppur non generalizzata, omertà (culturale, cameratesca, emotiva) all’interno delle polizie e una diffusa sudditanza psicologica da parte della classe politica nei loro confronti, hanno reso l’apparato del controllo e della repressione assai simile a un blocco compatto e intangibile e, dunque, irriformabile. Nonostante lo spirito sinceramente democratico di tantissimi pubblici ufficiali, di tanta parte del sindacalismo e della buona volontà dei più recenti capi della polizia, da Manganelli a Pansa a Gabrielli.

Come rompere questa gabbia di stolidità e impotenza che nuoce tanto alle vittime degli abusi quanto alla credibilità dei corpi di polizia e della stessa funzione cui assolvono? In primo luogo occorre approvare, e rapidamente, leggi efficaci e capaci - in base al fondamentale principio che la responsabilità penale è personale - di sanzionare gli autori di trattamenti inumani e degradanti, di sevizie e torture, proprio perché manifestazione efferata di abuso di potere da parte di chi, quel potere, esercita in nome della legge e per conto dello Stato. E perché mai un codice identificativo - riconoscibile solo dalla magistratura - per gli operatori di polizia in servizio d’ordine pubblico dovrebbe rappresentare un intollerabile accanimento? L’accertamento rigoroso in un’aula di giustizia delle eventuali responsabilità individuali per illegalità commesse all’interno di una caserma o in una cella o nel corso di un arresto o in un centro di identificazione ed espulsione renderebbe chiara la distanza tra gli autori di quei delitti e le istituzioni, ivi comprese quelle disonorate dalle azioni dei loro servitori infedeli. Non siamo tentati nemmeno per un secondo da sentimenti di vendetta sociale, e tantomeno - attenzione - siamo inclini a considerare tortura qualsiasi abuso commesso da pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi: riconoscere la diversa rilevanza dei fatti è essenziale per non banalizzare la gravità di quelli che, stando alle convenzioni internazionali, configurano il reato di tortura. Ma, se possiamo calare la sofisticata discussione sul destino della nostra Costituzione nell’asprezza della vita quotidiana, quale credibilità potranno mai avere istituzioni incapaci di dare seguito all’unico obbligo di punire prescritto dalla carta fondamentale (articolo 13, comma 4)? Ovvero quello contro “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”?

Luigi Manconi: "Perché la legge sulla tortura è un'occasione mancata". Il presidente della Commissione diritti umani del Senato non è soddisfatto dall'approvazione della legge: "Della mia proposta rimane molto poco. Ha pesato la sudditanza della politica nei confronti delle forze di polizia", scrive Federico Marconi il 6 luglio 2017 su "L'Espresso". "Si poteva e si doveva fare di più". È amareggiato Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, dopo l'approvazione della legge sul reato di tortura da parte delle camere. Nel 2013 il senatore del Pd era stato il primo firmatario della proposta di legge per l'introduzione del delitto nel codice penale: un testo stravolto "di cui rimane molto poco". Le Camere sono riuscite ad approvare una legge sul reato di tortura, 29 anni dopo la prima proposta. La legge, però, sembra non convincere tutti. Il parlamento poteva e doveva fare di più. Le Camere avrebbero potuto seguire l'ispirazione e le conseguenti disposizioni previste dalla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura del 1984. A partire dalla qualificazione del delitto come reato proprio: ovvero imputabile ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio (ad esempio: i medici che hanno legato per 87 ore a un letto di contenzione Franco Mastrogiovanni, provocandone la morte). Un reato, quindi, direttamente derivato dall'abuso di potere: cioè dal ricorso alla tortura da parte di chi pur detiene legalmente in custodia un cittadino. Nel testo approvato si tratta invece di un atto di violenza tra individui, paragonabile a qualunque altra forma di lesione. Qualificare la tortura come reato proprio non significa affatto volersi accanire contro i corpi di polizia, bensì sottolineare i trattamenti inumani o degradanti all'interno di un rapporto di potere profondamente diseguale, di un uso illegittimo della forza, di un abuso di autorità.

Lei si è rifiutato di votare la legge, anche essendone stato il primo firmatario. Come risponde a chi afferma "meglio questa legge che nessuna legge"?

«Fin troppo spesso, siamo indotti a votare proprio a motivo di quella riflessione, sintetizzata nella frase: "meglio una qualsiasi legge che nessuna legge". Ma, in questo caso, votare un simile testo sarebbe andato a scapito della chiarezza su una materia davvero cruciale. Sono stato incerto fino all'ultimo, fino a quando ho deciso di non partecipare al voto (dello scorso 16 maggio al Senato, ndr). Molti tra i miei amici e tra chi mi aiuta ad assumere decisioni così importanti erano favorevoli a un voto positivo. Ma poi ho deciso di non partecipare al voto, persuaso dalle considerazioni del pubblico ministero del processo per i fatti della Diaz, dottor Zucca. Durante il dibattimento, Zucca ha spiegato esaurientemente come gli atti di violenza commessi non sarebbero stati qualificati come tortura in presenza della legge appena approvata».

Cosa rimane del ddl da lei proposto a inizio legislatura in quello approvato ieri? Sono stati fatti troppi compromessi?

«Rimane poco, pochissimo. Per non apparire un nichilista sedotto dal "tanto peggio, tanto meglio", sottolineo due punti positivi: il divieto di estradizione per gli stranieri che nel proprio paese potrebbero essere sottoposti a tortura e, poi, il significato simbolico che la legge può assumere. Un significato tenue, troppo tenue, ma che comunque può funzionare in qualche modo - me lo auguro di cuore - da monito, da deterrenza, da segnale che chiama tutti alla vigilanza».

Perché si è impiegato così tanto tempo per introdurre il reato nel nostro ordinamento?

«Ha pesato una sorta di complesso di sudditanza di quasi tutta la classe politica nei confronti delle forze di polizia, forse un senso di colpa o un sentimento di inferiorità. In ogni caso, si preferisce che i corpi di polizia restino così come sono: compatti e omogenei, gerarchicamente immobilizzati e scarsissimamente permeabili a quanto accade nella società e, di conseguenza, sempre pronti a tutelare gli interessi di quanti tra loro commettono reati, ricorrono a trattamenti inumani o degradanti, esercitano la tortura. E, invece, sarebbe interesse dello Stato democratico indurre i corpi di polizia ad autoriformarsi, a sottoporsi a un processo di verifica delle proprie convinzioni democratiche, ad acquisire consapevolezza dei rischi che quel mestiere, inevitabilmente, comporta. Ciò potrebbe anche produrre qualche crisi interna, determinare fratture ideologiche, creare confronti aspri: ma è essenziale che la stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri si differenzi dalle esigue minoranze che non rispettano le leggi, i diritti e le garanzie del cittadino e che spesso sono tentati da ideologie fascistoidi e razzistiche. Si veda quanto è accaduto nei mesi scorsi in due delle caserme dei carabinieri della bassa Lodigiana come ultimo e inquietante esempio».

Le associazioni vogliono mettersi da subito al lavoro per migliorare la legge. Crede che ci siano possibilità?

«Temo che la legge non potrà essere riformata e migliorata nel giro di poco tempo. Ma non per questo si deve rimanere con le mani in mano. È possibile esercitare una forma di controllo democratico sugli abusi del potere nella loro forma violenta; è possibile solidarizzare con i poliziotti onesti e leali affinché riconoscano che i loro veri nemici sono i colleghi che ricorrono alla violenza e quei gruppi politici che, quei colleghi, difendono ad ogni costo. È possibile, infine, sostenere quei cittadini (in particolare quelle cittadine) che, armati solo della loro intelligenza, da anni difendono l'onore dei propri cari e chiedono giustizia per la loro morte: da Lucia Uva a Ilaria Cucchi, da Grazia Serra a Domenica Ferrulli, da Elena Guerra a Claudia Budroni».

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

«Chiudete le celle “lisce”». Il Dap interviene su Ivrea, scrive Damiano Aliprandi l'1 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Il caso sollevato dopo gli episodi di violenza, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, denunciati da un detenuto. «Si prega di inibire l’uso della stanza detentiva denominata “cella liscia” posta al reparto isolamento». Così il capo del Dap Santi Consolo scrive nella lettera indirizzata alla direttrice del carcere di Ivrea. Ma non solo. Ordina anche la chiusura della sala d’attesa per le visite mediche che veniva utilizzata come una seconda “cella liscia”. Infatti ha disposto di «interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche fino al ripristino delle necessarie dotazioni, e di assicurare, terminati gli interventi di adeguamento, che il suo uso sia realmente limitato a brevissimi archi temporali e per le sole esigenze per le quali è stata prevista». Il provvedimento del Dap dà atto dell’esattezza del rapporto sul carcere di Ivrea del Garante nazionale dei detenuti, dopo le denunce, anticipate da Il Dubbio, degli episodi di violenza. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Questi episodi sono stati riscontrati non solo dalla delegazione del Garante nazionale, ma anche dalla visita ispettiva da parte del provveditorato regionale effettuata il 16 dicembre scorso. Sempre Santi Consolo, con riferimento del rapporto del provveditorato, scrive che «ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria, la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni detenuti coin- volti nei disordini – alcuni dei quali erano visibilmente atroci – possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria volto a contenere le resistenze durante il tragitto di accompagnamento degli stessi dalla sezione del quarto piano, ove erano collocati, al piano terra». Intanto, per ordine del Dap, le due stanze utilizzate come celle di isolamento vengono chiuse. Nel frattempo la direzione del carcere, nel caso della cella liscia chiamata dai detenuti “l’acquario”, ha assicurato di provvedere al rifacimento del bagno, eliminando la cosiddetta turca, al risanamento della finestra volta ad areare il locale, nonché alla tinteggiatura della stanza liscia e all’inserimento dei suppellettili. Quanto alla sala d’attesa dell’infermeria utilizzata come seconda “celle liscia”, la direzione del carcere ha promesso che farà riaprire il finestrotto per far circolare l’aria e ripristinerà il termosifone. Tale stanza – come ha stabilito il Dap -, una volta ristrutturata, verrà utilizzata per tempi assolutamente brevi e strettamente funzionali alle esigenze per le quali è stata prevista. Santi Consolo evidenza nella lettera indirizzata al ministero della Giustizia che «sarà cura del provveditorato regionale – che già nel mese di luglio 2016 aveva sensibilizzato le direzioni del suo distretto di competenza ad assicurare che la sanzione dell’isolamento avvenga in luoghi idonei, decorosi e non, come talvolta accade, privati di ogni minima suppellettile, fatto che pone o rischia di aggravare uno stato di reattività o peggio depressivo – programmare, con i fondi del 2017, la ristrutturazione dei locali segnalati».

Poggioreale, prime crepe nel muro della «cella zero». Giustizia. La procura di Napoli invia l’avviso di conclusione delle indagini a 22 poliziotti penitenziari e a un medico. Le violenze subite dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Tra venti giorni si deciderà l’eventuale rinvio a giudizio. E c’è il rischio di prescrizione dei reati, scrive Eleonora Martini su “Il Manifesto” il 13.08.2016. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: è ampio il ventaglio di reati ipotizzati dalla procura di Napoli nell’inchiesta sui maltrattamenti subiti da alcuni detenuti nel carcere di Poggioreale, anche nella cosiddetta «cella zero». Non tutti saranno eventualmente oggetto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, ma per intanto i magistrati hanno recapitato l’avviso di chiusura delle indagini a 22 agenti di polizia penitenziaria e a un medico. Tra venti giorni, preso atto delle controdeduzioni presentate nel frattempo dalla difesa, che conta di poter dimostrare l’«infondatezza» delle accuse, il pm Alfonso D’Avino, che coordina le indagini condotte dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. I fatti risalgono ad un arco di tempo che va dal 2012 al 2014. Fu Adriana Tocco, garante dei detenuti della Campania, a raccogliere le prime due denunce di maltrattamenti subiti nel carcere che diedero l’avvio all’attuale inchiesta giudiziaria. La prima vittima attese la fine della pena, prima di decidersi a parlare, nel gennaio 2014. «Era un uomo molto mite, sebbene avesse commesso un reato di frode finanziaria – racconta al manifesto Adriana Tocco -, mi raccontò per filo e per segno ciò che gli fece un poliziotto, senza alcun motivo». Da allora sono diventate 150 le denunce di sevizie, maltrattamenti, a volte vere e proprie torture, perpetrate negli anni. Fu così che si scoprì la presenza, a Poggioreale, – in realtà antica di oltre un ventennio, come denunciò per primo, nel 2012, Pietro Ioia, attivista per i diritti dei reclusi e presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani – della cosiddetta «cella zero», una stanza vuota posta al piano terra, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti, dove si sarebbero consumati i pestaggi. Il 28 marzo 2014, poi, una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo, dopo aver audito formalmente l’associazione Antigone, ispezionò il penitenziario napoletano. In seguito alla visita, l’allora direttrice Teresa Abate venne trasferita ad altro incarico, sostituita con l’attuale dirigente, Antonio Fullone, così come il comandante della polizia penitenziaria. «Da allora – racconta ancora Adriana Tocco – non ho più ricevuto denunce di maltrattamenti. Poche settimane fa, a fine luglio, sono stata in visita di nuovo a Poggioreale per accertarmi della veridicità di alcune lettere ricevute dal garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Ho parlato a lungo con i carcerati e ho potuto verificare che quel tipo di violenze sono terminate». «Ci auguriamo – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili». Un rischio concreto, innanzitutto perché dai primi casi di violenza sono già passati quattro anni, ma soprattutto perché, come spiega ancora Gonnella, «in mancanza del reato di tortura, al di là del fatto che possa essere effettivamente stato commesso o meno, vengono ipotizzati reati per i quali sussiste il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità». Motivo per il quale l’associazione Antigone chiede «che non si perda ulteriormente tempo e che a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura». Ma al di là dei reati eventualmente commessi da alcuni poliziotti penitenziari, rimane la questione aperta dell’isolamento, regime disciplinare dove, fa notare Antigone, «più facilmente, possono avvenire violenze» e che «rappresenta una soluzione particolarmente afflittiva che spesso induce i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi». Per questo Antigone ha presentato recentemente una proposta di legge per riformare l’applicazione del regime di isolamento, «invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato a farla loro». Rimane comunque il fatto che la cosiddetta «cella zero» non è contemplata da alcun regolamento penitenziario, e che la sua presenza, all’interno delle mura di molti penitenziari, non solo quello partenopeo, è stata negata per decine di anni.

Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino il 15 febbraio 2014 su "Il Corriere della Sera". Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Le celle zero sono in ogni carcere, scrive il 19 febbraio 2015 Davide Rosci su "Popoffquotidiano". Si vive in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano. Bisogna raccontare tutto perché il silenzio è il loro miglior alleato. La rivista Internazionale racconta la cella zero di Poggioreale. Purtroppo non si tratta di una realtà circoscritta a quel carcere. Io sono stato messo in isolamento al famigerato Mammagialla di Viterbo dove la cella era di 6 mq scarsi sotto uno scantinato buio stile film Saw (per intenderci la finestra era all’altezza della strada), l’ambiente era sudicio al massimo, lo sporco ovunque, il materasso in spugna puzzava di piscio ed era tutto rotto, il cuscino sempre in spugna mi è stato dato a metà perchè bruciato, la porta del bagno non c’era, l’acqua non era potabile e in 5 giorni non me l’hanno detto, i termosifoni non funzionavano e dalle finestre entravano gli spifferi d’aria gelata. Si stava ad una temperatura di 2 gradi. La notte ho dormito all’addiaccio con indosso tutti i vestiti che mi avevano lasciato, compreso il giubbotto, perchè le mie cose erano in un altro stanzino. Ho sofferto il freddo come non mai. Il cibo che mi veniva passato era scondito e la carne puzzava di morto. Per un mese ci hanno fornito due rotoli di carta igienica della peggiore qualità. L’acqua c’era solo in determinate ore della giornata e come detto non era potabile perchè contenente l’arsenico. Il passeggio ci veniva negato e comunque era da soli in un tugurio/corridoio di 10 mq. Le docce non avevano la luce e ci era consentito farla per poco tempo, tutto era allagato e pieno di muffa. Ricordo sui muri il sangue ovunque e le frasi di misericordia, rabbia e preghiere dei poveri cristi che come me avevano avuto la sventura di entrare lì sotto. Nella cella vicino alla mia c’erano due ragazzi che stavano scontando il 14 bis e per loro il mio cuore ancora piange. Praticamente dovevano passare 6 mesi lì sotto nelle condizioni che vi ho descritto perdipiù senza tv e possibilità di uscire e avere colloqui regolari con i propri cari. Vivevamo in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano…bisogna raccontare tutto perchè il silenzio è il loro miglior alleato.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

Lavagna, sedicenne si getta dalla finestra di casa e muore durante una perquisizione, scrive Stefano Origone il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". Un mese senza calcio perché andava male a scuola. La guardia di finanza che perquisisce la sua camera alla ricerca di droga dopo che gli erano stati trovati in tasca una decina di grammi di hashish durante i controlli all'uscita dell'istituto scolastico di Lavagna che frequentava. Si è sentito perduto davanti alla mamma che piangeva e si sentiva colpevole di non aver fatto abbastanza quando ha iniziato a sospettare che il rendimento scolastico del figlio fosse calato per via della droga. Divise militari, l'auto con il lampeggiante acceso sotto casa. La gente che mormora in piazza. Il rischio di una segnalazione in prefettura come consumatore di sostanze stupefacenti. Marchi indelebili per Carlo (il nome è di fantasia per tutelare il minore e la sua famiglia) che non ha retto il peso della vergogna e di aver tradito la fiducia dei genitori. Si è tolto la vita a 16 anni, lanciandosi dalla finestra della sua abitazione di Lavagna. Tutto è iniziato in mattinata durante un controllo anti droga a scuola. Gli trovano una decina di grammi di hashish. Scatta il sequestro e i finanzieri avvisano i genitori per convocarli a casa poiché, come è previsto, deve essere eseguita una perquisizione. Il ragazzo rischiava solo una segnalazione al prefetto. In casa, la perquisizione dà esito negativo. I due finanzieri, secondo una prima ricostruzione, stavano parlando con i genitori quando il ragazzo ha aperto la finestra e si è lanciato dal terzo piano. Era ancora vivo quando è stato soccorso. Viene chiamato l’elicottero per un trasporto urgente al San Martino. La Finanza carica in auto i genitori e si dirige al pronto soccorso. Ma quando l’ambulanza arriva all’appuntamento con l’elicottero il sedicenne è già morto. "Se si poteva evitare la perquisizione? E' d'obbligo in tutti i casi e ancora di più in caso di un minore, il nostro compito è tutelarlo", interviene il tenente colonnello Emilio Fiora, comandante del Primo Gruppo della Guardia di Finanza da cui dipende la compagnia di Chiavari che ha eseguito i controlli nell'abitazione del giovane. Certo è che la morte del ragazzo, riapre il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere. "Chi glielo spiega ora, ai genitori del sedicenne di Lavagna, cui erano stati sequestrati dieci grammi di hashish, che la normativa sulle sostanze stupefacenti mira a tutelare la salute e l'integrità fisica e psichica dei giovani? Legalizzare i derivati della cannabis". Lo dichiara il senatore del Pd, Luigi Manconi.

I dieci grammi del ragazzo di Lavagna e i miliardi della mafia. Il suicidio è un gesto privato, ma le responsabilità sono pubbliche, scrive Roberto Saviano il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". Ha sedici anni e all'uscita da scuola viene perquisito dalla Guardia di Finanza. Ha addosso dieci grammi di hashish, i classici cinquanta euro di fumo che comprano i ragazzi. Avrebbe ammesso di averne ancora un po' a casa. Quindi la Guardia di Finanza perquisisce la sua cameretta ed effettivamente trova, dove lui stesso aveva indicato, altro fumo. La cronaca ci dice che il ragazzo, durante la perquisizione o mentre uno dei finanzieri stava parlando con sua madre, si alza dal divano dove era seduto, apre la finestra e si butta giù, dal terzo piano. Viene trasportato in elicottero in ospedale, ma non ce la fa. Muore. I fatti sono questi. Forse è utile localizzare l'evento per un solo dato: Lavagna è un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Genova. A Lavagna ci si conosce un po' tutti e magari il peso di ciò che la comunità pensa di te ancora si sente forte, fortissimo. Posso ipotizzare che in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino. Questi i fatti a cui non mi va di aggiungere dettagli emotivi. Inutile parlare di quelli che noi presumiamo essere i rapporti con la famiglia: questo non è un romanzo e quindi guardiamoci dall'interpretare i pensieri del ragazzo e dal riempire il vuoto di parole che crediamo siano state pronunciate ma che non hanno, ai fini della nostra valutazione, alcun peso. Concentriamoci, invece, sulle responsabilità politiche che si celano dietro un gesto privato. Concentriamoci sui motivi che portano i media a interessarsi di droga solo quando ci sono sequestri enormi, arresti eccellenti o morti tragiche come questa. Interroghiamoci su cosa uno Stato paternalista possa davvero fare per salvare vite. Concentriamoci sul fallimento della proibizione in materia di stupefacenti, in ogni luogo e in ogni tempo. E mentre scrivo ho davanti agli occhi il corpo martoriato di Stefano Cucchi e in mente i motivi che hanno condotto al suo arresto. Il 15 ottobre 2009, Cucchi viene fermato dai Carabinieri perché era stato visto cedere droga in cambio di soldi. Lo portano in caserma e addosso gli trovano 21 grammi di hashish, divisi in 12 confezioni, e tre dosi di cocaina. Durante la custodia cautelare accade quello su cui da anni si cerca di fare chiarezza. Perché ho citato Cucchi? Per un motivo preciso. Stefano muore dopo una settimana, mentre è affidato allo Stato Italiano. Stefano muore perché trattato da tossico, da spacciatore, non mancano al riguardo commenti agghiaccianti. Ricordo Giovanardi che disse che tra spacciatori e carabinieri sceglieva i carabinieri, di fatto fotografando un clima da guerra civile tanto assurdo quanto ingiustificato. E poi il "mi fai schifo" di Salvini rivolto a Ilaria Cucchi che aveva deciso, coraggiosamente, di mostrare le immagini terribili del corpo martoriato di suo fratello. Ma cosa ha raccontato, al nostro Paese, la morte di Stefano Cucchi? Che se sei uno spacciatore e un tossico meriti di morire. E che se ti trovano in possesso di droga, sei una merda e ti sei rovinato la vita. La tua e quella della tua famiglia. Non c'è appello. Non c'è possibilità di riscatto. È questo che hanno raccontato la morte di Federico Aldrovandi e poi quella di Stefano Cucchi. Ecco perché oggi, di nuovo e con urgenza, dobbiamo riflettere sulla necessità di avviare un dibattito parlamentare serio sulla legalizzazione della cannabis e lo facciamo ancora una volta sul corpo di un altro ragazzo la cui vicenda solo apparentemente non c'entra nulla con le altre che ho citato. In realtà con loro ha in comune il contesto, un contesto che condanna senza processo. Ma ci pensate mai? Solo alla presenza di un corpo morto, ci si distrae per un attimo dalla politica fatta di messaggi mandati via chat intercettati, interpretati, smentiti e per qualche ora si raccolgono idee e dichiarazioni per dirci quanto anche sulla legalizzazione delle droghe l'Italia sia in colpevole ritardo. Poi si seppellisce il corpo e tutto torna alla normalità. E intanto stupisce l'impiego di una tale solerzia militare su un sedicenne, è ovvio che si tratta di procedure, ma non ci si può esimere dal constatare la spropositata attenzione in questo caso su un dettaglio, rispetto al problema. E anche qui si tratta di valutazione politica e non militare. Di valutazioni generali che prescindono dalle responsabilità dei singoli. Che prescindono dal numero di finanzieri che hanno effettuato la perquisizione, ma hanno a che fare con una logica doppia che non può non saltare all'occhio. Da dove arriva il fumo che si spaccia a Lavagna? Da quelle piazze di spaccio a cielo aperto delle periferie romane o napoletane dove le forze dell'ordine hanno difficoltà a effettuare i seppur minimi controlli. E le scuole di mezza Italia, oggi come ieri, sono piazze di spaccio dove arriva qualunque tipo di droga. Allora mi domando: ha più senso tracciare il fumo prima che arrivi nelle mani dei sedicenni o ha più senso punire il sedicenne consumatore? E ancora: è più accettabile che un sedicenne possa acquistare fumo in un coffee shop o da spacciatori che hanno anche altro da vendere e soprattutto hanno a che fare con un sottobosco criminale dal quale sarebbe consigliabile tenersi alla larga? Il fumo che si spaccia davanti alle scuole, nelle discoteche, negli stadi e ovunque ci siano ragazzi è fornito dai cartelli criminali. Il problema sono loro o sono gli studenti che fumano? Si dirà: ma se non parti dal piccolo come arrivi al grande? Questo non è assolutamente vero, perché il rischio è che si parta dal piccolo per fare gran numero di fermi e di perquisizioni, perché arrivare alla gestione delle basi è molto complicato. Si parte dal piccolo spacciatore per rimanere al piccolo spacciatore. Per smantellare piazze di spaccio si rischia di lavorare a vuoto per mesi. E invece ci vogliono fatti concreti, bisogna fare numero, fermi, droga perquisita, grammi su grammi da comunicare nei dati che a fine anno verranno pubblicati affinché l'opinione pubblica si convinca che le forze dell'ordine fanno il loro lavoro. Quando Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi hanno avuto il coraggio di mostrare le immagini dei volti tumefatti di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, io ho sentito verso di loro enorme gratitudine. Lo hanno fatto, certo, per un figlio, per un fratello, morti in circostanze odiose, ma lo hanno fatto anche perché sapevano che i diritti si ottengono utilizzando corpi, corpi che diventano campi di battaglia. Oggi però mi assale lo sconforto nel constatare che il corpo morto, quello senza vita (che sia il corpo del piccolo Aylan trovato esanime sulla costa turca, quello di Federico o quello di Stefano) ci indigna, ci fa incazzare, rabbrividire, commuovere, ma ci restituisce anche la tristissima consapevolezza che ormai più nulla è dato fare. Che oltre la morte non c'è più niente. Che ogni nostro gesto, ogni nostra azione è ormai vana. La nostra distrazione è quindi giustificata, naturale conseguenza, quasi ovvia, scontata, dovuta. Normale. Chi si occupa di mafie questo lo sa bene: non si spiegherebbe altrimenti l'indifferenza ai morti in terra di camorra, morti giovani, minorenni, morti innocenti, morti colpevoli. E penso a Marco Pannella e all'intuizione che ha avuto, intuizione geniale, da politico di razza, sulle battaglie politiche, che andavano necessariamente condotte utilizzando il corpo vivo, il suo corpo vivo. Gli scioperi della fame per i detenuti e la distribuzione di marijuana e cannabis. Oggi prendiamo la sua eredità perché è sui corpi dei vivi che vanno combattute e vinte le battaglie. Dei corpi morti ci dimentichiamo in poco tempo. È il suo metodo che dobbiamo utilizzare, un metodo analitico che dal particolare va subito all'universale e non indugia sui turbamenti intimi dell'animo umano, ma punta dritto alle responsabilità collettive e su quello che c'è da fare. Qui, dunque, non è minimamente in discussione l'incapacità che un sedicenne ha, per inesperienza, di relativizzare ciò che gli accade, ma la necessità di porre seriamente le basi perché gli innocenti, ma anche i colpevoli, non vengano condannati a morte dalla pubblica morale. E se il decesso di Stefano Cucchi è stato procurato, il ragazzo di Lavagna ha anticipato il giudizio sociale e, in una manciata di minuti, si è autoprocessato, si è trovato colpevole, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudicarlo. Non giriamoci troppo attorno, lui è l'ennesima vittima di un sistema criminogeno, di un sistema che non funziona per calcolo, inerzia, incompetenza, comodità. E rendiamoci conto che uno Stato paternalista, che pretende di preservare i suoi figli vietando, è uno Stato destinato a fare un numero incalcolabile di vittime e che regala alle organizzazioni criminali un mercato stimato tra 4 e 9 miliardi di euro all'anno. Questo è il valore della cannabis consumata. Smettiamo, quindi, di fare regali alle mafie e legalizziamo, ora. Legalizziamo. Anzi, in realtà bisognava averlo già fatto, ieri.

IL CASO DI STEFANO CUCCHI.

Caso Cucchi, il pm: i carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia, scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Prima ancora che la procura conferisse l’incarico per l’esame medico legale sulla morte di Stefano Cucchi, i carabinieri erano già in possesso di una relazione ufficiosa e segreta, datata 30 ottobre 2009. L’ennesimo colpo di scena svelato nell’aula del processo bis dal pm Giovanni Musarò ha come conseguenza la richiesta della pubblica accusa alla corte D’Assise di revocare dalle prove di questo dibattimento le testimonianze rese dai vecchi periti. La prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi «è stata farlocca, le testimonianze di consulenti e periti dell'altro processo introdurrebbero un vizio nel processo attuale», sottolinea Musarò. «Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo», aggiunge il pm, ma la credibilità di quei testi «è irreparabilmente inficiata». Nella precedente udienza era emerso che sempre sulla base di false attestazioni mediche fornite dai carabinieri al ministro dell’Interno Angelino Alfano, il titolare del Viminale era stato indotto a dire il falso quando venne chiamato a riferire del caso in parlamento. Ora, il passo avanti ulteriore con cui la procura sostiene la sua accusa di depistaggio a carico di altri sette carabinieri, oltre ai cinque imputati per il pestaggio e i falsi. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, dice ancora il pm in aula, «erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm di allora non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell'autopsia». La relazione di cui parla l'Arma in documenti riservati del 2009, «era talmente segreta da essere negata anche alle parti», aggiunge Musarò.

Cucchi, il dossier sull’autopsia finito nelle mani dei carabinieri. Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Di udienza in udienza, al processo per la morte di Stefano Cucchi i misteri si infittiscono anziché chiarirsi. O meglio, affiora con sempre maggiore chiarezza un intrigo — legato ai depistaggi del 2009 e del 2015 denunciati dall’accusa — che i protagonisti non riescono a spiegare. O si rifiutano di spiegare avvalendosi del diritto al silenzio essendo a loro volta indagati per falso o favoreggiamento. A cominciare dal generale dei carabinieri Alessandro Casarsa e dal capitano Tiziano Testarmata, che dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò nel corso dell’inchiesta-bis sulla manipolazione delle prove, nell’aula dove vengono giudicati cinque loro colleghi imputati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso, scelgono di tacere.  «Sono emerse altre circostanze inquietanti relative agli accertamenti medico-legali sul decesso di Cucchi», annuncia il pm Musarò aprendo l’udienza di ieri, per mettere in guardia: «Nell’altro processo (quello contro gli agenti penitenziari finiti assolti, ndr) è stata giocata una partita con le carte truccate; oggi ne giochiamo un’altra con un mazzo nuovo, ma vorrei evitare altri trucchi». Stavolta la novità è una relazione preliminare del medico che il 23 ottobre 2009, il giorno dopo la morte di Stefano, effettuò l’autopsia sul cadavere. Otto pagine consegnate dal consulente Dino Tancredi al magistrato che all’epoca svolgeva le indagini, Vincenzo Barba, alle 17.40 del 30 ottobre e negate agli avvocati della famiglia Cucchi. Segrete per tutti ma non per l’Arma, che già negli appunti redatti dall’allora colonnello Casarsa lo stesso 30 ottobre e dall’ex comandante provinciale Vittorio Tomasone il 1° novembre, ne davano conto. Enfatizzando conclusioni parziali e interlocutorie, redatte «con riserva di ulteriori approfondimenti». Prima ancora che a Tancredi venissero affiancati altri consulenti, i carabinieri spiegavano nel loro appunto trasmesso al comando generale (poi utilizzato per informare il governo chiamato a rispondere alle interrogazioni parlamentari) che il collegio peritale sarebbe stato ampliato per «valutare i risultati parziali dell’autopsia che sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi». In realtà Tancredi aveva ripetutamente scritto che «allo stato attuale» non emergevano elementi che collegassero le lesioni alla morte di Cucchi; e che «la definizione dei mezzi produttori della medesima necessita di ancor più approfondito esame» di tutti gli elementi a disposizione e ancora da raccogliere. Tuttavia la mancanza del famoso «nesso causale» tra le percosse e la morte di Cucchi verrà poi introdotta nelle successive consulenze e perizie che hanno condizionato il primo processo, e che oggi il pm non esita a definire «farlocche». Anche in virtù di un’altra relazione senza data, che lo stesso Tancredi non sa spiegare, in cui sparì una lesione vertebrale invece presente in quella preliminare; e delle anticipazioni elaborate dai carabinieri, sebbene non si capisca a quale titolo furono informati in tempo reale degli accertamenti medico-legali in corso. Perché avevano quella relazione segreta? E come poterono anticipare le mosse successive? Nell’udienza precedente il generale Tomasone disse di non ricordare perché nel suo appunto escluse il collegamento tra botte e decesso, essendosi limitato a trascrivere ciò che gli aveva indicato il colonnello Casarsa. Il quale nel frattempo è diventato anche lui generale e al pm — nell’istruttoria sui presunti depistaggi — aveva detto di non ricordare chi gli aveva trasmesso quelle informazioni; negando di aver dettato l’annotazione al suo sottoposto, come riferito dal colonnello Cavallo. Versioni contraddittorie, un carabiniere contro l’altro. E ieri, convocato davanti ai giudici, Casarsa ha cambiato atteggiamento: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Come il capitano Testarmata — che sulle acquisizioni di carte del 2015 aveva risposto al pm, sostenendo tesi smentite da altri — ma in aula resta zitto, se non per declinare le proprie generalità. L’unico ufficiale che deve parlare per forza in quanto testimone, il tenente colonnello Paolo Unali, ex comandante della compagnia Casilina, non sa spiegare perché negli atti redatti all’epoca non si fa mai cenno ai motivi del mancato fotosegnalamento di Cucchi la sera dell’arresto (quando avvenne il pestaggio, secondo l’accusa). «Mi avevano riferito che era stato poco collaborativo», dice. Ma allora come mai negli appunti il detenuto viene descritto come «remissivo», oltre che falsamente «anoressico e sieropositivo»? «Non lo so», risponde Unali. Quelle carte dei carabinieri sono rimaste nascoste per nove anni, e solo di recente sono state consegnate dall’Arma, inserite negli atti della nuova indagine e prodotte in aula. Ma, un po’ misteriosamente, la corte d’assise per adesso ha stabilito che non debbano entrare nel processo.

Caso Cucchi, il pm al processo: "I carabinieri avevano una relazione segreta precedente all'autopsia". E' la novità emersa nell'udienza del procedimento bis sui presunti depistaggi. Musarò: "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i militari già lo sapessero?" Scrive l'8 marzo 2019 Maria Elena Vincenzi La Repubblica. Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell'autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. E' la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d'Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell'ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musarò, veniva evidenziato che la lesività delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell'Arma veniva esclusa la possibilità di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell'autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all'avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un'insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?" ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all'autopsia di Stefano Cucchi. "I legali di Cucchi nel 2009 - ha aggiunto - avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c'erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece - ha concluso - si sosteneva che non c'era un nesso di causalità delle ferite con il decesso".  "Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall'inizio delle operazioni" spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. "Per pervenire a delle conclusioni - ha aggiunto - io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perchè c'erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti. Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009". Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento "contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo perché è' poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni".

Stefano Cucchi, il pm: “I carabinieri avevano una relazione segreta sui primi risultati dell’autopsia, scrive Il Fatto Quotidiano l'8 Marzo 2019. Il 30 ottobre 2009 era stata fatta una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia di Cucchi tenuta segreta ma di cui il Comando Provinciale e il Gruppo Roma sapevano”. È quanto dichiarato dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel documento preliminare (effettuato il giorno stesso del decesso del geometra 31enne) si sottolineava che “la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte”. Parole che marcano una differenza netta rispetto a quanto sostenuto sempre nell’autopsia e nella maxi-consulenza, in cui veniva escluso un nesso fra le ferite di Stefano Cucchi e la sua morte. Si tratta infatti di risultati completamente diversi, che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari – che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi – si parlava di due fratture (e non precedenti), oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, “erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell’autopsia” ha evidenziato il pubblico ministero. La relazione di cui parla l’Arma in documenti riservati del 2009, “era talmente segreta da essere negata anche alle parti” ha aggiunto. Il documento in questione era stato firmato dal medico legale Dino Tancredi, l’unico già nominato il 30 ottobre 2009, e vi si sottolineava come servissero ulteriori approfondimenti per definire le cause del decesso. Eppure già in quei giorni l’Arma sottolineò come i medici legali avessero escluso il nesso di causalità tra la morte del giovane e le percosse subite. Musarò ha fornito anche altri dettagli: nella relazione si spiega “che c’erano due fratture non precedenti alla morte e non si faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e che Cucchi era morto per cause da accertare”. Il pm ha sottolineato che però “nei verbali dei Carabinieri già si sosteneva che non c’era nesso di causalità tra le ferite e la morte”. Infine ha ripetuto: “Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?”. Una presa di posizione, quella del pm Musarò, che segue quanto avvenuto il 27 febbraio scorso durante l’audizione in aula come testimone del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri. Tomasone ha detto di non essersi mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra 31enne, circostanza però smentita dal pm Musarò, che in aula gli ha mostrato un atto sua firma nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia, in particolare in merito a due fratture, che neanche la Procura di Roma ancora conosceva.”Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto il pm, con Tomasone che per rispondere ha chiamato in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha chiesto se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. E qui Tomasone ha replicato dicendo “questo non lo so”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia del geometra, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.

Cucchi, il legale della famiglia: "Valutiamo azione risarcitoria contro lo Stato". Per l'avvocato Anselmo la presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte del geometra romano potrebbero avere costituito un danno alla famiglia, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte di Stefano Cucchi potrebbero avere non solo costituito un danno d'immagine all'amministrazione della giustizia ma sicuramente un danno alla famiglia, da sempre alla ricerca della verità. Per questo il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, starebbe valutando "un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato" ma anche un'iniziativa legale contro il Campidoglio", unico ancora costituito parte civile nei confronti dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, dove il geometra morì nel reparto protetto. "Quel processo però ora sta emergendo che si basa su atti e documenti falsi", spiega Anselmo. "Il primo processo, quello sui medici, sarebbe terminato con la prescrizione ma rimane allo stato in piedi solo per l'ormai unica parte civile, che è il Comune di Roma. Di fatto tutto ciò sta aiutando processualmente medici e carabinieri, i quali sperano di usufruire di una perizia che si basa su un processo sbagliato e sulle deposizioni di carabinieri che oggi sono imputati e coinvolti nell'inchiesta bis", precisa ancora Anselmo. Ma la questione dei presunti falsi, che sta emergendo ora con forza durante le udienze del processo nei confronti di 5 carabinieri, potrebbe indurre anche la Corte dei Conti a considerare nel fascicolo già aperto sul caso Cucchi il reato di danno all'amministrazione della giustizia. Ciò perchè i presunti atti modificati e falsificati avrebbero innescato depistaggi e di fatto impedito per anni di accertare la dinamica dei fatti che portarono alla morte di Cucchi. "Alla Corte dei Conti c'è un fascicolo aperto ma per muoversi su un eventuale danno di immagine la norma prevede il passaggio in giudicato della sentenza - spiega Massimiliano Minerva, consigliere della Corte dei Conti del Lazio, a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - stanno venendo fuori reati diversi come il falso o il cosiddetto depistaggio che potrebbero essere reati contro l'amministrazione della giustizia". L'annuncio della difesa della famiglia Cucchi arriva dopo l'udienza di ieri con l'audizione in aula del generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. Un'audizione in qualità di testimone fatta anche di molti “non ricordo” e che è arrivata dopo le parole del pm Giovanni Musarò che ha ricostruito ciò che l'accusa descrive come un depistaggio iniziato nell'ottobre del 2009. Da quel momento, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, la catena di comando dei Carabinieri mette in atto una serie di iniziative per "allontanare" la verità su quanto avvenuto. Un percorso fatto di falsi che è riuscito ad approdare perfino in Parlamento quando l'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, basò, in maniera del tutto inconsapevole, il suo intervento al question time sulla vicenda del geometra utilizzando una nota redatta dai carabinieri della stazione Appia. "In Aula il ministro riferì il falso su atti falsi", ha affermato il pm Giovanni Musarò. Ora quei falsi potrebbero portare ad un'azione risarcitoria contro lo Stato.

Caso Cucchi, i pm: ''Angelino Alfano indotto inconsapevolmente a dichiarare il falso su atti falsi'', scrive Giovanni Bianconi su Corriere della Sera, 1 marzo 2019. Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: "Qui di prassi non c'è nulla". Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel "caso Cucchi", il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d'interrogatorio degli ufficiali dell'Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d'allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell'inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell'informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all'epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: "Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l'ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo". Il procuratore commenta: "Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti". "Non è una risposta" - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell'autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: "Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...", e Pignatone lo avverte: "Questa non è una risposta. Mi scusi...". Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché "non è la prassi", e il procuratore sbotta: "Ma qua non c'è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c'è assolutamente nulla nella prassi, quindi...". Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l'ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: "Non ho capito la domanda". Il procuratore interviene: "E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l'ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c'era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità". "Cerchiamo la verità" - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: "Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false". Pignatone: "Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto "carte alla mano" queste benedette relazioni?". Sabatino: "Questo, procuratore, non lo so". Il magistrato prova a insistere: "Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?". Sabatino: "Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un'accusa che riguardava altro...". Pignatone: "Vabbè, andiamo avanti". Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver "messo mano" a quei documenti "su indicazione del colonnello Casarsa", il procuratore ricorda: "Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev'essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo". Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni "minimizzanti" sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. "Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...", prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: "Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette".

In aula ascoltato l’ex Comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone, scrive AntiMafiaDuemila il 28 Febbraio 2019. Nuovi inquietanti particolari sono venuti a galla dal processo bis sulla morte del trentenne Stefano Cucchi. Il pm Giovanni Musarò, ieri, durante l’apertura d’udienza, ha pronunciato parole al vetriolo: “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Il magistrato ha puntato il dito contro i continui depistaggi, posti in essere sulla morte di Stefano Cucchi dai vertici dell'Arma dei carabinieri, che via via sarebbero arrivati fino alle scrivanie del governo dell’epoca. In particolare a cadere nella trappola della manipolazione delle carte dell’Arma, sulla morte dell’ingegnere romano, sarebbe stato il ministro degli Interni di allora, Angelino Alfano. Questi “era stato inconsapevolmente indotto da atti falsi a riferire il falso” quando venne chiamato a rispondere davanti al Senato il 3 novembre 2009 su delle informative rinvenutegli dall’Arma. L'attività di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi ebbe inizio il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell'agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto, come invece vide il padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. - ha detto Musarò in aula- Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio”. Ed è da questa agenzia che si sarebbe mosso il meccanismo di depistaggio dei Carabinieri dal quale, grazie alle attività di indagine, sarebbero emerse due circostanze. La prima: “Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Che servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti”. Mentre il secondo scenario riguarda le conclusioni mediche eseguite prima della perizia: “Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - ha affermato il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".

L’udienza di ieri ha visto come teste il Generale dei Carabinieri Vittorio Tomasone, al quale dipendevano tutti i militari che ebbero a che fare con il giallo di Stefano Cucchi (inclusi i 5 imputati al processo bis), poichè all’epoca dei fatti era Comandante provinciale di Roma. La testimonianza dell’ex comandante è stata ricca di amnesie dipinte da vari “non ricordo” e "non ho memoria dei fatti" che hanno scaturito la stizza del pm Giovanni Musarò. Secondo Tomasone “quello di Cucchi era stato un arresto normale, come tanti” e alla questione se si fosse mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra il generale ha risposto negativamente. Negazione smentita però dal pm Giovanni Musarò che in aula gli ha mostrato un atto a firma proprio del generale nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia del giovane, in particolare in merito a due fratture, di cui neanche la procura capitolina era a conoscenza. “Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto quindi il pm. Alla domanda del pm, Tomasone ha risposto chiamando in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha domandato se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. Domanda alla quale il generale ha risposto brevemente: “questo non lo so”. Il pm ha riportato allora un’annotazione dalla quale emergeva che il 23 novembre 2009 fu disposta l’autopsia di Stefano, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicò la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando Generale, scriveva dei risultati parziali dell’autopsia che ancora non era stata fatta”, perché “non erano nemmeno stati nominati i periti”. A questo il generale si è difeso asserendo di “non avere memoria sul modo con il quale è stata assunta l’informazione”. Casarsa, ascoltato dai pubblici ministeri lo scorso 28 gennaio, aveva detto a riguardo: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. In quel documento Casarsa ha affermato, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia “sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”. Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa ha detto di non essere in grado di affermare da chi ebbe “le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza”. Nella lista degli indagati è stato iscritto anche il colonnello Lorenzo Sabatino insieme a Casarsa, gli ufficiali si sono difesi sostenendo di “non essere a conoscenza” del contenuto delle note, che sarebbero emerse come modificate. “Da persona innocente mi sono trovato in una rete senza uscita ordita nei nostri confronti. Eravamo tre pecore mandate al patibolo”, ha detto l’agente della polizia penitenziaria Nicola Minichini, processato con altri due colleghi e assolti in via definitiva. La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo.

Cucchi, il ministro Alfano mentì perché ingannato dai carabinieri. Lo ha detto il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri, scrive Valentina Stella il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Lo ha detto ieri il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri. Seconda l’accusa l’attività di depistaggio sulla morte del giovane geometra sarebbe iniziata il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell’agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono che Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti invece poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “A partire dal 26 ottobre del 2009 – ha precisato il pm – iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera il 3 novembre”. Di conseguenza “il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Inoltre, il ministro Alfano disse, sulla base di quelle informative pervenutegli dalla Difesa seguendo la scala gerarchica dell’Arma, “che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato dai carabinieri. Da qui – ha sottolineato il pm – cominciò una difesa a spada tratta dell’Arma che si tradusse in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo”. A tal proposito è Nicola Minichini, uno dei tre agenti della penitenziaria accusati inizialmente del pestaggio di Cucchi, assolti nei tre gradi di giudizio e poi ora parti offese nel processo- bis in corte d’assise a sfogarsi: “Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Io non riesco ancora a capire come sia stato possibile”. E di questa rete di depistaggio farebbero parte anche le falsificazioni degli esami medico legali: secondo il pm, nelle note dell’Arma, l’anemia e l’epilessia dichiarate dal povero geometra diventarono anoressia. Inoltre “due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all’Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Tutto ciò – aggiunge il magistrato era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati”. Tutto in regola invece per il generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri per cui, come riferito ieri in qualità di testimone, quello di Cucchi “fu un arresto normale”. La sua versione dei fatti è stata caratterizzata da tante ammissione di “non ricordo” e “non ho memoria dei fatti” che hanno suscitato l’irritazione del pm Giovanni Musarò.

Caso Cucchi, nuove prove di depistaggio al processo: "Conclusioni mediche prima di perizia" . Tomasone: "Fu un arresto normale". Durissimo il pm: "Le carte acquisite a novembre 2018 dimostrano che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia". Depone come teste l'allora comandante: "Chiesi relazione sui fatti, sono convinto che non ci siano responsabilità da parte dei carabinieri", scrive Maria Elena Vincenzi il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Si è aperta alla Corte di assise di Roma, con un nuovo e ultimo deposito, l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchiche vede imputati cinque carabinieri nell'ambito del nuovo filone di inchiesta sui falsi e sui depistaggi legati alle condizioni di salute del 32enne geometra arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. Ma soprattutto è la giornata in cui è stato sentito Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. In apertura di udienza il pm Giovanni Musarò prende la parola. "È l'ultimo deposito di attività integrativa di straordinaria importanza. C'è stato depistaggio sia nel 2015 sia per il 2009 che è oggetto del procedimento. Pensiamo di essere riusciti a capire e dimostrare cosa accadde nel 2009, grazie ad acquisizione documentale resa possibile anche grazie alla leale collaborazione che ci è stata offerta dal comando provinciale dei carabinieri. "Due le circostanze - spiega il pm -  la prima attiene alla ricostruzione dei fatti. Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio".

Al ministro Alfano documenti falsificati. "Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Ma a cosa servivano: non servivano per il pubblico ministero, servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti".

Conclusioni mediche prima della perizia. "Secondo aspetto - prosegue Musarò - che attiene agli esami medico legali. Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false.   Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - aggiunge il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".

Anemia e epilessia diventarono anoressia. "Mi sono andato a risentire l'audio di quel processo per direttissima. Stefano Cucchi disse di avere l'anemia e l'epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni sulle condizioni di salute del ragazzo, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte". Lo ha sottolineato il pm Giovanni Musarò nel processo ai cinque carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Il magistrato ha quindi spiegato che il comando provinciale dell'Arma nel gennaio del 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. "Non è vero, perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ha negato che accadde ciò - ha concluso il pm -. L'epilessia di Cucchi era da tempo in fase di rimessione, come hanno detto i medici. Eppure l'epilessia, nella relazione peritale del gip dell'ottobre del 2016, diventò la causa più probabile del decesso. Si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia, ma ormai qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema".

Tomasone: "Fu un arresto normale". Per l'allora comandante dei carabinieri, quello di Cucchi "fu un arresto normale". Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Lo ha riferito davanti alla corte d'assise il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti (2009) comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, sentito come testimone nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Una versione, quella dell'alto ufficiale dell'Arma, caratterizzata da tante ammissione di "non ricordo" e "non ho memoria dei fatti" che hanno suscitato la stizza del pm Giovanni Musarò. Tomasone ha spiegato così il significato della riunione del 30 ottobre del 2009, che il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, ha definito in udienza 'come quella degli alcolisti anonimi': "A tutti coloro che erano stati presenti nella vicenda dell'arresto di Cucchi - ha detto il generale - avevo chiesto di venire da me al Comando provinciale e, oltre a portare una relazione scritta, di dire quello che avevano fatto. All'esito di questi ulteriori accertamenti, ne deducevo il convincimento che non vi potevano essere responsabilità. Il motivo di fare venire i militari non era solo quello di cogliere il 'focus' del loro racconto ma anche, attraverso l'espressione del loro viso, capire se qualcuno stesse correggendo altri nella ricostruzione dei fatti. Sentire i militari singolarmente si sarebbe prestato a una interpretazione diversa. Mi sembrava cosa più logica guardarli negli occhi tutti assieme"...

Caso Cucchi, il pm: “Alfano disse il falso in Aula ingannato dagli atti fasulli prodotti dai carabinieri”. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm oggi nel processo per la morte del geometra romano. Durante l'udienza ha testimoniato in generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane, scrive Il Fatto Quotidiano il 27 Febbraio 2019. L’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “dichiarò il falso” di fronte al Parlamento sul caso Cucchi, sulla base di una “serie di annotazioni falsificate” da parte dei carabinieri. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Durante l’udienza odierna, ha testimoniato il generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane geometra romano, morto all’ospedale Pertini di Roma dove si trovava ricoverato dopo il fermo dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Secondo l’accusa, che indaga anche sul successivo presunto depistaggio portato avanti dai militari dell’Arma, nelle carte ci sono le prove dei “falsi e delle omissioni” dell’allora Comando provinciale dei carabinieri di Roma che hanno tratto in inganno anche l’ex ministro della Giustizia. Il 3 novembre 2009, al Senato, Alfano (sopra la foto di quel giorno, ndr) durante la sua informativa accusò implicitamente gli uomini della polizia penitenziaria, ha detto il pm spiegando come il “depistaggio” sarebbe partito subito dopo un dispaccio d’agenzia del 26 ottobre 2009 in cui il parlamentare Luigi Manconi “denunciava che i genitori del ragazzo lo avevano visto dopo l’arresto senza segni in viso mentre il giorno dopo era tumefatto”. Da quel momento, ha detto Musarò, “da parte dei carabinieri partono una serie di annotazioni falsificate” e Alfano “sulla base di atti falsi”, dichiarò “il falso in Aula, lanciando accuse alla polizia penitenziaria, quando ancora in procura non c’era nulla contro la penitenziaria”. Fino a quel giorno – ha ricordato il pm Musarò – il fascicolo dei pm Barba e Loy sulla morte di Cucchi “era a carico di ignoti e solo dopo le parole di Alfano partirà l’indagine sui poliziotti”. Per quello che il pm ha definito “un gioco del destino”, il 3 novembre 2009, “quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi”. Quella dichiarazione – ha detto il pm – “è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva”. Nel caso Cucchi, ha concluso Musarò, “si è giocata una partita truccata, con carte segnate”. Una partita “giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”.  Durante il suo interrogatorio, il generale Tomasone ha spiegato, relativamente alla riunione convocata con molti dei carabinieri ora indagati per il depistaggio: “Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.

Cucchi, l'inchiesta si allarga: indagato anche un colonnello. Avviso per favoreggiamento a Sabatino, all’epoca capo del nucleo operativo di Roma, scrive Carlo Bonini il 15 febbraio 2019 su La Repubblica. Prigionieri del vincolo di omertà con cui l’Arma dei carabinieri ha sequestrato per nove anni la verità sull’omicidio di Stefano Cucchi, cadono uno dopo l’altro. E tutti insieme. Ufficiali, sottufficiali, truppa. In una sequenza in cui i “morti” (marescialli e appuntati), abbandonati al loro destino giudiziario, si afferrano ai vivi (capitani, maggiori, colonnelli, generali), trascinandoli a fondo. E tocca ora, dunque, al colonnello Lorenzo Sabatino, ambiziosissimo ufficiale cresciuto all’ombra dell’ex Comandante generale Leonardo Gallitelli e oggi comandante provinciale dei carabinieri a Messina. Il pm Giovanni Musarò lo ha interrogato come indagato mercoledì pomeriggio, contestandogli il reato di favoreggiamento per l’attività di occultamento e manipolazione delle prove condotta nel novembre 2015 dal Reparto Operativo dell’Arma di Roma, di cui era allora comandante, che avrebbe dovuto far deragliare anche l’inchiesta bis dalla Procura sull’omicidio (quella per cui si sta celebrando il processo ai tre carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano). Al colonnello Sabatino, che in quel novembre del 2015 aveva ricevuto l’incarico di raccogliere e trasmettere alla Procura tutti gli atti interni all’Arma su Cucchi, il pm Musarò contesta infatti di non aver segnalato come in questo scartafaccio di carte che trasmise al suo ufficio fossero state “manomesse” due delle evidenze chiave in grado di ricostruire cosa fosse accaduto la notte del 16 ottobre 2009, quella dell’arresto e del pestaggio di Stefano. Si trattava delle relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, due piantoni di guardia nella caserma di Tor Sapienza, quella dove Stefano trascorse la notte dell’arresto. A entrambi – come l’indagine della Procura ha recentemente documentato – venne imposto dalla catena gerarchica dell’Arma di correggere quanto avevano inizialmente annotato per iscritto nelle loro relazioni in modo tale che scomparisse ogni riferimento alle tracce, già in quella notte dell’ottobre 2009 evidenti, del pestaggio appena subito da Stefano dai carabinieri che lo avevano arrestato. E vennero dunque confezionati due falsi. Due nuove “annotazioni di servizio” che di quelle originali avevano la medesima veste grafica e lunghezza, riportavano la stessa data, ma erano appunto purgate nei contenuti. Ebbene, Sabatino, sulla carta un fine investigatore, almeno se si sta al suo curriculum (Comando del Nucleo Investigativo e del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma, Comando di una delle sezioni del Ros, reparto di eccellenza dell’Arma, e quindi il comando a Messina), non notò quella discrepanza. Piuttosto, affastellò originali e falsi di quelle annotazioni in un unico malloppo di carte dove solo l’ostinazione del pm Musarò riuscì a scovarli, a notarne la “diversità”, e dunque a farli “parlare”. Né le omissioni dell’indagine di Sabatino si fermarono qui. A quella che, al momento, è per altro la sola contestazione formale che gli è mossa da Musarò. Per ordine dello stesso colonnello Sabatino, infatti, il capitano Testarmata (all’epoca in forza al Nucleo Investigativo e anche lui indagato per favoreggiamento), tra le carte da consegnare alla Procura, non acquisì in originale il registro “sbianchettato” del fotosegnalamento di Stefano la notte dell’arresto nella caserma Casilina (fu prodotta soltanto una fotocopia da cui il bianchetto non appariva). Né tantomeno raccolse lo scambio di mail con cui erano documentate le pressioni e le indicazioni dell’allora comandante del Gruppo Carabinieri (il colonnello Alessandro Casarsa) perché appunto le relazioni dei due piantoni della caserma di Torsapienza fossero manipolate. Il colonnello Sabatino, per quanto è stato possibile ricostruire, si è difeso durante l’interrogatorio scegliendo di indossare i panni dello sprovveduto. Ha provato infatti a scaricare la responsabilità della mancata segnalazione alla Procura delle “doppie annotazioni” prima sul povero capitano Testarmata, quindi sull’allora comandante del Nucleo Investigativo. A quanto pare senza riscuotere grande successo.

Cucchi, il registro "sbianchettato" che nessuno pensò di guardare in controluce. Processo bis. La testimonianza del maggiore Grimaldi: «L’originale non venne sequestrato, solo fotocopiato», scrive Eleonora Martini su Il Manifesto il 15.02.2019. La conferma che il nome di Stefano Cucchi venne «sbianchettato», e sostituito con un altro, dal registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, arriva dal processo bis che si celebra davanti alla I Corte d’Assise, a Roma, diventato ormai uno spaccato sul modus operandi dell’Arma dei carabinieri grazie all’attività investigativa sui tentativi di insabbiamento e depistaggio coordinata dal pm Giovanni Musarò. La riprova è arrivata dal maggiore Pantaleone Grimaldi, che di quella caserma fu comandante dal 2014 al 2016, nell’udienza di ieri, nella quale hanno testimoniato anche alcuni frequentatori della palestra dove Cucchi si allenava «regolarmente, con costanza, passione e grande intensità» malgrado fosse «magro e di bassa statura», e un agente di polizia penitenziaria che vide Stefano in una cella del tribunale, in attesa di comparire davanti al Gip, «con il volto tumefatto ed evidenti segni marrone scuro attorno agli occhi». Grimaldi ha ricordato di essere stato contattato nel novembre 2015 dall’allora Comandante del Nucleo operativo, colonnello Lorenzo Sabatino, che lo avvisava dell’imminente visita del capitano Tiziano Testarmata (ora indagato per favoreggiamento) volta ad acquisire i documenti contenuti nel fascicolo Cucchi, chiuso a chiave in un armadio della caserma. Fu Testarmata ad accorgersi dello sbianchettamento di tutti i campi relativi ad un fotosegnalamento avvenuto nello stesso giorno in cui venne arrestato Cucchi. «Questo modo di correggere un eventuale errore è vietato e comporta un procedimento disciplinare – riferisce Grimaldi – per questo suggerii a Testarmata di sequestrare il registro e acquisirne l’originale, invece delle fotocopie. Ma lui si allontanò per consultarsi con qualcuno e poi non accolse il mio invito». Davanti agli inquirenti che lo interrogarono, Grimaldi aveva riferito di essersi arrabbiato con Testarmata, ma ieri ha rettificato: «Mi fidavo completamente di lui, credevo lo avrebbe fatto in un secondo momento». Ma il pm Musarò, che è riuscito ad acquisire il documento originale senza aver mai ottenuto il nome di chi fece materialmente il fotosegnalamento di Cucchi e neppure dell’uomo arrestato il cui nome (straniero) è sovrapposto a quello di Stefano, lo incalza: «Quando in procura abbiamo visto quel foglio, abbiamo fatto la prima cosa che tutti farebbero: guardare in controluce attraverso lo sbianchettamento. Cosa che non si poteva fare con la fotocopia. Ed è apparso subito, evidente, il nome di Stefano Cucchi. Lei, o il capitano Testarmata, non avete pensato a fare subito questa verifica?». «No», è la risposta del maggiore Grimaldi. Elementare, Watson!

Caso Cucchi, un generale indagato per aver manipolato alcune relazioni. Si tratterebbe di note redatte da alcuni carabinieri sulle condizioni di salute del giovane morto dieci anni fa, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Anche un generale finisce nel mirino degli inquirenti nel caso Cucchi. Alessandro Casarsa, capo dei corazzieri al Quirinale fino a un mese fa, risulta indagato per falso in atto pubblico. Si tratterebbe di manipolazioni di relazioni di servizio sulle condizioni di salute del giovane romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Secondo il racconto del "Corriere della Sera" Casarsa, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, ha sostenuto di essere estraneo a qualsiasi manovra per ostacolare le indagini sulla verità, sia durante gli eventi sia dopo. Il generale è stato chiamato a rispondere sulle annotazioni riguardanti le condizioni di salute di Cucchi preparata dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. Tali relazioni erano state modificate, secondo il racconto del comandante Massimiliano Colombo Labriola, dopo l'intervento del maggiore Luciano Soligo che le aveva giudicate "troppo particolareggiate" e con particolari "medico-legali che non competevano ai carabinieri". La telefonata e le modifiche via mail - A Colicchio e Di Sano, dopo la morte di Cucchi, fu chiesto di raccontare quello che era accaduto la notte dell'arresto. Secondo quanto riferisce Colombo Labriola, già inquisito per questo episodio, il maggiore, al telefono con un superiore che chiamava "signor colonnello", inviò via posta elettronica le annotazioni al tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo dell'ufficio comando del Gruppo Roma, che le rimandò indietro dopo averle modificate con la postilla "meglio così". Non c'erano più i riferimenti a "forti dolori al capo e giramenti di testa", ai tremori e dolori al costato di cui Cucchi si lamentava. Di Sano firmò la relazioni dopo le modifiche, Colicchio no. Davanti ai pm, Cavallo avrebbe dichiarato di non ricordare quelle modifiche, aggiungendo che in ogni caso tutto era stato concordato con il comando del Gruppo Roma, legato a doppio filo con i comandanti di compagnia, senza quindi dover passare da lui. E avrebbe anche detto che del caso, visto il suo clamore, si era occupato anche il suo diretto superiore, Casarsa appunto. Ma il generale nega tutto - In seguito a tali elementi nel registro degli indagati è comparso anche il nome del generale. Da parte sua però l'alto ufficiale, oltre a negare ogni addebito, avrebbe detto di aver invitato tutti i carabinieri che avevano gestito il caso Cucchi a presentare ricostruzioni precise e dettagliate.

Un nuovo indagato per il caso Cucchi: è il generale Casarsa. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale, scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. C’è un generale tra gli indagati del caso Cucchi. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a qualche settimana fa comandante dei Corazzieri. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musaró, che coordinano l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano per cui sono già a processo 5 carabinieri, accusano l’alto ufficiale di falso. E l’indagine fa un salto di passo, scalando piano piano, la gerarchia dell’Arma romana dell’epoca. La vicenda è quella delle annotazioni di servizio modificate dalle quali vennero fatti sparire una serie di dettagli rispetto alle condizioni di salute di Stefano la notte del suo arresto. Una storia per la quale nei mesi scorsi erano già finiti iscritti i diretti sottoposti di Casarsa, il comandante della compagnia Montesacro e il suo vice. Casarsa nei giorni scorsi è stato interrogato e ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle modifiche delle annotazioni, ma i pm hanno il sospetto che a coordinare l’operazione sia stato lui.

Caso Cucchi, carabiniere in aula: "Nota di servizio cambiata su dettatura di Mandolini". Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo che scrisse i verbali con l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto, scrive l'8 febbraio 2019 La Repubblica. Ancora il tema delle annotazioni di servizio 'sostituite' è stato al centro dell'udienza di oggi del processo che vede cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo dei carabinieri Davide Antonio Speranza, firmatario di due annotazioni di servizioche contengono l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto. Già un problema si ha nell'indicazione del giorno della redazione: la prima annotazione datata 16 ottobre 2009, in realtà fu "redatta dopo la morte di Cucchi, mentre la datai qualche giorno prima perché pensai si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio"; la seconda datata 27 ottobre 2009 "dettata dal maresciallo Mandolini", uno degli imputati di calunnia e falso. Una circostanza, quella dell'annotazione sotto dettatura, già raccontata da Speranza ai pm che lo sentirono come persona informata sui fatti il 18 dicembre scorso. "Quando Mandolini lesse la nota disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla - ha detto Speranza - perché avremmo dovuto redigere una seconda annotazione in sostituzione. Io quella nota non la feci sparire, anche perché già protocollata. Il contenuto fu dettato da Mandolini, alla presenza di Nicolardi (altro imputato di calunnia. Ndr)". Importante il contenuto delle due annotazioni, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di Cucchi quella notte. Nella prima annotazione, infatti, si legge che "alle 5.25 la nostra Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla caserma della Stazione di Tor Sapienza in quando il sig. Cucchi era in stato di escandescenza"; nella seconda si legge che "è doveroso rappresentare che durante l'accompagnamento, il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito". Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al Pm Barba (rappresentante dell'accusa nel primo processo) né in Corte d'assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu "perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su". Prima del maresciallo Speranza c'è stata la conclusione dell'esame del dirigente della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, il quale ha continuato a parlare del contenuto di una serie di intercettazioni effettuate per la nuova inchiesta sui depistaggi che ci sarebbero stati - secondo l'impostazione accusatoria - nella compilazione degli atti. Nel corso dell'udienza Carlo Masciocchi, professore ordinario di radiologia dell'Università dell'Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica ha ribadito che sul corpo di Stefano Cucchi "sicuramente c'erano due fratture vertebrali" a livello lombo-sacrale, entrambe "recenti" e "contemporanee". Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell'avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell'odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant'è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò.

Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite». Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni», scrive Eleonora Martini l'8 febbraio 2019 su Il Manifesto. Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».

Morte Cucchi, il generale Nistri: "Verificheremo frasi su spirito di corpo". E il legale della famiglia: "Manomesse le radiografie". Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L'avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia, scrive Giuseppe Scarpa il 22 gennaio 2019 su "la Repubblica". "Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall'autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come 'spirito di corpo'. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare". Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d'armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: "Non ho mai parlato di mele marce ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato". Intanto l'appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: "Non ho nulla da dire". Le novità dell'indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell'Arma in merito alla vicenda Cucchi. "Bisogna avere spirito di corpo, se c'è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare" avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l'arresto. L'autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il fotosegnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell'intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l'autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c'è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state "manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi". In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L'analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni.

Cucchi, il carabiniere: “Il maresciallo Mandolini mi dettò la nota di servizio dicendo che la mia non andava bene”. C'è anche la storia dei documenti che sarebbero modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento sbianchettato: i militari se ne accorsero già nel 2015. La notte in cui il geometra passò alla caserma Casilina - dove per l'accusa fu pestato - in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 21 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Due annotazioni di servizio: in una c’era scritto che “Stefano Cucchi era in stato di escandescenza”. Nell’altra, che “durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. La prima per il maresciallo Roberto Mandolini “non andava bene”: chiese di scrivere la seconda. Anzi: ne dettò il contenuto al maresciallo Davide Antonio Speranza. C’è anche la storia dei documenti modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento cancellato col bianchetto: già nel 2015 i militari si accorsero che qualcosa in quel documento non andava. La notte in cui Cucchi passò alla caserma Casilina – dove per l’accusa è stato pestato – in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic. Un’anomalia evidente ma nessuno fece nulla. Adesso, però, quei documenti e i verbali dei testimoni sono stati depositati dal pm Giovanni Musarò agli atti del procedimento a cinque carabinieri: sono Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale, e poi Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, che rispondono di calunnia e falso.

La prima annotazione: “Cucchi in escandescenza” – Parallelamente al processo, la procura continua a indagare sui depistaggi che vennero messi in atto per coprire le prove sul pestaggio di Cucchi. La storia della doppia nota di servizio s’inquadra in questo scenario. A raccontarla è il maresciallo Antonio Speranza, che nel 2009 lavorava alla stazione del carabinieri del Quadraro. “Fui contattato telefonicamente dal maresciallo Mandolini, il quale fece riferimento alla morte di Stefano Cucchi (disse: “Hai sentito il telegiornale?”) e mi comunicò che avrei dovuto redigere un’annotazione. Allora io redassi l’annotazione che mi esibite, nella quale scrissi che Cucchi era in stato di escandescenza perché interpretai in tal modo quanto mi aveva riferito Vincenzo Nicolardi, il quale la notte del 16.10.2009 (cioè quando venne arrestato Cucchi ndr) era in contatto con la Centrale Operativa”, ha detto il militare, sentito dal pm il 18 dicembre scorso come persona informata. 

La seconda annotazione: “Dettata Mandolini” – Solo che quella ricostruzione dei fatti venne bocciata: “Mandolini – continua Speranza – quando lesse la nota di servizio disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. Il contenuto di tale annotazione fu dettato da Mandolini e lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi, quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Dieci anni dopo la morte di Cucchi il militare ammette l’errore: “Ripensandoci a posteriori all’epoca peccai di ingenuità, perché mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e avevano più esperienza di me”. La scritta “Bravi”. “Non so perché. Cucchi era morto” – Tra gli atti depositati dalla procura c’è il verbale dell’intervento alla stazione Appia dei militari per trasferire Cucchi a Tor Sapienza: in fondo, nello spazio riservato alle note dei superiori, compare la scritta a mano Bravi! Il maresciallo Sapienza nella sua deposizione ha commentato: “Non so dirvi per quale ragione, nella parte dell’ordine di servizio dedicata alle annotazioni dei superiori è scritto ‘Bravi‘, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine e che nel momento in cui l’ordine di servizio fu redatto Cucchi era già morto”.

Il registro: “Era una prova. Presero solo una copia” – Ma non solo. Perché i pm hanno ricostruito anche come già nel 2015 gli stessi carabinieri si fossero accorti di un’anomalia nel registro del fotosegnalamento della Casilina. Per il carabiniere Tedesco, infatti, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati D’Alessandro e Di Bernardo pestarono Cucchi. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, già tre anni fa la procura aveva inviato il capitano Tiziano Testarmata a prendere quel registro: si tratta di un ufficiale del nucleo investigativo, dunque esperto d’indagini. E infatti si accorge di quelle grossolane discrepanze in quel documento ufficiale. Ad attenderlo c’era il comandante Pantaleone Grimaldi, che all’epoca guidava la caserma. “Mi fece presente che c’era qualcosa che non quadrava nel registro. Mi fece vedere che un nominativo era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Visionandolo, mi resi conto immediatamente dell’anomalia, era evidente che era stato cancellato il passaggio di qualcuno dal foto-segnalamento, fu per questo che invitai il capitano Testarmata a portare con sé il registro in originale e, a quel punto, anche tutta la documentazione, perché era palese quel registro dovesse essere analizzato con maggiore attenzione”, ha raccontato ai pm il militare il 21 novembre scorso, spiegando di avere insistito col collega. “Lo invitai ripetutamente a portare con sé l’originale. Fra l’altro, nell’occasione evidenziai al Testarmata, per convincerlo, che non poteva essere casuale il fatto che quella anomalia riguardava proprio il giorno che interessava a loro, cioè il giorno in cui Stefano Cucchi poteva essere stato foto-segnalato”. Si accorse dell’anomalia anche il capitano Carmelo Beringhelli che aiutò i colleghi del nucleo operativo nell’esame dei documenti: “Il capitano Testarmata, oltre ad essere un mio superiore, era certamente più esperto di me. Nonostante ciò, mi permisi di dirgli che quel registro doveva essere sequestrato perché mi sembrava chiaro che poteva essere la prova di quello che stavano cercando, cioè il passaggio di Cucchi dai locali della compagnia Casilina per il fotosegnalamento”.

Il fotosegnalamento rimase nascosto – Testarmata, però, era titubante. “Ascoltando le mie obiezioni, il capitano si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale, cosa che a me non fece piacere perché compresi che non stava facendo un accertamento corretto”. Ovviamente dalle copie non si può notare l’anomalia che compare sotto al nome di Zoran Misic: in controluce è evidente il bianchetto usato per coprire un altro nome. Ma perché Grimaldi non fece cenno di quel particolare nella lettera di trasmissione degli atti? “Davo per scontato che Testarmata ne avrebbe comunque dato atto in un’annotazione in cui avrebbe dato conto dell’attività compiuta. Pensandoci ora, a posteriori, mi rendo conto di aver ragionato in modo notarile, ma visto che c’era un capitano del Nucleo Investigativo che era stato delegato a compiere accertamenti anche su quel registro io diedi per scontato che tutte le criticità che erano state rilevate le avrebbe attestate lui in un atto a sua firma”. Così non è stato. Perché nel caso Cucchi c’è sempre qualcuno che agisce con ingenuità, in modo notarile, senza riflettere. E pensandoci bene solo anni e anni dopo. Andò così anche per il fotosegnalamento di Cucchi: è rimasto nascosto per anni. Insieme al suo passaggio nella stanza in cui, con tutta probabilità, venne pestato. Morì sei giorni dopo che un bianchetto eliminò ogni traccia del suo nome.

Stefano Cucchi, il carabiniere al collega testimone: “Ha detto il comandante che dobbiamo aiutare i colleghi in difficoltà”, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Gennaio 2019. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”. Questo avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica tra i due carabinieri è stata intercettata il 6 novembre scorso e la trascrizione è contenuta in una nota della squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo Cucchi. Nell’intercettazione presente nella nota della Squadra mobile di Roma si fa riferimento a due telefonate intercorse il 6 novembre tra il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, entrambi in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli. Grimaldi, nel 2009 in servizio presso la stazione Casilina, verrà sentito come testimone dal pm il 21 novembre. Nell’intercettazione Iorio riferisce al collega quanto dettogli dal colonnello Pascale: “Mi raccomando dite al Maresciallo che ha fatto servizio alla Stazione – afferma nella intercettazione Iorio riportando al maresciallo Grimaldi le parole del colonnello- lì dove è successo il fatto di Cucchi…di stare calmo e tranquillo…mi stanno rompendo, loro e Cucchi“. E ancora Iorio riferisce al collega le parole del comandante: “Mi raccomando deve avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”.

«Sul caso Cucchi ha fatto il suo dovere e ora la sta pagando». Parla la legale del carabiniere Riccardo Casamassima, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Sono un avvocato penalista. E sono orgoglioso di esserlo. Ho sempre svolto la professione forense senza mai chinare il capo, consapevole che davanti alla legge siamo tutti uguali». L’avvocato romano Serena Gasperini assiste l’appuntato Riccardo Casamassima nella sua personale “battaglia” contro il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. Casamassima è il teste chiave del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma. La sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta che, inizialmente, aveva visto sul banco degli imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che visitarono Cucchi dopo il suo arresto e gli agenti della polizia penitenziaria che lo tennero in custodia nelle celle del Tribunale di Roma il giorno del processo. Lo scorso maggio, a nove anni dai fatti, Casamassima ha raccontato davanti al pm Giovanni Musarò che Cucchi fu oggetto di un violento pestaggio all’interno della stazione carabinieri di Roma Casilina. E ha raccontato anche il successivo tentativo da parte dei colleghi di scaricare la responsabilità di quanto accaduto sugli agenti della polizia penitenziaria. Dopo le dichiarazioni di Casamassima la posizione dei cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e falso si è aggravata, coinvolgendo nell’inchiesta alcuni dei massimi vertici dell’Arma in servizio all’epoca a Roma. Per quest’ultimi l’accusa è di aver coperto i militari che avevano arrestato Cucchi, intralciando le indagini della magistratura. Depistaggi tutt’ora in corso, come emergerebbe da una telefonata intercettata il 6 novembre fra due carabinieri in servizio a Napoli, uno dei quali chiamato il mese successivo a deporre come teste. «Ci vuole spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare», gli avrebbe fatto sapere un suo superiore.

Avvocato, come mai la decisione di Casamassima di denunciare il comandante Nistri? Ricorda Davide contro Golia.

«Lo scorso 17 ottobre 2018, il ministro della difesa Elisabetta Trenta aveva incontrato il generale Nistri, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che l’assiste nel processo, al fine di confrontarsi su quanto era emerso fino a quel momento nel dibattimento. Al termine dell’incontro, Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo parlando con i giornalisti hanno riferito di uno “sproloquio” di Nistri nei confronti di Casamassima. Invece di concentrarsi su quanto era accaduto a Stefano Cucchi, il generale avrebbe detto che Casamassima era un delinquente, un bugiardo, uno spacciatore. Inoltre il generale aveva informato i presenti all’incontro che il mio assistito era anche indagato per reato di spaccio di stupefacenti, pur essendo all’epoca la notizia coperta dal segreto».

Crede che il generale Nistri volesse screditare Casamassima agli occhi del ministro Trenta?

«Mi pare evidente che le dichiarazioni di Nistri siano state alquanto scomposte».

Cosa avrebbe dovuto fare il generale?

«Se proprio non voleva chiedere scusa, forse doveva dirsi dispiaciuto per quanto accaduto. Invece è finito nel mirino Casamassima».

Dove presta servizio adesso?

«E’ stato trasferito, dopo venti anni di incarichi operativi, al cancello della Scuola allievi carabinieri di Roma. Apre e chiude la sbarra d’ingresso».

Non sembra un incarico di grande prestigio…

«Oltre ad essere stato demansionato, ogni giorno riceve una comunicazione di avvio di procedimento disciplinare».

Il motivo? Non apre bene il cancello?

«No, è accusato di raccontare su Facebook, senza autorizzazione, il trattamento di cui è oggetto da parte del Comando generale dell’Arma».

Pensa che l’Arma voglia congedarlo?

«Mi auguro di no. Casamassima ha fatto solo il suo dovere, raccontando la verità».

Il processo intanto prosegue. Ad ogni udienza emergono le coperture poste in essere dai vertici dell’epoca.

«La fortuna, se così possiamo dire, è di avere come pm il dottor Musarò. Un giovane magistrato coraggioso che non ha alcuna sudditanza psicologica nei confronti delle divise e che sta svolgendo il proprio ruolo con grande equilibrio».

Cosa crede che succederà?

«Mi auguro che la denuncia venga assegnata ad un magistrato come il dottor Musarò. Ho chiesto che tutti i presenti all’incontro di ottobre al Ministero, quindi anche Elisabetta Trenta, riferiscano su cosa disse Nistri».

Caso Cucchi, aperta una nuova indagine: chi ha coperto i responsabili della sua morte? Documenti modificati. Registrazioni sparite e poi ricomparse. Depistaggi. Testimoni ridotti al silenzio. La Procura di Roma indaga per fare luce sulle troppe zone d'ombra. Su L'Espresso in edicola 'La gerarchia della menzogna': per svelare la catena di omertà, scrive Giovanni Tizian il 18 ottobre 2018 su "L'Espresso". C'è una nuova indagine che punta a svelare la catena di omertà tra gli alti gradi dei carabinieri che ha coperto i responsabili della morte di Stefano Cucchi. Lo racconta L'Espresso nel numero in edicola domenica 21 ottobre abbinato a Repubblica. Documenti modificati. Registrazioni sparite e poi ricomparse. Depistaggi per insabbiare le indagini. Testimoni ridotti al silenzio. E militari promossi dopo i fatti. Chi ha protetto i carabinieri colpevoli delle violenze su Stefano Cucchi? Da chi è partito l’ordine di cambiare in corso d’opera le annotazioni sull’arresto del geometra romano? Interrogativi che agitano i vertici dell’Arma di allora e di oggi, nonostante il comandante generale Giovanni Nistri sostenga la linea dura nei confronti degli imputati e bolli come illazioni i sospetti sulle indebite pressioni ricevute dai testimoni chiave. Di certo chi sta provando a ricostruire la filiera di responsabilità è la procura della Repubblica di Roma. Tenterà di illuminare le zone d’ombra del caso Cucchi con una nuova inchiesta che punta sui responsabili delle manomissioni. L’indagine procede parallela al processo bis di primo grado sulla morte di Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri coinvolti a vario titolo nel fermo avvenuto la notte del 15 ottobre 2009. Per tre di loro l’accusa è omicidio preterintenzionale. Nel servizio pubblicato da L'Espresso si descrive come troppi sono ancora i nodi da sbrogliare. Per esempio la scomparsa dei cd con le registrazioni delle comunicazioni con la sala operativa effettuate la notte dell’arresto. Erano depositati sia in corte d’Appello sia in corte d’Assise. Più che un danno, alla fine, si è rivelato una beffa, perché la procura ha richiesto, ottenendole, delle nuove copie. Un’altra questione da chiarire riguarda la telefonata al 118 quando Cucchi si trovava nella cella di sicurezza a Tor Sapienza. L’appuntato sentito al processo sostiene di essere stato solo in quegli istanti. Ma dalle registrazioni delle chiamate in sottofondo si sentono altre due voci. Possibile? E perché tanto mistero rispetto all’ipotetica presenza di altri due colleghi? Insomma, in questi nove anni di inchieste e processi c’è stata la presenza costante di una mano invisibile che ha fatto di tutto per rallentare o peggio annacquare le prove. Il caso Cucchi, intorbidito dalle menzogne di chi, invece, dovrebbe battersi per garantire la sicurezza e il rispetto delle leggi.

I vertici dell'Arma depistarono il caso Cucchi, nomi eccellenti nella rete degli inquirenti. Dopo la testimonianza di Francesco Tedesco gli inquirenti vogliono capire fino a che livello i Carabinieri fossero a conoscenza del "trattamento" subito dal geometra alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 dopo l'arresto per droga, scrive Paolo Salvatore Orrù il 22 ottobre 2018 su Tiscali. La testimonianza di Francesco Tedesco, uno degli uomini in divisa imputati nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra trentunenne arrestato per droga nel 2009 e morto dieci giorni dopo per le percosse ricevute durante la detenzione, sta dando i suoi frutti. Molti altri carabinieri, anche di alto rango, sono finiti sotto la lente della procura nell’ambito degli atti falsificati sulla morte del giovane. Dal giorno successivo il colpo di scena di Tedesco al processo, gli inquirenti vogliono capire fino a che livello i vertici dell’Arma fossero a conoscenza del ‘trattamento’ subito da Cucchi alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 dopo l'arresto per droga. Per fare luce sul caso è già stato interrogato il luogotenente Massimiliano Colombo, il comandante della stazione di Tor Sapienza dove venne portato Cucchi. Colombo, indagato per falso ideologico, ha subito una perquisizione nei giorni scorsi: a chiamarlo in causa, anche se non direttamente, è stato Francesco Di Sano, il carabiniere scelto della caserma di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi e che è stato ascoltato in aula il 17 aprile scorso nel processo a cinque militari dell'Arma (accusati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia). In quell’occasione il militare, ora indagato anche lui per falso, ammise di aver dovuto ritoccare il verbale sullo stato di salute di Cucchi senza precisare da chi gli fu chiesta la modifica. "Certo il nostro primo rapporto è con il comandante della stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico", ha detto in aula Di Sano. Ed è questa gerarchia che la Procura di Roma vuol ricostruire. Il momento investigativo è delicato, Colombo ha collaborato quando gli è stato richiesto di ricomporre una storia occultata per molti anni, ma che è riemersa dopo i sequestri di mail e comunicazioni cancellate, ma che la memoria di un server ha consentito di ripristinare. A breve su questo argomento sarà sentito come persona informata sui fatti anche il piantone Gianluca Colicchio. Anche lui durante il processo ha sostenuto di anomalie contenute in una relazione di servizio. Secondo Repubblica in tutta questa saga di atti nascosti o falsificati potrebbe esserci anche la manina degli alti vertici dell’Arma. Il quotidiano romano sostiene che era stata la catena di comando di Roma (generale e ufficiali) a depistare sul pestaggio del ragazzo. Sempre per Repubblica, dagli atti in suo possesso sarebbe emersa un’operazione di manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni e comunicazioni all’autorità giudiziaria, che si consumò tra il 23 e il 27 ottobre. Certo, tutto è ancora da dimostrare, ma pare che gli ordini fossero stati trasmessi in via gerarchica (come ha spiegato Di Sano ndr) ed ebbero il suo sigillo in una riunione del 30 ottobre negli uffici del generale di brigata e allora comandante provincia di Roma Vittorio Tomasone, che oggi è generale di corpo d’armata. Con lui sarebbero coinvolti almeno tre ufficiali: “L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo (comandante della stazione Tor Sapienza)”. L’ordine di falsificare gli atti emergerebbe, per Repubblica, da una mail consegnata agli inquirenti dal maresciallo Massimiliano Colombo". Le carte dimostrerebbero che a dare l’ordine di falsificare annotazioni di servizio, redatte da due appuntati, Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio, ovvero i due piantoni che presero in carico Cucchi la notte dell’arresto, giunse dal comando di compagnia Talenti-Montesacro. È da quel comando che gerarchicamente dipendeva la stazione di Tor Sapienza. Gli inquirenti ora vorrebbero sapere se il Comando ha agito ‘motu proprio’ o ha ricevuto a sua volta un comando dal generale Tomasone. La stessa domanda se la sono posta anche i legali della famiglia Cucchi che, qualche giorno fa, ha fatto sapere che il generale Vittorio Tomasone "sarà ascoltato in aula entro gennaio su nostra richiesta". Tomasone, attuale comandante Interregionale di Napoli, era comandante provinciale dei carabinieri di Roma all'epoca dei fatti. Il generale Vittorio Tomasone sarà ascoltato dai legali dei Cucchi in merito all'inchiesta amministrativa interna eseguita sulle cause del decesso del giovane e sulle rassicurazioni fornite all'epoca dei fatti ai familiari di Stefano Cucchi. Si è aggravata intanto la posizione di Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri accusati di aver picchiato a morte Stefano Cucchi. Ad accusarlo questa volta l’ex moglie Anna Carino. La donna, intervistata da Le Iene, ha raccontato come D’Alessandro parlasse di quella fatidica notte del 22 ottobre 2009: “Era solo un drogato di merda. Queste parole le ha sempre dette”.  “Lo raccontava divertito, col sorriso, mi inquietava questa sua tranquillità nel parlare di ciò che avevano fatto a quel ragazzo”, ha spiegato la Carino. Un carattere particolare quello di D’Alessandro. Racconta l’ex moglie: “Mi faceva paura, era gelosissimo, mi chiedeva sempre dove fossi, con chi fossi, con chi avessi parlato. Tante volte per le sue urla ci chiamavano, perché le sue grida erano impressionanti”. La Carino nel 2015 si è presentata davanti alla Procura di Roma per portare la sua testimonianza. Intanto, nel corso del procedimento penale, il G.U.P. del Tribunale di Roma ha rilevato la prescrizione in ordine al reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti contestato a Tedesco, D'Alessandro e Di Bernardo, pronunciando sentenza di proscioglimento. Così, essendo la vicenda penale irrevocabilmente conclusa per quel reato, si è proceduto all'esame del giudicato penale, obbligatorio ai sensi di legge. Il 13 aprile 2018 è stata acquisita la sentenza, il 6 luglio 2018, è stata decisa e avviata un'inchiesta formale a carico dei tre militari, con contestazione degli addebiti fra il 9 e il 10 luglio 2018. Il termine per concludere l'inchiesta scade l'8 gennaio 2019. Il Vice Brigadiere Tedesco e i Carabinieri Scelti D'Alessandro e Di Bernardo sono stati sospesi precauzionalmente dall'impiego, decisione discrezionale connessa a procedimento penale, nel febbraio 2017, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità contro arrestati. La misura, si apprende in ambienti dell'Arma dei Carabinieri, non è stata adottata nei confronti del Maresciallo Capo Mandolini e dell'Appuntato Scelto Nicolardi, imputati per falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e calunnia aggravata, poiché per quei reati non era possibile.

Il generale e gli ufficiali, così i vertici dell'Arma depistarono su Cucchi, scrive Carlo Bonini su La Repubblica il 22 ottobre 2018. L'indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma. La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone. Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate indipendentemente da Repubblica indicano che fu l'intera catena di comando dell'Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009. L'operazione di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all'autorità giudiziaria, si consumò tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d'armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Con lui, almeno tre gli ufficiali coinvolti. L'allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza). I fatti, dunque. A cominciare dall'ultimo fotogramma di questa storia. La mail con l'ordine di manomettere la verità Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di dimostrare da chi e quando arrivò l'ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima dell'indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del pestaggio che aveva appena subito. Ma era necessario che si costruisse una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del "tossico", alla sua epilessia. A maggior ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della morte di Stefano. Labriola, pure indagato per falso, è convinto che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all'interno della caserma che comanda. Ma sbaglia, perché quando, all'inizio della scorsa settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché - dice - sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno. Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l'ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell'arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi- bis - ha detto la verità. "È vero, modificai la relazione di servizio - aveva spiegato. Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l'ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza". Il falso cucinato da Colombo per ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la manomissione testuale, l'iniziale ricostruzione ("Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale") in un passaggio assai più prolisso. Che precostituisca spiegazioni alternative alla domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: "Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza". Anche l'annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso, a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi "dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia". Ma esclude di aver mai redatto e firmato un'annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano "dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio". Il 18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell'intera scala gerarchica. Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata. La riunione del 30 ottobre e l'appunto farlocco Che il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell'allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che autorizzerebbe, da sola, a pensar male. Ma è quel che accade il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell'intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore che possono travolgere l'intera Arma e mettere fine alla carriera di un ufficiale - Tomasone - che è la luce degli occhi dell'allora Comandante generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale successore ("Sono la stessa cosa", si diceva di loro). Il 23 ottobre Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano. Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il ricatto "trans" ai danni dell'allora Governatore del Lazio Piero Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla propria persona, sul suo "onore di carabiniere" che "l'Arma non c'entra". Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l'esistenza alla magistratura che indaga. E c'è un motivo. La riunione deve infatti verificare che "le carte siano a posto" e i nervi dei protagonisti "saldi". Diciamo pure che è una rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17 ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in quella Casilina dall'arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto "testa" e coordinamento della catena gerarchica. Perché prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo. Sono stati infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell'annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza (abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell'arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni. Il sigillo dell'operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa, comandante del Gruppo Roma che l'Arma trasmetterà alla Procura. Si dà atto di un'inchiesta interna che non c'è mai stata e che, naturalmente, assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte.

Cucchi e i depistaggi del 2015. Indagato un capitano dei carabinieri. Accusato per le relazioni manomesse: avviso di garanzia per favoreggiamento per presunte omissioni risalenti al 2015. Nistri: pochi hanno perso la strada della virtù. Trenta: «Accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire la fiducia dei cittadini», scrive il 26 ottobre 2018 Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera". La nuova inchiesta sui depistaggi per coprire il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi svelato nove anni dopo da un carabiniere, si allarga e conta un nuovo indagato tra gli ufficiali dell’Arma: si tratta del capitano Tiziano Testarmata, che ha ricevuto un avviso di garanzia per favoreggiamento legato a presunte omissioni risalenti al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell’Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell’ottobre 2009.

Doppia versione di quelle relazioni. Per questo motivo il capitano Testarmata, comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo, si recò nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi aveva trascorso la notte successiva all’arresto. Ad accoglierlo c’era il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione che oggi — indagato nel nuovo procedimento penale — ha rivelato che le due annotazioni sullo stato di salute del detenuto redatte all’epoca dai carabinieri Colicchio e Di Sano erano state manomesse su ordine dei suoi superiori. È la storia della doppia versione di quelle relazioni, rispedite via e-mail a Colombo dal tenente colonnello Francesco Cavallo (anche lui sotto inchiesta per falso), con il commento «meglio così», dopo essere state corrette in alcuni passaggi sulle condizioni di Cucchi. A Testarmata Colombo consegnò «le due relazioni in entrambe le versioni, quella originaria e quella modificata» perché erano rimaste agli atti, «l’ordine era di “dare tutto” e io non volevo nascondere nulla». Così ha riferito il luogotenente nell’interrogatorio reso al pm. Aggiungendo un particolare non irrilevante: «Per far capire che io avevo eseguito una disposizione dei superiori, in questa occasione mostrai al personale del Nucleo investigativo la mail inviatami dal tenente colonnello Cavallo, per spiegare come mai c’erano due annotazioni diverse per un solo atto (circostanza di cui si erano resi conto anche i colleghi del Nucleo investigativo, i quali infatti mi avevano chiesto spiegazioni). Il capitano del Nucleo, quando vide la mail del tenente colonnello Cavallo, uscì fuori per parlare al telefono, poi rientrò e presero tutto, ma non la mail».

Sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015. Della consegna della documentazione, ha specificato Colombo, non fu redatto alcun verbale di acquisizione. È un racconto che, seppure fatto da un indagato che non ha l’obbligo di dire la verità, apre la strada a sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015, mentre era in corso la nuova inchiesta — condotta dalla polizia — sulla morte di Cucchi. Di qui la necessità di ulteriori accertamenti da compiere anche nei confronti del capitano Testarmata, con le garanzie imposte dalla legge, nell’ambito di un’inchiesta che arrivata a questo punto rischia di salire ancora di livello e mettere a dura prova l’immagine dell’Arma. Di sicuro il comandante generale Giovanni Nistri aveva in mente questo pericolo, ieri, quando alla presenza dei ministri della Difesa e dell’Interno riuniti per celebrare il quarantennale del Gis, ha detto in tono solenne: «L’Arma deve ricordare che è nella virtù dei 110.000 uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni. Centodiecimila uomini che sono molti, ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù. A quegli uomini auguro di continuare a essere quello che sono sempre stati, e di continuare a ricordarsi che nessuno di loro lavora per se stesso, nessuno di noi lavora per fare altro che il dovere dell’onestà, della correttezza, del bene della nazione».

La ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta è tornata sull’argomento spiegando che «l’Arma è sempre stata ed è vicina al cittadino, e ogni singolo carabiniere è sempre stato un punto di riferimento per i cittadini onesti». Ma proprio per salvaguardarne l’immagine, laddove emerga «l’eventuale negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire quel sentimento di fiducia da parte dei cittadini nei confronti di carabinieri e istituzioni». Accanto a lei, il titolare dell’Interno Matteo Salvini sembra proporsi nel ruolo di scudo alle polemiche: «Non ammetterò mai, finché sarò ministro, che l’eventuale errore di uno permetta di infangare il sacrificio e l’impegno di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in divisa».

Cucchi, si allarga l'inchiesta sul depistaggio dell'Arma: indagato un capitano per favoreggiamento. È l'ufficiale Tiziano Testarmata. Secondo l'accusa nel 2015 prese le due annotazioni false sul pestaggio di Stefano, ma non la mail di un suo superiore che aveva dato l'ordine di redigerle, scrive Alberto Custodero il 27 ottobre 2018 su "La Repubblica". C'è un altro ufficiale indagato nell'inchiesta su depistaggio delle indagini sul caso Cucchi. Depistaggio che fu orchestrato nell'ufficio dell'allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d'armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, si tratta del capitano Tiziano Testarmata. Oltre a lui e al generale Tomasone, sono almeno tre gli ufficiali coinvolti nella gestione dei falsi rapporti sul pestaggi di Stefano Cucchi. L'allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale e responsabile della sicurezza del Capo dello Stato) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza). Sono state le dichiarazioni di quest'ultimo sottufficiale a coinvolgere Testarmata.

Gli indagati dell'Arma nel processo bis. Oltre a Testarmata, l'ultimo indagato, sono cinque i militari alla sbarra nel processo nato dall'inchiesta bis sulla morte di Cucchi: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.

I fatti risalgono al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell'Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell'ottobre 2009. In quel periodo arrivò dall'alto l'ordine di falsificare le annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio. Il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell'intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi.

La mail che accusa fu ignorata. Incaricata direttamente della raccolta dei documenti è poi la quarta sezione del Nucleo investigativo. Che si presenta a Tor Sapienza di fronte al maresciallo Colombo Labriola. È una scena madre. Che il maresciallo racconta così: "Arrivarono un capitano e almeno due sottufficiali. Gli diedi le annotazioni di Di Sano e Colicchio sia nella versione modificata che originale. L'ordine era di dare tutto e io non volevo nascondere niente". "E per far capire - aggiunge - che avevo eseguito un ordine su disposizione dei superiori e spiegare così il perché di quelle due annotazioni, circostanza di cui i colleghi stessi si erano subito resi conto, mostrai la mail ricevuta dal colonnello Cavallo. Il capitano, allora, uscì fuori dalla mia stanza per parlare al telefono. Quando rientrò, presero tutto, ma non la mail". Tutto. Ma non la mail. La prova che inchioda la catena gerarchica per i falsi non viene dunque raccolta per ordine del Reparto operativo con cui il capitano ha confabulato. E la ragione è semplice. Senza quella mail, Musarò non andrà oltre una storia di falsi cucinata da " qualche mela marcia " di basso grado. Una scommessa sbagliata. E per l'Arma catastrofica. Quel capitano era Tiziano Testarmata, ora indagato per favoreggiamento.

Caso Cucchi, i carabinieri e il dovere della fiducia, scrive Mario Calabresi il 25 ottobre 2018 su "la Repubblica". Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole che stronchino i sospetti e indichino una strada di riscatto. Non vogliamo e non possiamo credere che i carabinieri siano questi. Che l'immagine dell'Arma venga schiacciata sul comportamento di chi ha tradito la legge per nascondere la verità sulla fine di Stefano Cucchi. Che la fiducia di una nazione possa essere incrinata dalle accuse contro militari depistatori o corrotti. Le rivelazioni che emergono dal processo di Roma mettono sotto accusa, penalmente e moralmente, l'intera scala gerarchica della Capitale e richiedono una risposta chiara e decisa. In gioco non ci sono solo le responsabilità penali di un gruppo di militari, indagati per avere commesso un atto brutale e averlo nascosto con una catena sistematica di falsi, su cui si pronunceranno i giudici. In gioco c'è anche un bene prezioso, fondamentale per la nostra democrazia: la credibilità dell'istituzione in cui gli italiani hanno sempre riposto maggiore fiducia, una stima confermata ogni anno dai sondaggi e rimasta salda attraverso tutte le crisi del Paese. Quello che sta avvenendo richiede iniziative concrete, che spazzino via le ombre e diano un messaggio chiaro ai cittadini, tutelando i 110 mila carabinieri che tutti i giorni rischiano la vita con impegno e professionalità. Non si può aspettare in silenzio che passi la tempesta o i danni saranno incalcolabili. Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole definitive che stronchino la catena dei sospetti e indichino una strada di riscatto.

Caso Cucchi, Nistri: "I colpevoli mai più in divisa, lo dobbiamo a famiglia e Arma". Il comandante generale dei carabinieri risponde su "La Repubblica" del 26 ottobre 2018 all'editoriale del direttore Mario Calabresi: "Dimostreremo che non siamo quello che emerge dalla dolorosa vicenda di Stefano". "Gentile direttore, ho apprezzato molto il suo editoriale di ieri intitolato "I carabinieri e il dovere della fiducia". Ne ho apprezzato la misura, l'equilibrio, la richiesta di verità anche a tutela del buon nome dell'Arma, un patrimonio costruito in 204 anni di storia e di sacrificio. Un'altra verità della questione l'ha già scritta lei e per questo la ringrazio: non si vuole e non si può credere che i carabinieri siano ciò che emerge dalla dolorosa vicenda umana di Stefano Cucchi e dai suoi sviluppi giudiziari. Non è così, infatti, e lo dimostreremo, appena saranno chiare le precise responsabilità, che sono sempre personali, attraverso ogni provvedimento consentito dalla legge: a seconda dell'entità, le punizioni, i trasferimenti, finanche le rimozioni. Perché chi risulti colpevole di reati infamanti non potrà indossare la divisa, quella degli innumerevoli carabinieri che per essa hanno dato la vita, che ogni giorno la rischiano e che in futuro dovranno continuare a farlo, senza nessun tentennamento, per la tutela dell'ordinamento democratico e per il bene comune. Dobbiamo fermezza a una famiglia colpita dal lutto, a un Paese che ci ama ed è smarrito di fronte a ciò che sente. A chi ci ha preceduti lungo il cammino della Storia d'Italia e ha rispettato in ogni avversità i codici morali e i regolamenti, a costo di pagare un prezzo altissimo. La dobbiamo a noi stessi, che non possiamo essere accomunati - in 110 mila! - alle cattive azioni di pochi. La dobbiamo infine alle nostre famiglie, che in un diffuso immaginario ci vedono d'improvviso passare, in blocco e ingiustamente, dalla parte sbagliata. Gentile direttore, lei conosce meglio di tanti altri, per la sua professione e per la sua storia familiare, il peso delle parole. Le parole sono pietre ed è da loro che bisogna partire. Il termine "fiducia" viene dal verbo confidare. Ha radici vicine il sostantivo "fedeltà", che è il nostro segno distintivo. Una sincera assunzione di responsabilità è dunque doverosa e ad essa non intendiamo sottrarci. Per il riscatto che ci chiede abbiamo una sola strada: trarre lezione anche da fatti tanto deplorevoli, per evitare che si ripetano. Li porteremo quale esempio di cosa non fare, nelle nostre Scuole, ai giovani che si sono appena arruolati. Ne discuteremo nei Reparti, dove chi opera sulla strada è costretto a fronteggiare il quotidiano oltraggio della violenza, ma a quella violenza non deve mai indulgere. Ribadiremo ai nostri ufficiali che il grado non è un peso leggero, richiede spalle robuste e animo saldo. Perché siamo ben consapevoli che la credibilità dell'Arma, in questo caso, sarà tutelata attraverso le sanzioni nei confronti di chi, a qualunque livello, sia riconosciuto manchevole. E, soprattutto, attraverso l'accertamento della verità. Siamo sempre stati nel cuore degli Italiani, non c'è per noi un possibile altrove. Giovanni Nistri, comandante generale dell'Arma dei carabinieri."

Caso Cucchi, ecco l'audio dell'intercettazione che prova i falsi dei carabinieri, scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi il 6 novembre 2018 "La Repubblica". La lunga telefonata che ascoltate in questo audio è stata intercettata dagli agenti della Squadra Mobile della Polizia alle tre del pomeriggio del 22 settembre scorso ed è stata depositata dal pm Giovanni Musarò agli atti del processo per l'omicidio di Stefano Cucchi. E' una conversazione chiave che ricostruisce la genesi di alcuni dei falsi disposti dalla catena di comando dell’Arma di Roma e cruciali per far deragliare la ricerca della verità. Il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, chiama l'appuntato Gianluca Colicchio per informarlo di aver ricevuto un avviso di garanzia per falso ideologico e materiale nell'inchiesta per l'omicidio di Stefano Cucchi. Colombo Labriola è fuori di sé e, almeno apparentemente, appare sorpreso dall'essere chiamato a rispondere dei falsi che, nell'ottobre del 2009, sono stati direttamente ordinati dal Comando di gruppo Carabinieri Roma (nella persona del suo capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo) per dissimulare le reali condizioni di salute di Stefano dopo il pestaggio subito la notte del suo arresto. Colicchio non è un interlocutore scelto a caso. E' lui infatti, insieme all'appuntato Francesco Di Sano, il carabiniere che conosce, come del resto il maresciallo Colombo, la storia di quei falsi. Chi li ordinò, chi fece pressione perché all'ordine venisse dato corso (il maggiore Luciano Soligo, comandante della stazione Montesacro Talenti e superiore gerarchico del maresciallo Colombo), e dunque come l'intera catena di comando fosse al corrente di quella cruciale manipolazione di atti destinata a indirizzare la ricerca della verità lontano dai responsabili del pestaggio (i carabinieri in servizio alla stazione Appia che arrestarono Stefano la notte tra il 15 e 16 ottobre). Come ascolterete, il maresciallo dice infatti: "Se hanno indagato me, allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa (il colonnello Alessandro Casarsa, all'epoca Comandante del Gruppo Carabinieri Roma e oggi del reggimento corazzieri del Quirinale) e Tomasone (Vittorio Tomasone, nell'ottobre 2009 Comandante Provinciale dei carabinieri di Roma e oggi Comandante Interregionale per l'Italia meridionale)".

Stefano Cucchi, un carabiniere conferma in aula: “Le note sulla sua salute furono modificate per ordine del maggiore”. L'indagine sul depistaggio entra per la prima volta a far parte del dibattimento sulla morte del geometra romano arrestato dai carabinieri. Imputati nel processo cinque militari: a tre è contestato l'omicidio preterintenzionale, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 dicembre 2018. L’indagine sul depistaggio entra per la prima volta a far parte del dibattimento sulla morte di Stefano Cucchi. A processo cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale, è stato sentito il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della Stazione Tor Sapienza. Il militare è uno degli indagati in quella che è definita l’inchiesta ter sulla vicenda, e per questo è stato assistito dall’avvocato Antonio Buttazzo: ha però risposto alle domande. Confermando che le annotazioni sulle condizioni di Cucchi nella notte del suo arresto furono modificate: morì una settimana dopo nell’ottobre 2009. La vicenda è stata oggi ricostruita temporalmente e cronologicamente. “Io non ho mai visto Cucchi – ha detto Colombo Labriola -. Solo la mattina del 16 ottobre 2009 ho appreso che nella notte i carabinieri della Stazione Appia avevano portato nelle nostre camere di sicurezza un detenuto, e che durante la notte non si era sentito bene, tanto che era stato chiamato il 118“. Il luogotenente non sentì parlare più del giovane, fino al 26 ottobre 2009. “Mi telefonò il maggiore Soligo (comandante la Compagnia Montesacro) che mi invitò a raggiungerlo. Nel suo ufficio mi disse che Cucchi era morto, la procura aveva aperto un’inchiesta e che i militari in servizio quella notte avrebbero dovuto fare un’annotazione di servizio per indicare il loro ruolo”. Di lì, l’escalation che è poi approdata alla “modifica” delle annotazioni. “Il 30 ottobre 2009 – ha detto Colombo Labriola – era in programma la visita quadrimestrale del comandante della Compagnia. Quella mattina il maggiore Soligo mi contattò dicendo che le annotazioni redatte dai carabinieri Colicchio e Di Sano non andavano bene perché il contenuto era ridondante, erano estremamente particolareggiate e nelle stesse si esprimevano valutazioni medico-legali con non competevano a loro”. I due carabinieri furono ascoltati dal maggiore Soligo: i file furono trasmessi al tenente colonnello Francesco Cavallo (all’epoca Capo Ufficio Comando del Gruppo Roma) e poi ritornarono indietro con testo cambiato e la scritta “meglio così”.  Nell’allegato c’erano le due annotazioni modificate che dovevano sostituire quelle precedenti”. La mattina del 30 ottobre del 2009, quando la morte di Cucchi era diventato un caso mediatico ed erano partire le indagini della procura, ci fu una riunione nella sede del Comando provinciale di Roma, in piazza San Lorenzo in Lucina, alla presenza del generale Vittorio Tomasone e del colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca a capo del Gruppo Roma ora in servizio al Quirinale, con tutti i militari in qualche modo coinvolti nella vicenda. “Per come si svolse, mi sembrò una riunione di alcolisti anonimi”, ha detto Colombo davanti ai giudici della Corte d’Assise nel processo che vede imputati 5 carabinieri. “L’incontro, non ufficiale, durò meno di un’ora – ha ricordato Colombo – e nulla fu verbalizzato. Tomasone disse ‘bravo’ a Colicchio che chiamò il 118 quando vide che Cucchi, portato in cella di sicurezza, non stava bene mentre rimproverò Mandolini (Roberto, imputato per falso e calunnia ndr) che era intervenuto un paio di volte per supportare un suo collega che non era stato capace di spiegare con chiarezza il suo ruolo nella vicenda. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato. In quella sede non si parlò della doppia annotazione”.

“Le annotazioni sulle condizioni di salute di Cucchi furono modificate”: la testimonianza del carabiniere, scrive la Redazione TPI il 6 Dicembre 2018. Oggi 6 dicembre 2018, si è tenuta una nuova udienza nel processo bis sui falsi verbali e sui depistaggi del caso Cucchi. A parlare al pm Musarò è Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza. Secondo quanto emerge dalla testimonianza, le annotazioni sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi la notte del suo arresto per droga furono modificate. Il processo bis è a carico di cinque carabinieri, tre dei quali imputati per la morte di Cucchi. Massimiliano Colombo Labriola è uno degli indagati. “Il 30 ottobre 2009 il maggiore Soligo mi contattò dicendo che le annotazioni redatte dai carabinieri Colicchio e Di Sano (autori delle annotazioni) non andavano bene perché il contenuto era ridondante, erano estremamente particolareggiate e, nelle stesse, si esprimevano valutazioni medico-legali che non competevano loro”. Secondo quanto riportato, i due carabinieri furono in seguito ascoltati dal maggiore Soligo; i documenti furono trasmessi al tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca Capo Ufficio Comando del Gruppo Roma, e poi ritornarono indietro con testo cambiato e la scritta “meglio così”. “La mattina del 30 ottobre del 2009, quando la morte di Stefano Cucchi era diventato un caso mediatico e la Procura aveva già cominciato a convocare come persone informate sui fatti i carabinieri della stazione Appia e Tor Sapienza per ricostruire quanto accaduto, ci fu una riunione presso il Comando provinciale di Roma alla presenza del generale Vittorio Tomasone e del colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma, con tutti i militari dell’Arma in qualche modo coinvolti nella vicenda. Per come si svolse, mi sembrava una riunione di alcolisti anonimi”, ha raccontato oggi davanti alla corte d’assise, nel processo sulla morte del geometra di 31 anni, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza. “Io partecipai a quella riunione assieme al piantone Gianluca Colicchio. Erano presenti anche il maggiore Soligo (comandante della compagnia di Roma Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza), e poi il maggiore Unali (della compagnia Casilina), il maresciallo Mandolini e altri tre/quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano Tomasone e Casarsa mentre gli altri erano tutti dall’altra parte (in posizione frontale). Il tutto durò meno di un’ora – ha ricordato Colombo Labriola – e nulla fu verbalizzato. Tomasone disse ‘bravo’ a Colicchio che chiamò il 118 quando vide che Cucchi, portato in cella di sicurezza, non stava bene mentre rimproverò Mandolini che era intervenuto un paio di volte per supportare un suo collega che non era stato capace di spiegare con chiarezza il suo ruolo nella vicenda. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che quel carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato. In quella sede non si parlò della doppia annotazione”.

La testimonianza del carabiniere Gianluca Colicchio. “La sensazione che ho avuto subito quando vidi per la prima volta Stefano Cucchi è che stesse male”. A pronunciare queste parole è il carabiniere Gianluca Colicchio, che nella notte tra il 15 e 16 ottobre 2009 era in servizio alla stazione di Tor Sapienza. “Notai che gli si era rotta la fibbia della cinta, gli chiesi il motivo e lui mi disse che erano stati gli ‘amici miei’. Per questo chiamai il 118 e il 112. Ed è la ragione per cui non volli modificare l’annotazione di servizio sul suo stato di salute perché significare alterare il senso di quello che lui mi aveva detto”, spiega il carabiniere. Colicchio ha ribadito la sua testimonianza già resa al pm Giovanni Musarò. L’uomo è stato sentito come persona informata sui fatti nell’ambito dell’inchiesta bis sui falsi verbali e sui depistaggi. “Il 27 ottobre del 2009 il maggiore Luciano Soligo mi chiamò, mi mise davanti una copia dell’annotazione di servizio su Cucchi non firmata e mi disse di firmare. La firmai ma rileggendola mi resi conto che era stato cambiato un passaggio importante, per cui feci presente al maggiore che non era l’annotazione che avevo redatto il giorno prima, non era ‘farina del mio sacco’. Stravolgeva il senso di quello che mi aveva detto Stefano. Presi in mano il foglio che avevo appena firmato e dissi che non volevo che l’annotazione modificata fosse trasmessa perché ne disconoscevo il contenuto”, spiega ancora l’agente. “Soligo cercò di farmi calmare ma io non volevo sentire ragioni. In quel momento il maggiore stava parlando al telefono con il tenente colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli ‘il carabiniere è un po’ agitato’. Parlai dunque con Cavallo, il quale mi chiese per quale ragione non volessi firmare l’annotazione e dissi a lui quello che avevo già detto a Soligo e cioè che non era ‘farina del mio sacco’ e ne disconoscevo il contenuto. A questo punto Cavallo mi evidenziò che rispetto all’annotazione che avevo redatto la sera prima, era stato cambiato solo un passaggio, ma io non volevo sentire ragioni perché mi ero reso conto che quella piccola modifica cambiava completamente il senso di quello che intendevo attestare. Per cui presi l’annotazione e la portai via”, spiega ancora l’uomo. “Io non sono stato minacciato ne’ da Soligo ne’ da Cavallo. Ho un carattere forte e non mi lascio intimidire dai gradi. Però c’è gente che di fronte a un graduato interpreta un ordine superiore come un’intimidazione”, ha spiegato ancora l’uomo. “Per quello che percepii io Soligo non si trovava in una situazione molto diversa dalla nostra, nel senso che anche lui stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. Ritenni per questo che la ‘regia’ veniva dal Gruppo di Roma, circostanza confermata dal fatto che Soligo non cambiò i files delle due annotazioni sul posto ma i files furono trasmessi al Gruppo e tornarono modificati dal Gruppo”, prosegue il carabiniere.

Processo Cucchi, l'infermiere che lo trovò morto: "Era politraumatizzato". Flauto ha ripercorso gli ultimi giorni del geometra nella struttura protetta del Pertini. Il carabiniere Di Sano intercettato al telefono: "Nell'atto modificato i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa", scrive Maria Elena Vincenzi il 7 novembre 2018 su "La Repubblica". "Quando lo vedo la prima volta, la notte del 17, i colleghi mi dicono che hanno avuto problemi a fare l'elettrocardiogramma perché è così magro che non si riesce, le pinzette si staccavano. Il collega mi ha detto: "Ci ho provato tante volte, ma non riesco".  In viso aveva delle ecchimosi sotto orbitali. Io sono entrato nella cella per fargli l'emocromo e gli ho spiegato perché. Era politraumatizzato, era la prassi". Giuseppe Flauto, assolto in via definitiva nel primo processo per la morte di Stefano Cucchi, in aula nel processo che per la morte di Stefano Cucchi vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale, ha ripercorso gli ultimi giorni del 31enne nella struttura protetta dell'ospedale Pertini. Davanti alla corte di Assise, che ieri ha ammesso la testimonianza del capo della mobile romana, Luigi Silipo, l'infermiere ha raccontato di quando ha trovato Stefano Cucchi senza vita. "La mattina del 22 sono entrato io nella cella per fare il prelievo e svuotare la diuresi. Stava sul fianco, con la mano tra la faccia e il cuscino. Gli ho detto: "Stefano, Stefano, ti devo fare il prelievo". Non rispondeva, mi sono avvicinato, lo ho girato e ho visto che stava a torace fermo. Io ho fatto il massaggio, il corpo era caldo caldo. Ci ho provato, nel frattempo sono arrivati la dottoressa e il collega col defribillatore. Siamo stati lì una mezz'ora a cercare di rianimarlo. La dottoressa ha detto che aveva una rigidità mandibolare e che quindi forte era morto da un po'. Era la prima volta che mi moriva un paziente da che stava lì, per cui volevo preparare la salma. Ma la penitenziaria mi ha detto di lasciarlo così che bisognava aspettare il magistrato". Al pm Giovanni Musarò che gli ha chiesto se, nella sua esperienza professionale, abbia visto gente più magra, Flauto ha risposto secco: sì. Il che confermerebbe che la morte di Cucchi non è stata "naturale" come invece riportato in cartella. "Stefano si lamentava di continuo per il dolore alla schiena, gli chiesi cosa gli fosse capitato e lui mi disse che era caduto dalle scale. Ma lui non era certo il primo detenuto con segni di percosse a negare di essere stato picchiato", ha detto Flauto. "Quella mattina - ha ricordato Flauto - entrai in cella, lo chiamai, ma lui non mi rispose: era di lato, con una mano sotto la guancia e sembrava dormisse, poi lo girai e mi accorsi che forse era morto. Tentai di fargli un massaggio cardiaco perche' il suo corpo era ancora caldo". Tra i testimoni ascoltati oggi in udienza, anche Amalia Benedetta Cerielli, la volontaria alla quale Cucchi, il giorno prima di morire, chiese di chiamare la famiglia perche' voleva incontrare il cognato. La donna ha ricordato quando vide il 31enne per la prima volta: "Aveva il viso tumefatto e con lividi". Intanto in Procura è stata depositata l'intercettazione di una conversazione telefonica tra Francesco Di Sano, piantone alla caserma di Tor Sapienza, e il cugino, l'avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta. "Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno "ammucciato" (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io carabinericchio di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?". "Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l'ho fatto in maniera impeccabile...io ho eseguito un ordine in buona fede", dice Di Sano. Nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull'annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. "Per un motivo 'x' hanno voluto cambiare l'annotazione - aggiunge - io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l'avevo scritto con i piedi...se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c'è una scala gerarchica. Io l'ordine l'ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l'ha ricevuta lui".  "Loro mi dicevano 'non cambia nella sostanza perché è scomparso questo': i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa".

Cucchi, il carabiniere intercettato: “Dolori al costato sono diventati alle ossa”. In aula infermiere ripete: “Aveva ecchimosi”. Testimonianze note e nuovi atti. È stata un'udienza densa quella che si è celebrata oggi davanti giudici della Corte d'assise. Sul banco dei testimoni due infermieri e poi il deposito da parte della pubblica accusa di intercettazioni che arrivano direttamente dalla nuova inchiesta per depistaggio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 novembre 2018. Testimonianze note e nuovi atti depositati. È stata un’udienza densa quella che si è celebrata oggi davanti giudici della Corte d’assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi. Sul banco dei testimoni due infermieri e poi il deposito da parte della pubblica accusa di intercettazioni che arrivano direttamente dalla nuova inchiesta per depistaggio in cui si ritorna sull’atto sulle condizioni di salute del detenuto modificato per un ordine superiore. Dall’inchiesta sul depistaggio emergono nuovi particolari come l’intercettazione in cui Francesco Di Sano, piantone alla caserma di Tor Sapienza indagato dice parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano (anche lui indagato):  “Loro mi dicevano ‘non cambia nella sostanza perché è scomparso questo’: i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa“. “Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla…ma il reato c’è per carità di Dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano ‘no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”. Sempre intercettato Di Sano spiega parlando dell’annotazione sullo stato di salute di Cucchi che sarebbe stata modificata su ordine gerarchico: “Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile…io ho eseguito un ordine in buona fede”.  E poi: “Per un motivo ‘x’ hanno voluto cambiare l’annotazione – aggiunge – io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi…se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui”. “Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io carabinericchio di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?”. Atti che sono stati depositati nell’udienza che oggi prevedeva l’audizione di due infermieri testimoni. A Silvia Porcelli, del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini il geometra arrestato per droga disse di essere stato picchiato, ma che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. “Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva – ha spiegato Silvia Porcelli -. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose ‘non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri’. Gli risposi ‘aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante’. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose ‘è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto'”. “Giuseppe Flauto, che già nel processo a suo carico, in cui fu assolto, ricordò il momento del decesso ai giudici ha raccontato quello vide la mattina del 22 ottobre 2009: “Lo trovai disteso su un fianco, con la mano sotto la testa. Sembrava dormire, ma non rispose”. Flauto ha ricostruito cronologicamente i suoi ‘contatti’ con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. Due giorni prima, il suo primo ‘vero’ dialogo. “Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – Gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima”. Poi l’ultimo giorno. “Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – Con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò”. E la notte prima della morte, un momento ‘strano’: “Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più”. Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. “Tentammo di rianimarlo ma non ci fu nulla da fare. La polizia penitenziaria disse di lasciare il corpo così com’era perché doveva prima visionarlo il magistrato. Andai in infermeria, arrivò il cambio turno, lasciai le consegne, smontai”. Altri testimoni sono stati chiamati dalla procura di Roma. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula: la Corte d’assise di Roma, infatti, ha ammesso la richiesta d’integrazione probatoria fatta dal pm Giovanni Musarò e relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, che ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ammesse le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda.

Processo Cucchi, nuove prove e altri testi. Tra cui il capo della Mobile di Roma, scrive Checchino Antonini il 7 novembre 2018 su Left. Udienza Cucchi: «Tutte le integrazioni sono state ammesse», dice a Left l’attivista di Acad più assidua alle udienze del processo bis per la morte del giovane geometra romano, nove anni fa. È la notizia del giorno: deposizioni, verbali, registrazioni e intercettazioni scaturite nella nuova recente fase delle indagini sono state ammesse dalla Corte d’assise di Roma. La richiesta d’integrazione probatoria, fatta dal pm Giovanni Musarò, è relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, il quale ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ora si allunga la lista dei testi. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula nel processo per la morte di Stefano Cucchi nel repartino penitenziario del Pertini sei giorni dopo l’arresto per droga da parte dei carabinieri della Stazione Appia, cinque dei quali sono imputati, tre di accusati di omicidio preterintenzionale. La Corte ha ammesso – ritenendole «temi di prova collegate a questo processo» – le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte dell’arresto, dopo il pestaggio, e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda. Probabilmente Musarò vorrà sentirli in una delle udienze di dicembre. «L’accoglimento delle richieste avanzate dall’Ufficio di Procura – ha commentato l’avvocato Eugenio Pini, legale del carabiniere Tedesco – consentirà alla Corte di Assise di vagliare ulteriori elementi che appaiono indubbiamente utili all’accertamento dei fatti». Tra le voci intercettate quella del piantone di Tor Sapienza: «Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato” (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io “carabinericchio” di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?» dice al telefono il carabiniere Francesco Di Sano parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta sul caso di Stefano Cucchi. «Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile… io ho eseguito un ordine in buona fede»: nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull’annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. «Per un motivo “x” hanno voluto cambiare l’annotazione, io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi… se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui». Così, «i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa». «Loro mi dicevano “non cambia nella sostanza perché è scomparso questo”». «Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla… ma il reato c’è per carità di dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano “no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”», conclude il carabinieri che era in servizio alla stazione Tor Sapienza dove Cucchi venne portato dopo alcune ore dall’arresto, già pestato per bene nella tappa precedente della via crucis, quella alla stazione Casilina, che si concluderà con la sua morte, “seppellito” in una stanza del reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma. Fra testi in programma oggi, c’era il medico di famiglia di Stefano che ha ribadito alle difese dei carabinieri la sana e robusta costituzione del suo paziente, certificata nell’agosto, poche settimane prima del massacro. E l’epilessia, assieme alla magrezza, uno dei cavalli di battaglia di chi rappresenta gli imputati, non compariva da anni. Poi, nell’aula della prima corte d’assise, un perito della polizia ha spiegato la faccenda del verbale di fotosegnalamento alterato con il bianchetto, una delle magagne che ha iniziato a scavare delle crepe nel muro di gomma che fino ad allora aveva protetto i carabinieri. Giuseppe Flauto, infermiere al Pertini, uno degli assolti del primo processo, ha ripetuto in aula i suoi contatti con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. «Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima». Poi l’ultimo giorno. «Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò». E la notte prima della morte: «Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più». Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. Una deposizione con parecchi particolari diversi da quelli ricordati nel 2009 che potrebbe essere usata per minimizzare le condizioni del detenuto-paziente. Per il legale di parte civile, la cartella clinica risulta compilata in maniera “strana” lasciando ipotizzare che sia stata compilata in un secondo momento. Per i medici il processo d’appello è ancora in corso. A un’altra infermiera del reparto di medicina protetta, Stefano Cucchi disse di essere stato menato dai carabinieri, ma anche che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. Circostanza, già uscita nel primo processo e confermata oggi da Silvia Porcelli: «Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose “non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri”. Gli risposi “aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante”. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose “è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto”. Tutti gli infermieri del Reparto di medicina protetta del Pertini sentiti oggi come testimoni hanno confermato che quando arrivò «aveva occhiaie marcate e lamentava dolore lombo-sacrale. Stava nel letto, sul fianco, lo vidi in viso e aveva occhiaie marcate», ha detto Domenico Lobianco; e per la collega Stefania Carpentieri, Cucchi «al primo impatto aveva gli occhi cerchiati pronunciati di colore rosso cupo. Erano gonfi, potevano essere ecchimosi. E poi, Stefano era molto magro». Di una magrezza che non consentì di fargli delle iniezioni di antidolorifico per via endovenosa («Si rifiutava perché non accettava nulla che venisse somministrato per via endovenosa», ha detto una delle infermiere-testimoni) né al gluteo per mancanza di un’adeguata massa muscolare, optando invece per una somministrazione nel deltoide. E poi, nel farlo bere, si era optato – ha detto l’infermiera Rita Maria Silvia Spencer – «per delle bottiglie d’acqua bucate per mettere delle cannucce, visto che stava a pancia in giù». Al banco dei testi anche una volontaria del reparto medico, Amalia Benedetta Ceriello, che Cucchi le chiese una Bibbia e di «fare una telefonata al cognato perché disse era l’unico che gli era stato vicino quando aveva avuto dei problemi, per sistemare un cagnolino fino a quando sarebbe uscito dal carcere». Per le difese dei carabinieri sarebbe una prova che stava “bene” Cucchi.

Prossima udienza il 20 novembre per sentire una decina di ulteriori testimoni della lista del pubblico ministero. Parrebbe finita bene, invece, la vicenda del carabiniere Casamassima, l’appuntato che con la sua testimonianza fece riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi. «Non ho mai perso fiducia nell’Arma e fraintendimenti sono stati chiariti. Tutto è bene quel che finisce bene», scrive in un post Riccardo Casamassima. «Oggi sono stato convocato presso il comando generale dove mi hanno comunicato che a breve sarò trasferito in una sede più confacente alle mie esigenze familiari. Sarò più vicino a casa e avrò più tempo per stare con la mia famiglia. (…) Grazie alle persone che mi sono state vicine. Grazie all’Arma dei carabinieri e grazie alle persone che ho incontrato oggi al Comando». «Oggi in aula – dice Ilaria Cucchi – hanno sfilato gli infermieri del reparto detentivo dell’ospedale dove Stefano è morto nella noncuranza e nel disinteresse generale di tutti loro e tanti altri, che pare non abbiano notato niente di strano se non il fatto che lui era magro e scontroso. Non hanno notato, mentre lo visitavano, sul fondo schiena i segni delle fratture. Non hanno notato, quando tentavano di rianimare un morto, quel pallone enorme, il globo vescicale contente 1.450 cc di urina. Mentre gli avvocati degli imputati si affannano a gettare fango ancora una volta su mio fratello e sulla nostra famiglia. Comunque voglio rassicurare tutti sul fatto che Miky, la cagnetta di Stefano, sta bene ed è con noi, non è stata messa nel canile come è stato insinuato. Lei sta bene, anche se purtroppo il suo padrone è morto, massacrato di botte. Ma nessuno ha notato niente».

Il carabiniere Casamassima: “Su Stefano Cucchi, non potevo più tacere”, scrive Damiano Landriccia il 7 novembre 2018 su "Odysseo.it". Nella sua città Natale, Riccardo Casamassima si confessa in una intervista pubblica

Andria, domenica 4 novembre, Auditorium Mons. G. Di Donna, le 19 passate, l’appuntato dei Carabinieri Riccardo Casamassima, che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, è ospite dell’Associazione IdeAzione. Lo intervista Adriana Scamarcio, del direttivo dell’Associazione. La sala è piena, tutti ascoltano in silenzio, qualche colpo di tosse interrompe brevemente la quiete, ma non disturba. L’appuntato, 40enne originario di Andria, sul palco sembra intimorito, quasi fuori luogo, ed esordisce al microfono dicendo: «Ho deciso di intraprendere la carriera militare a 18 anni perché ci credevo e ci credo ancora nelle Istituzioni e vedo il mio lavoro come un riferimento per la gente. Questa sera vedrete il film su Stefano Cucchi e il messaggio che deve passare è importante: il lavoro che noi rappresentiamo non è quello che vedrete nel film, in cui un ragazzo viene massacrato di botte e le motivazioni purtroppo non si sanno, non si riesce a comprendere come mai una persona, due persone, siano arrivate a fare delle tali azioni nei confronti di un ragazzo. Il messaggio è un altro: è una cosa inaccettabile che chi sta nelle mani dello Stato, e dovrebbe essere messo nelle condizioni di tornare a casa, subisca invece quel che è successo a Stefano Cucchi. Questo ragazzo è entrato sano in caserma ed è uscito da morto, quindi vi invito a riflettere parecchio e a prendere dal film il giusto segnale: quello che effettivamente le forze dell’ordine fanno su strada». Alla domanda «Perché testimoniare dopo tutti questi anni?», Casamassima risponde: «La testimonianza è nata dopo sei anni e non è nata subito perché all’epoca tutto l’iter del processo non era stato seguito, cioè non avevo seguito tutto quello che stava succedendo. Ho deciso di testimoniare quando mi sono reso conto, fine 2014, che erano state condannate delle persone innocenti e che quindi quello che noi avevamo appreso sin da subito, parlo sia di me che della mia attuale compagna che lavorava con me all’epoca dei fatti, era fondamentale per poter dare la verità alla famiglia che la stava cercando, alla sorella Ilaria che la cercava in modo disperato. Poi c’è stata anche una frase che mi ha colpito dei genitori che alla fine del primo processo, presi dalla disperazione, dicevano “Adesso torniamo a casa e troviamo nostro figlio”. Rimanere insensibili, rimanere fieri davanti a una tale cosa diventava difficile, quindi abbiamo ritenuto di dover testimoniare anche se la scelta è stata una scelta combattuta per eventuali problematiche che poi attualmente sono verificate, infatti subito dopo la deposizione in aula mi è arrivato il trasferimento fatto proprio per danneggiarmi. La mia situazione lavorativa è un demansionamento, quindi non vai a fare quello che ti piace ma soprattutto il segnale che passa è un segnale sbagliato perché una persona che vorrebbe poter denunciare situazioni analoghe potrebbe prendere per esempio quello che è successo a me, quindi andare a compromettere la famiglia quando hai i figli piccoli, quando hai le spese che una famiglia media italiana si trova ad affrontare, poi comincia a rappresentare tutto questo un problema». Adrian Scamarcio incalza: «Pensi di rimanere nell’arma dei Carabinieri, di continuare a lavorare, di fare questo lavoro?». La risposta non si fa attendere: «Io mi auguro di rimanere a lavorare di poter fare quello che ho sempre fatto, di fare il mio lavoro quello per cui sono partito da Andria, di poter stare per strada, di fare il mio lavoro». L’ultimo domanda: «Qual è il messaggio, cosa ti senti di dirci oggi a seguito di quello che è accaduto nei confronti anche della famiglia di Stefano Cucchi?». La risposta di Casamassina: «Io penso che la famiglia abbia bisogno proprio del sostegno di tutti quanti anche se il processo sta andando abbastanza …le idee sono chiare su tutto quello succede …però penso che proprio la famiglia abbia bisogno della vicinanza di tutti quanti, una vicinanza che si può far sentire tramite i social che rappresentano un mezzo che se usato bene può avere un forte potere per questo tipo di argomenti, proprio per denunciare situazioni, per denunciare violenze in qualsiasi contesto che può essere il contesto scolastico, il contesto famigliare ».

Cucchi, la telefonata dei Cc al 118: "Un detenuto sta male". L'audio è stato depositato dal pm Musarò al processo, scrive l'ANSA il 25 ottobre 2018. "Abbiamo un detenuto che sta male, dice che ha attacchi di epilessia, ha tremori, non riesce a muoversi". Così un carabiniere della Stazione Tor Sapienza in una telefonata al 118 le prime ore del 16 ottobre 2009 parlava delle condizioni di Stefano Cucchi. Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della caserma e secondo le indagini era reduce dal pestaggio subito alla caserma Casilina. L'operatore del 118 chiede al militare, che è il piantone della stazione Tor Sapienza, se il detenuto è tranquillo. "Tranquillissimo -risponde il carabiniere- ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell'epilessia". Poi fornisce i dati anagrafici: "è nato l'1-10-1978". L'operatore chiude dicendo che manderà un'ambulanza a via degli Armenti sede della caserma di Tor Sapienza. L'audio è stato depositato dal pm Giovanni Musarò al processo.

Caso Cucchi, l’audio della chiamata dei carabinieri al 118: “Un detenuto sta male, dice che è epilettico”. Nell'audio, i carabinieri spiegano che un detenuto non riesce a muoversi a causa dei tremori, "ma non ha i sintomi dell'epilessia", scrive TPI il 26 Ottobre 2018. Continuano ad aumentare le rivelazioni sul caso di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 nell’ospedale penitenziario Pertini. L’ultima notizia riguarda la diffusione dell’audio della chiamata fatta dai carabinieri di Tor Sapienza al 118. “Siamo i carabinieri di Tor Sapienza. Abbiamo un detenuto che sta male, ha tremori e non riesce a muoversi. Dice che ha attacchi di epilessia”. L’operatore del 118 risponde chiedendo maggiori informazioni sulle condizioni di salute del detenuto: nello specifico vuole sapere se l’uomo è tranquillo. “Tranquillissimo, ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell’epilessia”. La chiamata risale al 16 ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi è in una camera di sicurezza della caserma dove è stato fermato a Roma. Secondo le indagini, in quel momento il pestaggio nella caserma Casilina era già avvenuto. A seguito della chiamata, l’ambulanza arriva nella struttura di Tor Sapienza e gli operatori del 118 trovano Stefano avvolto in una coperta e tremante. Il giovane però dichiara di stare bene, nonostante non riesca a muoversi. A quel punto, dopo diverse insistenze, gli operatori vanno via. La registrazione della chiamata fra 118 e carabinieri è solo uno delle decine di documenti in formato cartaceo e audio depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte del giovane geometra romano. Solo alcuni giorni prima era stato diffuso un primo audio di una una conversazione telefonica, intercettata, avuta tra due carabinieri a poche ore dall’arresto di Stefano Cucchi. “Magari morisse, li mortacci sua”, si sente nell’audio, riportata in uno dei documenti che il pm Giovanni Musarò ha depositato mercoledì 24 ottobre ai giudici in Corte d’Assise. A parlare è uno dei carabinieri, poi imputati per calunnia nel processo-bis di Roma, con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale. In particolare il militare fa riferimento alle condizioni di salute del 31enne geometra che si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza, dopo essere stato pestato alla caserma Casilina. “Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato se stanotte o se ieri. È detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi”. E l’altro: “È da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”. 

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2018. «Cioè, effettivamente la firma l'ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l'ho fatta io», dice il carabiniere Francesco Di Sano a un'amica il 14 ottobre scorso. L' ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l'arresto arriva da un'intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare» (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un «dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l'ha scritta lui. La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli - ma fino a un determinato gradino - dall' indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase «Meglio così»), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell'interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell' ultimo mese. In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: «Per fortuna c' ho questa mail... l'ho stampata, l'hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita». Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. «Questo rappresenta un'anomalia», ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l'elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: «A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell' occasione del Nov. 2015». Tra le «anomalie» che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all'inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: «Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale». Colombo eseguì scrivendo, tra l'altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli «non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo». Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un'indagine preliminare, Colombo ha risposto: «Prendo atto. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate»

Cucchi, la frase choc del carabiniere: «Sta male? Magari morisse», poi una mail cambia le relazioni. La riunione coi vertici dopo la morte: pareva gli alcolisti anonimi. A raccontare l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda: in primis il luogotenente inquisito per falso che ha rivelato la manomissione dei resoconti, scrive Giovanni Bianconi il 24 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...». A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò. A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare, dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa. Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni, scrivendo nella email: «Meglio così...». La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene. «Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta. «Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: «Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora». In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...». Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».

Caso Cucchi, nell'intercettazione il carabiniere dice: "Magari morisse". Negli atti depositati oggi dal pm Giovanni Musarò durante l'udienza per il processo sulla morte del geometra romano spuntano intercettazioni: così Vincenzo Nicolardi parlava di Stefano Cucchi il giorno dopo l'arresto. E otto giorni dopo il decesso ci fu una riunione "tipo alcolisti anonimi" al Comando provinciale dei carabinieri di Roma, scrive il 24 ottobre 2018 "La Repubblica".  "Magari morisse, li mortacci sua". Con questa frase shock, secondo quanto riportato negli atti depositati dal pm Giovanni Musarò durante il processo sulla morte di Cucchi, uno dei 5 carabinieri imputati, Vincenzo Nicolardi, parlava di Stefano il giorno dopo l'arresto. Nel documento vengono riportate intercettazioni di comunicazioni radiofoniche e telefoniche avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, tra il capoturno della centrale operativa del comando provinciale e un carabiniere la cui voce è stata ricondotta dagli inquirenti a quella di Nicolardi, oggi a processo per calunnia. Nella conversazione si fa riferimento alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato la sera prima: "Mi ha chiamato Tor Sapienza - dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c'è un detenuto dell'Appia, non so quando ce lo avete portato, se stanotte o se ieri. E' detenuto in cella e all'ospedale non può andare per fatti suoi". Il carabiniere risponde: "E' da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua".

"Riunione al Comando provinciale tipo alcolisti anonimi". Non solo. Sempre secondo quanto emerge dalle carte depositate oggi dall'accusa alla I Corte d'Assise del Tribunale di Roma, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il 30 ottobre 2009, ci fu una riunione "tipo gli alcolisti anonimi" al comando provinciale di Roma, convocata dall'allora comandante, generale Vittorio Tomasone, con i vari carabinieri coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte del geometra romano. Lo afferma Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza, intercettato mentre parla con il fratello Fabio. "Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede: 'Fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al Comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, 'cioè quelli dall'arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Tu che sei il comandante della stazione, anche se non hai fatto nulla, il comandante della compagnia Casilina, il maggiore Soligo, comandante di Montesacro, il comandante del Gruppo Roma, stavamo tutti quanti. Ci hanno convocato perché all'epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto 'gli alcolisti anonimi' che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla".

"Se non sei in grado di spiegarti con un superiore, come ti spieghi con un magistrato?" Colombo ha chiarito la vicenda anche durante l'interrogatorio tenuto la scorsa settimana davanti al pm Giovanni Musarò. A quella riunione presero parte anche "il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c'erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall'altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all'arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché - ha concluso Colombo - se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato".

I medici del Fatebenefratelli: "Aveva una frattura vertebrale". "Visitai Stefano Cucchi due volte: aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo "Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c'è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni". Nel corso del processo è stato ascoltato anche Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, "si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero". Cosa diversa il giorno successivo: "Non riusciva a muoversi". Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch'egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo 'accesso' in ospedale. "Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com'era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l'idea di trasferirlo all'ospedale Pertini perché da noi non c'era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto".

L'avvocato della famiglia Cucchi: "Siamo scioccati". "Siamo basiti, scioccati, non sappiamo più cosa pensare. Quello che ci fa veramente molto male e arrabbiare è che da quest'inchiesta emergono fatti e comportamenti esecrabili, indegni per appartenenti all'Arma dei Carabinieri, di cui si sono rese responsabili persone che non erano coinvolte nell'arresto di Stefano Cucchi né direttamente coinvolte nella sua morte". Così l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, intervistato su Radio 24. "Io e Ilaria abbiamo preso atto che per i Carabinieri i problemi sono Casamassima, Rosati e Tedesco, noi abbiamo fiducia nell'Arma dei Carabinieri, ma qui emerge un quadro desolante ed esiste un grave problema da risolvere". Intanto un altro ufficiale dei carabinieri è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta del colonnello Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti numero due del gruppo Roma. Prossima udienza, il 7 novembre. Continueranno le audizioni testimoniali, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena.

Omicidio Cucchi, genesi di un depistaggio: «Magari morisse, mortacci sua». Le carte modificate per coprire le responsabilità, la necessità di evitare brutte figure all'Arma in un momento difficile e per non distruggere le carriere. E una frase shock. Ecco cosa dicono i nuovi atti in mano alla procura, scrive Giovanni Tizian il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". «Magari morisse, li mortacci sua». Così parlò il carabiniere la notte dell'arresto di Stefano Cucchi. Il militare si chiama Vincenzo Nicolardi, al processo è imputato per calunnia. E nel 2009 proferisce queste parole mentre dialoga con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre. Nei dialoghi si fa riferimento alle condizioni di salute del geometra 31enne che era stato arrestato poche ore prima e si trovava nella stazione di Tor Sapienza. Questo è solo uno dei dettagli che emerge dagli ultimi atti depositati dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. Perché in realtà nell'aula della Corte d'Assise di Roma sta accadendo qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Il muro di omertà che per nove anni ha coperto i colpevoli del pestaggio di Stefano Cucchi continua a sgretolarsi. Granello dopo granello, udienza dopo udienza, la muraglia dei silenzi si sta assottigliando. L'ultima udienza del processo bis sulla morte del geometra romano ha restituito un altro tassello di verità, per troppo tempo nascosta volontariamente in un labirinto costruito ad hoc fatto di verbali modificati e depistaggi architettati dalla scala gerarchica che comandava i carabinieri coinvolti direttamente nell'arresto di Cucchi e poi nel pestaggio. E ora della nuova indagine sui responsabili dell'occultamento delle prove che dimostrerebbero come andarono davvero le cose quella notte si sanno diverse cose. Si sa, per esempio, che sono almeno sei le persone indagate nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Cinque carabinieri e un avvocato. Tra i militari dell'Arma c'è anche il tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, un ufficio di rilievo nella gerarchia. Secondo quanto emerge dalle nuove carte sarebbe stato Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo - comandante della stazione Tor Sapienza anche lui sotto inchiesta - di effettuare modifiche all'annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi. Gli altri indagati sono il carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre di Tor Sapienza, il maresciallo Roberto Mandolini- comandante della stazione Appia e tra i cinque militari imputati in corte d'assise- e il tenente colonnello Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti Montesacro. Tra gli indagati c'è anche l'avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano. Il coinvolgimento di Cavallo in questa vicenda è legato a una mail esibita in sede di interrogatorio da Massimiliano Colombo cui Cavallo avrebbe suggerito le modifiche da apporre all'annotazione di servizio sulla salute di Stefano Cucchi. Ma dai nuovi atti depositati dal pm Musarò emerge ancora più evidente la pista delle responsabilità più alte. Seppure estranei all'indagine, i generali superiori dei militari finiti nell'inchiesta sul depistaggio ne escono male. Le intercettazioni degli indagati in questo senso sono significative. Una in particolare apre scenari inediti. Si tratta di una conversazione tra Francesco Di Sano e il suo legale, Giuseppe Di Sano. «Francesco (Di Sano ndr), ascoltami, io quello che penso ora per telefono non te lo posso dire, ma tu queste cose per ora, conservatele, anche perché ... incomprensibile ... però se tutto va come spero io, ste cose, ci serviranno dopo ... (.) ... per ricattare l'Arma, per che non vorrei che, se tutto va come penso io ... bene, cioè che tutto si chiude e l'Arma ti dice ah guarda comunque tu per noi non puoi stare qua' no?! Allora, io ho queste cose in mano, che fate? mi fate restare o vado al giornale? .. hai capito? .. (.) .. conservale gelosamente». Ricattare chi e su cosa? Per gli ordini ricevuti per modificare le annotazioni su Cucchi? Di certo, quei documenti sono da conservare gelosamente e da usare in casi estremi, come nel caso di un procedimento disciplinare a carico del carabiniere Di Sano. Del resto l'Arma in quel periodo non poteva permettersi clamori, sostengono gli indagati intercettati. Il motivo, ipotizzano gli indagati, è semplice: subito dopo la morte di Cucchi è emersa l'estorsione di alcuni carabinieri ai danni dell'ex presidente della regione Piero Marrazzo: «È successo subito dopo pure il caso Marrazzo, che c'era successo, capito in quello pure erano coinvolti i carabinieri, mi spiego?». Gli investigatori della Squadra mobile che stanno indagando sul caso Cucchi confermano la consequenzialità degli eventi. E nelle loro informative scrivono: «Difatti, il 23 ottobre 2009, ossia il giorno successivo alla morte di Stefano Cucchi, quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, sono stati arrestati dai carabinieri del R.O.S., a seguito di un'attività d'intercettazione telefonica, con l'accusa di aver ricattato, a scopo estorsivo, il presidente della Regione Lazio, perché in possesso di un filmato di Marrazzo in compagnia di un transessuale». «L'Arma che ci tiene alla sua immagine, voglio dire, perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati? E fa correggere le due annotazioni», commenta un secondo indagato. Insomma, se così fosse la verità su Cucchi sarebbe stata tenuta nascosta per evitare altre figuracce? E magari per non sporcare la carriera di ufficiali lanciatissimi. Un'ipotesi tra le altre, di certo i carabinieri semplici finiti nei guai in questo secondo filone non ci stanno a pagare per tutti. Anche perché, ribadiscono nei loro dialoghi, hanno obbedito a un ordine. A quale ordine? Di chi? E da chi è partito? Su questo punto è netto Massimiliano Colombo: «Se hanno indagato me allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa, dovranno indagare Tomasone». Cavallo è il capo ufficio del gruppo carabinieri Roma attualmente sotto inchiesta; Alessandro Casarsa è invece l'ex comandante della compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone, oggi comandante dei Corazieri al Quirinale; Vittorio Tomasone era il comandante provinciale di Roma. Tomasone e Casarsa nel 2018 sono diventati generali. Ma torniamo alla scala gerarchica. Dai nuovi atti depositati dal pm Musarò è ormai certo che l'ordine di modificare le carte è partito dai superiori. Che ruolo ha giocato la riunione del 30 ottobre 2009 al comando provinciale, una settimana dopo la morte di Cucchi? L'incontro ritorna spesso nei racconti degli indagati. Erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa. Assente, invece, Francesco Cavallo. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. Quella riunione - che a detta di uno degli indagati sembrava una riunione degli «alcolisti anonimi» - non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Perché sul vertice convocato d'urgenza il 30 ottobre, le domande del pm, sia nelle passate udienze che negli interrogatori dei nuovi indagati, sono insistenti. Chi era presente quel giorno ha risposto così: «Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda in cui era stato coinvolto Stefano Cucchi. Ricordo che uno dei Carabinieri di Appia che aveva partecipato all'arresto di Stefano Cucchi aveva un eloquio poco fluido, e un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (oggi tra gli imputati ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto il Col. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il Carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore, certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato». Il giorno prima della riunione al comando provinciale, il magistrato dell'epoca che seguiva il caso Cucchi aveva sentito nel suo ufficio alcuni dei militati coinvolti nella vicenda. Ma è dopo quattro mesi quella riunione alla presenza dei vertici romani dell'Arma che accade un altro misterioso fatto. Che verrà scoperto solo nell’ultima inchiesta aperta dalla procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”. Due le firme, una è di Di Sano. È datato febbraio 2010, 120 giorni dopo la morte di Cucchi. In questa annotazione gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifiutato di firmare il registro «riservato agli arrestati». Un fatto che è smentito dalle testimonianze nel processo in corso. Dunque anche questo documento presenta delle inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso che rischiava di travolgere l’Arma. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna. Non sono stati promossi, invece, a i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga.

Perché serve educare i poliziotti. Cambiare la cultura nelle forze dell’ordine è una sfida enorme. Ma indispensabile per la protezione di tutti, scrive Floriana Bulfon il 22 ottobre 2018 su "L'Espresso". Indagine su cittadini al di sopra di ogni sospetto, quelli con la divisa, che dovrebbero tutelare la legge e invece riescono a violarla senza correre rischi. Tra pochi giorni dalle scuole allievi usciranno quasi tremila Carabinieri pronti a raggiungere le stazioni in ogni parte del Paese. «Hanno avuto una formazione di 11 mesi e quest’anno per la prima volta, nel programma che prevede tecniche investigative, diritto, attività fisiche e tirocini, sono state introdotte 60 ore dedicate all’etica del comportamento», spiega il generale Michele Sirimarco. Punto centrale è il rapporto con le persone, in particolare con chi entra in custodia dello Stato: «Norme fondamentali come quelle del rispetto dei diritti umani, come dichiarare inagibili le camere di sicurezza che non hanno i requisiti. Tutti i giorni all’alza bandiera si legge un articolo della Costituzione, si sottolinea il rispetto dei diritti umani e si ricorda che il silenzio è illegittimo. Di fronte a un ordine che viola i principi costituzionali si è obbligati a denunciare. In questa scuola abbiamo parlato di quello che è accaduto a Stefano Cucchi, l’abbiamo fatto per stigmatizzare comportamenti che rifiutiamo e trarne insegnamento». La lezione da ricavare non riguarda solo la verità tradita sulla morte di Cucchi. Questo è solo l’ultimo episodio di una serie nera. Diciassette anni dopo le brutalità del G-8 di Genova, ci troviamo davanti alla stessa catena di violenze e omertà che pongono domande fondamentali per una democrazia. Anzitutto il rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. E quell’abitudine a costruire muri di gomma fino a negare l’evidenza, «una malattia contratta durante l’uso permanente e prolungato del potere», come diceva il commissario interpretato da Gian Maria Volontè nel film di Elio Petri “Indagine”. «Una malattia professionale, comune a molte personalità che hanno in pugno le redini della nostra società». La società, appunto: «Come cittadini rinunciamo a una parte dei nostri diritti per essere protetti dalle forze dell’ordine. Ma nel momento in cui un agente compie un atto di violenza contro un cittadino, com’è avvenuto nel caso Cucchi, che era inerme nelle mani del più forte, non è solo quel singolo agente a perdere legittimità. È lo Stato che diventa illegittimo. E se lo Stato abusa del potere, si incrina inevitabilmente la fiducia dei cittadini. Gli effetti negativi investono la democrazia», spiega Donatella Di Cesare. Lei, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma ha scritto di recente un libro sulla tortura, uno sulla violenza globale, intitolato “Terrore e modernità”, e uno sulla migrazione. «La polizia agisce in quei casi di oscurità giuridica, in cui, appellandosi alla sicurezza, interviene sulla vita del cittadino. È ambivalente, si situa in quella sfera dove è abolita la separazione tra violenza che pone il diritto e violenza che lo mantiene. In breve, il diritto sconfina nella violenza, e la violenza nel diritto. È la continuità inquietante tra il sovrano e il boia. Il mutamento recente della figura del boia da aguzzino spietato ad agente-eroe, carismatico e leale, non cambia i termini della questione. Semmai li aggrava». Non si tratta solo di un’anomalia italiana, sono coinvolte anche le altre democrazie occidentali. «Primi tra tutti gli Stati Uniti. L’uso eccessivo della forza e delle torture si concentra spesso contro le persone considerate marginali, quelle rispetto alle quali non ci si aspetta una critica dell’opinione pubblica», sottolinea Donatella Alessandra Della Porta sociologa alla Scuola Normale Superiore, autrice con Herbert Reiter di “Polizia e protesta” (Il Mulino, 2013) uno dei saggi più noti sul G-8 di Genova, dove evidenzia «il ruolo di una cultura che tende a privilegiare l’efficacia rispetto ai valori democratici, orientata alla chiusura verso l’esterno e per questo legata a un forte senso dell’impunità». Ogni potere ha bisogno di contrappesi e per contrastare il rischio di devianze serve l’innesto di valori diversi: «Formare spiegando che per svolgere bene il loro ruolo hanno bisogno di legittimazione da parte del cittadino, introdurre la trasparenza e la riduzione delle gerarchie interne, aprirsi alla società», evidenzia la professoressa Della Porta. I modelli ci sono, come quelli introdotti in Scandinavia o in Inghilterra. E anche la polizia italiana ha cercato di imparare dagli errori. Dopo la “macelleria messicana” della Diaz è nata la scuola per l’ordine pubblico: insegna ad agire usando “meno fumogeni e più etica”. «Deve essere chiaro che chi denuncia non è mai un traditore, e che chiunque compie un reato, a maggior ragione se è una persona in divisa, deve essere perseguito in maniera tempestiva», sottolinea Antonio Patitucci, segretario generale del sindacato Silp Cgil. Per lui le forze di polizia sono istituzioni sane, ma suggerisce: «Per migliorare nella difficilissima professione che svolgiamo sarebbe opportuno arricchire i corsi con una formazione sul piano psicologico». C’è però un’altra questione, che va ben oltre la mentalità del poliziotto o del carabiniere. Dopo la ferocia, dopo le botte contro i sovversivi o contro lo spacciatore, sono arrivati i depistaggi. Mattone su mattone, falso su falso, il sistema ha costruito il suo muro di protezione grazie alle coperture delle gerarchie. Una menzogna di Stato che nel caso Cucchi è durata nove anni. «Con le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco il muro si è abbattuto per la prima volta. Non era mai successo che qualcuno protagonista e sotto processo parlasse. C’è stato sempre uno spirito di corpo granitico, che non si poteva scalfire», spiega Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi. Alle istituzioni devono gestire quella che Max Weber definiva “violenza legittima”, cioè usare la forza per la sicurezza comune rispettando però le leggi. «Con un mandato così particolare è necessaria molta coesione interna, identificazione con il compito, altruismo con i colleghi. Doti che possono degenerare, se non c’è un rigoroso controllo da parte dei superiori», analizza Fabrizio Battistelli dell’Università Sapienza di Roma, che ha compiuto molte ricerche sulla sociologia dei militari. Un deficit quindi nella gerarchia. Eppure i codici interni sono chiari. Era il 1822 quando il Regolamento dei Carabinieri Reali definiva “da delinquente” infliggere percosse e maltrattamenti a un prigioniero. «L’ostentazione della prepotenza non può mai essere il volto di una democrazia» si legge oggi su “L’Etica del Carabiniere” diventato il testo di riferimento delle scuole dell’Arma. Ha contribuito a scriverlo Stefano Semplici, docente di etica sociale e filosofia morale a Tor Vergata. Lui carabiniere ausiliario nel 1982 ricorda con emozione la prima volta che ha varcato un portone di una caserma a pochi giorni dall’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «I meccanismi più efficaci per rompere l’omertà sono la certezza che i muri del silenzio sono destinati a crollare. E poi la consapevolezza che le istituzioni sono, al fianco dei cittadini per scoprire la verità e non per occultarla». Ma i cittadini cosa vogliono? Dal 2001 si ha la sensazione che la paura abbia generato una tolleranza verso gli abusi di potere delle forze dell’ordine. «Dall’11 settembre il modello dello “Stato di sicurezza” ha finito per imporsi modificando dall’interno la democrazia» constata Di Cesare. Bisognerebbe però chiedersi come si traduce poi questa sicurezza. «Molti pensano semplicemente alla propria difesa contro gli altri, non riflettono alla possibilità di essere vittime di un abuso di violenza». Secondo Battistelli «da particella oscura oggi l’insicurezza si sta trasformando in una massa che ci sovrasta»: una costruzione della minaccia che tutto giustifica in nome della logica dell’emergenza. E per la Di Cesare, si arriva così «al crimine che si annida nel cuore di tenebra di ogni potere»: la tortura, che nel nostro Paese non era riconosciuta fino a poco tempo fa nemmeno come reato. «Il contesto politico in cui viviamo oggi in Italia - nota Di Cesare - è quello di una vera e propria fobocrazia. Con questo termine intendo un dominio della paura». Il governo della paura, quello che può farci accettare la negazione dei diritti umani. Un esempio? «Il decreto Salvini, dove la migrazione viene trattata come una questione di sicurezza e spacciata per un crimine. Il Ministro dell’Interno riduce il caso Cucchi a due mele marce, evitando di commentare quella complicità gerarchica che ha permesso di occultare la verità». Colpa anche dei modelli trasmessi dai media e dalla tv: «Penso a tante celebri serie poliziesche: da una parte il poliziotto eroe e dall’altra i “nemici”, dipinti sempre a caratteri foschi, il terrorista, il criminale. Il poliziotto-eroe, il torturatore gentiluomo, non è un carnefice, ma quasi una figura salvifica, e può permettersi di infrangere ogni regola, pur di garantire sicurezza. La violenza appare allora quasi purificatrice. Come ciò possa coniugarsi con la democrazia è difficile da comprendere». Sembra di tornare alle parole di Kafka: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».

Stefano Cucchi, ma i giudici di allora non videro nulla? Scrive il 17 gennaio 2017 Daria Lucca, Giornalista, su "Il Fatto Quotidiano". Per fortuna c’è un giudice anche a Roma… e finalmente sette anni dopo viene scritta la prima parola seria sulla fine del giovane Stefano Cucchi con l’unica ipotesi accettabile degli eventi: omicidio (seppur) preterintenzionale. Merito soprattutto della determinazione e del coraggio della sorella Ilaria, non c’è dubbio. Una determinazione, quella di cercare e mostrare al mondo la verità, viceversa non attribuibile agli organi istituzionali che si sono occupati del caso. Ripercorriamo i passaggi principali. La sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di droga. I carabinieri che lo fermano, lo tengono in caserma fino alla mattina successiva. Quando Stefano compare davanti al giudice per la convalida dell’arresto, mostra già i primi segni di uno stato fisico che nel giro di pochi giorni lo porterà alla morte. Prima domanda, rivolta a chi di dovere con tutto il garbo consentito dalla gravità dei fatti: il giudice che se lo trovò davanti non notò nulla di insolito? Qualcuno obietterà che Stefano non denunciò il pestaggio. Ettecredo, dicono a Roma. Se ti hanno massacrato fino a romperti una vertebra e causarti complicanze neurovescicali e infine cardiache (poi fatali), probabilmente sei anche terrorizzato. Non ce la fai a denunciare niente e tantomeno nessuno. Seconda domanda, rivolta con meno garbo: i medici dell’Ospedale Pertini considerano abitudinario il fatto di trovarsi davanti pazienti che presentano lesioni da tortura (così le voglio chiamare) e non sentire la necessità di presentare denuncia? Terza domanda, la più necessaria in uno Stato di diritto: ma il procuratore del tempo, quando si trovò fra le mani l’esposto della famiglia Cucchi e si cominciò il primo esame dei fatti, non ritenne opportuno mettere sotto indagine coloro che, persino agli occhi dell’ultimo dei rimbambiti, erano visibilmente i primi sospettati? I carabinieri. Non so voi, ma io me la immagino la scena, i magistrati riuniti a discutere come proseguire: che cosa abbiamo qui? Un fermo per possesso di droga, detenzione in caserma per l’intera notte… mhmm. Certo, tutto è possibile, possono esserci stati interventi successivi della polizia penitenziaria, più difficile che sia stato il personale ospedaliero a menarlo (gli inquirenti parlano come mangiano quando nessuno li ascolta, ndr), ma a noi corre l’obbligo di indagare anche i primi che lo hanno avuto in custodia. E invece no. Invece il procuratore capo del tempo (quando ci sono di mezzo eventuali reati contestabili alle forze dell’ordine e oltretutto di questa gravità, le autorizzazioni le dà il capo) decise che si potevano prendere per buone le calunnie (ora così sono state definite) agli agenti penitenziari in servizio al tribunale di Roma e che loro, i primi che lo ebbero in custodia, potevano tranquillamente essere esonerati da qualsiasi responsabilità. Perché? Questo andrà chiesto, da chi di dovere, a chi prese quelle decisioni. Ma certo il capitolo non si può chiudere così, fingendo che adesso è stato tutto rimesso in piedi, nella giusta prospettiva. Un giovane uomo è morto mentre era nella custodia dello Stato. Nonostante la denuncia della famiglia, i custodi hanno continuato a mentire, accusando altri e cercando di insabbiare la verità. Due processi non sono riusciti a fare chiarezza. L’istituzione che doveva rendere giustizia alla vittima si sente esente da qualsiasi responsabilità? Aspettiamo questa risposta.

Cucchi, un altro carabiniere è indagato per falso. C'è un altro carabiniere indagato nel filone di inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi in merito ai depistaggi per coprire il pestaggio subito dal geometra 31enne, scrive Raffaello Binelli, Lunedì 22/10/2018, su "Il Giornale". Tra gli uomini dell'Arma indagati per la morte di Stefano Cucchi c'è anche un altro carabiniere. Si tratta del maggiore Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti-Montesacro. Il suo nome è emerso nella nuova inchiesta della Procura di Roma sui falsi verbali e sui depistaggi legati al pestaggio in caserma cui fu sottoposto Cucchi, poco dopo essere stato arrestato per droga. L’inchiesta chiama in causa anche il luogotenente Massimiliano Colombo (comandante della Stazione Tor Sapienza) che la scorsa settimana è stato interrogato per oltre 7 ore in Procura e il carabiniere scelto Francesco Di Sano, finiti nei guai per aver dovuto modificare il verbale sullo stato di salute di Cucchi, quando fu portato proprio a Tor Sapienza proveniente dalla caserma Casilina.

Ilaria Cucchi: "Dolore e amarezza". In un post su Facebook Ilaria Cucchi commenta le notizie sugli sviluppi delle indagini: "Falsi ordinati per far dire ai medici legali dei magistrati che mio fratello era morto di suo, che era solo caduto ed in fin dei conti non si era fatto niente. Era morto solo ed esclusivamente per colpa sua e nostra. Io e Fabio lo abbiamo detto per anni che ciò non era assolutamente vero. Lo abbiamo urlato per nove anni. Che sensazione provo ora? Soddisfazione? No. Rabbia per tutto il dolore infertoci con insulti minacce e false verità? Si. Dolore ed amarezza, come cittadina per l’Arma dei Carabinieri? Anche - aggiunge -. La vorrei affianco a noi ma ho negli occhi lo sguardo del suo comandante a lungo fisso su quelli di Fabio. Come quando ci si sfida a chi abbassa prima lo sguardo. Non è ancora finita questa storia dove una normale famiglia italiana viene stritolata da uomini delle istituzioni ma reagisce e resiste per nove anni senza mai perdere fiducia in esse".

Processo Cucchi, inchiesta per falso: indagato un altro carabiniere. Si tratta di un ufficiale, allora comandante della compagnia Talenti-Montesacro, scrive il 22 ottobre 2018 su "la Repubblica". C'è un nuovo indagato nel nuovo filone di inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi in cui si procede per falso. Si tratta di Luciano Soligo, allora comandante della compagnia Talenti Montesacro. Nell'indagine sono già indagati per falso ideologico il luogotenente Massimiliano Colombo (comandante della Stazione Tor Sapienza) e il carabiniere scelto Francesco Di Sano che nel corso del processo a carico di altri cinque carabinieri ha dichiarato di aver dovuto, dopo un ordine gerarchico, modificare il verbale sullo stato di salute di Cucchi. "Falsi ordinati per far dire ai medici legali dei magistrati che mio fratello era morto di suo, che era solo caduto ed in fin dei conti non si era fatto niente. Era morto solo ed esclusivamente per colpa sua e nostra. Io e Fabio (l'avvocato Anselmo, legale della famiglia Cucchi ndr) lo abbiamo detto per anni che ciò non era assolutamente vero. Lo abbiamo urlato per nove anni. Che sensazione provo ora? Soddisfazione? No. Rabbia per tutto il dolore infertoci con insulti minacce e false verità? Si. Dolore ed amarezza, come cittadina per l'Arma dei Carabinieri? Anche". Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi, nel giorno del nono anniversario della morte del fratello Stefano, commentando le notizie sui depistaggi dei carabinieri. Che Ilaria vorrebbe "a fianco a noi ma ho negli occhi lo sguardo del suo Comandante a lungo fisso su quelli di Fabio. Come quando ci si sfida a chi abbassa prima lo sguardo. Non è ancora finita questa storia - conclude - dove una normale famiglia Italiana viene stritolata da uomini delle istituzioni ma reagisce e resiste per nove anni senza mai perdere fiducia in esse". L'iscrizione di Soligo, un ufficiale, conferma che il lavoro della procura di Roma punta a definire la catena gerarchica interna all'Arma che tentò di insabbiare il pestaggio di Cucchi che, come raccontato dal carabiniere scelto Francesco Tedesco, sarebbe avvenuto per mano dei carabinieri Alessio D'Alessandro e Raffaele Di Bernardo imputati con lui nel processo. Davanti alla I corte d'Assise erano emerse le anomalie relative al verbale sullo stato di salute di Cucchi redatto dieci giorni dopo la sua morte dai carabinieri della stazione Tor Sapienza, struttura dove il geometra venne portato dopo la caserma Casilina, teatro del pestaggio. Di Sano, nel corso del processo, ha dichiarato di aver dovuto modificare, dopo un ordine gerarchico, il verbale. Sul punto la scorsa settimana è stato ascoltato per oltre sette ore Colombo. A tirare in ballo Soligo potrebbe essere stato proprio il luogotenente Colombo che nel corso dell'atto istruttorio, secretato dalla procura, potrebbe avere fornito elementi sulla scala gerarchica da cui è partito l'ordine. In questo ambito Soligo è il diretto superiore di Colombo. Il pm Giovanni Musarò venerdì, infine, ha ascoltato, come persona informata sui fatti anche il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, l'altro piantone di Tor Sapienza che ha raccontato a processo di anomale contenute nella sua relazione di servizio.

Ci sono novità sull’insabbiamento del caso Cucchi. Repubblica scrive di avere le prove che nella copertura di ciò che accadde dopo il pestaggio fossero coinvolti anche i vertici dei carabinieri, scrive lunedì 22 ottobre 2018 Il Post. Su Repubblica di oggi Carlo Bonini ha scritto un articolo in cui dice che «nuovi documenti e circostanze accertate e verificate indipendentemente» dal suo giornale «indicano che fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio di Stefano Cucchi», il 31enne romano trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni dopo essere stato arrestato per spaccio di droga. Repubblica ha dunque ricostruito e pubblicato i nomi di chi – secondo gli elementi da loro raccolti – diede l’ordine di falsificare le carte per far sparire ogni riferimento alle reali condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, dopo il pestaggio, venne trasferito dalla caserma di Tor Sapienza. Prima di arrivare a ciò che dice Repubblica va ricordato che, una decina di giorni fa, c’è stata un’importante svolta nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, processo iniziato nel 2017 con il rinvio a giudizio di cinque carabinieri: tre accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità (Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo) e due per falso e calunnia (Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi). Lo scorso 11 ottobre Francesco Tedesco ha ammesso di aver assistito al pestaggio di Cucchi e ha accusato Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo di esserne i responsabili. Ha inoltre parlato del ruolo avuto dagli altri due imputati nel coprire quello che era accaduto. Il 12 ottobre si è saputo che c’erano altri due carabinieri indagati per aver falsificato i documenti relativi alla morte di Stefano Cucchi: Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, una delle caserme dove Cucchi venne detenuto dopo l’arresto, e Francesco Di Sano, un altro dei militari in servizio nella stazione. Repubblica sostiene ora che la manipolazione dei verbali, delle annotazioni di servizio e dei registri interni, avvenne tra il 23 e il 27 ottobre «con ordini trasmessi per via gerarchica» e che venne definitivamente decisa «in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone». Con lui, scrive Bonini, c’erano almeno altri tre ufficiali: «L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina)». C’erano infine «i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza)». Colombo Labriola sarebbe, secondo Repubblica, la persona che ha conservato per nove anni la corrispondenza e i documenti che possono ora spiegare chi coprì la verità e chi diede l’ordine di coprirla. Tale documentazione sarebbe stata consegnata da Labriola stesso all’inizio della scorsa settimana agli agenti della squadra mobile di Roma che stavano perquisendo il suo ufficio di Tor Sapienza. Scrive Repubblica: «Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l’ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell’arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi-bis ha detto la verità. “È vero, modificai la relazione di servizio — aveva spiegato — Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza”». Il falso prodotto su ordine di Colombo e di un suo superiore prevedeva che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venisse rimpicciolito «per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si notasse la manomissione testuale, l’iniziale ricostruzione»: per inserire cioè le presunte motivazioni per cui Cucchi non riusciva a nemmeno a camminare. Venne scritto che Cucchi aveva riferito «di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». L’altra annotazione manomessa sarebbe quella del carabiniere Colicchio «per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica», dice Repubblica. Lo scorso aprile, in aula, Colicchio disse che il testo in cui era possibile leggere che Cucchi «dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia» era suo; ma che non era sua un’annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si diceva che Cucchi dichiarava «di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio». Il 30 ottobre, scrive infine Bonini, negli uffici del Comando provinciale di Roma si svolse una riunione, convocata dal generale Tomasone a cui parteciparono «il comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano». Di quella riunione non venne redatto alcun verbale: «Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. E c’è un motivo». Secondo Bonini la riunione doveva infatti verificare che le carte falsificate fossero a posto, così come i registri di protocollo e le annotazioni di servizio che erano state modificate e che «prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo».

L'amarezza di Ilaria Cucchi: "Sapevo che c'era un ordine dall'alto, le parole di Salvini sono un primo passo". Le parole della sorella di Stefano dopo l'articolo di Repubblica che svela nomi di chi falsificò gli atti relativi alla morte del ragazzo, scrive Maria Elena Vincenzi il 22 ottobre 2018 su "La Repubblica". "Oggi sono esattamente nove anni che è morto mio fratello. E proprio oggi ho scoperto che i superiori dei diretti interessati, degli uomini che lo hanno menato, sapevano tutto. E che, addirittura, hanno tramato per falsificare le prove, disinteressandosi di una famiglia che aveva perso il figlio. Questo è forse addirittura peggio del pestaggio. Provo molta rabbia, sono sconfortata".

Ilaria Cucchi commenta così la notizia pubblicata oggi da Repubblica di una riunione durante la quale i vertici capitolini dell'Arma si accordarono per falsificare gli atti relativi alla morte di Cucchi. Però finalmente sembra emergere la verità che è quella per la quale lei e la sua famiglia avete combattuto da quell'ormai lontano 22 ottobre 2009.

"Sì, da una parte sì. Ma quello che prevale è una grande amarezza per tutto. Sono soddisfatta, se così si può dire, perché finalmente pare si stia arrivando alla verità. Ma ciò che prevale è un senso di tristezza perché ci sono voluti nove anni. Che sono tanti non solo in termini di tempo, ma anche di sofferenza e di delusione. Perché tutto questo è stato possibile perché noi abbiamo deciso di non voltarci dall'altra parte, di metterci in prima linea per avere giustizia. E non dovrebbe essere così".

Lei che in questi anni ha seguito ogni singola udienza dei processi per la morte di suo fratello, avrebbe mai immaginato che ci fosse un ordine partito dall'alto?

"Ho sempre avuto questa sensazione. Sì, lo sapevo dentro di me".

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini le ha espresso solidarietà e, ancora una volta, ha invitato lei e i suoi genitori al Viminale.

"E' un segnale importante. Io ho avuto molta paura in questi ultimi tempi, anche per la mia sicurezza. Sta passando il segnale che intraprendere una battaglia di civiltà sia sbagliato. Io, i miei genitori e il nostro avvocato, oltre ad essere stati vittime dello Stato, ora veniamo anche insultati e persino minacciati. Vuole dire che c'è qualcosa che non va, è un problema culturale. Per questo ho apprezzato le parole di Salvini e l'invito ad abbassare i toni".

Ci andrà?

"Vedremo. Intanto è un primo passo".

CUCCHI, L'EX MOGLIE DEL CARABINIERE D’ALESSANDRO A LE IENE: «MI DISSE: "QUANTE GLIENE ABBIAMO DATO A QUEL DROGATO DI MERDA"», scrive il 22 ottobre 2018 Simone Pierini su Leggo. Su Italia Uno a Le Iene Pablo Trincia ha intervistato Anna Carino, l’ex moglie di un altro imputato per il pestaggio di Stefano Cucchi, il carabiniere Raffaele D’Alessandro. La donna rivela le frasi shock pronunciate dall'uomo dopo aver visto il servizio al telegiornale nel 2009. «"Eh, c'ero anch'io quella sera là, quante gliene abbiamo date, era solo un drogato di merda". Questa frase l'ha sempre detta».  

Secondo il racconto dell'ex moglie, Raffaele D'Alessandro ne aveva anche per la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, questi giorni vittima anche di minacce su Facebook. «Insultava anche la sorella "sta puttana". Si arrabbiava, gli dava fastidio che la sorella cercava di capire...». 

Poi il giorno che vide la foto di Stefano Cucchi. «Sì, l'ho vista. Mi ha fatto un bruttissimo effetto. Non volevo credere che realmente lui, mio marito, l'aveva ridotto in quel modo». In apertura di servizio Pablo Trincia riporta anche il pensiero del carabiniere: «Se mi congedano vado a fare le rapine».

«Si sentiva Rambo - prosegue l'ex moglie di D'Alessandro - io ero spaventata. Non sapevo cosa pensare e cosa dire. Lo raccontava così divertito, col sorriso. Come non avesse fatto nulla di male. Ma era preoccupato, dopo una lettera ha chiamato qualcuno e parlava di Stefano Cucchi. Fin quando sono stata con lui non mi è mai passato per la testa di parlare. Avevo paura di rimanere da sola con due bambini. Non mi ha fatto mai lavorare. Ogni volta che uscivo al supermercato mi chiedeva con chi hai parlato, chi ti ha salutato...».

«Si dava testate sul muro, ha cercato di spararsi - racconta - quando l'ho lasciato dalle 7 del mattino alle 8 di sera mi tempestava di telefonate. Mi minacciava, mi diceva "ti ammazzo"». Nel servizio viene trasmessa anche un'intercettazione telefonica tra i due con la ragazza che parlava dei racconti di quella notte e D'Alessandro che negava con forza, urlando: «tu sei una puttana, che vuoi da me? Ma che vuoi da me?». «Io vedevo la sofferenza della famiglia di questo ragazzo (Cucchi, ndr.) - conclude l'ex moglie - ho tenuto dentro questo segreto per tanto tempo. Aveva paura di essere accusata. Poi ho deciso di parlare, ho cercato Ilaria e le ho chiesto scusa. Mi ha detto “grazie, ti capisco”. Vorrei che quella famiglia trovasse un po’ di pace e che la verità venga fuori».

Stefano Cucchi, quanto è giusto che lo Stato si autoassolva? Per il comandante generale dell’Arma la responsabilità ricade su singoli individui. Che però facevano parte di una caserma e la confessione arriva dopo 9 anni per bocca di un carabiniere che temeva chi lo circondava, scrive Giuditta Mosca il 15 ottobre 2018 su Wired. Il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni Nistri ha rilasciato dichiarazioni che non possono passare inosservate sul caso di Stefano Cucchi. Ai microfoni di Radio Capital ha garantito che per fare giustizia “non guarderemo in faccia a nessuno”, ribadendo tuttavia che la “violenza di Stato è una sintesi giornalistica, non si tratta di una violenza dello Stato ma di alcuni appartenenti dello Stato”. Un’affermazione claudicante sentita oggi. Nistri ha esordito dicendo che: “Quei carabinieri sono stati sospesi e nel momento in cui saranno accertate le responsabilità, l’Arma prenderà le decisioni che le competono”, e ancora: “Lo Sato non può essere chiamato come responsabile della irresponsabilità di qualcuno”. Ma quest’ultima è un’affermazione che non convince del tutto, perché i fatti erano chiari ancora prima che Francesco Tedesco accusasse i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Non si conoscevano i nomi dei presunti responsabili ma che la notte passata in caserma tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 fosse stata decisiva per Stefano Cucchi e avesse segnato il suo destino è stato evidente a quasi tutti. Diciamo “quasi” perché gli approfondimenti che i tribunali hanno affidato ai periti hanno restituito cause del decesso varie: ipoglicemia, caduta accidentale, malnutrizione, assenza di cure e epilessia. Sono organi dello Stato i tribunali, i periti da questi nominati, i carabinieri stessi che per 9 anni hanno taciuto. È uomo di Stato il maresciallo Roberto Mandolini che ha querelato la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. Mandolini dovrà rispondere del reato di falso, perché si teme abbia compilato in modo arbitrario e inesatto il verbale di arresto di Cucchi. Non è possibile manipolare le procedure in un ambiente in cui ci sono verifiche puntuali. È uomo di Stato il carabiniere Riccardo Casamassima che ha denunciato ed è stato lasciato solo. Dov’era lo Stato durante tutti questi anni? Cos’ha fatto per stabilire la verità? Se Ilaria Cucchi si fosse arresa prima, cosa avrebbe fatto lo Stato per isolare quelli che Nistri ha definito “irresponsabili”? Nulla, probabilmente, avrebbe continuato a chiamarsi fuori da una vicenda in cui è stato tirato dentro a forza dalla confessione – tardiva – di un militare. C’è di più. Francesco Tedesco, parlando lo scorso luglio davanti al pubblico ministero, ha detto di non avere avuto il coraggio di farlo prima per via dell’ambiente che vige nella caserma in cui presta servizio. Lui è uomo che fa sorveglianze davanti alle ambasciate, mentre Mandolini è uomo d’azione, uno che compie gli arresti. Se avesse parlato sarebbe andato incontro all’esclusione, all’isolamento. Una caserma dei carabinieri non è forse un avamposto dello Stato? Che vada rifondata un’attitudine, che vadano applicate procedure e verifiche è un problema dello Stato, non di singoli elementi. Ulteriori indicazioni ce le fornisce Ilaria Cucchi, alcune esplicite altre involontarie. Si è rivolta a Fabio Anselmo, avvocato assunto dalla famiglia di Federico Aldrovandi e questo, prima di ogni altra cosa, le ha suggerito di fare fotografie al corpo del fratello defunto. Cosa alla quale Ilaria non aveva pensato, fiduciosa del fatto che avrebbero provveduto i medici incaricati dell’autopsia. E, invece, quelle fotografie fatte dietro consiglio dell’avvocato Anselmo, hanno permesso alla famiglia Cucchi di lottare senza sosta e di arrivare a oggi con la speranza di potere ottenere giustizia. “Non accuso l’arma, ha detto Ilaria Cucchi, è infangata da chi sbaglia”. Ma se chi sbaglia rimane al suo posto, protetto dall’Arma, allora lo Stato c’entra, eccome. Il riferimento a Federico Aldrovandi non è casuale. Vittima di altri “irresponsabili”, 4 poliziotti, condannati in terzo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Giuseppe Uva, pure citato da Ilaria Cucchi, è un altro esempio reso possibile da uno Stato quando si autoassolve. E con lui Aldo Bianzino, morto il 14 ottobre del 2007 dietro le sbarre, meno di 48 ore dopo il suo arresto. E con loro Serena Mollicone, la ragazza del “delitto di Arce”, morta nel 2001 e al cui proposito ancora non si hanno certezze. Dov’era lo Stato? Si era già chiamato fuori?

Cucchi, l’Anm contro le «insinuazioni» degli imputati sul processo bis. Giustizia. La procura di Roma interroga un altro carabiniere della caserma di Tor Sapienza, scrive Eleonora Martini il 20.10.2018 su Il Manifesto. La crepa, apertasi nel muro di omertà che in questi nove anni ha sequestrato la verità sulla morte di Stefano Cucchi, sta permettendo al pm Giovanni Musarò di progredire nell’inchiesta integrativa al processo bis che vede imputati cinque carabinieri. E proprio per questo non si fermano le violenze verbali, le minacce e le pressioni su Ilaria Cucchi (come gli insulti postati su Fb dal coordinatore cittadino della Lega di Pontecagnano Faiano, Salerno) e sui tre militari che con la loro testimonianza hanno permesso la riapertura delle indagini. Ieri è stato ascoltato in procura il carabiniere Gianluca Colicchio, che ebbe in custodia il giovane geometra nella caserma di Tor Sapienza insieme al collega Francesco Di Sano, il militare che il 17 aprile scorso davanti ai giudici ha ammesso di aver dovuto ritoccare il verbale per ordini «gerarchici», nascondendo le reali condizioni di Cucchi. La denuncia in procura del vicebrigadiere Francesco Tedesco contro i suoi due colleghi co-imputati accusati del pestaggio, Di Bernardo e D’Alessandro, è successiva. Eppure contro di lui si sono scatenati in tanti. L’avvocato Bruno Naso, difensore del maresciallo Mandolini, allora comandante della caserma Appia alla quale appartenevano i carabinieri che arrestarono Cucchi e imputato per calunnia e falso nel processo bis, ha accusato il difensore di Tedesco di aver stretto «inconfessabili accordi» con il pm. Ieri è arrivata la reprimenda dell’Anm: «Gravi insinuazioni che mirano ad offuscare la indiscussa professionalità e la specchiata correttezza di esponenti dell’ufficio di Procura, impegnati unicamente a far accertare la verità dei fatti». «Giù le mani dal mio processo», è stata costretta a ribadire Ilaria Cucchi ieri su Radio Capital riferendosi ancora all’incontro avuto con il generale Nistri: «Ho visto militari in divisa venire a testimoniare e balbettare, tremare. Chiedo: i carabinieri chiamati a testimoniare con quale spirito vengono, si mettono seduti e raccontano quello che sanno, visto come sono stati trattati i colleghi che hanno parlato?».

Caso Cucchi, lite tra i legali L’Arma: via chi di noi sbaglia. L’avvocato del militare “pentito” accusato da un collega: «Fai caccordi col pm», scrive Errico Novi il 17 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Lite tra avvocati. Capita. Nei migliori processi, verrebbe da dire. Era forse inevitabile che avvenisse in un caso controverso, sul piano processuale, come quello della morte di Stefano Cucchi. Così ieri finiscono per trovarsi duramente contrapposti i difensori: da una parte Francesco Petrelli ed Eugenio Pini, che assistono Francesco Tedesco, il carabiniere che ha accusato due suoi colleghi di aver selvaggiamente picchiato il geometra morto nel 2009. Dall’altra Giosuè Bruno Naso, che difende invece il maresciallo Roberto Mandolini: secondo la ricostruzione del militare “pentito”, non partecipò al pestaggio ma intervenne pesantemente per depistare le indagini. È Naso a scrivere una lettera in cui avanza il sospetto di «inconfessabili accordi» fra il pm e i colleghi, in particolare Petrelli, che difendono Tedesco. Petrelli ribatte: «Sono accuse assurde, gravissime e infondate». Ma non è il solo fatto notevole della giornata. Se ne contano almeno altri due. Intanto, le minacce che uno dei colleghi attaccati da Naso, l’avvocato Pini, ha denunciato ai pm di Roma di aver subito da una voce anonima al telefono, che gli ha detto di ricordare «il giudice Livatino», ucciso dalla mafia. Altrettanto gravi, ma ovviamente su tutt’altro piano, le parole pronunciate dal comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri. In audizione davanti alle commissioni Difesa di Camera e Senato ha escluso un “mobbing” nei confronti di un altro carabiniere che ha svelato le presunte responsabilità dei colleghi, Roberto Casamassima. Poi, in un’intervista esclusiva concessa a Bruno Vespa per “Porta a porta”, ha detto, rivolto a tutti i militari coinvolti nel caso Cucchi, «chi sa parli». Ha quindi assicurato che «andrà fino in fondo» e ha ricordato che «un carabiniere deve rispettare il proprio giuramento, perciò chi esce da questa regola e viene ritenuto responsabile di gravi fatti non è degno di indossare la divisa». È chiaro che attorno al processo sulla morte di Cucchi si sia innescata una tensione ormai fuori controllo. A tutti i livelli. Lo si coglie anche in un aspetto non trascurabile della cosiddetta lite tra gli avvocati. La lettera in cui Naso si rivolge, col tu ma con toni pesanti, al collega Petrelli (che è segretario nazionale dell’Unione Camere penali) «non era affatto destinata a una pubblicità indiscriminata», come spiega lui stesso al Dubbio. «Era rivolta ai soli colleghi della Camera penale di Roma. Poi qualcuno, evidentemente perché in disaccordo con il sottoscritto, ha pensato bene di darla ai giornali». Rivolto direttamente a Petrelli, Naso scrive che la «ragione» per cui «tu Francesco, accompagni il tuo assistito nell’ufficio del pm affinché questi conduca un’indagine parallela e riservata» appare «ai miei occhi inconfessabile ma assolutamente chiara: è la promessa derubricazione della imputazione elevata nei confronti del tuo cliente in quella di favoreggiamento, reato allo stato già prescritto, anche a costo di aggravare la posizione di tutti gli altri imputati». Fino a una considerazione amicale ma altrettanto risentita: «Sono quattro mesi che va avanti questa storia e non hai avvertito il bisogno, la necessità, la opportunità di informare i colleghi, tutti i colleghi e me in particolare!». In una nota, Petrelli risponde: «È semplicemente impensabile che un avvocato, per colleganza o, peggio ancora, per amicizia, possa violare il segreto istruttorio ed il riserbo assoluto di una indagine. Ed è altrettanto inaccettabile che si voglia sovrapporre indebitamente la figura del difensore a quella dell’assistito e si confondano i rapporti personali e professionali fra colleghi con le scelte processuali degli imputati. Il carabiniere Tedesco», ricorda Petrelli, «ha fatto una scelta difficile e coraggiosa e non vi è nulla di ‘ inconfessabile’ nei motivi che lo hanno indotto a denunciare i fatti e le responsabilità altrui, né nei modi in cui tale contributo di verità è stato fornito all’autorità giudiziaria».

Cucchi, Salvini ai carabinieri: «L’errore di uno non infanghi il lavoro di tutti». Il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, alla cerimonia per i 40 anni del Gis: «La gravità dell’accaduto non si discute, ma non rispecchia la normalità del nostro modo di precedere». Trenta: «Chi nega i valori va isolato», scrive il 26 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". «L’Arma si deve ricordare che è nella virtù dei 110mila uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni; 110mila uomini che sono molti ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù». Così il comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri ha concluso il suo discorso nel corso della cerimonia per i 40 anni del Gis, il gruppo di Intervento Speciale, l’unità per il controterrorismo italiana. Il generale aveva difeso l’Arma all’indomani della confessione che aveva scosso la «Benemerita», da parte di uno dei militari che aveva partecipato al pestaggio di Stefano Cucchi dopo l’arresto. «La gravità di ciò che è accaduto non si discute - aveva detto Nistri - ma è un episodio che non rispecchia la normalità del modo di procedere dell’Arma». Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, presente alla cerimonia, ha fatto scattare l’applauso dagli spettatori in tribuna, dichiarando: «Da ministro non ammetterò mai che un eventuale errore di uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa». Mentre il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha concluso il suo discorso affermando che «L’Arma è sempre stata vicina al cittadino» e i Carabinieri sono un «punto di riferimento, esempio di rettitudine, integrità e senso del dovere»: ma nel caso in cui «si accerti l’avvenuta negazione di questi valori si deve agire e accertare la verità isolando i responsabili allo scopo di ristabilire la fiducia dei cittadini nell’Arma».

I ricatti dentro L’Arma “Quelle carte su Cucchi sono il mio salvavita”. La congiura del silenzio mostrò fin da subito le prime crepe. Perché molti nascosero le copie di documenti compromettenti, scrive Carlo Bonini il 25 ottobre 2018 su "la Repubblica". La congiura del silenzio sull’omicidio di Stefano Cucchi non solo ha fatto deragliare per nove anni la ricerca della verità ma ha impiccato i vertici dell’Arma al nodo scorsoio del ricatto. Come documentano gli atti depositati dal pm Giovanni Musarò, falsi, omissioni, menzogne hanno imbalsamato in un patto non scritto di omertà l’intera catena gerarchica. E in nome del simul stabunt simul cadent, appuntati hanno dunque potuto ricattare marescialli, mare...

L’arma dell’Arma su Cucchi: trasferire e delegittimare. Depistaggio - Nelle carte della nuova inchiesta sulla morte di Stefano le pressioni della catena di comando per nascondere la verità, scrivono Antonio Massari e Valeria Pacelli il 26 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Adesso c’è da aspettare che mi trasferiscano, in modo tale che poi delegittimano le mie dichiarazioni verso l’altro con il risentimento del trasferimento (…) Dice: ‘Quello è stato trasferito e adesso ce l’ha con la scala gerarchica’”. Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza a Roma (dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre […]

Valentina Errante per “il Messaggero” il 25 ottobre 2018. Nuove intercettazioni, sul caso Cucchi: il pm Giovanni Musarò le ha disposte un mese fa, mentre il film Sulla mia pelle raccontava la storia di Stefano e nelle udienze del processo, che vede alla sbarra cinque carabinieri, cominciava a sgretolarsi il muro di omertà. E in quelle conversazioni i militari ora accusati di falso parlano con amici e parenti, raccontano delle pressioni subite «Cosa avresti fatto se te lo ordinavano i tuoi superiori?», dice il maresciallo Francesco Di Sano al cugino avvocato. Così in ballo c' è la catena gerarchica dell'epoca: dovrebbero essere indagati. Gli atti depositati ieri in udienza da Musarò hanno rivelato un altro pezzo di questa storia, sul registro degli indagati è finito anche il nome di Francesco Cavallo, nel 2009 numero due del Gruppo Roma. Massimiliano Colombo, il comandante della stazione Tor Sapienza, da indagato per falso, ha parlato per sette ore davanti al pm, consegnandogli l'email che aveva custodito per tutto questo tempo: quella del 27 ottobre 2009 da Cavallo, nella quale venivano modificate le annotazioni redatte da Giancluca Colicchio e Francesco Di Sano, i piantoni che la notte tra il 15 e il 16 ottobre erano alla stazione mentre Cucchi stava in cella di sicurezza. «Meglio così», scriveva il colonnello, modificando gli atti. Il primo, dopo uno scontro con il colonnello Luciano Soligo, anche lui indagato, e con Cavallo, si era rifiutato di mandare ai pm la relazione modificata. Ma, soprattutto, Colombo racconta della riunione, «quasi una seduta degli alcolisti anonimi». E di come avesse dovuto redigere una relazione sulla testimonianza di Colicchio davanti al pm che allora indagava sulla morte di Cucchi, Vincenzo Barba. Sebbene il verbale dovesse rimanere segreto. Prima di riferire di quella riunione sul caso Cucchi, Colombo ne aveva parlato al telefono con un amico: «Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, cioè tutti coloro dall' arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Ci hanno convocato perché all' epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla». Circostanza ripetuta al pm: «Erano presenti: il comandante provinciale, colonnello Vittorio Tomasone, il comandante Gruppo Roma, colonnello Alessandro Casarsa, il Comandante della Compagnia di Montesacro, maggiore Luciano Soligo, il Comandante della compagnia Casilina, maggiore Unali, il maresciallo Mandolini (Roberto imputato per falso e calunnia ndr) e altri tre o quattro carabinieri del comando stazione Appia. Da una parte - racconta Tedesco - c' erano Tomasone e Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall' altra parte (posizione frontale). Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all' arresto, non era molto chiaro - ricorda Colombo - un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (Roberto, imputato per calunnia ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Tomasone zittì Mandolini, dicendogli che i carabinieri dovevano esprimersi con parole proprie perché, se non erano in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbero spiegati con un magistrato». Colombo racconta della relazione di servizio che aveva stilato sul contenuto del verbale reso da Colicchio davanti al pm Barba: «Prendo atto che, come mi evidenziate - dice - in fase di indagini preliminari non è consentito chiedere ad una persona escussa di rivelare il contenuto delle dichiarazioni rese al pm. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori». «Magari morisse, li mortacci sua». Così Vincenzo Nicolardi (il carabiniere imputato per calunnia nel processo davanti alla prima corte d' Assise per calunnia e falso), parlando di Stefano Cucchi con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale in una delle conversazioni registrate avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, il militare fa riferimento alle condizioni di salute del geometra che era stato arrestato da alcune ore e si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza.

Come ai tempi dei servizi segreti deviati: i depistaggi su Cucchi fanno venire i brividi. Le indagini hanno dimostrato che una catena gerarchica ha contribuito per anni a nascondere la verità sulla morte di Stefano. E questo è un problema serio in uno Stato democratico, scrive Gianni Cipriani il 25 ottobre 2018 su Globalist. Recitiamo la formula di rito che si usa sempre quando si tratta di apparati dello Stato: parliamo di una minoranza mentre la stragrande maggioranza dei carabinieri (polizia, finanza, penitenziaria, militari e via seguendo) fa il proprio dovere. Giusto dirlo ma sarebbe ancora più giusto dirlo sempre, magari includendo i napoletani (la stragrande maggioranza non truffa il prossimo) i meridionali (la stragrande maggioranza ha voglia di lavorare) e gli stranieri (la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità di quelli che vivono in Italia non sono terroristi). Però, come è noto dai tempi di Chicchennina, che in romanesco significa da molto tempo, c’è sempre la pessima abitudine di fare le distinzioni per gli amici e di fare di tutta l’erba un fascio per i nemici. Ora che la terribile verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la brutalità, forse qualche ragionamento più stringente va fatto. Perché non si tratta del carabiniere stressato e manesco che si è lasciato andare contro il "tossico di merda" (cit.) e poi ha cercato maldestramente di camuffare gli eventi. No. Sta emergendo una filiera gerarchica che partendo dall’ultima ruota del carro e risalendo man mano a chi del carro forse aveva le redini ha pianificato un castello di menzogne che per molti anni ha negato verità e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi, anche al prezzo di far finire sotto processo altri uomini dello Stato (gli agenti della Penitenziaria) che sono stati ingiustamente accusati anche a causa di quei depistaggi. La sequenza è impressionante. Il carabiniere che aggiusta e mente su ordine del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore del superiore in una sequenza da Fiera dell’Est. Sarà l’inchiesta a stabilire chi siano penalmente i militari da portare a processo e saranno i giudici a valutare chi condannare o assolvere. Ma da un punto di vista politico - da cittadino e dalla parte del ‘popolo’ come va di moda dire - emerge chiaramente che una riflessione seria andrebbe fatta anche sull’Arma dei carabinieri e dentro la stessa Arma dei carabinieri. Perché quando non si muove il singolo, ma c’’è un’intera catena gerarchica a mettersi in modo per nascondere, depistare o - nella più favorevole delle letture - a minimizzare ritoccando, modificando e togliendo dalle relazioni di servizio, allora c’è qualcosa che non va. Non si può parlare di singola mela marcia, ma da un punto di vista politico (sempre se si vuole andare fino in fondo) c’è da capire quanti e quali servitori dello Stato abbiano preferito venire meno al loro dovere pur di coprire un misfatto e a costo di negare per anni la verità sulla brutale morte di un giovane ragazzo. Eppure - chi è più anziano lo sa - questo paese ha nella propria storia recente quella dei depistaggi dei servizi segreti sulle stragi e il terrorismo. All’epoca fu coniato il termine di ‘servizi segreti deviati’ che serviva a tanti per pulirsi la coscienza. Ossia c’era un apparato sano all’interno del quale c’erano alcuni poco di buono che - chissà perché - si divertivano a proteggere gli eversori. In realtà non esistevano i servizi segreti ‘deviati’, c’era semmai per ragioni storico-politiche ben note (la Guerra Fredda) un sistematico uso deviato dei servizi segreti e i depistatori che sono stati condannati erano solo un ingranaggio del sistema che in quanto tale non è mai stato messo in discussione e che è morto solo con la fine della guerra fredda. Ora i tempi sono totalmente diversi. La vicenda Cucchi non è la strategia della tensione, ma si tratta di qualcosa di gravissimo che getta un’ombra sullo Stato: la morte di questo ragazzo è avvenuta all’interno di un contesto poco lineare e che una democrazia ha il dovere di chiarire fino in fondo ed eliminare ogni zona d’ombra. Proprio chi ha grande considerazione dell’Arma dei carabinieri di Salvo D’Acquisto e Carlo Alberto Dalla Chiesa, di coloro che hanno combattuto le mafie e il terrorismo anche al prezzo della vita deve pretendere il massimo della trasparenza e della pulizia. Sono una minoranza? Sì. Una stragrande minoranza? Certo. Personalmente ho negli anni conosciuto decine e decine di carabinieri, poliziotti e servitori dello Stato del quale sono orgoglioso di essere stato o essere amico che in silenzio e senza diventare eroi mediatici hanno salvato vite, hanno difeso questo paese dai criminali, dal terrorismo e, in tempi più recenti, hanno impedito che nel nostro Paese ci fossero attentati come a Parigi, Londra o Bruxelles anche rischiando (sul serio) la vita. Ma non si parli di singoli o di isolate mele marce. La vicenda Cucchi fa vedere che c’è qualcosa di più. Girarsi dall’altra parte sarebbe ipocrita e vigliacco.

Cucchi è un’eccezione, scrive Luca Sofri venerdì su "Il Post. In mezzo alle tante cose sventate dette e sostenute intorno alla morte di Stefano Cucchi e alle indagini sulle circostanze di quella morte, ce n’è una su cui vale la pena dire due cose, perché ricorre in occasioni diverse ed è apparentemente convincente quanto ingannevole: ed è che i fatti dimostrino che “il sistema funziona” perché alla fine la verità emerge, le responsabilità vengono individuate, le “mele marce” si rivelano tali e soprusi, violazioni e reati finiscono per essere svelati. Insomma, il sistema di perseguimento dei reati, investigazione e amministrazione della giustizia funziona e prevale. È un argomento, dicevo, che ricorre spesso in contesti diversi: quello più frequente è quello dei veri “errori giudiziari” (che spesso non sono esattamente “errori”) quando vengono scoperti, corretti, annullati. In quei casi, qualcuno dentro o fuori dalla magistratura annuncia che quello a cui si è assistito non è un fallimento del sistema, ma la dimostrazione del suo funzionamento con la capacità di individuare ed emendare i propri errori. Naturalmente, è facile far notare che l’annullamento di quegli “errori” non annulla le loro conseguenze sulle vite di chi ne è stato vittima. Ma il punto non è tanto questo: punto a cui si risponde di solito che una quota di errore è inevitabile (soprassiedo su questa risposta). Il punto è che quello che ci viene rivelato in questi casi non è un errore individuato, una colpa smascherata, un sopruso svelato: quello che ci viene rivelato è l’esistenza certa di altri dieci, cento, mille, casi del genere che non sono stati individuati, smascherati, svelati. Cucchi è un’eccezione, ma in questo senso: è la storia che oggi conosciamo, a differenza delle altre. Quello che ci viene rivelato è un atteggiamento (violenza, prepotenza, incoscienza nei confronti delle vite altrui, cialtroneria, omertà) che chiaramente non si può essere manifestato solo quella volta lì, e pensa un po’ l’abbiamo puntualmente scoperta. Chi picchia gli arrestati, chi mostra disprezzo per le persone, chi nasconde la verità, chi fa prevalere altro sulla ricerca della verità, chi fa di tutto per mantenere il proprio partito preso a costo di tragedie, nelle caserme, nei tribunali, nelle carceri, nei luoghi chiusi della gestione di sicurezza e giustizia, non lo fa una sola volta, tutto da solo, contorcendosi dal tormento e giurandosi “non lo farò mai più” in un’autocritica dolorosa, prima di correre a mettere rimedio a quello che ha fatto. Ma quando mai. È quello che sono queste persone, queste culture, questi apparati, questi luoghi, a doverci preoccupare quando si svelano queste storie: non solo le singole storie. Il sistema funziona? Meglio che nel Cile degli anni Settanta, sì: dice il caso Cucchi.

Chi tutela l’onore delle divise. Combattere gli abusi conviene anche alle forze dell’ordine, scrive Luigi Manconi il 13 ottobre 2016 su "L'Espresso". Negli ultimi anni, chi ha meglio tutelato l’onore delle forze di polizia? Coloro che hanno negato pervicacemente abusi documentati e illegalità inequivocabili, oppure chi ha denunciato i singoli reati commessi da singoli pubblici ufficiali? Non c’è dubbio che Patrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Domenica Ferrulli e altre ancora abbiano salvaguardato il prestigio delle forze di polizia, assai più di quanto goffamente tentato dai negazionisti (ministri dell’Interno e della Difesa, sindacati corporativi e giovanardi vari). Sono state, infatti, quelle donne intrepide e intelligenti a mostrare le violenze subite dai propri familiari (e parte della magistratura ha dato loro ragione), mettendo sotto accusa non “la polizia”, bensì quegli appartenenti a essa che si sono resi responsabili di gravi crimini. Perché questo è il punto. Un’ampia, seppur non generalizzata, omertà (culturale, cameratesca, emotiva) all’interno delle polizie e una diffusa sudditanza psicologica da parte della classe politica nei loro confronti, hanno reso l’apparato del controllo e della repressione assai simile a un blocco compatto e intangibile e, dunque, irriformabile. Nonostante lo spirito sinceramente democratico di tantissimi pubblici ufficiali, di tanta parte del sindacalismo e della buona volontà dei più recenti capi della polizia, da Manganelli a Pansa a Gabrielli. L'ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. L'intervista alla sorella di Stefano. Che racconta: «I carabinieri quella sera prima di andare via con mio fratello in manette dissero a nostra madre: 'Signora non si preoccupi, per così poco domani suo figlio sarà a casa. Invece non lo vide mai più. Sei giorni dopo era sul tavolo dell'obitorio per l'autopsia». Come rompere questa gabbia di stolidità e impotenza che nuoce tanto alle vittime degli abusi quanto alla credibilità dei corpi di polizia e della stessa funzione cui assolvono? In primo luogo occorre approvare, e rapidamente, leggi efficaci e capaci - in base al fondamentale principio che la responsabilità penale è personale - di sanzionare gli autori di trattamenti inumani e degradanti, di sevizie e torture, proprio perché manifestazione efferata di abuso di potere da parte di chi, quel potere, esercita in nome della legge e per conto dello Stato. E perché mai un codice identificativo - riconoscibile solo dalla magistratura - per gli operatori di polizia in servizio d’ordine pubblico dovrebbe rappresentare un intollerabile accanimento? L’accertamento rigoroso in un’aula di giustizia delle eventuali responsabilità individuali per illegalità commesse all’interno di una caserma o in una cella o nel corso di un arresto o in un centro di identificazione ed espulsione renderebbe chiara la distanza tra gli autori di quei delitti e le istituzioni, ivi comprese quelle disonorate dalle azioni dei loro servitori infedeli. Non siamo tentati nemmeno per un secondo da sentimenti di vendetta sociale, e tantomeno - attenzione - siamo inclini a considerare tortura qualsiasi abuso commesso da pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi: riconoscere la diversa rilevanza dei fatti è essenziale per non banalizzare la gravità di quelli che, stando alle convenzioni internazionali, configurano il reato di tortura. Ma, se possiamo calare la sofisticata discussione sul destino della nostra Costituzione nell’asprezza della vita quotidiana, quale credibilità potranno mai avere istituzioni incapaci di dare seguito all’unico obbligo di punire prescritto dalla carta fondamentale (articolo 13, comma 4)? Ovvero quello contro “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”?

Ilaria Cucchi contro il generale Nistri: "Vuole colpire i carabinieri che hanno parlato". Duro attacco della sorella di Stefano Cucchi dopo l'incontro con il comandante dell'Arma: "Io mi sarei aspettata non dico le scuse, ma sicuramente non uno sproloquio". Replica la ministra Trenta: "Nessuno sproloquio, me ne sarei accorta", scrive il 18 ottobre 2018 "La Repubblica". Nessuna mano tesa della famiglia Cucchi all'Arma dei carabinieri. In una conferenza stampa convocata nel pomeriggio, Ilaria Cucchi ha usato parole pesantissime nei confronti del comandante dell'Arma, Giovanni Nistri, con il quale si era incontrata il giorno prima. "Dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo", ha detto Ilaria Cucchi. Nessuna risposta da parte di Nistri, replica invece su Facebook la ministra Elisabetta Trenta, anche lei presente all'incontro del giorno precedente: "Il Comandante Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Ero presente, se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l'obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di Comandante". Ilaria Cucchi poi ha continuato, nel suo intervento alla stampa estera: "Questo processo io, Fabio e la mia famiglia lo abbiamo fortissimamente voluto, ed ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato. Danno peso ai post di Casamassima ma non ci difendono da quelli infamanti e violenti partoriti da pagine di Facebook e troll in gran parte gestiti da appartenenti a Polizia e Carabinieri. Basta con gli insulti e le violenze verbali, possono essere molto ma molto pericolosi". Ilaria Cucchi si dice sconcertata dalla priorità dei vertici dell'Arma di punire proprio "i tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omerta'. In un processo dove stanno emergendo gravissime responsabilità - ha aggiunto - siamo sicuri che vi sia proprio adesso una insopprimibile esigenza di punire proprio coloro che hanno parlato?". Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano a Rep: Se vi interessa continuare ad ascoltare un'altra campana, magari imperfetta e certi giorni irritante, continuate a farlo con convinzione.

CUCCHI, CIRIELLI: ILARIA CERCA VENDETTA E VISIBILITÀ. BASTA ATTACCHI ALL’ARMA. SOLIDARIETÀ A NISTRI, scrive il 19 ottobre 2018 Fratelli d’Italia. “C’è il sospetto, alla luce delle ultime dichiarazioni, che Ilaria Cucchi non sia alla ricerca di verità e giustizia per la morte del fratello Stefano ma solo di una vendetta contro l’Arma. Una vendetta che le procuri un po’ di titoli di giornali e spazio mediatico”: lo afferma in una nota Edmondo Cirielli, Questore della Camera dei Deputati, commentando le dichiarazioni di Ilaria Cucchi dopo l’incontro con il comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri. La Cucchi ha accusato Nistri di essere interessato da un unico obiettivo: punire i tre pubblici ufficiali che hanno deciso di raccontare la loro versione dei fatti. “Non solo più tollerabili le continue aggressioni verbali da parte della Cucchi all’Arma, che a prescindere e al netto di eventuali e pochissime mele marce continua a garantire con sacrificio e onore la sicurezza dei cittadini, con tanti feriti e caduti annuali anche a causa di violenti ed egoisti spacciatori”- continua Cirielli. “Al comandante Nistri va tutta la mia solidarietà umana e politica, affinchè continui con il suo prezioso lavoro a difendere il Servizio e la sicurezza dei nostri carabinieri” – conclude Cirielli.

Ilaria Cucchi a Lecce: «Non entro in politica». Ultras cantano per lei. La sorella di Stefano Cucchi è stata ospite del festival Conversazioni sul Futuro insieme all'avvocato Fabio Anselmo, scrive Bianca Chiriatti il 26 Ottobre 2018. «Siamo tutti Stefano Cucchi»: è questo il coro con cui gli ultras del Lecce hanno accolto nel capoluogo salentino Ilaria, sorella di Stefano, e l'avvocato Fabio Anselmo. L'incontro con la donna-simbolo di uno dei casi giudiziari più noti e controversi degli ultimi anni e con il suo legale, al cinema DB d’Essai, rientrava nel fitto programma del festival Conversazioni sul Futuro, a Lecce fino a domenica. Prima la proiezione del film "Sulla mia pelle", di Alessio Cremonini, che racconta in maniera obiettiva e cruda gli ultimi giorni della vita di Stefano, poi la testimonianza di Ilaria, che ha ricordato ancora una volta la sua lotta e quella della sua famiglia contro le istituzioni alla ricerca di verità e giustizia. «È stata fondamentale per noi, in questi 9 anni, la vicinanza delle persone che ci fermano per strada e si immedesimano nelle nostre vittorie e fallimenti - ha raccontato Ilaria - in noi rivedono il senso di frustrazione quotidiana che riscontrano nell’ostilità delle istituzioni». Spalle forti contro chi la critica, non sopporta chi va contro suo fratello, che non può più difendersi: «Cercano di colpevolizzare il morto per sentirsi distanti, forse hanno paura di fare la stessa fine». A chi le chiede se entrerà in politica, risponde lapidaria: «Non ne ho nessuna intenzione». Di tutt’altro avviso è il legale Anselmo, secondo cui Ilaria è una donna che fa paura, e che potrebbe avere “il sacrosanto diritto di fare politica”: «Del resto voi - chiede alla platea - non vi fidereste della famiglia Cucchi?» Ilaria racconta le ultime settimane, quella tac fatta dai periti che escludeva la frattura della vertebra di Stefano, ma che si è poi rivelata un clamoroso errore, e le nuove, desiderate testimonianze, che hanno restituito alla sua famiglia la speranza di trovare la verità. Di cosa ha paura questa donna di 38 anni, con due figli, la cui vita è cambiata per sempre il 22 ottobre di nove anni fa? «Delle minacce. Ho paura perché non mi sento protetta e tutelata, e perché chi mi minaccia probabilmente vede esempi più “in alto” che la pensano alla stessa maniera». E le trema la voce quando parla dei suoi genitori: «Stanno male. La loro vita è finita quel giorno. A volte leggo nei loro sguardi che avrebbero voluto andarsene insieme a lui. Hanno una grande forza nell’amore che li unisce, c’è una verità da portare a casa. Ma mi preoccupa quando sarà tutto finito, sopravvivere a un figlio è una cosa innaturale». Una testimonianza che fa riflettere, accolta poi da lunghi applausi, una standing ovation, il coro degli Ultras Lecce, che irrompono in sala cantando "Forza Ilaria non mollare", ed espongono uno striscione, che si conclude con le parole "Stefano vive, i morti siete voi".

Ilaria Cucchi: «Pronta a candidarmi sindaco». La sorella di Stefano, morto dopo l'arresto nel 2009, è disponibile a correre per il Campidoglio. A una condizione: «Libera dai partiti». Con l'obiettivo di creare «una squadra di persone che mi possano aiutare a realizzare la vera missione impossibile in questa città: il rispetto della legge e del principio di uguaglianza», scrive Giovanni Tizian l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Ilaria Cucchi al Campidoglio? Di sicuro disponibile a candidarsi. E diventare l'anti-Raggi e l'anti-Meloni della sinistra per le comunali di Roma. L'annuncio è destinato a stravolgere alleanze e strategie a sinistra del Pd. Dunque, Ilaria Cucchi sindaca? Sì. Ma a una condizione: «I partiti devono fare un passo indietro» spiega a “l'Espresso”. Non sarà la leader di una sua lista civica. La proposta è più ambiziosa: creare un blocco attorno a lei che possa sfidare e vincere contro la destra. Per questo il messaggio è indirettamente rivolto anche al Pd. L'idea di Ilaria Cucchi non è poi così distante dal pensiero di Ignazio Marino, che ha rinunciato alla corsa lanciando però un appello preciso: «Vi chiedo di scegliere insieme un uomo o una donna che non sia io, che possa guidare la città, vincere le elezioni e continuare il lavoro fatto». Non sarà affatto semplice e scontato mettere d'accordo i partiti e i partitini che hanno già lanciato nella mischia propri candidati. Ma Cucchi è esperta di missioni impossibili. Dalle aule di tribunale, in cui sta lottando per avere verità e giustizia per suo fratello Stefano, all'impegno politico. Il filo che lega questo percorso è la volontà di far prevalere i diritti sull'ingiustizia. Non sarebbe la prima volta in politica per Ilaria. Nel 2013 è stata la capolista nel Lazio con la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Allora non andò bene. Questa volta però si tratta delle comunali della sua città, Roma. «Che amo e che amava mio fratello», sorride. Sono trascorsi sette anni dalla morte di Stefano. C'è stato un processo, ma mancano ancora i veri colpevoli. È in corso un'inchiesta bis della procura di Roma e cinque carabinieri sono indagati. In questi anni Ilaria Cucchi non ha lottato solo per il fratello, ma per tutte «le vittime di Stato». Con il pensiero è vicina alla famiglia di Giulio Regeni. Nei giorni scorsi è intervenuta proprio sull'omicidio del ricercatore: «Ho rivisto nel suo sorriso la voglia di vivere del mio Stefano».

Ilaria Cucchi sindaco di Roma? Pazza idea? 

«Ultimamente diverse persone mi hanno chiesto di impegnarmi fattivamente, fino addirittura a chiedermi di candidarmi a Sindaco di Roma. La cosa mi ha fatto sorridere ma poi ci ho riflettuto e mi sono chiesta: a prescindere dalle competenze politiche, che cosa potrebbe convincermi ad accettare questa sfida?»

E che risposta si è data?

«Avere una squadra di persone vicino a me che mi potessero aiutare a realizzare l'unico, vero, reale cambiamento di cui ha bisogno Roma. La vera missione impossibile da realizzare è proprio partire dal rispetto della legge e dal principio di uguaglianza».

Affermare il rispetto della legge in una città corrosa dal malaffare e dalla mafia: bella sfida, non crede? 

«Legalità vuol dire perseguire il bene pubblico comune senza compromessi; legalità vuol dire rispettare i diritti umani e il principio di uguaglianza e di pari opportunità. E quando parlo di diritti umani parlo del diritto di libertà, diritto all'integrità fisica, alla salute, all'istruzione e ad una vita dignitosa. Diritto ad avere ciascuno le proprie opportunità. Legalità vuol dire non prevaricazione. Legalità vuol dire rispetto per i più deboli e comporta un'idea di sicurezza ben lontana da quella che vedo spesso propagandata in questi giorni. Sicurezza vuol dire rispetto della legge, vuol dire lottare contro l'emarginazione, non favorirla. Sicurezza vuol dire che la legge deve essere uguale per tutti, anche per coloro che hanno responsabilità di potere e di ruoli. Tutto questo io credo che manchi a Roma, e non solo a Roma».

Lei si sente una donna di sinistra?

«A chi mi chiede se sono di sinistra io rispondo che queste sono le mie idee e il mio concetto di vita. Per questo mi candiderei soltanto nel momento in cui fossi libera da qualsiasi vincolo di partito».

D'accordo, quindi non è stata una decisione improvvisa?

«Sono sette anni che lotto per ottenere verità e giustizia per la morte di Stefano. Sono stati sette anni lunghissimi dove la mia vita è completamente cambiata. Appartengo ad una famiglia romana piccolo-borghese che non aveva mai avuto occasione di misurarsi con problemi che potessero arrivare a mettere in discussione la nostra idea di Stato, di società fino quasi addirittura a rischiare di minare la nostra fiducia nelle istituzioni. Ho imparato mio malgrado a combattere giorno per giorno, metro per metro, per tentare di ottenere il riconoscimento di quei semplici diritti fondamentali che sono stati negati a mio fratello e che gli sono costati la vita. La nostra è diventata non soltanto una battaglia personale per restituire a Stefano quella giustizia e quella dignità che a lui sono state negate, ma una vera e propria battaglia di legalità».

In che senso?

«Ne discuto tutti i giorni, visito le scuole, partecipo a conferenze, dibattiti, iniziative. Questa è la mia vita. Tutto questo non è più dovuto solo all'esigenza di raccontare la storia di mio fratello, perché ormai la storia di Stefano la conoscono tutti, ma per affermare questo principio. Piano piano mi sono resa conto che coloro che mi ascoltano comprendono la sincerità e il valore del mio messaggio, capiscono da dove nasce e ne percepiscono chiaro l'intimo e profondo radicamento dentro il mio cuore e dentro la mia testa. Da tempo tutti mi dicono che sto facendo politica. All'inizio li contestavo, poi ho smesso di pormi il problema».

E ora questo percorso “politico” lo mette a disposizione della città...

«Ho capito quanto sia importante il fatto che venga assicurato e realizzato in concreto il principio secondo il quale la legge deve essere uguale per tutti. Non deve essere più uguale per coloro che hanno disponibilità di mezzi, denaro, e meno uguale per gli ultimi. Anche in considerazione del fatto che l'esercito degli ultimi si sta giorno per giorno ingrossando sempre di più. È per questo che il caso di Stefano Cucchi è divenuto un caso di tutti, o comunque della maggioranza delle persone "normali"».

Crede che qualcuno la sosterrà? 

«Tante persone quotidianamente mi invitano a non mollare, ad andare avanti, facendomi capire che la frustrazione da noi subita è la stessa frustrazione che spesso il cittadino prova quando si trova a fare i conti con uno Stato che fa poco o nulla per farlo sentire partecipe di un qualcosa di molto più ampio ed importante, ma che spesso si fa percepire come un vero e proprio nemico».

Politica e necrofagia, il caso Cucchi e l’insopportabile ricerca di visibilità, scrive Gianluca Castro il 19 ottobre 2018 su Destra.it. Si moltiplicano gli annunci e le proposte di intitolazione di vie piazze o, addirittura, monumenti a Stefano Cucchi drammaticamente morto a Roma nel 2009 in seguito a percosse e mancate cure dopo un arresto. Nessun dubbio che chi si è reso protagonista di abusi o negligenze vada perseguito come merita, però trasformare in eroe o simbolo un giovane sbandato, tossicomane e arrestato in flagranza mentre spacciava mi pare troppo. Che la sorella Ilaria, dopo aver condotto anni di battaglie legali per la ricerca della verità tenti di tradurre la notorietà acquisita grazie alla vicenda in una qualche visibilità politica è perfettamente comprensibile e quasi giustificabile. Che qualche scoria in crisi di idee e consensi vi si getti a capofitto un po’ meno. In questa tragicomica gara Vittorio Sgarbi (nella sua veste nientepopodimeno che Sindaco di Sutri) ha annunciato che dopo Julius Evola e Oriana Fallaci il comune della Tuscia da lui amministrato intitolerà a Cucchi una pubblica strada. L’intitolatore seriale Sgarbi era già a suo tempo stato preceduto dall’Assemblea capitolina che per bocca di Gianluca Peciola, capogruppo Sel in Campidoglio aveva affermato nel 2014: “a cinque anni dalla sua morte l’intitolazione di una piazza o di una via è un importante riconoscimento da parte dell’Assemblea Capitolina alle battaglie della famiglia per la verità e la giustizia. Quello che è accaduto a Stefano non deve succedere mai più. Nel nostro sistema carcerario devono trovare cittadinanza lo Stato di Diritto e il rispetto dei diritti umani. Questo atto serva da monito a quanti nelle nostre Istituzioni continuano a perpetrare la violenza nei confronti delle persone che sono prese in custodia dallo Stato”. Anche il PD milanese, per non essere da meno, ha richiesto che vengano dedicati “una via o un monumento della città di Milano a Stefano Cucchi, possibilmente nei pressi del carcere di San Vittore”. Questa proposta, presentata ai primi di ottobre a Palazzo Marino da Alessandro Giugni del PD e firmata anche da altri consiglieri. Inutile ricordare a questi mestieranti che la Politica, nel suo significato più alto, è cosa diversa dalla sola ricerca di visibilità, semplicemente non sono in grado di comprendere. Per questo si può solo provare un sentimento di umana pietà per chi si contende la carcassa e il ricordo legato a un cadavere pur di guadagnarsi un rigo nelle cronache. Almeno gli animali necrofagi, sciacalli o avvoltoi che siano, hanno ricevuto questa funzione dalla natura per ripulire l’ambiente mangiando le carcasse degli animali morti. I necrofagi della politica si cibano dei morti al solo scopo di sentirsi ancora vivi. Anche se però si sbagliano, per essersi ridotti a questo, di vivo hanno ormai solo l’apparenza.

Stefano Cucchi, carabiniere imputato ammette al processo il pestaggio e accusa due colleghi. Ilaria: "Il muro è crollato". Colpo di scena all'inizio dell'udienza che vede alla sbarra cinque militari. La sorella: "Ora in tanti dovranno chiederci scusa". "Bravo Francesco ti sei ripreso la tua dignità" scrive Casamassima, l'appuntato che fece riaprire il processo, scrive l'11 ottobre 2018 "La Repubblica". Colpo di scena a inizio udienza del processo che vede cinque carabinieri imputati per la vicenda della morte di Stefano Cucchi. Il carabiniere Francesco Tedesco accusa i colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo del pestaggio. "Fu un'azione combinata - spiega - Cucchi prima iniziò a perdere l'equilibrio per il calcio di D'Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fede perdere l'equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore". "Spinsi Di Bernardo -aggiunge Tedesco- ma D'Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra". Il pm Giovanni Musarò ha reso nota un'attività integrativa di indagine dopo che uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, in una denuncia ha ricostruito i fatti di quella notte e ha "chiamato in causa" due dei militari imputati per il pestaggio. E' stata trovata infatti un'annotazione di servizio in cui Tedesco riferiva del fatto, nota che sarebbe sparita. Sotto processo ci sono Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, tutti imputati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità, Roberto Mandolini di calunnia e falso, e Vincenzo Nicolardi di calunnia. "Il 20 giugno 2018 - ha detto il pm - Tedesco ha presentato una denuncia contro ignoti in cui dice che quando ha saputo della morte di Cucchi ha redatto una notazione di servizio". Sulla base di questo atto, il rappresentante dell'accusa ha detto che è stato iscritto un procedimento contro ignoti nell'ambito del quale lo stesso Tedesco ha reso tre dichiarazioni. "In sintesi - ha aggiunto il pm - ha ricostruito i fatti di quella notte e chiamato in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D'Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d'Assise, già sapeva tutto". I successivi riscontri della procura hanno portato a verificare che "è stata redatta una notazione di servizio - ha detto il pm - che è stata sottratta e il comandante di stazione dell'epoca non ha saputo spiegare la mancanza". "Il muro è crollato" commenta Ilaria Cucchi su Facebook. "Il muro è stato abbattuto. Ora sappiamo e saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano e alla famiglia Cucchi" prosegue la sorella del geometra. "Oggi c'è stato uno snodo significativo per il processo, ma anche un riscatto per il mio assistito e per l'intera Arma dei Carabinieri". Commenta l'avvocato Eugenio Pini, difensore di Francesco Tedesco. "Gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini - ha aggiunto Pini - individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso. Ma soprattutto è il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi costretto al silenzio contro la sua volontà. Come detto, è anche un riscatto per l'Arma dei Carabinieri perché è stato un suo appartenente a intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell'immediatezza e a aver fatto definitivamente luce nel processo". Non è chiaro, al momento, se negli interrogatori resi davanti al pm, Tedesco abbia ammesso di aver partecipato al pestaggio con i due colleghi, ma quel che è certo è che, per la prima volta, uno degli imputati dichiara che quanto ricostruito dalla procura, a cominciare dal pestaggio del giovane, è realmente caduto. Nel procedimento Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Esprime soddisfazione anche Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri che con la sua testimonianza fece riaprire l'inchiesta sul decesso di Stefano. "Immensa soddisfazione, la famiglia Cucchi ne aveva diritto. Mi è venuta la pelle d'oca nell'apprendere la notizia. Tutti i dubbi sono stati tolti. Signora Ministro io sono un vero carabiniere. L'Italia intera ora aspetta i provvedimenti che prenderà sulla base di quello che è stato detto durante l'incontro. Sempre a testa alta. Bravo Francesco, da quest'oggi ti sei ripreso la tua dignità" scrive l'appuntato su Facebook in un post che è sparito dopo qualche minuto. Il militare aveva raccontato quanto riferito da alcuni suoi colleghi a proposito del "massacro" subito dal giovane dopo l'arresto. Per le sue dichiarazioni Casamassima subì minacce e fu trasferito. "Per aver fatto il mio dovere - aveva dichiarato -  come uomo e come carabiniere per aver testimoniato nel processo relativo Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze". Fino alla svolta di oggi.

Stefano Cucchi, dopo 9 anni carabiniere imputato ammette il pestaggio: “Picchiato da due colleghi”. Svolta nel processo sulla morte del giovane geometra romano. A rendere nota la nuova accusa è il pm Giovanni Musarò, che ha parlato di una denuncia del carabiniere Francesco Tedesco, imputato nel processo. Tra luglio e ottobre, il militare è stato sentito tre volte dai magistrati: secondo la sua ricostruzione, il giovane fu picchiato da Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. "Violento schiaffo in volto e un calcio con la punta del piede. Dissi 'Basta, che c... fate'". Scomparsa l'annotazione di servizio nella quale raccontava quanto accaduto. La sorella Ilaria: "Il muro è abbattuto. Ora sappiamo e in tanti dovranno chiedere scusa", scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 ottobre 2018. Crollano 9 anni di silenzi sulla morte di Stefano Cucchi. La svolta su quanto accaduto nella notte del 15 ottobre 2009 dopo il fermo del giovane alla periferia di Roma arriva grazie a uno dei carabinieri imputati nel processo. “Fu pestato da Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro”, ha scritto in una denuncia presentata a giugno Francesco Tedesco, pure lui imputato nel procedimento che vede accusati 5 militari. Lo stesso Tedesco, Di Bernardo e D’Alessandro devono rispondere di omicidio preterintenzionale, mentre Roberto Mandolini di calunnia e falso, e Vincenzo Nicolardi di calunnia. “Il muro è abbattuto”, è stato il primo commento di Ilaria Cucchi, sorella del geometra di 31 anni, deceduto una settimana dopo il fermo all’ospedale Pertini. È la prima volta infatti che una delle persone coinvolte nei processi dichiara che quanto sostenuto dalla procura di Roma è vero.

Il verbale di Tedesco: “Schiaffi e calci, poi cadde sul bacino”. A svelare la svolta nel caso è stato il pm Giovanni Musarò durante un’udienza. Il pubblico ministero ha rivelato come, il 20 giugno scorso, Tedesco abbia presentato una denuncia sulla vicenda, a seguito della quale, tra luglio e ottobre è stato sentito tre volte dai magistrati di piazzale Clodio. Lo scorso 20 luglio, Tedesco viene ascoltato e mette a verbale il suo racconto: “Gli dissi ‘basta, che c…fate, non vi permettete”, disse a Di Bernardo e D’Alessandro mentre uno “colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto” e l’altro “gli dava un forte calcio con la punta del piede”. Poi precisa che “Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fede perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino”.

“Nicolardi sapeva tutto. Scomparsa annotazione di servizio”. “In sintesi – ha aggiunto il pm – ha ricostruito i fatti di quella notte e chiamato in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D’Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d’Assise, già sapeva tutto”. I successivi riscontri della procura hanno portato a verificare che “è stata redatta una notazione di servizio – ha detto il pm – che è stata sottratta e il comandante di stazione dell’epoca non ha saputo spiegare la mancanza”.

Caso Cucchi, audio choc moglie del Carabiniere: “Hai detto che avete picchiato quel drogato di..." L’audio del 2015 tra D’Alessandro e la moglie: “Hai detto a tutti che lo avete picchiato”. L’avvocato di Tedesco: “Allontanò i colleghi. Poi costretto al silenzio”. Come spiega l’avvocato difensore di Tedesco, Eugenio Pini, “gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso”. “Ma soprattutto – continua – è il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi costretto al silenzio contro la sua volontà. Come detto, è anche un riscatto per l’Arma dei Carabinieri perché è stato un suo appartenente a intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell’immediatezza e a aver fatto definitivamente luce nel processo”.

La sorella Ilaria: “Muro abbattuto”. “Processo Cucchi. Udienza odierna ore 11.21. Il muro è stato abbattuto”, scrive in un post su Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, da sempre in prima linea per chiedere di stabilire la verità sulla morte del 31enne, deceduto una settimana dopo il fermo mentre era detenuto all’ospedale Pertini di Roma. “Ora sappiamo – aggiunge- e saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano a alla famiglia Cucchi”.

L’arresto e il ricovero. Poi la morte al Pertini. Il 31enne romano venne arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, nella Capitale, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportarono in caserma con loro e lo rinchiusero in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalidò l’arresto, fissando una nuova udienza. Ricoverato al Pertini, Cucchi morì una settimana dopo.

La testimonianza del padre: “Sembrava marine in Vietnam”. “Come è possibile che un ragazzo muoia in quel modo nell’ambito dello Stato? Quando l’ho visto, all’obitorio, non sembrava Stefano… ma un marine morto in Vietnam con il napalm”, aveva raccontato a luglio in aula Giovanni Cucchi, padre di Stefano, sentito come testimone. “Dopo l’arresto, non appena ci dissero che era al Pertini, noi andavamo tutti i giorni in ospedale, senza riuscire a vedere Stefano né ad avere notizie su di lui ma il fatto che stesse lì per noi era motivo di conforto – aveva aggiunto – perché anche se la situazione ci preoccupava era in mano ai medici e questo ci faceva pensare che lo avrebbero aiutato. Quel giovedì in cui ci hanno chiamato per dirci che era morto è stato uno shock”.

Il militare che fece riaprire processo: “Immensa soddisfazione”. Di “immensa soddisfazione” a cui la famiglia Cucchi “aveva diritto” parla Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto riaprire il processo. “Mi è venuta la pelle d’oca nell’apprendere la notizia. Tutti i dubbi sono stati tolti. Signora Ministro io sono un vero carabiniere”, scrive su Facebook il militare che raccontò di aver saputo quanto era accaduto e che ha confermato in aula la sua ricostruzione. “L’Italia intera ora aspetta i provvedimenti che prenderà sulla base di quello che è stato detto durante l’incontro. Sempre a testa alta. Bravo Francesco da quest’oggi ti sei ripreso la tua dignità”, aggiunge riferendosi al racconto di Tedesco.

Manconi: “Ci sono voluti 10 anni”. Borghi: “La giustizia arriva per tutti”. “Ci sono voluti quasi dieci anni e oggi, infine, la verità sulla morte di Stefano Cucchi emerge nitidamente. È giusto provare soddisfazione, ma anche ricordare come, in quei giorni di fine ottobre del 2009, la famiglia Cucchi e quei pochissimi che stavano al suo fianco già indicavano nei carabinieri che lo avevano tratto in arresto i responsabili di quel delitto”, afferma Luigi Manconi, presidente di A buon diritto Onlus. “Tutto ciò mentre le indagini venivano deviate e l’attività, non proprio oculatissima, di due pubblici ministeri si indirizzava contro appartenenti alla polizia penitenziaria”, osserva ancora Manconi. “Mi auguro che quanti in questi anni hanno oltraggiato Stefano Cucchi – conclude Manconi – e diffamato la sua famiglia, i vari “carlogiovanardi” e i piccoli leader di sindacati di polizia omertosi, trovino modo di chiedere scusa”. Anche l’attore Alessandro Borghi, che ha interpretato Cucchi nel film “Sulla mia pelle” su Netflix, ha scritto su Twitter: “La giustizia è lenta ma ariva pè tutti”.

La verità sulla morte di Stefano Cucchi. Colpo di scena nell'ultima udienza del processo in corso a Roma. Un carabiniere imputato ammette il pestaggio eseguito da due colleghi. E denuncia le pressioni per non farlo parlare. Da chi ha subito tutto questo? Qualcuno lo ha minacciato? Chi ha protetto i picchiatori? Scrive Giovanni Tizian l'11 ottobre 2018 su "L'Espresso". Nove anni di insulti. Nove anni di menzogne. Nove anni di ingiustizia per la famiglia Cucchi, che ha lottato senza tregua per giungere alla verità sulla morte di Stefano. Una cosa è certa: il geometra romano è stato pestato a sangue da uomini in divisa. Oggi però arriva un'altra, decisiva, conferma. Destinata a stravolgere il processo bis in corso a Roma. Un colpo di scena, «uno snodo significativo per il processo, ma anche un riscatto per il mio assistito e per l'intera Arma dei Carabinieri», ha commentato l'avvocato Eugenio Pini, difensore del militare Francesco Tedesco, imputato nel dibattimento Cucchi bis. La conferma che il muro di silenzi e complicità si sta sgretolando. «Le ulteriori indagini», ha aggiunto Pini, «individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso. Ma soprattutto è il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta sul tavolo dei magistrati. E poi costretto al silenzio contro la sua volontà. Come detto, è anche un riscatto per l'Arma dei Carabinieri perché è stato un suo appartenente a intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell'immediatezza e ad aver fatto definitivamente luce nel processo». Siamo, dunque, a una vera svolta, con la verità sempre più vicina. Stefano Cucchi è stato picchiato violentemente da due carabinieri. Un fatto, del resto, che L'Espresso aveva anticipato due anni fa con l'intervista esclusiva a Riccardo Casamassima, il testimone-carabiniere che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura dell'indagine bis sulla morte di Cucchi. Oggi alla voce isolata di Casamassima si aggiunge quella di Tedesco, un altro appuntato, questa volta però presente sulla scena del crimine, tanto da essere tra gli imputati. Ma c'è di più. Oggi scopriamo che Tedesco a differenza di tanti altri suoi colleghi aveva fatto il suo dovere già all'epoca. Si era comportato da servitore dello Stato, scontrandosi però con suoi colleghi in divisa che hanno agito al di fuori del codice, delle leggi e della Costituzione. Nel giorno in cui emerge un altro tassello di verità, però, restano da chiarire ancora molti punti oscuri della vicenda. Per esempio il livello di coperture che hanno garantito ai presunti picchiatori di Cucchi di rimanere impuniti per nove lunghi anni. Un dubbio che si fa più inquietante dopo le dichiarazioni dello stesso Tedesco. Tramite l'avvocato ha ammesso di essere stato costretto al silenzio contro la sua volontà. Da chi? Che tipo di minacce ha ricevuto? A che livello arrivano le protezioni degli esecutori del pestaggio di Stefano Cucchi? Interrogativi ai quali, prima o poi, qualcuno dovrà rispondere. Qualcuno dovrà rendere conto alla Giustizia di quei verbali modificati, di altri spariti, di tentativi di depistaggio mai chiariti. Forse è arrivato il momento, perché il muro di gomma dietro cui si sono nascosti finora i responsabili rischia di crollare definitivamente.

Parla l’avvocato della famiglia Cucchi: «Finalmente la verità». «Stefano Cucchi è stato pestato in modo violentissimo dai carabinieri ed è morto per colpa di quel pestaggio. Ora la verità è evidente. Arriva con molto ritardo ma è evidente», scrive Valentina Stella il 12 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". «Quanto accaduto oggi rappresenta la verità che abbiamo sempre affermato in questi lunghi anni, ossia il fatto che Stefano è stato pestato in maniera violentissima ed è morto per quel pestaggio”: è l’avvocato Fabio Anselmo a commentare a caldo con il Dubbio quanto emerso ieri nell’udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. A precedere le sue parole è una foto che abbiamo imparato a conoscere e che ieri subito dopo l’udienza Ilaria Cucchi ha postato su Facebook: lui che prende tra le sue mani la testa della giovane donna e si commuovono, perché Fabio Anselmo non è solo il legale della famiglia Cucchi che da anni lotta per abbattere quel muro di omertà e menzogne che sembra essere crollato, ma è anche il compagno di Ilaria. Tuttavia ci tiene a precisare, quando gli chiediamo cosa provino nei confronti del carabiniere che solo adesso ha deciso di parlare e raccontare la verità, che questo “non è il momento dei sentimenti anche perché leggere quello che è successo a Stefano non è stato facile, soprattutto per Ilaria. Quello che posso affermare è che menomale che qualcuno parla. Se possiamo avere un momento di rabbia è nei confronti di coloro che non hanno consentito che si parlasse prima, che non hanno parlato e che continuano a non parlare”. Tuttavia è soddisfatto per quanto ascoltato in aula: «Oggi c’è un ulteriore squarcio sull’inchiesta bis della Procura di Roma che secondo me aveva fatto piena luce sulle responsabilità e su quello che era successo. Quanto accaduto è eclatante perché abbiamo una testimonianza diretta di chi ha assistito ai fatti. E poi si tratta di una persona che riferisce anche dei condizionamenti e delle intimidazioni subite e di tutto quello che è successo dopo. Noi ci chiediamo se non debba essere chiamato alla sbarra qualcun altro”. E sulla questione delle intimidazioni non può fare a meno di ricordare Riccardo Casamassima, l’appuntato dell’Arma che ha contribuito a riaprire le indagini, dopo il primo processo che si era concluso con le assoluzioni di medici e infermieri, e che per le sue dichiarazioni aveva subìto diverse ritorsioni, a partire dal trasferimento: “Basta vedere quello che è successo a Casamassima – dice Anselmo – per comprendere perché la testimonianza di Tedesco sia arrivata tardi”. E su questo si è espresso l’avvocato Eugenio Pini, legale del carabiniere, per il quale si tratta di “un riscatto per il mio assistito e per l’intera Arma dei Carabinieri”. L’avvocato Anselmo è d’accordo con il suo collega: “chi non si comporta in maniera omertosa riscatta sempre l’Arma dei carabinieri”. Dopo tutto quello che è accaduto è lecito chiedersi se la strada verso la verità è ormai in discesa o qualcuno continuerà a fare ostruzionismo alla giustizia: “si può negare tutto – ci dice l’avvocato Anselmo – si può negare l’evidenza: è lo sport preferito di qualcuno. Quello che posso dire è che la verità è chiara perché le dichiarazioni di Tedesco sono state riscontrate. Il supplemento di inchiesta della Procura è fantastico”. Il Ministro Salvini ha invitato sorella e parenti di Cucchi al Viminale: “Attendiamo volentieri, come ha detto anche Ilaria, l’invito per essere ricevuti”. Con Matteo Salvini i rapporti si erano fatti tesi quando nel 2016 Ilaria Cucchi pubblicò sul suo profilo Facebook proprio la foto di Francesco Tedesco in costume da bagno scrivendo “volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello [..] le facce di coloro che l’hanno ucciso”. Seguirono numerose polemiche e il leghista allora disse “Capisco il dolore, ma mi fa schifo”. Concludiamo la nostra intervista chiedendo all’avvocato Anselmo se alla luce di quanto accaduto ieri conferma l’opportunità di quel gesto: “credo che questa domanda sia francamente abbastanza inopportuna, comunque noi rifaremmo tutto quello che abbiamo fatto”.

La mamma di Stefano Cucchi: “Chi sa parli, avrete più dignità”, scrivono il 13 ottobre 2018 Le Iene. Domenica 14 ottobre 2018 a Le Iene l’intervista di Gaetano Pecoraro a Rita Calore, la mamma del geometra morto in ospedale il 22 ottobre 2009, quattro giorni dopo essere stato arrestato. “Sono nove anni che aspetto che qualcuno parli e finalmente quel giorno è arrivato”. Rita Calore, la mamma di Stefano Cucchi, parla di fronte alle nostre telecamere dopo le nuove rivelazioni emerse dal processo che vede imputati cinque carabinieri per la vicenda della morte del geometra morto il 22 ottobre 2009, quattro giorni dopo l’arresto, che si sta delineando come causato dal pestaggio delle forze dell’ordine. Rita, che in questi anni è rimasta quasi sempre in silenzio, fa un appello, ora che “questo muro di omertà si sta sgretolando”. “Chi sa parli, racconti come sono andati i fatti. Abbia il coraggio”. Il muro di silenzio intorno ai fatti di quella notte è crollato pochi giorni fa, quando durante l’udienza nel processo bis sulla morte di Stefano, il carabiniere Francesco Tedesco ha ammesso il pestaggio del ragazzo e chiamato in causa i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, coimputati per omicidio preterintenzionale. Parlando, le persone che fino adesso sono restate in silenzio “sarebbero più libere, acquisterebbero dignità. Dire la verità è un valore”.

Luigi Manconi: «Quella strana telefonata che mi arrivò pochi giorni dopo la morte di Cucchi», scrive Giulia Merlo il 20 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Per Luigi Manconi «all’origine del caso Cucchi vi fu – ancor prima della morte – una desolante sciatteria del nostro sistema giudiziario». «Sin dai giorni immediatamente successivi alla morte di Stefano Cucchi, alcuni dettagli e alcune circostanze concrete facevano pensare che il bandolo della matassa risiedesse nell’attività dei carabinieri». Luigi Manconi, già senatore del Partito democratico e oggi direttore dell’Ufficio antidiscriminazioni razziali presso la Presidenza del Consiglio, ha seguito la vicenda del giovane geometra morto il 22 ottobre del 2009 dai suoi primi sviluppi, accanto alla sorella Ilaria e alla famiglia. Oggi, dopo le novità del processo bis, ricostruisce questi nove anni di silenzi.

Perché dice che da subito lei e Ilaria avevate sospetti su quanto avvenuto nelle due caserme dei carabinieri? Il primo processo si è incentrato sulla polizia penitenziaria.

«Fu un particolare a colpirmi molto. A distanza di una settimana dai fatti, mi misi in contatto con Ilaria e resi pubblico un comunicato in cui sollevavo alcuni dubbi sulle ricostruzioni ufficiali e sottolineavo la circostanza della permanenza di Stefano nella custodia dei carabinieri. La sera stessa, dopo il comunicato, ricevetti una telefonata da un giornalista che seguiva la cronaca di Roma. Inizialmente provò a chiedermi informazioni, poi cambiò completamente registro e cominciò a contestare gli elementi che a me sembravano dubbi della versione ufficiale. Ecco, avvertii chiaramente che quel cronista parlava per conto dei carabinieri, dai quali aveva ricevuto elementi da opporre a quella che era una mia prudentissima ipotesi. Memorizzai questo episodio come il segnale preoccupante di una attenzione spasmodica verso tutto ciò che riguardava la morte di Cucchi e che poteva suggerire un’interpretazione diversa dei fatti.»

Poi le indagini presero una direzione diversa.

«Sì, concentrandosi sulla polizia penitenziaria. Eppure anche all’epoca io continuavo a ipotizzare che il ruolo dei carabinieri potesse essere stato diverso rispetto a quello della prima ricostruzione. Conferma di ciò mi venne da un’indagine interna alla polizia penitenziaria svolta da un magistrato, Sebastiano Ardita, allora dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I risultati di quell’indagine, che certo aveva una funzione difensiva, mi apparvero tuttavia particolarmente persuasivi e si indirizzavano verso l’operato dei carabinieri. A differenza della lettura, come dire, astratta che venne data nel primo processo, sulla base di una sorta di teorema affidato a concatenazioni logiche più che fattuali, peraltro decisamente fragili.»

Il caso, ormai, era diventato di dominio pubblico, e si alternarono varie ricostruzioni dei fatti. Che impressione ricavò di quel dibattimento?

«Anche in quella circostanza si dovette assistere all’applicazione di un meccanismo, già sperimentato in precedenza, e che ho chiamato di “doppia morte”. Un dispositivo utilizzato nei processi Aldrovandi, Uva, Budroni, Ferrulli e in chissà quanti altri. Dopo il decesso della vittima, si procede alla sua stigmatizzazione. Si condanna lo stile di vita, i precedenti e le trasgressioni del morto per giungere alla conclusione che, in qualche modo, “se l’è cercata”. Questo meccanismo ha un effetto dirompente, perchè rende ancora più debole la vittima, contribuisce a scoraggiare una ricerca accurata dei responsabili e rinnova il dolore dei familiari. Però, all’origine del caso Cucchi vi fu – ancor prima della morte – una desolante sciatteria del nostro sistema giudiziario.»

A cosa si riferisce?

«All’udienza di convalida del suo arresto, a Cucchi venne attribuita una nazionalità straniera e la condizione di “senza fissa dimora”, nonostante fosse regolarmente residente in città. E questo segnala come il momento preliminare del procedimento giudiziario sia avvenuto con modalità di tale trasandatezza da rendere immediatamente meno tutelata e meno difendibile la posizione dell’arrestato. A Stefano vennero tolti i più elementari strumenti di difesa: la sua figura sociale non era più quella di un giovane geometra romano trovato in possesso di sostanze stupefacenti, bensì quella di un emarginato cronico, senza fissa dimora e di nazionalità incerta. Basta questo a dare la misura della fragilità di persone che entrano in contatto col sistema penale e subito si trovano in posizione di acuta disparità.»

Poi il caso arrivò anche sui banchi del Parlamento.

«E anche in quella sede, oltre che su certa stampa, venne messo in atto il dispositivo della “doppia morte”. Un parlamentare definì Stefano con questi termini: epilettico, tossico, anoressico e sieropositivo. Ora, quando di una vittima si fa questa descrizione, è evidente che si intende solo sfregiare la sua persona e la sua immagine.»

Oggi, nove anni dopo la morte, la confessione di un carabiniere. Chi difende gli imputati mette in discussione la veridicità di una dichiarazione così lontana temporalmente dai fatti. Lei crede al racconto di Tedesco?

«Sarebbe certo interessante capire perchè ci siano voluti nove anni per ottenere quella confessione, ma questo è secondario. Il punto è che, finalmente, qualcuno ha detto che il pestaggio è avvenuto e chi sono gli autori. E va ricordato che anche le sentenze di assoluzione dei poliziotti penitenziari già avevano accertato che le violenze c’erano state. Ignoti erano solo gli autori.»

E quei nove anni non contano?

«E’ ovvio che per un lungo periodo ha retto una rete di omertà, basata sulla complicità tra i responsabili diretti, colleghi e superiori che hanno coperto quelle violenze. E il fatto che le indagini fossero state indirizzate contro un altro corpo di polizia avrà rinsaldato presumibilmente quel sistema di protezione. Poi, per ragioni che attengono alla coscienza individuale, alla capacità di indagine della Procura e a non so che altro, alcune connivenze sono crollate e qualcuno ha parlato. Certo, chi vuole difendere a tutti i costi e contro ogni evidenza i responsabili di una simile efferata violenza lo può fare, poi se la vedrà con la propria coscienza, se ne ha una.»

Sotto processo, ora, ci sono i presunti responsabili. Vista la mediaticità del caso, sul banco degli imputati ci sono loro o le divise che portavano quella notte?

«In decenni che mi occupo di questi temi, non mi è capitato mai di assistere a processi indiscriminatamente indirizzati contro i carabinieri. Nel caso Cucchi non ho visto mai attacchi generici e indistinti nei confronti dell’Arma. Solo ed esclusivamente una circostanziata attribuzione di responsabilità a singoli militari.»

In molti, però, hanno sentito il dovere di ribadire che responsabili e corpo dei carabinieri sono due cose distinte.

«Ma chi ha mai detto il contrario? Nessuno ha mai affermato o scritto che l’intera Arma è una banda di assassini. Respingere preventivamente un’accusa mai formulata è un logoro espediente retorico per confondere le acque. In questi giorni mi è capitato di sentire più di un esponente politico liquidare in un secondo le responsabilità di chi ha usato violenza contro Cucchi e poi dedicarsi a ditirambi e panegirici a favore dell’Arma dei carabinieri. Legittimo, ma fuori tema».

Invece?

«L’eroismo di tantissimi carabinieri è indubbio, così come è incontestabile che la grande maggioranza degli appartenenti all’Arma si comporti correttamente. Ma è altrettanto certo che gli episodi di illegalità non sono così rari. Dunque, imposterei così il discorso: la massima parte si comporta bene; i responsabili delle violenze vanno puniti; bisogna evitare che questi episodi, non così isolati, vengano tollerati, protetti corporativamente e, di conseguenza, se non incentivati comunque non impediti. Chi dice che “si tratta solo di poche mele marce” ignora una legge elementare della botanica: anche poche mele marce, se rimangono nel cestino, fanno marcire tutte le altre».

Quanto ha pesato mediaticamente e processualmente il ruolo di Ilaria Cucchi?

«E quanto ha contato, nel caso Aldrovandi, la madre? In quello Ferrulli, la figlia? In quello Uva, la sorella? Queste figure femminili esprimono, per un verso, la profonda intimità di un vincolo di sangue indissolubile con la vittima; dall’altro, tutta la forza di chi a partire da quel legame chiede verità e giustizia. Non sono delle moderne Antigoni: lei opponeva la ragione del cuore alle ragioni dello Stato, loro hanno opposto alla cattiva e violenta ragion di Stato la fiducia nelle leggi e nei diritti delle vittime».

Il suo dolore è stato il veicolo che ha permesso di non far dimenticare il caso?

«Le racconto un fatto. In questa vicenda, di fondamentale importanza per sollecitare l’attenzione sono state le foto scattate in obitorio. All’epoca Ilaria mi chiese consiglio se renderle pubbliche o meno, in una conferenza stampa che avevamo organizzato per il giorno successivo al Senato. Io le dissi che non mi esprimevo, perchè si trattava di una scelta che riguardava esclusivamente la famiglia. Dopo molte ore, i familiari decisero di renderle pubbliche e io fui d’accordo, ritenendolo tanto doloroso quanto necessario. Non a caso, quelle foto ebbero un ruolo decisivo, perchè così inequivocabili nella crudeltà che documentavano. La scelta, però, fu drammatica, perchè con la diffusione i familiari rinunciavano a una parte della dimensione privata del loro dolore, sacrificandola perchè diventasse di interesse collettivo».

Ora che siamo a una svolta della vicenda processuale, il caso Cucchi nella sua dimensione pubblica potrebbe evitare che altre tragedie simili avvengano in futuro?

«Io ho un’idea meno ottimistica. Credo che questa vicenda sia ancora ignorata da una parte significativa della società italiana e che a favore di Stefano sia ancora solo una minoranza, pur robusta e che cresce. Non c’è dubbio che sia stato incentivato un meccanismo di dissuasione e deterrenza, ma ancora in modo non risolutivo. Una nota positiva in senso generale, però, si può ricavare».

Quale?

«Abbiamo avuto conferma che il nostro sistema è in grado di giudicare se stesso e di introdurre elementi di controllo e di auto- correzione. Si è trattato di un test essenziale per il nostro sistema democratico e ha dimostrato che esistono strumenti che consentono di vigilare sul comportamento di quelle istituzioni che hanno il potere grande e terribile del monopolio legittimo della forza. Non mi faccio troppe illusioni per il futuro, però».

No, le norme ci sono già. Sarebbe una normativa che ha lo scopo di inibire le forze dell’ordine, scrive Gianni Tonelli (segretario generale SAP) il 18 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Qualcuno sostiene che questa lunga vicenda sia la dimostrazione della necessità di un legge per il reato di tortura, mentre dimostra il contrario. In Italia i comportamenti di tortura sono già ampiamente sanzionati dalla legge. L’odissea Cucchi prosegue e non so se dispiacermi o essere contento della richiesta di rinvio a giudizio per i tre colleghi carabinieri, che ovviamente dovrà essere accolta dal giudice dell’udienza preliminare. Giunti a questo punto, e viste tutte le ombre che sono state messe su questa vicenda e che rappresentano elementi ancora da dimostrare, sono convinto che il dibattimento pubblico sarà molto interessante e metterà gli imputati nelle condizioni di poter spazzare via le accuse, come è successo per i colleghi della polizia penitenziaria e i medici. Comunque, voglio sottolineare che lo stesso parere del professor Gaetano Thiene, perito della famiglia Cucchi, e la relazione della commissione bicamerale d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, certificano che non vi è alcun collegamento tra la morte e le lesioni riportate, indipendentemente da chi sia stato a infliggerle. C’è anche un altro motivo secondo me determinante a favore della difesa: nella fotografia all’ingresso in carcere l’immagine del volto di Cucchi, come anche la sua espressione, non erano quelli di un uomo sofferente e non vi era alcun tipo di lesione, mentre, quelle che si potrebbero definire ombrature nella zona sotto gli occhi, sono banali occhiaie. Infatti, come si può verificare facendo una rapida ricerca in internet, se uno prende un pugno, si crea un gonfiore facilmente distinguibile da ciò che invece può essere una caratteristica somatica. Qualcuno sostiene che questa lunga vicenda sia la dimostrazione della necessità di un legge per il reato di tortura, mentre dimostra semplicemente il contrario. In Italia i comportamenti di tortura sono già ampiamente sanzionati dalla legge. Quello che serve non è un nuovo strumento normativo, e ciò è dimostrato dal fatto che l’ordinamento è comunque in grado di far fronte alle circostanze e di individuare eventuali responsabilità. Analogo errore fu commesso dalla corte di Strasburgo, che, riguardo ai fatti della Diaz del 2001, rilevò la mancanza di una fattispecie criminosa espressa per il reato di tortura sostenendo che alcuni operatori delle forze dell’ordine non avevano subito la condanna a causa di questo vuoto normativo, mentre, per contro, la mancata irrogazione della sanzione fu unicamente da imputare alla prescrizione, una norma di carattere processuale e non di diritto sostanziale. Quindi, il reato di tortura è una sciocchezza, tutti noi vogliamo che i comportamenti di tortura vengano sanzionati duramente, ma il disegno di legge in discussione in Parlamento mira unicamente ad inibire l’azione delle forze di polizia, tentando di sanzionare le acute sofferenze psichiche, quando è impossibile confutarle, non sono rilevabili scientificamente e, comunque, possono essere lamentate soltanto dalla persona. Addirittura nel disegno di legge vi è l’istigazione alla tortura non accolta come fattispecie delittuosa, quando neppure la pedofilia, l’omicidio o i comportamenti mafiosi o terroristici, se non accolti, sono considerati un reato penale. Secondo noi tutto questo rappresenta senza dubbio un manifesto ideologico contro le forze dell’ordine. Solo se smettiamo di guardare attraverso lenti polarizzate ideologicamente potremo trovare la soluzione e l’adesione formale alle convenzioni internazionali contro i comportamenti di tortura che l’Italia ha sottoscritto perché sostanzialmente già accolte dall’ordinamento. Partendo dal sequestro di persona e proseguendo con la violenza privata, le lesioni, le percosse o l’abuso in atti d’ufficio, tutti i comportamenti che concretizzano la tortura sono sanzionati, e ce n’è per due vite di galera. Quello che occorre è un recepimento formale, la richiesta di una nuova legge è totalmente inutile. 

Il caso Cucchi e le opacità dei corpi militari, scrive Daniele Tissone, Segretario generale sindacato di polizia Silp Cgil, il 20/10/2018 su l'Huffingtonpost. La drammatica e inaccettabile vicenda di Stefano Cucchi pone un problema fondamentale e ormai ineludibile che attiene alla democraticità e alla trasparenza dei corpi in divisa a carattere militare. Lo dico da cittadino e da poliziotto, esponente di un sindacato di categoria che ha sempre visto nella polizia civile, formata, trasparente, sindacalizzata e democratica un obiettivo costante da perseguire. In una società mediatica e iperconnessa dove ormai non esiste più un confine tra l'informazione (intesa come cronaca giudiziaria) sul procedimento penale e l'accertamento sui mezzi di informazione di fatti asseritamente inerenti o utili al processo, non è più possibile da parte delle istituzioni e di chi le rappresenta ai massimi livelli non contrastare opacità, atteggiamenti omertosi o addirittura discriminatori nei confronti di chi, con coraggio, si appella alla propria coscienza morale rinunciando a condotte cameratesche. Atteggiamenti che negli ambienti militari - dove la gerarchia è il principale paradigma del funzionamento del sistema, dove i regolamenti interni parlano ancora di "superiori" e "inferiori", dove il rapporto di subordinazione e il dovere di obbedienza appaiono sostanzialmente assoluti - sono esaltati e inamovibili. Al di là delle responsabilità dei singoli appartenenti che andrà accertata nelle sedi processuali e nei rispettivi gradi di giudizio, l'Arma dei Carabinieri come istituzione nella vicenda Cucchi (e non solo) sta dimostrando i limiti di un corpo che oggi più che mai ha bisogno di essere democratizzato e sindacalizzato, senza ovviamente nulla togliere al merito di un corpo che, attraverso i suoi appartenenti, tanto ha dato e tanto darà ancora sul versante del contrasto ai fenomeni criminali presenti nel nostro Paese. Quando lo scorso aprile, dopo una battaglia che ha visto la Cgil in prima linea, la Corte Costituzionale ha aperto la strada alle associazioni professionali a carattere militare nelle forze armate, nei fatti il sindacato con le stellette, un generale ha pubblicamente commentato la sentenza con queste parole: "Da vecchio comandante non ho mai compreso che cosa potesse e possa fare un organo di rappresentanza che non lo potesse o possa fare il rispettivo comandante. Per me è stato ed è ancora un mistero", aggiungendo "che si fa sempre più fatica ad obbedire e il riconoscimento del dovere è spesso frustrato dalla esigenza sempre più stringente del soddisfacimento degli innumerevoli diritti" con una chiosa che considera già eccessiva la presenza dei Cocer in quanto "la presenza ormai pluridecennale degli organi di rappresentanza ha dato troppo spesso luogo a una deresponsabilizzazione da parte di chi è deputato al comando, di chi cioè deve appunto rispondere". Parole che rappresentano "pensieri" diffusi tra i vertici e i comandi militari. Parole che rilette oggi, dopo gli ultimi sviluppi del processo relativo alla morte di Stefano Cucchi, assumono un sapore inquietante. Confermando la necessità di procedere speditamente nella direzione di una sindacalizzazione delle forze armate e di continuare, anche per le polizie ad ordinamento civile, nel percorso di una sempre maggiore affermazione dei diritti del personale. Perché democrazia e trasparenza sono l'unico antidoto contro omertà e prevaricazioni. Soprattutto se si porta una divisa.

STEFANO CUCCHI, STRISCIONE CONTRO CARABINIERE TEDESCO. “Per te nessuna pietà, sei la vergogna della città”. Stefano Cucchi, il generale Nistri “L’Arma si scusa”. Il comandante dei carabinieri annuncia “Prenderemo provvedimenti, ma l'Arma non ha perso dignità", scrive il 14 ottobre 2018 Dario D'angelo su "Il Sussidiario". Ora che Francesco Tedesco ha deciso di collaborare, rompendo così il muro di silenzio attorno alla morte di Stefano Cucchi, il carabiniere è finito nuovamente nel mirino. Nella sua città, dove è tornato a vivere in seguito alla sospensione, è comparsa nuovamente una scritta offensiva nei suoi confronti. Nella notte, sul cavalcavia che porta nel centro di Brindisi, è stato affisso uno striscione: «Per l’infame nessuna pietà, sei la vergogna della città. Cucchi vive». Lo striscione è stato poi rimosso dagli agenti della Digos nella mattinata di oggi. I poliziotti hanno anche avviato accertamenti per risalire agli autori del gesto. La firma è quella degli ultras del Brindisi calcio, la stessa che compariva sulle scritte che nel gennaio 2016 furono realizzate poche ore dopo la diffusione della notizia relativa all’indagine che coinvolgeva Francesco Tedesco e che ora lo vede imputato per la morte di Cucchi. (agg. di Silvana Palazzo)

IL GENERALE NISTRI “L’ARMA SI SCUSA”. Giustizia fatta per Stefano Cucchi, o per lo meno, dopo le testimonianze del carabiniere Francesco Tedesco, che ha accusato due suoi colleghi di aver pestato il ragazzo poi morto in circostanze (ora non più) misteriose, sembra essere vicina alla conclusione una delle pagine più brutte della recente cronaca d’Italia. Sulla vicenda del povero Cucchi, in molti hanno espresso il proprio pensiero, compreso il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, che si dice pronto a fare chiarezza su quanto avvenuto, e a prendere provvedimenti seri: «L’Arma prenderà i propri provvedimenti – dice ai microfoni del Corriere della Sera il generale - e saprà farlo con il massimo rigore, senza remore e senza riguardi per gli eventuali colpevoli». Ma attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio: «L’Arma non ha perso né deve riacquistare una dignità – le parole del comandante - la gravità di ciò che è accaduto non si discute, ma è un episodio che non rispecchia la normalità del modo di procedere dell’Arma». Infine le scuse nei confronti della famiglia Cucchi: «L’Arma si scusa, ed è sempre pronta a scusarsi, quando alcuni suoi componenti sbagliano e viene accertato che sono venuti meno al loro dovere». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

IL PENSIERO DELLA COMPAGNA DI ALEMANNO. Nei giorni in cui si sprecano gli elogi per Ilaria Cucchi e per il fratello Stefano vittima di pestaggio da parte delle forze dell'ordine e morto 9 anni fa a causa delle lesioni riportate dopo l'arresto, si leva una voce fuori dal coro destinata a far discutere. Si tratta di Silvia Cirocchi, compagna dell'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che sul suo profilo Facebook ha scritto: "Vorrei dire a Ilaria Cucchi che quanto accaduto a suo fratello è qualcosa di aberrante, qualcosa che non doveva succedere, ma purtroppo è successo. Non ha mollato e giustizia è stata fatta. Chi ha pestato Stefano non era degno di portare la divisa. E deve pagare. Ma non deve pagare solo per la Cucchi e i suoi famigliari, deve pagare per tutti quegli uomini che dentro quella divisa ci mettono cuore sudore e vita. Per quattro soldi. Perché il loro è un sacrificio quotidiano che non può essere infangato". Fin qui un messaggio sostanzialmente "ordinario", ma la Cirocchi continua: "Vorrei dire ad Ilaria Cucchi di non dimenticare che c’è sostanziale differenza tra chi ha subito un’ingiustizia (lo so è riduttivo definirla così) e un eroe. Perché quello che è accaduto a Stefano mai sarebbe dovuto accadere, ma non si può trasformare un drogato e spacciatore in un eroe. Questo non si può proprio fare. Vorrei dire ad Ilaria Cucchi che quando al fratello serviva un avvocato sua madre disse che “non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Vorrei dire ad Ilaria Cucchi che era lei a non far vedere i nipoti a suo fratello da due anni. Era lei che non lo voleva più nella sua vita. Vorrei dire a Ilaria Cucchi che dalla terribile morte del fratello è riuscita a costruirsi un personaggio, ha ottenuto un rimborso non di pochi spicci (e mai sarà sufficiente per ciò che è successo), e si mormora già di una candidatura politica molto prossima. Vorrei dire a Ilaria Cucchi che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta. Vorrei dire a Ilaria Cucchi di non renderla una pagliacciata". Ilaria Cucchi deciderà di rispondere? (agg. di Dario D'Angelo)

CUCCHI, CONTE:"CHI HA SBAGLIATO DOVRA' PAGARE". Sul caso Cucchi si esprime anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il premier, in visita a Bologna in occasione della campagna di sensibilizzazione alla cultura della prevenzione della Protezione civile, come riportato da askanews ha detto: "Sono molto attento a questa vicenda, stanno emergendo dei riscontri, anche le ultime confessioni emerse, questo mi spinge a dire che chi ha sbagliato dovrà pagare, perché ovviamente indossava la divisa dello Stato e rappresentava lo Stato, quindi la cosa è ancora più grave". Il Presidente del Consiglio ha aggiunto: "Dobbiamo accertare le responsabilità individuali, non possiamo scaricare le responsabilità sull’intero corpo dei carabinieri e delle forze dell’ordine in generale, che tutti i giorni si impegnano per tutelare le nostre vite, la nostra incolumità, la nostra sicurezza". (agg. di Dario D'Angelo)

SALVINI A ILARIA CUCCHI, "POLEMIZZA? SUA SCELTA". Matteo Salvini torna a parlare di Stefano Cucchi da Ala, dove si trova per sostenere la candidatura a governatore del Trentino del leghista Maurizio Fugatti. Come riportato da Il Corriere della Sera, il leader del Carroccio ha dichiarato: "Chiunque venga arrestato deve essere processato rispettando la legge e non con altre maniere. Le porte del ministero degli Interni sono aperte alla famiglia Cucchi e a 60 milioni di italiani per bene. Se qualcuno invece preferisce fare polemiche e attaccare un ministro e centinaia di agenti sono sue scelte". Le sue parole sono sembrate rivolte alla sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, che ha chiesto ripetutamente a Salvini di scusarsi per la morte del fratello Stefano. Il ministro dell'Interno ha aggiunto: "Ho invitato famiglia e i parenti di Stefano Cucchi al ministero, non coprirò nessuno. Purtroppo chi è morto non torna più indietro. Nel mio Paese chi sbaglia paga, chi è in divisa paga doppio. Non voglio però sentire parlare di carabinieri e poliziotti come sbirri e delinquenti o torturatori". (agg. di Dario D'Angelo)

STEFANO CUCCHI, ALTRI TRE CARABINIERI INDAGATI. Quella sulla morte di Stefano Cucchi si configura sempre di più come un'inchiesta interna caratterizzata da falle e depistaggi. Questo è ciò che emerge dopo la svolta rappresentata dalle dichiarazioni dell'ex carabiniere Francesco Tedesco, che ha chiamato in causa i colleghi e coimputati, Alessio Di Bernardo e Roberto D'Alessandro per il pestaggio del 31enne morto al Pertini di Roma dopo l'arresto 9 anni fa. Come riportato da Il Messaggero, infatti, Tedesco al pm Giovanni Musarò ha raccontato di avere informato il suo superiore, Roberto Mandolini (a processo per falso e calunnia) e redatto una nota di servizio (sparita dalla stazione Appia) rispetto al trattamento riservato a Stefano Cucchi la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Nel nuovo fascicolo per falso e distruzione di documenti riguardante i vari episodi di depistaggio che pochi mesi dopo la morte di Cucchi portò le indagini della magistratura ad escludere i carabinieri a dispetto degli agenti della penitenziaria, oltre a Francesco Di Sano, della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi trascorse la prima notte dopo l'arresto, come riportato da Il Messaggero risultano indagate altre due persone: si tratta del comandante Massimiliano Colombo e di un terzo non graduato di un'altra stazione.

STEFANO CUCCHI, I DEPISTAGGI NELL'INCHIESTA INTERNA. Obiettivo degli inquirenti coordinati dal pm Musarò è capire se e chi abbia concordato di far modificare la relazione di servizio dell'appuntato Di Sano, che aveva montato di guardia la notte, mentre Cucchi era nella cella di sicurezza. Come ricostruito da Il Messaggero, agli atti vi sono due versioni di quel documento, ma nella seconda sono stati fatti sparire i riferimenti ai dolori che lamentava Cucchi: si tratterebbe dunque di un falso collegato alla sparizione della relazione in cui Tedesco parlava dei fatti accaduti. Come reso noto dall'avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, e riportato da TgCom24, per cercare di squarciare il velo di omertà rispetto a quanto successo la notte dell'arresto di Stefano Cucchi "sarà ascoltato in aula entro gennaio su nostra richiesta" il generale Vittorio Tomasone. Si tratta dell'attuale comandante Interregionale di Napoli, comandante provinciale dei carabinieri di Roma all'epoca dei fatti. 

Cucchi, altri due indagati. Ilaria: Salvini si scuserà? Si allarga l’inchiesta sui carabinieri, per il pestaggio e il depistaggio, scrive il 13 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Abbattuto il muro ora si prova a fare luce fino in fondo sulla vicenda di Stefano Cucchi. E così tra gli indagati nel nuovo filone di indagini finiscono per il momento altri due carabinieri. Mentre Ilaria Cucchi, ai microfoni di Rtl 102.5 durante Non Stop News, all’invito di Salvini replica: «Il giorno in cui il ministro dell’Interno chiederà scusa a me, alla mia famiglia e a Stefano allora potrò pensare di andare al Viminale, prima di allora non credo proprio». Sugli sviluppi della vicenda la sorella della vittima ha poi detto: «Apprendo che il carabiniere Tedesco denunciò fin da subito quello di cui era a conoscenza. Lui fece una chiara denuncia scritta, che sembra poi essere sparita. Se mi si chiede per quale motivo questa persona parla dopo 9 anni, chiaramente io non posso giustificarlo ma posso comprenderlo: vedo quello che sta subendo il suo collega Riccardo Casamassima, un altro carabiniere che ha denunciato ciò di cui era a conoscenza, che ha contribuito al fatto che si riaprissero le indagini, quelle vere, sulla morte di mio fratello e che adesso viene penalizzato dai suoi superiori». Intanto la prossima settimana in Procura sarà sentito il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, dove venne portato Stefano Cucchi dopo l’arresto per droga e il pestaggio che avrebbe subito alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Colombo, indagato per falso ideologico e perquisito nei giorni scorsi, viene sentito dopo essere stato tirato in ballo indirettamente da Francesco Di Sano, carabiniere scelto della caserma di Tor Sapienza. Nella testimonianza resa in Corte d’assise il 17 aprile scorso nel processo principale a cinque militari dell’Arma che rispondono di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, a proposito delle due false annotazioni di servizio sullo stato di salute del geometra 31enne (morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini) Di Sano ha ammesso di aver dovuto ritoccare il verbale senza precisare da chi gli fu sollecitata la modifica. «Certo il nostro primo rapporto è con il comandante della stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico», ha spiegato quel giorno in aula Di Sano che poi è stato iscritto sul registro degli indagati per falso. E in quella stessa udienza anche il piantone Gianluca Colicchio, che subentrò a Di Sano nella custodia di Cucchi, ha parlato di anomalie in una relazione di servizio («è strana, porta la mia firma ma io non la ricordo e contiene termini che io non uso»). Dalle parole di Colombo potrebbe dipendere il destino degli ufficiali più alti in grado che all’epoca acquisirono informazioni sul caso Cucchi senza adottare poi alcun provvedimento. Dall’istruttoria dibattimentale, infatti, è già emerso che i vertici dell’Arma erano a conoscenza del pestaggio subito da Cucchi ben prima che il caso finisse all’attenzione della magistratura e della stampa. Chi indaga vuole capire se gli stessi vertici si siano adoperati in qualche modo per far sì che della vicenda venisse veicolata una versione soft nelle varie informative destinate all’autorità giudiziaria. Sulla vicenda Cucchi il Comitato europeo per la Prevenzione della tortura, del quale la dirigente radicale Elisabetta Zamparutti è membro, nel suo rapporto integrativo sulla visita ad hoc in Italia del 2010 era giunto a conclusioni preliminari molto simili (se non identiche) a quelle che si stanno delineando. Dopo aver infatti descritto tutta la vicenda, il Cpt osserva che «nell’indagine conclusasi nell’aprile 2010, l’ufficio del procuratore ha prestato più attenzione alle responsabilità del personale penitenziario presso la corte di Roma e a quello medico dell’Ospedale Sandro Pertini. Al termine dell’indagine, si è escluso qualsiasi coinvolgimento dei Carabinieri nel maltrattamento a cui è stato sottoposto il detenuto deceduto. Tuttavia, alcuni elementi del fascicolo giudiziario indicano un possibile coinvolgimento dei Carabinieri: in particolare la versione fornita dai Carabinieri delle condizioni fisiche del detenuto, nello specifico circa la sua capacità di muoversi». Proprio per questo, il Comitato europeo per la Prevenzione concludeva chiedendo al governo italiano di essere «informato sulle ragioni per cui nel corso delle indagini si è lasciata cadere l’ipotesi che il maltrattamento potesse essere stato inflitto prima che il detenuto arrivasse alla corte». E alla domanda se il governo italiano, dal 2010 ad oggi, ha mai dato seguito alla richiesta di chiarimenti da parte del Cpt in merito alla vicenda, Elisabetta Zamparutti ha risposto di no.

Cucchi, Conte: "Chiederò sempre scusa per agenti che si comportano male". Il premier: "Chi ha sbagliato dovrà pagare, dobbiamo accertare le responsabilità individuali. Salvini: "Chiunque venga arrestato deve essere processato secondo la legge". "E alla sorella di Stefano, replica così: "Le porte del Viminale sono aperte", scrive "La Repubblica" il 13 ottobre 2018. "Ogni volta che un pubblico ufficiale, che rappresenta lo Stato, si comporterà male e anziché proteggere un cittadino verrà meno ai suoi doveri io chiederò scusa a nome dello Stato". Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, commenta gli sviluppi del caso Cucchi, dopo la testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco: "Chi ha sbagliato dovrà pagare - ha aggiunto il premier, parlando a Bologna - perché ovviamente indossava la divisa dello Stato e rappresentava lo Stato, quindi la cosa è ancora più grave", ha detto. "Dobbiamo accertare le responsabilità individuali, non possiamo scaricare le responsabilità sull'intero corpo dei carabinieri e delle forze dell'ordine in generale, che tutti i giorni si impegnano per tutelare le nostre vite, la nostra incolumità, la nostra sicurezza". Del caso Cucchi è tornato a parlare anche Salvini: "Chiunque venga arrestato deve essere processato rispettando la legge e non con altre maniere". Così il vicepremier parlando ad Ala, in Trentino, dov'è impegnato in un tour elettorale per il candidato leghista a governatore, Maurizio Fugatti. "Le porte del ministero degli Interni - ha aggiunto Salvini - sono aperte alla famiglia Cucchi e a 60 milioni di italiani per bene. Se qualcuno invece preferisce fare polemiche e attaccare un ministro e centinaia di agenti sono sue scelte". Il ministro dell'Interno replica così alla sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che aveva affermato ieri: "Incontreremo il ministro solo se prima chiederà scusa", riferendosi alla testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco che ammetteva il pestaggio di Cucchi, nove anni fa, da parte dei colleghi dell'Arma. "Sono ministro da quattro mesi e non posso rispondere di ciò che è accaduto anni fa. Se qualcuno in divisa sbaglia -  ha invece Salvini detto in un'intervista all'Unione Sarda - paga come e più degli altri perché ruba la fiducia anche ai cittadini. Non condivido però la criminalizzazione di tantissimi uomini delle forze dell'ordine, chiamati assassini, sbirri e delinquenti. Se lo Stato ha sbagliato chiederà scusa nei fatti punendo i colpevoli e risarcendo i colpiti".

“Ilaria Cucchi mi fa schifo” diceva Salvini. Ma il vicepremier nega: polemiche. Salvini, in una lettera a La Stampa, ha fornito la sua versione in merito alle frasi che lo scorso gennaio aveva rivolto ad Ilaria Cucchi, scrive il 14 Ottobre 2018 TPI. Dopo la svolta nel caso Cucchi, con il carabiniere Francesco Tedesco che ha accusato due suoi colleghi, anch’essi imputati, del pestaggio, sono stati in molti a ricordare al ministro dell’Interno le sue discutibili affermazioni. Tra questi, anche il giornalista della Stampa Mattia Feltri, a cui lo stesso Salvini ha risposto in una lettera pubblicata sabato 13 ottobre sul quotidiano torinese. “Caro direttore – scrive Salvini – mi ha sorpreso e indignato aver letto nell’articolo di ieri a firma Mattia Feltri che avrei detto ‘mi fa schifo’ riferendomi a Ilaria Cucchi. Non è così!” “In un’intervista a La Zanzara avevo espresso quel giudizio a proposito di un post della sorella di Stefano, post che la stessa Ilaria aveva poi deciso di rimuovere ammettendo di aver sbagliato”, prosegue il vicepremier. “Ieri ho spiegato, parlato alle agenzie, diffuso post e registrazioni dell’epoca. Tutto inutile: Mattia Feltri non se ne è accorto e non ha voluto verificare un’affermazione così grave. Confermo, direttore, che aspetto Ilaria e la famiglia Cucchi al Viminale. Cordialità”, conclude il ministro dell’Interno. La polemica tra Salvini e Ilaria Cucchi ebbe inizio quando la sorella del geometra romano decise di ripostare sui social una foto di Francesco Tedesco in costume da bagno. La foto era stata pubblicata sul profilo Facebook del carabiniere. “Volevo farmi del male – scriveva la sorella di Stefano Cucchi – volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene”. In quell’occasione l’allora segretario della Lega Nord Matteo Salvini aveva commentato: “Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. È un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi”. “La sorella di Cucchi –diceva Salvini a La Zanzara su Radio 24 – si deve vergognare. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico, erano intellettuali sdegnati contro un commissario di polizia che poi fu assassinato. I carabinieri possono tranquillamente mettere una foto in costume da bagno sulla pagina di Facebook. O un carabiniere non può andare al mare? E’ assolutamente vergognoso. I legali fanno bene a querelare la signora e lei dovrebbe chiedere scusa”. “Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri – aggiungeva ancora il leader della Lega – Se l’un per cento sbaglia deve pagare, anche il doppio. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo”.

Svolta nel processo del caso Cucchi. Ilaria Cucchi dopo la svolta nel processo dell’11 ottobre ha commentato la notizia su Facebook: “Ci chieda scusa chi ci ha offesi in tutti questi anni. Ci chieda scusa chi in tutti questi anni ha affermato che Stefano è morto di suo, che era caduto. Ci chieda scusa chi ci ha denunciato”, ha scritto. “Sto leggendo con le lacrime agli occhi quello che hanno fatto a mio fratello. Non so dire altro. Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare. Lo Stato deve chiederci scusa. Deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi”.

Su Facebook Riccardo Casamassima, il carabiniere che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta sul caso, ha scritto un post, poi cancellato: “Immensa soddisfazione, la famiglia Cucchi ne aveva diritto. Mi è venuta la pelle d’oca nell’apprendere la notizia. Tutti i dubbi sono stati tolti. Signora Ministro io sono un vero carabiniere. L’Italia intera ora aspetta i provvedimenti che prenderà sulla base di quello che è stato detto durante l’incontro. Sempre a testa alta. Bravo Francesco, da quest’oggi ti sei ripreso la tua dignità”. Su Twitter è intervenuto anche Alessandro Borghi, l’attore che ha interpretato proprio Stefano Cucchi nel film “Sulla mia pelle”. “La giustizia è lenta ma ariva pe tutti”, ha scritto Borghi.

Le ultime dichiarazione di Matteo Salvini sul caso Cucchi. Il vicepremier ha commentato la svolta nel processo sulla morte di Stefano Cucchi: “Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell’ordine”. Salvini: “Mai detto mi fa schifo a Ilaria Cucchi”. Feltri: ministro si indigni per l’omertà”, scrive il 13/10/2018 "La Stampa". La lettera del vice premier in risposta a un articolo: mi ha sorpreso e indignato aver letto - nell’articolo di ieri a firma Mattia Feltri - che avrei detto “mi fa schifo” riferendomi a Ilaria Cucchi. Non è così! In un’intervista a La Zanzara avevo espresso quel giudizio a proposito di un post della sorella di Stefano, post che la stessa Ilaria aveva poi deciso di rimuovere ammettendo di aver sbagliato. Ieri ho spiegato, parlato alle agenzie, diffuso post e registrazioni dell’epoca. Tutto inutile: Mattia Feltri non se ne è accorto e non ha voluto verificare un’affermazione così grave. Confermo, direttore, che aspetto Ilaria e la famiglia Cucchi al Viminale. Cordialità Matteo Salvini.

Signor ministro, lei disse: «Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello ma mi fa schifo. È un post che fa schifo». La precisazione non supera l’ambiguità e la violenza delle sue parole, ma un ministro va creduto e dunque mi scuso. Lei aggiunse che il carabiniere faceva bene a querelare, e Ilaria doveva vergognarsi e scusarsi. Qui pare che tutti dobbiamo chiedere scusa, tranne qualcuno. In quell’occasione Ilaria accusava un carabiniere ed è lo stesso carabiniere che, dopo nove anni di silenzio, giovedì finalmente ha parlato. Un po’ dell’indignazione che mi riserva, signor ministro, valuti se conservarla per altri, quando avrà capito perché già allora Ilaria sapeva, mentre buona parte delle istituzioni fischiettava. Mattia Feltri 

Caso Cucchi, Giovanardi: “Chiedere scusa per cosa? Stefano è morto per la droga”. L'ex senatore ha parlato ai microfoni del programma "La Zanzara" dopo le ultime rivelazioni del carabiniere Tedesco sul pestaggio di Stefano Cucchi, scrive il 14 Ottobre 2018 TPI. Fanno discutere le parole pronunciate dall’ex senatore Carlo Giovanardi ai microfoni del programma radiofonico “La Zanzara” sulle nuove rivelazioni del caso Cucchi, che hanno visto il carabiniere Francesco Tedesco accusare i suoi colleghi del pestaggio del giovane romano. (Qui la ricostruzione dell’intera vicenda). “Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi, perché dovrei farlo? La prima causa di morte di Stefano Cucchi è stata la droga”, ha detto Carlo Giovanardi. Non è la prima volta che l’ex senatore rivolge parole dure contro la famiglia di Stefano Cucchi e mette in dubbio che esista qualsiasi responsabilità a carico dei carabinieri della stazione Appia di Roma. “Vedremo nel corso del processo se le botte dei carabinieri sono state causa della morte. Di cosa devo chiedere scusa? Non mi vergogno di nulla, le perizie hanno sempre escluso la morte per percosse, prendetevela con loro”, continua Giovanardi nel corso della trasmissione. “Bisogna chiedere scusa alle guardie penitenziarie assolte dopo 6 anni di calvario”, ha invece suggerito l’ex esponente di Forza Italia. “Dissi che le guardie carcerarie erano vittime come Cucchi. Tutte le perizie dicono che la prima causa di morte di Cucchi è stata la droga. Volevano intitolargli una strada, ma non è un benemerito del paese e prima di condannare i carabinieri facciamo finire i processi, poi eventualmente paghino”. Sempre a “La Zanzara”, Giovanardi disse nel 2016: “Ilaria Cucchi dice che il decesso del fratello Stefano è stato causato dalle fratture? Davanti a 20 periti e 4 dei più grandi luminari che si sono pronunciati non credo certo agli asini che volano”. L’11 ottobre la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, ha invece affermato di attendere le scuse del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che sempre a “La Zanzara” aveva detto che si doveva “vergognare”. La polemica era nata dopo che la sorella di Cucchi aveva pubblicato sui social una foto di Francesco Tedesco, il carabiniere che l’11 ottobre ha accusato i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Bernardo di essere gli autori dell’aggressione a Stefano Cucchi, in costume da bagno. “Volevo farmi del male – scriveva la sorella di Stefano Cucchi – volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene”. In quell’occasione l’allora segretario della Lega Nord Matteo Salvini aveva commentato: “Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. È un post che mi fa schifo”.

Cucchi, gli insulti e i dubbi dei politici: da Tonelli a Salvini. Ilaria: “Si scusino”. Ministro non lo fa ma la invita al Viminale. "Le ecchimosi? Sono dovute alla mancanza di nutrizione". "Non c'entrano niente le botte". "Mi sembra difficile pensare che ci siano stati carabinieri che abbiano pestato Cucchi per il gusto di pestare". "La sorella dice che è morto per le fratture? Non credo agli asini che volano". "Tra spacciatori e carabinieri, scelgo i carabinieri". Nove anni, un fiume di parole tese da un lato a rimarcare la tossicodipendenza di Stefano Cucchi e dall'altro ad annacquare i dubbi sulla correttezza dei carabinieri che arrestarono il geometra romano il 15 ottobre 2009. Così ora Ilaria Cucchi dice: "Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare", scrive il Fatto Quotidiano l'11 ottobre 2018. “Le ecchimosi? Sono dovute alla mancanza di nutrizione”. “Non c’entrano niente le botte”. “Mi sembra difficile pensare che ci siano stati carabinieri che abbiano pestato Cucchi per il gusto di pestare”. “La sorella dice che è morto per le fratture? Non credo agli asini che volano”. “Tra spacciatori e carabinieri, scelgo i carabinieri”. Nove anni, un fiume di parole tese da un lato a rimarcare la tossicodipendenza di Stefano Cucchi e dall’altro ad annacquare i dubbi sulla correttezza dei carabinieri che arrestarono il geometra romano il 15 ottobre 2009. E poi attacchi alla famiglia e in particolare alla sorella Ilaria che invece da sempre sostengono che il giovane venne picchiato durante la sua permanenza in caserma e che anche a questo sia dovuta la seguente morte del geometra romano. Tanti i protagonisti, da Carlo Giovanardi a Maurizio Gasparri fino all’attuale ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e a Gianni Tonelli, l’ex segretario del Sap che proprio la Lega ha voluto portare in Parlamento.

Ilaria Cucchi: “Chi ha fatto carriera politica con le offese si vergogni”. Così dopo la svolta nel processo grazie alle rivelazioni di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri imputati per il pestaggio del 31enne, Ilaria Cucchi è stata chiarissima: “Ci chieda scusa chi ci ha offesi in tutti questi anni. Ci chieda scusa chi in tutti questi anni ha affermato che Stefano è morto di suo, che era caduto. Ci chieda scusa chi ci ha denunciato. Sto leggendo con le lacrime agli occhi quello che hanno fatto a mio fratello. Non so dire altro. Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare”.

Salvini: “Vengano al Viminale”. Ma gli era difficile pensare al pestaggio. Dopo pochi minuti, il capo del Viminale è intervenuto sulle novità. Non si è scusato, ma ha invitato la famiglia nella sede del suo ministero: “Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell’ordine”, ha scritto Salvini. “Saremo lieti di andare da lui, insieme anche all’avvocato Anselmo”, ha risposto Ilaria Cucchi che con il leader della Lega ebbe uno scontro molto duro quando postò su Facebook la foto proprio di Tedesco in costume da bagno. “Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma è un post che fa schifo”, disse Salvini a La Zanzara su Radio 24. “Mi sembra difficile pensare che in questo, come in altri casi, ci siano stati poliziotti e carabinieri che abbiano pestato Cucchi per il gusto di pestare – aggiunse – Se così fosse, chi l’ha fatto, dovrebbe pagare. Ma bisogna aspettare la sentenza, anche se della giustizia italiana onestamente non ho molta fiducia. Comunque, onore ai carabinieri e alla polizia”.

Giovanardi: “Ecchimosi? Le botte non c’entrano”. Dopo una delle sentenze dei sette processi fino istruiti sulla morte di Cucchi, Giovanardi, allora senatore del Pdl, riguardo alle ecchimosi sul corpo del geometra escluse categoricamente che potessero essere frutto di un pestaggio. “Sono dovute alla mancanza di nutrizione, non c’entrano niente le botte, né quei tre poveri cristi degli agenti di custodia, che prendono 1200 euro al mese e hanno vissuto quattro anni d’inferno”. Il “povero” Cucchi, aggiunse, “aveva una vita sfortunata, segnata dall’uso di stupefacenti e dal fatto di essere uno spacciatore” per poi osservare che “ha avuto sedici ricoveri al pronto soccorso” per “percosse risalenti agli anni precedenti, ma non c’entravano niente polizia e carabinieri”. Poi se la prese anche con Luigi Manconi: “I processi a cosa servono? Gli agenti devono essere colpevoli solo perché lo vuole il circo mediatico e Manconi?”. "Stefano Cucchi? Morto di inedia. Fratture e lesioni erano pregresse". Le dichiarazioni di Giovanardi, Salvini, sindacati di polizia dal 2013 sul video di Gisella Ruccia.

La profezia del senatore: “Omicidio cadrà totalmente in fase processuale”. È solo una delle uscite di Giovanardi negli ultimi 9 anni. Il 5 ottobre 2016 affermò che “le fratture e le lesioni di cui stiamo parlando risalgono a quei traumi pregressi. Quelli di cui si parla oggi, la L3, è la vecchia lesione già diagnosticata da tutti i periti in tutti i processi”. La tossicodipendenza di vecchia data, ribadì, “può aver svolto un ruolo causale”. Insomma, secondo il senatore, “se Cucchi avesse condotto una vita sana, se non si fosse drogato, se non fosse entrato in un tunnel che poi l’ha portato agli arresti, non sarebbe successo”. E poi rispose alla sorella Ilaria sulla questione proprio delle fratture e il loro ruolo nel decesso: “Dice che il decesso del fratello Stefano è stato causato dalle fratture? Davanti a 20 periti e a 4 dei più grandi luminari italiani che si sono pronunciati, non credo certo agli asini che volano”. Infine, ancora nel 2017, Giovanardi sostenne “che la strada dell’omicidio preterintenzionale”, accusa con la quale sono imputati 3 carabinieri, “cadrà totalmente nella fase processuale. Tutte le perizie hanno escluso che ci sia qualsiasi tipo di relazione con le botte ricevute”.

Il sindacalista e leghista Tonelli (poi condannato per diffamazione). Posizioni, quelle di Giovanardi, che in qualche modo ha sposato negli anni scorsi anche Gianni Tonelli, già segretario del Sindacato autonomo di polizia e ora deputato della Lega: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”, aveva detto dopo l’assoluzione in secondo grado per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria (definitivamente assolti) imputati per la morte del trentenne romano. Per le sue dichiarazioni, lo scorso 11 aprile, il tribunale di Bologna gli ha inflitto 500 euro di multa per la diffamazione nei confronti della sorella e dei genitori di Cucchi. Il deputato del Carroccio, all’epoca, precisò che si sarebbe opposto al decreto penale di condanna: “Una battaglia di verità”, disse. Che la testimonianza di Tedesco, ora, rischia di rendere più difficile.

Gasparri: “Se lo avessero aiutato con la droga, sarebbe ancora vivo”. Nel 2015 e poi anche l’anno successivo, il senatore Maurizio Gasparri si espresse così, mettendo al centro i problemi con la droga di Cucchi: “Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? – si chiedeva su Twitter – Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell’attenzione di oggi, sarebbe ancora vivo”. Un riferimento, pur senza citarla esplicitamente, alla famiglia del giovane. Adesso, arriva la ricostruzione di Tedesco nel corso di tre interrogatori davanti al pm Giovanni Musarò in attesa delle conferme nel processo. C’è poi la teoria, mai esplorata dai pubblici ministeri, esposta a Un giorno da pecora da Roberto Formigoni: “Stefano Cucchi morto in mano allo Stato? Non credo che la vicenda possa esser ricostruita in questi termini. Lui è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”.

 “C… vuole quella befana della sorella di Cucchi?”: frase choc dell’ex assessore Edoardo Usai. Frase terribile pronunciata non da un normale cittadino al bancone del bar, ma pubblicata online dall'ex consigliere regionale e assessore alla pubblica Istruzione del Comune di Cagliari Edoardo Usai, scrive il 13 ottobre 2018 Vistanet. «Posto che: lo spacciatore Cucchi è stato ucciso da due carabinieri (al processo si vedrà), posto che la sorella ha cercato, invano, di essere eletta deputato comunista, posto anche, e di più, che la sorella e la famiglia hanno avuto un risarcimento di un milione e quattrocentomila euro, cazzo vuole più quella befana della sorella????». Dichiarazioni forti queste pronunciate non da un comune cittadino in un bar di piazza Yenne, ma scritte e condivise pubblicamente su Facebook dall’ex consigliere regionale ed assessore all’Istruzione del Comune di Cagliari Edoardo Usai. Usai, protagonista di quello che definire uno “scivolone” appare oltremodo riduttivo, è un militante storico di Alleanza Nazionale, partito di cui è stato anche segretario regionale ed ha esercitato la professione di avvocato a Cagliari. Tanti i commenti di disappunto e le segnalazioni per una frase che non onora di certo la memoria di Stefano Cucchi. Proprio in questi giorni un carabiniere che lo aveva avuto in custodia durante l’arresto avvenuto nel 2009 ha denunciato due colleghi per avere pestato il giovane finito in manette. 

Desirée, la Lucarelli va all'attacco: "Su lei e Cucchi doppia morale degli italiani". La Lucarelli attacca: "Quindi Cucchi era un tossico di merda e Desirée un angelo volato via". Poi accusa: "Italiani con la doppia morale", scrive Giovanni Neve, Giovedì 25/10/2018, su "Il Giornale". Nel giorno in cui vengono arrestati le tre bestie, che hanno drogato, stuprato e infine ammazzato Desirée Mariottini, Selvaggia Lucarelli posta su Facebook un commento che sta letteralmente indignando molti follower. Secondo la giornalista gli italiani avrebbero dimostrato una doppia morale nel commentare il caso di Stefano Cucchi, il ragazzo massacrato di botte in carcere, e la 16enne di Cisterna di Latina. "Che paragoni fai - commenta una lettrice - mi fa specie che sei una mamma... aveva solo 16anni solo... 16 anni, una bimba. Vergognati!". Il commento della Lucarelli è durissimo. E chiama in causa tutti gli italiani. Li accusa apertamente di avere una doppia morale paragonando il caso di Desirée e quello di Cucchi. "Quindi Cucchi che spacciava e si drogava vittima delle forze dell’ordine italiane era un tossico di merda - scrive su Facebook - Desirée che era stata denunciata per spaccio e si drogava vittima di stranieri era un angelo volato in cielo. La doppia morale di tanti italiani". Un paragone che scatena immediatamente l'indignazione del social network. "Ah - commenta uno dei suoi follower - non sapevo che cucchi fosse stato drogato, stuprato e poi massacrato a coltellate". "Il tuo commento è privo di umanità per questa ragazza - fa eco un altro - forse sei una maglietta rossa anche tu, ma di fronte alla morte forse ci si dovrebbe dimenticare della fede politica". E ancora: "Giustizia è stata fatta per Cucchi e si spera sia fatta anche per Desirée... Ovvio che immigrati clandestini la rabbia è doppia. Non fare paragoni solo per stuzzicare la gente". Tra i commenti c'è, però, chi dà ragione alla Lucarelli. "La povera Desirée ha trovato la morte là dove era davvero rischioso andarci - scrive un suo sostenitore - mentre Stefano là dove doveva essere solo protetto per scontare le sue colpe". "In questo post non si dà più importanza ad una morte rispetto all'altra - fa eco un'altra follower - in questo post si cerca di far capire proprio il contrario e cioè che non esistono morti di serie a e quelli di serie b".

"Desirée angelo e Cucchi tossico di m...?", l'affondo della Lucarelli, scrive il 25/10/2018 Adnkronos. "Quindi Cucchi che spacciava e si drogava vittima delle forze dell'ordine italiane era un tossico di merda, Desirée che era stata denunciata per spaccio e si drogava vittima di stranieri era un angelo volato in cielo. La doppia morale di tanti italiani". E' quanto lamenta via social Selvaggia Lucarelli, aprendo un dibattito in rete sui due casi di cronaca della Capitale al momento al centro dell'attenzione mediatica. Il primo è quello di Desirée Mariottini, la 16enne trovata morta nella notte tra giovedì e venerdì scorsi dopo essere stata drogata e stuprata in uno stabile abbandonato a San Lorenzo. Il secondo, meno recente, è quello di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato per possesso di droga, tornato sotto i riflettori con la recente svolta nel processo sulla sua morte. Due storie diverse ma entrambe riguardanti giovani vittime, il cui confronto ha dato il via ad una serie di botta e risposta sul web tra la giornalista e alcuni utenti delle rete in disaccordo con le sue dichiarazioni contro "la doppia morale di tanti italiani". "Che paragoni fai... - attacca un utente - Mi fa specie che sei una mamma.... 16 anni solo, 16 anni una bimba.... Vergognati!!!!". "E perché, Cucchi non aveva una mamma? A 30 anni un figlio smette di essere figlio? Vergognati tu", ribatte Lucarelli. "16 anni - ribadisce un altro utente - Quindi sì era un angelo. A prescindere fosse tossicodipendente a prescindere spacciatrice". "Anche Erika e Omar avevano 16 anni", osserva la blogger stizzita. E ancora, "ah non sapevo che Cucchi fosse stato drogato, stuprato e poi massacrato a coltellate", commenta qualcuno ironico. "C'è una speciale classifica di chi muore peggio? Droga e stupro vs pestaggio e abbandono in ospedale? Apriamo il televoto?", chiede Lucarelli polemica. "È vero - si legge in un tweet - ma una minorenne è comunque più vulnerabile e per questo va tutelata...". Commento cui è seguita ancora una volta la replica della blogger: "E perché, un maggiorenne in mano alle forze dell'ordine non va tutelato?". Infine, a chi sostiene che Desirée "l'hanno resa incosciente, stuprata in gruppo e uccisa a 16 anni" sottolineando che "nel parlare di lei non guasterebbe un po' di delicatezza" Lucarelli ribatte senza giri di parole: "L'hanno massacrato di botte e lasciato morire in un ospedale. Facciamo che la delicatezza la riserviamo a entrambi eh".

Caso Cucchi, il ministro M5s Barbara Lezzi chiede scusa alla famiglia. Intervistata stamattina in radio, il ministro Lezzi ha chiarito che "le scuse di Salvini attengono a Salvini" ma si è scusata con la famiglia Cucchi, scrive Ivan Francese, Venerdì 12/10/2018, su "Il Giornale". Alla fine le scuse del governo per la famiglia Cucchi sono arrivate. Non da Matteo Salvini ma dal ministro per il Sud Barbara Lezzi, del MoVimento 5 Stelle. Intervistata questa mattina da Massimo Giannini ai microfoni di Circo Massimo su Radio Capital, l'esponente grillina è stata interpellata sugli ultimi sviluppi del caso del giovane romano morto nel 2009 mentre si trovava nelle mani dello Stato. Inevitabile la domanda sulla posizione del governo. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che in passato infatti aveva espresso posizioni molto critiche nei confronti della famiglia Cucchi, ieri ha invitato i parenti al Viminale. La sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, ha però replicato che farà visita al ministro dell'Interno solo dopo che la sua famiglia ne riceverà le scuse pubbliche e ufficiali. Scuse che per il momento non sono ancora arrivate, a differenza di quanto avvenuto con il ministro Lezzi. "Le scuse di Salvini? Attengono a Salvini - chiarisce la titolare del dicastero per il Sud - Io come membro del governo chiedo scusa per tutti questi anni di attesa. Quello che è successo alla famiglia Cucchi è atroce, questa orribile vicenda getta un'ombra terribile sul nostro Paese. Mi auguro che l'Arma dei carabinieri possa risollevarsi ma questo potrà accadere una volta che siano accertate tutte le responsabilità e che i colpevoli siano stati puniti. Ringrazio Ilaria e la sua caparbietà e determinazione".

Il sindaco Vittorio Sgarbi intitolerà una via al trentunenne romano morto il 22 ottobre 2009. “Una strada dedicata a Stefano Cucchi martirizzato nove anni fa”, scrive tusciaweb.eu il 13 ottobre 2018. Sutri – Riceviamo e pubblichiamo – In ordine alla violenza subita da Stefano Cucchi nelle condizioni di molti giovani inquieti del nostro tempo ritengo che nella vasta impresa di denominazione di strade, come richiamo ai cittadini di Sutri come dell’Italia, sia un monito importante l’intitolazione di una strada a Stefano Cucchi, essendo stato martirizzato nove anni fa, il 22 ottobre 2009. Mancando un anno ai dieci necessari secondo la legge per la titolazione di una strada, chiederemo al prefetto di Viterbo la deroga per poterlo fare entro quest’anno. In ogni caso il 22 ottobre 2019 tale atto potrebbe essere dopo l’annuncio, compiuto in termini di legge.

Stefano Cucchi, Ilaria denuncia: “Insulti, minacce e auguri di morte da profili di simpatizzanti della Lega”. Recapitata all’abitazione dei genitori a Roma una lettera anonima scritta a mano con insulti: "Dovreste essere voi, e non Salvini, a scusarvi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga. Mi spiace abbia pagato con la vita, ma se l’è cercata", scrive il Fatto Quotidiano il 20 ottobre 2018. L’onda lunga delle dichiarazioni di Francesco Tedesco, il carabiniere imputato nel processo per la morte di Stefano Cucchi che ha accusato due colleghi del pestaggio, non si ferma e continua a generare reazioni e polemiche. “Stiamo ricevendo una serie impressionante di insulti, minacce ed auguri di morte da profili di simpatizzanti della Lega, che è partito di governo, e da (mi auguro) sedicenti appartenenti a polizia e carabinieri. Confesso che ho paura, per me, per la mia famiglia e per Fabio (Anselmo, il legale della famiglia Cucchi – ndr) poiché – scrive Ilaria Cucchi in un post su Facebook – nessuno persegue queste persone ma pare ci si debba preoccupare solo di Casamassima, Rosati e Tedesco. Io e Fabio non sappiamo più cosa pensare”. La sorella del geometra, arrestato per droga dai carabinieri e morto dopo una settimana all’ospedale Pertini, Stefano, affida a Facebook le sue riflessioni dopo le giornate tese e le polemiche seguite alle dichiarazioni del carabiniere che ha raccontato come il 31enne fu colpito più volte dai colleghi. La donna, che da anni si batte per conoscere la verità sulla fine di Stefano, al post ha allegato profilo di una delle persone dalle quali dice di aver ricevuto minacce e che, da quanto si legge, lavorerebbe “presso la Polizia di Stato”. Il condizionale è d’obbligo perché sul profilo scarno, attivato solo un mese fa, alla voce lavoro compare la scritta “libero professionista”.  “Spero che ti facciano fare la stessa f…” l’augurio rivolto dall’account in questione. Oltre ad una serie di post segnalati dalla Cucchi, ieri è stata recapitata all’abitazione dei genitori a Roma una lettera anonima scritta a mano con insulti: “Dovreste essere voi, e non Salvini, a scusarvi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga. Mi spiace abbia pagato con la vita, ma se l’è cercata”, si legge in un parte del testo della missiva, indirizzata a Giovanni Cucchi, il padre di Stefano. Subito dopo le rivelazione dei verbali di Tedesco si era innescata una nuova polemica con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che in passato aveva pesantemente criticato un post della Cucchi. Il responsabile del Viminale – che in molte occasioni aveva dichiarato che gli era difficile pensare a un pestaggio – aveva invitato la famiglia Cucchi ad andare al ministero, ma Ilaria – memore delle parole del leader leghista sul caso del fratello – aveva respinto l’offerta in attesa delle scuse. Nei giorni scorsi Ilaria Cucchi era stata a colloquio con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta e con il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri. Ma a ventiquattro ore dal faccia a faccia aveva dichiarato: “Dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo”. Riccardo Casamassima e la moglie, Maria Rosati, sono i due carabinieri che con le loro dichiarazioni hanno permesso la riapertura del processo. Davanti ai giudici avevano raccontato di avere subito conseguenze sul lavoro per avere parlato del pestaggio di Cucchi. Vicende che Casamassima ha ripercorso in un’intervista al fattoquotidiano.it. Francesco Tedesco, invece, è uno degli imputati del procedimento in corso: dopo aver accusato del pestaggio di Cucchi i coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro si è trasformato in un testimone chiave. Contro cui si è scagliata la difesa di un altro imputato nel processo.

Ladispoli, “piazza Cucchi, spacciatore”: clamorosa gaffe social di Ardita e Pittoritto, scrive giovedì, 18 ottobre 2018 Terzobinario. Il consigliere comunale di Ladispoli appartenente al gruppo Fratelli D’Italia Giovanni Ardita e l’ex candidata sindaco a Cerveteri Candida Pittoritto, esponente del Msi, sono stati protagonisti di una gaffe social: sul profilo Facebook Ardita ha pubblicato l’immagine di un’iscrizione stradale con sù scritto “piazza Stefano Cucchi – spacciatore “, sul modello di quelle che si sono viste per Carlo Giuliani. Una battuta vista da molti con una uscita di pessimo gusto e offensiva nei confronti della morte di un ragazzo deceduto durante un interrogatorio. La Pittoritto ha apposto un like alla condivisione del collega ladispolano, approvandone l’uscita e condividendone la gaffe.

Gaffe social su Cucchi, la Pittoritto ribadisce: “Speculazione su uno spacciatore, mentre su Almirante si alza il polverone”, scrive giovedì, 18 ottobre 2018 Terzobinario. Candida Pittoritto ribadisce sul caso social della targa di Cucchi (‘piazza Stefano Cucchi, spacciatore’) apparsa sulla bacheca social del consigliere di Ladispoli Giovanni Ardita che poi il “leone della destra” ha rimosso, ed anzi l’ex candidata sindaco di Cerveteri rilancia, ribadendo la sua posizione anche con un video in cui sottolinea che ci sarebbe volontà di intitolare un luogo al geometra ucciso mentre a Ladispoli si discute su piazza Almirante sì o no. Sullo stesso social i commenti dei cittadini le sono avversi. “Non è una gaffe. L’ho detto chiaramente che chi ha commesso quell’azione non deve rimanere impunito, piuttosto, se una persona è tossicodipendente, sbattuto fuori casa, senza aiuti, quanto pensi possa campare? Una madre non dovrebbe battersi per evitare che il figlio continui a drogarsi? Non so se la cosa è nota solo a me, ma se si continua a percorrere quella strada, non serve il poliziotto che lo manda al cimitero, ci va o per quello che si prende, o per quello che gli fanno nell’ambientino di delinquenti che bazzica. Se una madre ha un figlio tossicodipendente e si arrende…è come se il figlio l’avesse già perso… è condannato a morire. Ne ho conosciute alcune di mamme che hanno avuto questa disgrazie in famiglia (la tossicodipendenza), venivano anche picchiate dal figlio, ma con le unghie e con i denti li hanno riportati ad una vita normale. Dalla droga si esce… ma a volte ci deve essere il polso di chi ama dietro…e di certo la madre è colei che lo “dovrebbe” amare di più. E adesso la famiglia ci specula sopra...” Ora, tralasciando per un attimo la questione di merito (ovvero sull’opportunità di intitolare una piazza a qualcuno valutandolo per i suoi trascorsi) ci si sofferma sul metodo. Disegnare al pc un’iscrizione di quel genere risulta offensivo sotto qualsiasi prospettiva lo si voglia guardare e peggio ancora pubblicarlo. Tant’è vero che quel burlone di Ardita, in un sussulto di serietà, ha preferito rimuovere il post. A questo punto bisogna domandarsi se è opportuno che una donna che ambiva alla fascia tricolore di Cerveteri se ne esca con simili affermazioni. Qui c’è qualcuno ucciso – e un processo stabilirà le colpe – secondo la confessione di uno dei protagonisti da coloro che lo avrebbero difendere. Non solo: senza la tenacia della sorella questa storia non sarebbe mai emersa pubblicamente e senza un nuovo procedimento non ci sarebbe stata la stessa confessione, per quanto tardiva. Ripeto: sull’opportunità di un’intitolazione il dibattito non è necessario, ma indispensabile; sulle offese ai morti non c’è discussione: andrebbe solo chiesto scusa.

Il Pd di Ladispoli attacca Ardita e Pittoritto: “Parole vergognose e oltraggiose da condannare”, scrive venerdì, 19 ottobre 2018 Terzobinario. “Rispetto per Stefano Cucchi la cui verità é giunta ad un punto di svolta. Le recenti esternazioni al riguardo, prodotte da un consigliere comunale della nostra città e da un’esponente politico cervetrano, sono da condannare, convintamente e senza alcuna esitazione, in quanto hanno costituito oltraggio sia alla persona di Cucchi sia alla propria terribile storia, raccontata sino ad oggi, per 9 lunghissimi anni, attraverso infamità e bugie, come confermato in questi giorni. Coloro i quali si sono resi protagonisti dei deplorevoli pronunciamenti dovrebbero vergognarsi, chiedendo direttamente scusa alla famiglia Cucchi, disponibilissima ad ascoltare, e non ricorrendo al social per dare spiegazioni alle proprie uscite, con l’effetto non di alleggerire bensì di aggravare la situazione. In questo momento, in questi giorni così cruciali per chiudere i conti con la storia, il solo ed unico modo possibile di parlare di Stefano Cucchi é quello tendente al raggiungimento pieno e completo della giustizia, per Stefano, per i suoi famigliari, per tutti coloro che si sono battuti affinché si arrivasse ad un finale diverso e reale, per tutti coloro che anche solo attraverso il pensiero hanno sperato senza mai perdersi d’animo nella verità”. Ufficio Stampa Circolo PD Ladispoli

La Pittoritto al Pd di Ladispoli: “Dicano se stanno con uno spacciatore o con le forze dell’ordine”, scrive venerdì, 19 ottobre 2018 Terzobinario. “Se i carabinieri hanno commesso un reato pagheranno …ma non bisogna colpevolizzare il nostro Stato… una via si intitola a una persona che ha lasciato un segno indelebile nella nostra vita…. Stefano Cucchi ” se la giustizia dirà che è stata colpa delle nostre forze dell’ordine pagheranno ” non è sicuramente una cosa giusta ma intitolargli una via mi sembra troppo…Lui spacciava e seminava morte ,Non è degno di essere accostato al nome di Giorgio Almirante, Grande politico e pulito….Il Circolo del PD mi accusa  mi dovrei vergognare è inqualificabile di cosa mi dovrei vergognare… presto ci sia  una via intitolata a Ladispoli e Cerveteri a Giorgio Almirante…..per quanto riguarda la sorella a suo tempo ha fatto bene a volere la verità…(anche se non gli faceva vedere i nipoti e la madre non gli ha voluto mettere l’avvocato e lo ha cacciato di casa)  .Ma quando è troppo è  troppo …adesso la sorella  per i suoi interessi gira in tutte le televisioni…perché non gli basta l’1,3 milioni dati dall’ospedale Pertini come risarcimento….RISPETTO Per il Morto…MA Non  PER lo  SPACCIATORE CHE VENDEVA MORTE, …. IO NON HO RISPETTO… Spero che gli esponenti del P.D non stiano con gli spacciatori ma con le nostre forze dell’ordine”.

Bufera su Cucchi, i cittadini chiedono presa di posizione dell’amministrazione comunale di Ladispoli, scrive lunedì, 22 ottobre 2018 Francesco Scialacqua su Terzobinario. Non si placano sul web le polemiche circa le dichiarazioni sui social del consigliere comunale di Fratelli d’Italia Giovanni Ardita e della candidata sindaco alle scorse elezioni comunali di Cerveteri, Candida Pittoritto. I cittadini a gran voce, sostenitori o meno dell’amministrazione del sindaco Grando, stanno chiedendo sui social una presa di posizione su queste dichiarazioni, che secondo alcuni lederebbero l’immagine della maggioranza al comune di Ladispoli. I sostenitori del sindaco sono infastiditi dal fatto che mentre “alcuni amministratori si fanno il mazzo per la città” ci sarebbero altri, tra cui Ardita, che vanificano il loro lavoro con uscite di pessimo gusto o comunque politicamente discutibili. C’è poi la componente civile, lontana dalla militanza politica, che sta reagendo sconcertata per queste dichiarazioni che rappresentano a loro detta una distorsione del significato che il caso Cucchi rappresenta. Non si tratta infatti di una partita di calcio nella quale si deve tifare o per Cucchi o per i Carabinieri, ma un caso da approfondire affinché passi il principio che chi sbaglia deve pagare, indipendentemente dal fatto che indossi o meno una divisa. E nel caso specifico, anche alla luce della recenti testimonianze al processo, si sta delineando uno scenario grave nel quale il giovane Stefano Cucchi indipendentemente dalla gravità o meno del reato ha pagato con la vita e successivamente con anni di depistamento dalla verità. E la verità in questo caso può giovare a tutti, per le istituzioni in primis, perché l’ottimo operato delle forze dell’ordine rischia di essere macchiato per l’errori di pochi ed isolati casi. Gli oppositori dell’amministrazione si sono dichiarati fortemente critici con gli atteggiamenti del consigliere Ardita il quale sembra avere come unica argomentazione quella della mala amministrazione degli ultimi 20 anni di Ladispoli. Una motivazione sicuramente più calzante su altri argomenti che non ha però alcun senso se usata in un contesto così delicato. C’è poi la grave accusa mossa da Ardita nei confronti del nostro giornale secondo cui la vicenda è stata trattata per fomentare odio contro di lui. Dal canto nostro possiamo dire che non faremmo bene il nostro lavoro se non mettessimo in luce certi episodi. Resta il fatto che a parte un articolo chi si sta attirando le attenzioni dei cittadini è il diretto protagonista che sul caso quotidianamente torna a ribadire i concetti per il quale è criticato. Resta però per alcuni il silenzio contestabile dell’amministrazione comunale che su queste dichiarazioni non ha ancora preso una posizione. Per i più maligni varrebbe il detto chi tace acconsente, ma non è detto che possa arrivare una smentita come avvenne in passato sempre a seguito delle gravi dichiarazioni fatte sempre dal consigliere Ardita in merito ai romeni.

La Pittoritto non molla sul caso Cucchi: “Il vero eroe era Quattrocchi”, scrive martedì, 23 ottobre 2018 | 0 commenti Terzobinario. “Chi ha pestato Stefano non era degno di portare la divisa. Ed è anche giusto che deve pagare. Ma non deve pagare solo per Cucchi ed i suoi familiari, ma deve pagare per tutti quegli uomini che dentro quella divisa ci mettono cuore sudore e vita. Per pochi soldi e rischiando la vita ogni giorno. Perché il loro è un sacrificio quotidiano che non può essere infangato da quattro delinquenti. Vorrei dire a tutti quei cittadini che si sentono offesi dalle mie parole e di quelle di Giovanni Ardita (che poi ha solo condiviso il mio post) Perché quello che è accaduto a Stefano, mai sarebbe dovuto accadere, ma non si può trasformare un drogato e spacciatore in un eroe. Questo non si può proprio fare, i veri eroi sono altra cosa, non certo Stefano Cucchi. Cittadini non vi indignate perché Stefano Cucchi non ha fatto nulla per essere Eroe gli Eroi sono altri es: (guarda come muore un Italiano) Fabrizio Quattrocchi… Lui sì che è stato un eroe”. Candida Pittoritto

Cucchi è una vittima, non un martire. L’intervento del 21 ottobre 2018 di Riccardo Rodelli su Il Corriere Salentino. Alcuni vorrebbero o ritengono giusto intitolare la povero Stefano Cucchi una via. Preoccupa che tra quelli favorevoli all’iniziativa ci sia, non solo il classico fighettone radical chic, ma anche uno come Vittorio Sgarbo che di fatto ha messo sullo stesso piano Giovanni Falcone ed i martiri d’Otranto e Stefano Cucchi. Difatti Sgarbi ha riferito che Cucchi “è stato martirizzato nove anni fa”. Mettere a confronto un uomo dello Stato come Giovanni Falcone ed il giovane Cucchi serve proprio a comprendere la differenza ontologica che passa tra l’essere un martire ed essere una semplice vittima. Diversamente tutto sarebbe uguale e quindi ingiusto. Sarà difficile spiegare ai nostri figli perché lo Stato italiano intitola via e strade a chi ha scelto la propria fine sacrificando la propria vita per un senso di giustizia e senso del dovere e a chi invece è vittima per un brutto e sfortunato caso. Spaventano le dichiarazioni di Falcone alla giornalista Marcelle Padovani. Ecco in Giovanni Falcone si vede l’eroe in vita ed il martire in morte. Ed è così che spesso questi due aggettivi viaggiano di pari passo. Perché si fa martire ch si rende testimone fino all’ultimo sacrificio di valori immortali. Cucchi era uno spacciatore ed un assuntore di droghe. Certamente non meritava un solo ceffone per questo, ma rimaneva sempre uno spacciatore. E’ stato vittima senza alcun dubbio, ma il martirio impone una scelta libera, un atto di volontà da parte della vittima. Perché diciamo che gli 800 idruntini sono martiri? Perché hanno liberamente scelto la morte piuttosto che la conversione all’Islam. Certamente sono state vittime, ma non tutte le vittime sono martiri. In questo modo si svuota di significato e si offende chi martire lo è veramente. Cucchi non è un martire perché non ha certamente scelto di morire, non ha scelto di essere picchiato, ma soprattutto non l’ha scelto per difendere o testimoniare un credo religioso o un valore civile comunemente considerato universale. Lui non aveva nulla da difendere e rappresentare se stesso, a differenza dei martiri d’Otranto e di Giovanni Falcone che, pur essendo differenti tra loro, in quanto i primi incarnavano la difesa della cattolicità e quindi un credo religioso, mentre il secondo ha dato la sua vita per senso del dovere nei confronti dello Stato che l’ha abbandonato e forse anche tradito. In questo disordine emotivo che vede gettati tutti in un unico calderone, si crea un profondo senso di ingiustizia. Sembra che la scelta di intitolare a Cucchi, così come in passato fu fatto per Giuliani, una via se non addirittura un’aula del Senato, lo si faccia non tanto per onorare delle vittime, piuttosto perché si vuole, quasi in modo autolesionistico, punire un’intera società per errori commessi da due carabinieri. Cucchi è stato prima la vittima della sua famiglia, perché probabilmente se avesse avuto più attenzioni da vivo, piuttosto che da morto, forse non sarebbe andato incontro al suo triste destino. Ecco perché non comprendo la ragione per la quale sia sufficiente punire severamente gli autori di quel delitto, ma si debba per forza elevare il Cucchi sull’altare del martirio di Stato. Cucchi è una vittima di due carabinieri. Quanti carabinieri sono morti per lo Stato e non sono stati proclamati martiri dai media? Quanti genitori dei carabinieri uccisi hanno avuto una carriera politica come è stato per la mamma di Carlo Giuliani ed ora verosimilmente per Ilaria Cucchi? Forse un carabiniere che muore fa meno rumore ed interessa meno all’opinione pubblica, perché diciamolo, è solo più facile da accettare.

E comunque Sgarbi ci ha abituati al martirio inverso. Come quando martirizza, suo malgrado, un intero territorio.

Quel terrone di Napolitano. Nessuna legge è sacra. Tanto meno il vilipendio del capo dello Stato. Ecco perché questa normativa è sbagliata, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 12/10/2018 su "Il Giornale". Terrone (e tanto meno l'affettuoso terun) non è un'offesa. Ma un'indicazione geografica, territoriale, volendo peggiorativa, ricordata dai dizionari in questi termini: «Appellativo con cui gli Italiani del Nord chiamano spesso quelli del Mezzogiorno; tratto dalle espressioni terre matte, terre ballerine, si carica spesso d'una connotazione spregiativa». E, proprio perché nessuna legge è sacra, è ingiusto che nel nostro Codice penale vi sia ancora il vilipendio del capo dello Stato secondo il dettato dell'articolo 278, anche se mitigato dal legittimo diritto di critica, che può essere esercitato anche nei confronti del capo dello Stato, ma che trova un limite nel decoro e nel prestigio del medesimo. Dunque la legge è sbagliata. Ed è stata anche applicata scorrettamente dai magistrati dei tre gradi di giudizio che hanno condannato a 18 mesi di carcere il senatore Umberto Bossi, nonostante l'insindacabilità delle opinioni espresse nelle sue funzioni, in base al prevalente articolo 68 della Costituzione. Ma il problema è lessicale: Terun non è un insulto; e, geograficamente, il presidente Napolitano è un meridionale. Può essere poco elegante, ma non è offensivo. In ogni caso io lo dico e, se il direttore di questo giornale ha il coraggio di consentirlo, non temo una analoga condanna. Anzi chiedo (e lo farò formalmente) all'attuale presidente della Repubblica, meridionale anche lui, la grazia per Bossi in primis e, preventivamente, per me e per Sallusti.

Stefano Cucchi, dissero: “Abbandonato da famiglia e vita dissoluta” ma per gip Roma sindacalisti diffamarono. Il giudice ha restituito gli atti al pm che aveva chiesto l'archiviazione per tre rappresentanti sindacali che dopo la sentenza d'appello - in cui tutti gli imputati per la morte del geometra erano stati assolti - aveva fatto una serie di dichiarazioni sul caso ritenute diffamatorie dalla famiglia Cucchi, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2017. “Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia” scrisse in un comunicato il segretario generale del Cosis, sindacato indipendente di Polizia, Franco Maccari. Era il 1 novembre e il giorno prima la corte d’Appello di Roma aveva assolto tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e spirato una settimana dopo nell’ospedale Sandro Pertini dopo essere stato picchiato come ipotizza la procura di Roma. Il giorno del verdetto nel comunicato di Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, invece si poteva leggere: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Il 4 novembre Donato Capece, segretario del Sappe, era andato oltre parlando ai microfoni de La Zanzara su Radio24: “Stefano Cucchi è stato abbandonato dalla famiglia, se lo avessero seguito più da vicino probabilmente l’avrebbero salvato da una cattiva strada, cioè lo spaccio della droga. La famiglia – aveva detto doveva seguirlo meglio e recuperarlo, aveva bisogno di essere seguito dai familiari e non di essere abbandonato al suo destino”. Chi ha determinato il destino di Cucchi sarà stabilito dal processo che sarà celebrato se il gup di Roma deciderà di rinviare a giudizio i tre carabinieri indagati per omicidio preterintenzionale. Intanto per il giudice per le indagini preliminari di Roma, Elisabetta Pierazzi, quelle affermazioni su Cucchi e la sua famiglia configurano una diffamazione. Il gip ha restituito gli atti al pm, che aveva chiesto l’archiviazione cui si era opposta la famiglia Cucchi, per formulare l’imputazione di diffamazione. Su quello che potrebbe essere stato il senso di abbandono vissuto fa Cucchi la sorella Ilaria ha anche scritto il libro “Vorrei dirti che non eri solo”. La paura della sorella era proprio quella che Stefano possa essere morto “forse pensando di essere stato abbandonato dalla sua famiglia, mentre semplicemente non ci lasciavano entrare. Vorrei potergli dire che non era solo…”. Lo scorso 5 ottobre il gip si era riservata di decidere sull’opposizione all’archiviazione che riguardava anche il senatore Roberto Formigoni per dichiarazioni rese nella trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora” del 5 novembre 2014. Oggi la restituzione degli atti alla Procura. Il gip ha archiviato la posizione di Formigoni nel corso di un’intervista a “Un Giorno da Pecora”. “Non conosco personalmente il caso però Stefano Cucchi è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente. Certo, quel che è successo in carcere va investigato fino in fondo”. Gli inquirenti romani hanno chiuso le indagini sulla sua morte contestando ai militari dell’Arma di averlo arrestato e pestato a sangue. Ai carabinieri che lo fermarono – e cioè Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – è contestata anche l’accusa di abuso di autorità, per aver sottoposto Cucchi “a misure di rigore non consentite dalla legge” con “l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento”. Le accuse di falso e calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria processati e assolti nella prima inchiesta, sono invece contestate a vario titolo a Tedesco, a Vincenzo Nicolardi e al maresciallo Roberto Mandolini, comandante della stazione Appia, dove fu portato Cucchi dopo il suo arresto il 15 ottobre del 2009. Cucchi – come si legge nell’avviso di chiusura delle indagini, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio – fu colpito a “schiaffi, pugni e calci”. Le botte, per l’accusa, provocarono “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale”, provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”. “Le lesioni procurate a Stefano Cucchi – si legge sempre nel provvedimento dei pm – il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Sandro Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente a causa e in ragione del trauma subito, ne cagionavano la morte”. “In particolare – scrivono i pm – la frattura scomposta” della vertebra “s4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale determinavano l’insorgenza di una vescica neurogenica, atonica, con conseguente difficoltà nell’urinare, con successiva abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria non correttamente drenata dal catetere”. Una quadro clinico che “accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale”.

La madre di Cucchi: "Mio figlio? Un delinquente". La donna a chi le consigliava di affidarsi a un avvocato rispondeva: "Non spendo altri soldi per quel delinquente", scrive Chiara Sarra, Sabato 30/01/2016, su "Il Giornale". "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". In un'intercettazione agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi e rivelata da “il Tempo”, il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi, svela un retroscena finora inedito. Nella registrazione, infatti, Mandolini parla con un consulente legale del Sap a Vibo Valentia, sostenendo che al procuratore dichiarerà di aver "omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". E cioè che dopo l'arresto per spaccio avvenuto nel 2009, i carabinieri avevano suggerito ai familiari di contattare un avvocato di fiducia, ricevendo in riposta solo insulti per Stefano. "Quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere", ha aggiunto Roberto Mandolini, "La sorella pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla".

Cucchi, i familiari e le accuse al telefono. Le intercettazioni del carabiniere indagato nell’inchiesta sulla morte di Stefano "La madre ci disse che il figlio era un delinquente". Disposta una nuova perizia, scrive il 30 Gennaio 2016 Il Tempo. «Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». A rivelarlo in una intercettazione agli atti dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (il 31enne deceduto all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) è il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio presso la stazione Appia, sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità «per il violentissimo pestaggio» che avrebbe subito Cucchi. È il 17 luglio 2015, Mandolini ha ricevuto da un giorno l’invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio (in quell’occasione si è avvalso della facoltà di non rispondere). L'ex vice comandante della stazione Appia chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia e attivista in varie associazioni antimafia. Le confida che quando il procuratore gli domanderà se ha omesso qualcosa, gli risponderà: «Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia. Questo, questo e quell’altro». A quel punto la donna si incuriosisce e gli chiede cosa abbia detto il ragazzo. Mandolini si sfoga spiegando che «quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». Il maresciallo spiega inoltre che «quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere». Vero? Falso? Queste intercettazioni fanno parte dello stesso «blocco» che ha inguaiato di recente questo carabiniere. L’interlocutrice del militare consiglia di riferire tutto nell’interrogatorio. Mandolini, evidentemente scottato dalla battaglia della sorella di Stefano Cucchi per l’accertamento della verità, conclude così: «La sorella (Ilaria, ndr) pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla». Dalle stesse intercettazioni raccolte dalla Squadra Mobile nel corso dell’attività investigativa emerge però che il maresciallo si rapporta con un pregiudicato che chiama «fratello» e con il quale si incontra per scambiarsi oggetti d’oro. La svolta investigativa arriva quando Anna Carino, ex moglie di D’Alessandro, gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (...) che te ne vantavi pure... che te davi le arie». La frase intercettata viene confermata dalla donna quando il 19 ottobre scorso è stata sentita dal pm. La sua deposizione è finita nell’informativa finale della Mobile: «Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento». Per appurare se il pestaggio abbia causato la morte di Cucchi la Procura ha chiesto un nuovo accertamento medico-legale. Il gip ha nominato 4 periti che dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Il giudice ha respinto, ritenendola infondata, un’istanza di ricusazione di Francesco Introna presentata dal legale della famiglia Cucchi per i rapporti di inimicizia con il suo consulente Vittorio Fineschi.

Lo Stefano Cucchi di Borghi: "non un santo, non un martire, ma una vittima dell'omertà e dell'indifferenza". Parla l'attore che interpreta Cucchi: "ho dovuto mettere da parte la rabbia che provavo, per restituire un ritratto autentico. Ora sento tutta la responsabilità di questo film", scrive Alessandro Borghi il 15 settembre 2018 su Il Giornale dello Spettacolo e su Globalist. Parla Alessandro Borghi, che nel film Sulla Mia Pelle di Netflix, proiettato a Venezia e al centro della polemica tutta italiana sulla questione mai risolta del caso di Stefano Cucchi interpreta proprio lui, Stefano, che non è "caduto dalle scale". "Entri al cinema con quest'idea, ne esci con la stessa convinzione, solo più incazzato di prima" afferma Borghi, che per interpretare Cucchi ha perso 18 chili. Una trasformazione non solo fisica, ma necessariamente emotiva: "la cosa più importante per me era non fare un'imitazione di Stefano e non lasciarmi sopraffare dalla rabbia. Stefano non era un santo, e questo film non vuole rendere nessuno martire. Quel che il film vuole dire è che non meriti di morire così, morto ammazzato, anche se sei il peggiore". "Per questo ho dovuto rimuovere tutto quello che sapevo su Stefano" continua l'attore, "e sono partito dal suono della sua voce registrata, da un libro e da un documentario. Durante il film non pensavo a niente, senza relazionarmi in modo razionale e quando è finito il film oltre a essere estremamente felice ero molto più incazzato di prima", dice Borghi. "Vi accorgerete di non sapere niente" sul caso Cucchi. La pellicola "aiuta a scandire tutti gli eventi che ci sono stati in quei sei giorni di prigionia di Stefano, quelli che poi lo hanno portato alla morte. Sulla Mia Pelle è un fil diretto, mai retorico o morboso. "Sento una grandissima responsabilità nei confronti del film" spiega Borghi, "mentre lo facevo non ce l'avevo, ero incredibilmente tranquillo; adesso sento che questa responsabilità c'è perché vedo che c'è stata la risposta del pubblico che speravo ma non immaginavo". Il film non indugia sulle ferite, ma il dolore di Stefano entra piano sottopelle. Le immagini lasciano storditi, in lacrime o senza parole, ma non indifferenti. La potenza della pellicola sta nel realismo, nella disperazione di mamma Rita e papà Giovanni, nella sofferenza della sorella Ilaria interpretata da Jasmine Trinca, nella somiglianza inquietante tra l'attore e Stefano. La narrazione non fa sconti a nessuno: dai carabinieri che lo arrestarono ai medici che lo ebbero in consegna, dalla polizia penitenziaria alla vittima e alla sua famiglia. Dentro c'è una combinazione di omertà, indifferenza, incuria, incapacità di assolvere ai propri dovere."

Cucchi, l'Arma si scusa: "Chi ha sbagliato paghi Non è violenza di Stato". Il comandante generale Nistri: «Ma si tratta di responsabilità individuali, non del corpo», scrive Patricia Tagliaferri, Domenica 14/10/2018, su "Il Giornale". Sotto attacco dopo le ammissioni sul pestaggio in caserma di Stefano Cucchi, con la Procura di Roma che indaga su eventuali omissioni o insabbiamenti, l'Arma dei Carabinieri sta con la famiglia del geometra morto dopo l'arresto, mentre era sotto la tutela dello Stato. Non si sottrae all'accertamento della verità. Quando saranno provate le responsabilità dei carabinieri sospettati di aver massacrato il giovane detenuto, «l'Arma prenderà le decisioni che le competono», fino alla «destituzione»: se colpevoli, i tre militari sospesi non indosseranno più la divisa. Il comandante generale Giovanni Nistri non era ai vertici dei carabinieri quando la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella capitale Cucchi venne fermato per droga e portato alla stazione Casilino per la fotosegnalazione, ma è lui oggi a scusarsi per conto dell'Arma. «L'Arma chiede sempre scusa quando alcuni dei suoi componenti sono venuti meno al dovere di essere ciò che avrebbero dovuto essere», dice il generale intervistato da Radio Capital. Pronto a incontrare di nuovo Ilaria Cucchi, se lo vorrà, e sempre al fianco dell'autorità giudiziaria che indaga per capire se quella notte le cose sono andate davvero come ha raccontato uno degli imputati del processo, il carabiniere Francesco Tedesco, che ha accusato i colleghi e coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro di aver eseguito il pestaggio che ha portato alla morte di Cucchi e un suo superiore, Roberto Mandolini (ora alla sbarra per calunnia e falso), di non aver dato seguito alla sua nota di servizio sui gravissimi fatti accaduti quella sera. Per capire la catena di comando - se c'è stata - che ha dato l'ordine di insabbiare tutto, su richiesta del legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, entro gennaio verrà ascoltato in aula il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Roma, mentre va avanti la nuova inchiesta per falso e distruzione di documenti sui vari episodi di depistaggio che, dopo la morte di Cucchi, hanno portato i pm ad escludere la responsabilità dei carabinieri e a processare gli agenti della polizia penitenziaria che hanno avuto in custodia il geometra nelle celle del Tribunale prima dell'udienza di convalida. Il generale Nistri assicura che «non guarderà in faccia nessuno», ma non vuole che la violenza subita da Cucchi venga considerata «una violenza di Stato». «Lo Stato non può essere chiamato come responsabile dell'irresponsabilità di qualcuno», afferma. Concetto condiviso dal premier Giuseppe Conte: «Chi ha sbagliato dovrà pagare, perché indossava la divisa dello Stato e rappresentava lo Stato, quindi la cosa è ancora più grave. Ma dobbiamo accertare le responsabilità individuali, non possiamo scaricare le responsabilità sull'intero corpo dei carabinieri e delle forze dell'ordine in generale, che tutti i giorni si impegnano per tutelare le nostre vite». Lo stesso augurio arriva dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini: «Se qualcuno in divisa sbaglia, paga come e più degli altri. Non condivido però la criminalizzazione di tantissimi uomini delle forze dell'ordine chiamati sbirri, delinquenti e torturatori». Il ministro ribadisce il suo invito al Viminale alla famiglia Cucchi, anche se Ilaria prima di andare al ministero aspetta le sue scuse. «Se lo Stato ha sbagliato chiederà scusa nei fatti punendo i colpevoli e risarcendo i colpiti», la replica di Salvini.

Ha colpito la 'ndrangheta ed è stato brutalmente picchiato da un boss. Ecco chi è Musarò il magistrato che con il caso Cucchi accusa lo Stato, scrive Claudio Cordova, giornalista d'inchiesta, il 14 ottobre 2018 su Tiscali. La sua inchiesta “Crimine” ha fatto scuola in tutta Italia: per la prima volta nella storia, con una sentenza emessa dalla Cassazione, viene sancito il principio dell’unitarietà della ‘ndrangheta. “Crimine” riesce dove tanti avevano fallito, superando la visione delle singole cosche, parcellizzate tra loro, dimostrando come la ‘ndrangheta, dalla jonica alla tirrenica, passando al mandamento di centro, si identifichi in un’unica organizzazione criminale. Poco dopo boss, chiedendo con un pretesto di essere interrogato, colpì più volte al volto il magistrato, fratturandogli il naso: “Ho pensato: mi sta ammazzando” dirà il pubblico ministero. Il simbolo che la passione per la giustizia è la principale, ma non l’unica della sua vita, era dato da quella maglia della Juventus, appesa nell’ufficio del sesto piano del Centro Direzionale, sede della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Quella maglietta bianconera si stagliava tra codici, targhe, gagliardetti e calendari delle forze dell’ordine. Forse Giovanni Musarò ogni tanto la osservava, distogliendo lo sguardo dalle carte, che invece raccontavano dei crimini della 'ndrangheta, unanimemente riconosciuta come l’organizzazione criminale italiana più potente. Pugliese della provincia di Lecce, in magistratura dal 2002, Musarò è il prototipo del magistrato schivo, che non ricerca le prime pagine dei giornali. La sua tenacia, però, è ora nota a tutta l’Italia. E’ lui il pubblico ministero che ha di fatto riaperto il caso Stefano Cucchi, arrivando negli scorsi giorni al colpo di scena: il carabiniere Francesco Tedesco che ha rotto il velo del silenzio e dell’omertà e che ha messo a verbale le accuse ai colleghi che avrebbero pestato a morte il giovane romano nell’ottobre 2009. Ha lavorato in silenzio, in tutti questi anni, Musarò. Mettendo insieme materiale, documenti, nuove testimonianze che potessero portare la verità su un caso, quello di Cucchi, che da sempre ha segnato l’opinione pubblica, convincendola che le precedenti pronunce giudiziarie avessero dato solo una versione posticcia, di comodo, sull’accaduto. Il suo lavoro di ricerca ha portato alla svolta nel processo, con altri due carabinieri indagati, per aver evidentemente concorso a coprire le violenze subite dal geometra romano. E’ il metodo Musarò, quello adottato nei lunghi anni a Reggio Calabria. Alcuni interrogatori del carabiniere Tedesco vengono svolti in estate dal pm Musarò, lontano dal clamore mediatico. Dopo il periodo da uditore proprio a Roma, giunge in riva allo Stretto e viene catapultato, al primo incarico, in uno degli uffici giudiziari più delicati d’Italia. Magistrato della Procura ordinaria, si occupa, tra gli altri casi, di un agguato mafioso che, per motivi fortuiti, costa quasi la vita a un bimbo nel corso di una festa di fine anno scolastico, ma anche di un ufficiale della guardia di finanza che, abusando del ruolo, molestava giovani coppie. Ottiene le condanne dei sospettati in entrambi i casi. Gli anni della responsabilizzazione e del salto di qualità però sono quelli che coincidono con la nomina a capo della Procura di Reggio Calabria di Giuseppe Pignatone, insieme al procuratore aggiunto Michele Prestipino. Musarò viene assegnato alla Direzione Distrettuale Antimafia e inizia a indagare su alcune delle cosche più potenti della ‘ndrangheta: i Piromalli e i Molè di Gioia Tauro, ma anche i Pesce e i Bellocco di Rosarno. A decine gli arresti, che poi si tramutano in condanne. E ingenti i sequestri di beni nella disponibilità delle cosche, poi confiscati definitivamente lungo tutto il territorio nazionale. Il fiore all’occhiello è rappresentato dall’enorme inchiesta “Crimine”, che fa scuola in tutta Italia: per la prima volta nella storia, con una sentenza emessa dalla Cassazione, viene sancito il principio dell’unitarietà della ‘ndrangheta. “Crimine” riesce dove tanti avevano fallito, superando la visione delle singole cosche, parcellizzate tra loro, dimostrando come la ‘ndrangheta, dalla jonica alla tirrenica, passando al mandamento di centro, si identifichi in un’unica organizzazione criminale. Altre Procure – quelle di Milano, Genova e Torino soprattutto – seguiranno la strada, conducendo maxiprocessi sulle infiltrazioni dei clan al nord. Le indagini sui casati mafiosi colpiscono nel segno e Musarò, ben presto, finisce sotto scorta con il livello di sicurezza più alto. La tutela, però, non lo preserva dalla brutale aggressione subita in carcere dall’ergastolano Domenico Gallico, capo della feroce cosca di Palmi. Il 7 novembre 2012, il boss, chiedendo con un pretesto di essere interrogato, colpì più volte al volto il magistrato, fratturandogli il naso: “Ho pensato: mi sta ammazzando” dirà il pubblico ministero in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia. I colpi da parte della ‘ndrangheta arrivano in modo visibile e muscolare, ma anche in modo più sottile e subdolo: come nel caso di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia morta per ingestione di acido muriatico. Le indagini del pm Musarò svelarono le angherie subite dalla donna, figlia di una famiglia imparentata con la cosca Bellocco e sposata con un uomo violento, mai amato. Una vita da segregata in casa, da cui proverà a fuggire, collaborando con la giustizia. A quel punto, la strategia diffamatoria della famiglia, circa un inesistente stato depressivo della donna o, comunque, un'alterazione psichica. I Cacciola, con un esposto, accusarono i magistrati – tra cui lo stesso Musarò - di aver di fatto estorto le dichiarazioni alla giovane donna. Il tutto anche tramite la complicità di due avvocati, condannati definitivamente per il disegno giudiziario e mediatico messo in atto ai danni della giovane e della magistratura. Poi il trasferimento a Roma, dove ha ritrovato i maestri e mentori, Pignatone e Prestipino. Oggi Musarò è un pubblico ministero in forza alla Dda di Roma: è lui il titolare del fascicolo d’indagine che porta all’arresto di Roberto Spada per la testata al giornalista Daniele Piervincenzi. Musarò chiede e ottiene inoltre l’applicazione del 41 bis, il carcere duro riservato per terroristi e boss mafiosi, nei confronti del picchiatore del clan egemone sul litorale romano. Il procuratore Pignatone, conoscendone le capacità, ha deciso però di mantenere la delega di indagine sul caso Cucchi, uno dei più delicati, ancor prima sotto il profilo sociale, rispetto a quello giudiziario. Il resto non è più storia. Ma cronaca, attualissima, di uno Stato con il coraggio di processare lo Stato.

Tutte le tappe del caso Stefano Cucchi. Dall'arresto del 2009 alla morte qualche giorno dopo al Pertini di Roma, fino alla confessione del carabiniere Francesco Tedesco, scrive Panorama il 12 ottobre 2018. Per la prima volta dall'inizio delle 2 inchieste sulla morte, il 22 ottobre 2009, del geometra romano Stefano Cucchi uno degli imputati, il carabiniere Francesco Tedesco, ha chiamato in causa i suoi due colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo denunciandoli (l'atto è del 20 giugno 2018) per il pestaggio ai danni di Cucchi. E' questa la svolta tanto attesa nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, deceduto all'ospedale Pertini di Roma dopo una settimana di agonia a proposito della quale in questi 9 anni di vicenda giudiziaria si è detto tutto e il contrario di tutto. A dare annuncio ufficiale della presenza di una denuncia depositata agli atti è stato il pm Giovanni Musarò a inizio dell'udienza dell'11 ottobre quando, davanti alla Corte, ha detto: "Il 20 giugno 2018 Tedesco ha presentato una denuncia contro ignoti in cui dice che quando ha saputo della morte di Cucchi ha redatto una notazione di servizio". Nota di servizio che, si scopre ora, sarebbe stata fatta sparire su intimidazione dei superiori di Tedesco che, per paura di perdere il lavoro, avrebbe deciso di tacere la verità per tutti questi anni. "Mi sono determinato a raccontare la verità per tutta una serie di ragioni — ha spiegato il carabiniere — All’inizio avevo molta paura per la mia carriera, temevo ritorsioni e sono rimasto zitto per anni, però successivamente sono stato sospeso e mi sono reso conto che il muro si stava sgretolando". A farlo crollare sarebbe stato il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale che lo ha messo di fronte alle sue responsabilità. "La lettura del capo d’imputazione per omicidio preterintenzionale mi ha colpito molto — continua Tedesco —, perché il fatto descritto corrisponde a ciò che ho visto io. Solo a quel punto ho compreso appieno la gravità dei fatti, e ho deciso di dire quello che ho visto, per una questione di coscienza. Prima credevo che la vicenda fosse anche gonfiata mediaticamente, poi ho riflettuto e non sono riuscito più a tenermi dentro questo peso". Nella denuncia del giugno 2018 e in dichiarazioni successive Tedesco ha dato la sua versione dei fatti chiamando "in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D'Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d'Assise, già sapeva tutto". "Gli dissi 'basta, che c...fate, non vi permettete" ha dichiarato Francesco Tedesco che ricorda le parole rivolte ai colleghi Di Bernardo e D'Alessandro (anche loro imputati come lui di omicidio preterintenzionale) mentre uno "colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto" e l'altro "gli dava un forte calcio con la punta del piede". "Fu un'azione combinata - si legge sul verbale d'interrogatorio - Cucchi prima iniziò a perdere l'equilibrio per il calcio di D'Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l'equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo, ma D'Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra". Da quanto dichiarato da Tedesco, inoltre, il vero regista dell'insabbiamento dell'intera vicenda fu l'allora comandante Roberto Mandolini. Il militare ha sottolineato che, pur non essendo mai stato minacciato, aveva capito che gli conveniva tacere. Nel corso del primo processo Tedesco avrebbe chiesto proprio a Mandolini cosa avrebbe dovuto dire e il comandante gli avrebbe risposto in maniera inequivocabile. "Non mi minacciò esplicitamente - ha dichiarato Tedesco - ma aveva un modo di fare che non mi faceva stare sereno. Io avevo capito che non potevo dire la verità e gli chiesi cosa avrei dovuto dire al pm, e lui rispose: 'Tu gli devi dire che stava bene (Cucchi, ndr), gli devi dire quello che è successo, che stava bene e che non è successo niente... capisci a me, poi ci penso io, non ti preoccupare'". Il Ministro dell'Interno Matteo Salvini (che aveva dichiarato: "Ilaria Cucchi si dovrebbe vergognare, mi fa schifo") ha invitato la famiglia Cucchi al Viminale, ma la sorella di Stefano, Ilaria, ha ribadito che si presenterà al ministero dopo le scuse ufficiali del Governo. Ecco tutte le tappe di quella che è una delle più gravi inchieste che coinvolgono i carabinieri degli ultimi anni. 

Nella notte del 15 ottobre 2009, in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, il geometra trentunenne Stefano Cucchiviene arrestato dai carabinieri perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Intorno all'1,30 i carabinieri, dopo averlo portato in caserma, lo accompagnano a casa per perquisire la sua stanza. Non trovano nulla, lo riportano in caserma e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. È in quelle ore del 15 ottobre, secondo i pm dell'inchiesta bis, che sarebbero avvenute le percosse che portarono alla morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre, una settimana dopo il suo arresto nel reparto detenuti dell'ospedale romano Sandro Pertini. La famiglia Cucchi poté vedere Stefano, dopo l’udienza del processo per direttissima avvenuta il 16 ottobre, soltanto quando ormai il giovane era morto. A pochi giorni dal decesso, la sorella Ilaria Cucchi - per rispondere a una campagna che aveva preso a dipingere Cucchi come un tossicomane senza nessuna credibilità -  diffuse le foto shock del cadavere del ragazzo scattate all'obitorio: magrezza scheletrica (Cucchi pesava 37 chili al momento della morte, dopo un calo ponderale di sei chili in una sola settimana),  lesioni diffuse, una maschera violacea attorno agli occhi, uno dei quali schiacciato nell'orbita, un ematoma bluastro sulla palpebra e la mandibola spezzata. E poi la schiena, fratturata all'altezza del coccige. Iniziò allora la prima inchiesta, poi annullata in Cassazione, conclusasi con l'assoluzione di tutti gli imputati, dai medici del Sandro Pertini (accusati di omissione di soccorso) fino ai tre agenti della polizia penitenziaria, accusati ingiustamente dai carabinieri e da un carcerato delle percosse subite dal giovane quando ormai era in cella. L'inchiesta avviata maldestramente dalla Procura - che non indagò sulla prima notte, quando il giovane fu portato in caserma, ma soltanto sui giorni in cui Cucchi era a Regina Coeli -  diede il via ad un lunghissimo processo, iniziato con il rinvio a giudizio dei dodici imputati (gennaio 2011): 45 udienze, 120 testimoni sentiti, decine di consulenti tecnici nominati da accusa, parti civili, difesa, e anche una maxi-perizia disposta dalla stessa Corte.

16 OTTOBRE 2009. La mattina successiva del fermo c'è il processo per direttissima. Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l'arresto e fissa una nuova udienza. Nell'attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.

17 OTTOBRE 2009. Cucchi viene trasportato all'ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere.

22 OTTOBRE 2009. Stefano, cinque giorni dopo, muore all'ospedale Pertini. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l'autorizzazione per vederlo. 

25 GENNAIO 2011. Vengono rinviate a giudizio 12 persone: i sei medici dell'ospedale Sandro Pertini Aldo Fierro, Stefania Corvi, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo; i tre infermieri dello stesso ospedale, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, e le tre guardie carcerarie Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, risultate innocenti e chiamate in causa dai Cc che fecero l'arresto. 

Il 5 GIUGNO 2013. La III Corte d'Assise condanna in primo grado quattro medici dell'ospedale 'Sandro Pertini' a un anno e quattro mesi e il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico. Invece assolve sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.

31 OTTOBRE 2014. A seguito di una sentenza della Corte d'appello di Roma, sono assolti tutti gli imputati, anche i medici. La sorella di Stefano, Ilaria, dichiara che avrebbe chiesto ulteriori indagini al procuratore capo Pignatone e che avrebbe continuato le sue campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.

12 GENNAIO 2015. La Corte d'assise d'appello della capitale deposita le motivazioni della sua sentenza. Si dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero per nuove indagini sulle violenze subite da Stefano Cucchi. La Procura di Roma apre un'inchiesta-bis.

10 SETTEMBRE 2015. Per la prima volta viene iscritto nel registro degli indagati un carabiniere per falsa testimonianza. Alla fine i carabinieri indagati sono 5: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, ora accusati di omicidio preterintenzionale), Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, e il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm).

11 DICEMBRE 2015. La Procura di Roma chiede, nell'ambito dell'incidente probatorio davanti al gip, una nuova perizia sul pestaggio subito da Cucchi.

15 DICEMBRE 2015. La Corte di Cassazione annulla l'assoluzione di cinque medici del Pertini, disponendo che nei loro confronti sia celebrato un appello-bis per omicidio colposo. Definitivamente assolti, invece, tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto processo. La sentenza arriva mentre procede l'inchiesta-bis della Procura di Roma che ha iscritto cinque carabinieri nel registro degli indagati.

9 MARZO 2016 Non sono state fornite «spiegazioni esaustive e convincenti del decesso di Stefano Cucchi». Così la Cassazione, in 57 pagine di motivazioni (scarica la sentenza), spiega perché ha annullato l'assoluzione dei cinque medici del Pertini, disponendo un appello-bis per omicidio colposo. Questi ultimi - scrivono i giudici di legittimità - avevano una posizione di garanzia a tutela della salute di Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare con precisione la sua patologia, anche in presenza di una «situazione complessa che non può giustificare l'inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico».

18 LUGLIO 2016 La terza Corte d'Assise d'appello confermata l'assoluzione dei 5 medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi nell'ospedale Pertini di Roma. Era stata la Cassazione, nel dicembre scorso, a chiedere il nuovo processo dopo la condanna in primo grado e l'assoluzione in appello.

4 OTTOBRE 2016 I periti, nominati a gennaio dal gip nell'ambito dell'inchiesta-bis, depositano 250 pagine in cui spiegano che non ci sarebbe nesso causale tra il violento pestaggio cui è stato sottoposto Cucchi e il decesso. Due sarebbero le ipotesi. La prima «è rappresentata da una morte improvvisa e inaspettata per epilessia», per la quale avrebbe agito come «ruolo causale favorente» anche la tossicodipendenza del ragazzo. Analoga «concausa favorente», la «condizione di severa inanizione» (indebolimento per carenza di alimentazione). La seconda è che la morte del ragazzo sia legata «alla recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale». Un'ipotesi giudicata per la prima volta come possibile, che di fatto ha favorito la messa sotto indagine dei tre militari che dopo l'arresto lo avevano portato in caserma.

7 OTTOBRE 2016 La Corte d'assise d'appello di Roma deposita le motivazioni della sentenza (Scarica la sentenza) con cui il 18 luglio ha assolto dall'accusa di omicidio colposo cinque medici del Pertini: Cucchi è morto di malnutrizione e, anche se i medici «hanno omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione» e di attuare le opportune terapie, «appare logicamente poco probabile che il ragazzo si sarebbe salvato». Per i giudici non è possibile dimostrare, in pratica, che attuando l’omessa condotta i medici avrebbero potuto impedire la morte di Stefano. 

17 GENNAIO 2017. Otto anni dopo la  morte avvenuta in un letto del reparto di medicina protetta dell'ospedale Pertini di Roma, il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò chiudono la cosiddetta inchiesta bis (aperta nel novembre del 2014) sui responsabili del suo pestaggio e con l'atto di conclusione indagini contesta per la prima volta a tre dei carabinieri che lo arrestarono nel parco degli acquedotti di Roma - Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco - il reato di omicidio preterintenzionale. Con loro, accusati di calunnia, il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione dei carabinieri Appia (quella che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 aveva proceduto all'arresto) e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco. Per Mandolini e Tedesco, infine, anche il reato di falso verbale di arresto. Cucchi, secondo i pm, è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto. Non è morto né di fame e sete, né per cause ignote alla scienza medica, né di epilessia. È stato per loro un omicidio preterintenzionale avvenuto in caserma nella notte prima del processo per direttissima. Tra le testimonianze considerate più utili c’è quella di Anna Carino, ex moglie del carabiniere Raffaele D’Alessandro, che in una telefonata avrebbe detto all’uomo: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (…) che te ne vantavi pure… che te davi le arie». Alla base della ricostruzione di Pignatone e Musarò ci sarebbero anche le parole di Riccardo Casamassima, all’epoca in servizio presso la stazione di Tor Sapienza. In un verbale del 30 giugno, Casamassima ha raccontato che la notte dell’arresto l’allora comandante Roberto Mandorlini disse: «È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato».

14 FEBBRAIO 2017. La procura di Roma ha ufficialmente chiesto il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri coinvolti nell'inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009 nell'ospedale Sandro Pertini. Per i tre militari che arrestarono il geometra il 15 ottobre precedente, e ritenuti autori del pestaggio, l'accusa è di omicidio preterintenzionale. Ad altri due carabinieri i reati sono di calunnia e di falso.

10 LUGLIO 2017. Il gup del Tribunale di Roma ha disposto il rinvio a giudizio dei carabinieri imputati nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, il geometra romano deceduto nell'ottobre 2009 a Roma una settimana dopo il suo arresto per droga. Il processo comincerà il prossimo 13 ottobre davanti alla III Corte d'Assise. "Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise, andranno a processo e saranno chiamate a rispondere di quanto commesso". È il commento a caldo di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. I tre carabinieri accusati per la morte di Stefano Cucchi sono stati rinviati a giudizio dal Gup di Roma dopo essere stati sospesi dal servizio, con lo stipendio dimezzato. Per i tre militari che arrestarono il geometra il 15 ottobre precedente, e ritenuti dai pm autori del pestaggio, l'accusa è di omicidio preterintenzionale. Per altri due carabinieri - che avrebbero dichiarato il falso durante il primo processo accusando i medici gli infermieri del Sandro Pertini, oltre alle guardie carcerarie - i reati sono di calunnia e di falso. 

11 OTTOBRE 2018 - Il pm Giovanni Musarò in apertura di udienza davanti alla Corte d'Assise di Roma ha riportato la denuncia e le successive dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre militari rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale. "Il 20 giugno 2018 - ha detto il pm - Tedesco ha presentato una denuncia contro ignoti in cui dice che quando ha saputo della morte di Cucchi ha redatto una notazione di servizio". In successive dichiarazioni, ha aggiunto l'accusa, ha poi chiamato "in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D'Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d'Assise, già sapeva tutto". I successivi riscontri della procura hanno portato a verificare che "è stata redatta una notazione di servizio che è stata sottratta e il comandante di stazione dell'epoca non ha saputo spiegare la mancanza". "C'è stato - ha dichiarato l'avvocato Eugenio Pini, difensore di Francesco Tedesco - uno snodo significativo per il processo, ma anche un riscatto per il mio assistito e per l'intera Arma dei Carabinieri. Gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini - ha aggiunto Pini - individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso. Ma soprattutto è il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi costretto al silenzio contro la sua volontà. Come detto, è anche un riscatto per l'Arma dei Carabinieri perché è stato un suo appartenente a intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell'immediatezza e ad aver fatto definitivamente luce nel processo". Tedesco, al termine dell'udienza ha detto: "Sono rinato. Ora non mi interessa nulla se sarò condannato o destituito dall'Arma. Ho fatto il mio dovere; quello che volevo fare fin dall'inizio e che mi è stato impedito". E' la prima volta, a quasi 10 anni dalla morte di Stefano, che si parla in maniera inequivocabile di pestaggio. Ilaria Cucchi, che non ha mai smesso di lottare per far emergere una verità che era da sempre sotto gli occhi di tutti ha dichiarato: "L'unica cosa che mi dà la forza di andare avanti è provare, tramite Stefano, a dar voce a tutti gli altri Stefano, tutti gli altri ultimi di cui non importa niente a nessuno, che muoiono e che subiscono soprusi quotidianamente nel disinteresse generale, di una società che è abituata a voltarsi dall'altra parte e che pensa sempre che le cose capitino sempre agli altri e mai a se stessi". Il Ministro dell'Interno, alla luce della svolta presa dall'intero impianto accusatorio, ha detto: "Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l'eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell'ordine". Ilaria, dopo aver ringraziato il Ministro ha comunque precisato: "Il giorno in cui il Ministro dell'Interno chiederà scusa a me, alla mia famiglia e a Stefano allora potrò pensare di andarci, prima di allora non credo proprio". Anche il Ministro della Difesa Elisabetta Trenta, via social, ha commentato il caso Cucchi scrivendo: "Quanto accaduto a Stefano Cucchi era inaccettabile allora e lo è ancor di più oggi, che sono emersi nuovi elementi scioccanti. Mi auguro che la giustizia faccia al più presto il suo corso e definisca le singole responsabilità. Chi si è macchiato di questo reato pagherà, ve lo assicuro. Lo voglio io, lo vuole questo governo e lo vuole tutta l'Arma dei Carabinieri, che merita rispetto. Ho la massima fiducia verso il Comando Generale e sono vicino alla famiglia di Stefano, ai suoi amici e ai suoi cari".

Caso Cucchi: la ricostruzione di tutta la storia. La vicenda del giovane romano morto nel 2009 nell'ospedale penitenziario Pertini, sei giorni dopo essere arrestato, scrive il 14 Ottobre 2018 TPI. La storia di Stefano Cucchi è probabilmente la più nota tra quelle riguardanti i presunti abusi delle forze dell’ordine in carcere, grazie alla battaglia portata avanti dalla sorella Ilaria (TPI l’ha intervistata qui). Il 12 settembre 2018 è uscito il film “Sulla mia pelle”, con Alessandro Borghi, che ne racconta la storia. L’11 ottobre 2018 il processo ha avuto un’importante svolta, dopo che nel corso dell’udienza, il pm Giovanni Musarò ha rivelato che, il 20 giugno 2018, l’agente Francesco Tedesco aveva presentato denuncia in Procura sul pestaggio di Cucchi: nel corso dei tre interrogatori, il carabiniere ha accusato i suoi colleghi. Stefano Cucchi storia.

Il geometra romano Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009, a 31 anni, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. La famiglia di Cucchi ha vissuto anni di processi, che hanno visto oltre 40 udienze, insieme a perizie, maxi perizie, centinaia di testimoni e decine di consulenti tecnici ascoltati.

Il 15 maggio 2018, il maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima, principale testimone nel processo contro cinque carabinieri, tre dei quali accusati della morte del geometra romano, ha ribadito in aula le sue accuse ai colleghi. L’11 ottobre 2018, durante il processo bis di primo grado, uno dei cinque carabinieri imputati ha confessato e accusato gli altri colleghi del pestaggio del giovane romano. Il carabiniere, Francesco Tedesco, nella sua deposizione, ha anche rivelato dell’esistenza di una nota scritta da lui stesso in cui spiegava che cosa era successo a Stefano Cucchi. La nota sarebbe stata inviata alla stazione Appia dei carabinieri e sarebbe stata fatta sparire. TPI ha ricostruito la storia giudiziaria della morte di Stefano Cucchi, attraverso il commento di Fabio Anselmo, il legale che segue la vicenda da sempre. Sette anni di processi, 45 udienze, perizie, maxi perizie, 120 testimoni e decine di consulenti tecnici ascoltati. Sono i numeri di uno dei casi più seguiti dall’opinione pubblica italiana, che attende ancora verità. È il caso di Stefano Cucchi. La storia del 31enne trovato morto nel 2009 per cause ancora da stabilire è a una svolta. Si è chiusa l’inchiesta bis avviata a dicembre 2015 con la richiesta da parte della procura di Roma del rinvio a giudizio di cinque carabinieri coinvolti, tre dei quali devono rispondere di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico e calunnia. “Questa richiesta rappresenta un vero e proprio riscatto dello Stato che finalmente sa inquisire e processare se stesso” spiega a TPI Fabio Anselmo, il legale che fin dal primo giorno ha seguito la famiglia Cucchi. “Il caso Cucchi era diventato l’emblema della frustrazione di una famiglia di normali cittadini rispettosi della legge, rimasti stritolati in meccanismi giudiziari più grandi di loro. Dopo sette anni di vicende giudiziarie, di umiliazioni, dopo aver subito quello che hanno subito loro, con un ragazzo, Stefano, morto di giustizia, è chiaro che siamo di fronte a un momento di fondamentale importanza”. “A Fabio Anselmo importa di mio fratello. Semplicemente questo”, scrive di lui Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. “E non gli importa perché è il nostro avvocato, mio e di Stefano. Gli importa perché gli vuole bene. Come gli voglio bene io”.

Ecco le fasi salienti dei processi per ricostruire la storia giudiziaria della morte di Stefano Cucchi.

L’accusa della famiglia Cucchi. Secondo i legali della famiglia Cucchi, Stefano fu picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Dopo il ricovero all’ospedale Pertini, Stefano non fu accudito e nutrito. Fu lasciato morire di fame e di sete.

Tutte le date:

• 15 ottobre 2009. Stefano Cucchi, 31 anni, è arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti. L’uomo è stato trovato in possesso di 20 grammi di hashish e di alcune pastiglie.

• Stefano Cucchi lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, a Roma, nel quartiere Casilino.

• 22 ottobre 2009. Stefano viene trovato morto in una stanza all’interno del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni.

• Il 31enne pesava 27 chili. Secondo i risultati dell’autopsia Stefano è morto alle tre del mattino.

• Marzo 2011. Comincia il processo di primo grado. Viene chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone: tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti.

• Marchiandi, che aveva chiesto il rito abbreviato, viene rinviato a giudizio. È condannato a due anni per i reati di favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio per poi essere assolto in secondo grado ad aprile 2012.

• Per i medici le accuse sono di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d’ufficio, favoreggiamento, omissione di referto. I poliziotti sono accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità.

• 5 giugno 2013. Dopo tre anni di processo, è ufficializzata la sentenza di primo grado: assoluzione per gli agenti penitenziari e per gli infermieri coinvolti. Condannati i medici del Pertini per omicidio colposo.

• 31 ottobre 2014. Tutti gli imputati sono assolti nel processo d’appello per insufficienza di prove. La decisione è dibattuta e contrastata per le alternative che avrebbero potuto adottare i giudici. “Un’assoluzione per assenza di prove”, chiariva Luciano Panzani, presidente della Corte d’appello di Roma, sottolineando che “non c’erano elementi sufficienti per ritenere gli imputati colpevoli di un reato, che però c’è stato”.

• Gennaio 2015. I giudici della Corte d’appello di Roma depositano le motivazioni della loro sentenza, ma sostengono la possibilità di svolgere nuove indagini.

• Marzo del 2015. I legali della famiglia Cucchi e la procura di Roma depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza dell’ottobre 2014.

• Dicembre 2015. La Cassazione accoglie il ricorso, annulla le assoluzioni dei medici ma conferma quelle dei tre agenti di polizia penitenziaria. La procura di Roma avvia una nuova indagine. Viene chiesta una nuova perizia medico legale per stabilire se Stefano abbia subito percosse dai carabinieri e se siano state poste le condizioni per una “corretta ricostruzione dei fatti”.

• “Quell’episodio è un momento di vergogna incredibile per il nostro paese, ma anche per le stesse istituzioni”, ricorda l’avvocato Anselmo. “Da quel momento siamo ripartiti a testa alta. Abbiamo avuto la fortuna di trovare due testimoni e di mostrare che hanno nascosto verità evidenti”.

• Aprile 2016. Ilaria Cucchi lancia la petizione per chiedere che il parlamento e il governo approvino il reato di tortura in Italia. La petizione ottiene oltre 200mila firme in pochi giorni.

• “L’Italia ha prima di tutto bisogno di una crescita culturale oltre che di una legge sulla tortura”, commenta l’avvocato Anselmo. “Una legge di questo tipo lascia freddi gli italiani, la consapevolezza necessaria riguarda il rispetto fondamentale dell’essere umano. In Italia il sistema di comunicazione è fallimentare, definisce la famiglia Cucchi e noi legali il partito dell’antipolizia, quando chi rispetta le istituzioni e la polizia sono proprio queste famiglie. Vi è un sistema di scarsissima sensibilizzazione popolare per quello che è il tema delle condizioni di vita dei detenuti nelle nostre carceri. C’è bisogno di crescita e di conoscere, perché i casi Cucchi e Aldrovandi ci hanno dimostrato che può succedere a chiunque”.

• Ottobre 2016. I periti nominati dal gip Elvira Tamburelli sostengono che la morte di Cucchi sia stata “causata da un’epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti epilettici”.

• Gennaio 2017. La procura di Roma chiede il processo con nuovi capi d’accusa a carico dei tre carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, che devono rispondere di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia.

• “Ricordo perfettamente la fatica, in senso egoistico, di partire da Ferrara e andare a fare un processo il cui esito era già perfettamente noto”, racconta il legame Anselmo, dopo che sono trascorsi sette anni dall’inizio dei processi. “Ricordo gli insulti subiti da questa famiglia, è stata una maratona incredibile. È stata una delle prove più dure della mia carriera professionale. Seguire sette anni di processo sapendo che avremmo dovuto perderlo perché non volevamo barattare una mezza verità. Le mezze verità a noi non servono. Abbiamo lavorato per rovesciare il caso, per impedire che ci fosse dato un contentino”.

• Febbraio 2017. La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. Per tre di loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Ad altri due carabinieri sono stati contestati i reati di calunnia e falso.

• 11 ottobre 2018. Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati nel processo bis di primo grado, ha confessato e accusato gli altri colleghi del pestaggio di Cucchi. Il carabiniere, nella sua deposizione, ha anche rivelato dell’esistenza di una nota scritta da lui stesso in cui spiegava che cosa era successo a Stefano Cucchi. La nota sarebbe stata inviata alla stazione Appia dei carabinieri e sarebbe stata fatta sparire.

Sulla mia pelle, il documentario sul caso Cucchi. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini racconta il caso Cucchi rivivendo gli ultimi sette giorni di vita di Stefano. La pellicola di Cremonini andrà a inaugurare la sezione Orizzonti del Festival di Venezia, volta a premiare i nuovi nomi emergenti del mondo del cinema. Sulla mia pelle racconta quindi i giorni immediatamente precedenti quel 22 ottobre 2009 quando il giovane Stefano Cucchi, geometra di 31 anni, muore dopo sei giorni di arresto per detenzione di stupefacenti. Dopo lunghi anni di vicende giudiziarie, fatte di decine di udienze, perizie, maxi perizie e centinaia di testimonianze e consulenze tecniche ascoltate, il nome di Cucchi si legge ancora oggi sulle pagine dei giornali quando si parla di violenza eccessiva da parte delle forze dell’ordine o, con toni più forti, di omicidio di Stato. A impersonare Stefano Cucchi nella sofferenza dei suoi ultimi giorni quando, denutrito e malmenato nel carcere di Regina Coeli, il trentenne ha infine trovato la morte, ci pensa Alessandro Borghi, dimagrito molto appositamente per ritrarre in modo fedele Cucchi. “Spero che il cinema possa essere uno strumento per fare informazione, per riflettere e per ricercare la verità. Cercheremo di far aprire gli occhi a chi ancora, per qualche motivo, non è riuscito a farlo”, ha detto l’attore. La sua interpretazione ha già attirato le lodi del presidente della Mostra di Venezia, Alberto Barbera, che ha definito il giovane attore “capace di calarsi completamente nel ruolo e di reggere il film”. Accanto a Borghi nella pellicola compaiono anche Jasmine Tinca, che interpreta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che con la propria tenacia ha mantenuto l’interesse dei media nei confronti della storia del fratello, e Max Tortora. A produrre il film è Netflix: la piattaforma di streaming globale caricherà online il film il 12 settembre, dopo l’anteprima al festival nella laguna veneziana. Oltre a Netflix, Sulla mia pelle si potrà guardare anche al cinema.

Stefano Cucchi, mio figlio, di Giovanni Cucchi — 7 novembre 2018 su altreconomia.it. Nel 2013 Giovanni Cucchi contribuì al nostro libro “Mi cercarono l’anima” con un ricordo di suo figlio, Stefano, morto solo all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, dopo aver subito un pestaggio. Una testimonianza preziosa da rileggere anche alla luce dei recenti sviluppi giudiziari. Mio figlio Stefano è nato nel ‘78. È nato di sette mesi è per questo è dovuto rimanere in incubatrice 40 giorni. Essere nato prematuro gli ha anche causato un ritardo nella crescita: abbiamo frequentato l’endocrinologo in famiglia, perché sia noi che lui eravamo un po’ preoccupati per questa fase di crescita che tardava a venire… Lui, in un certo qual modo, ha sofferto più di altri questa condizione. Prima di tutto perché si rendeva conto di essere davvero piccolino in mezzo agli altri bambini – a 12, 13 anni ne dimostrava 8 -, e poi perché è stato costretto a seguire tutte queste cure. Questo, ovviamente, ha acuito un po’ la sua sensibilità ed è un fatto molto importante, perché Stefano, questo handicap, se l’è trascinato fino ai nostri giorni. Lui soffriva questo fatto di essere piccolino e – come giustamente ha detto Ilaria – piccolo di fronte agli altri, non soltanto in senso fisico, ma piccolo nel senso morale. Questo lui “se l’è portato” e credo abbia pesato molto nel suo rapporto con la droga. Stefano era un bambino affettuosissimo, specialmente nei miei confronti, come tutti i bimbi con i papà. Ma andava a scuola con la sua mamma, perché Rita ha fatto la maestra d’asilo: ha fatto le elementari presso un istituto privato di suore, comprese le medie. Era un po’ la mascotte di tutti gli ambienti che frequentava. A sette anni l’ho fatto iscrivere al branco dei “lupetti” in una chiesa qui vicino, dove ha fatto lo scout fino a 15, 16 anni. Poi ha scelto di fare il geometra, anche perché veniva a lavorare da me durante la scuola e quindi aveva ricevuto un po’ di infarinatura della nostra professione. Non è che si sia diplomato con voti eccezionali, diciamo il minimo sindacale. Stefano non amava molto studiare, ma dal punto di vista pratico era il contrario. Diciamo che Stefano era la classica persona che negli studi non eccelle ma nella vita le cose gli riuscivano bene. A livello di amicizie aveva degli amici del cuore qui a Tor Pignattara, non certo un quartiere modello, né facile. Poi, dopo i quindici, sedici anni c’è stata una svolta, perché a differenza di come era prima – un bambino casa e famiglia e scout – sono iniziate le inquietudini adolescenziali, anche per l’influsso di alcuni amici di quartiere, che l’hanno trasformato… Lui sentiva la necessità di emergere ma non trovava sbocchi nella nostra normalità familiare. Si è incamminato su questo “percorso”, per nulla chiaro all’inizio. Infatti, quando Stefano è arrivato intorno ai 20 anni, noi eravamo convinti che bevesse. Lo vedevamo sempre così, “mezzo e mezzo”. Però lavorava, alternava momenti poco lucidi con altri in cui lavorava e studiava. Quando si è diplomato è venuto a lavorare qui da me; la progettazione non è che lo attirasse molto, però le cose pratiche – il catasto, il rapporto con gli enti pubblici – le seguiva con cura. Nella nostra professione sarebbe riuscito bene, era tenace e aveva lo spirito giusto e il fiuto economico. A proposito, da bambino era lui che metteva da parte i soldi, avrà avuto sette o otto anni. A sua sorella servivano… e andava sempre da lui. Perché era lui quello che risparmiava. Ad un certo punto le cose sono precipitate. Erano i primi degli anni Duemila. Stefano si faceva sempre più turbolento, la sera tornava tardi e teneva comportamenti che ci facevano soffrire parecchio. Noi pensavamo che bevesse alcool, che abusasse di birra, dato che trovavamo sempre birre nell’armadio. Poi a un certo punto ci siamo imposti: “o ti raddrizzi o vai via da casa”. Da allora ci sono stati dei periodi in cui stava fuori casa, poi rientrava. Noi cercavamo di far sì che facesse una scelta di vita sua, che fosse definitiva. Nel 2004, spontaneamente, dopo tanti periodi di crisi, ha deciso di entrare in una comunità. Nel settembre 2004 è entrato nella comunità di Don Picchi, ha fatto tre o quattro mesi di pre-comunità, dove io lo accompagnavo il giorno e poi ritornava a casa, e poi – poco prima del Natale 2004 – è entrato proprio nella comunità terapeutica ed è andato a Castel Gandolfo, per quasi tre anni. Noi, in quel momento, “respiravamo per lui”. Diciamo che avevamo la speranza che questa comunità riuscisse a risolvere i suoi problemi psicologici e di conseguenza tutta la “devianza” che ne era scaturita. Eravamo in apprensione. Quando gli concedevano le visite domenicali – non certo nei primi tre mesi, quando erano vietate – lo riaccompagnavo la sera in comunità. E lui piangeva, e mi chiedeva di fermarci in auto al bar poco prima di arrivare, come per assaporare qualche altro momento di libertà. Ci prendevamo un caffè e poi lo riportavo, ed è sempre rientrato. In questi tre anni, con l’aiuto degli operatori, ha ricostruito il perché di tutte le sue vicissitudini. Ovviamente Stefano non era contento di stare lì, la vedeva come una prigione, una necessaria prigione, o meglio una prigione volontaria. Nel 2007 ha avuto una ricaduta, purtroppo. Questa volta si trattava di eroina, non più di cocaina, Stefano si è allontanato di nuovo da casa, entrando a Villa Maraini. Noi non l’abbiamo mai abbandonato. Mi ricordo certe telefonate struggenti, quando eravamo a Tarquinia in vacanza. Ogni volta era come per riprendere un contatto, anche affettivo, con lui. Stefano sentiva che ci stava facendo male e non voleva tagliare i ponti. Dalla ricaduta poi si è ripreso, è andato alla pre-comunità di San Patrignano per sei mesi e lì, poi, quando si è posta l’alternativa se rimanerci o uscirne, ne uscì, con l’accompagnamento di una psicologa. Nella fase successiva all’uscita dalla comunità Stefano aveva capito che doveva darsi delle regole. Lo sport poteva aiutarlo. Stefano era anche portato per lo sport – era un atleta fin da bambino – e siccome gli piaceva la boxe allora aveva deciso di andare regolarmente in una palestra storica di Roma, l’Indomita, vicino a Santa Maria Maggiore, dove io lo portavo un pomeriggio sì e uno no. La mattina andava a correre e poi in dritto in palestra. Siccome era piccolino si era fissato che doveva fare gli incontri con gente della sua taglia, e quindi per sfruttare la sua stazza fisica minuta cercava di stare attento al mangiare, a ogni ingrediente. Mi ricordo quando veniva a casa a cena, quanto era fissato per il mangiare. Questo poi è stato scambiato per “dimagrimento”. Invece era una sua scelta volontaria, nulla di patologico. Quando uscì dalla comunità noi gli mettemmo anche a disposizione la nostra casa di Morena, che avevamo costruito da poco. Ci eravamo resi conto che lui lo meritava e poi non ci sembrava che fosse ancora su quella china. La scelta è stata sbagliata, o forse prematura. Stefano, una volta che si è staccato dalla famiglia, è entrato di nuovo in un giro di droga. Se avessimo ascoltato meglio certi messaggi forse avremmo potuto evitare il tracollo finale, ed è un nostro rammarico. Poi – ironia della sorte – dopo aver corso tanti pericoli anche gravi, uscito da quella palestra, è incappato nello Stato, che forse avrebbe dovuto proteggerlo, e qui è finita la sua storia. Questo testo è tratto dal libro inchiesta “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi” (Altreconomia, 2013), a cura di Duccio Facchini.

LA STORIA DI STEFANO CUCCHI NELLE PAROLE DEL PADRE. In occasione della presentazione alla Mostra del cinema di Venezia di Sulla mia pelle, il film che rievoca il tragico caso giudiziario, riproponiamo l'intervista realizzata nel 2014 al padre del ragazzo, scrive Annachiara Valle il 29/08/2018 su Famiglia cristiana. Stefano con il berretto da Babbo Natale, sorridente davanti all’albero. Stefano con la tuta. Stefano che abbraccia la mamma. Stefano con la sorella e i nipoti. Stefano da bambino, con il berretto da lupetto degli scout. Stefano con la torta di compleanno dei suoi 30 anni. Ne sarebbe passato solo un altro ancora prima della sua morte. Le foto appoggiate sul tavolo di lavoro dove il giovane Cucchi provava i disegni da geometra («Anche se gli piaceva di più andare per cantieri», ricorda il suo collega di stanza) rimandano i flash di una vita “normale”. Forse appena più sofferente di quella di tanti altri ragazzi. Un incontro con la droga, poi il percorso di recupero, dal 2004 al 2007, con la Comunità del Ceis di don Mario Picchi. «Stefano si era rimesso in piedi, aveva cominciato a lavorare con soddisfazione, veniva volentieri con tutta la famiglia alle gite, era contento della nascita dell’ultimo nipote. Certo, so bene che la droga, per chi c’è passato, può restare una tentazione e so che mio figlio ha fatto i suoi sbagli. Ma ha sempre pagato. Avrebbe pagato anche questa volta, se gliene avessero lasciato il tempo». Il papà Giovanni è appena rientrato dall’incontro con il presidente del Senato Pietro Grasso. «Per noi è stata una sorpresa positiva sentire dire, per la prima volta da un uomo delle istituzioni, che chi sa deve farsi avanti. Lo abbiamo sentito molto vicino e pensiamo possa fare tanto per sensibilizzare tutti a prendere coscienza della situazione, per far sì che la verità venga finalmente fuori». Perché per la morte di Stefano Cucchi, il 22 ottobre 2009, avvenuta mentre era in custodia cautelare, non ci sono ancora colpevoli. E dopo la sentenza del 31 ottobre che, in appello, ha mandato assolti i dodici imputati – medici, infermieri e agenti di custodia – tutti si chiedono come sia possibile che un ragazzo entri in carcere vivo e si ritrovi, sette giorni dopo, sul tavolo di un obitorio.

IL VOLTO DI CRISTO. «Aveva una macchia sotto lo zigomo destro, la mandibola storta, un bozzo enorme sotto il sopracciglio sinistro; e poi gli occhi, il sinistro sembrava uscito dall’orbita, il destro pesto e incassato verso l’interno», racconta la sorella Ilaria nel libro scritto con Giovanni Bianconi Vorrei dirti che non eri solo (Rizzoli). «Quell’immagine non ci lascerà mai», aggiunge il papà Giovanni ricordando quelle tragiche ore del 22 ottobre di cinque anni fa. Sul tavolo della scrivania, sotto un sasso con dipinto il volto di Cristo, c’è il certificato di morte del figlio. Davanti le foto dei momenti felici con la famiglia, il suo tesserino da geometra «di cui era tanto orgoglioso». «In questo studio c’è cresciuto», racconta il padre indicando le macchinine con cui giocava da bambino, il suo cappello di paglia «comprato chissà dove». È un uomo forte, il papà di Stefano. Che continua a chiedersi, con la moglie Rita e con la figlia Ilaria, «il perché di quello che è successo. Non è possibile non sapere dopo tanti anni, non avere risposte. Ci sono stati, nei confronti di nostro figlio, una sciatteria e un cinismo incredibili. Stefano è entrato all’ospedale Pertini già con una brachicardia che doveva far scattare l’allarme dei medici. Brachicardia che ha avuto origine da percosse che hanno causato anche fratture spinali». La vita di Stefano finisce in pochi giorni. Dopo il fermo, la notte tra il 15 e il 16 ottobre per il possesso di circa 30 grammi di droga, viene portato in tribunale per la convalida dell’arresto. Affidato alla polizia penitenziaria mostra ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni di cui si accorge il medico del tribunale. Il giorno stesso, dopo qualche ora nel carcere di Regina Coeli, viene ricoverato al Fatebenefratelli dove gli riscontrano ulteriori lesioni. Ma torna in carcere alle 23. Il giorno dopo, il 17 ottobre, un nuovo ricovero all’ospedale Pertini con i familiari che, invano, tentano di parlare con i medici. «La mattina del 22 ero ancora in giro per tribunali per ottenere il permesso di vedere nostro figlio. Mia moglie e mia figlia Ilaria mi hanno chiamato per dirmi di tornare a casa, che non serviva più». Alla porta dell’appartamento, nello stesso stabile dello studio, un carabiniere aveva appena bussato per chiedere l’autorizzazione per l’autopsia.

IL CONFORTO DEI NIPOTINI. «La nostra vita si è fermata lì. Ci hanno distrutti sia psicologicamente sia moralmente. Sopravviviamo per merito dei nostri nipoti, Valerio e Giulia, di 12 e 6 anni. Loro sono il nostro futuro. Cerchiamo di farcela per loro. Ma anche per la memoria di nostro figlio e per tutti coloro che, come lui, subiscono ingiustizie. In questi anni ci siamo resi conto che il caso di Stefano è solo la punta di un iceberg». Per questo tutta la famiglia è intenzionata a non fermarsi: «Tenteremo tutte le strade nelle istituzioni nazionali e, se non otterremo giustizia, andremo anche alla Corte europea. È impensabile che si possa morire in questo modo mentre si è sotto la custodia dello Stato e che nessuno ne abbia la responsabilità». Ilaria è la più battagliera «e sostiene anche noi genitori, ma è tutta la famiglia che vuole portare avanti questo impegno per la giustizia. Anche la querela del Sappe nei suoi confronti, fa capire che, in fondo, forse c’è qualche timore della verità». Lo dice con tono pacato, Giovanni Cucchi, «aggrappandosi ai progetti che abbiamo, in particolare al centro per tossicodipendenti ed ex carcerati che vorremmo fare con il Ceis in un nostro casale di famiglia vicino Tivoli, per far lavorare queste persone sfortunate che devono reinserirsi nella società. E dimostrando anche il nostro attaccamento alle istituzioni. Siamo cittadini italiani e crediamo nello Stato e nella giustizia. La battaglia che stiamo combattendo non è contro qualcuno, ma in difesa dei diritti di tutti. E siamo contenti che qualcosa si stia già muovendo». In particolare papà Giovanni è soddisfatto «perché è scomparsa quell’assurda norma che impediva ai familiari di parlare con i medici senza l’autorizzazione del magistrato. C’era un protocollo d’intesa tra Asl e Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) che ci ha impedito il colloquio con i medici. In quei giorni in cui Stefano è stato ricoverato al Pertini abbiamo fatto di tutto per metterci in contatto, ma senza riuscirci. Oggi sappiamo che altri genitori nelle nostre condizioni possono essere rassicurati sullo stato di salute del figlio e collaborare con i medici per le cure. E poi c’è anche più attenzione, grazie anche al clamore mediatico, nel momento in cui una persona viene fermata. Certo, sono piccole cose, ma impedire che possa accadere ad altri quello che è successo a Stefano è per noi il modo migliore di ricordarlo».

Il caso Cucchi e le ambiguità dei poteri dello Stato. La svolta nel processo complica il rapporto fra cittadini e istituzioni. Una diffidenza che nasce nel Dopoguerra con la transizione democratica e arriva alle schedature e ai troppi depistaggi, scrive Massimo Del Papa su Lettera 43 il 13 ottobre 2018. La svolta, tardiva, sul delitto Cucchi, con il carabiniere Francesco Tedesco che ammette il pestaggio e chiama in causa due colleghi, non segna solo l'apice della tragedia, privata ma non meno straziante, di una famiglia di gente per bene e coraggiosa. Segna anche un dramma più vasto, collettivo, che coinvolge il Paese: torna la paura verso lo Stato, la diffidenza nei confronti di un sistema che può prenderti e stritolarti, indifferente ai vincoli democratici. Storicamente cinici, profondamente miscredenti dietro la parvenza bigotta o fanatica, gli italiani nutrono verso lo Stato un sentimento ambiguo: lo usano e se ne fanno usare ma lo detestano, lo sentono pericoloso e inaffidabile, tributano onori e riguardo alle sue divise, dalle quali, però, stanno lontani fin che possono. Come a dire: non si sa mai come va a finire, memori del film con Alberto Sordi Detenuto in attesa di giudizio. I gendarmi in divisa come altro da sé, non più i figli dei poveri di Pasolini ma gli strumenti di un potere all'occorrenza senza scrupoli; chiamati alla bisogna, certo, ma non davvero percepiti come alleati, se mai gente che sa, che può capitarti addosso e distruggerti la vita come è successo a Cucchi. La coscienza del Paese vacilla, non però al punto da non aver depositato sottopelle una memoria genetica su molte cose, anche remote ma con un filo rosso che le attraversa, le collega o almeno così pare agli italiani in età: la difficile transizione democratica, non priva di ambiguità e di zone d'ombra, le schedature del Sifar, il servizio segreto del Dopoguerra, gli abbozzi o conati di golpe, le bombe sui treni, alla Fiera e alla stazione di Milano nell'orribile 1969 culminato nella strage di piazza Fontana, poi altre bombe, altri treni, piazza della Loggia e altri treni ancora. E il rapporto torbido coi terrorismi, gli equilibrismi tattici e la ragion politica, in parte inevitabile in un Paese-cerniera col Mediterraneo e di transito del sovversivismo arabo armato. Non c'è uno solo di questi casi dove non siano emerse connivenze, protezioni, depistaggi gravi e gravissime non solo dalla politica ma anche dalla magistratura e dalle forze dell'ordine. Al punto che parve incredibile, fuori dalla storia, la frase, improvvida e oggi da molti ricordata, con cui Matteo Salvini, oggi ministro di polizia, esprimeva fede incondizionata nelle guardie e «schifo» per i sospetti della sorella di Cucchi, Ilaria.

I SILENZI, LE OMERTÀ E LE VERSIONI DI COMODO. E Cucchi, come noto, non era il solo, con lui altri casi, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi: ancora silenzi, aggiustamenti, versioni di comodo, omertà a coprire gli eccessi isterici o balordi di uomini in divisa che sfogavano la frustrazione su ragazzini o tossici di nessuna rilevanza delinquenziale. Dal caso Cucchi queste miserie stanno puntualmente emergendo, puntualmente per modo di dire perché ci sono voluti nove anni ma comunque con la forza inesorabile della verità che si ribella, che alla fine sgorga. E lo scenario, per non smentirsi, è tale da giustificare la diffidenza generale per faziosa o interessata che sia. Ma, si obietta, poche mele marce non possono compromettere l'immagine di interi corpi. D'accordo, sarebbe puerile, oltre che ingeneroso, negare che negli anni molti passi avanti siano stati fatti nel senso di una coscienza democratica, di appartenenza e individuale; anzi diciamo pure che il grosso delle divise è costituito da uomini che “vanno alla guerra”, una guerra difficile, sempre più feroce, più consapevoli del loro ruolo e più attenti, più vincolati che in passato al patto democratico, io ti controllo ma non abuso di te, dei tuoi diritti costituzionali. Ma già il fatto che molti di questi agenti e carabinieri sentano il bisogno di dire, apertamente, sui social, «noi non siamo così», che sentano il dovere di prendere le distanze da quanto in emersione dal caso Cucchi, sta a significare che qualcosa da cui dissociarsi c'è, esiste, resiste.

ILARIA CUCCHI E QUELLE ACCUSE DI PRESENZIALISMO. Hanno incolpato Ilaria di presenzialismo, le hanno imputato i tentativi di carriera politica e televisiva, ma queste sono colpe veniali, sacrifici da tributare all'altare mediatico di un mondo dove se non sei sovraesposto “non trovi cane che ti abbai”. Molto peggio chi in questi anni ha infamato i familiari, brava gente che ha passato l'inferno nell'inferno prima di scorgere, nell'abisso più profondo, una luce. Chissà se il ravvedimento tardivo del carabiniere Tedesco, indotto a tacere per tutti questi anni, è spontaneo o dettato da calcolo giudiziario. Resta la pagina, inquietante, un'altra, all'interno di un corpo dove la parola d'ordine è stata il silenzio, i verbali eliminati, l'omertà diffusa, resta un'altra crepa nel rapporto fra istituzioni e cittadini, una fiducia collettiva da ricostruire una volta di più nell'imperversare di furori, strumentalizzazioni, vane parole, tardive disponibilità.

Da Genova 2001 al caso Cucchi, la fiera del falso, scrive Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) il 14.10.2018 su Il Manifesto. Gli ultimi sviluppi del caso Cucchi dovrebbero spingerci a mettere a fuoco due fenomeni emersi dal 2001 in poi: da una parte l’attitudine delle nostre forze dell’ordine, in determinate circostanze, a mentire e falsificare gli atti. Dall’altra la sistematica tendenza a fare muro contro le richieste di trasparenza. Il G8 di Genova in questo senso è all’origine di tutte le più recenti degenerazioni. Spiace doverlo ricordare, ma le giornate del 20, 21 e 22 luglio 2001 sono state una fiera del falso in atto pubblico e della calunnia, una caporetto dell’etica pubblica. Innumerevoli persone furono arrestate per strada ricorrendo a verbali fotocopia, con false accuse di violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Nell’immediato la maggior parte di quegli strani arresti non fu convalidata dai Gip genovesi e negli anni seguenti la magistratura civile ha inflitto numerose condanne al ministero degli Interni per gli abusi compiuti: non abbiamo mai saputo se qualcuno avesse dato un’imbeccata dall’alto o se la pratica dei verbali fasulli sia sgorgata spontaneamente in seno alla truppa…Il caso Diaz andrebbe poi fatto studiare nelle scuole di polizia, se davvero si volesse introdurre un antidoto al veleno immesso a piene mani nel 2001 nel cuore degli apparati. Basti dire che il comunicato con il quale si tentò di giustificare agli occhi del mondo la singolare operazione, mentre decine di persone erano in ospedale e le altre nella caserma delle torture a Bolzaneto, è risultato falso dalla prima all’ultima parola: dalle molotov piazzate ad arte e attribuite agli arrestati, alla tesi delle ferite pregresse, fino al finto accoltellamento d’un agente. Potremmo continuare, ma basti dire che nei processi Diaz e Bolzaneto i principali reati che hanno portato alle condanne di decine di agenti (in gran parte coperte dalla prescrizione) sono stati falso e calunnia. Nel caso Cucchi, secondo le cronache, abbiamo avuto ben 7 interventi di manipolazione di carte ufficiali. Il secondo punto – il rifiuto di agire per accertare subito e senza sconti le responsabilità – non è meno grave del primo. Anche questa è una storia che viene da lontano. I pm nel processo Diaz, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, parlarono con molte ragioni di omertà, condotta che ritorna nel processo Cucchi. Di fronte a ogni vicenda estrema – dal G8 di Genova alla morte di persone sottoposte a custodia di polizia, come Aldrovandi, Magherini e altri – abbiamo assistito all’applicazione del medesimo schema, ossia la chiusura degli apparati a qualsiasi sguardo esterno, come se si trattasse di panni sporchi da lavare in casa e non di fatti gravi, potenzialmente criminosi, sui quali è necessario fare subito e bene chiarezza, nell’interesse dei cittadini e degli stessi corpi di sicurezza. Proviamo a pensare alle storie appena citate e a quel che sarebbero state se polizia e carabinieri avessero agito con trasparenza e collaborando con chi cercava solo verità, ossia le famiglie e i magistrati. Quante sofferenze risparmiate, quanta credibilità recuperata. Nel caso Diaz c’è un dettaglio che dice tutto: il verbale d’arresto, poi risultato falso e calunnioso, fu sottoscritto da 14 funzionari e dirigenti, tutti indagati e condannati tranne uno, mai identificato perché la grafia era illeggibile e perché gli altri tredici non hanno mai fatto il suo nome. Ecco in che modo è stata concepita la collaborazione con la magistratura inquirente ed ecco spiegate le durissime critiche allo Stato italiano scritte nelle sentenze di condanna subite dal nostro paese alla Corte per i diritti umani di Strasburgo – già dimenticate e pochissimo lette. Nel caso Cucchi la denuncia-confessione di uno dei carabinieri imputati ha spezzato la consegna (o forse imposizione) del silenzio che ha caratterizzato tutti i procedimenti simili avviati in questi anni, a cominciare da Genova G8. Se vogliamo dare un senso a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e nell’intento di frenare la rovinosa caduta di credibilità degli apparati, è lecito chiedere qualcosa al legislatore e a chi riveste ruoli di responsabilità: si collabori lealmente con la magistratura in tutti i procedimenti penali in corso e si sospendano gli indagati lungo l’intera catena di comando, fino ai massimi livelli; si trasferiscano ad altri ministeri i funzionari di polizia condannati nei processi per reati attinenti l’abuso di potere e la tortura; si introduca l’obbligo di indossare codici di riconoscimento sulle divise; si istituisca un organismo indipendente di controllo sull’operato delle forze dell’ordine, avviando contestualmente un’indagine conoscitiva a vasto raggio: l’Italia non può più farne a meno. Infine, non meno importante, si chieda scusa, ma davvero, accompagnando le scuse con atti concreti, per quanto hanno dovuto sopportare in questi anni le vittime degli abusi, i loro familiari, i cittadini tutti.

SVOLTA NEL PROCESSO CUCCHI, UN VICOLO CIECO? Scrive Elena Ricci il 13 ottobre 2018 su Tarantini Time. Il tritacarne mediatico non risparmia nessuno. Tutti possono dire qualsiasi cosa, improvvisarsi giudici, predicatori, detentori di verità. Il tutto mascherato da un velo di ipocrisia non abbastanza spesso, da nascondere la valanga di fango dalla quale hanno attinto, per accusare prima medici, infermieri, polizia penitenziaria (tutti assolti) e ora i Carabinieri. Il tritacarne mediatico ci insegna come possa, da un giorno all’altro, cambiare la “verità”. Una verità ancora oggi, non suffragata da alcuna sentenza se non quella di assoluzione di medici, infermieri e agenti di custodia. Ho riflettuto a lungo prima di scrivere questo editoriale. Ho riflettuto perché, in questi anni mi sono schierata in prima linea, mi sono “insediata” prepotentemente in questo processo mediatico, e ho scritto anche la versione di chi è stato accusato di un delitto così atroce. E l’ho fatto con il doveroso rispetto nei confronti di una persona che non c’è più e del dolore della sua famiglia. Si, pur avendo in questi anni contrastato ed espresso opinioni nettamente contrarie a quelle di Ilaria Cucchi, il rispetto verso il dolore non è mai venuto meno, perché sono riuscita a scindere il dolore dall’ideologia: sia la mia che quella di Ilaria Cucchi. Non ho mai sostenuto che Stefano fosse morto di suo, mai detto che meritasse di morire perché tossicodipendente. Lo preciso perché alcuni mi hanno contestato ciò. Così come ho scisso l’ideologia dal dolore, allo stesso modo, ho scisso l’essere umano dal “peccatore”. I suoi errori avrebbe dovuto pagarli con il carcere e non con la vita sia chiaro, così come ho sempre sostenuto che, se la Magistratura accertasse responsabilità a carico dei Carabinieri, questi avrebbero dovuto pagare come è giusto che sia. Detto ciò, non mi rimangio né nego, nulla di tutto ciò che in questi anni ho scritto. Perché l’ho scritto leggendo gli atti e sulla base delle dichiarazioni dei legali, che poi vi abbia inserito anche l’idea (non solo mia) che la Cucchi abbia coltivato la sua notorietà, non lo nego e lo riconfermo. È un mio personale convincimento e, in quanto tale, non intacca l’iter processuale. Il tritacarne mediatico però, ci insegna che in questi anni, altri convincimenti abbiano in un certo senso disegnato la linea di questo processo. Inizialmente l’accusa ipotizzava che le percosse Stefano Cucchi le avesse subite nelle celle di sicurezza di piazzale Clodio, da parte della polizia penitenziaria. Circostanza avallata dal legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, che nel ricorso in Cassazione avverso l’assoluzione degli agenti, escluse responsabilità a carico dei Carabinieri ritenendo quelle macchie sotto gli occhi, come eritema riconducibile alla naturale conformazione del ragazzo. Improvvisamente, l’insufficienza di prove e quindi, la mancanza di un uomo in divisa da consegnare al popolo assetato di vendetta, fa sì, che quell’eritema divenisse il segno di un violentissimo pestaggio. Pestaggio che ha risvegliato le coscienze e le memorie di Carabinieri come Riccardo Casamassima e la sua compagna Maria Rosati, i quali improvvisamente dopo 6 anni, ricordano di avere udito il Maresciallo Mandolini raccontare ad altri sottufficiali, l’avvenuto pestaggio ai danni di Cucchi. Circostanza che secondo Casamassima, sarebbe avvenuta uno o due giorni successivi all’arresto, dunque con Cucchi ancora in vita e con nessuna preoccupazione da questo punto di vista, per i carabinieri presunti “colpevoli”. Tra l’altro, il Casamassima, oramai social e lanciato sulla piazza mediatica, sostiene di aver sempre denunciato nel corso della sua carriera, superiori per presunti abusi, senza alcuna paura perché lui è un vero Carabiniere e crede nella sua divisa. Peccato però, tocca obiettivamente constatare, che la denuncia sul Caso Cucchi non sia avvenuta con la stessa solerzia delle altre, bensì dopo sei anni. E va bene. Due giorni fa, dopo 9 anni, anche Francesco Tedesco, fa la sua importantissima ammissione. Sporge una denuncia che dà avvio all’apertura di una nuova inchiesta contro ignoti, nel corso della quale viene sentito tre volte e dichiara di aver intimato più volte ai colleghi D’Alessandro e Di Bernardo, accusati con lui di omicidio preterintenzionale, di fermarsi. Si, di fermarsi, perché lui quella sera avrebbe assistito a scene di violenza che i due colleghi avrebbero perpetrato ai danni del Cucchi. Arriva la svolta nel processo, Tedesco dichiara ciò che – come detto dal PM – ha taciuto in questi anni, in quanto spaventato dalle possibili ripercussioni sulla sua carriera e perché aveva capito di essere solo dinanzi un muro più grande di lui. Secondo la testimonianza resa, Tedesco sarebbe stato indotto dai superiori a tacere, tant’è che la sua annotazione di servizio, che raccontava le dinamiche di quella notte, è stata fatta sparire e non è arrivata mai in Procura. Questi sono i fatti, ma io voglio ricordare una cosa. Francesco Tedesco è il Carabiniere di cui la Cucchi diffuse la foto in costume, il carabiniere che la Cucchi definì “uno di quelli che si è divertito a pestare mio fratello”. Post su Facebook ripreso da tutti i giornali, che ha visto Tedesco alla gogna e vittima di pesanti minacce. Post su Facebook che ha rovinato la vita di Tedesco e della sua famiglia. Post su Facebook che poi la Cucchi avrebbe cancellato “per errore”. Tra l’altro Tedesco è lo stesso Carabiniere che, secondo la Cucchi, la guardava “con aria di sfida”. Il Carabiniere a cui la Cucchi avrebbe fatto abbassare lo sguardo. Perché mai Tedesco, che dentro di sé, custodiva questo importante ricordo, avrebbe dovuto guardarla con aria di sfida? Ecco, torniamo al concetto di tritacarne mediatico. Così come all’epoca si gridava all’assassino carcerario, allo stesso modo faceva comodo raccontare agli accecati internauti social, che un presunto pestatore le incutesse timore con lo sguardo. Improvvisamente, adesso Tedesco è prezioso. Perché in questa storia, chi racconta ciò che alla Cucchi piace sentirsi dire, da carnefice diventa eroe. Con la penitenziaria non si è mai scusata. Con Tedesco lo farà? Gli restituirà dignità? Ancora un altro passaggio… Io non voglio entrare nel merito delle dichiarazioni di Tedesco. Le apprendo e come tali le tratto nello studio del caso, in attesa di una pronuncia dei giudici, perché tanto le sentenze non le fa il PM, ma i giudici. Però è doveroso precisare che Tedesco nelle sue dichiarazioni non dice che i suoi colleghi hanno ucciso Stefano Cucchi. Dice che lo hanno picchiato. Questo, seppur grave, è ben diverso da un omicidio. Queste sono percosse e, se saranno accertate con prove incontrovertibili, allora dovranno essere punite come è giusto che sia. Ricordiamo che la perizia medico legale disposta dal Gip ed eseguita da un collegio di luminari, guidati dal prof. Francesco Introna, esclude nesso causale tra lesioni e morte. Dunque, esclude le percosse come causa del decesso Stefano non è morto di suo, ma nemmeno di botte. In più, mi chiedo… Che interesse abbia mai potuto avere il Maresciallo Roberto Mandolini, a coprire una cosa del genere. Perché farlo? A che pro, considerato che, dalle stesse testimonianze di Tedesco, non avrebbe partecipato materialmente al presunto pestaggio. Questo per dire che, con obiettività, come ho sempre fatto, continuerò a cercare la verità e a rendere note eventuali anomalie in questo processo. La testimonianza di Tedesco apre un nuovo scenario, e attendiamo di sentire tutte le versioni. Perché nonostante uno dei Carabinieri che ho sempre difeso, abbia ammesso, la presunzione di innocenza vale comunque anche per gli altri imputati che, ripeto, se dovessero essere accertati colpevoli per il pestaggio, allora pagheranno. Ma correggiamo il tiro: colpevoli di pestaggio, e non – come dicono alcuni media – colpevoli di pestaggio che ha provocato la morte del Cucchi. Sulla perizia medico legale non vi è scritto questo. In quanto alle scuse… Ilaria Cucchi le pretende da un po’ di gente perché adesso è convinta di avere la verità in tasca: ma proprio lei ci ha insegnato che la verità spesso viene riscritta. Sui social e nei tribunali, e questa è ancora all’inizio. Poi se lei né è davvero convinta di questa verità e queste scuse le vuole, bè…  Devolva 1.342.000€ di risarcimento avuti dal Pertini, per cause di verità. Chieda scusa alle dignità di chi ha accusato quando i segni del pestaggio erano eritema. Aiuti i giovani avvolti dal buio della droga ad uscirne. Come se lo stesse facendo per Stefano, perché Stefano andava aiutato molto prima, da vivo. Cosi gli renderebbe giustizia per sempre, altrimenti è solo sete di vendetta.

CUCCHI, ECCHIMOSI POST PESTAGGIO? MA SPUNTA UN EDEMA ZIGOMATICO DI 15 GIORNI PRIMA. Quando anche l'avvocato Anselmo non credeva alle percosse dei Carabinieri. In allegato stralci del ricorso in Cassazione e della perizia disposta dal Gip che esclude le lesioni come causa di morte, scrive Elena Ricci su Tarantini Time il 18 ottobre 2018. PREMESSA: Per chi si interroga sulla fonte di questa notizia, specifico che TarantiniTime è un quotidiano regolarmente registrato presso il Tribunale di Taranto con provvedimento nr° 5 del 6 settembre 2017 e del quale la scrivente, è direttore responsabile. Cosa c’entrano notizie del genere su un quotidiano locale? Sul mio quotidiano sono libera di scrivere senza censure assumendomi la piena responsabilità di quanto riportato, tra l’altro, suffragato da atti processuali. Se secondo la difesa della famiglia Cucchi a parlare nel processo è il corpo di Stefano, è vero anche che qualcosa da dire ce l’abbia la perizia incaricata dal Gip Elvira Tamburelli, per l’incidente probatorio. Una perizia effettuata da un collegio di luminari di medicina legale: il professor Francesco Introna, ordinario di medicina legale nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, direttore della U.O.C. di Medicina Legale Universitaria, della A.O.U.C. Policlinico di Bari; il professor Francesco Dammacco, emerito di medicina interna presso l’Università di Bari; il dottor Cosma Andreula direttore delle radiologie del Gruppo GVM della Puglia; il professor Vincenzo D’Angelo, associato cattedra di neurochirurgia presso l’Università degli studi di Foggia e consulente di neurochirurgia presso l’Istituto clinico Humanitas di Rozzano (MI). Dalla documentazione sanitaria consegnata ai periti in sede di incarico, emerge uno storico clinico relativo a Stefano Cucchi, che va dal 27 dicembre del 1999 fino al giorno del suo decesso, 22 ottobre 2009, presso il reparto di medicina protetta dell’ospedale ‘Pertini’ di Roma. Dunque, un quadro clinico di ben dieci anni, in cui sono riassunti i vari ingressi di Stefano Cucchi nei vari ospedali, le varie cause e le diagnosi. In molte di queste note Stefano Cucchi risulta essersi recato in ospedale per traumi distorsivi e contusivi, dovuti a riferite cadute o incidenti stradali. Tra queste, alcune hanno attirato la nostra attenzione.

6 settembre 2003 – Dolori in regione sacrale, coccige. Come possibile leggere dallo stralcio in allegato, il 6 settembre 2003 (6 anni prima della morte), Cucchi si reca in ospedale lamentando dolori al sacro – coccige, proprio la zona in cui (secondo le recenti testimonianze) avrebbe preso il calcio dai carabinieri: “in direzione dell’ano”. A quanto pare si rese anche necessario l’intervento della Polizia, a causa del «comportamento aggressivo e ingiurioso». Questo stralcio di referto del 2003, già ci dice (così come lo ha detto ai periti) che esiste un precedente per quanto riguarda eventuale traumatologia nella zona sacrale.

22 settembre 2003 – Trauma lombare e frattura della vertebra L3. In questo altro stralcio presente in perizia e datato 22 settembre 2003, si legge di un ingresso in ospedale per un trauma lombare e per una frattura amielica della vertebra L3 a causa di un riferito trauma della strada. Il giorno seguente, 23 settembre 2003, viene ricoverato ma, come potrete leggere, la causa non è comprensibile: incidente automobilistico di diversi mesi o (addirittura) anni prima, oppure caduta dal secondo piano di un palazzo?

1 marzo del 2004 – Un persistente dolore toracico. Ancora un ingresso in ospedale per dolore toracico per il quale rifiuta il prelievo di sangue chiedendo di rimanere in osservazione. Nel documento si legge che quando gli si spiega che ciò non è possibile, il Cucchi avrebbe aggredito il medico costretto a chiamare la Polizia.

23 giugno 2007 – Frattura composta della spina nasale. Il 23 giugno del 2007, quindi due anni prima del decesso, Cucchi si reca in ospedale e riferisce di aver subito un’aggressione. La diagnosi è quella di frattura composta della spina nasale di sinistra. Una domanda sorge spontanea: nessuno si è mai accorto dei frequenti incidenti e aggressioni subiti da Stefano Cucchi? O stava talmente bene che queste sono passate del tutto inosservate?

30 settembre 2009 – 15 GIORNI PRIMA DELL’ARRESTO. ATTENZIONE! E qui, lo stralcio forse più interessante. il 30 settembre del 2009, dunque 15 giorni prima dell’arresto da parte dei Carabinieri, Stefano Cucchi viene trasportato in ospedale poiché trovato accasciato in terra «con riferito malessere e cefalea in seguito ad incidente stradale con trauma del capo avvenuto in serata». Dall’esame obiettivo dei medici si rileva un edema nella regione zigomatica destra, la diagnosi conferma il trauma nella regione zigomatica destra e un trauma emicostale sempre in regione destra.

EDEMA REGIONE ZIGOMATICA DESTRA. Riflettiamo su questo passaggio. Edema regione zigomatica destra. Che cosa è l’edema? Da definizione del dizionario, l’edema è un accumulo di liquidi che può interessare una zona circoscritta, come ad esempio una gamba, oppure può essere generalizzato, quando si manifesta in tutto l’organismo. In questo caso, prima che l’edema sia clinicamente evidente, devono accumularsi diversi litri di liquido. In caso di traumi facciali, l’edema causa dapprima un rigonfiamento e, nel caso di rottura di capillari, anche ecchimosi diffuse. Ci sta dunque, che i rossori evidenziati nelle foto scattate a Stefano Cucchi all’ingresso di Regina Coeli (dopo udienza di convalida durante la quale nessuno si è accorto dei malesseri del Cucchi), siano imputabili a quell’incidente avvenuto 15 giorni prima. A rafforzare questa tesi d’altronde, è lo stesso avvocato Fabio Anselmo nel suo ricorso in Cassazione avverso l’assoluzione degli agenti di Polizia Penitenziaria. L’avvocato Anselmo esclude che i Carabinieri abbiano pestato Cucchi, perché se così fosse stato, avrebbe lamentato dolore e lo avrebbe riferito ai Carabinieri. Escludiamo da questa ipotesi i Carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale che avrebbero potuto mentire, stando alla recente testimonianza di Tedesco, ma parliamo dei Carabinieri che hanno accolto Cucchi a Tor Sapienza e che il giorno seguente lo hanno riaccompagnato a Piazzale Clodio. Uno di questi, Francesco Di Sano, risulta ora indagato per le modifiche ad alcune annotazioni redatte relativamente a quella mattina. Modifiche, come ha specificato Di Sano, ordinategli da un superiore. Lo stesso Di Sano (come potrete leggere nello stralcio sotto), che all’epoca dei fatti dichiarò insieme ad altri due Carabinieri, Stefano Mollica e Pietro Schirone, che Cucchi quei segni la mattina dell’udienza di convalida ce li aveva. Dichiarazioni che secondo l’avvocato Anselmo, erano «inattendibili, se non false». E lo sostiene perché sempre secondo Anselmo: «Al momento della celebrazione dell’udienza di convalida dell’arresto, il Cucchi non presentava quella evidente e marcata maschera ecchimotica». A questo punto i dubbi sono due: o le “convinzioni” della difesa cambiano a seconda di chi e cosa si può accusare, oppure di quell’incidente del 30 settembre 2009, due settimane prima, non si vuol tener conto o, peggio, nessuno se ne è accorto. Tornando un attimo alla perizia e per rispondere a quanti mi hanno chiesto “ok, allora di cosa è morto?”, rispondo che i periti non sono riusciti a stabilire con certezza una esatta causa di morte, ma hanno prospettato due ipotesi: la prima, meno probabile, morte improvvisa da epilessia; la seconda a causa di un riflesso vagale bradicardizzante, dovuto ad una dilatazione di una vescica neurogenica che si sarebbe formata a seguito di lesioni. Ma attenzione: in questa ipotesi, il decesso non è stato causato dalla vescica in sé, ma dalla sua dilatazione. E la dilatazione non è avvenuta a causa delle lesioni. Questo è il motivo per il quale i periti concludono la perizia stabilendo che eventuali lesioni, traumi o percosse, non sono correlabili direttamente o indirettamente, in maniera causale o concausale con l’evento morte. Questo per dire cosa? Che la testimonianza (e non confessione) del vice brigadiere Francesco Tedesco, in cui accusa i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro di aver pestato Cucchi, può essere anche vera (nessuno lo mette in dubbio, ma sarà il processo a dirlo). Ma non va strumentalizzata da parte dei media che in questi giorni hanno titolato “LA CONFESSIONE DEL MASSACRO”. Ciò che dice Tedesco, seppure verità che la Magistratura dovrà accertare, non significa che Stefano Cucchi sia stato ucciso dai Carabinieri. In questo caso l’omicidio preterintenzionale non esiste, ma esistono le lesioni che, se accertate a carico dei Carabinieri, è giusto che siano severamente punite. Però giocare con la testimonianza di un Carabiniere fino a qualche mese fa sbattuto sulla pagina della Cucchi, insultato dagli utenti, minacciato, violato nella vita privata, per imboccare all’opinione l’idea che abbia confessato un omicidio da parte dei suoi colleghi, è moralmente scorretto. La perizia parla da sola. Possibile che mai nessuno si sia accorto negli anni, dei vari traumi e riferite aggressioni, subite da Stefano Cucchi, a tal punto da non rendersi conto se quei rossori sotto gli occhi, li avesse prima, dopo o durante l’udienza di convalida? O appaiono in base a chi si vuol dare la colpa? Riccardo Casamassima, il corpo di Stefano, Francesco Tedesco. Ognuno racconta una verità. La perizia e i referti di cui ho allegato stralci. Anche quella è una verità, scientifica che non esclude lesioni, magari ci sono state e sono da PUNIRE. Ma le esclude come causa di morte. Anche perché in dieci anni, di traumi fisici Stefano Cucchi (come da referti allegati) ne ha subiti molteplici. Dopo nove anni di processi mediatici, una vera verità forse ce la meritiamo tutti.  

Ilaria Cucchi: “Denunciata dal carabiniere imputato per la morte di Stefano, vuole 50mila euro”. "Mi ha fatto causa perché avrei leso la sua immagine", scrive la sorella del geometra romano su Facebook, scrive il 21 Settembre 2018 su TPI. “Il maresciallo Mandolini mi ha fatto causa perché avrei leso la sua immagine con questa pagina. Vuole da me 50mila euro”. Lo scrive sul suo profilo Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il geometra romano morto nel 2009 dopo una detenzione di una settimana. Mandolini è uno dei cinque carabinieri imputati nel processo bis per la morte di Cucchi (qui la ricostruzione completa della storia). “Ha cancellato dalla sua pagina tutti gli innumerevoli post provocatori ed offensivi nei confronti miei e della mia famiglia – scrive Ilaria Cucchi nel suo post – per non parlare di Stefano. Ma io li ho conservati tutti. Il maresciallo Mandolini ha deposto il falso e depistato le indagini sulla morte di mio fratello, facendo in modo che la mia famiglia affrontasse anni di un processo falso costosissimo sul piano economico e soprattutto emotivo. Ora vuole pure 50mila euro”. Roberto Mandolini, il 15 ottobre 2009, era uno degli agenti in servizio alla caserma dei carabinieri in cui fu condotto Stefano Cucchi dopo l’arresto. Secondo l’accusa, avrebbe contribuito a depistare le indagini, facendo dichiarazioni che hanno portato all’incriminazione di tre agenti di polizia penitenziaria. Un altro carabiniere, Riccardo Casamassima, supertestimone del processo, ha dichiarato di aver raccolto proprio da Mandolini una confidenza su quanto accaduto a Cucchi: “È successo un casino. I ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato. Mai visto uno ridotto così”, avrebbe detto Mandolini. Lo stesso Casamassima, in aula, ha poi dichiarato di aver appreso che i carabinieri coinvolti “stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti di polizia penitenziaria”. Lo scorso giugno, poco dopo la sua testimonianza al processo, Casamassima aveva denunciato in un video tutte le ritorsioni a cui è dovuto andare incontro, a partire dal trasferimento. “Prima di andare al processo a testimoniare avevo confessato le mie paure, che poi si sono concretizzate. Mi è stato notificato un trasferimento presso una scuola. Sarò allontanato da casa e demansionato. Tutto questo è scandaloso”, dice il carabiniere nel video. Lo scorso 12 settembre è uscito nelle sale e su Netflix “Sulla mia pelle”, il film che racconta l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi.

La morte di Cucchi ha lasciato il segno sulla nostra pelle. Successo e polemiche per il film che racconta gli ultimi giorni del giovane ucciso in carcere, scrive Boris Sollazzo il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Quando smetterete di cadere per le scale?». A chiederlo è un secondino, un agente di polizia penitenziaria. «Quando smetteranno di picchiarci». A rispondere è Stefano Cucchi. Questo dialogo è diventato una sorta di parola d’ordine sui social, copiato e incollato ovunque, nelle discussioni fuori sui cinema o sui prati e nei centri sociali. Sulla mia pelle, come non succedeva da anni – neanche per La grande bellezza, che pure era entrato prepotentemente nel dibattito pubblico – ha riportato un film all’interno della dialettica di un paese. Non si parla d’altro, tutti vogliono vederlo. Un miracolo per una realtà marginale, commercialmente e purtroppo culturalmente, come il cinema italiano. Ora tutti sembrano darlo per scontato, eppure la storia di Stefano Cucchi poteva essere respingente e quindi fallimentare. Tanti, troppi di fronte alle prime recensioni positive, hanno reagito istintivamente con un “non so se ce la farò a vederlo”. Lo stesso accadde per lo splendido Diaz di Daniele Vicari con cui Sulla mia pelle di Alessio Cremonini condivide una fedeltà e un’onestà intellettuale verso il materiale processuale e verso la ricerca della verità quasi insopportabile. Ma rispetto a Diaz, che pure ebbe successo in Italia (2 milioni di incasso) e fu venduto all’estero, ora c’è Netflix. Ovvero 130 milioni di utenti per 190 paesi e la novità di un’uscita contemporanea in streaming legale e in sala. Il luddismo conservatore tipico di un’Italia pigra e corporativa ha reagito violentemente: in particolare l’Anec e l’Anica, che l’hanno visto come un attacco alla sacralità della sala. Senza capire, purtroppo, che l’enorme visibilità e l’incredibile successo di questo film, anche in sala (seconda media per sala delle ultime uscite), nasce proprio da quel pubblico raggiunto in poche ore. Più che un passaparola, uno tsunami, sottolineato da quella commovente seppur ambigua ondata di proiezioni gratuite pirata che non fanno altro che aumentare il “mito” del film. Commovente, perché costituita da giovani avidi di una storia dura, dolorosa, terribile, di farsi parte di un’indignazione civile. Ambigua perché chi ha “approfittato” del film – che pure era stato messo a disposizione di queste iniziative sociali dal 12 ottobre dai produttori con l’avallo della famiglia Cucchi, che in proposito ha fatto un appello esplicito – ha deciso di agire contro quel produttore, Lucky Red, che ha rischiato di suo per raccontare quella storia che, “piratata”, potrebbe non convenire narrare ad altri. Lo hanno fatto alla luce del sole (spesso troppa, tanto da non riuscire a vedere le immagini sui lenzuoli appesi in questi immensi consessi) perché sapevano che mai, visto il tema di quel film, avrebbe chiamato le forze dell’ordine per impedirlo. E hanno fatto vedere un bellissimo film nelle condizioni peggiori. Una storia italiana, fin troppo. Perché mentre Stefano faceva tanti miracoli, dal far diventare di massa una storia che aveva trovato l’attenzione mediatica solo grazie all’eroismo di Ilaria Cucchi, al far tornare il cinema al centro di tutto, mostrandoci un pubblico avido di storie difficili e impegnate, ci si dedicava al tafazzismo. Gli esercenti, per dire, hanno pensato bene, in gran parte, di boicottare il film. E giustamente il loro rappresentante, guarda un po’ quell’Andrea Occhipinti di Lucky Red che ha messo parecchio di suo per costruire il film e poi ha puntato su questa doppia distribuzione contemporanea, ha mollato. «Ho deciso di dimettermi perché la nostra scelta di distribuire Sulla mia pelle di Alessio Cremonini in contemporanea nelle sale e su Netflix ha creato molte tensioni tra gli esercenti che lo hanno programmato (pochi) e quelli che hanno scelto di non farlo (molti). II successo del film ha aumentato queste tensioni. Nonostante esistessero dei precedenti in Italia e ci sia un acceso dibattito a livello internazionale, non voglio che una scelta puramente aziendale venga considerata come una posizione della sezione distributori dell’Anica, visto il mio ruolo. Per non creare ombre o imbarazzo ai miei colleghi, ritengo quindi opportuno lasciare la carica di Presidente». Una dichiarazione dura nella parte iniziale e solo apparentemente conciliante nella seconda che fa capire quanto sia lontano il mondo dell’industria cinematografica non solo dalle esigenze del pubblico (altrimenti quelle sale indegne le terrebbero meglio) ma addirittura dalla propria stessa convenienza. Senza Netflix, senza i pirati sociali, senza la fame di questa storia alimentata di ora in ora, non ci sarebbe stato questo clamoroso successo di pubblico (non economico, ed essendo il cinema anche un’industria, è un problema) e questa penetrazione nell’immaginario collettivo. Merito di Alessandro Borghi, che ha il talento cristallino dei migliori interpreti americani degli anni ’ 70 e una modernità di sguardo e recitazione straordinari, della scrittura limpida e tesa di Lisa Nur Sultan, della regia impietosa di Alessio Cremonini, di un Max Tortora sontuoso e di una Jasmine Trinca come sempre perfetta. Ma soprattutto di Stefano Cucchi. Che ha lasciato abbastanza semi per far germogliare una storia tragicamente vera, spudoratamente onesta, raccolta da chi non ne ha voluto fare un santo, pur essendo morto da martire. Questo non è solo un film. Stefano Cucchi siamo noi, per questo lo sentiamo tanto sulla nostra pelle. Stefano, e quindi Alessandro, è tutti noi che le abbiamo prese da chi avrebbe dovuto proteggerci, tutti voi che potreste ogni giorno inciampare in scale che non smettono di picchiarvi. Quest’omicidio di stato ci rimane tatuato addosso nella sua verità, nella disperazione di un ragazzo indifeso che sbaglia troppe scelte e muore perché non trova rami a cui aggrapparsi. Non smettiamo di andarlo a vedere. Sosteniamo il film, sosteniamo la famiglia Cucchi che rimane uno dei pochi motivi per essere fieri di essere italiani. Continuiamo a sentire questa ingiustizia, questa infamia sulla nostra pelle. Ogni giorno, ogni volta che avremo la tentazione di voltare lo sguardo dall’altra parte. Perché Stefano ha cominciato a morire per le botte di quei carabinieri, ma il colpo di grazia l’ha ricevuto dall’indifferenza complice di tutti coloro, con camici e divise e toghe, che non lo hanno aiutato e difeso. Solo facendo valere i suoi diritti. Abbiamo il dovere di non rimanere indifferenti. E di andare in sala, perché non si smetta di raccontare le storie che non vorremmo vedere. Ma dobbiamo.

Ho visto il film su Stefano Cucchi con mio figlio. Alessandro Borghi è Stefano Cucchi in "Sulla mia pelle". Il film diretto da Alessio Cremonini è su Netflix e al cinema. Affollatissime anche le proiezioni nelle piazze di tutta Italia, scrive il 21.09.2018 Myriam Defilippi su Donna Moderna. Non è solo la pellicola di cui tutti parlano. “Sulla mia pelle” diventa un’occasione di confronto tra una madre stupita e un 16enne curioso. In una serata «come un pugno forte». «Mamma, lo guardi con me il film su Cucchi?» mi dice il 16enne di famiglia abbonato a Netflix, la piattaforma tv che ha prodotto Sulla mia pelle, pellicola oggetto di ovazioni e polemiche. La richiesta di mio figlio mi inorgoglisce, perché con il procedere della sua adolescenza si assottigliano i momenti di svago in comune. E mi stupisce, tanto che me ne esco con un supponente: «Ma tu come la conosci la storia di Stefano Cucchi?». Lui mi spiega: «Ne parla Tedua (cantante rap, ndr). In Wasabi freestyle dice “non c’è pace per Cucchi”. Quando l’ho sentito ho fatto qualche ricerca per capire chi fosse». Non guardiamo il film la sera dell’invito inaspettato: ci prendiamo un paio di giorni, quasi un respiro prima di una prova difficile in cui so che starò in apnea.

Quando decidiamo di affrontare Sulla mia pelle, cerco ancora di addomesticare l’ansia. «Vediamolo per 10 minuti» propongo. «Se non ci piace o è troppo duro, smettiamo». Mentirei se sostenessi che tanti scrupoli servono a proteggere solo mio figlio. Ma non c’è niente che ci distragga dallo schermo dopo che parte il racconto degli ultimi 7 giorni di vita del geometra 31enne arrestato a Roma il 15 ottobre 2009 per detenzione di stupefacenti e morto il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale Pertini (sull’intricata vicenda giudiziaria che ne è seguita vedi box a lato). Rimaniamo inchiodati con lo sguardo sul viso tumefatto di Stefano Cucchi (interpretato da uno straordinario Alessandro Borghi), indignati per la sua richiesta inascoltata di avere l’avvocato di famiglia anziché quello d’ufficio, inermi di fronte alla sua voce che via via si svuota come il suo corpo.

Per 100 minuti mio figlio non sfiora il cellulare e non commenta. Solo una volta spezza il silenzio: lui che non è mai entrato in tribunale si ritrova un tribunale che entra nella sua stanza. Ripete ad alta voce: «La legge è uguale per tutti». Quella dichiarazione solenne gli esce scandita con il suono di una promessa disattesa. Mentre scorrono i titoli di coda, per scacciare le lacrime mi appiglio alla recita dei doveri serali: «È tardi, fai lo zaino, vai a dormire». Mi zittisce: «Mamma, ascolta: ora è lui (il vero Cucchi, ndr) che parla». In sottofondo di nuovo l’udienza per la convalida dell’arresto, che a me pare identica alla scena già vista. Ma quando interviene la giudice, si sente che è diversa. Sui titoli di coda proprio la voce di Stefano Cucchi chiude una storia che nella realtà è ancora aperta. Mentre le nostre voci nella stanza si liberano in un incalzare di domande. «Ma perché lui ha rifiutato il cibo e non beveva?» chiede mio figlio. «Ha ricevuto le cure dovute?» aggiungo io. E continuiamo: «Perché tanti hanno accettato la versione secondo cui i lividi sul suo corpo erano stati causati da una caduta dalle scale?». «Perché i familiari non sono più riusciti a vederlo mentre era ricoverato?». Con il processo ancora in corso non è il momento delle risposte definitive, e chissà se tutte quelle attese arriveranno. L’ultimo commento, prima di andare a dormire, lo fa mio figlio: «Questo film è bello. Non vedi sferrare pugni o calci, però resta in te come un pugno forte, piantato nello stomaco».

7 anni di processi. La storia di Stefano, grazie alla battaglia promossa dalla sorella Ilaria Cucchi, è la più nota tra quelle sui presunti abusi delle forze dell’ordine in carcere. In 7 anni di processi (iniziati nel marzo 2011) c’è stato un altalenarsi di condanne e assoluzioni del personale medico e degli agenti di polizia penitenziaria presenti nell’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. Il processo bis, in corso, è partito il 13 ottobre 2017 in seguito al rinvio a giudizio di 5 carabinieri. Le accuse: omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. La prossima udienza si terrà il 27 settembre.

Il film su Cucchi da Venezia alla corsa per l'Oscar. Sulla mia pelle diventa fenomeno sociale, proiezioni ovunque, scrive Francesca Pierleoni il 18 settembre 2018 su Ansa. Non capitava da anni in Italia che un film diventasse un fenomeno sociale: sta succedendo con Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, che ricostruisce gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi (interpretato da uno straordinario Alessandro Borghi). Il successo di critica e di pubblico alla Mostra del Cinema di Venezia, è stato accompagnato dalle polemiche, prima per l'uscita, in contemporanea, su Netflix e in sala, con Lucky Red, e poi per le iniziative spontanee nate in varie città italiane, di proiezioni pubbliche gratuite non autorizzate. Promosse da centri sociali e associazioni, finora ne sono state organizzate circa 25 ed hanno radunato migliaia di persone (i picchi a Milano, Torino e Roma) nonostante condizioni di visione spesso disagevoli. Sono di oggi inoltre due ulteriori notizie: l'entrata del film nella top ten degli incassi, al nono posto, con la seconda media più alta del weekend, e l'iscrizione fra i 21 film candidati a rappresentare l'Italia agli Oscar. Il sostegno a Sulla mia pelle, è un fiume in piena, e ha trovato sui social network la vetrina ideale, con migliaia di tweet e commenti. Hanno partecipato anche protagonisti dello spettacolo e della società civile, da Jovanotti ("Bellissimo film. La vicenda di #stefanocucchi fa ancora male, questo film però fa bene a tutti") a Pietro Grasso, secondo il quale, vedendo Sulla mia pelle "È stato quasi come sentirla addosso l'agonia di quel ragazzo che è morto mentre era in custodia cautelare - ha scritto su facebook -. Molte cose, come tutti, le avevo lette sui giornali; altre me le aveva raccontate tra rabbia e dolore Ilaria, quando ci incontrammo in Senato quattro anni fa. Ricordo bene le sue parole, la sua sete di giustizia e di verità". Ilaria Cucchi fin da Venezia ha accompagnato e continua ad accompagnare Sulla mia pelle, in molte proiezioni nei cinema di tutta Italia, per parlarne con il pubblico: "È un film che mi restituisce, che ci restituisce mio fratello, morto di indifferenza - ha detto qualche giorno fa a Senigallia -. È un film duro, che racconta la nostra verità, ma che deve far riflettere tutti noi sul tipo di mondo in cui viviamo". Con l'associazione che ha fondato, la Stefano Cucchi - Onlus, aveva da subito lanciato l'iniziativa #StefanoCucchiinognicittà per proiezioni autorizzate anche al di fuori del circuito cinema, a partire dal 12 ottobre (un mese dopo l'uscita su Netflix e in sala): le richieste sono già un centinaio. L'associazione ha comunque commentato anche le iniziative spontanee di questi giorni: "Crediamo che siano la prova tangibile che c'è un'esigenza sociale fortissima di affrontare queste tematiche, le piazze piene (così come i cinema strapieni) - si legge su Facebook - ci dicono qualcosa di importante: forse qualcosa sta davvero cambiando!". Non mancano però le critiche a queste proiezioni "clandestine"/pirata (il social di Mark Zuckerberg su richiesta dei produttori e distributori del film ha cancellato tutti gli annunci degli eventi, ma non è servito a fermarle): sia per i danni che porterebbero agli incassi in sala, sia per i modi 'avventurosi' di fruizione. "Se la qualità è ridicola, abbiamo perso tutti" ha scritto Borghi su twitter; "Che un film venga proiettato in un lenzuolo che svolazza con un impianto audio opinabile (come è successo a Milano in Piazza Oberdan, ndr) non fa bene al film e non fa bene alla memoria della persona che il film racconta" ha commentato Alessio Cremonini. L'attenzione per Sulla mia pelle in ogni modo continua a crescere: fra le ultime iniziative annunciate quella di Lorenzo Tinagli, coordinatore nazionale della Federazione degli Studenti, che con l'appoggio di Ilaria Cucchi il 25 ottobre al Forum delle Associazioni presso il Ministero dell'Istruzione, chiederà al Ministro Marco Bussetti di dedicare una giornata alla proiezione del film "Sulla mia pelle" in tutte le Scuole Superiori: "Un gesto che riteniamo importante per ricordare quella drammatica vicenda irrisolta della storia del nostro Paese". 

Il film su Cucchi, il rito civile e la Trattativa centri sociali-Netflix. Dal “film necessario” alla “proiezione necessaria”, scrive Andrea Minuz su Il Foglio il 19 Settembre 2018. “Ma il film su Cucchi dove l’hai visto? Al cinema co’ Alessandro Borghi? A casa su Netlfix? Sdraiato sul pratone della Sapienza o a Milano, piazza Oberdan, coi collettivi?” Gran fibrillazione su e giù per la penisola. Come si potrà partecipare al meglio a questo “rito civile”? Sarà più urgente schierarsi con le proiezioni pirata senza sé e senza ma o sostenere il film al cinema? E su Netflix varrà lo stesso? Non si capisce. “Farlo vedere ovunque sia possibile, in ogni modo, il copyright se ne farà una ragione”, scrive qualcuno recuperando in salsa clandestina il mantra: “è un film che andrebbe proiettato nelle scuole”. Si apre un nuovo filone. Dal film “necessario” alla “proiezione necessaria”: “Circoli di partito e laboratori politici, collettivi studenteschi, associazioni culturali, una visione collettiva pensata come gesto di militanza civile”, spiega “Repubblica”. Le ragioni della sinistra e del cinema d’impegno ritrovano uno spazio comune, una piattaforma, una piazza, un pratone, tanta voglia di stare insieme. Altro che casa Calenda. Possono forse le polemiche sul copyright o sulla doppia uscita spezzare una tale forza d’urto? Certo che no. “In un paese che definanzia la cultura il problema non può essere questo” (sempre “Rep”, ricordarglielo ogni volta che si indignano per la frase “con la cultura non si mangia”). Il gioco è fatto. Netflix è riuscita a fare con il film su Cucchi quel che non gli era riuscito con “Suburra”. Ha finalmente agganciato il proprio brand al nostro immaginario e a l’unico linguaggio promozionale che qui funziona davvero. La marea di proiezioni clandestine (tutte ampiamente tollerate e promosse) non sono un imprevisto, ma la vera essenza di questa operazione: creare un effetto di “comunità antagonista”, dal basso, una partecipazione civile tanto più “pura” perché fuori dal copyright, dal profitto, dal mercato. Un happening dell’indignazione che funziona come un concerto o una manifestazione e conferma l’idea che da noi il cinema è anzitutto una “missione” (mica un lavoro). Vedere “Sulla mia pelle”, specie in proiezione pirata, è come “scendere in piazza”. Netflix fa suo il modello “Cinema America”: clandestinità, cultura antagonista e (poi) patrocinio delle Istituzioni. Il film piace. Sta andando bene nelle sale. L’ingorda industria del cinema italiano che, si sa, fattura miliardi, per una volta può farsi da parte e lasciarlo vedere a tutti. Presto fatto: Andrea Occhipinti (presidente distributori Anica) si dimette tra le polemiche ma ammonisce: “Sulla mia pelle non segna l’inizio di una nuova modalità distributiva: La centralità della sala cinematografica non è mai stata messa in discussione”. Mai? Veramente è successo quel che sapevamo già: la sala funziona quando scatta la logica dell’evento e del rito collettivo (come una volta succedeva con i cinepanettoni e oggi con Zalone a Natale). Il caso Cucchi (inteso come film) non può fare “sistema” – e questo lo dice anche Occhipinti – e casomai va messo accanto a “Modena Park”, il concerto di Vasco trasmesso su RaiUno, poi uscito in sala per tre giorni con incassi da blockbuster (l’effetto concerto qui è garantito dal tour promozionale degli attori e della sorella di Cucchi che accompagnano il film in sala). Sarebbe interessante capire non solo quanti spettatori sono andati al cinema nonostante Netflix, ma quanti saranno i nuovi abbonati Netflix dopo un’operazione che sta cambiando la percezione della piattaforma nel nostro paese. “Suburra” era un prodotto all’americana. “Sulla mia pelle” affonda invece nella tradizione italiana del film necessario, della battaglia civile e soprattutto del “non mi interessano gli incassi”. I centri sociali sono stati i migliori influencer che Netflix potesse avere. Da qualche giorno a Roma, nei pressi della Stazione Termini, c’è una pubblicità gigante del film che copre l’intera facciata di un palazzo. In alto l’immagine di Borghi-Cucchi, sotto l’invito a provare Netflix gratis per un mese con l’opzione “disdici quando vuoi”. Anche quando ti sarà passata l’indignazione.

Ilaria Cucchi ha dedicato il film su suo fratello a Salvini. Che è pronto a incontrarla. Presentato a Venezia "Sulla mia pelle", il film sul geometra romano morto in ospedale dopo le percosse subite dai carabinieri, scrive il 30 agosto 2018 Agi. "Guardando alcune scene di questo film ho pensato alla tortura e a tutto quello che si è dovuto faticare per far approvare una legge contro la tortura, così come mi sono venute in mente le parole dell'attuale ministro Salvini che sostiene che il reato di tortura lega le mani alle forze dell'ordine e che se in qualche fermo ci scappano un po' di botte pazienza. Per questo questo film lo dedico a lui e a tutti quelli che la pensano come lui". Sono le parole pronunciate da Ilaria Cucchi al termine della proiezione del film "Sulla mia pelle", dedicato alla vicenda del fratello Stefano Cucchi, in concorso alla 75ma Biennale del Cinema di Venezia. "È un'emozione grande ripercorrere tutto quello che è stato e vedere un sentimento così forte anche in tutti quelli che hanno avuto un ruolo in questo film e che hanno messo l'anima dall'inizio alla fine", ha aggiunto, "questo film secondo me è e sarà uno strumento importantissimo per restituire un anima e una dignità a mio fratello e anche attraverso di lui per rappresentare una speranza per molti altri - ha aggiunto - di questo film secondo me si parlerà molto a lungo".

Il ministro: "Chi sbaglia va punito ma difendo diritto alla sicurezza". "Voglio dire che sono pronto ad incontrare volentieri la famiglia e a vedere il film. Ma anche a continuare a difendere la possibilità di lavorare delle nostre forze dell'ordine", ha replicato Salvini, "se in pochi o pochissimi hanno sbagliato indossando una divisa vanno puniti anche più degli altri ma difendo il diritto alla sicurezza, ad una vita serena alle centinaia di migliaia di uomini delle forze dell'ordine che devono essere facilitati e non ostacolati. Ma ribadisco la mia disponibilità ad incontrare i famigliari e a spiegare cosa farò da ministro".

Una tragedia italiana. Quella di Stefano Cucchi è una tragedia italiana dove violenza ottusa, negligenza, malasanità, malagiustizia, vigliaccheria e complicità si mischiano e si sovrappongono. La vicenda del geometra romano, morto il 22 ottobre 2009 "di fame e di sete" (come si legge nella sentenza della Cassazione) all'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato per le percosse subite in caserma sei giorni prima, è ora raccontata da Alessio Cremonini in un film, 'Sulla mia pelle - Gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi', primo film in concorso nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia e prima proiezione dell'edizione 75 della kermesse lagunare. Un Alessandro Borghi superlativo veste i panni del geometra romano, ex tossicodipendente e spacciatore diventato, grazie all'impegno della famiglia, della sorella Ilaria in particolare, un simbolo di malagiustizia e di abuso di potere da parte di alcuni elementi delle forze dell'ordine. In effetti il film, interpretato anche da Jasmine Trinca (Ilaria Cucchi), Max Tortora e Milvia Marigliani nei panni dei genitori di Stefano, scorre in maniera didascalica e un po' piatta per 100 minuti mantenendo una linea di prudenza piuttosto evidente. Il processo è in corso e al momento non ci sono condannati. Per questo Alessio Cremonini racconta quello che si sa di certo basandosi sui documenti ufficiali, mantenendosi sempre rigoroso nel racconto. In 'Sulla mia pelle' si racconta che Stefano Cucchi è stato massacrato di botte (e di questo 5 carabinieri sono sotto processo), che è stato portato in una struttura protetta dell'ospedale Sandro Pertini dove è stato curato in maniera sciatta e dove medici e infermieri non si sono accorti (né curati) dell'aggravarsi delle sue condizioni, che i genitori non sono riusciti a vedere il figlio malgrado si siano presentati più volte in ospedale. Una scelta narrativa interessante in cui non ci sono persone cattive o particolarmente violente (a parte i carabinieri che hanno pestato il ragazzo), ma tutti sono colpevoli. Dai militari e i poliziotti che capiscono delle violenze e stanno zitti ai medici e gli infermieri che curano con sufficienza al limite dell'incompetenza il detenuto malato, dai genitori che affrontano il carcere del figlio come una sconfitta personale (erano riusciti a farlo disintossicare e pensavano che fosse uscito dal mondo della droga) all'avvocato d'ufficio assente e disinteressato, dal giudice che convalida l'arresto di Cucchi che "è l'unico a non essersi accorto del pestaggio" all'assistente sociale che non riferisce alla sorella Ilaria delle reali condizioni di Stefano. Un mondo in cui la “banalità del male” ha il sopravvento e dove, come ha scritto il regista nelle sue note, "Stefano Cucchi viene a contatto con 140 persone fra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri e in pochi, pochissimi, hanno intuito il dramma che stava vivendo".

Il caso Cucchi visto da vicino, scrive il 21 settembre Roberto Saviano su “L’Espresso". Il film "Sulla mia pelle" racconta una storia che ci riguarda tutti. Senza mostrare la violenza, ma facendola vivere. Sicuri di conoscere la storia di Stefano Cucchi? Sicuri di conoscere i dettagli della vicenda che ha portato alla sua morte? Forse prima che uscisse “Sulla mia pelle” avreste detto di sì. Avreste risposto che sapevate chi fosse Cucchi e che i dettagli del suo calvario vi erano noti. Ricordavate le immagini del suo corpo smagrito e tumefatto mostrate dalla sorella Ilaria, donna coraggiosissima. E tanto vi bastava per dire: so cosa è accaduto. Eppure non era così. Non sapevate abbastanza e lo dimostra l’accoglienza che ha avuto il film su Stefano Cucchi. Non conto più i messaggi che mi stanno arrivando da chi, interessato alla vicenda di Stefano Cucchi, mi dice: «Non pensavo avesse sofferto tanto», «Non pensavo che queste cose potessero accadere», «Credevo di sapere e ho scoperto di non sapere niente». Qualcuno ammette che, mentre guardava “Sulla mia pelle”, a un certo punto il corpo è come se si fosse rifiutato di far entrare altri fotogrammi. Gli occhi pieni di lacrime impedivano di vedere cosa accadeva: una sorta di meccanismo salvavita. L’accoglienza e l’impatto che ha avuto “Sulla mia pelle” dimostra, più di ogni ragionamento possibile, come si sia compiuto il delitto perfetto, quello che si consuma lentamente, talmente tanto da non riuscire nemmeno a vederlo. Vittima è la cronaca, ovvero il racconto quotidiano di ciò che accade, un racconto che è superato, nel tempo di un respiro, dall’evento successivo. Non si riesce più a dare priorità a una notizia rispetto a un’altra e così la vicenda di Stefano, di cui pure ci siamo occupati in tanti, è stata spesso messa in ombra, superata anch’essa in un lasso di tempo infinitesimale. E quando la cronaca è sfiancata da un flusso continuo e ininterrotto di notizie, quando la nostra attenzione è continuamente sollecitata tanto da non riuscire a fermarsi, a ragionare, ad attribuire priorità, ecco che film, serie tv e documentari vengono in soccorso. In passato uno dei principi fondamentali dei prodotti cinematografici e televisivi era avere attenzione a non rappresentare una realtà troppo vicina, una realtà troppo “vera” perché esistono - esistevano - delle precise regole per la trasposizione su schermo. La verità non funzionava così com’era, aveva bisogno di diventare un racconto fluido, di avvicinarsi all’archetipo, di poter essere l’esempio. Un tempo era l’universale a essere raccontato, quell’universale che potesse contenere il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il caso Uva, il caso Magherini, il caso Mastrogiovanni, per citare alcuni nomi di persone morte mentre erano “affidate” allo Stato. Oggi al contrario abbiamo la necessità di fermarci sul particolare, di fermarci sul caso singolo azzerando. La regola della giusta distanza, quella che consentiva al racconto di non presentare distorsioni, di essere dentro i fatti ma a una distanza tale da non esserne assorbito, oggi quasi non vale più. Oggi non ci spaventa più la deformazione che la vista può subire dalla eccessiva vicinanza, sappiamo invece che quella vicinanza è necessaria a eliminare i frammenti di informazione non pertinenti, quelli che distraggono. Penso a quando le notifiche continue di WhatsApp rompono la concentrazione, e poi si ritorna alle notizie, ma nel frattempo la home che stavamo consultando è stata aggiornata e le news sono cambiate. La notizia che volevamo approfondire è già vecchia, anche se ha solo dieci minuti e chi di noi sente di potersi permettere il lusso di sprecare tempo? Oggi abbiamo dosi massicce di aggiornamenti e un numero infinito di approfondimenti senza sapere in quali avere fiducia e di quali dubitare. Ed ecco che questo pieno, che alla fine diventa un tragico vuoto, viene riempito da racconti che si fanno portatori di punti di vista forti, ma che non hanno nulla a che fare con la tifoseria che invade i social. Esistono storie che nessuno conosce davvero, ecco perché c’è bisogno che il cinema vada in soccorso alla cronaca. Il valore di “Sulla mia pelle” sta in questo: ha raccontato la storia di Stefano Cucchi senza mostrare la violenza, senza pugni e calci; non servivano a svelare un orrore che riguarda tutti, quello di un cittadino italiano morto mentre era affidato allo Stato. Mentre lo Stato ne era custode e responsabile.

Caso Cucchi, parlano medico e infermiere: "In cella aveva lividi, camminava male, ma disse che non aveva bisogno di niente". Le testimonianze al processo in corso a Roma davanti alla prima Corte d'Assise del Tribunale di Roma, presidente Vincenzo Capozza, sulla morte del geometra arrestato nell'ottobre 2009 per spaccio di droga e deceduto una settimana dopo in ospedale. Imputati sono cinque carabinieri. E un agente penitenziario dice: "Era evidente che era stato pestato, in tribunale non si reggeva in piedi", scrive il 27 settembre 2018 "La Repubblica". Parlano un medico e un infermiere al processo Cucchi bis che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale. Entrambi videro Stefano in caserma e nelle celle del Tribunale di Roma ed entrambi raccontano di aver notato i lividi sul volto e la sua camminata dolorante, appoggiato ai muri. Gli offrirono soccorso e sostegno ma, concordano le testimonianze, a tutti Stefano Cucchi rispose che non aveva bisogno di nulla. Un agente penitenziario è stato anche più esplicito: "Era evidente che era stato pestato, in tribunale non si reggeva in piedi" ha detto durante la sua deposizione l'ispettore superiore della Penitenziaria Antonio La Rosa. E ha aggiunto: "Vidi per la prima volta Cucchi alle celle d'uscita del tribunale: camminava male, in viso era parecchio rosso, aveva segni evidenti di occhiaie profonde". Ma tutti lo lasciarono lì, non andarono più a fondo sul dramma che stava vivendo quel giovane detenuto. Udienza da togliere il fiato quella in corso a Roma, davanti alla prima Corte d'assise, per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell'ottobre 2009 a Roma per droga e poi morto una settimana dopo in ospedale. Imputati sono cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale. All'attenzione dei magistrati le condizioni di Stefano Cucchi mentre si trovava nella città giudiziaria di Roma prima e dopo l'udienza di convalida del suo arresto per droga. "Disse che aveva dolori alla zona sacrale e agli arti inferiori. Camminava appoggiandosi con la mano al muro. Era leggermente curvo, scaricava parte del peso sul muro; chiese un farmaco che prendeva abitualmente". Così racconta ai giudici Giovanni Battista Ferri, responsabile dell'ambulatorio medico della Città giudiziaria di Roma, che lo visitò nella struttura giudiziaria. Intorno alle 14 del 16 ottobre 2009 (il giorno dopo l'arresto del giovane per droga) fu lui ad essere ad essere avvisato della presenza di Cucchi nelle celle del tribunale a conclusione dell'udienza di convalida. "Andai nelle celle, mi presentai e gli chiesi cosa potevo fare per lui; la risposta fu che non aveva bisogno di nulla". Sulle sue condizioni di salute il medico ricorda che "lo vidi solo in viso. Nel referto scrissi che aveva lesioni ecchimotiche su entrambi gli occhi e che aveva riferito dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori. Secondo me erano lesioni da evento traumatico, e dal dolore sembravano lesioni recenti, ma lui rifiutò di farsi visitare". E alla richiesta sul come si fosse procurato quel dolore, la risposta fu "che era caduto dalle scale il giorno precedente, anche se quella risposta non mi convinse. Comunque, le sue condizioni di salute consentivano di andare in carcere; era idoneo per la detenzione". Prima del dottor Ferri è stato sentito anche un ex detenuto, portato nelle celle di piazzale Clodio lo stesso giorno di Cucchi dopo un arresto per spaccio, che ha detto di aver sentito Cucchi bussare alla porta della cella. "Chiedeva la terapia e il metadone, chiamava le guardie, ma non venivano. E allora qualcuno dalle altre celle urlò di non chiamarle 'guardie', ma 'agenti'. E quando cominciò a chiamarli così, loro arrivarono". In tribunale era stato sentito anche Francesco Ponzo, un infermiere che era nell'ambulanza che nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 intervenne su chiamata nella caserma dei carabinieri di Tor Sapienza, dove Cucchi era stato portato. "Trovai Cucchi dentro una cella poco illuminata. Era disteso sul letto, rivolto verso il muro e coperto fino alla testa. Lo salutai, e mi rispose 'Non ho bisogno di niente'". Lo vidi un po' in viso, per pochi secondi - ha detto l'infermiere - Aveva pupille normali e una ecchimosi nella zona zigomale destra. Da sotto le coperte emergeva solo il braccio destro. Riuscii a prendergli il battito e la pressione, erano normali. Mi sembrò una persona magra con una muscolatura tonica. Gli dissi 'Vieni con me, andiamo in ospedale. Se hai qualche tipo di problema, poi magari ne parliamo in separata sede. Ma per la mia insistenza, lui si irritò. Alla fine prendemmo i dati e andammo via". Sentiti oggi in aula anche il barelliere della stessa ambulanza (che ha detto di essere rimasto fuori della cella) e l'autista (che ha spiegato di essere rimasto all'esterno della caserma). E stamani, fuori dal tribunale di Roma, un centinaio di persone, tra studenti e membri di associazioni per i diritti hanno esposto uno striscione con sopra scritto: "Sappiamo chi è Stato, con Stefano nel cuore, con il sangue agli occhi". Al presidio hanno preso parte, tra gli altri, il collettivo Sapienza clandestina, Rete No Bavaglio, onlus Alterego Fabbrica dei diritti, Acad associazione contro gli abusi in divisa. "Grazie per quello che avete fatto e che state facendo. Ci fate sentire come se Stefano fosse uno di voi. Grazie ancora da parte nostra per la vostra sensibilità anche a nome di mia moglie e di Ilaria", così li ha ringraziati poco prima dell'udienza il padre di Stefano, Giovanni Cucchi, prima di entrare in aula e assistere al processo.

Stefano Cucchi, «non stava in piedi evidenti i segni su viso e corpo». Giustizia. Processo bis per la morte di Stefano Cucchi, udienza del 27 settembre 2018. Le deposizioni degli agenti penitenziari, del medico del tribunale e dell’infermiere del 118. L’11 ottobre, la prossima udienza del processo bis, con altri testimoni dell’accusa, scrive Eleonora Martini il 27.9.2018 su "Il Manifesto". «Il viso era parecchio segnato, attorno agli occhi e nella parte destra della mandibola, in particolare. E camminava male. Ho disposto che non fosse ammanettato come gli altri detenuti perché non si reggeva in piedi. Secondo la mia esperienza aveva preso qualche schiaffo, qualche pugno, sì. Era evidente che era stato pestato. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che era scivolato dalle scale». Malgrado i nove anni trascorsi e a differenza di altri testimoni, non fa fatica a ricordare i particolari importanti, l’ispettore superiore di polizia penitenziaria Antonio La Rosa che ieri ha testimoniato nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi a carico di cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale (mentre fuori centinaia di persone partecipavano ad un sit in per chiedere verità e giustizia sotto lo striscione «Sappiamo chi è Stato»). In quel 16 ottobre 2009 La Rosa era a capo della scorta che trasferì il ragazzo romano, arrestato dai militari la sera prima per spaccio, dal tribunale dove si tenne l’udienza di convalida dell’arresto fino al carcere di Regina Coeli. L’ispettore fu il primo a raccontare certi particolari anche davanti le telecamere di Matrix, camuffato perché non lo riconoscessero, appena un mese dopo gli avvenimenti. Poi, continua La Rosa davanti alla Corte d’Assise di Roma, «mentre camminavamo sulla rampa per uscire dal tribunale, Cucchi mi chiese se a Regina Coeli ci fosse una palestra perché lui faceva il pugile, teneva incontri di pugilato. E in uno scambio di battute con gli altri detenuti ha aggiunto: ne ho fatto uno anche stanotte. E qualcuno gli ha ribattuto: ma tu hai fatto la parte del sacco». Dall’udienza di ieri appare chiaro quel che durante tutto il primo processo era stato negato: che Stefano Cucchi era stato picchiato durante la notte passata in stato di arresto, e che i segni delle percosse erano evidenti, anche perché il giovane era palesemente sofferente e si muoveva male. Ma aveva paura di raccontare la verità. Se ne era accorto anche un altro agente penitenziario, il secondo dei tre che costituivano la scorta: «Durante le ispezioni di solito facciamo spogliare i detenuti e imponiamo una flessione per controllare che non abbiano oggetti nell’ano. Ma con lui non è stato possibile – ricorda l’assistente Luciano Capo – si alzò soltanto la maglietta, e quando vidi che aveva tutti segni rossi sul corpo non ritenni opportuno che la togliesse. I pantaloni invece non riuscì proprio a toglierli, li abbassò solo, era troppo dolorante. E non riuscì neppure a fare la flessione. Chiesi se era stato arrestato per rissa, visti quei segni particolarmente evidenti sulla parte sinistra in basso della schiena». «Lei cosa pensò che gli fosse successo?», chiede il pm Giovanni Musarò. «Io non ho pensato nulla», risponde l’agente. Che allora però si informò subito della presenza di un certificato che attestasse le lesioni, perché «avrebbero potuto pensare che gli fossero state procurate durante il tragitto dal tribunale al carcere». «Per cautelarci», spiega meglio il suo collega Salvatore Mandaio, il terzo della scorta, che ricorda: «Quando doveva salire le scale di Regina Coeli, Cucchi mi ha detto: “Non ce la faccio, mi fanno male le gambe”». Se ne sono accorti tutti, che qualcosa non andava, perfino l’infermiere Francesco Ponzo che intervenne con l’ambulanza del 118 chiamata alle 5 del mattino del 16 ottobre dagli stessi carabinieri della caserma di Tor Sapienza e che ha modo di guardarlo in volto solo per qualche secondo, in una stanzetta buia (ma non chiede di accendere la luce). Ponzo parla con Cucchi per circa dieci minuti (arrivano alle 5,17 e vanno via alle 5,35, secondo i verbali) alla presenza di tre militari che assistono «in silenzio» al colloquio. Ma il giovane, che è disteso sul lato sinistro, con la faccia rivolta verso il muro e si nasconde sotto una coperta, nega di avere bisogno di aiuto e rifiuta di andare al pronto soccorso (ma non sa, perché nessuno glielo dice, che avrebbe potuto rimanere solo con il personale medico). Se ne accorgono tutti, anche il medico del tribunale, Giovanni Battista Ferri, che lo visitò nella camera di sicurezza, chiamato dalla polizia penitenziaria «solitamente per cautelarsi, soprattutto quando gli imputati presentano segni sul corpo non refertati». «Riferiva dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori ma rifiutò la visita. Ho potuto vedere solo il viso e constatare ecchimosi color porpora presumibilmente dovuti ad effetti traumatici che, a giudicare dal colore, erano avvenuti non oltre le 24 ore». Il medico ammette che sì, in effetti non lo aveva convinto la storia delle scale: «Strane queste scale che non lasciano segni sul naso», gli aveva detto, e Cucchi aveva risposto: «E saranno state scale strane…». Ferri però ritenne che le condizioni di salute di Stefano erano compatibili con il carcere anche se, spiega, «ho pensato che a Regina Coeli comunque c’era un reparto radiologico». Incalzato dall’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ammette: «Se fosse stato un paziente del mio studio privato? Se avessi potuto parlargli e avessi notato segni traumatici, avrei sicuramente raccomandato una lastra». Ma per Stefano Cucchi no, nessuna radiografia da prescrivere.

Cucchi, il carabiniere che ha testimoniato contro i colleghi: “Minacciato e trasferito, è una vergogna”. Lo scorso giugno Riccardo Casamassima aveva denunciato in un video le ritorsioni subite per la sua testimonianza nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive il 21 Settembre 2018 TPI. Mercoledì 12 settembre è uscito nelle sale e su Netflix “Sulla mia pelle”, il film che racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi (qui la storia completa), dal momento dell’arresto alla morte. (Qui l’articolo di TPI sulle cause della morte). Il film ha riacceso i riflettori sulla vicenda in un momento cruciale: è infatti in corso il processo-bis per la morte di Cucchi. Gli imputati sono cinque carabinieri che operavano nelle caserme dove Cucchi era stato identificato e tenuto in stato di fermo. Le accuse sono di omicidio preterintenzionale, abuso di autorità e falso per l’omissione dei nomi di alcuni carabinieri nei verbali di arresto. Riccardo Casamassima è un carabiniere che ha contribuito a riaprire le indagini, dopo il primo processo che si era concluso con le assoluzioni di medici e infermieri. Casamassima ha infatti ammesso, davanti ai giudici, di essere stato convocati dai superiori per modificare le loro annotazioni. Lo scorso giugno, poco dopo la sua testimonianza al processo, Casamassima aveva denunciato in un video tutte le ritorsioni a cui è dovuto andare incontro, a partire dal trasferimento. “Ci tengo a fare questa diretta in divisa, io questa divisa me la sono sempre sudata. Ora per aver fatto il mio dovere di uomo e carabiniere, per aver testimoniato nel processo Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze negative”, iniziava Casamassima nel video. “Prima di andare al processo a testimoniare avevo confessato le mie paure, che poi si sono concretizzate. Mi è stato notificato un trasferimento presso una scuola. Sarò allontanato da casa e demansionato. Tutto questo è scandaloso”. “Prima di andare a testimoniare abbiamo ricevuto minacce, nessun nostro rappresentante è intervenuto, mi hanno detto di stare attento”. “Mi appello alle cariche dello stato per dire se è giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento. Salvini, Di Maio, vi sembra giusto?”. “Mi stanno massacrando, distruggendo in tutti i modi. Ho ancora fiducia che possa cambiare qualcosa. Se non riceverò spiegazioni però andrò in procura e denunciare tutto ai magistrati”. “Il processo Cucchi è aperto, ogni azione contro di me può comprometterlo, ci sono altri carabinieri che devono testimoniare”. “Nella mia ultima valutazione, i miei superiori scrivono: “carabiniere poco esemplare, inadeguato al senso della disciplina, rendimento appena sufficiente”. Non credo di dover aggiungere altro”.

Roma, caso Cucchi, carabiniere testimone: "Io minacciato, il governo mi ascolti". Appello a Salvini, Di Maio e Conte: "Ho fatto mio dovere e pago". La ministra Trenta: "Voglio incontrarlo". Il Comando: "Trasferito perché vive un disagio psicologico", scrive il 19 giugno 2018 "La Repubblica". "Per aver fatto il mio dovere, come uomo e come carabiniere per aver testimoniato nel processo relativo a Stefano Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze". Così Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l'inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi, in un video postato su Fb. Casamassima si rivolge "ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: mi ascoltino".  "Avevo manifestato le mie paure prima del processo del 15 maggio - spiega - paure che si sono concretizzate perché mi è stato notificato un trasferimento presso la scuola allievi ufficiali. Sarò allontanato e demansionato e andrò a lavorare a scuola dopo essere stato per 20 anni in strada. È scandaloso. Ho subito minacce, nessuno mi ha aiutato. Mi appello alle cariche dello Stato, ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: è giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento? Mi stanno distruggendo. Mi recherò al comando generale per incontrare il nuovo comandante generale. Se non mi verranno date delle spiegazioni - aggiunge - sarò costretto ad andare in Procura e a denunciare quello che sta succedendo perché il processo Cucchi è ancora aperto e quindi una qualsiasi azione fatta nei miei confronti lo va a compromettere. Per giustificare il trasferimento lo motivano giudicandomi 'poco esemplare e inadeguato al senso della disciplina'", conclude Casamassima. "Massima solidarietà a Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto il suo dovere raccontando al magistrato quel che sapeva sulla morte di Stefano Cucchi" afferma intanto Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea. "È stato declassato e trasferito mentre meriterebbe una medaglia". All'appello del carabiniere ha risposto il neoministro della Difesa Elisabetta Trenta: "Ne ho già discusso con il comandante generale dell'Arma e sono disponibile a parlare con lui. Sicuramente - ha aggiunto - ci sono dei fraintendimenti e quello che dice nel video va approfondito". Il Comando generale dell'arma si è poi espresso sulla questione del trasferimento spiegando che la legione Allievi dove è stato spostato l'appuntato si trova anch'essa a Roma e "in zona più comoda per raggiungere la sua abitazione". Ma soprattutto, continua l'Arma, la decisione è stata presa a causa di una "situazione di disagio psicologico, che Casamassima ha più volte rappresentato anche pubblicamente, avvertito per la presenza nella stessa caserma di uno dei militari da lui chiamati in causa per il caso Cucchi e di un altro che avrebbe usato parole offensive nei suoi riguardi". Infine il Comando ha ribadito la solidarietà verso la famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, è intervenuta su Facebook sulla questione con un post durissimo: "Il Carabiniere Riccardo Casamassima ha testimoniato così come lo ha fatto la Carabiniera Maria Rosati, oggi sua compagna e madre dei suoi figli. Furono loro a dare il via a questo processo per l'uccisione di Stefano Cucchi. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi dissero di aver visto mio fratello estremamente sofferente dopo quel feroce pestaggio subito alla caserma della Casilina durante il foto segnalamento. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi avevano ammesso, davanti ai giudici, di essere stati convocati dai superiori, dopo la morte di mio fratello, per modificare le loro annotazioni. Casamassima oggi è stato trasferito alla scuola allievi con demansionamento umiliante e consistente decurtazione dello stipendio. L'ho sentito in lacrime, disperato. Cari Generali Nistri e Mariuccia, era proprio necessario tutto questo, dopo quanto è emerso durante il processo sino ad ora? La scuola allievi Carabinieri aveva proprio bisogno, oggi, di Riccardo Casamassima? Proprio oggi?". "Nella prossima udienza dell'11 luglio dovranno sfilare di fronte ai Giudici tanti colleghi del povero Casamassima - spiega - Saranno ben consci di quel che gli è successo oggi. Ma d'altronde la Scuola Allievi aveva bisogno improcrastinabile di lui. Da più parti, dopo quanto sta emergendo al processo, ci viene raccomandata cautela e prudenza. Ci viene letteralmente detto di stare attenti. Lei, Generale Nistri, ci ha detto che 'tutti hanno scheletri nell'armadio'. Noi non li abbiamo, a meno che qualcuno non ce li metta. Ma questa è fantascienza".

Cucchi, ex moglie incastra carabiniere: «Mi disse “quante gliene abbiamo date”». Testimonianza di Anna Carino nel corso del processo ai cinque militari di cui tre accusati di omicidio preterintenzionale: «Raffaele mi disse ce “era solo un drogato di m...”», scrive il 12 giugno 2018 "Il Corriere della Sera". «C’ero pure io, quante gliene abbiamo date». Questo confidò alla ex moglie Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri sotto processo per la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il giovane romano arrestato nell’ottobre del 2009 per droga e morto una settimana dopo nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Oggi Anna Carino ha raccontato tutto in aula nel corso del processo ai cinque carabinieri di cui tre accusati di omicidio preterintenzionale.

«Rideva ai miei rimproveri». «Il mio ex marito mi disse di avere partecipato alla perquisizione in casa di Stefano Cucchi e che non avevano trovato niente. Dopo diversi mesi, dopo aver visto un servizio in tv, mi fece una confidenza - ha detto Carino in aula - Mi disse che la notte dell’arresto era stato pestato, aggiungendo: “C’ero pure io, quante gliene abbiamo date”». «Raffaele mi raccontò di un calcio che uno di loro aveva sferrato a Stefano Cucchi che aveva provocato una caduta rovinosa del ragazzo. Nel raccontarlo mi sembrò quasi divertito; rideva e davanti ai miei rimproveri mi rispondeva “Chil è solo nu drogato di m...” », ha ricordato la donna davanti ai giudici.

«Quando indossava la divisa si sentiva Rambo». Poi, la teste, ha precisato di non sapere «dove è avvenuto questo pestaggio e dove Cucchi cadde. Più volte al mio ex ho chiesto il motivo, ma non mi ha mai risposto. Mi ha raccontato anche di altri pestaggi ad arrestati o a persone che avevano portato in caserma; ma mai come questo». Inoltre Anna Carino ha raccontato che quando la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, appariva in tv «Raffaele la insultava pesantemente». Poi arrivò il momento di fissare in un incidente probatorio quelle sue dichiarazioni. «Quando sono stata sentita - ha detto l’ex moglie dell’imputato - avevo paura, temevo la sua reazione. Anche in passato aveva avuto reazioni violente; non è stato però mai aggressivo fisicamente. Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo; quando indossava la divisa si sentiva Rambo».

Il contatto con Ilaria Cucchi. La donna decise anche di mandare un messaggio all’ex marito. «Gli dissi che mi dispiaceva, ma non avrei potuto fare altro che dire la verità. Ma lui non rispose. Da quel giorno però i nostri rapporti si sono quasi azzerati», ha spiegato. Nel gennaio 2016, poi, il contatto tra Ilaria Cucchi e la Carino. «Mi sentivo in dovere di farlo per chiedere scusa per non aver parlato prima. La incontrai e le dissi che mio figlio mi aveva detto che un giorno sbirciò sul telefono del padre mentre parlava con un amico e vide le foto di Stefano; e che il padre disse all’amico “Io accussì l’aggio lassato”».

Stefano Cucchi, ex moglie carabiniere imputato: “Mi disse che era stato pestato”. Anna Carino, ex moglie di Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri sotto processo, ha ripetuto in aula quello che aveva già dichiarato a verbale agli inquirenti. Il militare le disse: "Quante gliene abbiamo date", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 giugno 2018. Aveva promesso che avrebbe ripetuto in aula quello che sapeva e lo ha fatto. Anna Carino, ex moglie di Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri sotto processo per la vicenda della morte di Stefano Cucchi ai giudici ha dichiarato: “Mi disse che la notte dell’arresto Cucchi era stato pestato, aggiungendo: ‘C’ero pure io quante gliene abbiamo date'”.

“Mi raccontò che uno di loro aveva sferrato un calcio”. “Raffaele mi raccontò di un calcio che uno di loro aveva sferrato a Cucchi e che aveva provocato una caduta rovinosa. Al racconto, mi sembrò quasi divertito; rideva e, davanti ai miei rimproveri, mi rispondeva ‘Chill è sulu nu drogato e ‘m…’ – ha detto la donna- Non so dov’è avvenuto questo pestaggio e la caduta. Più volte gli ho chiesto il motivo, ma non mi hai risposto. Mi ha raccontato anche di altri pestaggi ad arrestati o a persone che avevano portato in caserma; anche se non si trattava di pestaggi di questo livello”. E quando Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, appariva in tv “Raffaele la insultava”. Poi arrivò il momento di ‘fissare’ in un incidente probatorio quelle sue dichiarazioni: “Quando sono stata sentita – ha detto Anna Carino – avevo paura, temevo la sua reazione. Anche in passato aveva avuto reazioni violente; non è stato però mai aggressivo fisicamente. Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo; quando indossava la divisa si sentiva Rambo”.  La donna decise di mandare un messaggio all’ex marito per dirgli “che mi dispiaceva, ma non avrei potuto fare altro che dire la verità. Ma lui non rispose. Da quel giorno però i nostri rapporti si sono quasi azzerati“.  Nel gennaio 2016, il contatto tra Ilaria Cucchi e la Canino: “Mi sentivo in dovere di farlo per chiedere scusa per non aver parlato prima. La incontrai e le dissi che mio figlio mi aveva detto che un giorno sbirciò sul telefono del padre mentre parlava con un amico e vide le foto di Stefano; e che il padre disse all’amico "Io accussì l’aggio lassato”.

L’intercettazione tra la donna e il carabiniere. Era la fine di dicembre del 2015 quando un nuovo tassello si aggiunse all’inchiesta della Procura di Roma sulla fine del geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto dopo una settimana all’ospedale Pertini. L’audio di una lite, registrata dagli investigatori della Squadra Mobile di Roma, tra D’Alessandro e appunto l’ex moglie. La donna già a verbale con i pm aveva raccontato che il militare le aveva riferito delle violenze subite dal geometra romano fermato per possesso di sostanze stupefacenti. La donna, un mese dopo, si disse di essere pronta a testimoniare in un futuro processo contro l’ex marito, accusato di aver partecipato al violentissimo pestaggio di Stefano Cucchi. E aggiunse: “Io ho voluto vedere Ilaria: l’ho voluta incontrare per chiederle scusa e per farle capire che mi dispiace e che avrei voluto parlare prima. Non l’ho fatto perché avevo paura: ho tre bambini e quindi non è facile. Ilaria Cucchi mi ha detto semplicemente: Grazie”.

Dall’arresto alla Cassazione. Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Allo stato gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia Penitenziaria.

Roma, al processo Cucchi bis spuntano altri verbali falsificati. Durante l'udienza in Corte d'Assise un carabiniere presente smentisce le sue dichiarazioni di tre anni fa, scrive il 31 maggio 2018 "La Repubblica". Ci sono altri verbali falsi nella storia di Stefano Cucchi. Non solo quello di arresto. Anche quello della perquisizione domiciliare a casa dei genitori di Stefano Cucchi, effettuata dai carabinieri che erano alla ricerca di droga, non sarebbe genuino. La conferma ai sospetti della procura di Roma sull'esistenza di più documenti falsificati viene dalla deposizione di Gabriele Aristodemo, carabiniere all'epoca in servizio presso la stazione Appia, sentito dal pm Giovanni Musarò in Corte d'Assise nel processo-bis che vede imputati cinque militari dell'Arma, accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale (in relazione al pestaggio), falso e calunnia (ai danni dei tre agenti della Polizia penitenziaria, processati e definitivamente assolti). Una deposizione caratterizzata da numerosi e ripetuti "non so" e "non ricordo", tanto da suscitare l'ironico commento su Facebook di Ilaria Cucchi: "Il maresciallo Mandolini (uno degli imputati, ndr), presente in aula per verificare di persona, gli ha dato una pacca sulla spalla. Giustamente. Aristodemo oggi ha fatto un buon lavoro. Per noi. Ma nè lui nè Mandolini lo hanno capito". Aristodemo era presente quando Stefano Cucchi venne arrestato per detenzione di droga il 16 ottobre del 2009 (per morire sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini): la firma del 31enne geometra, però, non figura nel verbale di arresto e neppure in quello di perquisizione. Il testimone ha spiegato così l'anomalia: "E' normale, perchè è un atto nostro". Peccato, però, che lo stesso carabiniere, ascoltato nell'udienza del luglio 2015, disse che Cucchi si era rifiutato di firmare quell'atto, come è scritto in un documento. "Mi sbagliai, mi ero confuso" è ora la sua nuova versione. All'udienza di tre anni fa Aristodemo precisò anche che "Cucchi non aveva segni in volto", mentre oggi ha chiarito meglio che "quando venne portato in caserma, il ragazzo era rosso sotto gli occhi". Non solo. I carabinieri si sono anche dati da fare per concordare una versione di comodo da fornire, all'unisono all'autorità giudiziaria: Aristodemo ha spiegato che durante la perquisizione domiciliare "Cucchi era seduto sul divano ed era calmo". In una telefonata del 2015, intercettata dalla Procura, Raffaele D'Alessandro (altro carabiniere sotto processo, ndr) chiamò Aristodemo, presente nell'appartamento, per dirgli che si era ricordato che Cucchi cominciò a dare testate contro il muro e che per calmarlo dovettero ammanettarlo. "Quello che disse D'Alessandro non era vero, perchè c'ero anche io lì" ha corretto il tiro oggi il testimone. Ulteriori anomalie sembrano emergere anche dalla relazione di servizio redatta dai carabinieri cinque giorni dopo la morte del giovane: non si fanno i nomi di due dei militari sospettati dal pm di aver pestato Cucchi e che, stando a quanto raccontato da Aristodemo, erano presenti fin dell'arresto. Nello stesso documento, poi, si fa presente che al momento della consegna alla polizia penitenziaria, la mattina dopo l'arresto e il presunto pestaggio, in vista della direttissima in tribunale "Cucchi non paventava alcun malore nè atteggiamenti che potevano farlo intuire". Oggi è lo stesso Aristodemo ad affermare che, quella mattina, l'arrestato gli era sembrato "moscio" e che "camminava molto lentamente". 

Caso Cucchi, al processo i carabinieri accusano: "I vertici ci chiesero di modificare le note sul suo stato di salute". L'ammissione di due militari al processo che vede imputati cinque carabinieri. "Non ricordo chi fu a chiederlo ma è stato un ordine gerarchico", scrive il 17 aprile 2018 "La Repubblica". "Mi chiesero di cambiarla, non ricordo per certo chi è stato ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico". Le note sullo stato di salute di Stefano Cucchi nelle ore successive al suo arresto "sono state modificate", e almeno una su esplicita direttiva di alcuni superiori dei carabinieri. È emerso oggi in aula, durante il processo che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali con l'accusa di omicidio preterintenzionale, dalle testimonianze di due militari dell'Arma, Francesco Di Sano e Gialuca Colicchio, che ebbero in custodia Cucchi alla caserma di Tor Sapienza, la notte del suo arresto, nell'ottobre del 2009 e il mattino dopo, fino al trasferimento del ragazzo in tribunale per l'udienza di convalida. Nel report Colicchio, come ha ricordato in aula, aveva scritto che Cucchi "dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia", ma non ha riconosciuto come sua l'annotazione (che riportava la stessa data e lo stesso numero di protocollo) nella quale è scritto che il ragazzo "dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio". Il militare ha detto di ricordare "di avere fatto una sola relazione; la seconda è strana perché porta la mia firma, ma io non la ricordo. Nella seconda ci sono dei termini che io non uso, non la riconosco". Ancora più anomale sono le due annotazioni di servizio a firma del carabiniere Di Sano. Nella prima, il militare scrive che Cucchi "riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare"; nella seconda annota che il ragazzo dichiara di "essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo-umida che per la rigidità della tavola da letto". Questa seconda dichiarazione però, ha detto Di Sano in aula oggi, "la modificai, mi chiesero di farlo perché la prima era troppo dettagliata. Non ricordo per certo chi è stato; certo il nostro primo rapporto è con il Comandante della Stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico". Altri cinque testimoni sono stati ascoltati nel resto dell'udienza, l'ultimo dei quali è stato l'avvocato Giorgio Rocca che partecipò come difensore d'ufficio di Cucchi all'udienza di convalida dell'arresto: "Ricordo che lui aveva un atteggiamento ostile nei confronti dei carabinieri perché riteneva di essere stato arrestato ingiustamente. Prima dell'udienza ebbe battibecchi continui con loro, non era calmo. Mi disse che non l'avevano maltrattato, ma che lui era fatto così".

Caso Cucchi, processo ai cinque carabinieri: "Modificate le note sullo stato di salute". Due militari ascoltati come testimoni nel processo per la morte del geometra romano deceduto all'ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009 sei giorni dopo essere stato arrestato, scrive il 17 aprile 2018 "La Repubblica". I vertici dell'Arma erano già a conoscenza del pestaggio subito da Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni deceduto all'ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009 sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti, ben prima che il caso finisse all'attenzione della magistratura e della stampa. E gli stessi vertici si adoperarono perché della vicenda venisse data una versione soft nelle varie informative destinate all'autorità giudiziaria. È quanto emerso oggi dalla deposizione di alcuni militari sentiti dal pm Giovanni Musarò come testimoni nel processo bis in corte d'assise che vede imputati cinque carabinieri, accusati a vario titolo di aver pestato Cucchi, di aver falsificato il verbale e di aver dato la colpa dell'aggressione a tre agenti della polizia penitenziari, processati e già assolti definitivamente. Si comincia con due annotazioni di servizio, datate 26 ottobre del 2009 alle 18.40, che il piantone di Tor Sapienza Gianluca Colicchio, scrisse sull'arrivo di Cucchi, il 16, consegnato dal personale della stazione Roma-Appia e al suo trasferimento nella cella di sicurezza. "Trascorsi circa 20 minuti Cucchi suonava al campanello di servizio presente nella cella e dichiarava di aver forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia". Questa annotazione di pg riporta sul foglio lo stesso numero di computer di una seconda versione, più sfumata, nella quale si dava conto che "Cucchi dichiarava di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio". In aula, Colicchio ha riconosciuto come propria la firma apposta in calce ai due verbali ma ha ammesso che la seconda versione non corrisponde al vero. Identica anomalia è stata riscontrata in due annotazioni di pg firmate dal carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre il 26 ottobre su quanto accaduto dieci giorni prima. "Alle 9.05 circa, giungeva presso questa Stazione personale della Casilina, addetto al ritiro del detenuto (atteso in tribunale per la direttissima, ndr)... Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato a salire le scale...".  Di Sano ha ammesso in udienza di essere stato invitato a ritoccare il verbale perché troppo dettagliato maturando così la seguente versione definitiva: "Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (priva di materasso e cuscino) ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza". Significativo, infine, il racconto del carabinieri scelto Pietro Schirone, della stazione Casilina che tradusse con un collega Cucchi da Tor Sapienza in tribunale, e che già nel 2009 ai magistrati della Procura di Roma disse che 'era chiaro che era stato menato. Cucchi stava male, aveva ematomi agli occhi'. Versione confermata anche oggi in udienza. Passi di quel verbale finirono poi su un quotidiano e Schirone ha spiegato di essere stato convocato il giorno dopo dal colonnello Alessandro Casarsa, all'epoca comandante provinciale: "Mi chiese solo se le dichiarazioni riportate dalla stampa corrispondessero al mio pensiero. Gli risposi di sì e la questione si chiuse in questo modo. Non sono mai stato sottoposto a un procedimento disciplinare nè ho saputo mai che sulla vicenda sia stata avviata dall'Arma un'inchiesta interna".

Stefano Cucchi, carabinieri testi in aula: “Relazioni su salute modificate su ordine dei superiori”. C'è un nuovo inedito capitolo nella storia della morte del geometra romano che arriva dal processo ai militari dell'Arma accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, grazie alle testimonianza di due colleghi, scrive il 17 aprile 2018 "Il Fatto Quotidiano". C’è un nuovo inedito capitolo nella storia della morte di Stefano Cucchi. Arriva dal processo ai cinque carabinieri accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, grazie alle testimonianza di due militari. L’Arma era informata, forse preoccupata, della vicenda dell’arresto e la successiva morte del geometra romano arrestato per droga, tanto che, dopo il decesso e l’apertura dell’indagine, vennero chieste due relazioni su quanto accaduto e i due documenti, datati 26 ottobre 2009 (Cucchi era morto in ospedale il 22 ndr), vennero fatti modificare il giorno stesso, forse perché alcuni dettagli potevano creare problemi.

Relazione modificata su richiesta dei superiori. Nella prima relazione si legge che Cucchi, la mattina dopo l’arresto “riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare” tanto da dover “essere aiutato” dai carabinieri a salire le scale per andare in tribunale dove era fissata l’udienza di convalida. Dalla seconda versione, spariscono i dolori al costato e il fatto che il giovane non riuscisse a camminare il giorno dopo l’arresto: Cucchi, vi si legge, “era dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto”. Il documento viene redatto dal carabiniere Francesco Di Sano che, chiamato a testimoniare al processo, in merito a tali anomalie dichiara che gli fu chiesto di modificare la relazione dai superiori. Anomalie anche in altre due relazioni, quasi identiche, firmate sempre il 26 ottobre, dal piantone di Tor Sapienza Gianluca Colicchio: anche in questo caso, solo nella seconda relazione, che Colicchio dice di non aver mai redatto, i dolori di Cucchi vengono attribuiti alla “branda scomoda”.

Cinque carabinieri a processo, per procura fu “pestaggio”. Cinque carabinieri a processo Sono cinque i carabinieri coinvolti nel processo sulla morte del geometra romano in corso davanti alla prima Corte d’Assise del tribunale di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Il pestaggio, per la procura di Roma, causò tra l’altro “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”, il 22 ottobre del 2009. Nel procedimento sono parte civile, oltre ai familiari del giovane, il Comune di Roma, Cittadinanzattiva e gli agenti della penitenziaria accusati nella prima inchiesta sulla morte del giovane. Nell’udienza del 20 marzo un testimone, Luigi Lainà, aveva ribadito un racconto parzialmente noto, ma ripetuto in una aula di Tribunale davanti ai giudici della corte d’Assise: “Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz”.

La storia: dall’arresto alle prime indagini. Stefano Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Secondo l’accusa, il giovane fu colpito la notte del suo arresto, dai tre carabinieri imputati con “schiaffi, pugni e calci”. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Allo stato gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia Penitenziaria. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza sui medici ma ormai il reato contestato è prescritto.  

Roma, caso Cucchi, un teste: "Stefano mi disse che i cc si erano divertiti a picchiarlo". Ricordi shock di un testimone della procura nel processo bis in corte d'assise: "Aveva il volto gonfio come una zampogna e sanguinava da un orecchio". La sorella: "Racconto drammatico", scrive il 20 marzo 2018 "La Repubblica". "La sera del 16 ottobre del 2009 mi trovavo presso il centro clinico di Regina Coeli quando vedo arrivare un ragazzo che aveva il volto gonfio come una zampogna, con evidenti ematomi in faccia e sugli zigomi. Aveva un colorito violaceo, perdeva sangue da un orecchio e faceva fatica a parlare. Gli portai un caffè ma non riusciva neanche a inghiottire la sua saliva". Quel ragazzo era Stefano Cucchi, fresco del pestaggio subito nella prima caserma dei carabinieri al momento dell'arresto per droga avvenuto sei giorni prima di morire all'ospedale Sandro Pertini. A riferire di questo incontro è stato oggi il detenuto Luigi Lainà, sentito come testimone della Procura nel processo bis, in corte d'assise, che vede imputati cinque carabinieri, accusati a vario titolo di aver pestato Cucchi, di aver falsificato il verbale e di aver dato la colpa dell'aggressione a tre agenti della polizia penitenziari, processati e già assolti definitivamente. "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta" ha raccontato Lainà, rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò che lo interrogò una prima volta nel novembre del 2014. "E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... 'Si sono divertiti', mi aggiunse. Volevano che facesse la spia, che parlasse per far arrestare altri spacciatori, ma lui è stato un grande, non ha fatto un nome. Mi spiegò che era stato picchiato da due militari in borghese mentre un terzo in divisa intervenne per invitare i due a smetterla". "Quando sbagliamo - si è sfogato Lainà - è giusto essere arrestati, messi in carcere e giudicati da un tribunale. Non è giusto, invece, essere massacrati di botte. È successo pure a me qualche volta, e anche io come tanti altri ho dovuto dire di essere caduto per evitare di essere pestato di nuovo. Ma devo ammettere che non ho mai visto un detenuto, come Cucchi, portato in cella in quelle condizioni". Fu proprio Lainà, sconcertato da quello che aveva visto, a sollecitare l'intervento del medico di Regina Coeli Pellegrino Petillo che ne dispose il ricovero al Fatebenefratelli anche se poi Cucchi il giorno dopo venne spedito al reparto di medicina protetta del Pertini. "A Petillo dissi che se non fosse intervenuto in tempo, Cucchi sarebbe morto subito a Regina Coeli per quanto stava male" ha precisato Lainà. "Io una cosa così non l'avevo mai vista". "Il racconto del testimone Lainà è drammatico dal punto di vista emotivo, rivedo anche il carattere e i modi di fare di mio fratello e soprattutto la sua sofferenza che per tanti anni è stata nascosta". Lo ha detto Ilaria Cucchi, a margine dell'udienza del processo a carico di cinque carabinieri accusati dalla procura di Roma, a seconda delle posizioni, di omicidio preterintenzionale, abuso di autorità, falso e calunnia in relazione alla vicenda del geometra romano morto nell'ottobre del 2009. "Per anni - ha aggiunto- si è parlato di lesioni lievi, lui stava malissimo invece, e quel dolore è aumentato ora dopo ora fino a farlo morire. In questi anni è stato tutto astratto sembrava che mio fratello fosse morto senza una ragione, da oggi si comincia a capire cosa è effettivamente successo".

Processo Cucchi, il teste: “Era gonfio come una zampogna. Mi disse che i carabinieri si erano divertiti”. Lo ha raccontato in aula Luigi Lainà, ascoltato oggi al processo bis sul caso del giovane morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma. A processo ci sono cinque carabinieri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 marzo 2018. Era un racconto parzialmente noto, ma ripetuto in una aula di Tribunale davanti ai giudici della corte d’Assise colpisce per l’essenzialità di quello che mostra. “Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz” dice Luigi Lainà, ascoltato oggi al processo bis sul caso di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma.

Il teste: “Mi disse che un altro carabiniere in divisa gli disse di smettere”. Per questa vicenda tre carabinieri, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco sono accusati di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. Lainà, detenuto anche lui nel carcere romano, incontrò Cucchi nella notte tra il 16 e il 17 ottobre nel Centro clinico del penitenziario. “Mi disse che si erano ‘divertiti’ con lui perché volevano farlo parlare, volevano sapere della provenienza della droga ma lui non parlò, non volle fare la spia. E per questo secondo me è stato un grande”. In particolare, Stefano gli disse di essere stato picchiato da due carabinieri in borghese nella prima caserma in cui venne portato dopo l’arresto e che poi arrivò un altro carabiniere in divisa che disse ai due colleghi di smetterla. Lainà quindi avvertì il dottore del centro clinico, Pellegrino Petillo che dopo aver visto le condizioni di Cucchi decise di mandarlo in ospedale. “Noi detenuti sbagliamo e per questo paghiamo col carcere – ha concluso Lainà – ma nessuno ha diritto di pestarci”.

Ilaria Cucchi: “Racconto drammatico dal punto di vista emotivo”. “Il racconto del testimone Lainà è drammatico dal punto di vista emotivo, rivedo anche il carattere e i modi di fare di mio fratello e soprattutto la sua sofferenza che per tanti anni è stata nascosta – ha detto Ilaria Cucchi – Per anni si è parlato di lesioni lievi, lui stava malissimo invece, e quel dolore è aumentato ora dopo ora fino a farlo morire. In questi anni è stato tutto astratto sembrava che mio fratello fosse morto senza una ragione, da oggi si comincia a capire cosa è effettivamente successo”.

Fra tre giorni invece inizierà il terzo processo d’Appello per i cinque medici dell’ospedale finiti sotto processo. Ad occuparsi del nuovo giudizio arà la II sezione della Corte d’assise d’appello capitolina, presieduta da Tommaso Picazio. Aldo Fierro (primario del Pertini), Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, inizialmente portati a processo per l’accusa di abbandono d’incapace, furono condannati in primo grado nel giugno 2013 per omicidio colposo. Fu la prima Corte d’assise d’appello nell’ottobre 2014 a ribaltare poi la sentenza, mandandoli assolti. La Cassazione intervenne una prima volta nel dicembre 2015, rimandando indietro il processo a nuovi giudici. E la III Corte d’assise d’appello nel luglio 2016 confermò quell’assoluzione. S’instaurò un nuovo intervento della Cassazione, i cui giudici nell’aprile dello scorso anno rinviarono nuovamente ad altri giudici il carteggio processuale. Per gli ermellini nei confronti di Cucchi mancò una adeguata diagnosi e conseguente terapia. Adesso, la fissazione di un nuovo giudizio d’appello che, per il reato contestato, ha già maturato la prescrizione.

La storia: dall’arresto alle prime indagini. Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Allo stato gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia Penitenziaria. 

Omicidio Cucchi. Il compagno di cella: Stefano disse che fu picchiato dai carabinieri, scrive Luca Liverani martedì 20 marzo 2018 su Avvenire. Al processo contro i cinque militi dell'Arma - accusati del pestaggio e di avere falsificato i verbali - parla un supertestimone: era viola e verde come una melanzana, mai visto un detenuto così. Al processo contro i cinque militi dell'Arma parla il compagno di cella di Stefano Cucchi. E racconta che quando lo vide tumefatto e sanguinante gli chiese chi era stato: «I carabinieri che mi hanno arrestato». Luigi Lainà, detenuto a Regina Coeli, racconta il suo drammatico incontro con geometra romano, arrestato per spaccio. «La sera del 16 ottobre del 2009 mi trovavo presso il centro clinico di Regina Coeli - dice in aula Lainà - quando vedo arrivare un ragazzo che aveva il volto gonfio come una zampogna, con evidenti ematomi in faccia e sugli zigomi. Aveva un colorito violaceo, perdeva sangue da un orecchio e faceva fatica a parlare. Gli portai un caffè ma non riusciva neanche a inghiottire la sua saliva». Quel ragazzo era Stefano Cucchi, appena pestato nella caserma dei carabinieri al momento dell'arresto per droga. Lesioni gravi, trascurate in ospedale, che ne provocheranno la morte sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. E la testimonianza di Lainà al processo è suffragata da quella di un agente di polizia penitenziaria che parlò con Cucchi nel viaggio in ambulanza da Regina Coeli all'ospedale: a ridurmi così – gli confidò Stefano - sono stati servitori dello Stato, ma non voi della penitenziaria. Lainà è un testimone importante. Il pm Giovanni Musarò, che lo ascoltò nel novembre del 2014, lo interroga per la prima volta in aula nel processo bis, in corte d'assise. Imputati sono cinque carabinieri, accusati a vario titolo di aver pestato Cucchi, di aver falsificato il verbale e di aver dato la colpa dell'aggressione a tre agenti della polizia penitenziari, processati e già assolti definitivamente. «Gli ho chiesto di alzare la maglietta - racconta Lainà - e lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato. "Si sono divertiti", mi aggiunse. Volevano che facesse la spia, che parlasse per far arrestare altri spacciatori, ma lui è stato un grande, non ha fatto un nome. Mi spiegò che era stato picchiato da due militari in borghese mentre un terzo in divisa intervenne per invitare i due a smetterla». «Quando sbagliamo - si sfoga Lainà - è giusto essere arrestati, messi in carcere e giudicati da un tribunale. Non è giusto, invece, essere massacrati di botte. È successo pure a me qualche volta, e anche io come tanti altri ho dovuto dire di essere caduto per evitare di essere pestato di nuovo. Ma devo ammettere che non ho mai visto un detenuto, come Cucchi, portato in cella in quelle condizioni». Fu proprio Lainà, sconcertato, a sollecitare l'intervento del medico di Regina Coeli Pellegrino Petillo che ne dispose il ricovero al Fatebenefratelli. Cucchi il giorno dopo venne spedito al reparto di medicina protetta del Pertini. «A Petillo dissi che se non fosse intervenuto in tempo, Cucchi sarebbe morto subito a Regina Coeli per quanto stava male. Io una cosa così non l'avevo mai vista». Una versione confermata da un altro testimone, Mauro Cantone, della polizia penitenziaria: «Quando ero in ambulanza con Stefano Cucchi durante il tragitto dal carcere di Regina Coeli all'ospedale mi disse "sono stati servitori dello Stato a farmi questo"». L'agente, ascoltato come testimone al processo bis alla prima corte d'Assise a Roma aggiunge altri particolari: «Io gli chiesi se si riferiva a noi della penitenziaria, ma Stefano disse che non si riferiva a noi ma che comunque ne avrebbe parlato col suo avvocato». «Sta emergendo una situazione - commenta Ilaria Cucchi, sorella della vittima - che per anni è stata nascosta. Il racconto del detenuto Luigi Lainà è stato drammatico dal punto di vista emotivo: ho rivisto il carattere e i modi di fare di mio fratello Stefano e soprattutto ho rivissuto la sua sofferenza che per tanti anni è stata nascosta. Per anni si è parlato di lesioni lievi - prosegue Ilaria, presente in aula assieme ai genitori - ma in realtà Stefano stava malissimo per colpa di quel dolore che è aumentato di ora in ora sino a farlo morire. In questi anni è stato tutto astratto, sembrava che mio fratello fosse morto senza una ragione, da oggi si comincia a capire cosa è effettivamente successo». 

Roma, carabiniere a processo Cucchi bis: "Collega mi raccontò che era stato massacrato". La deposizione di Riccardo Casamassima, il militare che con le sue dichiarazioni ha permesso ulteriori approfondimenti sulla morte del geometra, scrive il 15 maggio 2018 "La Repubblica". "E' successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato. Me lo disse una mattina dell'ottobre del 2009, senza fare il nome degli autori, un preoccupatissimo maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini (da poco alla guida della stazione Appia, ndr), portandosi la mano sulla fronte e precipitandosi a parlare con il comandante Enrico Mastronardi della stazione di Tor Vergata". E' cominciato così davanti alla prima corte d'assise di Roma il racconto di Riccardo Casamassima, il carabiniere che con le sue dichiarazioni ha consentito alla Procura di approfondire l'indagine bis sulla morte di Stefano Cucchi (il geometra romano deceduto al Pertini il 22 ottobre del 2009 sei giorni dopo essere stato arrestato per droga) e di portare poi sul banco degli imputati cinque militari dell'Arma, per reati che vanno dall'omicidio preteritenzionale al falso, alla calunnia. In servizio, all'epoca dei fatti, alla stazione di Tor Vergata e attualmente all'ottavo reggimento, Casamassima ha ribadito quanto già dichiarato al pm Giovanni Musarò e al Procuratore Giuseppe Pignatone nell'estate del 2015. "Al colloquio era presente Maria Rosati, anche lei all'Arma, poi diventata la mia compagna: mi rivelò che Mandolini e Mastronardi stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei stava lì - ha precisato oggi Casamassima - perchè fungeva da autista del comandante. Lei capì il nome Cucchi ma poichè la vicenda non era ancora nota, deduco che quando ci fu questo colloquio il ragazzo fosse ancora vivo". Che il giorno dell'arresto del geometra qualcosa non fosse andato per il verso giusto, Casamassima lo apprese successivamente dal maresciallo Sabatino Mastronardi, figlio del comandante: "Venne in caserma ed ebbi con lui uno scambio confidenziale: si portò la mano sulla testa e, parlando della morte di Cucchi, disse che non aveva mai visto una persona così messa male. Lo aveva visto la notte dell'arresto quando Cucchi venne portato a Tor Sapienza". Chiamato a chiarire le ragioni della sua collaborazione con la giustizia a distanza di quasi cinque anni dai fatti, Casamassima spiega: "All'inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l'abitudine di falsificare i verbali e di coprire gli autori di illeciti. E vergognandomi di cio' che sentivo e vedevo, ho deciso di rendere testimonianza, pur temendo ritorsioni e pressioni che poi si sono puntualmente verificate. Non appena il mio nome e' uscito sui giornali, ho dovuto fare i conti con una serie di procedimenti disciplinari, tutti pretestuosi. Continuano a farmi lavorare nello stesso reparto dove presta servizio un collega che sui social ha insultato pubblicamente me e la mia compagna". Casamassina ha quindi ricordato di aver incrociato Mandolini una mattina dell'ottobre del 2016: "Ci siamo guardati male, io gli dissi solo di andare a parlare con il pm e a dire quello che sapeva. Gli dissi anche che la Procura stava andando avanti e che aveva in mano una serie di elementi importanti per fare luce su quanto accaduto. Lui mi rispose dicendomi che il pm ce l'aveva a morte con lui". "Ritengo il maresciallo Mandolini il principale responsabile morale di questi anni di attesa della verità". Commenta Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. "Tanti, troppi anni fa, vidi Roberto Mandolini, nel primo processo per la morte di Stefano, il processo sbagliato - aggiunge -. Raccontò che la sera dell'arresto di Stefano era stata piacevole e mio fratello era stato simpatico. Oggi ascolto tutta un'altra storia, dopo che per anni io e la mia famiglia abbiamo rincorso verità".

Stefano Cucchi, il carabiniere che ha fatto riaprire il caso depone in aula. “Colleghi mi dissero: l’hanno massacrato”. L'appuntato scelto Riccardo Casamassima si è presentato in aula e ha ripetuto le parole messe a verbale davanti al pm Giovanni Musarò. Dichiarazioni che hanno fatto riaprire il caso del geometra romano. Al Fatto Quotidiano aveva detto: "Ho paura. Ho ricevuto pressioni", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 maggio 2018. Alla fine è andato è andato in tribunale e ha confermato le accuse nei confronti dei suoi colleghi. Nonostante avesse paura a causa delle pressioni ricevute negli ultimi tempi e denunciate in un’intervista al Fatto Quotidiano l’appuntato scelto Riccardo Casamassima si è presentato in aula e ha ripetuto le parole messe a verbale davanti al pm Giovanni Musarò. Dichiarazioni che hanno fatto riaprire il caso Stefano Cucchi. Il ruolo di Mandolini – “Nell’ottobre 2009, il maresciallo Roberto Mandolini si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, quando si riferì ai ragazzi l’idea era che erano stati i militari che avevano proceduto all’arresto”, ha detto il carabiniere davanti alla corte d’Assise che sta processando cinque militari. Uno è Mandolini – presente in aula durante la testimonianza di Casamassima – che è accusato di falso nella compilazione del verbale di arresto del geometra romano insieme a Francesco Tedesco, e di calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso, insieme a Vincenzo Nicolardi. Alla sbarra ci sono poi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro accusati di omicidio preterintenzional insieme a Tedesco. “Hanno massacrato Cucchi” – “Il nome di Stefano Cucchi – ha continuato Casamassima – come del massacrato di botte fu percepito dalla mia compagna, Maria Rosati (anche lei nei carabinieri, ndr) che era dentro quell’ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria”. Casamassima ha aggiunto anche di avere suggerito al maresciallo Mandolini nell’ottobre 2016 durante un incontro di andare “dal pm a dire le cose che sai. Ma mi rispose: no. Il pm ce l’ha a morte con me”.  La donna ha confermato questa circostanza durante il suo esame oggi davanti ai giudici dell’assise. “Mandolini – ha detto la Rosati – disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato”, che stavano cercando “di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno”. Le parole di Mastronardi jr – In aula, Casamassima ha confermato anche il resto della sua deposizione. “Il figlio del maresciallo Mastronardi, anche lui carabiniere, mettendosi le mani sulla fronte mi raccontò che nella notte dell’arresto vide personalmente Cucchi e lo vide ridotto male a causa del pestaggio subito. Disse che lui non aveva mai visto una persona combinata così”. Il testimone, interrogato dal pm Musarò, ha anche spiegato il motivo che lo ha convinto a raccontare i due episodi solo dopo quattro anni e mezzo dalla morte di Cucchi, e cioè nel maggio del 2015. “Pensavo che Mandolini volesse fare lui stesso qualcosa. Avevo paura di ritorsioni, dopo la mia testimonianza hanno cominciato a fare pressioni pesanti nei miei confronti. Ho avuto anche problemi perché ho rilasciato interviste non autorizzate; si stava cercando di screditarmi, e io dovevo far capire che tutto quello che dicevano non era vero”. Ilaria Cucchi: “Verità in ritardo per colpa di Mandolini” –“Per anni io e la mia famiglia abbiamo rincorso la verità, abbiamo atteso troppo. Ritengo che il principale responsabile di questa attesa sia il maresciallo Mandolini – ha commentato Ilaria Cucchi – Ricordo bene quando venne in aula nel primo processo, quello sbagliato, a raccontarci la storiella che quella era stata una serata piacevole e che Stefano era stato anche simpatico. Adesso è il processo giusto, si parla di pestaggio. E ogni volta che entro in quest’aula ho la pelle d’oca. È inaccettabile che si sia cercato di scaricare tutto sulla polizia penitenziaria”. L’intervista al Fatto.it – Casamassima e Mandolini dal 2016 lavorano nello stesso reparto al battaglione Tor di Quinto. “È per questo motivo – ha detto al Fatto.it – che ho chiesto di essere spostato per ricongiungimento familiare. Per evitare problemi ho chiesto di essere portato dove lavora anche la mia compagna. Ma mi è stato detto di no nonostante il ricongiungimento sia previsto da circolari specifiche”.

“Un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi”, scrive "Il Post" mercoledì 16 maggio 2018. Durante il processo bis per la morte di Stefano Cucchi un carabiniere ha accusato i suoi cinque colleghi: a che punto siamo. Martedì 14 maggio c’è stata una nuova udienza del processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo romano trovato il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni dopo essere stato arrestato. Il processo bis riguarda cinque carabinieri, compresi i tre che arrestarono Cucchi e che sono accusati di omicidio preterintenzionale. Durante l’udienza di martedì ha parlato l’appuntato scelto dei carabinieri Riccardo Casamassima, e ha ripetuto le dichiarazioni fatte al pubblico ministero durante le indagini che hanno portato alla riapertura del caso. Casamassima ha accusato in aula i cinque colleghi: «Nell’ottobre 2009, il maresciallo Roberto Mandolini (accusato di falso e calunnia e a quel tempo a capo della stazione dove venne eseguito l’arresto di Cucchi, ndr) si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, quando si riferì ai “ragazzi”, l’idea era che erano stati i militari che avevano proceduto all’arresto».

E ancora: «Il nome di Stefano Cucchi come del massacrato di botte fu percepito dalla mia compagna, Maria Rosati (anche lei nei carabinieri, ndr) che era dentro quell’ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria». Maria Rosati, altra importante testimone del processo bis, ha confermato: «Mandolini disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato», che stavano cercando «di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno». Casamassima ha detto anche che «il figlio del maresciallo Mastronardi, anche lui carabiniere, mettendosi le mani sulla fronte mi raccontò che nella notte dell’arresto vide personalmente Cucchi e lo vide ridotto male a causa del pestaggio subito. Disse che non aveva mai visto una persona combinata così». E quando il pubblico ministero di Roma, Giovanni Musarò, ha chiesto a Casamassima perché abbia «aspettato 4 anni e mezzo per parlare», lui ha risposto: «Perché all’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali, e, provando vergogna per ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di rendere testimonianza, temendo ritorsioni che poi si sono verificate. Quando è uscito il mio nome sui giornali, i superiori hanno cominciato ad avviare contro di me procedimenti disciplinari, tutti pretestuosi. Con Mandolini mi sono incrociato una mattina nell’ottobre del 2016: gli dissi solo di andare a parlare col pm e a dire quello che sapeva. Gli dissi che la procura stava andando avanti e che aveva in mano una serie di elementi importanti. Lui mi rispose dicendomi che il pm ce l’aveva a morte con lui». Sempre all’interno dello stesso processo, qualche settimana fa, sono stati ascoltati due carabinieri: Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio. Entrambi tennero in custodia Cucchi alla caserma di Tor Sapienza la notte dell’arresto, fino al mattino dopo quando Cucchi fu trasferito in tribunale per l’udienza di convalida. I due hanno testimoniato che le relazioni sullo stato di salute di Cucchi dopo l’arresto (e datate 26 ottobre) vennero modificate: una su esplicita direttiva di alcuni loro superiori. Scrive Repubblica: «Nel report, Colicchio, come ha ricordato in aula, aveva scritto che Cucchi “dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”, ma non ha riconosciuto come sua l’annotazione (che riportava la stessa data e lo stesso numero di protocollo) nella quale è scritto che il ragazzo “dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”. Il militare ha detto di ricordare “di avere fatto una sola relazione; la seconda è strana perché porta la mia firma, ma io non la ricordo. Nella seconda ci sono dei termini che io non uso, non la riconosco”. Ancora più anomale sono le due annotazioni di servizio a firma del carabiniere Di Sano. Nella prima, il militare scrive che Cucchi “riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare”; nella seconda annota che il ragazzo dichiara di “essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo-umida che per la rigidità della tavola da letto”. Questa seconda dichiarazione però, ha detto Di Sano in aula oggi, “la modificai, mi chiesero di farlo perché la prima era troppo dettagliata. Non ricordo per certo chi è stato; certo il nostro primo rapporto è con il Comandante della Stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico”».

Stefano Cucchi aveva 31 anni e lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 venne arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di una ventina di grammi di hashish e di alcune pastiglie, indicate inizialmente come ecstasy. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, venne portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente Cucchi passò sei giorni in diverse strutture venendo a contatto con decine di operatori sanitari e forze dell’ordine, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati vennero resi pubblici solo alcuni mesi più tardi: pesava 37 chili. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Nelle settimane successive alla morte si disse di tutto: che era drogato, sieropositivo, anoressico. E più volte si cercò di attribuire alle sue “fragili” condizioni di salute la principale causa della morte. Finora nessuno è stato ritenuto responsabile della morte di Stefano Cucchi. Il 5 giugno del 2013, dopo quattro anni, la III Corte d’Assise di Roma pronunciò la sentenza di primo grado: gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso furono assolti, mentre i medici dell’ospedale “Pertini” furono condannati per omicidio colposo. Nessuno venne considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si riferivano al mancato soccorso una volta che Cucchi fu portato in ospedale. Il 31 ottobre del 2014 al processo di appello venne accolta la tesi della difesa e tutti gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove. Nelle motivazioni della sentenza si diceva però che andava valutata «la possibilità di svolgere nuove indagini». Per i giudici Cucchi era stato stato picchiato mentre era detenuto e andava chiarito il ruolo di chi, a partire dai carabinieri, l’aveva avuto in custodia dopo la perquisizione della sua casa. Bisognava dunque svolgere nuove indagini per accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria. Nel marzo del 2015 la procura generale di Roma e i familiari di Stefano Cucchi depositarono un ricorso in Cassazione contro la sentenza dei giudici d’appello, che nel dicembre del 2015 venne accolto: la Cassazione decise di annullare le assoluzioni dei cinque medici (ma ormai il reato è prescritto) e confermò invece le assoluzioni dei tre agenti di polizia penitenziaria. A quel punto cominciò l’appello-bis. Nel giugno del 2016, durante il processo di appello-bis, l’accusa chiese di condannare per omicidio colposo i cinque medici che un mese dopo furono nuovamente assolti (qui, si può trovare una versione estesa di come si è arrivati a questo punto). Nel dicembre del 2015 venne avviata una nuova indagine, separata dai processi che c’erano già stati a carico di agenti di polizia, infermieri e medici, e che riguarda i cinque carabinieri che furono rinviati a giudizio nel febbraio del 2017. Si arriva dunque al processo bis e ai giorni nostri. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – che arrestarono Cucchi – sono accusati di omicidio preterintenzionale. Tedesco è accusato anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e di calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini. Vincenzo Nicolardi, carabiniere, è accusato di calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nel primo processo.

A che punto è il caso di Stefano Cucchi, scrive mercoledì 5 ottobre 2016 "Il Post". La nuova perizia ipotizza la "morte per epilessia", ma la sorella Ilaria dice che ora gli indagati potrebbero essere processati per omicidio preterintenzionale. Da martedì si parla di una nuova perizia medico-legale sulla morte di Stefano Cucchi, l’uomo trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza all’interno del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni. I periti nominati dalla giudice Elvira Tamburelli hanno affermato che quella di Cucchi potrebbe essere stata una «morte improvvisa e inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale». Per questo nelle ultime ore sono circolati online moltissimi commenti offesi e indignati. La perizia però conferma anche le lesioni alla colonna vertebrale, indizio che aggiunge credibilità alla tesi per cui Cucchi sia stato picchiato, e per questo la sorella Ilaria Cucchi ha scritto che «con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale». Come si è arrivati fino a qui.

Stefano Cucchi aveva 31 anni e lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 venne arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di una ventina di grammi di hashish e di alcune pastiglie, indicate inizialmente come ecstasy. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, venne portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente Cucchi passò sei giorni in diverse strutture e venendo a contatto con decine di operatori sanitari e della giustizia, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati vennero resi pubblici solo alcuni mesi più tardi: pesava 37 chili. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Nelle settimane successive alla morte, si disse di tutto: che era drogato, sieropositivo, anoressico. E più volte si cercò di attribuire alle sue “fragili” condizioni di salute la principale causa della morte.

Il processo di primo grado. Il processo a Stefano Cucchi iniziò nel marzo del 2011: il rinvio a giudizio era stato confermato due mesi prima. Il direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), Claudio Marchiandi, che fu l’unico a chiedere il rito abbreviato, venne condannato a due anni per i reati di favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio, ma venne poi assolto in secondo grado nell’aprile 2012 (la Cassazione dispose poi un nuovo processo che si concluse con la conferma dell’assoluzione e ora la procura generale di Roma ha deciso di presentare un ricorso). Le altre dodici persone per cui venne chiesto inizialmente il rinvio a giudizio erano tre infermieri, sei medici e tre agenti di polizia penitenziaria. Per i medici i reati andavano dal falso ideologico all’abuso d’ufficio, dall’abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d’ufficio fino al favoreggiamento e all’omissione di referto. Per i poliziotti, invece, i reati contestati erano lesioni aggravate e abuso di autorità. Una commissione d’inchiesta del Senato, presieduta da Ignazio Marino, stabilì che al momento dell’ingresso in carcere Cucchi presentava già lesioni gravi al volto, lesioni vertebrali e un sospetto di trauma cranico addominale. Secondo l’accusa, Cucchi venne picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Successivamente, dopo il suo ricovero al “Pertini”, l’accusa sostenne che Cucchi non venne curato né nutrito e che venne lasciato morire di fame e di sete, nonostante le sue pessime condizioni. Vi furono 45 udienze, 120 testimoni sentiti, decine di consulenti tecnici nominati da accusa, parti civili, difesa, e anche una maxi-perizia disposta dalla stessa Corte. La tesi dei periti nominati dalla Corte fu che Cucchi morì per “inanizione”, ovvero per malnutrizione; molte delle accuse vennero ricondotte a una colpa medica. Il 5 giugno del 2013, dopo quattro anni, la III Corte d’Assise di Roma presieduta da Evelina Canale pronunciò la sentenza di primo grado: gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso furono assolti, mentre i medici dell’ospedale “Pertini” furono condannati per omicidio colposo. Nessuno venne considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si riferivano al mancato soccorso una volta che Cucchi fu portato in ospedale. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado pubblicate il 3 settembre del 2013 è scritto: «La sindrome di inanizione (mancanza di cibo e acqua) è in grado di fornire una spiegazione dell’elemento più appariscente e singolare del caso in esame e cioè l’impressionante dimagrimento cui è andato incontro Cucchi nel corso del suo ricovero».

L’appello, la Cassazione e l’appello bis. Il 31 ottobre del 2014 al processo di appello venne accolta la tesi della difesa e tutti gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove. Dopo la lettura della sentenza la madre di Stefano Cucchi parlò di una decisione «assurda: mio figlio è morto dentro quattro mura dello Stato che doveva proteggerlo». Nel gennaio del 2015 i giudici della Corte d’appello di Roma depositarono le motivazioni della loro sentenza e scrissero che andava valutata «la possibilità di svolgere nuove indagini». Per i giudici Cucchi era stato picchiato mentre era detenuto: andava chiarito cioè il ruolo di chi, a partire dai carabinieri, l’aveva avuto in custodia dopo la perquisizione della sua casa. Per i magistrati «le lesioni subite dal Cucchi» dovevano «essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, anche una spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento». E ancora: «È opportuna la trasmissione della sentenza al pm perché valuti la possibilità di svolgere nuove indagini per accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria». La Cassazione disse anche che fu «illogico non aver fatto una nuova perizia». Nel marzo del 2015 la procura generale di Roma e i familiari di Stefano Cucchi depositarono il ricorso in Cassazione contro la sentenza dei giudici d’appello, che nel dicembre del 2015 venne accolto: la Cassazione decise dunque di annullare le assoluzioni dei cinque medici e confermò invece le assoluzioni dei tre agenti di polizia penitenziaria. A quel punto cominciò l’appello-bis. La storia arriva ai nostri giorni. Nel giugno del 2016, durante il processo di appello-bis, l’accusa ha chiesto di condannare per omicidio colposo i cinque medici. Un mese dopo i medici sono stati nuovamente assolti.

L’inchiesta bis. Nel dicembre del 2015 venne avviata una nuova indagine, separata dai processi che c’erano già stati a carico di agenti di polizia e medici, che riguardava cinque carabinieri di cui tre accusati di lesioni aggravate e due di falsa testimonianza. Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu picchiato dai carabinieri e ci fu una «strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti». All’interno di questa inchiesta bis era stata chiesta una nuova perizia medico legale. Martedì 4 ottobre è stato diffuso il risultato della perizia. La perizia è stata fatta dai professori Francesco Introna (dell’istituto di medicina legale del Policlinico di Bari) e Franco Dammacco (dell’Università di Bari), e dai medici Cosma Andreula e Vincenzo D’Angelo. Il prossimo 18 ottobre ci sarà l’udienza per l’incidente probatorio per decidere dunque se acquisire la perizia come prova. Per i periti quella di Stefano Cucchi potrebbe essere stata una «morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici». E questa sarebbe l’ipotesi «dotata di maggiore forza ed attendibilità». L’altra ipotesi, quella delle fratture subite da Cucchi, sarebbe meno attendibile come causa diretta di morte ma ha trovato comunque delle conferme: sebbene i periti indichino l’epilessia come ipotesi prevalente dicono anche che «allo stato attuale non è possibile formulare alcuna causa di morte». Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha detto che la perizia riconosce le fratture e dice che l’epilessia è indicata come «priva di riscontri oggettivi»: «Il perito Introna tenta di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello (…) ma dopo aver riconosciuto tutte le evidenze cliniche da sempre dai nostri medici legali evidenziate, riconosce il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture». E ancora: «Il perito Introna dice in buona sostanza che coloro che hanno violentemente pestato (Cucchi) rompendogli la schiena in più punti non sono responsabili della sua morte per il fatto che il terribile globo vescicale che ha fermato il suo cuore non si sarebbe formato se non ci fosse stata la responsabilità degli infermieri. Ma gli unici dati oggettivi scientifici che la perizia riconosce sono: il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore. Con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale. Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti». Franco Maccari, segretario generale del Coisp Sindacato di polizia, prendendo per buona solo la tesi prevalente della perizia ha detto che «Cucchi non è morto per un presunto pestaggio» e che negli anni c’è stata «una vergognosa montatura mediatico-giudiziaria che è servita a gettare fango su tutte le forze dell’ordine». Maccari dice anche che si aspetta le scuse «da parte di tutti coloro che, familiari, giornalisti, politici e quant’altro, hanno sposato ad occhi chiusi la tesi dell’uccisione dell’uomo».

Tutte le tappe del caso Stefano Cucchi. Dall'arresto del 2009 al successivo decesso, fino alla chiusura delle indagini nell'inchiesta bis che per la prima volta accusa 3 carabinieri di omicidio, scrive il 17 gennaio 2017 Panorama. Nella notte del 15 ottobre 2009, in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, il geometra trentunenne Stefano Cucchi viene arrestato dai carabinieri perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Intorno all'1,30 i carabinieri, dopo averlo portato in caserma, lo accompagnano a casa per perquisire la sua stanza. Non trovano nulla, lo riportano in caserma e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio.

15 OTTOBRE 2009. È in quelle ore del 15 ottobre, secondo i pm dell'inchiesta bis, che sarebbero avvenute le percosse che portarono alla morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre, una settimana dopo il suo arresto nel reparto detenuti dell'ospedale romano Sandro Pertini. La famiglia Cucchi poté vedere Stefano, dopo l’udienza del processo per direttissima avvenuta il 16 ottobre, soltanto quando ormai il giovane era morto.  A pochi giorni dal decesso, la sorella Ilaria Cucchi - per rispondere a una campagna che aveva preso a dipingere Cucchi come un tossicomane senza nessuna credibilità -  diffuse le foto shock del cadavere del ragazzo scattate all'obitorio: magrezza scheletrica (Cucchi pesava 37 chili al momento della morte, dopo un calo ponderale di sei chili in una sola settimana),  lesioni diffuse, una maschera violacea attorno agli occhi, uno dei quali schiacciato nell'orbita, un ematoma bluastro sulla palpebra e la mandibola spezzata. E poi la schiena, fratturata all'altezza del coccige. Iniziò allora la prima inchiesta, poi annullata in Cassazione, conclusasi con l'assoluzione di tutti gli imputati, dai medici del Sandro Pertini (accusati di omissione di soccorso) fino ai tre agenti della polizia penitenziaria, accusati ingiustamente dai carabinieri e da un carcerato delle percosse subite dal giovane quando ormai era in cella. L'inchiesta avviata maldestramente dalla Procura - che non indagò sulla prima notte, quando il giovane fu portato in caserma, ma soltanto sui giorni in cui Cucchi era a Regina Coeli -  diede il via ad un lunghissimo processo, iniziato con il rinvio a giudizio dei dodici imputati (gennaio 2011): 45 udienze, 120 testimoni sentiti, decine di consulenti tecnici nominati da accusa, parti civili, difesa, e anche una maxi-perizia disposta dalla stessa Corte.

16 OTTOBRE 2009. La mattina successiva del fermo c'è il processo per direttissima. Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l'arresto e fissa una nuova udienza. Nell'attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.

17 OTTOBRE 2009. Cucchi viene trasportato all'ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere.

22 OTTOBRE 2009. Stefano, cinque giorni dopo, muore all'ospedale Pertini. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l'autorizzazione per vederlo. 

25 GENNAIO 2011. Vengono rinviate a giudizio 12 persone: i sei medici dell'ospedale Sandro Pertini Aldo Fierro, Stefania Corvi, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo; i tre infermieri dello stesso ospedale, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, e le tre guardie carcerarie Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, risultate innocenti e chiamate in causa dai Cc che fecero l'arresto. 

Il 5 GIUGNO 2013. La III Corte d'Assise condanna in primo grado quattro medici dell'ospedale 'Sandro Pertini' a un anno e quattro mesi e il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico. Invece assolve sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.

Il 31 OTTOBRE 2014. A seguito di una sentenza della Corte d'appello di Roma, sono assolti tutti gli imputati, anche i medici. La sorella di Stefano, Ilaria, dichiara che avrebbe chiesto ulteriori indagini al procuratore capo Pignatone e che avrebbe continuato le sue campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.

12 GENNAIO 2015. La Corte d'assise d'appello della capitale deposita le motivazioni della sua sentenza. Si dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero per nuove indagini sulle violenze subite da Stefano Cucchi. La Procura di Roma apre un'inchiesta-bis.

10 SETTEMBRE 2015. Per la prima volta viene iscritto nel registro degli indagati un carabiniere per falsa testimonianza. Alla fine i carabinieri indagati sono 5: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, ora accusati di omicidio preterintenzionale), Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, e il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm).

11 DICEMBRE 2015. La Procura di Roma chiede, nell'ambito dell'incidente probatorio davanti al gip, una nuova perizia sul pestaggio subito da Cucchi.

15 DICEMBRE 2015. La Corte di Cassazione annulla l'assoluzione di cinque medici del Pertini, disponendo che nei loro confronti sia celebrato un appello-bis per omicidio colposo. Definitivamente assolti, invece, tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto processo. La sentenza arriva mentre procede l'inchiesta-bis della Procura di Roma che ha iscritto cinque carabinieri nel registro degli indagati.

9 MARZO 2016 Non sono state fornite «spiegazioni esaustive e convincenti del decesso di Stefano Cucchi». Così la Cassazione, in 57 pagine di motivazioni (scarica la sentenza), spiega perché ha annullato l'assoluzione dei cinque medici del Pertini, disponendo un appello-bis per omicidio colposo. Questi ultimi - scrivono i giudici di legittimità - avevano una posizione di garanzia a tutela della salute di Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare con precisione la sua patologia, anche in presenza di una «situazione complessa che non può giustificare l'inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico».

18 LUGLIO 2016 La terza Corte d'Assise d'appello confermata l'assoluzione dei 5 medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi nell'ospedale Pertini di Roma. Era stata la Cassazione, nel dicembre scorso, a chiedere il nuovo processo dopo la condanna in primo grado e l'assoluzione in appello.

4 OTTOBRE 2016 I periti, nominati a gennaio dal gip nell'ambito dell'inchiesta-bis, depositano 250 pagine in cui spiegano che non ci sarebbe nesso causale tra il violento pestaggio cui è stato sottoposto Cucchi e il decesso. Due sarebbero le ipotesi. La prima «è rappresentata da una morte improvvisa e inaspettata per epilessia», per la quale avrebbe agito come «ruolo causale favorente» anche la tossicodipendenza del ragazzo. Analoga «concausa favorente», la «condizione di severa inanizione» (indebolimento per carenza di alimentazione). La seconda è che la morte del ragazzo sia legata «alla recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale». Un'ipotesi giudicata per la prima volta come possibile, che di fatto ha favorito la messa sotto indagine dei tre militari che dopo l'arresto lo avevano portato in caserma.

7 OTTOBRE 2016 La Corte d'assise d'appello di Roma deposita le motivazioni della sentenza (Scarica la sentenza) con cui il 18 luglio ha assolto dall'accusa di omicidio colposo cinque medici del Pertini: Cucchi è morto di malnutrizione e, anche se i medici «hanno omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione» e di attuare le opportune terapie, «appare logicamente poco probabile che il ragazzo si sarebbe salvato». Per i giudici non è possibile dimostrare, in pratica, che attuando l’omessa condotta i medici avrebbero potuto impedire la morte di Stefano. 

17 GENNAIO 2017. Otto anni dopo la  morte avvenuta in un letto del reparto di medicina protetta dell'ospedale Pertini di Roma, il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò chiudono la cosiddetta inchiesta bis (aperta nel novembre del 2014) sui responsabili del suo pestaggio e con l'atto di conclusione indagini contesta per la prima volta a tre dei carabinieri che lo arrestarono nel parco degli acquedotti di Roma - Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco - il reato di omicidio preterintenzionale. Con loro, accusati di calunnia, il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione dei carabinieri Appia (quella che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 aveva proceduto all'arresto) e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco. Per Mandolini e Tedesco, infine, anche il reato di falso verbale di arresto. Cucchi, secondo i pm, è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto. Non è morto né di fame e sete, né per cause ignote alla scienza medica, né di epilessia. È stato per loro un omicidio preterintenzionale avvenuto in caserma nella notte prima del processo per direttissima. Tra le testimonianze considerate più utili c’è quella di Anna Carino, ex moglie del carabiniere Raffaele D’Alessandro, che in una telefonata avrebbe detto all’uomo: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (…) che te ne vantavi pure… che te davi le arie». Alla base della ricostruzione di Pignatone e Musarò ci sarebbero anche le parole di Riccardo Casamassima, all’epoca in servizio presso la stazione di Tor Sapienza. In un verbale del 30 giugno, Casamassima ha raccontato che la notte dell’arresto l’allora comandante Roberto Mandorlini disse: «È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato».

Roma, caso Cucchi: chiesto il processo per cinque carabinieri. Per tre militari l'accusa è di omicidio preterintenzionale, per gli altri due i reati sono di calunnia e di falso, scrive il 14 febbraio 2017 "La Repubblica". Chiesto dalla procura di Roma il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri coinvolti nell' inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009 nell'ospedale Sandro Pertini. Per i tre militari che arrestarono il geometra, e ritenuti autori del pestaggio, l'accusa è di omicidio preterintenzionale, per gli altri due carabinieri sono calunnia e falso. Il reato di omicidio preterintenzionale è stato configurato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò nei confronti di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, all'epoca dei fatti in servizio al Comando Stazione di Roma Appia. Si tratta dei militari che procedettero all'arresto di Stefano Cucchi in flagranza di di reato per detenzione di droga. Tedesco è accusato anche di falso. Mentre a Roberto Mandolini, comandante Interinale della stessa stazione di Roma Appia sono attribuiti i reati di calunnia e falso. Accusa di calunnia anche per lo stesso Tedesco, e per Vincenzo Nicolardi, anche quest'ultimo militare dell'Arma. Ai tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale è contestato anche il reato di abuso di autorità per aver sottoposto Cucchi "a misure di rigore non consentite dalla legge". "Sono emozionata, finalmente ci siamo", sono state queste le prime parole che ha detto Ilaria Cucchi commentando la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla procura di Roma nei confronti dei cinque carabinieri. "È il momento migliore - ha aggiunto - proprio in occasione dell'associazione dedicata a Stefano che presenterò il 18 febbraio".

Caso Cucchi, le botte e le bugie: processo a cinque carabinieri. Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco sono accusati di omicidio preterintenzionale, Mandolini e Nicolardi di falso e calunnia nei confronti degli agenti della penitenziaria. Il dibattimento comincerà il 13 ottobre, scrive Ilaria Sacchettoni il 10 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Otto anni dopo, malgrado alcune prescrizioni intervenute (su tutte il reato di abbandono d’incapace per il quale la Cassazione aveva chiesto di annullare l’assoluzione dei medici del «Sandro Pertini») ci sarà un nuovo processo per Stefano Cucchi, arrestato per spaccio alla periferia di Roma il 15 ottobre 2009 e morto in ospedale una settimana dopo. A giudizio, per omicidio preterintenzionale, sono finiti i tre carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco che, quella notte, mentre erano in corso gli accertamenti che accompagnano sempre il fermo di un indiziato, lo sottoposero, secondo l’accusa, a un violento pestaggio. Il motivo? Cucchi si sarebbe rifiutato di collaborare sia alle perquisizioni che al fotosegnalamento. E per questo, secondo quanto scrive il pm Giovanni Musarò, il giovane fu colpito «con schiaffi, pugni e calci, fra l’altro provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale». Ma a processo, per decisione della gup Cinzia Parasporo, sono finiti anche i loro colleghi Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, accusati (come pure lo stesso Tedesco) di aver testimoniato il falso durante il primo processo calunniando gli agenti della polizia penitenziaria benché innocenti e di aver mentito sulle circostanze del fotosegnalamento. Mandolini, in particolare, per il pm, aveva tentato di accreditare l’idea che il ragazzo non fosse stato sottoposto a fotosegnalamento su sua richiesta mentre la procedura fu elusa perché ritenuta rischiosa: le foto avrebbero testimoniato i segni delle percosse. «Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise andranno a processo e saranno chiamate a rispondere di quanto commesso», esulta Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. «Ora gli imputati subiranno un giusto processo per le loro gravissime responsabilità» chiosa l’avvocato di famiglia, Fabio Anselmo. L’inizio del dibattimento è previsto per il 13 ottobre davanti alla terza Corte d’Assise, nell’aula bunker di Rebibbia. Ma come era nata l’inchiesta bis? Alle pressioni della famiglia, che non si è mai arresa, si è unita una circostanza favorevole. Le rivelazioni di un detenuto che aveva trascorso una notte in cella con Cucchi dolorante e che lo aveva sentito indicare nei carabinieri i responsabili delle percosse. La testimonianza di Luigi L. (questo il nome del detenuto) da sola non sarebbe bastata però, e infatti gli agenti della mobile coordinati dal pm Musarò e dallo stesso procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, hanno proceduto a una rilettura degli atti della prima indagine. Poi si sono affidati alle intercettazioni. Importantissima è stata la conversazione telefonica di D’Alessandro con l’ex moglie Anna Carino. È sua, la voce che, dall’altra parte del telefono, conferma l’ipotesi di un «violentissimo pestaggio» nei confronti del ragazzo: «Non ti ricordi — dice al marito — che mi raccontavi di come vi eravate divertiti a pestare “quel drogato di m..”?». Fondamentale anche l’esito della perizia medica che aveva messo in relazione le percosse con la «successiva abnorme acuta distensione vescicale» nel ragazzo. Vescica «non correttamente drenata» dai medici, usciti di scena grazie alla prescrizione. «La perizia medica acquisita con incidente probatorio, ha escluso qualunque responsabilità dei carabinieri — dice l’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini — e questo porterà a una sentenza d’assoluzione».

Caso Cucchi, rinvio a giudizio per cinque carabinieri. Sono imputati nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del geometra romano deceduto nell'ottobre 2009 una settimana dopo il suo arresto per droga. La sorella Ilaria: "Processo a chi si è nascosto dietro divisa". Timeline Le tappe della vicenda, scrive il 10 luglio 2017 "La Repubblica". Il gup del Tribunale di Roma Cinzia Parasporo ha disposto il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri imputati nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, il geometra romano deceduto nell'ottobre 2009 a Roma una settimana dopo il suo arresto per droga. Per i tre militari che lo arrestarono, l'accusa contestata dalla procura è quella di omicidio preterintenzionale, mentre altri due appartenenti all'Arma sono accusati di calunnia e falso. Il processo comincerà il prossimo 13 ottobre davanti alla III Corte d'Assise. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco dovranno rispondere in giudizio dell'accusa di omicidio preterintenzionale (in quanto ritenuti autori del pestaggio subito da Stefano Cucchi). In più, il maresciallo Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione di Roma Appia, risponderà di calunnia e falso, lo stesso Tedesco e Vincenzo Nicolardi di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva. Il gup ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione con riferimento all'imputazione di abuso di autorità contestata a Di Bernando, D'Alessandro e Tedesco. "Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise, saranno chiamati a rispondere di quanto commesso", ha commentato la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, dopo la decisione del rinvio a giudizio per i cinque carabinieri accusati della morte del fratello.

Ilaria Cucchi: "Ora i carabinieri non potranno più nascondersi dietro la divisa". Parla la sorella di Stefano dopo la decisione del giudice di rinviare a giudizio i cinque agenti coinvolti a vario titolo nella vicenda. Per tre di loro l'accusa è omicidio preterintenzionale, scrive Giovanni Tizian il 10 luglio 2017 su “L'Espresso”. Un nuovo processo per fare luce sulla morte di Stefano Cucchi. Lo ha stabilito il giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Roma che ha disposto il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri imputati nell'ambito dell'inchiesta bis su Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per droga. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco dovranno rispondere in giudizio dell'accusa di omicidio preterintenzionale (in quanto ritenuti autori del pestaggio subito da Stefano Cucchi). In più, il maresciallo Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione di Roma Appia, risponderà di calunnia e falso, lo stesso Tedesco e Vincenzo Nicolardi di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva. Il processo comincerà il prossimo 13 ottobre davanti alla III Corte d'Assise. Il gup, inoltre, ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione con riferimento all'imputazione di abuso di autorità contestata a Di Bernando, D'Alessandro e Tedesco. «È una giornata importantissima», ammette con L'Espresso Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che in tutti questi anni ha combattuto per avere giustizia. «Ora i carabinieri dovranno rispondere delle loro responsabilità e non potranno più nascondersi dietro la divisa. Questa volta non potranno guardare altri sul banco degli imputati accusati ingiustamente», aggiunge. Ilaria Cucchi è emozionata, la tensione di questi anni si trasforma in lacrime. «Ho pensato a mio fratello, il mio primo pensiero dopo che il giudice ha stabilito il rinvio a giudizio. Si sta dimostrando che non è vero che la vita di Stefano non contava nulla, ma che la giustizia vale per tutti, anche per gli ultimi». Il 13 ottobre il processo bis. Altri anni durissimi. Ma i familiari di Stefano non demordono. «Sarà un dibattimento non facile, ma molto diverso dal primo in cui hanno cercato di dimostrare in tutti i modi che l'unico colpevole della morte di mio fratello era mio fratello stesso», dice con rabbia Ilaria, che aggiunge: «In questi anni abbiamo subito di tutto. I meccanismi sono identici e valgono per tutte le vittime degli abusi di Stato. Colpevolizzare la vittima e la sua famiglia. Voglio dire una cosa sola a queste persone: «Guardate oltre l'indifferenza, cercate di capire che dietro queste vittime ci sono famiglie con un carico di dolore enorme».

Cucchi, gli agenti assolti contro i carabinieri indagati. Tre gradi di giudizio hanno sancito la loro innocenza. Durante il processo i carabinieri che hanno testimoniato hanno raccontato il falso. Ma i verbali dell'accusa smontano la loro ricostruzione. E ora i poliziotti penitenziari assolti si costituiranno parte civile contro i militari dell'Arma, scrive Giovanni Tizian il 21 febbraio 2017. Tre gradi di giudizio. La gogna pubblica del processo. Le accuse da cui difendersi. Infine assolti per la morte di Stefano Cucchi. Ma ora gli agenti della Penitenziaria chiederanno i danni ai carabinieri indagati nell'inchiesta bis sul pestaggio del geometra romano. Si costituiranno parte civile contro quei militari della caserma Appia che hanno dichiarato il falso durante il processo in cui imputati erano i poliziotti. E che adesso sono accusati dalla procura di Roma per falso e calunnia insieme ai loro colleghi autori, è la tesi degli inquirenti, del pestaggio che ha portato alla morte del ragazzo. È la legge del contrappasso. In questo caso applicata a servitori dello Stato che con le loro omissioni hanno sostanzialmente depistato il processo. Perché con le menzogne dette ai giudici hanno contribuito al calvario umano di chi ha dovuto affrontare anni di udienze e spese processuali. Tra i carabinieri accusati di falso e calunnia c'è per esempio Roberto Mandolini, all'epoca comandante della stazione Appia. La caserma dove venne portato Stefano Cucchi dopo l'arresto per droga. Di calunnia dovranno rispondere anche Francesco Tedesco e Vincenzo Nicolardi. Il pm Giovanni Musarò, che coordina l'inchiesta della Squadra Mobile, ha chiesto recentemente il rinvio a giudizio per loro e per i militari colpevoli, secondo l'accusa, del pestaggio vero e proprio: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e lo stesso Francesco Tedesco. Per i tre l'ipotesi contestata è omicidio preterintenzionale, aggravato dai futili motivi. Tra chi ha mentito c'è, appunto, Mandolini. Il maresciallo sapeva, in pratica, ma ha fatto finta di niente. E anche quando ha avuto l'occasione di dire la verità, in tribunale, ha continuato a mentire. Lasciando che la colpa di quanto accaduto ricadesse sugli agenti di custodia. Per questo motivo il magistrato gli contesta la calunnia. L'avvocato Dario Perugini, legale di uno degli agenti prosciolti dalle accuse nel primo processo, ha confermato a “l'Espresso” che i poliziotti si costituiranno parte civile. Con il rischio per i carabinieri che hanno detto il falso in aula di dover risarcire, nel caso di colpevolezza, una somma stratosferica. Già, perché il risarcimento per aver affrontato ingiustamente un processo fino in Cassazione rischia di essere un indennizzo milionario. Era il 2011, quando Roberto Mandolini venne convocato sul banco dei testimoni. «Era tranquillo, spiritoso», questo è quanto dichiarò il carabiniere sull'arresto di Cucchi. Aggiunse, poi, che «l'unica sua preoccupazione era per la reazione che avrebbe avuto la famiglia per la sua cattura. Disse che non stava molto bene con il fegato, forse che era epilettico, ma parlò soprattutto della sua tossicodipendenza. Niente di strano o di diverso nelle sue condizioni rispetto al momento dell'arresto». Falsità, sostengono i pm di Roma. Per dimostrarlo hanno allegato agli atti dell'inchiesta bis alcuni verbali che smentiscono il racconto edulcorato del carabiniere. Queste testimonianze descrivono una situazione nettamente diversa. L'avvocato Maria Tiso, per esempio, si trovava fuori dall'aula il giorno in cui Cucchi è stato portato per il processo direttissimo. La descrizione che fa dello stato di salute del giovane è impressionante: «Due cose mi avevano profondamente colpita: l'atteggiamento del padre e le condizioni del figlio» dice al pm Musarò. Tiso prosegue aggiungendo altri dettagli: «Anche il padre si era reso conto che qualcosa nelle condizioni fisiche del figlio non andava. Era fin troppo evidente, del resto. Ho notato che il ragazzo era molto teso e stizzito...aveva il viso molto arrossato e gonfio, con delle profonde borse sotto gli occhi di colore violaceo. Tengo a precisare che non si trattava di occhiaie, ma di borse: intendo dire che sotto gli occhi non era scavato, era proprio gonfio, era chiaro che non si trattava di mancanza di sonno, ma di altro». L'avvocato, poi, continua confermando agli inquirenti che il viso «sembrava recare delle tumefazioni in quanto era violaceo». E ancora: «Voglio precisare che tutto il volto era arrossato in modo evidente. Ma ciò che mi colpì maggiormente era il modo in cui camminava: lentamente, non riusciva a sollevare i piedi da terra, era irrigidito nella coordinazione e nella deambulazione. Praticamente i piedi strisciavano per terra, come se li trascinasse a ogni passo». Tiso spiega che «il ragazzo era allo stremo delle forze». Tra le nuove testimonianze raccolte dalla procura capitolina nell'indagine bis, c'è anche quella dell'avvocato d'ufficio che ha difeso Cucchi quel giorno. Giorgio Domenico Rocca conferma i segni evidenti del pestaggio: «Avevo notato che Stefano Cucchi aveva il viso gonfio e per tale ragione gli avevo chiesto se fosse stato maltratto in occasione dell'arresto. Stefano, alla presenza dei Carabinieri, negò e perciò mi tranquillizzai». Anche Rocca, quindi, aveva notato il gonfiore del viso. Ma non era l'unica anomalia che aveva percepito durante l'udienza: la postura, «era messo su un fianco, poggiato con un solo gluteo e con il gomito sulla panca a fare da perno», il battibecco con i militari presenti in aula e la fatica a esprimersi durante l'interrogatorio erano segnali che se colti in tempo avrebbero probabilmente cambiato radicalmente il corso degli eventi. «Mi ero tranquillizzato - ha spiegato il legale al pm - quando aveva negato di essere stato maltrattato, riconducevo tali stranezze allo stato di tossicodipendenza. Se il padre mi avesse detto che quel gonfiore non era normale e che probabilmente era stato picchiato allora avrei dato un peso diverso alle anomalie di cui ho parlato prima». Il verbale di Rocca si chiude con un ulteriore particolare: «Tutti notarono il gonfiore di Stefano Cucchi, anche il giudice e il pm, i quali gli dissero di farsi vedere da un medico». Tutti hanno visto, dunque, e tutti sapevano. Tranne il maresciallo Mandolini. Resta da capire perché nessuno abbia voluto approfondire in quell'aula la natura dei segni evidenti che Stefano portava sul corpo. Segni che nulla hanno a che fare con l'epilessia, causa di morte secondo gli esperti del collegio che ha seguito l'incidente probatorio. Un risultato, tuttavia, che non ha convinto la procura. Su questo punto, infatti, il magistrato Musarò non ha più dubbi. Tanto da trasformare l'iniziale ipotesi di lesioni in omicidio preterintenzionale. Una valutazione e una virata fondata su elementi nuovi. Come la testimonianza del neurologo Bruno Jandolo, fino al 2009 direttore del dipartimento di Neuroscienze e patologia cervico facciale del Regina Elena. Che ha avuto in cura Stefano proprio per l'epilessia. «Le ipotesi di morte per epilessia sono molto rare e comunque si muore a causa dell'epilessia e non di epilessia. Ad esempio quando il soggetto muore nel sonno di solito muore per asfissia perché a causa della crisi epilettica si mette in posizione prona sul letto e muore soffocato in stato di incoscienza». Jandolo, inoltre, precisa: «Ritengo improbabile che la posizione in cui è stato trovato Stefano sul letto dell'ospedale sia compatibile con una crisi perché tali eventi provocano uno sconquasso che a rigore rende improbabile che il soggetto possa restare in equilibrio su un fianco. In 50 anni di professione non mi è mai capitata una morte improvvisa di epilessia». Il professore aveva conosciuto Stefano nel 2002. «Lo incontrai perché due mesi prima aveva avuto una crisi mentre si trovava davanti al computer... Rividi Stefano nel marzo 2007 e in tale occasione decidemmo di ridurre i medicinali in quanto la patologia era in fase di miglioramento. La patologia può definirsi grave se si manifesta con una o due crisi al mese. Che io sappia l'ultima volta che Stefano ne aveva avuta risale al settembre 2004. L'ultima volta che lo vidi era il 2007». Jandolo spiega anche che Stefano gli sembrava un ragazzo attento alla sua salute e assumeva regolarmente la terapia. La parola di un luminare in materia, che tra l'altro aveva avuto in cura Cucchi, vale, eccome.  E di certo aiuta a diradare il muro di nebbia di 8 anni di menzogne.

Nasce l'associazione Cucchi onlus: "Un immenso abbraccio a chi si è stretto intorno a noi". Sabato sera la presentazione alla Città dell'Altra Economia a Testaccio. Sul palco accanto alla sorella Ilaria e all'avvocato Fabio Anselmo, tante personalità dello spettacolo e del giornalismo, scrive Roma Today il 19 febbraio 2017. Nasce a Roma l'associazione Stefano Cucchi onlus.Sabato sera la presentazione del logo alla Città dell'Altra Economia. Centinaia di persone hanno preso parte all'iniziativa, arrivata a pochi giorni dalla notizia del rinvio a giudizio dei carabinieri indagati per omicidio. La onlus appena nata si batterà "per difendere gli ultimi, per l’introduzione del reato di tortura, per dare voce a tutti gli altri Stefano, in una società come la nostra, abituata a girarsi dall’altra parte" ha spiegato la sorella del geometra morto al Pertini nel 2009. Sul palco della sala, gremita per l'occasione, accanto a Ilaria Cucchi e all’avvocato, Fabio Anselmo, hanno preso la parola il direttore dell’Huffington Post, Lucia Annunziata, Riccardo Iacona, il magistrato Enrico Zucca, il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia e poi rappresentanti di altri comitati di familiari come quelli della strage di Viareggio. Intervenuto per il Campidoglio, l’assessore al Bilancio, Andrea Mazzillo. Applauditi i genitori di Stefano Cucchi presenti in sala, Rita e Giovanni. L’associazione (associazionestefanocucchi@gmail.com) ha raccolto in poche ore centinaia di tesserati. Grande l'emozione per la sorella Ilaria, che ringrazia tutti i presenti il giorno dopo con un lungo post su Facebook. "Quanta gente! Quante persone erano con noi ieri, per tante ore. Gli spazi non bastavano. Ragazzi, famiglie con i loro figli. Molti addirittura con neonati in carrozzina. Tutti in piedi, stipati con i loro volti accesi di emozione, del senso di esserci, dell'entusiasmo di sentirsi parte di noi. Persone normali di ogni estrazione sociale, con la loro voglia di fare qualcosa per un futuro migliore. La loro sete di umanità. Non parlo ora delle personalità dello spettacolo e del giornalismo che, numerose, hanno voluto esserci. A loro andrà poi il mio ringraziamento per il loro prezioso contributo. Ma parlo della gente comune che si è stretta a noi in un grande immenso abbraccio, che vuole essere con noi ed aiutarci a ritrovare l'umanità nel nostro paese. Sono rimasti ore ed ore, moltissimi in piedi stretti stretti l'uno all'altro, ad ascoltarci, ad applaudire, a commuoversi insieme a noi".

Il corpo del reato: Una serie tv racconterà la terribile vicenda di Stefano Cucchi, scrive il 21 febbraio 2017 Emanuele Manta. Uno dei casi di cronaca nera più controversi e discussi degli ultimi anni, la morte di Stefano Cucchi, sarà raccontato da una serie tv diretta da Daniele Vicari (Diaz), adattamento del romanzo di Carlo Bonini. Il corpo del reato, di cui la casa di produzione italiana Fandango ha acquisito i diritti. Il 15 ottobre del 2009 Cucchi fu fermato e arrestato a Roma dopo essere stato trovato in possesso di 21 grammi di hashish e di altre sostanze. Epilettico e malnutrito, il trentenne morì una settima più tardi durante la custodia cautelare nel reparto detenuti dell'ospedale Sandro Pertini in circostanze non chiare, come rivelò l'autopsia con il corpo martoriato da lesioni e traumi che non riportava al momento dell'arresto. Anche attraverso le diverse iniziative della famiglia, la vicenda originò un dibattuto caso giudiziario che, lo scorso 17 gennaio, dopo la riapertura di un fascicolo di indagine, ha visto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale, calunnia e/o falso verbale di arresto Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, tre dei carabinieri che arrestarono Cucchi, l'allora comandante della stazione dei carabinieri Appia Roberto Mandolini e il carabiniere Vincenzo Nicolardi. Il libro di Bonini racconta la tremenda e ingiustificabile vicenda vissuta da Cucchi e dalla sua famiglia, tracciandone l'intero iter processuale, sino ai recenti e clamorosi sviluppi che hanno portato alla richiesta di rinvio a giudizio di cinque carabinieri. "Il broadcaster non è ancora definito, ma è iniziato intanto il lavoro di scrittura che vede coinvolto lo stesso Bonini insieme con Daniele Vicari, Laura Paolucci ed Emanuele Scaringi, lo stesso gruppo di scrittura di Diaz", ha dichiarato il produttore Domenico Procacci. "A Vicari, con cui lavoriamo sin dal suo esordio, verrà affidata la regia".

L'inquietante lettera alla famiglia Cucchi. Un messaggio intimidatorio destinato alla polizia penitenziaria è finito nella cassetta delle lettera dei genitori di Stefano, che hanno presentato un esposto. Intanto l'indagine bis sulla morte del ragazzo è agli sgoccioli. E potrebbe riservare importanti novità, scrive Giovanni Tizian il 22 dicembre 2016 su "L'Espresso". Una lettera molto sospetta diretta alla polizia penitenziaria di Regina Coeli. Ritrovata l'altra notte nella cassetta dei genitori di Stefano Cucchi. Sul lato dove di solito è indicato il mittente spicca il nome di Stefano. È scritto con una penna nera, la grafia sottile e curata. Due timbri tracciano il cammino della busta. Spedita da Milano il 2 novembre, giorno dei morti, consegnata nove giorni dopo a Roma. E per uno strano giro, dai contorni poco chiari e dal sapore intimidatorio, è stata recapitata a mano alla famiglia un mese dopo. Che subito ha presentato denuncia contro ignoti. Missiva che arriva in una fase delicatissima dell'indagine bis sulla morte del ragazzo. Quella missiva- adesso in mano alla scientifica- non doveva arrivare ai genitori di Stefano Cucchi, bensì all'indirizzo riportato sulla busta: Polizia penitenziaria, carcere Regina Coeli, via della Lungara 29. Come è stato possibile che una lettera dal contenuto probabilmente minatorio sia arrivata al padre e alla madre del geometra morto nel 2009 dopo l'arresto per droga? «In controluce si vede un foglio e una stoffa con delle macchie, inviata tra l'altro il giorno dei morti» spiega Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano. Il perché di questo tragitto dovranno cercare di capirlo gli investigatori della polizia. Partendo da un dato oggettivo: i timbri postali sulla busta sono solo due: uno di Milano, e indica l'invio, e l'altro di Roma con data 11 novembre. Non c'è traccia del terzo invio, alla casa, cioè, dei genitori di Cucchi. Per questo l'unica spiegazione è che qualcuno abbia preso la lettera del mitomane, che voleva intimidire gli agenti, e l'abbia portata di persona a casa Cucchi. Come a dire: «Questa è roba vostra». Non è un caso, infatti, che sulla busta bianca della lettera l'indirizzo di destinazione sia cerchiato con un pennarello rosso e che una freccia indichi il retro, cioè il mittente, dove è scritto il nome di Stefano Cucchi. Come a voler invertire le parti, il mittente e il destinatario. «Il fatto più inquietante di tutta la vicenda è che qualcuno si sia preso la briga, un mese dopo l'arrivo di questa missiva, di andare fin dentro il condominio di casa dei miei genitori per lasciare una busta che peraltro non era indirizzata a noi», spiega Ilaria Cucchi. Nell'esposto denuncia presentato alla polizia, e indirizzato alla procura della repubblica della Capitale, il padre di Stefano chiede chiarezza sia sul contenuto che sul “viaggio” inquietante della lettera. L'unica cosa certa è che di chiunque sia la mano invisibile ha trasformato l'atto intimidatorio di un esaltato rivolto alla polizia penitenziaria (di cui facevano parte i primi sospettati per il pestaggio di Stefano, poi tutti assolti) in un messaggio contro la famiglia Cucchi, che da sette anni cerca verità e giustizia per la morte del figlio. E così facendo ha alzato ancor di più il livello di tensione attorno a un'inchiesta bis che vede tra gli indagati i carabinieri che la notte dell'arresto di Stefano hanno avuto a vario titolo un ruolo. L'inchiesta è agli sgoccioli, presto dovrebbero arrivare gli avvisi di conclusione agli indagati. Al momento i reati contestati dal pm Giovanni Musarò sono lesioni per alcuni e falso per altri. Ma non è escluso che anche l'ipotesi di reato possa mutare. Una volta esaminate in maniera scrupolosa le perizie mediche e i documenti dell'incidente probatorio, la procura potrebbe valutare di trasformare le lesioni in un più grave omicidio preterintenzionale. Ipotizzando così il nesso tra le botte ricevute da Stefano la notte dell'arresto e la sua morte.

Ilaria Cucchi e i social: «Ricevo minacce anche da carabinieri». Un post di insulti sarebbe della portavoce del Sap. E un carabiniere si sfoga: «Dispiace che non ha dimostrato la stessa caparbietà nell’aiutare il fratello», scrive Ilaria Sacchettoni il 3 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Roma C’è l’insulto feroce: «Lurida infame...». E l’oltraggio macabro: il fotomontaggio di Stefano Cucchi pesto, rivestito in smoking e attorniato da conigliette sexy, con la scritta teoricamente goliardica: «Se non sei bello ma Cucchi». C’è l’allusione offensiva: «Vorrei dire a Ilaria Cucchi che, dalla terribile morte del fratello è riuscita a costruirsi un personaggio». E ci sono le accuse esplicite di aver speculato sulla morte del fratello: «Hai ottenuto un rimborso di non pochi spicci e si mormora già di una candidatura molto prossima». Risponde, lei, Ilaria Cucchi: «Oggi è sabato. I miei figli dormono. Io e Fabio abbiamo appena fatto colazione. Lui deve studiare un processo importante ed io vorrei stare in casa con lui. Ma ho altre denunce da presentare. Le minacce ed insulti hanno più o meno la medesima targa politica, appaiono provenire da profili di poliziotti o carabinieri». Negli ultimi giorni Ilaria è stata ascoltata sei volte dalla polizia che cerca di far luce su protagonisti e mandanti di questo odio sui social. Poi, ci sono le lunghe chiamate silenziose al numero di casa. Al sospetto sui post si somma un attacco alla vittima, un’offensiva riconducibile a Elena Ricci, portavoce del Sap, lo stesso sindacato di polizia che durante un congresso, anni fa, tributò un applauso agli agenti coinvolti nella morte di Federico Aldrovandi, pestato da quattro agenti nel 2005. L’ipotesi di una serrata fra i ranghi delle forze dell’ordine — mentre il processo bis nei confronti di cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia per la morte di Cucchi compie un salto di qualità — è al vaglio degli investigatori. Nella denuncia della sorella di Stefano si sottolinea «l’incrementarsi del tono e del numero degli attacchi in corrispondenza dei recenti sviluppi processuali». In passato i Cucchi sono stati bersaglio di insulti sguaiati e allusioni pesanti (come quella di Carlo Giovanardi che disse: «È morto per droga»). É ragionevole pensare che i nuovi post siano il frutto della stessa atmosfera avvelenata. «Non si può trasformare un drogato e spacciatore in un eroe», si firma Silvia Cirocchi. Il filo conduttore è la rabbia nei confronti dei Cucchi, lo stile è inizialmente dialogante salvo diventare offensivo sul finale, come se gli autori, catturata l’attenzione del destinatario, se ne servissero per vibrare il colpo peggiore. In qualche caso il veleno raggiunge anche chi, come Alessio Cremonini, autore di «Sulla mia pelle» si è sforzato di raccontare un fatto di cronaca: «Sulla pelle dei poveri diavoli — posta tale Mauro Maistro — che hanno avuto la sfiga di incrociarti loro malgrado ci fanno i soldi sorella e parenti, avvocato e regista... la celebrazione di una persona che valeva poco da vivo e che morto è diventato un affarone». Ed è di un carabiniere lo sfogo, anche questo via social, contro i Cucchi: «Dispiace un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che (Ilaria, ndr) ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano». Lei, Ilaria Cucchi, ammette di essere molto turbata: «Ho paura per me e per i miei figli e per i miei genitori».

Ilaria Cucchi: "Minacce sui social, sembrano arrivare da poliziotti o carabinieri". La denuncia su Facebook della sorella del geometra romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e morto all'ospedale Pertini la settimana dopo, scrive Flaminia Savelli il 3 novembre 2018 su "La Repubblica". "Oggi è sabato. I miei figli dormono. Io e Fabio abbiamo appena fatto colazione. Lui deve studiare un processo importante ed io vorrei stare in casa con lui. Ma ho altre quattro denunce da presentare. Debbo andare al commissariato dove oramai mi reco ogni giorno. Le minacce ed insulti hanno più o meno la medesima targa politica. Spesso appaiono provenire da profili di poliziotti o carabinieri": è il post pubblicato su Facebook da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, in mattinata. "Mi rendo conto - prosegue - che queste non sono iniziative isolate ma coordinate tra loro. È diventata una vera e propria emergenza che sconvolge la mia vita quotidiana. Per non parlare delle telefonate mute. Che devo fare Stefano mio? Evidentemente a qualcuno la verità non piace proprio.  Arriveremo in fondo ma a quale prezzo? Sono preoccupata per i miei figli e per i miei poveri genitori". Già poche settimane fa aveva denunciato insulti e minacce che aveva ricevuto sui social. Pochi giorni prima invece, era stata recapitata all'abitazione dei genitori di Cucchi a Roma, che era la stessa di Stefano e Ilaria, una lettera anonima scritta a mano con insulti alla sorella del geometra morto. "Dovreste essere voi, e non Salvini, a scusarvi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga. Mi spiace abbia pagato con la vita, ma se l'è cercata", si legge in un parte del testo della missiva, indirizzata a Giovanni, il padre di Stefano. Ma nel mirino delle minacce e degli insulti, c'è anche Francesco Tedesco, il carabiniere che a distanza di 9 anni dalla morte del geometra romano, ha confessato di aver preso parte al violento pestaggio ai danni del ragazzo allora in custodia cautelare, insieme ai colleghi co-imputati D'Alessandro e Di Bernardo, confermando di aver taciuto per anni la verità. Intanto - era il 17 ottobre- il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, ha incontrato Ilaria Cucchi insieme al comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri. "In tanti dobbiamo chiedere scusa" ha commentato il ministro Trenta al termine dell'incontro, perché "tanti sono quelli che non hanno visto. Io devo chiedere scusa come governo se c'è stata una parte delle istituzioni che non ha visto".

Ilaria Cucchi: "Minacce a me e alla mia famiglia, ho paura", scrive il 4 novembre 2018 Quotidiano.net. Commovente e forte l’intervento di Ilaria Cucchi a Che Tempo che Fa di Fabio Fazio su Rai1, accompagnata dall’Avvocato Fabio Anselmo. Dopo aver ripercorso il lungo calvario giudiziario per scoprire la verità sulla fine del fratello Stefano ha raccontato delle numerose minacce e insulti che proprio in questi giorni hanno colpito lei e la sua famiglia “Mi rivolgo a chi continua a insultarmi e minacciarmi e a chi vuole far passare il concetto che io e l'avvocato Anselmo siamo il partito anti-polizia. Noi abbiamo fiducia nelle Istituzioni e stasera voglio esprimere il mio ringraziamento alla squadra mobile di Roma per le indagini svolte sul caso di mio fratello e agli agenti del Commissariato di Porta Maggiore dove ormai mi reco ogni giorno per presentare denunce contro queste continue minacce". E poi ha puntualizzato: “è un meccanismo stranissimo: abbiamo sempre ricevuto insulti diretti a Stefano. Oggi che nelle aule di giustizia la verità è entrata forte e chiara, gli insulti sono alla sua famiglia, a me". Alla domanda di Fabio Fazio se ne avesse paura, la sorella ha risposto senza esitare: “Si”. Nel corso dell’intervista Ilaria Cucchi ha ricordato un altro dato inquietante e poco conosciuto: “Stefano in quei 6 giorni – tra l’arresto e la morte - è entrato in contatto con 150 pubblici ufficiali: nessuno di questi si è posto non solo il problema di compiere un gesto di umanità, ma almeno di fare il proprio dovere”, ha raccontato la Cucchi che poi ha confessato: “Mio padre ogni sera riguarda il film, magari spera in un finale diverso”. L’ultimo pensiero di Ilaria Cucchi è per la gente che ha sostenuto la loro lunga battaglia per la verità e ha contribuito alla caduta del muro dell’omertà che ha portato alla svolta nelle indagini: “Siamo qui grazie all’opinione pubblica, alla pressione dell’occhio vigile delle persone”.

Ilaria Cucchi a Che tempo che fa: “Minacce? Ho paura. Mio padre guarda il film tutte le sere, magari spera in un finale diverso”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 novembre 2018. Commovente e forte l’intervento di Ilaria Cucchi a Che Tempo che Fa di Fabio Fazio su Rai1, accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo. Dopo aver ripercorso il lungo calvario giudiziario per scoprire la verità sulla fine del fratello Stefano ha raccontato delle numerose minacce e insulti che proprio in questi giorni hanno colpito lei e la sua famiglia “Mi rivolgo a chi continua a insultarmi e minacciarmi e a chi vuole far passare il concetto che io e l’avvocato Anselmo siamo il partito anti-polizia. Noi abbiamo fiducia nelle Istituzioni e stasera voglio esprimere il mio ringraziamento alla squadra mobile di Roma per le indagini svolte sul caso di mio fratello e agli agenti del Commissariato di Porta Maggiore dove ormai mi reco ogni giorno per presentare denunce contro queste continue minacce”. E poi ha puntualizzato: “è un meccanismo stranissimo: abbiamo sempre ricevuto insulti diretti a Stefano. Oggi che nelle aule di giustizia la verità è entrata forte e chiara, gli insulti sono alla sua famiglia, a me”. Alla domanda di Fabio Fazio se ne avesse paura, la sorella ha risposto senza esitare: “Si”. Nel corso dell’intervista Ilaria Cucchi ha ricordato un altro dato inquietante e poco conosciuto: “Stefano in quei 6 giorni – tra l’arresto e la morte – è entrato in contatto con 150 pubblici ufficiali: nessuno di questi si è posto non solo il problema di compiere un gesto di umanità, ma almeno di fare il proprio dovere”, ha raccontato la Cucchi che poi ha confessato: “Mio padre ogni sera riguarda il film, magari spera in un finale diverso”. L’ultimo pensiero di Ilaria Cucchi è per la gente che ha sostenuto la loro lunga battaglia per la verità e ha contribuito alla caduta del muro dell’omertà che ha portato alla svolta nelle indagini: “Siamo qui grazie all’opinione pubblica, alla pressione dell’occhio vigile delle persone”.

Torna la lettera fake di un carabiniere contro Cucchi. In Rete circola ancora una versione del presunto messaggio di un militare che attacca Ilaria. Parole che nella prima versione erano tratte dalle intercettazioni di Mandolini, scrive Michelangelo Coltelli (Butac) su Lettera 43 il 5 novembre 2018. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009 mentre si trovava in custodia cautelare. Il caso - che solo poco tempo fa ha avuto una svolta dopo le rivelazioni di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri al centro del processo bis - è rimasto per tutti questi anni sotto i riflettori anche per merito della battaglia di Ilaria che combatte perché sia fatta chiarezza sulle circostanze della morte del fratello (leggi anche: Per il pm del caso Cucchi la vicenda è «costellata di falsi»). Questa risonanza mediatica ha avuto e continua ad avere anche effetti collaterali. Oltre ai tanti che hanno affiancato Ilaria nel suo percorso verso la verità, sono infatti spuntati alcuni soggetti che in un modo o nell’altro cercano di delegittimarla. Da qualche giorno, su siti e pagine social vicine all’attuale governo, circola una fantomatica «lettera di un carabiniere qualunque», non firmata, che riporta alcune osservazioni nei confronti della famiglia Cucchi. Purtroppo per come è scritta la lettera è di facile presa per il pubblico a cui è diretta. Il testo è stato studiato con attenzione, si prendono le generiche difese del corpo dei Carabinieri, con frasi come: Chi ha pestato e ucciso Stefano non era evidentemente degno di portare la divisa che indossava. Ma questi soggetti non devono pagare solo per Cucchi, per Lei e per i suoi famigliari, ma devono pagare per tutti quegli UOMINI che dentro quella DIVISA ci mettono l’anima, il CUORE, il SUDORE e molto spesso ci rimettono la loro stessa VITA, per il bene di tutti e ciò per POCHI SOLDI. Perchè il loro è un SACRIFICIO quotidiano che non puó e non deve essere INFANGATO DA 4 DELINQUENTI. Si cerca facile approvazione, con frasi come questa: Suo fratello meritava di più, meritava assistenza, aiuto, comprensione, meritava di tentare l’ennesimo percorso di recupero e non certo di morire in questo modo. Per poi mollare il carico da 90: Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato e a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia, in risposta, al telefono, sono volati solo insulti nei confronti di Stefano, e sua MADRE aggiunse che NON AVREBBE SPESO ALTRI SOLDI PER QUEL DELINQUENTE DI SUO FIGLIO E CHE AVREBBE DOVUTO FARE AVANTI IL BARBONE PER STRADA. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi CHE FU LEI A NON FAR VEDERE I NIPOTI A STEFANO DA BEN 2 ANNI, CERTO PER PROTEGGERLI DA LUI, DAL SUO STATO DI TOSSICODIPENDENZA, da suo FRATELLO CHE FREQUENTAVA AMBIENTI LOSCHI ED FU SEMPRE LEI CHE NON LO VOLLE PIU’ NELLA SUA VITA ED ANCHE TUTTA LA SUA FAMIGLIA LO EMARGINÒ E ABBANDONÒ. RIMASE COSÌ SOLO E PERDUTO COME UN CANE RANDAGIO. Accuse pesanti, che mettono automaticamente in cattiva luce Ilaria e la sua battaglia, accuse che procedono su questo tono: Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico, conseguendo anche un giusto rimborso di un milione di euro (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano. La “pulizia” andava fatta (anche per i fiancheggiatori) ed era sacrosanta. Dispiace però un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli, non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece, da candidata per il PD, ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe! Una perdita immensa! No sig. ra Ilaria, Stefano non era un eroe, gli eroi son altri, era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato, anche se si era perduto. Ma è vero quanto il “carabiniere qualunque” racconta nella sua lettera aperta? Un testo molto simile mi era già capitato sotto agli occhi il 13 ottobre, pubblicato sulla pagina Facebook di Silvia Cirocchi, compagna di Gianni Alemanno, direttore editoriale di Qelsi, il primo quotidiano sovranista italiano. Le parole cambiavano davvero di poco, le accuse erano le stesse: Vorrei dire ad Ilaria Cucchi di non dimenticare che c’è sostanziale differenza tra chi ha subito un’ingiustizia (lo so è riduttivo definirla così) e un eroe. Perchè quello che è accaduto a Stefano mai sarebbe dovuto accadere, ma non si puó trasformare uno drogato e spacciatore in un eroe. Questo non si puó proprio fare. Vorrei dire ad Ilaria Cucchi che quando al fratello serviva un avvocato sua madre disse che “non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Vorrei dire ad Ilaria Cucchi che era lei a non far vedere i nipoti a suo fratello da due anni. Era lei che non lo voleva più nella sua vita. Quello che però in prima istanza Silvia Cirocchi (e il carabiniere qualunque) non spiegava ai suoi lettori è che quanto riportato non era frutto di testimonianze dirette, tutt’altro. Le parole riprese da Cirocchi e dal nostro anonimo carabiniere sono frutto di intercettazioni fatte proprio ai carabinieri ora accusati di essere colpevoli della morte di Stefano (qui le intercettazioni ambientali dei militari accusati del pestaggio). Carabinieri che parlavano fra loro e mettevano il più possibile in cattiva luce la madre e la sorella di Stefano Cucchi. Silvia Cirocchi, dopo una risposta di Ilaria Cucchi, ha modificato il suo post originale (di cui conserviamo screenshot) aggiungendo che si trattava di accuse basate su quanto riportato dal carabiniere Roberto Mandolini in un'intercettazione telefonica. L’intercettazione di Mandolini con le sue accuse nei confronti della famiglia Cucchi era già stata confutata da Ilaria pubblicando una foto dell’ultimo Natale di Stefano, a casa con la famiglia. La famiglia Cucchi a Natale. Foto postata da Ilaria Cucchi sui social. Non era dunque vero che da due anni si fossero interrotti i rapporti tra Stefano e famiglia e che i familiari lo avessero definito «un delinquente che poteva andare a fare il barbone per strada». Alcune testate (ma non tutte) si erano sentite in dovere di rimuovere le intercettazioni di Mandolini dopo uno sfogo della stessa Ilaria contro i tanti che le avevano riportate acriticamente senza inquadrarle nella narrazione dei fatti. Ma se un post ufficiale, che riporta nome e cognome dell'autore, può dar seguito a querele e può essere modificato, un'anonima “lettera aperta” può tranquillamente circolare su siti (a loro volta anonimi) come direttanfo.blogspot. La lettera di un carabiniere qualunque pubblicata sul sito direttanfo.blogspot. Siti che grazie all’anonimato possono permettersi di diffamare chiunque, senza incorrere in alcun rischio querela, mal che vada qualcuno prima o poi farà chiudere il sito che riaprirà con altro nome e stessi lettori. Perché purtroppo chi sceglie di affidarsi a siti di questo genere non ha un bagaglio digitale sufficiente per discernere tra fonti affidabili e inaffidabili.

Lettera Aperta A Ilaria Cucchi Da Un Carabiniere, scrive il 4 Novembre 2018 su Milano Post. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, sono un carabiniere senza infamia e senza lode, un onesto lavoratore, e volevo dirle che poche parole si possono trovare per commentare questa assurda tragedia, stante che quanto accaduto a suo fratello è qualcosa di aberrante, atroce, ingiusto, qualcosa che non avrebbe mai dovuto succedere. Lei non ha mollato fino alla fine e grazie alla sua caparbietà ora giustizia è stata fatta. Chi ha pestato e ucciso Stefano non era evidentemente degno di portare la divisa che indossava. Ma questi soggetti non devono pagare solo per Cucchi, per Lei e per i suoi famigliari, ma devono pagare per tutti quegli UOMINIi che dentro quella DIVISA ci mettono l’anima, il CUORE, il SUDORE e molto spesso ci rimettono la loro stessa VITA, per il bene di tutti e ciò per POCHI SOLDI. Perchè il loro è un SACRIFICIO quotidiano che non puó e non deve essere INFANGATO DA 4 DELINQUENTI. Suo fratello meritava di più, meritava assistenza, aiuto, comprensione, meritava di tentare l’ennesimo percorso di recupero e non certo di morire in questo modo. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato ed a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia, in risposta, al telefono, sono volati solo insulti nei confronti di Stefano, e sua MADRE aggiunse che NON AVREBBE SPESO ALTRI SOLDI PER QUEL DELINQUENTE DI SUO FIGLIO E CHE AVREBBE DOVUTO FARE AVANTI IL BARBONE PER STRADA. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi CHE FU LEI A NON FAR VEDERE I NIPOTI A STEFANO DA BEN 2 ANNI, CERTO PER PROTEGGERLI DA LUI, DAL SUO STATO DI TOSSICODIPENDENZA, da suo FRATELLO CHE FREQUENTAVA AMBIENTI LOSCHI ED FU SEMPRE LEI CHE NON LO VOLLE PIU’ NELLA SUA VITA ED ANCHE TUTTA LA SUA FAMIGLIA LO EMARGINÒ E ABBANDONÒ. RIMASE COSÌ SOLO E PERDUTO COME UN CANE RANDAGIO. Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico, conseguendo anche un giusto rimborso di un milione di euro (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano. La “pulizia” andava fatta (anche per i fiancheggiatori) ed era sacrosanta. Dispiace però un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli, non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece, da candidata per il PD, ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe! Una perdita immensa! No sig. ra Ilaria, Stefano non era un eroe, gli eroi son altri, era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato, anche se si era perduto. Forse sarebbe stato meglio dimostrarsi caparbia anche nei tragici momenti della dipendenza, quando era un ragazzo allo sbando e finì nelle mani dei suoi aguzzini, ovvero preoccuparsi di lui prima di tutto ciò, prima che tutto diventasse “troppo tardi”! Stefano aveva tanto bisogno della sua grande caparbietà!!!! Ma ormai è troppo tardi per tutti! Da questa vicenda ne usciamo sconfitti tutti quanti, tutta la nostra società, Lei compresa. Da par mio spero di continuare a servire il mio paese nel miglior modo possibile: la morte di Stefano ha insegnato a me e ad altri tante cose, per non errare di nuovo in futuro. Spero che tale insegnamento abbia raggiunto anche Lei! FIRMATO: UN CARABINIERE QUALUNQUE.

Ilaria Cucchi, chi è e cosa fa: tutto sulla sorella di Stefano Cucchi, scrive il 5 novembre 2018 su Viagginews. Ilaria Cucchi, chi è e cosa fa: tutto sulla sorella di Stefano Cucchi. Dal 22 ottobre 2009, giorno della morte di suo fratello Stefano Cucchi, la sua vita è cambiata per sempre ed è cominciata una guerra per la verità e la giustizia sulla vicenda di suo fratello. La sua famiglia, i valori, i social e la politica.

Ilaria Cucchi, la vita, la famiglia, i valori della sorella di Stefano Cucchi.

E’ nata nel 1974 e dal 22 ottobre 2009 non smette di lottare per far luce sulla morte di suo fratello Stefano. Nel 2010 Ilaria Cucchi ha pubblicato un libro raccontando di una famiglia legata ai valori della tradizione come legge, ordine e religione e che si trovava a confrontarsi con una vicenda che aveva dell’incredibile. A dicembre 2017, il settimanale D di Repubblica la eleggeva Donna dell’anno e lei aveva dichiarato in quell’occasione: “La morte di mio fratello mi ha dato il coraggio di essere felice. Stefano mi ha trasformata in una donna diversa, che conosce il valore di ogni singolo istante. Mi ha anche dato la forza di prendere in mano la mia vita. Lui che mi domandava sempre: “Ila, ma tu sei felice?”, persino quando brancolava ed era disperato”. A settembre è uscito nelle sale Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini che ripercorre gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi. Ilaria Cucchi era amministratrice di condominio, nata dal padre Giovanni, geometra come Stefano, e dalla madre Rita, maestra in pensione. Da quando il fratello muore all’Ospedale Sandro Pertini di Roma però la sua vita cambia per sempre e inizia per lei un calvario fatto di battaglie per difendere la verità e avere giustizia per la morte del fratello.

Le battaglie per dar voce alla vicenda di Stefano Cucchi e le critiche ricevute. “Non mi hanno picchiato, non mi hanno pestato, non mi hanno rotto a calci la schiena. Non mi hanno torturato. Sono viva. Sono viva e combatto con una giustizia che non conoscevo, ostile, esosa, cieca, spietata, assassina”, aveva scritto presentandosi all’Huffington per dar voce alla vita ormai scomparsa del fratello. Ha costituito l’associazione Stefano Cucchi Onlus contro ogni forma di tortura. E nel 2013 Ilaria si è candidata come capolista nella lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia nel Lazio, mentre nel 2016 ha annunciato una sua eventuale candidatura al Campidoglio “libera dai partiti”. Da alcuni è stata definita come la possibile “Anti-Raggi”, ed è stata da molti criticata per la presunta speculazione del dramma subito dal fratello. Ilaria ha reso pubbliche attraverso i social le sue considerazioni riguardanti ciò che è avvenuto al fratello ed è stata per questo criticata anche da esponenti politici come Matteo Salvini che ha dichiarato nel 2016 “Il post di Ilaria Cucchi mi fa schifo, dovrebbe vergognarsi. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico contro un commissario di polizia che fu poi assassinato”.

Stefano Cucchi: dopo sette anni si apre uno spiraglio di verità. Accusati di “omicidio preterintenzionale” tre carabinieri, scrive il 19 gennaio 19 2017 Salvo Vitale su "Telejato". L’ipotesi di reato si trova nell’atto di chiusura delle indagini preliminari che il sostituto procuratore Giovanni Musarò, titolare dell’inchiesta bis aperta nel settembre 2015 su espressa richiesta dei familiari della giovane vittima, ha recapitato ai carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, gli altri tre rappresentanti dello Stato che arrestarono Stefano Cucchi una settimana prima della sua morte, il 15 ottobre 2009, per possesso di droga. Tedesco, in particolare, è accusato anche, insieme al carabiniere Vincenzo Nicolardi e al maresciallo Roberto Mandolini, di falso e calunnia, per aver coperto e omesso nel verbale d’arresto i nomi di due loro colleghi, Di Bernardo e D’Alessandro, pure presenti alle operazioni di fermo, e per aver testimoniato il falso al processo di primo grado, accusando invece tre agenti della polizia penitenziaria delle evidenti lesioni rinvenute sul corpo di Stefano, pur «sapendoli innocenti». Dopo quattro processi conclusosi senza alcun colpevole, e una perizia scritta dal collegio nominato dal Gip che arrivava a formulare quale più probabile ipotesi di morte quella per «epilessia», le nuove indagini volute dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, secondo l’atto recapitato ai carabinieri che precede la richiesta di rinvio a giudizio, arrivano alla conclusione che quella notte, dopo la perquisizione del suo appartamento a Tor Pignattara, Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco presero Cucchi a «schiaffi», «pugni» e «calci», provocando tra l’altro la «rovinosa caduta» a terra del ragazzo, con un «impatto al suolo» che gli ha procurato la rottura delle vertebre sacrali e lombari. «Le lesioni procurate a Stefano Cucchi – scrivono i pm – il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente a causa e in ragione del trauma subìto, ne cagionavano la morte». Dell’ipotesi di decesso per crisi epilettica, come sostenuto dal prof. Introna nella perizia dell’incidente probatorio, nemmeno l’ombra. In particolare, secondo i procuratori, «la frattura scomposta della vertebra S4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale determinavano l’insorgenza di una vescica neurogenica, atonica, con conseguente difficoltà nell’urinare, con successiva abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria non correttamente drenata dal catetere». Tutto ciò «accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale». I tre militari, allora in forza alla caserma di Via Appia, sono accusati anche di abuso di autorità, per aver sottoposto il geometra 32enne «a misure di rigore non consentite dalla legge», con «l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento». Mentre per Tedesco, Nicolardi e il maresciallo Mandolini, allora comandante Interinale della stessa stazione Appia, vengono ipotizzati i reati di falso e calunnia perché secondo la procura avrebbero scaricato le colpe su tre agenti di penitenziaria – poi assolti – accusandoli implicitamente di aver pestato Cucchi «nella mattina del 16 ottobre 2009 – scrivono gli inquirenti – nella qualità di agenti preposti alla gestione del servizio delle camere di sicurezza del tribunale adibite alla custodia temporanea degli arrestati in flagranza di reato in attesa dell’udienza di convalida». Naturalmente gli indagati respingono ogni accusa: «Riteniamo che tale contestazione non potrà essere provata nel giudizio – sostiene l’avv. Eugenio Pini, legale di uno degli accusati di omicidio preterintenzionale – in quanto gli elementi di fatto su cui fonda non sono riscontrabili in atti e, tanto meno, nella perizia disposta dal Gip con incidente probatorio». Quella del prof. Introna, appunto. Esultano invece tutte le associazioni di difesa dei diritti umani e Amnesty International che parla di «verità più vicina». Così come esultano i legali dei poliziotti penitenziari ingiustamente accusati: «Per noi è il momento della verità – dice l’avv. Diego Perugini – Siamo pronti ad affrontare il nuovo processo, questa volta a fianco della famiglia Cucchi, come sin dall’inizio di questa tragedia doveva essere». A commento di questo articolo pubblicato su “Il Manifesto” del 17.1.2017, a firma di Eleonora Martini, una breve riflessione: dopo che da parte dei magistrati e dei carabinieri si è fatto ricorso a tutte le ipotesi possibili, “è morto d’epilessia”, “ha battuto la testa a terra”, “le ecchimosi e le ferite se l’è procurato da solo”,” sono stati gli agenti di polizia penitenziaria”,” sono stati gli infermieri”, “sono stati i medici”, “è morto d’overdose” ecc., si apre uno spiraglio nel muro di difesa che i responsabili dell’omicidio hanno innalzato, riuscendo a farla franca. Solo uno spiraglio, perchè l’accusa di omicidio preterintenzionale significa che coloro che hanno massacrato di botte Stefano Cucchi non avevano intenzione di ucciderlo, ma solo di divertirsi un po’. Quello delle torture dentro le caserme, delle morti causate nel corso di interrogatori o di arresti è un “vizietto” praticato nelle caserme e nelle carceri italiane, denunciato anche da Amnesty International, che non ha molto di diverso dai metodi di tortura usati nelle peggiori dittature. Eppure pretendiamo di essere un paese civile e accusiamo altri paesi di violazione dei diritti umani.

Caso Cucchi, altri due carabinieri indagati: mentirono al pm. Giallo sul registro della caserma. Nell'inchiesta spuntano i nomi di due marescialli, padre e figlio, che negarono di aver visto il giovane malconcio. Intanto si indaga sulle correzioni fatte col bianchetto sul report del foto segnalamento, scrive Giuseppe Scarpa il 20 gennaio 2017 su "La Repubblica". Si allarga l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Altri due carabinieri finiscono nel registro degli indagati accusati di falsa informazioni al pm, si tratta di Enrico e Sabatino Mastronardi. Ma non è questa l’unica novità dell’indagine coordinata dal pm Giovanni Musarò. La polizia scientifica ha infatti decifrato completamente il registro di foto segnalamento: l’elenco volutamente occultato dai militari che arrestarono il geometra 32enne per eliminare ogni traccia del suo passaggio nella stazione Casilina, dove con ogni probabilità Cucchi venne picchiato. Cosa c’è scritto nel registro e perché ha un valore così importante per gli inquirenti? “Non fotosegnalato in quanto inveiva contro gli operanti”, questa frase ben cancellata significa prima di tutto che Cucchi passò per quella stazione. Ma c’è ovviamente molto di più. Il geometra si ribellò al foto segnalamento, inizialmente i militari annotarono la sua reazione poi però accadde l’imponderabile. I carabinieri avrebbero dovuto contestargli un nuovo reato “resistenza a pubblico ufficiale”. Probabilmente, ragionano gli inquirenti, optarono per un’altra strada. Cucchi venne picchiato. I militari a questo punto si resero conto di aver esagerato e allora decisero di eliminare ogni passaggio del geometra dalla stazione Casilina. Bianchetto alla mano cancellarono il nome di Cucchi e l’accusa annotata accanto, sovrascrissero il nome e le generalità di un altro arrestato Misic Zoran. In sostanza niente annotazione nell’elenco, niente prova del passaggio nella stazione e nessun pestaggio da scaricare sulle spalle dei presunti autori dell’aggressione, i militari Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Enrico e Sabatino Mastronardi, padre e figlio, entrambi marescialli dei carabinieri, non sono implicati nel pestaggio a Stefano. A loro la procura contesta un altro episodio. Il carabiniere Riccardo Casamassima, importante testimone per la procura, riferì agli inquirenti di aver saputo dell’aggressione a Stefano grazie a due circostanze. La prima è quando Roberto Mandolini, il comandante della stazione Appia (quella di appartenenza dei tre presunti autori del pestaggio), riferisce a Enrico Mastronardi (superiore di Casamassima) dell’aggressione di un giovane, Cucchi appunto, da parte di alcuni suoi sottoposti. Questa conversazione è udita da Casamassima e poi riferita al pm. Casamassima però riceverà anche la confessione di Mastronardi jr, militare della caserma di Tor Sapienza che vide Cucchi malconcio dopo le botte la mattina del 16 ottobre 2009. Ebbene i due Mastronardi vennero convocati in procura e, per il pm, mentirono. L’uno negò di aver ascoltato le confessioni di Mandolini e l’altro di aver visto Cucchi malconcio.  Da qui la contestazione di false informazioni al pm.

Cucchi, il generale Del Sette: "Arrivare alla verità, non delegittimare i carabinieri". Trascorse 24 ore dalla formalizzazione dell'accusa di omicidio preterintenzionale a carico dei tre militari che arrestarono il giovane, il comandante dell'Arma ribadisce vicinanza alla magistratura e rispetto per il dolore della famiglia. E separa il destino giudiziario degli accusati dall'operato "quotidiano e professionale dei loro colleghi, in Italia e all'estero", scrive il 18 gennaio 2017 "La Repubblica". I tre carabinieri che procedettero all'arresto di Stefano Cucchi sono formalmente accusati dell'omicidio del giovane, spirato il 22 ottobre del 2009 in un letto del reparto di medicina protetta dell'ospedale Pertini di Roma. Omicidio preterintenzionale, è l'accusa mossa contro Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e dal pm Giovanni Musarò al termine dell'indagine bis condotta dopo la riapertura del fascicolo, nel novembre del 2014. Dopo l'arresto, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre Cucchi sarebbe stato picchiato dai tre militari subendo le lesioni che lo hanno portato al decesso. Quando sembra finalmente dissipata la cortina che per anni ha avvolto e celato l'accaduto, un'ombra sinistra cala sull'operato degli uomini dell'Arma al chiuso delle loro caserme. Un'ombra che il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, prova a scacciare 24 ore dopo la formalizzazione della gravissima accusa, per sottrarre il destino giudiziario dei suoi tre uomini a ogni possibile tentativo di delegittimazione dei carabinieri. Che, ribadisce Del Sette, "sono accanto alla magistratura con forza e convinzione, come sempre, per arrivare fino in fondo alla verità". Accanto alla magistratura per la verità. Del Sette lo aveva affermato già nel dicembre 2015, quando era stata aperta l'inchiesta su Di Bernardo, D'Alessandro e Tedesco. E la magistratura ha fatto il suo lavoro. "Se tutto questo sarà accertato, è grave - dichiara oggi il comandante - il fatto che alcuni carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato. Grave che non l'abbiano poi riferito, che alcuni altri abbiano potuto sapere e non lo abbiano segnalato a chi doveva fare e risulta aver fatto le dovute verifiche. Grave anche che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi". "Siamo, io, l'Arma dei Carabinieri e tutti i carabinieri - assicura il comandante generale Del Sette - accanto alla magistratura con forza e convinzione, come sempre, per arrivare fino in fondo alla verità, per poi poter adottare con tempestività, con giustizia trasparente, equanime e rigorosa, i dovuti provvedimenti, giacché è gravissimo, inaccettabile per un carabiniere, rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti". A nome di tutti i carabinieri, l'alto ufficiale si dice inoltre "rattristato e commosso dalla triste vicenda umana di Stefano Cucchi, prima e dopo quel 15 ottobre 2009". Carabinieri "addolorati delle sue sofferenze, della sua morte, quali che siano le cause che hanno concorso a determinarla, vicini ai suoi familiari". Del Sette va oltre l'umana vicinanza, esprimendo anche a nome dei carabinieri le sensazioni che tutti hanno provato nel vedere le foto del cadavere di Cucchi, coraggiosamente impugnate dalla sorella Ilaria nel momento in cui sembrava proprio che i responsabili della sua morte non ne avrebbero mai risposto fino in fondo. "Non può lasciare nessuno indifferente quel suo corpo sottile, quel suo volto tumefatto, che abbiamo visto nelle fotografie mostrateci con quei segni profondi delle vicissitudini e delle sofferenze patite - ammette il comandante dei carabinieri -. Quindi, rispetto per tutto questo e determinazione nel ricercare la verità, nel perseguire quelli che dovessero risultare responsabili di reati, di condotte censurabili sotto ogni profilo". A questo punto il generale Del Sette passa a difendere i carabinieri, che non meritano di essere travolti dalla vicenda Cucchi. "L'accertamento della verità e delle responsabilità comporterà, se vi sarà, dolore e amarezza" dichiara il comandante, ammettendo l'alta probabilità di giorni difficili in arrivo, per l'Arma e la sua immagine. Ma subito dopo il generale traccia un confine, nel giudizio su quella verità accertata, che si vorrebbe invalicabile: "Nessuna delegittimazione può derivare da notizie e iniziative mediatiche, legittime e comprensibili". Perché, sottolinea Del Sette, "non sfugge a nessuno, credo, che decine di migliaia di carabinieri assolvono quotidianamente, in Italia e apprezzatissimi anche all'estero, la loro missione a tutela della legge e della gente, con professionalità, impegno, abnegazione, rischio continuo per la loro incolumità, come attestato dalle decine di infortunati, contusi e feriti di ogni giorno, e profonda umanità nelle migliaia di servizi, interventi, investigazioni di ogni giorno, nelle decine di migliaia di arresti ogni anno, dei quali tutti i cittadini possono avere conoscenza grazie ai mezzi di informazione".

Carlo Giovanardi: “Cucchi spacciatore, è morto per la droga”, scrive "Blitz Quotidiano" il 19 gennaio. “La droga ha avuto una parte rilevante nella morte di Stefano Cucchi, un ruolo determinante nel decesso. Cucchi era uno spacciatore e fare lo spacciatore non è una cosa gloriosa, non è un benemerito della Nazione. Quando fu arrestato era già in una condizione fisica precaria”. Lo dice il senatore del centrodestra (gruppo Idea) Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24. “Io – dice Giovanardi – tra gli spacciatori e i carabinieri sono dalla parte dei carabinieri. Sia chiaro. Poi se commettono reati è giusto che paghino”. Ma ora sotto accusa ci sono i carabinieri accusati di aver picchiato Cucchi causandone la morte, dicono i conduttori: “Anche gli agenti di custodia erano stati indicati dalla famiglia Cucchi come colpevoli e massacratori e poi sono stati assolti. Adesso nonostante le 35 o 36 perizie che hanno certificato che non c’è alcuna relazione tra le presunte percosse e la morte, il pubblico ministero porta a processo i carabinieri sulla base di una perizia della parte civile. I più famosi periti italiani in otto anni hanno sempre escluso questo legame. Vedremo”. “Io ricordo sempre – aggiunge Giovanardi – che Cucchi era stato picchiato 18 volte dagli spacciatori e ricoverato con fratture e altro. E per fortuna in Italia non sono i media e non è il Tg1 a dire chi è colpevole o no”. Poi attacca la famiglia Cucchi: “Ilaria Cucchi, il suo compagno l’avvocato Anselmo, il senatore Manconi, fanno parte di una lobby, un gruppo di pressione. Loro hanno interessi economici, sono stati liquidati con un milione di euro dai medici che erano innocenti. Anselmo si vanta di vincere i processi sui media e hanno una grande capacità mediatica. Ieri erano subito al Tg1 senza che nessun carabiniere sia intervenuto dall’altra parte. Sono perennemente in televisione a dire che hanno ragione loro. Sono bravissimi a fare i processi mediatici. Per fortuna nel processo parla anche la difesa”. “Agenti di custodia e famiglie – aggiunge il senatore – hanno vissuto anni di inferno. E lo stesso i carabinieri. Uno di loro riceve minacce di morte dopo la pubblicazione della foto da parte della sorella di Stefano. I figli non possono andare a scuola. La sorella ha fatto una cosa orribile”. Alla fine attacca uno dei conduttori, David Parenzo che gli contesta di fare il tifo per i carabinieri e di non cercare la verità: “Parenzo è un infame mentitore perchè per otto anni i carabinieri non sono entrati per nulla nel processo. Non ho mai infamato la famiglia Cucchi”.

Stefano Cucchi, ora chiedano scusa a Ilaria, scrive Beppe Giulietti il 18 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Non avevamo dubbi, ma ora anche la Procura di Roma ci ha consegnato alcune certezze. Stefano Cucchi non si è suicidato e non è neppure morto cadendo incidentalmente dalle scale del carcere. Dopo mesi e anni di depistaggi, perizie singolari e contraddittorie, testimonianze omissive e reticenti, la Procura ha deciso di contestare l’omicidio preterintenzionale a tre carabinieri. Le sentenze, ovviamente, le emetteranno i giudici ma finalmente si è accesa una luce che potrebbe squarciare l’osceno buio nel quale si è cercato di nascondere questa brutta storia. Se questa luce ha potuto riaccendersi, tuttavia, lo si deve, anche e soprattutto, a chi non si è mai rassegnato, a chi ha continuato a scrivere e a denunciare, ai cittadini che hanno reclamato giustizia, a magistrati onesti e capaci, all’avvocato Anselmo che ha dedicato la vita a Stefano e alle altre vittime di Stato, ai familiari e agli amici di Cucchi, e alla sorella Ilaria che non ha mai smesso di affermare le sue ragioni e di rivendicarle con la forza e la giusta indignazione di chi ha subito una ferita mortale. Per queste ragioni Ilaria ha dovuto subire denunce, aggressioni e insulti dentro e fuori la rete, minacce, accuse di aver “passato il segno” e persino richieste di scuse, secondo quel rituale paramafioso che assegna alla vittima il ruolo del boia. Comunque andrà a finire la vicenda processuale sarà ora il caso che lo Stato presenti le sue scuse alla famiglia di Stefano e che gli aggressori chiedano scusa a Ilaria, prima che sia un tribunale ad imporlo. Chi sa, e i testimoni non dovrebbero mancare, farebbe bene a parlare, così le eventuali scelleratezze di pochi non ricadrebbero sull’onorabilità dei molti che, ogni giorno, portano la divina con onore e a rischio della vita.

“Senza la battaglia dei famigliari non avremmo mai saputo la verità su Cucchi”. Parla Manconi, scrive Beatrice Rutiloni il 17 gennaio 2017 su “L’Unità". Il Presidente della Commissione diritti umani di palazzo Madama commenta la svolta nell’indagine sulla morte del giovane romano. “E’ il primo vero passo avanti verso l’accertamento della verità: dopo sette anni e tre mesi abbiamo finalmente un’ipotesi solida, concreta”. Così il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani a Palazzo Madama, commenta a caldo la svolta nell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi nell’ottobre del 2009.

Cosa ha pensato quando ha letto la notizia?

“Fa riflettere il fatto che questa ipotesi elaborata dalla Procura di Roma parta proprio dal momento iniziale, dal primo atto di quella tragedia, dal fermo di Stefano Cucchi la notte del 15 ottobre 2009 nel parco degli Acquedotti. Questo significa che era stata finora trascurata l’evidenza più elementare che andava ricercata nei primissimi momenti della vicenda, quando il giovane viene privato della libertà”.

Lei ha sempre sostenuto la tesi dei famigliari di Cucchi, ovvero che la verità sulla morte di Stefano andasse trovata nella fase iniziale e che dunque le responsabilità della morte del ragazzo fossero in capo ai carabinieri e non alla polizia penitenziaria, questa decisione lo conferma?

“E’ nelle prime mosse e nei primi atti dei carabinieri che, secondo questa ipotesi accusatoria e secondo quanto hanno sempre cercato di dimostrare i famigliari, andava cercata la verità. Stefano fu prima fermato, poi fu portato in caserma e in seguito fu perquisita la sua abitazione, poi di nuovo in caserma: è in questo lasso di tempo che avvennero le violenze”.

Una storia lunga sei giorni, ma le indagini si sono concentrate fin qui solo sulla seconda fase, come mai? Perché le prime ore, decisive, sono state ignorate dalla precedente indagine?

“La prima indagine è stata condotta maldestramente: sin dall’inizio Ilaria Cucchi aveva sostenuto la necessità di aprire un’inchiesta sulle responsabilità dei carabinieri e invece ci si è concentrati solo sulla polizia penitenziaria trascurando la notte decisiva, quella tra il 15 e il 16 ottobre. Oggi la svolta, finalmente. Posso solo dire che quando si tratta dell’arma dei carabinieri la magistratura subisce una sorta di sudditanza psicologica”.

Intende dire che hanno protetto i carabinieri?

“Dico che c’è una prudenza maggiore, una forma di cautela nei confronti dell’arma che deriva da un rapporto di dipendenza e che dunque genera una sorta di protezione”.

Come dovrebbero comportarsi adesso i tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale?

“Sono garantista fino all’ultimo grado di giudizio: si difendano nel processo”.

Quanto è stata importante la battaglia dei famigliari di Cucchi per arrivare a questa svolta?

“Determinante. Se Ilaria, Giovanni e Rita si fossero arresi alla prima inchiesta non avremmo mai avuto questa nuova verità. Se non fossero stati disposti a rinnovare quotidianamente il loro dolore pur di ottenere giustizia, se non avessero pubblicato video e foto dell’agonia di Stefano invece di tenerli per sé, come sarebbe stato profondamente umano fare, noi oggi non sapremo che c’è una nuova verità da accertare”.

La sorella di Stefano commenta la notizia della svolta giudiziaria. «Questo è solo l’inizio», dice, «ma per noi ha un significato enorme. Quando abbiamo appreso la notizia il primo pensiero è stato Stefano e il suo corpo martoriato», scrive Annachiara Valle il 18 gennaio 2017 su "Famiglia Cristiana".

«È stata una giornata storica perché per la prima volta, in questa terribile vicenda che è toccata in sorte alla mia famiglia dopo la morte di Stefano, è entrata la verità. Ed è entrata in una parola: omicidio». Ilaria Cucchi commenta la chiusura dell’inchiesta bis con l’accusa di omicidio, calunnia e falso per i tre carabinieri che arrestarono suo fratello e di calunnia e falso per altre due commilitoni. «Questo è solo l’inizio, ma per noi ha un significato enorme. Quando abbiamo appreso la notizia il primo pensiero è stato Stefano e il suo corpo martoriato, visto per l’ultima volta sul tavolo dell’obitorio, Stefano che avevamo visto sei giorni prima vivo con il suo sorriso contagioso, con la battuta sempre pronta, Stefano che per oltre sette anni è stato processato al posto di coloro che lo avevano portato alla morte». «In questi anni», continua Ilaria, «si è discusso di tutto e del contrario di tutto, ma sul banco degli imputati c’era sempre Stefano. Io lo definisco il processo al morto: si è parlato dei suoi difetti, del suo passato, della sua magrezza, dei nostri rapporti personali, persino della sua cagnolina. Oggi siamo a una svolta. Si apre un nuovo capitolo e si fa un processo per omicidio in corte di Assise. E anche per calunnia». Quello che è accaduto a suo fratello «da vivo, ma poi anche da morto è stato inaccettabile, intollerabile». Lo dice con determinazione, ma anche con serenità: «Stimo l’Arma dei carabinieri e quell’Arma verso la quale ho un profondo rispetto la ritrovo nelle parole del generale Del Sette. Sono convinta che chi ha una divisa ha una responsabilità in più rispetto agli altri. Queste persone accusate di omicidio, calunnia e falso non dovrebbero indossare una divisa. Hanno taciuto la verità per sette anni e hanno consentito che, al posto dei responsabili, venisse processato qualcun altro. Ma adesso comincia una nuova storia». Chiede giustizia per Stefano, ma anche per tutti «gli altri Stefano che non hanno voce, perché cose del genere capitano a chi è l’ultima ruota del carro, a chi è più debole. Per questo ricordo sempre un sogno che un mio caro amico fece pochi giorni dopo la morte di Stefano. Mio fratello gli disse di farmi sapere che, anche se non avessi mai saputo la verità sulla sua fine, avrei dovuto andare avanti per far luce sulla vicenda. Allora quelle parole non le capii fino in fondo, ma poi mi sono resa conto che quella della mia famiglia è una battaglia perché vengano riconosciuti e rispettati i diritti umani di tutti. È una battaglia di civiltà per Stefano e al di là di Stefano. Da credente mi sono interrogata su quale potesse essere il senso di una tragedia come quella che è toccata alla mia famiglia quel maledetto 22 ottobre del 2009. E forse il senso è in quelle parole dette in sogno da mio fratello».

Cucchi, al posto di Stefano potevo starci io, scrive Ascanio Celestini il 19 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Stefano Cucchi viveva nella mia borgata, quella dove sono nato e vivo ancora. È stato arrestato all’Appio Claudio dove porto i bambini a fare i giri in bicicletta, nel quartiere dove è cresciuto mio padre, dove c’è il mercato coperto e una vecchia che vendeva la frutta strillava “mandarini!” con una voce che sembrava uscire da un enorme imbuto di ferro. Ma pure la pizza bianca c’era, quella rossa e quella con la mortadella. Io volevo quella con la mortadella da ragazzino. “Quando si muore si muore soli” cantava De André mezzo secolo fa. E Stefano è morto solo. Se accanto a lui c’era qualcuno è molto probabile che non l’abbia aiutato. Almeno non l’ha aiutato a vivere. Lo so che non conta molto che io e Stefano ci siamo incontrati al bar e ignorati ognuno davanti al proprio caffè, che abbiamo comprato il pane allo stesso banco del mercato coperto o abbiamo attraversato la stessa strada nella stessa giornata. Lo so e tantomeno conta pensare che oggi avremmo quasi la stessa età. Ma prendetelo come un gioco. Invece di allontanarle da noi, cerchiamo di avvicinarcele queste storie. Cominciamo a pensare che al posto di Stefano potevo starci io. Io al posto di Aldo Bianzino e mio figlio al posto di Federico Aldrovandi. Io al posto di Giuseppe Uva e mio padre al posto di Michele Ferulli. Eccetera. Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì. E che, forse, quella gente se le va a cercare certe rogne. No. Un esercizio di civiltà è sentirsi come lui. Pensarsi dove lui passava le giornate. Lui e tutti gli altri che vengono raccontati come “strani”, “diversi”, “mostri”. Anche io mi ci sento un po’ strano e pure diverso. Ma poi ho tutta una vita da condividere con gli altri e non ce la faccio a pensare che la morte di Stefano riguardi solo lui. Questo è un gioco sporco che facevano i nazisti quando chiamavano “pezzi” gli internati nei campi. Lo hanno fatto gli hutu che in Rwanda hanno massacrato un milione di tutsi: li chiamavano scarafaggi. Non sarebbero stati in grado di uccidere un milione di persone come loro, ma pensarli come un milione di scarafaggi li ha aiutati! Qui ci sarebbe da aprire un discorso complicato: come è possibile che degli esseri umani come Stefano, come me, come tutti noi lo abbiano abbandonato e fatto morire? Dentro questo discorso ci dovremmo mettere i processi, la disciplina e le regole (scritte e non scritte) delle persone in divisa e degli uomini che prendono decisioni importanti nei tribunali, l’antropologia… Un discorso troppo complicato per me e forse anche per un blog che dopodomani non leggerà più nessuno. Ma un fiammifero per Stefano vorrei accenderlo, una proposta. A partire dalla sua storia (e dalla titanica lotta della sorella Ilaria) facciamo lo sforzo di pensarci accanto a lui e a loro. Lungo la stessa strada, con le stesse possibilità, la stessa gioia e gli stessi errori. Nello stesso destino.

Stefano Cucchi, per il pm fu omicidio preterintenzionale. A otto anni dalla morte, finisce inchiesta bis aperta nel 2014. Accusati i carabinieri Di Bernardo, D'Alessandro e Tedesco, che lo arrestarono a Roma. Reato di calunnia e falso verbale di arresto per il maresciallo Mandolini, allora comandante, e Tedesco. Solo calunnia per Nicolardi, scrivono Carlo Bonini e Giuseppe Scarpa il 17 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Stefano Cucchi è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto. Non è morto "di fame e sete", non è morto "per cause ignote alla scienza medica", né di epilessia. E' stato un omicidio. Preterintenzionale. In cui decisiva è stata la mano e la responsabilità di chi lo aveva in custodia, i carabinieri allora in servizio nella stazione Appia. Gli stessi che per coprire la verità avrebbero accusato di quella morte degli innocenti che sapevano tali. Otto anni dopo la sua morte in un letto del reparto di medicina protetta dell'ospedale Pertini di Roma (22 ottobre 2009), il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò chiudono la cosiddetta inchiesta bis (aperta nel novembre del 2014) sui responsabili del suo pestaggio e con l'atto di conclusione indagini contesta a tre dei carabinieri che lo arrestarono nel parco degli acquedotti di Roma - Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco - il reato di omicidio preterintenzionale. Con loro, accusati di calunnia, il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione dei carabinieri Appia (quella che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 aveva proceduto all'arresto) e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco. Per Mandolini e Tedesco, infine, anche il reato di falso verbale di arresto. Con un cambio di imputazione (i carabinieri cui viene ora contestato l'omicidio erano stati a lungo indagati per lesioni personali aggravate, così come Mandolini e Nicolardi di una falsa testimonianza che ora diventa, appunto, calunnia) che aggrava la posizione degli indagati e soprattutto fuga il rischio incombente della prescrizione, comincia dunque una nuova storia. "Fu colpito dai tre carabinieri che lo avevano arrestato con schiaffi, pugni e calci", scrivono Pignatone e Musarò. E le botte provocarono "una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale" che "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell'ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte". Una morte sino ad oggi senza responsabili - tre giudizi di merito, uno di primo grado e due di appello, oltre ad una pronuncia della Cassazione, hanno portato solo ad assoluzioni (definitive quelle degli agenti penitenziari in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, confermate nei due giudizi di appello quelle dei sanitari del Pertini) - trova nelle solide acquisizioni di questa seconda inchiesta della Procura di Roma i presupposti per la celebrazione di un nuovo processo e per riscrivere da capo la storia del pestaggio e della morte di Stefano. A partire da quanto accadde quella notte del 15 ottobre del 2009 - Stefano fu pestato nei locali della caserma Casilina, dove era stato portato per essere fotosegnalato - per proseguire con lo snodo chiave della vicenda sotto il profilo giuridico. L'esistenza cioè di un nesso di causa ed effetto tra le violenze subite dopo l'arresto (la lesione di due vertebre) e la morte, sei giorni dopo, nell'Ospedale Pertini. Decisiva, in questo senso, la confusa e contraddittoria ultima perizia di ufficio (quella condotta dal direttore dell'Istituto di Medicina legale di Bari, Francesco Introna), depositata a inizio di ottobre dello scorso anno, che aveva infatti dovuto riconoscere per la prima volta in otto anni, pure in una contorsione logica e argomentativa, che "le fratture traumatiche delle vertebre" di Stefano "ben possono aver determinato una condizione di vescica neurologica" al punto tale che "la stimolazione del nervo vagale ad esso connessa può aver accentuato la bradicardia di Cucchi fino all'esito finale".

Caso Cucchi, bugie ed omissioni sul verbale: «Così coprirono i segreti di quella notte». Il documento redatto all’arresto del geometra, era pieno di falsità. Non è vero che l’identificazione avvenne tramite foto segnaletiche e impronte digitali. Anzi, proprio il fatto che il ragazzo non volle sottoporsi a quella procedura provocò, secondo l’accusa, il «pestaggio» ad opera dei carabinieri, scrive Giovanni Bianconi il 18 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Tutto comincia (e finisce) con un verbale d’arresto. Redatto la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009 a carico di «Cucchi Stefano, nato in Albania il 24.10.1975, in Italia S.F.D. (senza fissa dimora, ndr), identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici ed accertamenti dattiloscopici. Pregiudicato». Tutto falso, a parte il nome e lo status giuridico. Non solo perché Cucchi era nato in Italia in un giorno diverso, e risultava regolarmente residente presso l’indirizzo dei genitori che i carabinieri avevano appena perquisito. Sono sbagliate anche la data e l’ora del verbale, ma soprattutto non è vero che l’identificazione avvenne tramite foto segnaletiche e impronte digitali. Anzi, proprio il fatto che il ragazzo non voleva sottoporsi a quella procedura provocò, secondo la ricostruzione dell’accusa, il diverbio sfociato nel «pestaggio» ad opera dei carabinieri che l’avevano arrestato. Due dei quali, Alessio Di Bernardo Raffele D’Alessandro, non compaiono nel verbale. Strano, visto che di solito la regola è che si aggiungono più nomi di quelli effettivi, giacché in questo modo si distribuiscono meriti a pioggia; in quel caso, invece, ce n’erano due in meno. Altra omissione: nel resoconto non si fa cenno alla resistenza opposta da Cucchi al fotosegnalamento. E ancora: in coda al verbale è scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiarava di non voler nominare un difensore di fiducia», da cui la nomina di un legale di ufficio. Falso pure questo, contesta oggi la Procura di Roma. E suona grottesca la postilla che il prevenuto «dichiarava di non dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari», visto che l’avevano portato via in manette davanti ai genitori. Finora tutto questo era stato giustificato con la banale spiegazione di una sovrapposizione, fatta al computer, tra il verbale d’arresto di Cucchi e quella di un cittadino albanese, con quelle generalità, fermato poco prima. Adesso non più. Adesso errori, omissioni e bugie diventano un capo d’accusa grave quasi quanto l’omicidio preterintenzionale, perché in quel pezzo di carta si nasconde — sostengono i pubblici ministeri — il depistaggio per coprire ciò che accadde la notte dell’arresto, nei locali della Compagnia Casilina dei carabinieri di Roma (mai nominata negli atti ufficiali). Dove il giovane tossicodipendente si oppose al fotosegnalamento, probabilmente anche in maniera violenta, e per questo fu colpito «con schiaffi, pugni e calci» che ne provocarono la caduta, le lesioni e — come ultima conseguenza — la morte. Il lavoro minuzioso del sostituto procuratore Giovanni Musarò, coordinato dal capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone, ha ricostruito gli eventi fino al dettaglio. Fino al registro delle operazioni tecniche sbianchettato per cancellare il nome di Cucchi (che però si legge in trasparenza). E con la testimonianza di un altro carabiniere animato da tutt’altro spirito, Pietro Schirone, che prese in consegna Cucchi la mattina seguente per portarlo in tribunale: «Chiesi al Tedesco se si erano resi conto delle condizioni dell’arrestato, riferendomi in modo palese al fatto che era fin troppo evidente che fosse stato pestato. Il Tedesco, senza mostrare alcuno stupore per le condizioni del Cucchi, rispose che l’arrestato non era stato affatto collaborativo al momento del fotosegnalamento». Le intercettazioni tra gli indagati hanno svelato il resto. «Io me lo ricordo bene che lo portammo a fare il fotosegnalamento... si sbattette... io mi ricordo pure che ti dette uno schiaffo in faccia a te e si buttò a terra», confessa D’Alessandro parlando con Di Bernardo (i due militari scomparsi dal verbale d’arresto). E quello: «Ti ricordi?... In petto mi colse... mi diede un pugno a me e si buttò a terra e disse che non si voleva far toccare e ce lo portammo... ti ricordi?». E ancora a proposito della mancata verbalizzazione di questi particolari: «Io mi ricordo troppo bene quando chiamai a Mandolini e gli dissi... piglia e mettilo scritto nel verbale di arresto che questo non lo vuole fare ». Commento di Di Bernardo: «Questo è perché la gente non sa lavorare, Raffaè». L’ultimo atto delle coperture s’è tradotto nella calunnia contro gli agenti della polizia penitenziaria processati (e assolti) negli anni scorsi per le violenze inflitte a Cucchi. Secondo i pm Mandolini, Tedesco e Nicolardi, mentendo sulle condizioni di salute dell’arrestato e tacendo ciò che era successo in caserma, «implicitamente accusavano, sapendoli innocenti», gli imputati dei precedenti processi. Che adesso saranno parte civile nel nuovo giudizio, accanto ai familiari di Cucchi che prima erano i loro avversari. Un altro paradosso di questa brutta storia.

Cucchi, per i pm è stato ucciso dai carabinieri. Non è stata l'epilessia a causare la morte. La procura di Roma vuole processare i tre militari perché accusati di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia. La svolta dalla nuova perizia: «Non vi è alcuna evidenza che l’epilessia possa aver determinato la morte», scrive Floriana Bulfon il 17 gennaio 2017 su "L'Espresso". Omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia. Questi i capi di imputazione per cui la procura di Roma chiede il processo dopo poco più di un anno dall’avvio dell’indagine-bis. Sono oltre sette invece gli anni trascorsi da quando il corpo martoriato di Stefano Cucchi è finito all’obitorio. Morto di carcere e di prevaricazione, abbandonato nell'indifferenza con la faccia gonfia e la schiena rotta. Pestato con violenza fino a fratturargli due vertebre, tanto che i carabinieri per nascondere la verità avrebbero detto il falso, arrivando persino a calunniare i colleghi pur di allontanare da loro la grave responsabilità. Dopo ben quattro processi si dirada la nebbia su una violenza negata e inspiegabile che fino ad oggi, di sentenza in sentenza, tra omissioni, atti falsificati, tentativi di depistaggio ha portato al nessun colpevole. La procura guidata da Giuseppe Pignatone porterà sul banco degli imputati chi avrebbe violato il principio basilare della sacralità di tutti i cittadini nelle mani dello Stato perché privati della loro libertà. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, secondo la ricostruzione del sostituto Giovanni Musarò, avrebbero: «provocato tumefazioni ed ecchimosi, lesioni personali con esiti permanenti. Una rovinosa caduta con impatto al suolo». La stessa “rovinosa caduta” di cui aveva parlato Raffaele D’Alessandro all’ex moglie Anna Carino, aggiungendo di essersi divertito a picchiare “'nu drugato 'e merda". E’ la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Nel buio del parco degli Acquedotti, periferia sud-est della Capitale, fermano Cucchi mentre spaccia venti euro di fumo. Il verbale dà conto di poco più una ventina di grammi di hashish, due dosi di coca nascoste nel fondo delle tasche e due pastiglie di ecstasy, in realtà si tratta di un farmaco per la cura dell’epilessia. I tre militari perquisiscono la casa dei genitori, non trovano nulla e alla fine lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appia. Doveva essere una brillante operazione antidroga, ma il grosso quantitativo non si trova e allora le botte. Sul volto, sulla schiena, tanto da provocargli fratture e segni che rimangono indelebili. Per questo non può essere foto-segnalato, anche se è obbligatorio in caso di arresto. Ne rimarrebbe traccia negli archivi. Così secondo la Procura si mettono a scrivere il verbale d’arresto costruito ad hoc «per sviare le indagini, ostacolare la ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili». Ecco apparire il foto-segnalamento mai eseguito ma dato per fatto e sparire la circostanza che due carabinieri al momento dell’arresto fossero in borghese. In aula Francesco Tedesco e Roberto Mandolini, quella sera al comando della caserma, si giustificano di aver fatto un copia-incolla: c’era scritto persino che Cucchi era nato in Albania. Per la Procura invece hanno compiuto: «un falso al fine di provocare impunità». E poi c’è la calunnia nei confronti di tre guardie carcerarie finite a giudizio nel 2011 e poi assolte. Per l’accusa Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi avrebbero implicitamente accusato i colleghi pur sapendoli innocenti, tanto che Mandolini in Corte d’Assise ha sostenuto: «deambulava senza nessun problema fisico» e, per quanto riguarda il mancato foto-segnalamento, che Cucchi «detestava sporcarsi le mani. Aveva questo terrore». Bugie, depistaggi, verità di comodo. Dopo sette anni di giustizia negata è il corpo di Cucchi a parlare e ad accompagnarci verso la verità. Racconta i dettagli della violenza subita: un corpo entrato integro sotto la custodia di uomini dello Stato e finito cadavere. La svolta arriva dalla consulenza affidata dalla Procura al professor Federico Vigevano, neurologo di fama internazionale dell’ospedale Bambino Gesù di Roma che il 12 dicembre deposita una dettagliata relazione la cui sintesi è: «Non vi è alcuna evidenza che l’epilessia possa aver determinato la morte». E’ la parola fine a una delle due ipotesi formulate lo scorso ottobre, dopo dieci mesi di lavoro, dal collegio dei periti presieduto da Francesco Introna dell’Università di Bari che vedeva la «morte improvvisa e inaspettata per epilessia», come «dotata di maggior forza e attendibilità» rispetto alla «frattura traumatica della vertebra S4». Il professor Introna lo ribadisce anche all’indomani dell’udienza preliminare ai microfoni di ‘Radio Norba’: «60 per cento epilessia, 40 per cento per un trauma» licenziando quest’ultima possibilità con un «si tratta di due o tre violenti schiaffoni. Dire selvaggio, dire pestaggio sono delle parole che amplificano quello che magari realmente è stato». A supporto richiama la pubblicazione scientifica statunitense ‘Sudden unexpected death in epilepsy’ (SUDEP), la morte improvvisa causata dall’epilessia. Un’ipotesi che per Vigevano «non è affatto applicabile perché si verifica in pazienti sì epilettici, ma per il resto in buona salute, e Cucchi negli ultimi giorni non lo era affatto, oltre che scarsamente responsivi ai farmaci specifici, come del resto scrivono gli stessi ricercatori». I periti invece, a riprova che possa aver avuto una serie di crisi epilettiche, chiamano in causa i ben 17 accessi al Pronto Soccorso per cause accidentali negli ultimi dieci anni. In quegli stessi ricoveri però si attesta la regolarità con cui assumeva i farmaci. «Era libero da crisi da cinque anni, si trovava in una fase remissiva della malattia», constata Vigevano. Del resto già il medico di Cucchi, il neurologo Bruno Jandolo, aveva dichiarato: «da fine 2006 riduce i farmaci, inoltre se si fosse fatto male a causa dell’epilessia si sarebbe visto da un semplice elettroencefalogramma». Nessun medico invece, pur sapendo che si trattava di un soggetto epilettico, ha mai riscontrato neppure una sospetta crisi. Anche per Jandolo «la SUDEP è improbabile e poi la ricerca USA riporta che può verificarsi solo se dall’autopsia non emerge un’altra causa e qui c’è un’altra causa, a dirlo sono gli stessi periti». Per trovare qualche riscontro alla tesi epilessia, a pagina 197 della perizia di Introna, viene indicata «una lesione a livello di mucosa della guancia destra». Insomma Cucchi avrebbe avuto una crisi e si sarebbe morso, ma, come nota Vigevano, «non vi sono tracce di sangue né sul cuscino né in bocca”. Il suo viso invece era stato percosso e a dirlo, oltre alle foto, è proprio la perizia appena 70 pagine prima: “al momento dell’ingresso all’istituto penitenziario di Regina Coeli, alle ore 16 del 16 ottobre 2009, il volto era tumefatto in corrispondenza delle guance». Sei giorni dopo, il 22, alle 6.10 l’infermiere dell’ospedale Sandro Pertini lo trova steso sul fianco destro con la mano sotto la testa. «I pazienti che muoiono in seguito a una grave crisi di epilessia vengono trovati nel 73% dei casi proni e comunque in posizioni non naturali», spiega il professor Vigevano. Cucchi invece si era addormentato sul fianco, senza riuscire a muoversi a causa delle fratture alla colonna vertebrale, fino a morire.  Fratture, al plurale. Nonostante non ci sia nulla di più certo di una vertebra rotta, ci sono voluti 7 anni per stabilire che erano due e procurate pochi giorni prima del decesso. «Si tratta della S4, quarta vertebra sacrale, e della L3, terza vertebra lombare», chiarisce finalmente il 6 ottobre dell’anno scorso Carlo Masciocchi, presidente della Società Italiana di Radiologia Medica. Due fratture che definisce «recenti, contemporanee, prodotte da un unico evento traumatico ed è improbabile siano dovute ad una caduta accidentale». E’ quel trauma, provocato, ad aver determinato quindi, secondo la Procura, la morte. La famiglia Cucchi sostiene da sempre che le cause siano il pestaggio e la negligenza medica. Non è chiaro infatti come un ragazzo di 31 anni possa entrare in carcere pesando 52 chili e morire sei giorni dopo perdendone 14, tanto che nella conclusione delle indagini si fa riferimento al fatto che «non si alimentasse correttamente in ragione del trauma» e «alla condotta omissiva dei sanitari». I medici del Sandro Pertini sono stati però di recente assolti nel processo d’appello-bis perché “il fatto non sussiste”; una sentenza al vaglio della Cassazione. Oggi dopo perizie, contro-perizie, interrogatori e processi, la strada intrapresa sembra essere quella decisiva: senza più il pericolo che il reato si prescriva in tempi brevi, lasciando senza giudizio i responsabili.

Ecco perché hanno massacrato Stefano Cucchi. Doveva essere una “brillante operazione antidroga”. Ma la coca non venne trovata.  Di qui le botte. L’ipotesi su cui lavora la procura di Roma, scrive Giovanni Tizian il 17 ottobre 2016 su "L'Espresso". Nel caso Cucchi due sole sono le cose certe: i segni del pestaggio e la morte. Tutto il resto è stato avvelenato da bugie, depistaggi, verità di comodo. Tuttavia, tra le carte e le testimonianze finora raccolte dagli inquirenti, concentrati sull’inchiesta bis sulla morte del ragazzo, c’è qualche indizio sulla genesi di quella violenza e in particolare sulla condotta dei carabinieri che hanno avuto in custodia Stefano la sera dell’arresto. La procura della Capitale indaga infatti su cinque militari dell’Arma e ha raccolto testimonianze decisive per delineare il contesto in cui è maturata la violenza. Il pestaggio più grave, infatti, andrebbe collocato subito dopo la perquisizione, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. E il movente, peraltro suggerito già nella sentenza di primo grado, è da rintracciarsi nella delusione per un’operazione non riuscita, con i carabinieri “infastiditi” dall’atteggiamento del giovane poco collaborativo. L’ipotesi probabile insomma è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. È questo lo scenario che emerge dalle informative in mano ai pm che da più di un anno lavorano alla nuova indagine. E che gli stessi magistrati hanno tentato di approfondire durante gli interrogatori. Una dinamica di questo tipo spiegherebbe anche perché non è mai stato fatto il fotosegnalamento, obbligatorio in caso di arresto. Foto e impronte mancanti, per nascondere i segni sul volto del ragazzo, già picchiato. Altro tassello mancante in una storia torbida di giustizia negata, dove persino una perizia, l’ultima, sul corpo di Cucchi genera ulteriori polemiche sulla probabile causa di morte. Un esercizio di equilibrismo compiuto dai periti, in cui riconoscono le fratture delle vertebre, ma sostengono che Stefano potrebbe essere morto di epilessia. L'ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. L'intervista alla sorella di Stefano. Che racconta: «I carabinieri quella sera prima di andare via con mio fratello in manette dissero a nostra madre: 'Signora non si preoccupi, per così poco domani suo figlio sarà a casa. Invece non lo vide mai più. Sei giorni dopo era sul tavolo dell'obitorio per l'autopsia». Il movente, dicevamo. Tracce del lavoro di ricostruzione dei pm ricorrono nel verbale dell’interrogatorio di un testimone chiave, l’appuntato Riccardo Casamassima. Sarà lui ad accusare Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza), all’epoca comandante della stazione Appia, quella da cui partirono i militari per arrestare Cucchi. Mandolini sapeva, sostiene il teste. Tanto da confessargli: «È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato». E Casamassima, nel verbale del 30 giugno 2015, si spinge oltre: «Sembrerebbe una cosa preparata prima, cioè che i carabinieri sapevano che Cucchi aveva un quantitativo importante e lo cercavano a casa dei genitori, non trovando nulla per estorcergli hanno cominciato a menarlo». Il procuratore Giuseppe Pignatone commenta: «Che è andata oltre...». Gli inquirenti insistono, gli chiedono di spiegarsi meglio: «Dottore è inusuale, quando io faccio più di un arresto durante l’anno per me diventa una cosa di routine, invece gente che non è abituata a fare questo tipo di attività si sono esaltati e può essere scattato qualcosa nella loro testa». Infine, prima di chiudere il colloquio con il pm Giovanni Musarò, Casamassima aggiunge: «Il pestaggio di Cucchi era finalizzato a farsi dire dove era custodita la droga che i colleghi pensavano di trovare all’interno dell’abitazione». Dichiarazioni che potrebbero diradare la nebbia di silenzi che avvolge il mistero della morte di Cucchi. E in effetti la droga Stefano ce l’aveva, ma non a casa dei genitori. La custodiva nell’appartamento a Morena. Un quantitativo importante, acquistato da poco. A consegnare i 900 grammi e passa di hashish e un etto di cocaina alla magistratura saranno i genitori del geometra romano venti giorni dopo la sua morte. Dopo, cioè, essere stati nell’abitazione per recuperare gli effetti personali del figlio. Che qualche anomalia ci sia stata nell’operazione Cucchi, lo rivelano anche le contraddizioni nelle deposizioni dei carabinieri al centro dell’inchiesta della procura capitolina. Pubblicamente escludono che l’arresto sia stato propiziato da confidenti. Privatamente, così emerge dai dialoghi intercettati, questa possibilità invece emerge. Per esempio, Roberto Mandolini racconta di un esposto dei genitori delle scuole Appio Claudio in cui segnalavano un «giovanotto magro col cane che spacciava». Dice anche, Mandolini, che grazie a Cucchi, in passato, avevano fatto altri arresti fornendogli nomi di altri pusher. L’ex comandante fu sentito quale testimone nel primo processo. E sotto giuramento raccontò la sua versione: «C’era un clima particolarmente disteso e l’arrestato era persona tranquilla e spiritosa». Tale idillio però è, secondo gli investigatori, in palese contrasto con quanto davvero accadde nei momenti successivi al fermo di Cucchi. Il carabiniere scelto Stefano Mollica, in servizio alla stazione Casilina - dove Stefano Cucchi avrebbe dovuto fare il fotosegnalamento come da prassi - dice tutt’altro. Mollica è uno dei due militari incaricati di accompagnare Cucchi dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso la notte in cella, al tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Ai giudici ha raccontato, ma lo ha ribadito di recente davanti ai pm di Roma, che «il rossore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia... camminava a fatica, era claudicante, stava malissimo era molto sofferente». Dice, poi, che giunti al tribunale di piazzale Clodio, incontrano il collega Stefano Tedesco, uno degli autori dell’arresto e ora indagato nell’inchiesta bis. Tedesco si è lasciato sfuggire un particolare - sostiene un altro appuntato quel giorno in compagnia di Mollica - cioè che Cucchi «era stato poco collaborativo al momento del fotosegnalamento». E sempre il collega di Mollica ha aggiunto: «Era evidente che aveva subito un pestaggio». Il fotosegnalamento, come si diceva, non verrà mai eseguito: eppure nel verbale di arresto si legge «identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici». Perché Cucchi non viene fotografato? Nessuno risponde a questa domanda. Ma una delle ipotesi più probabili, al vaglio anche dei magistrati, è che Stefano era già stato picchiato violentemente. Per questo sarebbe stato meglio evitare foto che potevano diventare prove. L’ipotesi che il movente del pestaggio sia da ricercare nella delusione dei militari per non aver trovato la grande quantità di droga che si aspettavano ha anche un sostegno giudiziario nella prima sentenza emessa sulla morte di Cucchi, quella che ha assolto gli agenti penitenziari. I giudici della Corte d’Assise sono stati infatti i primi a ipotizzare, seppur quasi di passaggio, che «il Cucchi sia stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa - l’operazione dell’arresto era stata propiziata da una fonte confidenziale - mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente egli abitava». Ed è seguendo questo filo rosso che ora si stanno muovendo gli inquirenti che hanno messo sotto indagine i carabinieri. Insomma, ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare. Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. È in quelle ore che matura la fine di Cucchi. Sono passate da poco le 23, in via Lemonia, periferia sudest di Roma. Stefano è arrivato da poco, ha appuntamento con Emanuele Mancini. Qui viene fermato mentre gli cede, per 20 euro, un pezzo di hashish. Il verbale di arresto racconta di 20 grammi di fumo sequestrati, due dosi di cocaina e 2 pasticche di ecstasy. In realtà queste ultime non sono pasticche di droga, ma Rivotril per la cura dell’epilessia. A quel punto gli agenti, su ordine del loro superiore maresciallo Roberto Mandolini, procedono alla perquisizione dell’abitazione dei genitori di Stefano, il cui indirizzo è segnato sul documento di identità del ragazzo. Lì sono convinti di trovare il resto della droga. Che, invece, non troveranno. Ciò che accadrà dopo è un intricato castello di ipotesi e sospetti. L’unica certezza, da quel momento in poi, è che Cucchi viene picchiato. Lo dicono i giudici, lo confermano almeno quattro carabinieri, lo dice anche l’ultima perizia tanto contestata che parla dell’epilessia. Già, la perizia firmata Francesco Introna: frutto di dieci mesi di lavoro e che trascina dietro di sé non poche polemiche. Il legale della famiglia Cucchi aveva chiesto persino l’incompatibilità del professor Introna per la sua passata appartenenza alla massoneria. Alla fine però la “fratellanza” di Introna è stata considerata un’affiliazione datata e ormai non più significativa. Superato questo ostacolo, il lavoro dei periti è proseguito e due settimane fa hanno consegnato i risultati: nessuna causa certa ma due ipotesi, una considerata più probabile dell’altra. La prima: l’epilessia, che gli stessi professori del collegio peritale però definiscono «non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata solo da rilievi clinico-scientifici»; la seconda: la frattura delle vertebra S4, «comunque indotta che avrebbe provocato l’insorgenza della vescica neurogenica», cioè di una disfunzione dell’apparato urinario. E proprio questo punto che la difesa della famiglia Cucchi utilizzerà nelle prossime fasi. A partire dalla prossima udienza di incidente probatorio, il 18 ottobre. Mai nessuna perizia prima, infatti, aveva certificato la frattura che avrebbe poi compromesso la vita di Stefano. L’avvocato Fabio Anselmo ha da tempo chiamato a collaborare il professore Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza, lo stesso che ha svolto l’autopsia, per conto dei magistrati, sul corpo di Giulio Regeni. E che già un anno dopo la morte di Stefano aveva prodotto un’analisi secondo cui Cucchi è morto «per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute». In pratica le fratture avrebbero innescato quel processo che poi ha portato al decesso del giovane romano. E quelle stesse fratture potrebbero essere state causate dalle botte prese da Cucchi perché i carabinieri non avevano trovato la droga che si aspettavano. «Mio fratello non è morto di epilessia, era in ospedale per le botte ricevute», riflette la sorella Ilaria. Poi fa una pausa, fissa il cartello con scritto via Lemonia: «Era nelle mani dello Stato, al sicuro, invece è stato massacrato».

Il corpo del reato di Carlo Bonini. Editore: Feltrinelli. Anno edizione: 2016. Un giovane uomo viene arrestato, prelevato dalla polizia. Scompare nei meandri degli apparati. Quando ne esce, è un cadavere martoriato. Ma questo cadavere può parlare. E tutti dobbiamo ascoltare. Il caso Cucchi. Il caso Regeni. (Ma anche: il caso Aldrovandi, il caso Uva, il caso Magherini). C'è qualcosa di spaventoso, qualcosa con cui nessuno vuole fare veramente i conti, nella storia di un giovane uomo che perde la vita mentre è nelle mani di chi dovrebbe tutelare la sicurezza di tutti. Carlo Bonini, conosce a menadito tutti i più oscuri anfratti di quel sottobosco giudiziario, al confine tra crimine e repressione, legge e arbitrio, diritti inviolabili e circostanze fortuite, in cui maturano queste tragedie. Sono anni che indaga sulla morte di Stefano Cucchi: le carte dell'inchiesta, le parole dei familiari, le perizie e le controperizie. E ha deciso che è tempo di fare parlare quel cadavere, fargli raccontare quello che sa e che non avrebbero voluto che dicesse...

Il corpo del reato di Carlo Bonini, scrive Irene Pinamonti il 24 novembre 2016. Il corpo del reato, il libro-inchiesta del giornalista e scrittore Carlo Bonini edito da Feltrinelli. Un giovane uomo viene arrestato, prelevato dalla polizia. Scompare nei meandri degli apparati. Quando ne esce, è un cadavere martoriato. Stefano Cucchi è morto. Lo Stato che lo aveva preso in custodia ha restituito solo un cadavere. Ma questo cadavere può parlare. E tutti dobbiamo ascoltare. Il caso Cucchi. Il caso Regeni. Ma anche il caso Aldrovandi, il caso Uva, il caso Magherini. C’è qualcosa di spaventoso, qualcosa con cui nessuno vuole fare veramente i conti, nella storia di un giovane uomo che perde la vita mentre è nelle mani di chi dovrebbe tutelare la sicurezza di tutti. Carlo Bonini conosce tutti i più oscuri anfratti di quel sottobosco giudiziario, al confine tra crimine e repressione, legge e arbitrio, diritti inviolabili e circostanze fortuite, in cui maturano queste tragedie. Sono anni che indaga sulla morte di Cucchi: le carte dell’inchiesta, le parole dei familiari, le perizie e le controperizie. E ha deciso che è tempo di fare parlare quel cadavere, fargli raccontare quello che sa e che non avrebbero voluto che dicesse…“Un drogato di merda. Un diverso. Un Corpo a perdere. Uno di quelli di cui si dice, nel gergo di certi sbirri, che abbiano il nome all’anagrafe scritto a matita. Perché cancellarlo è un attimo. E nessuno verrà a reclamare.” La morte di Stefano Cucchi è uno di quei fatti di cronaca che segnano una generazione e un pezzo di storia italiana. Perché vicenda simbolo, carica di significati pesantissimi: la violenza del Potere, la fragilità dello Stato di diritto, l’incapacità dello Stato italiano di fare i conti con le responsabilità dei suoi servitori, il pericolo che corre un ragazzo che finisce nelle mani di uomini che indossano la divisa di chi garantisce la nostra sicurezza o il camice bianco di chi tutela la nostra salute. Carlo Bonini, grande firma di “Repubblica” e autore di Acab e Suburra (insieme a Giancarlo De Cataldo), per sette anni ha seguito da vicino il caso Cucchi – attraverso la lettura di decine di migliaia di pagine di atti giudiziari, i colloqui con i familiari, lo studio delle perizie e controperizie medico-legali sulle cause della morte – e in questo libro, che è una vera e propria inchiesta civile raccontata con gli strumenti della narrazione più incalzante, mette al centro il testimone primo e ultimo della verità su quanto accaduto: Il corpo del reato. Il cadavere di Stefano. Che svelerà le tappe del suo calvario attraverso gli occhi e la scienza di un medico che, per una coincidenza precisa come un responso, sarà lo stesso chiamato a interpretare i segni delle torture inflitte a Giulio Regeni, trucidato in Egitto e intrappolato in una storia oscura, così diversa e così simile a quella di Stefano Cucchi. Perché è tempo di far parlare quel cadavere martoriato, di fargli raccontare quello che sa e che alcuni non avrebbero voluto che dicesse, e di spiegare a tutti noi, che forse non vorremmo ascoltare, quanto i nostri corpi siano alla mercé del Potere, dello Stato, della Storia.

Carlo Bonini è nato nel 1967 a Roma ed è inviato speciale del quotidiano “la Repubblica”, dove è arrivato dopo aver lavorato per “il manifesto” e “il Corriere della sera”. Ha pubblicato le due biografie La Toga Rossa (1998), storia del giudice Francesco Misiani e Il Fiore del Male, la vita di Renato Vallanzasca (1999), il reportage narrativo Guantánamo (2004), Il mercato della paura, scritto con Giuseppe D’Avanzo (2006), Acab. All Cops Are Bastards (2009) e con Giancarlo De Cataldo Suburra (2014) e La notte di Roma (2015). Per Feltrinelli, Il corpo del reato (2016).

Stefano Cucchi. ll Corpo del reato, il libro di Carlo Bonini, scrive Aldo Funicelli venerdì 9 dicembre 2016. Il Corpo del reato: un titolo, quello del libro di Carlo Bonini, che si presta a diverse letture. Il corpo è quello di Stefano Cucchi, entrato vivo dentro una cella, dopo un arresto per spaccio, ed uscito cadavere, morto. Per arresto cardiaco. Una formula che non vuol dire nulla. Corpo del reato è anche la formula che, in ambito investigativo, indica l'oggetto dell'omicidio. Omicidio negato dalle prime ricostruzioni che parlavano di soggetto poco collaborativo, che aveva rifiutato il cibo. E le fratture alle vertebre causate da una caduta dalle scale. Per capire cosa sia successo a Stefano, occorre allora osservare quel povero corpo: usando le parole del medico legale Vittorio Fineschi: “il cadavere è un testimone. Il primo e il più importante. Quello che non mente mai”. Ecco cosa ha visto e riportato il dottor Mario Tancredi, dell'Istituto di medicina legale di Roma, durante l'autopsia. Passò quindi a descrivere l'essere umano che gli giaceva di fronte nel suo rigor mortis. Un corpo scheletrico e offeso. Uno spettro. “Soggetto di sesso maschile, di età apparente 30-35 anni, del peso di chilogrammi 37 e della lunghezza di cm 162, in condizioni di notevole magrezza, con pannicolo adiposo sostanzialmente assente e masse muscolari marcatamente ipotrofiche.” Un metro e sessantadue centimetri per trentasette chili. Sì, uno spettro. “Si rileva, alla linea di impianto del capillizio, piccola escoriazione ricoperta da crosta delle dimensioni di mm 0,4 circa. In sede fronto-temporale, bilateralmente, si apprezza apparente sfumata soffusione ecchimotica, di colorito rosso-bluastro. [..] In sede periorbitaria, bilateralmente, a fronte di cute distrettuale esente da aspetti discontinuativi, si rilevano ecchimosi rosso-bluastre rotondeggianti, simmetriche e a margini netti – come distribuite secondo il decorso dei muscoli orbicolari degli occhi - a sinistra inoltre apprezzandosi, appena inferiormente all'estremo medio-laterale dell'arcata sopraccigliare, tumefazione grossolanamente rotondeggiante…” L'ispezione esterna annotò ogni piccola lesione esterna della cute. Quella interna, una volta inciso il Corpo, nell'elencare lo stato degli organi, non indugiò su quello che pure appariva un dato macroscopico. “Vescica con pareti integre. Completamente distesa come per globo vescicale, al taglio contenente 1400 centimetri cubi di urina limpida ..”Mille a quattrocento centimetri cubi. Un pallone. Tre volte le dimensioni che rendono qualsiasi essere umano incapace di trattenere lo stimolo. Oltre la soglia di un dolore umanamente sopportabile. Il dottor Tancredi chiuse il verbale sugli esiti dell'esame della schiena di Stefano, di cui venivano segnalate le fratture di due vertebre, documentate da una lastra effettuata prima della morte.

Il Corpo del reato, di Carlo Bonini – Feltrinelli. “Ci sono storie come quella di Stefano Cucchi che sanno raccontare assieme il destino di una persona e anche del destino di una collettività …” - così spiega l'autore il perché di questo libro.

Stefano Cucchi, battaglia infinita. La verità nascosta alla luce del sole. Ne «Il corpo del reato» di Carlo Bonini (Feltrinelli) i nessi con il caso Regeni, come la centralità dell’autopsia e l’intreccio di colpe, burocrazia, depistaggi, giustizia negata, scrive Giovanni Bianconi il 14 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Quando s’indaga su una morte misteriosa, qualunque ne sia la causa, si deve interrogare il cadavere. Che può aiutare a capire che cosa è successo, chi e perché ha messo fine alla persona che era. È il punto di partenza per risalire ai responsabili di un eventuale reato, il primo indizio. E in alcuni casi le autopsie diventano decisive, se ne discute all’infinito, si litiga per arrivare a conclusioni opposte. Per cercare la verità. O per nasconderla. È quello che è accaduto e continua ad accadere nella vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 con l’accusa di spaccio di droga e morto dopo una settimana di detenzione trascorsa tra camere di sicurezza, carcere e ospedali. Un incredibile intreccio di colpe e burocrazia, bugie, depistaggi e giustizia negata che il giornalista Carlo Bonini racconta in un libro significativamente intitolato Il corpo del reato (Feltrinelli, pagine 320, euro 18). Perché è dal corpo (e sul corpo) di Stefano che tutto è cominciato, e perché dietro questa storia si continuano a inseguire reati che qualcuno voleva coprire. A partire dal certificato di «morte naturale» redatto subito dopo il decesso, e dall’ineffabile comunicazione data ai genitori che solo attraverso la notifica dell’autopsia seppero che il loro ragazzo non c’era più. «Si è spento», si sentirono dire. La narrazione di Bonini si addentra in ogni passaggio della battaglia che la famiglia Cucchi conduce da sette anni, e si snoda proponendo un parallelo con un’altra morte violenta, tragica e misteriosa, quella di Giulio Regeni. Anche in quel caso è stato il cadavere a smentire le menzogne e gli inquinamenti, attraverso lo svelamento delle torture che ha fatto piazza pulita delle falsità proposte a più riprese dal regime egiziano. In comune tra i due casi c’è l’anatomopatologo che ha fatto parlare i corpi delle vittime — il professor Vittorio Fineschi, uno dei protagonisti principali del racconto — e la determinazione dei parenti a non accontentarsi di un funerale e qualche scusa. Approdati entrambi in una sede istituzionale, il Senato, per chiedere aiuto a ottenere giustizia. Con una differenza di non poco conto: per Regeni si tratta di sfidare un altro Stato a trovarla; per Cucchi, a quattromila chilometri e qualche gradino di democrazia più su, si attende che lo faccia la Repubblica italiana. I genitori e la sorella di Stefano, Ilaria, dovettero mostrare a tutti le foto del ragazzo ridotto a poco più di uno scheletro, così come era stato restituito dalle istituzioni che lo avevano in custodia. Lo ha fatto anche un pubblico ministero, in uno dei vari processi che si sono succeduti senza approdare a nulla. Per far capire di che cosa si stava parlando, muovere le coscienze e tenere accesi i riflettori. «Andrà a finire che su questa storia ci faranno anche un film!», si lamentò il difensore di qualche imputato. «Magari!» replicò l’avvocato dei Cucchi, Fabio Anselmo, altro personaggio che si muove tra le pagine del libro con un ruolo di primo piano. Perché è grazie alla pubblicità voluta dalla famiglia, alla volontà di tenere desta l’attenzione di chi rimaneva fuori dalle aule di tribunale, che a sette anni di distanza c’è ancora la speranza di arrivare a una versione credibile di ciò che è successo, e individuare i responsabili. Bonini ripercorre i principali punti di svolta di un percorso lungo e accidentato. Dalle incongruità della notte dell’arresto alla settimana in cui Cucchi è rimasto segretato, privato non solo della libertà ma anche dei diritti che invocava inutilmente: per esempio il colloquio con un avvocato; dalle manovre per lasciare nell’ombra chi lo aveva avuto tra le mani nelle prime ore, all’inutile processo agli agenti di custodia, viziato da consulenze e perizie che si ostinavano a negare ogni relazione tra le percosse subite da Cucchi e la sua morte. Per mettere a tacere il corpo e occultare il reato; andando a ripescare testi medici dell’Ottocento sulla morte per fame come durante le carestie, o gli studi sulla fine inflitta ai prigionieri dei campi di sterminio, lasciati senza cibo né acqua. Poi è arrivata la nuova indagine sui carabinieri, innescata dalle rivelazioni di due colleghi ai Cucchi e portata avanti da magistrati diversi della Procura di Roma, con metodi ereditati dalle inchieste sulla criminalità organizzata grazie ai quali è caduto il muro di omertà eretto intorno alla cattura di Stefano. Ma anche queste nuove prove, su cui verosimilmente si imbastirà un nuovo processo, dovranno fare i conti con una nuova perizia sulle cause della morte, che stavolta ha tirato in ballo un presunto quanto incomprensibile attacco epilettico. E sarà l’ennesima battaglia legale. Il corpo del reato si chiude riproponendo un paragone con l’omicidio consumato al Cairo poco meno di un anno fa: il paradosso di una verità nascosta alla luce del sole. Ma il caso Cucchi è ancora aperto. Come il caso Regeni.

La violenza e gli abusi di potere sul corpo di Stefano Cucchi. L'arresto, il pestaggio, la morte, i silenzi, i depistaggi, i processi. Carlo Bonini ricostruisce in un libro la terribile fine del giovane romano e la fatica per giungere ad accertare la verità, scrive Giuliano Pisapia il 28 novembre 2016 su "La Repubblica". "Gliene abbiamo date tante a quel drogato di merda". "Non mi fece i nomi dei colleghi, ma raccontò i dettagli di quella sera, rideva mentre me lo raccontava, mi diceva che si erano divertiti a picchiare, e quando provai a dire che quella cosa mi faceva schifo, lui mi rispose: "Chillo è solo 'nu drugato 'e merda". E non era la prima volta: mi aveva raccontato di altri pestaggi su altri disgraziati arrestati e portati in caserma, soprattutto extracomunitari, anche se mi aveva detto che non avevano mai pestato nessuno così violentemente come Cucchi". Stefano Cucchi è morto dopo essere stato massacrato di botte. Ce lo dice il suo corpo martoriato; ce lo dicono le parole dei carabinieri che avevano il compito, e il dovere, di custodirlo e garantire la sua incolumità, la sua vita. Il libro di Carlo Bonini (Il corpo del reato, Feltrinelli) racconta la violenza, l'agonia, il calvario, la morte di Stefano Cucchi. Racconta i depistaggi, l'omertà, le bugie, gli atti falsificati, il tentativo (in parte riuscito) di addossare ogni responsabilità alla polizia penitenziaria. E lo fa, lo può fare, sulla base di atti processuali, testimonianze, indagini difensive, perizie e consulenze tecniche che, in buona o cattiva fede, hanno sviato la giustizia. Dopo 7 anni e quattro processi tutti gli imputati sono stati assolti. Nessuno, finora, ci dicono le sentenze, è responsabile di una morte così atroce. Non perché non ci siano colpevoli, ma perché, come si evince dalla sentenza della Corte d'Assise di appello, i responsabili del pestaggio sono altri. Sembra un thriller, e invece è la storia vera di un ragazzo che, se solo fossero stati rispettati i suoi diritti, le garanzie che la nostra Costituzione e i nostri codici prevedono come "inviolabili", sarebbe ancora vivo e potrebbe confermare quella verità che, solo ora, sta faticosamente emergendo. Ma il libro di Bonini ci fa conoscere anche persone eccezionali, a cominciare da Ilaria, la sorella di Stefano. Che sembra una donna minuta, fragile, e che invece diventa fortissima, inesausta. Persone che con coraggio non hanno fatto passi indietro, non si sono fatte intimorire, malgrado le delusioni, il dolore, le lacrime, talvolta anche la paura. Insieme a Ilaria, Rita e Giovanni, i genitori; Fabio Anselmo, l'avvocato che ha assistito la famiglia e che, anche nei momenti più difficili, anche quando ha vissuto la "catastrofe della giustizia" non si è perso d'animo, non ha mollato, ma ha continuato nel suo impegno per la verità; l'avvocato che Ilaria ha scelto dopo aver letto che era riuscito ad avere giustizia per Federico Aldrovandi, altro ragazzo morto dopo essere stato pestato a sangue durante il suo arresto. E conosciamo un coraggioso medico legale, il professor Vittorio Fineschi, che mette a disposizione il suo sapere, e la sua passione, per impedire che vincano la prepotenza e l'ingiustizia. E, a conferma che non bisogna mai generalizzare e che ovunque vi possono essere mele marce, viviamo il tormento di altri carabinieri, un uomo e una donna, che - dopo il buio giudiziario - rompono il muro dell'omertà e, con la loro testimonianza, fanno riaprire il processo. E la professionalità di magistrati che, dopo aver letto e riletto gli atti processuali, dopo aver visto le immagini sconvolgenti del corpo senza vita di Stefano, non si fermano alla lettura di referti medici che parlano di morte naturale o di arresto cardiaco, ma approfondiscono, vogliono capire e fanno il loro dovere fino in fondo. Nessuno di loro vuole un responsabile ad ogni costo, ma non vogliono arrendersi di fronte alle difficoltà. Verità e Giustizia. Un mantra che ci perseguita. Un mantra che, soprattutto dopo le violenze, le torture, la sospensione della democrazia durante il G8 di Genova, ha accompagnato la vita e l'impegno di tanti. E che ha coinvolto familiari, avvocati, magistrati, parlamentari, singoli cittadini che credono nella giustizia e non si voltano dall'altra parte di fronte alle ingiustizie. Perché, per un caso Cucchi, ve ne sono tanti altri, non denunciati o per i quali la verità dei fatti contrasta con la verità giudiziaria. E tra questi, Giulio Regeni, la cui morte, scrive Bonini, è "così diversa e così simile a quella di Stefano Cucchi". Storie vere che debbono aiutarci a riflettere su quanto sia fondamentale "oltre alla presunzione d'innocenza, anche la rigorosa applicazione delle garanzie processuali, l'habeas corpus, l'integrità fisica e psicologica di chi è accusato di un reato". Per imputati e vittime. Perché se, invece che in una caserma, Stefano Cucchi fosse stato portato in carcere, come prevedeva la legge; se avesse potuto parlare con il suo avvocato o incontrare un suo familiare, come era suo diritto; se fossero state rispettate le regole e le garanzie, oggi lui - e non solo il suo corpo - potrebbe essere testimone di verità. Non è stato così, ma ora e sempre, quella verità che sta emergendo con chiarezza, deve diventare anche verità giudiziaria. Senza verità non vi può essere memoria, senza Giustizia viene meno la fiducia nello Stato.

Caso Cucchi, Carlo Bonini: La verità è evidente da 7 anni, scrive su "La Presse" Raffaella Caprinali Mercoledì 30 Novembre 2016. Il giornalista ricostruisce il caso del 31enne romano nel libro-inchiesta "Il corpo del reato". Prima di tutto Stefano Cucchi era un giovane uomo. Un ragazzo fragile con una storia difficile. Poi è diventato un volto. Una maschera viola di ematomi, la bocca aperta, gli occhi pesti, gonfi nella fissità della morte. Una fotografia che racconta un abuso, i depistaggi e le omertà che si sono coagulati intorno alla fine di Stefano, fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto una settimana dopo all'ospedale "Pertini" di Roma. Carlo Bonini, inviato speciale di Repubblica, ora ricostruisce in un libro il calvario del 31enne romano e la complessa vicenda giudiziaria: in sette anni ci sono stati quattro processi, con tutti gli imputati assolti. "Il corpo del reato" (Feltrinelli) si basa sulla conoscenza personale e diretta dell'autore, sulla lettura di migliaia di pagine di atti processuali e lunghe interviste con le persone coinvolte. E' un'inchiesta civile che parte dal cadavere di Stefano Cucchi, "il testimone più importante, quello che non mente". "Per dolo, per colpa, per sciatteria o comodità - ci spiega Bonini - nessuno si è accorto che la frattura della terza vertebra lombare di Stefano, la famigerata L3, era un dato medico-legale chiaro, presente già nella fase dell'indagine preliminare nel 2009. Un dato che avrebbe creato un nesso causale diretto tra il pestaggio e la sua morte, dopo una rapidissima agonia. E questo tassello, per ragioni che restano misteriose, è stato manomesso; la frattura venne infatti tagliata via durante l'autopsia, accidentalmente o volutamente. Intorno a questo equivoco provocato, la verità è così diventata un'opinione, mentre è incontrovertibile che sul corpo dì Stefano ci siano gli esiti di lesioni dovute a traumi non autoinflitti e non causati da una caduta dalle scale". "Se si andrà a processo contro i cinque carabinieri indagati - continua Bonini - proprio questa evidenza consentirà di inasprire il capo di imputazione da lesioni gravi a omicidio preterintenzionale, allontanando la prescrizione e dunque la beffa finale. Sarà poi interessante capire se nella catena delle responsabilità, al di là degli autori materiali del pestaggio, qualcuno abbia consapevolmente contribuito o meno alla copertura di quanto successo". Lo scorso giugno, al processo d'appello bis contro i medici del "Pertini", il procuratore generale Eugenio Rubolino paragonò la fine di Stefano Cucchi a quella di Giulio Regeni, "ucciso da servitori dello Stato in camice bianco". Due vicende che si intrecciano anche ne "Il corpo del reato" attraverso Vittorio Fineschi, il medico legale che ha eseguito entrambe le autopsie e che ha un ruolo centrale nella lotta della famiglia Cucchi per ottenere giustizia. "Ovviamente sono due casi diversi, uno consumato sotto un regime autoritario, l'altro in una Repubblica democratica. Ma - sottolinea Carlo Bonini - c'è una ricorrenza nel modo in cui gli apparati difendono sé stessi quando devono rispondere della violazione di un diritto umano. Giustamente l'Italia chiede conto all'Egitto delle torture subite da Regeni, ma è paradossale che il nostro Paese sia l'unico in Occidente che in 33 anni non abbia ancora approvato una legge sulla tortura. E questo per colpa del peso silenzioso che fa erroneamente ritenere che uno Stato capace di punire i servitori infedeli, sia uno Stato che automaticamente autorizza a considerare deboli i proprio apparati e le proprie forze dell'ordine".

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».

Roma, caso Cucchi: la cronologia. Tutte le tappe dell'inchiesta. Il giovane geometra morì il 22 ottobre, una settimana dopo il suo arresto per droga. Dalla diffusione delle foto shock del cadavere da parte della famiglia ai 5 carabinieri indagati, scrive "La Repubblica" il 15 dicembre 2015. Tutto inizia il 15 ottobre 2009. Stefano Cucchi, il geometra trentenne, viene arrestato in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, intorno all'1,30, i carabinieri che lo hanno arrestato lo accompagnano a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. Stefano morirà il 22 ottobre, una settimana dopo il suo arresto nel reparto detenuti dell'ospedale romano Sandro Pertini. La famiglia Cucchi, ma soprattutto la sorella Ilaria, a pochi giorni dalla morte di Stefano, diffonde le foto shock del cadavere del ragazzo, scattate all'obitorio. Erano ben visibili, oltre alla magrezza scheletrica (Cucchi pesava meno di 40 chili al momento della morte), delle lesioni diffuse. Il volto era tumefatto: una maschera violacea attorno agli occhi, uno dei quali schiacciato nell'orbita, un ematoma bluastro sulla palpebra e la mandibola spezzata. E poi la schiena, fratturata all'altezza del coccige. L'inchiesta avviata dalla Procura diede il via ad un lunghissimo processo, iniziato con il rinvio a giudizio dei dodici imputati (gennaio 2011). Da allora, sono servite 45 udienze, 120 testimoni sentiti, decine di consulenti tecnici nominati da accusa, parti civili, difesa, e anche una maxi-perizia disposta dalla stessa Corte. Ecco le tappe della vicenda:

16 OTTOBRE 2009. La mattina successiva è tempo del processo per direttissima. Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l'arresto e fissa una nuova udienza. Nell'attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.

17 OTTOBRE 2009. Le sue condizioni di salute peggiorano e viene trasportato all'ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere.

22 OTTOBRE 2009. Stefano muore all'ospedale Pertini. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l'autorizzazione per vederlo. Comincia un calvario investigativo e giudiziario.

25 GENNAIO 2011. Vengono rinviate a giudizio 12 persone: i sei medici dell'ospedale "Sandro Pertini" Aldo Fierro, Stefania Corvi, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo; i tre infermieri dello stesso ospedale, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, e le tre guardie carcerarie Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.

Il 5 GIUGNO 2013. La III Corte d'Assise condanna in primo grado quattro medici dell'ospedale 'Sandro Pertini' a un anno e quattro mesi e il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico. Invece assolve sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.

Il 31 OTTOBRE 2014. A seguito di una sentenza della Corte d'appello di Roma, sono assolti tutti gli imputati, anche i medici. La sorella di Stefano, Ilaria, dichiara che avrebbe chiesto ulteriori indagini al procuratore capo Pignatone e che avrebbe continuato le sue campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul caso.

12 GENNAIO 2015. La Corte d'assise d'appello della capitale deposita le motivazioni della sua sentenza. Si dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero per nuove indagini sulle violenze subite da Stefano Cucchi. La Procura di Roma apre un'inchiesta-bis.

10 SETTEMBRE 2015. Per la prima volta viene iscritto nel registro degli indagati un carabiniere per falsa testimonianza. Alla fine i carabinieri indagati sono 5: due per falsa testimonianza, tre per lesioni aggravate.

11 DICEMBRE 2015. La Procura di Roma chiede, nell'ambito dell'incidente probatorio davanti al gip, una nuova perizia sul pestaggio subito da Cucchi.

15 DICEMBRE 2015. Si apre il terzo grado di giudizio per i 12 imputati - medici, infermieri e agenti della penitenziaria - in Cassazione. L'avvocato generale della Suprema Corte, Nello Rossi, chiede di confermare le assoluzioni di agenti, infermieri e del primo medico che visitò Cucchi. Secondo il magistrato, invece, vanno annullate le assoluzioni dei cinque medici della struttura protetta dell'ospedale Pertini, per i quali va celebrato un nuovo processo d'appello.

18 LUGLIO 2016 La terza Corte d'Assise d'appello conferma l'assoluzione dei 5 medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi nell'ospedale Pertini di Roma. Era stata la Cassazione, nel dicembre scorso, a chiedere il nuovo processo dopo la condanna in primo grado e l'assoluzione in appello.

I protagonisti della storia. (A cura di Alessandra Del Zotto)

Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni, viene fermato dai Carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 all'ingresso del Parco degli Acquedotti, a Roma. Viene portato alla stazione Appio Claudio perchè trovato in possesso di 29 grammi di hashish e successivamente trasferito a Tor Sapienza. Verso le quattro del mattino il piantone chiama un'ambulanza perchè Cucchi si sente male: verrà dichiarato dai medici che il ragazzo rifiutava le cure. La mattina dopo, 16 ottobre, si tiene l'udienza di convalida dell'arresto: il padre di Stefano ha occasione di parlare con il figlio un paio di minuti, e nota tumefazioni sul suo volto. Il pomeriggio del 17 ottobre viene disposto il trasferimento nel reparto di medicina penitenziaria dell'ospedale Pertini, diretto dal dottor Aldo Fierro. Stefano muore alcuni giorni dopo, il 22 ottobre.

Ilaria Cucchi, 38 anni, si batte dal 2009 per arrivare alla verità sulla morte del fratello Stefano. A causa delle sue dichiarazioni contro i tre agenti di polizia penitenziaria accusati di aver picchiato il fratello e assolti in primo e secondo grado, Ilaria viene denunciata dal sindacato Coisp per "vilipendio all'immagine della polizia". Recentemente Ilaria è stata querelata anche da Paolo Arbarello, ex direttore del Dipartimento di medicina legale della Sapienza, e consulente dei pm al processo Cucchi. La mossa di Arbarello segue l'accusa dei famigliari di Cucchi di aver redatto una consulenza falsa.

Sono dodici gli imputati del processo Cucchi. I sei medici dell'ospedale Sandro Pertini: Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo, Rosita Caponetti e Flaminia Bruno. I tre infermieri: Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe. I tre agenti di Polizia penitenziaria: Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.

Evelina Canale, presiede il processo in Corte d'Assise sulla morte di Stefano Cucchi che si conclude con la condanna per omicidio colposo di sei medici. Infermieri e agenti della polizia penitenziaria vengono assolti "per non aver commesso il fatto". Tutte le pene sono sospese. Alla lettura della sentenza scoppia la rabbia dei familiari. Nelle 188 pagine di motivazioni della sentenza, i giudici mostrano di aver fatto proprie le motivazioni sulla morte di Cucchi date dai periti nominati dalla Corte. Stefano sarebbe morto per sindrome da inanizione - ovvero per una grave carenza di alimenti e liquidi - e non per un arresto cardiaco seguito a maltrattamenti. La colpa dunque, secondo la sentenza, è da individuare nell'imperizia dei medici e in una loro diagnosi scorretta.

Vincenzo Barba, pubblico ministero dell'accusa nel processo di primo grado per la morte di Stefano Cucchi. Insieme alla collega Francesca Loy aveva chiesto la condanna di tutti gli imputati.

Francesca Loy, pubblico ministero dell'accusa nel processo per la morte di Stefano Cucchi.

Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi. Aveva già seguito anche casi analoghi a quelli del giovane romano, come quello di Giuseppe Uva e Federico Aldrovandi.

Paolo Arbarello (al centro), ex direttore del dipartimento di medicina legale della Sapienza. Accusato da Ilaria Cucchi di aver redatto per i pm una falsa perizia sulla morte del fratello, Arbarello annuncia di vole procedere contro di lei per diffamazione. "Così va a finire che noi familiari saremo gli unici a essere condannato per la morte di mio fratello" commenta Ilaria Cucchi. Nel frattempo la procura di Roma ha aperto su di lui un fascicolo, senza ipotesi di reato ne' indagati.

La sentenza d'appello del 31 ottobre 2015 riforma l'esito del processo di primo grado: gli imputati vengono tutti assolti. Scoppia la polemica: la morte di Stefano sembra non aver colpevoli. A tre giorni dalla sentenza, però, interviene la il procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. "Non è accettabile dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico - afferma il procuratore romano - che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato". "Sensibilizzeremo tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce su questo caso che colpisce in maniera così forte". Si è espresso in questo modo Pietro Grasso, presidente del Senato, incontrando a palazzo Madama la famiglia Cucchi. "Non si può assolutamente tollerare che chi è in custodia di organismi dello Stato possa vedere annientata la propria vita" ha commentato Grasso.

L’altro volto della violenza italiana: il film di Stefano Cucchi. Un film già visto. E' una storia fotocopiata da tante altre, che incrocia la vita di chi subisce in prima persona, sul proprio corpo, sulla propria anima, la condizione violenta di sottomissione fisica e psicologica, scrive il 14 ottobre 2016 Elisa Bellino su “Ultima Voce”. Una storia vera, leggiamo nei titoli di testa.  Ancora una storia che ci racconta una violenza celata. E noi non stentiamo a crederci. Sto parlando di “Changeling”, un thriller americano siglato dallo spettacolare Clint Eastwood, datato 2008. La verità è quella che Christine Collins, una bellissima quanto castissima Angelina Jolie, sa di possedere in pugno come in cuore, quella che soltanto una madre, in tali circostanze, fuori dall’ordinario, può avere. (O forse una sorella?) In “Changeling”, con ribaltamenti e colpi di scena destabilizzanti ma sempre ben calibrati, esploriamo torti, ragioni, che catturano a tutto tondo infangamenti e menefreghismi delle istituzioni pubbliche; le quali, al posto di proteggere l’incolumità e la vita del cittadino, si preoccupano di gettare valanghe di sterco sulla vittima, pur di mantenere immacolata la loro putrida coscienza. E un dannato distintivo impolverato. Dove abbiamo già sentito questa storia? Il reparto tecnico contribuisce a rendere ineccepibile la ricostruzione storica della pellicola. Ci troviamo nella Los Angeles degli anni 20; ma i richiami al giorno d’oggi sono evidenti già dal primo minuto di visione. Assistiamo ad uno sgretolamento della vita di un essere umano per mano di un corpo di polizia corrotto fino al midollo, che punta il dito in maniera unidirezionale, lavorando unicamente tenendo ben saldi i propri scopi e le “legittime” esigenze. L’era del proibizionismo è dipinta attraverso toni cupi, le musiche sfumano in una malinconia sospesa, che ci accompagna per tutta la durata del film. Ma io non provo malinconia, affatto. Il mondo d’oggi ripercorre i binari del passato, sostituendo i toni grigi con colori sgargianti, finti, meccanici, tipici di un palazzo scrostato, lurido, infetto da quei milioni di batteri, peculiari della cultura di massa e della sua euforia consumistica. Via libera alla finzione plastica e un poco guasta della società dell’immagine, alla strumentalizzazione femminile che profuma di Chanel n5 e quel giusto pizzico di violenza psicologica, che c’è, ma non si vede. Oggetti in serie, palazzi altissimi e senza finestre, mostre in ricordo di Andy Wahrol, e violenza, violenza, e ancora, ripetutamente, violenza. Clint Eastwood carica il film di una costante tensione che, come un virus, infetta ogni fotogramma; rende insostenibile l’idea che il male possa diffondersi anche in una vecchia casa di periferia, così come a Milano, passando da Piazza Alimonda, da Bolzaneto e dalla scuola di Diaz, da Ferrara, e da tante altre strade, piazze, piazzali. (Stiamo ancora parlando di “Changeling”?) Succede sempre, se incontri la divisa sbagliata. Non c’è fastidio ma un’impotente indignazione, che inizialmente lascia aperta una fioca fiammella di speranza, la quale si trasforma in breve tempo nella profonda solitudine, di fronte a chi ti sta privando di ogni possibilità di resistenza. Dove abbiamo già sentito questa storia? Nel profondo disagio provato nel realizzare di aver visto un film già visto. Nell’infinito fastidio che arde nel profondo, nel momento in cui mi accorgo che già conosco il finale, e la trama, seppur di ammirevole narrazione, non mi lascia interdetta. (Stiamo ancora parlando di “Changeling”?) No, non stento affatto a credere a quell’incredibile storia. Avete capito bene. Il dolore che annienta ogni difesa e resistenza, una sofferenza che penetra nel profondo del cuore, per invadere la mente, non può che essere quella provocata dalla perdita di una persona cara. Ma ora lo sappiamo. Sappiamo che esiste al mondo un dolore ancora più forte, vigliacco, sporco; che ti sputa in faccia, ti sega le gambe, calpestandoti l’anima. E’ il dolore causato dal fango, da mille menzogne spietate, sputate su un corpo freddo ed inerme. Anche dopo la morte. Quando la morte non è una conseguenza della vita, ma dovuta a cause non certamente naturali, allora si, il dolore diventa insostenibile, come un macigno che ti blocca il respiro, e si scaglia ancora una volta su chi, purtroppo, non può più difendersi. Dove abbiamo già sentito questa storia? Avete capito bene, stiamo parlando, ancora una volta, di Stefano Cucchi. Una storia amara, vergognosa, inaccettabile. Una bella favoletta, dove per coprire una gigantesca macchia di sangue le istituzioni stesse hanno gettato vagonate di fango, fin dal primo momento, senza alcuna vergogna. E’ la storia di un Paese, il nostro, che di strada ne deve ancora fare parecchia per considerarsi davvero CIVILE. E’ una storia fotocopiata da tante altre, che incrocia la vita di chi subisce in prima persona, sul proprio corpo, sulla propria anima, la condizione violenta di sottomissione fisica e psicologica. Solitudine ed impotenza. Violenza, sottomissione e tortura. Tanti i nomi che, come quello di Stefano Cucchi, sono incisi in una lapide di pietra, vittime di vergognosi occultamenti che insultano ancora una volta la verità. Una verità soffocata dalla plastificata finzione, dalla moda e dall’abitudine di fingerci ciò che non siamo. E ad insultarla abusano del ruolo istituzionale che ricoprono. Benvenuti nell’epoca delle commedie e dei commedianti, burattini e burattinai, protagonisti indiscussi di questo fantomatico teatrino dell’assurdo. Una festa in maschera folleggiante, dove proliferano bugie, menzogne e plastica bruciata. Abbasserò un pochino la maschera, solo per voi, per potervi offrire il mio sguardo, nel momento in cui vi accompagno nella foresta più fitta e pericolosa di questa società, dominata dall’amore sporco. Benvenuti nell’età dell’invasamento e della fissazione, dove istituzioni, istruzione, ceto sociale, non bastano più ad immunizzare dall’ossessione e dal senso malato di possesso, che riposa alla base della violenza di genere. L’ossessione non guarda negli occhi nessuno. Il male alberga nei luoghi più infimi e profondi del genere umano, fin da quando ne abbiamo memoria. Benvenuti nel Medioevo, dove l’essere umano paga costantemente il prezzo di una crisi senza precedenti, un vortice nero che fagocita ogni speranza di redenzione. Una continua violenza, che circola nel nostro liquido organico, come linfa vitale. E’ una storia aspra, sporca, difficile da assimilare, quella di Stefano Cucchi. La storia di tutti quegli esseri umani che sono entrati con le loro gambe in una casa delle istituzioni italiane, per uscirne in una cassa di mogano. Esistono cose, nel mondo, che non si possono sfiorare con mano, che vivono nell’ombra dei nostri raggi solari; ma bruciano ugualmente. Grida soffocate, occultate, macchiate, abbandonate all’oblio e allo sconforto più totale. Ignorate da quelle istituzioni che, per mantenere immacolata la loro putrida coscienza, alzano il volume della radio. La tortura rappresenta la perfidia dell’umanità; una vergogna tutta italiana, un reato che è un miraggio da oltre 30 anni. Un divieto assoluto sancito nella convenzione delle Nazioni Unite nel 1984, che ancora riposa, nelle luride coscienze del nostro governo. Benvenuti nell’epoca delle commedie e dei commedianti, burattini e burattinai, protagonisti indiscussi di questo fantomatico teatrino dell’assurdo. Una festa in maschera folleggiante, dove proliferano bugie, menzogne e plastica bruciata. Ancora una volta una verità è stata soffocata dalla plastica finzione. "Se prima lo avevo solo intuito adesso so quanto sia diverso e più difficile trovarsi ad affrontare processi contro i carabinieri piuttosto che contro chiunque altro. Oggi nonostante sia stato riconosciuto il violentissimo pestaggio, le gravi lesioni subite da Stefano e le multiple fratture alla colonna vertebrale, i sindacati di polizia intervengono per l'ennesima volta su terreni che non competono loro e ci dicono di chiedere scusa. Vi chiediamo quindi scusa, se siamo morti tutti nelle vostre putride mani”. (cit. Ilaria Cucchi) Elisa Bellino

Ecco perché hanno massacrato Cucchi. L'ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. L'intervista alla sorella di Stefano. Che racconta: «I carabinieri quella sera prima di andare via con mio fratello in manette dissero a nostra madre: 'Signora non si preoccupi, per così poco domani suo figlio sarà a casa. Invece non lo vide mai più. Sei giorni dopo era sul tavolo dell'obitorio per l'autopsia». Doveva essere una “brillante operazione antidroga”. Ma la coca non venne trovata.  Di qui le botte. L’ipotesi su cui lavora la procura di Roma, scrive Giovanni Tizian il 17 ottobre 2016 su "L'Espresso". Nel caso Cucchi due sole sono le cose certe: i segni del pestaggio e la morte. Tutto il resto è stato avvelenato da bugie, depistaggi, verità di comodo. Tuttavia, tra le carte e le testimonianze finora raccolte dagli inquirenti, concentrati sull’inchiesta bis sulla morte del ragazzo, c’è qualche indizio sulla genesi di quella violenza e in particolare sulla condotta dei carabinieri che hanno avuto in custodia Stefano la sera dell’arresto. La procura della Capitale indaga infatti su cinque militari dell’Arma e ha raccolto testimonianze decisive per delineare il contesto in cui è maturata la violenza. Il pestaggio più grave, infatti, andrebbe collocato subito dopo la perquisizione, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. E il movente, peraltro suggerito già nella sentenza di primo grado, è da rintracciarsi nella delusione per un’operazione non riuscita, con i carabinieri “infastiditi” dall’atteggiamento del giovane poco collaborativo. L’ipotesi probabile insomma è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. È questo lo scenario che emerge dalle informative in mano ai pm che da più di un anno lavorano alla nuova indagine. E che gli stessi magistrati hanno tentato di approfondire durante gli interrogatori. Una dinamica di questo tipo spiegherebbe anche perché non è mai stato fatto il fotosegnalamento, obbligatorio in caso di arresto. Foto e impronte mancanti, per nascondere i segni sul volto del ragazzo, già picchiato. Altro tassello mancante in una storia torbida di giustizia negata, dove persino una perizia, l’ultima, sul corpo di Cucchi genera ulteriori polemiche sulla probabile causa di morte. Un esercizio di equilibrismo compiuto dai periti, in cui riconoscono le fratture delle vertebre, ma sostengono che Stefano potrebbe essere morto di epilessia. L'ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. L'intervista alla sorella di Stefano. Che racconta: «I carabinieri quella sera prima di andare via con mio fratello in manette dissero a nostra madre: 'Signora non si preoccupi, per così poco domani suo figlio sarà a casa. Invece non lo vide mai più. Sei giorni dopo era sul tavolo dell'obitorio per l'autopsia». Il movente, dicevamo. Tracce del lavoro di ricostruzione dei pm ricorrono nel verbale dell’interrogatorio di un testimone chiave, l’appuntato Riccardo Casamassima. Sarà lui ad accusare Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza), all’epoca comandante della stazione Appia, quella da cui partirono i militari per arrestare Cucchi. Mandolini sapeva, sostiene il teste. Tanto da confessargli: «È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato». E Casamassima, nel verbale del 30 giugno 2015, si spinge oltre: «Sembrerebbe una cosa preparata prima, cioè che i carabinieri sapevano che Cucchi aveva un quantitativo importante e lo cercavano a casa dei genitori, non trovando nulla per estorcergli hanno cominciato a menarlo». Il procuratore Giuseppe Pignatone commenta: «Che è andata oltre...». Gli inquirenti insistono, gli chiedono di spiegarsi meglio: «Dottore è inusuale, quando io faccio più di un arresto durante l’anno per me diventa una cosa di routine, invece gente che non è abituata a fare questo tipo di attività si sono esaltati e può essere scattato qualcosa nella loro testa». Infine, prima di chiudere il colloquio con il pm Giovanni Musarò, Casamassima aggiunge: «Il pestaggio di Cucchi era finalizzato a farsi dire dove era custodita la droga che i colleghi pensavano di trovare all’interno dell’abitazione». Dichiarazioni che potrebbero diradare la nebbia di silenzi che avvolge il mistero della morte di Cucchi. E in effetti la droga Stefano ce l’aveva, ma non a casa dei genitori. La custodiva nell’appartamento a Morena. Un quantitativo importante, acquistato da poco. A consegnare i 900 grammi e passa di hashish e un etto di cocaina alla magistratura saranno i genitori del geometra romano venti giorni dopo la sua morte. Dopo, cioè, essere stati nell’abitazione per recuperare gli effetti personali del figlio. Che qualche anomalia ci sia stata nell’operazione Cucchi, lo rivelano anche le contraddizioni nelle deposizioni dei carabinieri al centro dell’inchiesta della procura capitolina. Pubblicamente escludono che l’arresto sia stato propiziato da confidenti. Privatamente, così emerge dai dialoghi intercettati, questa possibilità invece emerge. Per esempio, Roberto Mandolini racconta di un esposto dei genitori delle scuole Appio Claudio in cui segnalavano un «giovanotto magro col cane che spacciava». Dice anche, Mandolini, che grazie a Cucchi, in passato, avevano fatto altri arresti fornendogli nomi di altri pusher. L’ex comandante fu sentito quale testimone nel primo processo. E sotto giuramento raccontò la sua versione: «C’era un clima particolarmente disteso e l’arrestato era persona tranquilla e spiritosa». Tale idillio però è, secondo gli investigatori, in palese contrasto con quanto davvero accadde nei momenti successivi al fermo di Cucchi. Il carabiniere scelto Stefano Mollica, in servizio alla stazione Casilina - dove Stefano Cucchi avrebbe dovuto fare il fotosegnalamento come da prassi - dice tutt’altro. Mollica è uno dei due militari incaricati di accompagnare Cucchi dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso la notte in cella, al tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Ai giudici ha raccontato, ma lo ha ribadito di recente davanti ai pm di Roma, che «il rossore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia... camminava a fatica, era claudicante, stava malissimo era molto sofferente». Dice, poi, che giunti al tribunale di piazzale Clodio, incontrano il collega Stefano Tedesco, uno degli autori dell’arresto e ora indagato nell’inchiesta bis. Tedesco si è lasciato sfuggire un particolare - sostiene un altro appuntato quel giorno in compagnia di Mollica - cioè che Cucchi «era stato poco collaborativo al momento del fotosegnalamento». E sempre il collega di Mollica ha aggiunto: «Era evidente che aveva subito un pestaggio». Il fotosegnalamento, come si diceva, non verrà mai eseguito: eppure nel verbale di arresto si legge «identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici». Perché Cucchi non viene fotografato? Nessuno risponde a questa domanda. Ma una delle ipotesi più probabili, al vaglio anche dei magistrati, è che Stefano era già stato picchiato violentemente. Per questo sarebbe stato meglio evitare foto che potevano diventare prove. L’ipotesi che il movente del pestaggio sia da ricercare nella delusione dei militari per non aver trovato la grande quantità di droga che si aspettavano ha anche un sostegno giudiziario nella prima sentenza emessa sulla morte di Cucchi, quella che ha assolto gli agenti penitenziari. I giudici della Corte d’Assise sono stati infatti i primi a ipotizzare, seppur quasi di passaggio, che «il Cucchi sia stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa - l’operazione dell’arresto era stata propiziata da una fonte confidenziale - mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente egli abitava». Ed è seguendo questo filo rosso che ora si stanno muovendo gli inquirenti che hanno messo sotto indagine i carabinieri. Insomma, ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare. Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. È in quelle ore che matura la fine di Cucchi. Sono passate da poco le 23, in via Lemonia, periferia sudest di Roma. Stefano è arrivato da poco, ha appuntamento con Emanuele Mancini. Qui viene fermato mentre gli cede, per 20 euro, un pezzo di hashish. Il verbale di arresto racconta di 20 grammi di fumo sequestrati, due dosi di cocaina e 2 pasticche di ecstasy. In realtà queste ultime non sono pasticche di droga, ma Rivotril per la cura dell’epilessia. A quel punto gli agenti, su ordine del loro superiore maresciallo Roberto Mandolini, procedono alla perquisizione dell’abitazione dei genitori di Stefano, il cui indirizzo è segnato sul documento di identità del ragazzo. Lì sono convinti di trovare il resto della droga. Che, invece, non troveranno. Ciò che accadrà dopo è un intricato castello di ipotesi e sospetti. L’unica certezza, da quel momento in poi, è che Cucchi viene picchiato. Lo dicono i giudici, lo confermano almeno quattro carabinieri, lo dice anche l’ultima perizia tanto contestata che parla dell’epilessia. Già, la perizia firmata Francesco Introna: frutto di dieci mesi di lavoro e che trascina dietro di sé non poche polemiche. Il legale della famiglia Cucchi aveva chiesto persino l’incompatibilità del professor Introna per la sua passata appartenenza alla massoneria. Alla fine però la “fratellanza” di Introna è stata considerata un’affiliazione datata e ormai non più significativa. Superato questo ostacolo, il lavoro dei periti è proseguito e due settimane fa hanno consegnato i risultati: nessuna causa certa ma due ipotesi, una considerata più probabile dell’altra. La prima: l’epilessia, che gli stessi professori del collegio peritale però definiscono «non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata solo da rilievi clinico-scientifici»; la seconda: la frattura delle vertebra S4, «comunque indotta che avrebbe provocato l’insorgenza della vescica neurogenica», cioè di una disfunzione dell’apparato urinario. E proprio questo punto che la difesa della famiglia Cucchi utilizzerà nelle prossime fasi. A partire dalla prossima udienza di incidente probatorio, il 18 ottobre. Mai nessuna perizia prima, infatti, aveva certificato la frattura che avrebbe poi compromesso la vita di Stefano. L’avvocato Fabio Anselmo ha da tempo chiamato a collaborare il professore Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza, lo stesso che ha svolto l’autopsia, per conto dei magistrati, sul corpo di Giulio Regeni. E che già un anno dopo la morte di Stefano aveva prodotto un’analisi secondo cui Cucchi è morto «per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute». In pratica le fratture avrebbero innescato quel processo che poi ha portato al decesso del giovane romano. E quelle stesse fratture potrebbero essere state causate dalle botte prese da Cucchi perché i carabinieri non avevano trovato la droga che si aspettavano. «Mio fratello non è morto di epilessia, era in ospedale per le botte ricevute», riflette la sorella Ilaria. Poi fa una pausa, fissa il cartello con scritto via Lemonia: «Era nelle mani dello Stato, al sicuro, invece è stato massacrato».

Epilessia, droghe, stress: "Ora ci diranno che Stefano è morto di tumore". Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, commenta a Today le motivazioni della sentenza che ha assolto i cinque medici del Pertini: "Si basa su una perizia che si è rivelata nulla". La sorella Ilaria: "Amareggiata e indignata, questo non è un processo normale", scrive Antonio Piccirilli il 7 ottobre 2016 su "Today". "Cosa ci aspettiamo? Non lo so, magari che qualcuno dichiari che Stefano è morto per un tumore". Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi, è sarcastico ma non nasconde che il momento è delicato. Dopo i risultati della nuova perizia disposta dal Gip - secondo cui la causa di morte più attendibile è un attacco epilettico - oggi sono state rese note le motivazioni della sentenza che ha assolto da ogni accusa i cinque medici imputati per omicidio colposo: il primario Aldo Fierro, e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. La morte di Stefano Cucchi, scrivono i giudici d’appello, "è dipesa da una grave alterazione dei processi metabolici, causata da un'insufficiente alimentazione e idratazione già iniziata prima dell'arresto, alla quale devono aggiungersi le numerose patologie" da cui Stefano era affetto: epilessia, tossicodipendenza e, non ultimo, lo stress dovuto ai dolori causati dalle lesioni lombo-sacrali, che ne avevano determinato il ricovero presso la struttura protetta dell'Ospedale Sandro Pertini. Per i giudici i camici bianchi "hanno colposamente omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione" ma "appare logicamente poco probabile che Cucchi si sarebbe salvato". Insomma la Corte ritiene "che Cucchi, durante la permanenza presso la predetta struttura non ha mangiato e bevuto a sufficienza". Quanto alle spiegazioni alternative sulla causa di morte, fornite dai consulenti di parte, queste "hanno il limite di avere analizzato in modo frammentario le evenienze fattuali, dando rilevanza a singoli segni e non valutando in modo complessivo la sintomatologia. Non è escluso "come rilevato dai periti, che la causa ultima della morte sia rinvenibile nell'instaurarsi di processi neurologici, ma legati al deterioramento cellulare, determinato dalla sindrome da inanizione". Motivazioni che lasciano l'amaro in bocca alla famiglia Cucchi: "Come sorella di Stefano e come cittadina sono indignata e amareggiata per un processo che normale non è. Mi rivolgo al presidente di Anm e al Csm - dice Ilaria Cucchi - per sapere se considerano fisiologico l’andamento processuale sulla morte di Stefano". Più cauto il legale della famiglia che raggiunto da Today.it dà un doppia lettura delle tesi dei magistrati: "Voglio esaminare bene le carte, ma da una prima lettura mi sembra che venga riconosciuto un collegamento tra i dolori per le fratture vertebrali, e dunque il pestaggio, e la morte stessa". "Quello che non condividiamo - prosegue Anselmo - è la decisione di sposare in materia acritica le motivazioni di una perizia che si è rivelata nulla". La perizia, appunto.  Solo tre giorni fa la nuova perizia disposta dal giudice di Roma, nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte di Cucchi, aveva ipotizzato che l’epilessia fosse l’ipotesi più attendibile per il decesso. Ma il documento redatto dal perito Francesco Introna aveva individuato anche un’altra ipotesi riconoscendo "il ruolo del globo vescicale" provocato dalle fratture come possibile causa della morte. Nelle conclusioni il perito riconosce la prima ipotesi come la più probabile, benché "priva di riscontri oggettivi". Una circostanza che ha spinto Ilaria Cucchi ad affermare, sull’Espresso, che i periti riconoscono i danni delle fratture ma poi si tirano indietro "per il timore delle conseguenze politiche". Ciò nonostante la stessa Cucchi si dice convinta che "con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale". Ma su questo punto il legale non si sbilancia: "Ieri abbiamo avuto un lungo colloquio con la Procura. Posso solo dire che siamo fiduciosi e soddisfatti". Il caso Cucchi finisce sui social network: su Twitter è stato lanciato un hashtag, #sonoStatoio - con cui si accusa lo Stato di non aver trovato i colpevoli della morte del giovane geometra 32enne avvenuta nel 2009 nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini, una settimana dopo il suo arresto per possesso di droga.

Cucchi bis, i periti: «Morto per epilessia nessun nesso con le lesioni». Nella nuova perizia non ci sarebbero legami tra il pestaggio attribuito ai carabinieri e il decesso del geometra. La sorella Ilaria: «Ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale», scrive Giovanni Bianconi il 4 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". La morte di Stefano Cucchi resta un mistero anche per i nuovi periti ai quali aveva chiesto lumi il giudice delle indagini preliminari. Nessuna causa certa, ma due ipotesi «entrambi possibili»; una dotata di «maggiore forza e attendibilità» dell’altra, ma entrambe plausibili. La prima, quella considerata più probabile, è legata all’epilessia di un soggetto che ne soffriva da anni e prendeva farmaci appositi, favorita dalla «tossicodipendenza di vecchia data» e dalla mancanza di alimentazione degli ultimi giorni; di qui «la morte improvvisa e inaspettata». La seconda «è correlata con la recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale», che possono aver determinato successive complicazioni alla vescica e, attraverso diversi passaggi, a una «aritmia mortale». A una lettura da «profani» significa che potrebbe esserci un legame con il pestaggio subito dal trentunenne romano dopo l’arresto, da cui sarebbe derivata la «recente frattura» citata dai medici. I quali però, nelle ultime quattro righe del referto lungo 205 pagine, precisano che «per entrambe le ipotesi prospettate, le lesioni contusive comunque riportate dal signor Stefano Cucchi dopo il 15.10.2009 (giorno dell’arresto, ndr) non possano essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente, anche in modo non esclusivo, con l’evento morte». È l’ennesimo enigma di una vicenda che tra pochi giorni compirà sette anni, ha già visto processati e assolti agenti penitenziari, medici e infermieri, e ora è sfociata nell’indagine a carico di cinque carabinieri (tre accusati per le percosse, due di falsa testimonianza) che la sera del 15 ottobre 2009 portarono Cucchi in una caserma dell’Arma, poi in un’altra, fino al trasferimento in tribunale la mattina successiva; da lì il ragazzo passò al carcere di Regina Coeli, poi in un ospedale, di nuovo in prigione, quindi al reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini dove si spense il 22 ottobre. Un risultato così vago e apparentemente contraddittorio, fondato su incertezze e probabilità, accontenta paradossalmente tutti i protagonisti. Il difensore di uno dei carabinieri inquisiti, l’avvocato Eugenio Pini, annuncia la richiesta di archiviazione, mentre Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commenta: «Ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale». La Procura al momento non si pronuncia, l’atto consegnato ieri andrà studiato a fondo in vista dell’interrogatorio dei periti già fissato per il prossimo 18 ottobre. Dalle conclusioni che ne trarrà il pm Giovanni Musarò, che con il procuratore Giuseppe Pignatone quasi due anni fa avviò l’inchiesta-bis sui militari dell’Arma, dipenderà la decisione sul capo d’imputazione da contestare. Se rimanesse in piedi l’attuale accusa di lesioni si andrebbe incontro a una inesorabile prescrizione, nel 2017. Se invece si arrivasse all’omicidio preterintenzionale (come reclamano i familiari di Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che li assiste, il quale aveva vivacemente contestato la composizione del collegio dei periti), o alle lesioni gravissime, ci sarebbe il tempo di celebrare l’eventuale processo. Le nuove, incerte conclusioni a cui sono giunti i medici, al momento non escludono alcuna ipotesi. Nell’attesa di sceglierne una, per la Procura i punti fermi restano il «violentissimo pestaggio» subito da Cucchi «da parte dei carabinieri della stazione Appia», e la successiva «strategia, scientificamente orchestrata, finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili». Svelata da un’indagine svolta con tecniche antimafia, fatta di intercettazioni telefoniche e ambientali, deposizioni, stratagemmi per smascherare bugie e occultamento di prove; come l’elenco degli arrestati sottoposti al fotosegnalamento, dove il nome di Cucchi fu maldestramente cancellato.

Cucchi, i periti: "Morte improvvisa per epilessia". Ilaria: "Decesso causato dalle fratture". Per gli esperti nominati dal gip questa è la causa più attendibile, ma "non è possibile formulare certezze". La sorella su Fb contesta la perizia Introna: "Tenta di scrivere la sentenza finale, ma ora abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale. Con buona pace di medici e infermieri che vengono continuamente assolti", scrive il 4 ottobre 2016 "La Repubblica". Quella di Stefano Cucchi fu una "morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici". E' l'ipotesi "dotata di maggiore forza ed attendibilità" adottata dai periti nominati dal gip Elvira Tamburelli nell'ambito dell'inchiesta bis avviata per accertare la natura, l'entità e l'effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 una settimana dopo il suo arresto per droga. Dunque, secondo i tecnici, non ci sarebbe un nesso tra il violento pestaggio cui è stato sottoposto Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia che lo fermarono per droga e il decesso avvenuto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. La sorella: "Morte causata da fratture". "Queste sono le conclusioni della perizia Introna - scrive Ilaria Cucchi su Facebook in un post intitolato "Avremo un processo per omicidio" - Il perito Introna tenta di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello. Riconosce 'bontà sua' la frattura di L3 da noi per sette anni sostenuta e riconosciuta dai pm, poi alza una cortina di fumo dicendo che è impossibile determinare con certezza una causa di morte di Stefano. Il collegio peritale poi si avventura a formulare due ipotesi di morte. La prima, per epilessia, che se in un primo momento viene ritenuta forse più probabile, nelle conclusioni la definisce 'priva di riscontri oggettivi'". Le fratture e il globo vescicale "sono la causa di morte da noi sempre sostenuta in questi anni, che a differenza dell'epilessia ha elementi oggettivi e riscontrati dagli stessi periti". E aggiunge Ilaria Cucchi: "Gli unici dati oggettivi scientifici che la perizia riporta sono il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore. Con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale. Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti". I nuovi accertamenti sono stati fatti nell'ambito dell'incidente probatorio (atto che assume valore di prova in caso di processo) disposto alla luce dell'inchiesta bis avviata dalla Procura di Roma che ha indagato cinque carabinieri, tre per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità e due per falsa testimonianza. "Le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009 non possono essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente anche in modo non esclusivo, con l'evento morte", hanno sottolineato i quattro esperti tecnici nominati dal giudice. L'atto istruttorio (che si compone di 250 pagine) è stato depositato oggi. Il collegio di esperti è composto dai professori Francesco Introna (Istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari) e Franco Dammacco (Clinico medico emerito dell'Università di Bari), e dai dottori Cosma Andreula (neuroradiologo Anthea Hospital di Bari) e Vincenzo D'Angelo (neurochirurgo della Casa 'Sollievo della sofferenza' di San Giovanni Rotondo). L'inchiesta bis sulla morte di Cucchi vede indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità), Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, e il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm). A giugno furono assolti i medici dell'ospedale Pertini di Roma dove era ricoverato Stefano Cucchi. Benché, in base alla ricostruzione dei fatti, i dati raccolti "non consentono di formulare certezze sulla(e) causa(e) di morte", per i periti guidati dal professor Introna, due sarebbero le ipotesi prospettabili: una riconducibile all'epilessia e l'altra alla frattura alla vertebra sacrale. La prima, per i periti più attendibile, "è rappresentata da una morte improvvisa ed inaspettata per epilessia" per la quale "la tossicodipendenza di vecchia data può aver svolto un ruolo causale favorente per le interferenze con gli stessi farmaci antiepilettici", i periti hanno attribuito analoga "concausa favorente" anche alla "condizione di severa inanizione" (l'indebolimento dell'organismo per carenza di alimentazione ndr), in cui versava Cucchi. Gli esperti hanno anche preso in esame l'ipotesi che la morte del ragazzo sia legata "alla recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale". Un'ipotesi "possibile" - hanno detto i periti - ma da ritenere comunque meno attendibile di quella connessa all'epilessia "dotata di maggiore forza ed attendibilità". L'avvocato di uno dei carabinieri. "Premesso l'estraneità del mio assistito e degli altri appartenenti all'Arma alle lesioni che Stefano Cucchi aveva e delle quali s'ignorano le cause, quanto da noi sostenuto in sede d'incidente probatorio è stato confortato e confermato alla perizia disposta dal gip", è quanto ha dichiarato l'avvocato Eugenio Pini, legale di uno dei carabinieri indagati. L'effetto - conclude l'avvocato Pini - "è che chiederemo all'Ufficio di procura l'archiviazione del procedimento nei confronti dei carabinieri".

Caso Cucchi, perizia gip: "Morte improvvisa per epilessia". Per i periti nominati dal gip la morte di Stefano Cucchi è stata "improvvisa e inaspettata per epilessia, in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci antiepilettici", scrive Raffaello Binelli, Martedì 4/10/2016, su "Il Giornale". Nuovo capitolo del caso "Stefano Cucchi". Secondo i periti nominati dal gip Elvira Tamburelli nell’ambito dell’incidente probatorio, il giovane sarebbe morto "improvvisamente" alla luce del suo precario stato di salute. Il decesso, avvenuto all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, sei giorni dopo il suo arresto per droga, secondo i periti "è stata una morte improvvisa e inaspettata per epilessia, in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci antiepilettici". Questa sulla causa della morte è l’ipotesi ritenuta dai periti "dotata di maggiore forza e attendibilità", considerate "la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni" da Cucchi. Non vi sarebbe, dunque, alcun nesso tra il violento pestaggio cui fu sottoposto Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 da parte dei carabinieri che lo fermarono per droga e il decesso avvenuto sei giorni dopo. L’incidente probatorio (atto che assume valore di prova in caso di processo) è stato disposto alla luce dell’inchiesta bis avviata dalla Procura di Roma che ha indagato cinque carabinieri, tre per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità e due per falsa testimonianza. "Le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009 - si legge nella perizia - non possono essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente anche in modo non esclusivo, con l’evento morte". Le conclusioni, redatte dai medici Francesco Introna, Franco Dammacco, Cosma Andreula e Vincenzo D’Angelo e depositate all’ufficio del gip, saranno discusse nell’udienza del 18 ottobre tra tutte le parti, compreso il consulente nominato dalla famiglia Cucchi. Ilaria Cucchi: "Avremo un processo per omicidio". "Queste sono le conclusioni della Perizia Introna - scrive su facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano -. Il perito Introna tenta di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello. Riconosce - bontà sua - la frattura di L3 da noi per sette anni sostenuta e riconosciuta dai pm, poi alza una cortina di fumo dicendo che è impossibile determinare con certezza una causa di morte di Stefano. Il collegio peritale poi si avventura a formulare due ipotesi di morte. La prima, per epilessia, che se in un primo momento viene ritenuta forse più probabile, nelle conclusioni la definisce priva di riscontri oggettivi. La seconda - prosegue Ilaria Cucchi - dopo aver riconosciuto tutte le evidenze cliniche da sempre dai nostri medici legali evidenziate, riconosce il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture. A pagina 195 descrive compiutamente un’intensa stimolazione vagale produce brachicardia giunzionale, che ovviamente è conseguenza delle fratture, e poi della morte. Il perito Introna infatti poi fa il giurista e dice in buona sostanza che coloro che lo hanno violentemente pestato rompendogli la schiena in più punti non sono responsabili della sua morte per il fatto che il terribile globo vescicale che ha fermato il suo cuore non si sarebbe formato se non ci fosse stata la responsabilità degli infermieri. È questa la causa di morte da noi sempre sostenuta in questi anni, che a differenza dell’epilessia ha elementi oggettivi e riscontrati dagli stessi periti". "Raffreddo gli entusiasmi di coloro che si fanno forza di una presunta morte per epilessia facendo notare che i periti non sono nemmeno d’accordo con loro stessi sull’effettiva assunzione della terapia anti epilettica da parte di Stefano, che sarebbe l’elemento centrale per arrivare, a dir loro, a quella causa di morte. Infatti, mentre a pagina 196 della perizia sostengono che non è verosimile che Cucchi abbia assunto una terapia anti epilettica, a pagina 186 invece avevano scritto che aveva preso le medicine. Faccio comunque notare - prosegue la sorella di Cucchi -che non è il giurista Introna a definire il nesso causale ma saranno i magistrati della procura ed i giudici. È evidente che se Stefano fosse morto di epilessia, come ipotizzato nella perizia, secondo quanto dicono gli stessi periti ciò sarebbe stato possibile in funzione delle condizioni fortemente debilitate dalla sua magrezza e dalle lesioni subite nel pestaggio - continua -. Gli unici dati oggettivi scientifici che la perizia riconosce sono: il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore. Con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità divedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale. Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti".

Caso Cucchi: per i periti è colpa dell'epilessia. I punti deboli della ricostruzione dei periti nominati dal GIP secondo il neurologo Romeo del Centro Regionale dell'Epilessia di Milano, scrive il 4 ottobre 2016 Paolo Papi su Panorama. Dunque, quella di Stefano Cucchi sarebbe, secondo i periti nominati dal tribunale nell'ambito dell'incidente probatorio disposto alla luce dell'inchiesta bis avviata dalla Procura di Roma, «una morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici». Dunque, secondo i quattro tecnici nominati dal GIP, le lesioni riportate da Stefano Cucchi «non possono essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente anche in modo non esclusivo, con l’evento morte». Cucchi potrebbe essere morto, secondo gli esperti del tribunale che pure sostengono che non si possono «formulare certezze sulla causa di morte», a causa di un attacco di epilessia «improvviso e inatteso» che nulla aveva a che vedere con il pestaggio subito. Premetto che non sono né un neurologo e nemmeno un epilettologo, ma, per trascorsi di tipo familiare, ho sufficiente competenza su questa patologia - che tocca circa l'1 della popolazione italiana - per sostenere che c'è qualcosa che non torna nella ricostruzione emersa in queste ore. Un «qualcosa» che -  sia consentito - offende tutte le persone malate, già gravate - nel corso della loro esistenza - da un sentimento di incertezza dovuto alla malattia cui si aggiunge spesso - come emerso anche dal caso recente del dirigente di una scuola pubblica della Brianza che aveva recentemente rifiutato l'iscrizione a scuola di un bambino epilettico -  anche l'altrettanto doloroso rifiuto sociale che ne può derivare.

1) L'epilessia non è una malattia mortale. L'epilessia (anzi: le epilessie) è un disturbo neurologico molto diffuso che di per sé non porta al decesso. «Non si muore di per sé per epilessia» conferma Antonino Romeo, primario del Centro Regionale dell'Epilessia del Fatebenefratelli di Milano. «Tanto più se, in questo caso, come ho letto, Cucchi teneva sotto controllo le crisi grazie ai farmaci che assumeva. Non aveva un pregresso di crisi prolungate». «La morte può sopraggiungere a seguito di un attacco prolungato ma solo in presenza di una eziologia sottostante come l'encefalite. Non se ne fa cenno nella perizia: da quel che capisco questa perizia è gravemente lacunosa e invia un messaggio sbagliato». Secondo il professore il rischio correlato al sopraggiungere di uno stato di male epilettico, ovvero di una crisi che dura oltre trenta minuti senza che alla persona colpita venga somministrato un farmaco di cui sono in possesso tutti gli ospedali italiani, non è quello di morire, bensì quello di provocare gravi danni cerebrali. «Le ripeto: l'epilessia non è una malattia mortale. Ma poi, come medico, mi chiedo: come mai, se ha avuto una crisi mentre era sotto custodia, non sono intervenuti somministrandogli il farmaco?». Qualora Stefano Cucchi fosse davvero andato incontro a uno stato di male epilettico mentre era sotto custodia, o ricoverato in ospedale, soltanto l'imperizia e la sciatteria del personale medico che lo aveva in cura avrebbe potuto trasformare una semplice crisi prolungata in un evento mortale. Si tratterebbe in questo caso di omissione di soccorso. «Ci sono solo due altri casi in cui si può morire a seguito di un attacco» spiega Romeo. «Per annegamento, asfissia o per trauma cranico mentre è in corso una crisi» dice ancora Romeo. «Ma non è l'epilessia in quanto tale che provoca la morte» aggiunge.

2) La crisi epilettica è spesso provocata da eventi esterni traumatici. Secondo i periti non ci sarebbe alcun nesso, «né direttamente né indirettamente», tra la crisi epilettica mortale di Stefano Cucchi e il violento pestaggio che il ragazzo aveva subito dopo l'arresto. Le crisi epilettiche sono provocate, spesso, da eventi traumatici, periodi di stress, privazioni prolungate di sonno. Una delle precauzioni che tutti gli epilettologi consigliano ai loro pazienti è quella di condurre una vita tranquilla, dormendo in abbondanza, evitando inutili ansie. Non suggeriscono di non prendere botte da uomini in divisa soltanto perché si tratta ovviamente di un evento statisticamente improbabile. Negare qualsiasi nesso causale tra il violento pestaggio che aveva subito il ragazzo e la crisi epilettica che, secondo i periti, ne avrebbe provocato la morte, è insomma - in assenza di ulteriori specifiche - una azzardo medico-scientifico che qualsiasi epilettologo degno di questo nome si guarderebbe bene dal pronunciare. 

31 ottobre 2014. Caso Cucchi, nessun colpevole. I giudici: «Prove insufficienti».

Le vittime del reato in giudizio sono rappresentate dallo Stato, con il Pubblico Ministero. Il magistrato requirente, se ha svolto bene le indagini, dirigendo le attività della polizia giudiziaria, porterà le prove a sostegno dell'accusa costringendo anche il magistrato decidente più ostile a decidere secondo forma e sostanza.

Presidente del collegio d'appello, Mario Lucio D'Andria;

Consigliere a latere, Tiziana Gualtieri;

Procuratore Generale, Mario Remus.

La sorella di Stefano comincia a pubblicare gli audio delle udienze sul social network. "Lungi dall'essere una persona sana e sportiva - dice ad esempio il pubblico ministero Francesca Loy durante la requisitoria finale del 1° grado - Cucchi era un tossico da 20 anni". Siamo stanchi degli attacchi e degli insulti alla memoria di Stefano. Abbiamo subìto un processo che si è rivelato un massacro”. Ilaria ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Vi annuncio che da oggi pomeriggio provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo.

«Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto. Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà». Avv. Fabio Anselmo.

Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?

La sorella di Stefano Cucchi commenta l’assoluzione di tutti gli imputati in appello nel processo per la morte del fratello: «Stefano, morto di giustizia».

Dopo la lettura della sentenza legata al caso Stefano Cucchi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, qualcuno, alcune persone hanno reagito così, con il dito medio alzato, contro gli amici e i parenti della famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria, ha definito questi gesti terribili.

Cucchi, il legale della famiglia: "Troppa omertà, sembra un processo di mafia''. "Sembra che ci sia stata una regia che abbia fatto un ping-pong di responsabilità tra carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Alla fine la pallina è uscita dal campo". Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, commenta così la sentenza del processo d'appello sul decesso di Stefano Cucchi. "C'è un clima che assomiglia molto ai processi di mafia - ha aggiunto - 170 persone hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla. Di cosa possiamo parlare se non di omertà?", scrive di Francesco Giovannetti su “La Repubblica”.

Senta, lei dice che è convinto che non siano stati i tre carabinieri che lo hanno arrestato, ma quindi è convinto che siano stati i tre della polizia giudiziaria?

«Noi abbiamo chiesto la loro condanna in primo grado ed abbiamo chiesto la loro condanna in secondo grado e la restituzione degli atti. Noi siamo profondamente convinti che i responsabili siano loro. Oggi ce lo ha confermato lo stesso giudice Minichini. Lo stesso Minichini oggi ha detto oggi una cosa eclatante, nel senso che ha detto “quando lui ha visto Stefano, Stefano aveva solo due ematomi sotto gli occhi e non aveva niente, quando il suo difensore in tutto il processo ha sostenuto che Stefano era già stato pestato dai carabinieri. Ora, il fatto di dire che Stefano non avesse niente, è una grande bugia. E se tu dici questa grande bugia, ti sottrai a qualsiasi esame, interrogatorio dibattimentale. Ti avvali della facoltà di non rispondere e poi usi la dichiarazione spontanea al termine del processo per non essere messo in condizione di giustificare e mi dici questa grande bugia: tu sei responsabile.»

Quante sono le speranze in vista della Cassazione?

«In questo momento è un pronostico che non posso fare. Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Vero, questo hanno ragione i pubblici ministeri. Sembra proprio che ci sia stata una regia ad arte. Vi è stata una sorta di ping pong di responsabilità tra carabinieri ed agenti di polizia penitenziaria ed alla fine la pallina è uscita dal campo. Io credo che un po’ ci si debba forse vergognare. Ribadisco. Non per la sentenza. Non è la sentenza che abbiam voluto. Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?»

Ma con l’esito di questa sentenza sarà sempre confermato il detto “cane non morde cane", "cane non mangia cane"?

«Io, se mi è consentita, l’esito di questa sentenza posso dire che il clima in cui vengono fatti questi processi. Ma non quello di oggi. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto».

Troppa omertà…

«Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà».

Stefano Cucchi, tutti assolti in appello. «Mio figlio è morto ancora una volta». Sono passati cinque anni dall'ottobre in cui il trentunenne, arrestato, morì con il volto e la schiena coperti di lividi all'ospedale Pertini di Roma. La corte in primo grado aveva assolto i poliziotti e condannato per omicidio colposo i medici. Ora sono stati tutti assolti per insufficienza di prove, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Una gigantografia del volto tumefatto di Cucchi esposta durante il processo Tutti assolti. Medici, infermieri e poliziotti. Per insufficienza di prove. Questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma nel processo di secondo grado per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, con il volto, gli occhi e la schiena coperti di lividi, e lesioni ovunque. «Non ci arrenderemo mai finchè non avremo giustizia», hanno commentato i genitori, piangendo: «Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli. Noi vogliamo sapere esattamente chi siano i responsabili». «Per quale motivo sarebbe allora morto Stefano?», ha chiesto il padre, Giovanni: «Mio figlio era sano, non è possibile quello che è successo». «È una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha pianto la madre, Rita Calore: «Lo Stato si è autoassolto. Per lui, unico colpevole sono le quattro mura». Ilaria, la sorella, ha aggiunto, in lacrime: «La giustizia ha ucciso Stefano. Mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l'udienza di convalida del suo arresto per droga, e il giudice non vide che era stato massacrato». «Stefano», ha continuato: «si è spento da solo tra dolori atroci. Di sicuro andrò avanti e non mi farò frenare perché pretendo giustizia. Chi come mio fratello ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita». Il legale di famiglia, Fabio Anselmo, ha già annunciato il ricorso: «Era quello che temevo», ha detto: «Vedremo le motivazioni, e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte». In primo grado i giudici avevano condannato per omicidio colposo i medici e assolto i tre agenti che lo avevano avuto in custodia, scrivendo che Stefano era morto per una «sindrome di inanizione», ovvero per malnutrizione, e che i 5 medici e l'infermiere condannati avevano agito con «imperizia, imprudenza e negligenza». Oggi i giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria, hanno assolto sia i medici (il primario del reparto detenuti del Pertini, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti) che i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, per insufficienza di prove. «Sono veramente felice di questa sentenza», ha commentato uno degli infermieri assolti anche in secondo grado, Giuseppe Flauto: «Sono felice non solo per me, ma anche per i medici del Pertini perché più volte è stato detto di loro che non erano degni di vestire il camice. Oggi c'è stata una giustizia vera; non era giusta la nostra assoluzione senza la loro».

Ilaria Cucchi in lacrime dopo la lettura della sentenza d'appello. «La verità la dicono le foto di mio fratello. È stato massacrato», aveva detto stamattina Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano: «Abbiamo di lui una foto segnaletica e le foto di quando ce l'hanno restituito, cadavere. Le ho guardate e riguardate tante volte. È stato massacrato. Ecco la verità». Il procuratore generale Mario Remus aveva chiesto alla Corte di condannare tutti gli imputati. Due dei poliziotti, Nicola Minichini e Antonio Domenici, avevano chiesto allora di poter fare dichiarazioni spontanee, le prime dopo cinque anni di silenzio. «Siamo innocenti», avevano detto questa mattina. «Dopo 25 anni di servizio», aveva letto Minichini: «riesco a riconoscere i segni dei pugni e posso dire che quei segni sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano più l’impressione di una malattia, che non di pugni». «Sono innocente», aveva continuato il poliziotto: «ho solo avuto la sventura di avere effettuato il servizio in quel momento». «Provo rispetto», aveva concluso: «per la famiglia Cucchi, per il loro dolore. Nessuno potrà mai dire che io abbia avuto un atteggiamento poco educato nei loro confronti in questi anni nonostante le accuse infamanti e le numerose interviste rilasciate. Tutti hanno espresso solidarietà alla loro famiglia ma per noi nessuna parola, solo un uragano di fango». Alle richieste del procuratore si erano aggiunte durante il dibattimento quelle del legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: «Chiediamo che venga annullata la sentenza di primo grado e che vengano restituiti gli atti alla procura: si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale», aveva detto l’avvocato stamattina: «Stefano Cucchi faceva pena perchè aveva la schiena ridotta in quelle condizioni. Il suo ricovero non è avvenuto per magrezza ma per politraumatismo e questo non dimentichiamolo. I periti hanno spiegato che le condizioni di Stefano hanno rallentato il meccanismo di guarigione e allora come si può sostenere che quelle lesioni non abbiano avuto delle conseguenze anticipandone la morte?». «Cucchi», aveva aggiunto: «non era un tossicodipendente come è stato descritto, lo era nel 2003, ma in quei giorni svolgeva una vita del tutto normale come ci hanno riferito alcuni testimoni».

«L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio. Intanto a Roma è stata approvata la mozione del gruppo Sel del Campidoglio per dedicare una piazza o una via della capitale a 'Stefano Cucchi, ragazzo". «Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 per evidenti responsabilità istituzionali durante la custodia cautelare conseguente al fermo di polizia» ha spiegato Gianluca Peciola, capogruppo Sel e primo firmatario della mozione votata: «A cinque anni dalla sua morte l'intitolazione di una piazza o di una via è un importante riconoscimento da parte dell'Assemblea Capitolina alle battaglie della famiglia per la verità e la giustizia». «Quello che è accaduto a Stefano», ha aggiunto Peciola: «non deve succedere mai più. Nel nostro sistema carcerario devono trovare cittadinanza lo Stato di Diritto e il rispetto dei diritti umani. Questo atto serva da monito a quanti nelle nostre Istituzioni continuano a perpetrare la violenza nei confronti delle persone che sono prese in custodia». Ma nemmeno questa battaglia è passata indenne alle polemiche dopo la sentenza d'assoluzione della Corte d'Assise d'Appello di Roma per tutti gli imputati al processo. Il presidente del sindacato di polizia Sap infatti ha chiesto «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l'intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».

Reazioni dal mondo politico e dai sindacati di polizia dopo la sentenza d'Appello, che ha assolto tutti gli imputati. Giovanardi: "Non c'è stato pestaggio. Ma rimangono responsabilità morali: Cucchi morto di fame e di sete", scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. La sentenza è il “fallimento della giustizia italiana”. Ma anche “una vergogna senza precedenti” che consente allo Stato di autoassolversi e fa morire Stefano Cucchi “un’altra volta”. La decisione della Corte d’Appello di Roma, che ha assolto tutti gli imputati del processo, ha profondamente scosso la famiglia della vittima. Ma ha anche suscitato aspre reazioni nel mondo politico. Al contrario, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, esprime “piena soddisfazione” per la decisione della corte. Non solo. Perché in una nota scrive: “In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Il sindacalista rimarca inoltre “il nostro impegno e il nostro sforzo” per introdurre “in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni”. E si augura “un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino”. Sconvolta dalla sentenza, invece, è la famiglia della vittima che assicura: “Andremo avanti”. In lacrime in aula la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria. “Nella sentenza di primo grado non si è detto che Stefano non è stato piccchiato, ma che la giustizia non era in grado di dire chi fosse stato tra gli agenti e i carabinieri – ha detto -. Ora, in appello, mi aspettavo un passo in avanti che non c’è stato. Da semplice cittadina mi chiedo cosa mi devo aspettare dalla giustizia”. Poi aggiunge: “Mio fratello è morto anche per colpa dei magistrati che non lo hanno guardato in faccia. Mio fratello – ha sottolineato – era un ragazzo come gli altri che ha commesso un errore e che, per questo, non doveva pagare con la vita. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia”. Sbalordita anche la madre di Cucchi che parla di “sentenza assurda” e dice: “Mio figlio è morto ancora una volta”. Inoltre, per l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, si tratta “il fallimento della giustizia italiana”. Ma dopo la lettura del dispositivo, dai banchi degli imputati in aula, si sono levate mani che mostravano il dito medio, rivolto a chi stava assistendo all’udienza. Un gesto documentato da una sequenza fotografica sul sito di Repubblica.it. Per Carlo Giovanardi, senatore Ncd che in passato è spesso intervenuto sula vicenda, “per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l’assoluzione, non essendoci stato il pestaggio. Per quanto riguarda i medici ribadisco quello che ho detto fin dall’inizio della vicenda: Stefano Cucchi doveva essere curato e alimentato anche coattivamente, in quanto non in grado di gestirsi a causa delle patologie derivanti dal suo complesso rapporto con il mondo della droga. Se la Corte d’Assise ha escluso responsabilità penali rimangono però le responsabilità morali rispetto ad una persona che è stata lasciata morire di fame e di sete”. Parla invece di “vergogna senza precedenti” e sentenza di “autoassoluzione dello Stato” il leader del Prc, Paolo Ferrero. “Nel corso del procedimento, infatti, si è dimostrata in modo evidente l’esistenza di un sistema violento nei confronti dei detenuti e di un sistema sanitario quanto meno superficiale. E’ surreale che tutti sappiano cos’è successo a Stefano Cucchi, tutti sanno che è stato pestato a sangue e che non gli sono state somministrate le cure adeguate, ma nessuno paga. L’assoluzione di queste persone è autoassoluzione di uno Stato sempre più autoritario. E’ straziante, l’hanno ucciso per la terza volta. Siamo vicini a Ilaria e a tutta la famiglia Cucchi”. “Ingiustizia è fatta” anche per la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni, che su Twitter scrive: “Caso Cucchi: 5 anni passati e 0 responsabili. Ingiustizia è fatta”. Sul fronte Pd, Walter Verini, capogruppo dem in commissione Giustizia – pur precisando che “le sentenze vanno rispettate” – sottolinea che la pronuncia della Corte d’Appello “lascia l’amaro in bocca. In questo momento siamo vicini ai familiari e a tutti coloro che si sono sempre battuti per la verità e la giustizia sulla morte di Stefano.  In questo caso i pesantissimi interrogativi sulla morte di Stefano rimangono tutti interi. Le risposte dovranno arrivare. È lo Stato che le deve esigere”. Commenta la decisione dei giudici anche l’avvocato Gaetano Scalise, che nel processo ha assistito il primario del Sandro Pertini, Aldo Fierro. “Siamo molto soddisfatti del risultato ottenuto – ha detto -. Era quello che aspettavamo come risultato minimo. La Corte ha fatto un buon governo degli insegnamenti della Corte di Cassazione in tema di responsabilità professionale dei medici. Il punto nodale era che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi e questo esclude la responsabilità dei medici”. “Decisione assolutamente equilibrata” per gli avvocati Costantino Marini e Fabrizia Morandi, che hanno assistito il medico Luigi Preite de Marchis, mentre si dice “felice” uno degli imputati, l’infermiere Giuseppe Flauto, già assolto in primo grado. “Sono veramente felice di questa sentenza, non solo per me, perché non avevo dubbi sulla mia innocenza, ma sono felice anche per i medici del Pertini che più volte durante il processo di primo grado si erano sentiti dire che non erano degni di vestire il camice”. Oltre al Sap, interviene anche il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. La sentenza, dichiara il segretario generale Donato Capece, “ci dà ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo che non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella magistratura, perché la polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere – sottolinea Capece – Già nel dicembre 2009, la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora capo del Dap Franco Ionta, sul decesso di Stefano Cucchi, escluse responsabilità da parte del personale di polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del palazzo di Giustizia a Roma”. “Allibita” anche Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ucciso a Ferrara a settembre 2005. Un caso per il quale quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva per omicidio colposo. “E’ difficile trovare qualcosa da dire. Rimango allibita – prosegue -, è incredibile questa sentenza, è come se Stefano fosse morto senza che ci sia nessuna responsabilità”. Del resto, aggiunge Moretti “abbiamo visto tutti le foto, è chiaro che è morto per una causa”. “Sicuramente – conclude la madre di Aldrovandi – la famiglia richiederà degli approfondimenti”. Si dice invece “amareggiato e deluso” Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l’11 novembre 2007 sull’A1 nei pressi di Arezzo. “Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai. Viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Poi – aggiunge – penso al corpo piagato di Stefano: certi segni così evidenti non se li è fatti da solo. Eppure la giustizia non l’ha pensata così. Bisogna sempre sperare, ma come non sentirsi abbandonati”. “Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti. Quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero”. E’ il commento, divulgato in una nota, del presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, sulla sentenza che vede assolti medici e agenti coinvolti nella vicenda della morte di Stefano Cucchi. Il procedimento, conclude Marchesi “non accerta alcuna responsabilità per un decesso che tutto appare meno che accidentale o auto-procurato”.

I genitori: «Stefano è morto ancora una volta». Ilaria in lacrime: «La giustizia ha ucciso mio fratello». Il legale della famiglia preannuncia il ricorso in Cassazione, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”. La sentenza di primo grado cancellata con un tratto di penna. Non c’è nessun colpevole per la morte di Stefano Cucchi, arrestato per droga nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e deceduto il 22 nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Al termine dell’inchiesta la procura aveva stabilito che il geometra 31enne era morto di fame e di sete, ma ora l’appello deciso che non ci sono prove sufficienti per condannare i medici, i soli ritenuti responsabili nel verdetto di poco più di un anno fa. In primo grado. La corte d’assise d’appello, presieduta da Mario Lucio D’Andria, ha dunque scagionato il primario del Pertini Aldo Fierro e i suoi colleghi Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti in base alla norma che richiama la vecchia insufficienza di prove. Invece in primo grado, il 5 giugno 2013, i sanitari erano stati condannati per omicidio colposo e, la sola Caponnetti, per falso ideologico.Confermata l’assoluzione con formula piena degli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe e degli agenti della penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La delusione e la rabbia con cui i familiari di Cucchi avevano accolto la sentenza dell’anno scorso (soprattutto per la mancata condanna degli agenti della penitenziaria) di fronte alla decisione del collegio di secondo grado diventano incontenibili. Come le lacrime di Ilaria, che della battaglia per rendere giustizia al fratello ha fatto la sua ragione di vita. «Una sentenza assurda. Nostro figlio è stato ucciso tre volte», sbottano Giovanni Cucchi e Rita Calore. Per i genitori del geometra «lo Stato si è autoassolto, ma noi - assicurano - non ci arrenderemo finché non avremo giustizia». Al loro fianco, Ilaria piange le sue lacrime forse più amare. «La nostra giustizia è malata e ha ucciso Stefano - sottolinea - . Mio fratello è morto cinque anni fa in questo edificio, quando all’udienza di convalida dell’arresto i magistrati non lo hanno guardato in faccia e non si sono accorti che era stato massacrato. Stefano era un ragazzo come gli altri, ha commesso un errore che non doveva pagare con la vita. Invece si è spento da solo, tra dolori atroci. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia: attenderemo le motivazioni e di sicuro andremo avanti». In Cassazione. A questo punto per riuscire a ribaltare il verdetto che scagiona i 12 imputati resta solo la Cassazione. L’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha già annunciato che si rivolgerà agli ermellini: «Era quello che temevo - ammette riferendosi alle assoluzioni degli imputati - Vedremo le motivazioni e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte».

«Vergogna, sentenza ingiusta»: la rabbia dopo la sentenza Cucchi. Politici, cittadini comuni, analisti: è un moto di sdegno quello che si solleva dopo la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati nel caso Cucchi, scrive Valentina Santarpia su “Il Corriere della Sera”. E’ come un’onda, un moto di sdegno e di rabbia che non tiene conto delle motivazioni giuridiche e delle argomentazioni, dei documenti e delle prove, ma solo delle emozioni più profonde, del sentimento che sale dalla pancia e che travolge razionalità e pacatezza. «Ingiustizia è fatta»: è solo uno dei commenti piovuti sui social network, Twitter in primo luogo, e negli ambienti politici, poco dopo la sentenza che assolve tutti gli imputati -medici, infermieri e poliziotti - nel caso di Stefano Cucchi, morto in carcere a Roma una settimana dopo l’arresto per droga nel 2009. La sentenza è stata accolta con astio, amarezza, incredulità: e le critiche ai magistrati, allo Stato, alle forze dell’ordine, alle istituzioni, non si risparmiano. Da destra, da sinistra, dai comuni cittadini, dalle associazioni. «Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti - afferma il presidente di Amnesty Italia, Antonio Marchesi - quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero». «L’omicidio di Stefano Cucchi rimane una ferita aperta di fronte al bisogno di verità e giustizia. Una ferita insopportabile» commenta, sempre su Twitter, il presidente di Sel Nichi Vendola. «La sentenza di appello emessa oggi sulle cause della morte di Stefano Cucchi lascia fortemente perplessi», commenta l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. «L’assoluzione nel processo d’appello per tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi è una vergogna senza precedenti: è l’autoassoluzione dello Stato», scrive il leader del Prc Paolo Ferrero. «Chi ha seguito il doloroso caso di Stefano Cucchi sapeva bene che per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l'assoluzione, non essendoci stato il pestaggio», giustifica invece il senatore Ncd Carlo Giovanardi. «Caso Cucchi: cinque anni passati e zero responsabili. Ingiustizia è fatta», scrive la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni. «Sulla mia pelle ho visto spendere centinaia di migliaia di euro da magistrati amici del mio nemico. La stessa istituzione offende Cucchi», scrie il Viceré. «Spero ci pensi la vita a dare la giusta punizione agli assassini di Stefano», ribadisce Monica Fisarmonica. «Evidentemente si pestava da solo durante lo sciopero della fame», ironizza amaro Cristian. «Io mi auguro che i poliziotti si dissocino dai loro colleghi assassini. Non copriteli!», propone Natahalie Licciardello. «Dal sangue degli innocenti tutti assolti», cita Beppe Gi Monighini. «Tutti assolti, o meglio, lo Stato si autoassolve. La solita, grande vergogna». «Con questo verdetto hanno ucciso nuovamente Stefano Cucchi», insiste Marco Procino. «Quindi Cucchi ha perso 10 kg in sette giorni e si è provocato fratture ed emorragie per passare il tempo in carcere», ricorda Paride. «Stefano Cucchi, ennesima vittima innocente di uno Stato infame», dice Gianluca Iovine. «Povero Stefano, povera Italia», scrive Eleonora Fichera. «#Tutti assolti per insufficienza di prove», si limita a citare Rudy Tanica: per lei parla la foto che pubblica, un’agghiacciante immagine di Stefano, ormai morto, deturpato dalle botte. «L'ennesima testimonianza che la giustizia in questo Paese non esiste. Caso #Cucchi tutti assolti. Sono senza parole e disgustato», scrive Vinicio Fabiani. «Dalle ipotesi di reato si può essere assolti. La mancanza di umanità è invece una condanna a vita #cucchi#shame», dice Marianna Aprile. E c'è anche chi prova a mantenere la calma: «Mai dare giudizi senza conoscere gli atti processuali, principio base- asserisce Federico Brillo- In questo caso però si fa veramente tanta fatica». «Cucchi può morire sotto la custodia dello Stato SOLO per sciatteria. Le botte oggi si chiamano così. Tutti assolti. Schifo indegno. #tortura», conclude Valeria Verdolini. «Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai»: così Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l'11 novembre 2007 sull'A1 nei pressi di Arezzo, commenta con grande amarezza la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove nel caso di Stefano Cucchi. «E' davvero tutto molto triste - dice Sandri -. E' una sentenza che lascia amareggiati, delusi: viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Come se nulla fosse». «E' uno schifo, i giudici si devono vergognare. Se fosse capitato ad un loro figlio, si sarebbero accontentati di questa verità? Non riesco a crederci. Sono vicina a Ilaria e mi dispiace per lei e per tutta la sua famiglia», commenta Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto nel giugno 2008 in ospedale, a Varese, dopo aver trascorso una notte in caserma. «Per me è dolorosissimo. È un dolore molto grande, che si somma a tutti gli altri. È come se non fosse successo nulla, come se Stefano Cucchi non fosse morto. Come hanno fatto ad assolverli?»: è il commento di Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, che ha lottato accanto alla famiglia Cucchi in questi mesi, condividendo la loro battaglia, e persino lo stesso avvocato.

Il Sap: «Chi conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze». Commento choc del sindacato di polizia sul caso Cucchi: «Basta scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità di chi vive al limite della legalità», scrive “Il Corriere della Sera”. «Tutti assolti, come è giusto che sia». Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati di polizia, nel commentare la sentenza sulla morte di Stefano Cucchi non fa sfoggio di diplomazia. Tutt’altro. «In questo Paese - scrive in una nota - bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, a essere puniti per colpe non proprie». «Una via a Cucchi? Il Comune ci ripensi». Il sindacalista rimarca «il nostro impegno e il nostro sforzo» per introdurre «in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni». E si augura «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».

Cucchi, un agente assolto giustifica i gestacci. «Quel dito alzato soltanto uno sfogo». La polemica sul dito alzato dopo la lettura della sentenza da qualcuno dei parenti e amici degli imputati, scrive “Il Corriere della Sera”. Ilaria Cucchi vuole partire da quelli che definisce «gesti terribili». Le due dita medie alzate al cielo che spuntano da uno degli abbracci tra i banchi dove erano raccolti gli imputati appena terminato quel lunghissimo minuto e 10 secondi della lettura della sentenza. «Sentivo le urla, noi piangevamo. E ci sono stati quei gesti terribili, un segno di non rispetto assoluto verso di noi», racconta e sottolinea in apertura della conferenza stampa del day after. Se le polemiche erano attese (comunque si fosse concluso il processo) quei gesti offensivi - rivolti contro la tribuna del pubblico che inveiva contro la decisione dei giudici - le hanno ulteriormente accese, immortalati da video e foto, raccontati e ripresi, diffusi sul web. Pochi attimi poi censurati da chi forse ne ha intuito al volo le conseguenze e ha spinto l'autrice a tirare giù le braccia. «Quel gesto era la risposta e il comprensibile sfogo di un momento dopo tre anni di attacchi e insulti. Non so chi sia stato, ma non credo che le dita alzate siano più gravi delle urla "Assassini" che ci piovevano addosso», dice Nicola Menichini, uno dei tre agenti assolti, che in quegli attimi era stretto alla moglie in lacrime. A sostegno delle parole dell'agente penitenziario arrivano le parole del suo difensore, l'avvocato Diego Perugini: «Da ieri sera c'è una sentenza che solleva Menichini, i suoi due colleghi e gli infermieri da ogni responsabilità. Non siamo più disposti ad accettare accuse e passeremo alle querele ogni qual volta arriveranno insinuazioni a mezzo stampa. Chi vuole contestare una sentenza ha le aule del processo d'appello per farlo». Nessun dubbio sui destinatari del messaggio. «Voglio evitare qualsiasi contro polemica», dice invece Aldo Fierro primario del reparto «protetto» dell'ospedale Sandro Pertini, dove Stefano Cucchi morì al termine di una settimana di ricovero e, come afferma la sentenza, mancate cure. «So solo che la colpa è soltanto nostra, dei medici - afferma sarcastico -. E meno male che non siamo delinquenti». Fierro è stato condannato a due anni, la pena più severa tra quelle decise dalla Terza Corte D'Assise per i sei medici che erano a processo. Di questi, tre hanno già lasciato la struttura diversi mesi fa per andare altrove. Flaminia Bruno adesso lavora in Inghilterra, Silvia Di Carlo in Abruzzo e Luigi Marchise a Ostia. Nessuno di loro finora è stato rimpiazzato. Assieme a Fierro, nel reparto del Pertini, sono rimasti Stefania Corbi e Rosita Capponnetti, che ieri erano regolarmente al lavoro. Così come al lavoro era Elvira Martelli, l'infermiera assolta assieme ai due colleghi Giuseppe Flauto e Domenico Pepe. «Voglio esprimere la mia vicinanza alla famiglia Cucchi - dice la 35enne - e prendo le distanze da quelle dita alzate, un gesto che stigmatizzo. Posso dire che non sono stata io, che in quei momenti neanche mi sono resa conto, tanta era l'emozione della sentenza. Ma voglio anche dire - aggiunge la Martelli rispondendo a Ilaria Cucchi - che non mi sento affatto indegna di indossare il camice bianco, che ho sempre portato con dignità e con grandi sacrifici in questi tre anni e mezzo di processo».

Chi lo ha ucciso?, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Tutti assolti. Anche i medici che erano stati condannati in primo grado. È questa la sentenza della corte d’appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale “Sandro Pertini” dopo essere stato pestato e privato delle necessarie cure. In primo grado erano stati condannati, cinque per omicidio colposo e uno per falso, solo sei medici, e assolti i tre agenti della polizia penitenziaria e tre infermieri. Ma in appello tutti gli imputati, medici compresi, sono stati assolti per insufficienza di prove. Al momento del verdetto, i familiari di Stefano sono stati sopraffatti dalle lacrime. Una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha detto la madre. E il papà si chiede: «Allora per quale motivo è morto mio figlio?» Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi mette piede in caserma. Il 22 ottobre 2009 esce morto dall’ospedale Pertini di Roma. Morto. O meglio selvaggiamente ammazzato. Il suo corpo martoriato, ridotto a un grumo di sangue, striminzito fino a 37 chilogrammi di peso, sette chili in meno in una settimana, presenta nell’ordine, messe a referto, lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Oggi, 31 ottobre 2014 la giustizia esercitata nel suo nome, ha detto però al popolo italiano che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Morto come si muore per caso. Sono stati tutti assolti. Non è stato nessuno a picchiarlo, non è stato nessuno a massacrare il suo corpo con ferocia inaudita, non è stato nessuno a lasciarlo morire, a non nutrirlo, a ignorarne l’angoscia e la sofferenza. Ma oggi, 31 ottobre 2014, lo Stato italiano non ci ha detto soltanto che Cucchi è morto, che non l’ha fatto morire, che non l’ha ammazzato nessuno. Lo Stato italiano ci ha detto che sono condannate a morire le speranze di chi da anni lotta per avere giustizia. Le speranze di sapere chi ha lasciato morire, chi ha ammazzato gli altri Stefano Cucchi vittime di un sistema giudiziario malato che consente, e forse copre la morte e l’assassinio. “È inconfutabile – disse il senatore Manconi a suo tempo – che, una volta giunto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro”. E ci chiediamo che cosa pensa oggi di questa sentenza, proprio lui che dal primo minuto di quel 15 ottobre 2009, offrì ascolto e collaborazione continua ai familiari di Cucchi. Che da quel giorno, per cinque anni di fila, è stato loro accanto confidando che fosse fatta giustizia, forse sussurrando loro parole di speranza in un abisso di sconforto.

Senatore Manconi, oggi la sentenza di appello ci ha detto che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Non è colpa di nessuno. Come vive questa sentenza?

«Io e i miei collaboratori viviamo dopo anni di lavoro e di vicinanza a Ilaria, sorella di Stefano, momenti di profonda angoscia. Vorrei poter distinguere tra piano politico e personale, ma in questo caso i piani si sovrappongono. Il paradosso logico di questa sentenza è evidente. In primo grado si stabilì che Cucchi morì per incuria dei medici a causa di un ricovero provocato da un pestaggio. Oggi si dice quindi che non ci fu incuria né pestaggio».

Perché Stefano Cucchi è morto quindi?

«Già la sentenza di primo grado lasciò tutti profondamente insoddisfatti perché si prendeva atto che ai danni di Stefano fosse avvenuto un pestaggio. Era stato accertato che dopo l’arresto Cucchi aveva subito violenze. Era stato stabilito che la morte di Stefano Cucchi era collegata alla privazione della sua libertà, e agli abusi che erano maturati nel corso di quella deprivazione».

Ma ora di tutto questo non resta traccia: morì per caso.

«Tutti devono sapere qualcosa di incontestabile. Dev’essere detto con chiarezza che nella migliore delle ipotesi Stefano Cucchi è stato abbandonato. Nel migliore caso possibile di questa tragedia, nessuno potrà mai negare che Stefano Cucchi è stato lasciato morire. Lo hanno lasciato morire perché nessuno, nessuno ne ha impedito il decadimento, nessuno ne ha compreso i bisogni, nessuno lo ha assistito come meritava».

Stefano è morto d’abbandono, come minimo. Non è comunque un’enorme sconfitta dello Stato italiano?

«Io e Valentina Calderone abbiamo ricostruito minuto per minuto il calvario di Stefano. Ha attraversato dodici luoghi dello Stato: due caserme, celle di sicurezza, pronto soccorso. Ha incontrato oltre cento persone in questo cammino.  E nessuno di loro, nessuno di questi oltre cento individui ha voluto prestargli soccorso, tendere una mano verso di lui, coglierne il grido di dolore».

Ci vollero delle fotografie crude, quasi oscene, che ne mostravano le carni martoriate, affinché si cominciasse a parlare di Stefano Cucchi. È davvero questa l’unica maniera di suscitare attenzione verso casi come questo?  Dovere creare scandalo, dovere mettere in pubblica piazza il dolore, in nome di un sentimento di giustizia che resta quasi sempre inevaso?

«Ricordo che la vicenda di Stefano Cucchi cominciò quando Ilaria, sua sorella, ci disse che c’erano delle foto scattate a suo fratello in obitorio. Immagini terribili, strazianti, eloquenti. Quando Ilaria ce le consegnò, le dicemmo che secondo noi dovevano essere rese pubbliche. Ma che questa scelta spettava solo ai familiari di Stefano perché sarebbe stata terribile. Stefano sarebbe stato esposto di nuovo, dopo quella morte, a un nuovo oltraggio. Loro ci risposero: “Decidete voi”».

Fu dunque vostra la decisione di renderle pubbliche?

«No, noi respingemmo quella responsabilità. Era una loro decisione. Una volta presa, non si sarebbe potuti più tornare indietro. Alla fine decisero di farlo. E tutti conoscemmo il caso Cucchi perché loro, i suoi familiari, furono costretti a questo terribile atto di autolesionismo morale».

Non trova vergognoso che una famiglia debba vivere questo abisso di sofferenza, di violenza autoinflitta nella speranza di avere una qualche giustizia?

«Ciò che è accaduto a Stefano, è successo a molti altri. E si ripete, uguale a se stesso, ogni giorno. Dico ogni giorno. Un labirinto di angoscia, indifferenza, e sofferenze inaudite che comincia e finisce con la morte. È finita con la morte anche oggi. E dopo l’autopsia, il certificato di morte dice che Stefano, insieme agli altri Stefano Cucchi cui siamo vicini, è morto perché vittima di un sistema malato. Un sistema carcerario che produce morte, violenza e abiezione».

Sentenza Cucchi, dov'è l'errore? «L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.

Luigi Manconi, cosa significa la sentenza di ieri?

«La sentenza dichiara il fallimento delle indagini condotte dalla Procura, evidentemente in modo maldestro, parziale e approssimativo, come del resto i familiari e i legali di Cucchi sostengono da anni».
Indagini dalle quali emergerebbe che il pestaggio nei confronti di Stefano non sia mai avvenuto?

«No, tutt'altro. Contrariamente a quanto sostengono in molti, come ad esempio il Senatore Carlo Giovanardi (che Dio lo perdoni), la sentenza non afferma affatto che il pestaggio non abbia avuto luogo: dice piuttosto che la Procura non ha presentato prove sufficienti per consentire, al di là di ogni ragionevole dubbio, la condanna degli agenti di Polizia Penitenziaria rinviati a giudizio».

Quindi si tratta di un elemento ormai certo.

«Assolutamente. Tutte le perizie, anche quelle più favorevoli ai poliziotti, hanno messo le violenze subite tra le cause del grave stato nel quale versava Stefano Cucchi: dunque di quelle violenze non si può dubitare, come del resto le lesioni visibili anche a occhio nudo sul corpo di Cucchi dimostrano inequivocabilmente».

Una certezza agghiacciante…

«Certo, perché in uno dei luoghi in cui dovrebbe massimamente valere la tutela dell'individuo e del suo corpo da parte dello Stato, cioè la cella di sicurezza di un Tribunale, quell'individuo viene invece fatto oggetto di percosse e violenze».

Ma non pare questo ciò che emerge dalla sentenza.

«Leggeremo le motivazioni, e soprattutto vedremo se da quelle motivazioni emergerà la necessità di ulteriori indagini; ma ad oggi il messaggio contenuto nella sentenza è letteralmente sconcertante: Stefano Cucchi è stato vittima di un caso di ordinaria malasanità: un episodio come tanti di incuria medica o di mancata assistenza. Questo si ottiene strappando a viva forza la morte di Stefano dal contesto in cui è avvenuta e dal complessivo sistema delle istituzioni in cui si è consumata».

E cosa si vede, rimettendola in quel contesto?

«Lo ripeto per l'ennesima volta: la vicenda di Cucchi è una vera e propria via crucis, composta di tante stazioni a ciascuna delle quali corrisponde un'istituzione pubblica. Due caserme dei Carabinieri, il Tribunale, le celle di sicurezza e l'infermeria del Tribunale, quella di Regina Coeli, la cella di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebene fratelli, il Pertini. Da un calcolo approssimativo ma plausibile di Valentina Calderone, molte decine di persone, forse addirittura centocinquanta, tutte appartenenti a istituzioni pubbliche, hanno avuto contatto con Stefano, e nessuna di loro ha prestato soccorso, ha lanciato un grido d'allarme, ha offerto aiuto a un essere umano che andava verso la morte. La sentenza condanna solo i medici, ma ignora tutto il resto».

In questa vicenda gli elementi che sembrano ignorati sono molti.

«Moltissimi. Ad esempio si ignora una domanda cruciale: perché Cucchi è stato ricoverato nel lontanissimo Pertini anziché al Fatebenefratelli? Il sospetto è che si trattasse di un modo per sottrarlo non solo allo sguardo pubblico, ma anche a quello dei familiari. Così come si ignora che Giovanni, il padre di Stefano, ha attraversato la città per cinque giorni andando di ufficio in ufficio, di sportello in sportello, trovandosi davanti uffici chiusi e sportelli che lo rimandavano ad altri sportelli: e solo alle 12:00 del 22 ottobre ottiene il permesso formale di visitare il figlio, che era morto all'alba dello stesso giorno senza che lui ne fosse informato».

Una trafila terribile…

«Una trafila oscena. Un sistema di controllo e detenzione che sembra avere un solo scopo: negare i diritti delle persone che sono private della libertà. A partire da quello fondamentale».

Vale a dire?

«Avvalersi di un legale. Si tratta della prima richiesta fatta da Cucchi nella caserma dei Carabinieri e poi rinnovata in Tribunale. Anzi, dalla documentazione del Pertini risulta che fosse questa la causa dell'astensione dal cibo di Stefano».

Mancanza di prove per condannare gli agenti, si diceva. Ma è solo una questione di imperizia?

«Certamente no. E' anche il risultato del clima di chiusura corporativa che gli apparati dello Stato mettono spesso in atto in circostanze del genere».

Che scenari si aprono dopo questa sentenza?

«Come dicevo, occorre attendere le motivazioni. Ma io prevedo che sarà proposto appello sia dalla Procura, sia dalle parti civili».

Non è successo nulla, scrive Concita De Gregorio su “La Repubblica”. Quindi non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta". Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente. Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno. Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi". Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto. Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

La Corte non vede reati: “Senza prove si assolve”, scrive Paola Zanca su Menti Informatiche. Mi devono uccidere per fermarmi”. Non bastano le offese, che ancora ieri sono tornate a infangare la memoria di Stefano Cucchi. E nemmeno le precisazioni dei giudici, che si trincerano dietro il volere della giuria popolare che ha mandato assolti tutti quelli che hanno incontrato il giovane detenuto romano nell’ultima settimana della sua vita. Ilaria, la sorella che da cinque anni si batte per trovare i responsabili di questa morte assurda, arriva al rimedio estremo: “Mi devono uccidere per fermarmi”. Il primo – l’ennesimo – passo è già sulla scrivania dell’avvocato di famiglia, Fabio Anselmo: azione legale contro il Ministero della Giustizia. “Al di là dell’accertamento delle singole responsabilità – spiega l’avvocato – una responsabilità del ministero c’è”. Una strada che viaggia in parallelo con il ricorso in Cassazione e con la richiesta di giudizio della Corte europea. “Due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio – insiste Ilaria Cucchi – e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato: mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro”. Questa storia non è un gioco. Eppure, ancora ieri, c’era chi aveva voglia di scherzare. Il Coisp, sindacato indipendente di polizia, è arrivato a fare la ramanzina alla famiglia di Stefano: “Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia – si legge in un comunicato –È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita – insiste il segretario Coisp Franco Maccari – comincino ad assumersi le proprie responsabilità”. Illazioni vergognose, a cui nessun rappresentante delle istituzioni si è sentito in dovere di replicare. Il presidente della Corte di Appello di Roma Luciano Panzani, invece, è voluto intervenire in risposta a una rubrica di Massimo Gramellini su La Stampa: “Nessuna gogna mediatica – ha tuonato – e nessun invito a far pagare i magistrati per i loro errori se non vogliamo rischiare di perdere noi tutti molto di più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda”. Spiega ancora Panzani: “Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario, quando la responsabilità non è provata oltre ogni ragionevole dubbio, deve assolvere”. Ieri sera, ospite dello stesso Gramellini su RaiTre, Ilaria Cucchi ha replicato: “L’insufficienza di prove dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Più volte ho criticato l’operato di questi pm”. Ci sarebbe potuta essere una terza via, come ricorda l’avvocato Anselmo: “Di fronte a una perizia non idonea, io avrei voluto che la Corte disponesse un supplemento peritale per risolvere i dubbi sulle cause della morte”. Non si dà pace Anselmo, anche perché nessuno risponde all’obiezione principe: perché i Cucchi sono stati risarciti dall’ospedale Pertini con un milione e 340mila euro se lì dentro non è successo nulla? Dice Roberto Saviano “Che rabbia, siamo indifesi. Che rabbia. Rabbia per una sentenza che non fa giustizia. Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita. Che rabbia per noi, che siamo foglie al vento, che ci sentiamo nudi e indifesi di fronte a tutto questo”. Fedez, cantante rapper "disidratato? stronzate...Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati: certe stronzate non ce le beviamo. L’ingiustizia è uguale per tutti. #Vergogna”. Accanto al post su Facebook, un manifesto funebre che cita De Andrè: “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte”. Una fase tombale, che nessuno potrà intaccare – sostiene l’avvocato – Durante questo percorso ho portato e convinto la famiglia ad accettare questo importante risarcimento, che non può che essere considerato come una vera e propria responsabilità, e grave”. Succedeva un anno fa. I Cucchi spiegarono che quei soldi servono a coprire le spese legali, passate e future. E che il resto vorrebbero usarlo per aiutare i ragazzi che escono dalla droga a reinserirsi nella comunità, magari nel casale di Tivoli dove Stefano amava passare il suo tempo e che adesso vorrebbero donare al Campidoglio. Si sa mai che qualcuno abbia pure il coraggio di dire che sono diventati ricchi.

Quanto fa chic criticare il verdetto sul caso Cucchi. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie. Quello che un colpevole, il Colpevole, meglio in divisa ma va bene anche il camice, lo vuole per forza. Con le buone o con le cattive. E se la giustizia non lo trova, non li trova, perché non ce l'ha fatta, perché è arduo distinguere o perché forse più banalmente non ci sono aguzzini, ecco che si scatena. E fa a pezzi lo Stato e l'apparato giudiziario e tutto il resto. Perché le sentenze si rispettano, ma qualche volta no. Quella che riguarda Stefano Cucchi, con l'assoluzione dei medici condannati in primo grado, non può passare. Anzi si grida allo scandalo e alla vergogna e i titoli dei giornali e dei tg sono un terzo grado e anche un quarto. Durissimo. Implacabile. Senza camera di consiglio perché in fondo non ce n'è bisogno. «Chi è Stato?», gioca con perfida maestria Massimo Gramellini sulla Stampa. «Non è successo nulla», è il sanguinante commento di Concita De Gregorio su Repubblica. Sempre su Repubblica Carlo Bonini parla di «ferite inspiegabili e testimoni ignorati». È tutto un coro che va oltre le pagine e arriva sui social network e s'infiamma con le requisitorie di Fedez e Saviano. Non manca nessuno. Ci sono tutti, forse con un riflesso tardo sessantottino, e se la prendono con i carabinieri e poi con gli agenti della polizia penitenziaria e ancora, usciti di scena gli uni e gli altri, con i medici e gli infermieri. E alla fine, visto che i conti non tornano, puntano il dito contro tutto e tutti. Contro i silenzi. Contro le omissioni e il clima di omertà. E così il paradosso chiama un altro paradosso, il furore vuole altro furore, fino a perdere la misura. E il rispetto minimo per le istituzioni e le facce che le riempiono. L'assoluzione diventa l'occasione per dire che lo Stato talvolta nasconde le prove e chiude i cassetti. Come ai tempi mai rimpianti delle bombe. Peccato. Certo ci sono quelle foto del giovane: dolorose, impressionanti, terribili. Ma i processi non si fanno in piazza. «Una condanna senza prove - afferma il presidente della corte d'appello di Roma Luciano Panzani - aggiungerebbe obbrobrio a obbrobrio». Ma nessuno lo ascolta. Il sindaco Marino vuole ricordare Cucchi intitolandogli una strada. E Rita Bernardini dei radicali insiste per introdurre il reato di tortura. È la fiera del politically correct. La verità invece è in fuga.

Strano che Zurlo abbia preso questa posizione. Non è la condanna delle "guardie" che soddisfa la voglia di giustizia. E' la condanna della giustizia, ergo dei magistrati, che non ha saputo trovare il responsabile. Oppure per Il Giornale si è garantisti solo se si tratta di Berlusconi, Sallusti e le Forze del'Ordine?

Invece è coerente con se stesso l'analisi di Sansonetti: da vero garantista.

Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo “stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – “Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi (e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza?

P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.

Intervenendo l’1 novembre 2014 alla trasmissione di Fazio su Rai 3 la sorella di Stefano Cucchi e l'avvocato Anselmo ribadiscono le critiche alla sentenza di assoluzione per tutti gli imputati e la determinazione a proseguire nell'azione legale. «Non dimentico che per anni si è cercato di negare in tutti i modi quel pestaggio. Pestaggio che oggi, come nella sentenza di primo grado viene riconosciuto. Viene riconosciuto, ma la giustizia dice che non è in grado di stabilire chi siano gli autori di quel pestaggio. Questo da semplice cittadina lo trovo gravissimo. Insufficienza di prove dipende da entrambe le cose. Dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Io, più volte in questi anni, ho criticato l’operato di quei pubblici ministeri. Oggi alla luce di queste sentenze, tutti sapete che non sbagliavo. Questa sentenza per insufficienza di prove è il fallimento della Procura di Roma, non è il mio fallimento, non è il fallimento del mio avvocato. E’ il loro. Quello della Procura di Roma, dello Stato italiano e della giustizia. Cosa centra la droga con questo. Questa è l’immagine di mio fratello, così come ce lo hanno restituito dopo 6 giorni. E non centra un bel niente con la droga. Le pressioni indebite ci sono state nei nostri confronti - ha detto Ilaria -. Ogni mattina il processo si svolgeva così: quasi tutto il tempo facevano domande sulla magrezza di Stefano, su di noi... Il nostro è stato un processo alla vittima». «Voglio chiedere al dottor Pignatone - dice Ilaria Cucchi, confermando quanto scritto in un post su Facebook - se è soddisfatto dell'operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano».

Eppure c'è chi insiste a negare l'evidenza. Gianni Tonelli (Sap): «Non c’è stato nessun pestaggio, che volete da noi?», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. Se non vogliamo rischiare di perdere molto di più di quanto si sia perso in questa triste vicenda nessuna gogna mediatica e nessun invito a ’far pagare i magistrati per i loro errori», dice Luciano Panzani, presidente della Corte di Appello di Roma, alla sentenza d’appello che ieri ha assolto tutti gli imputati accusati della morte di Stefano Cucchi. Ma ha destato molte polemiche anche il sindacato indipendente di polizia Coisp, che attraverso il suo segretario Franco Maccari ha ha fatto sapere: «Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Aggiungendo: «È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le proprie responsabilità». Parole durissime, vergognose, che ricalcano quanto affermato ieri da Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap. «In questo Paese – ha detto Tonelli, che si oppone a una via intitolata a Cucchi – bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie». Ecco che cosa ha detto il segretario generale del sindacato di polizia Sap Gianni Tonelli, commentando la sentenza di assoluzione in secondo grado della Corte d’Assise d’Appello di Roma per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria imputati per la morte di Stefano Cucchi.

Sono dichiarazioni raccapriccianti, Tonelli. Per lei Cucchi si è cercato la morte perché era un tossico, pare di capire.

«Cucchi ha tutta la pietà umana per la sua condizione. Ma basta prendersela con i servitori dello Stato. La mia era una dichiarazione più ampia, che faceva riferimento anche a Uva e altri casi. Non ho avuto spazio per spiegarmi».

Se ne aveva poco doveva sfruttarlo meglio. Lei dice che Cucchi era un drogato e la morte è una sua responsabilità, si rende conto?

«Ho un ruolo ingrato, ero obbligato a controbilanciare le dichiarazioni di parte, e i continui tiri al bersaglio di cui sono oggetto le forze di polizia che sono considerate colpevoli anche quando non lo sono, come in questo caso».

Lei fa la stessa cosa che rimprovera agli altri. Ha trovato il colpevole di questo processo: Cucchi, il drogato che se l’è cercata.

«Non è questo che intendevo dire».

Ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta. Lo ha detto lei, e ora ce lo spiega.

«Volevo dire che i soggetti border line corrono più rischi. Non avrebbe vissuto tutta questa vicenda se si fosse tenuto lontano dalla droga».

Quindi se si è drogati bisogna aspettarsi di poter essere pestati e morire in carcere. Rischi del mestiere, insomma.

«Non è quello che sto dicendo».

Se avesse avuto un figlio ridotto in quelle condizioni, entrato vivo in caserma, e uscito morto, pestato a sangue, non avrebbe messo le mani al collo a chi diceva che ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta?

«È un discorso ridicolo. È come se le chiedessi se lei non si sente lercio a pranzare, sapendo che milioni di bambini muoiono di fame».

Io non sono il rappresentante di nessuno, se non di me stesso. Lei tutela i suoi colleghi, e la difesa d’ufficio ci può stare. Ciò che invece è vergognoso è che si è accanito contro un debole, accusandolo di essersi cercato la morte.

«Ma vuole che non provi pietà umana per la sua condizione?»

Voglio che non lo accusi di essere morto perché era un tossico. Era un tossico, ma è morto di botte.

«La sentenza ha detto che non ci sono responsabilità dei medici e dei poliziotti dietro la morte di Cucchi. Il fatto non sussiste, ha detto la sentenza».

La sentenza dice che c’è insufficienza di prove, spiacente.

«No, la sentenza dice che il fatto non sussiste».

La formula adottata è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530, la vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove. Ma se dice che il fatto non sussiste prendo atto, lo ha detto lei.

«Su questo allora verificheremo, è una questione giuridica che non possiamo chiarire qui in pochi minuti. Resta l’assoluzione di secondo grado, questo posso dirlo?»

Rimane il fatto che nessuno ci ha detto chi ha ridotto Stefano Cucchi in quelle condizioni.

«Non c’è stato nessun pestaggio, lo hanno detto tutti i periti».

Non è così. Il dottor Thiene ha spiegato che Cucchi è morto in conseguenza dei traumi ricevuti. Se li è fatti da solo?

«I casi di detenuti che adottano condotte autolesionistiche sono a decine, specie se interessati da situazioni emotive di instabilità. Può essersi battuto la testa sulle sbarre da solo».

Lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Cucchi si è fatto tutto questo da solo?

«Gli elementi a disposizione della magistratura non hanno attribuito questo tipo di lesioni a condotte violente degli agenti».

Il fatto che il pestaggio non possa essere attribuito a nessuno non vuol dire che non è avvenuto. Che fastidio le dà una via intitolata a Cucchi?

«È pretestuoso intitolargli una via, non ha nessun merito. Si intitolano vie a Manzoni, Leopardi, Gagarin. Perché questo riconoscimento a Cucchi?»

Perché è una vittima di Stato. È entrato in caserma in salute ed è uscito dall’obitorio morto. Morto e massacrato di botte.

«Non c’è prova che i politraumatismi abbiano provocato la sua morte».

L’ha detto lei che era un tossico. Era deperito. Magari una persona sana a tutti quei calci potrebbe sopravvivere. E un tossico, appunto, ne può morire. Non crede?

«Se allora è una vittima allora intitoliamo vie alle vittime di Ustica?»

Sì, subito. Perché a Cucchi no?

«Perché è una maniera per infierire contro le forze dell’ordine, per dire che sono stati comunque i poliziotti a ucciderlo, anche se la sentenza dice che il fatto non sussiste».

l fatto sussiste eccome. Non esiste il responsabile. Nella migliore delle ipotesi questo ragazzo è morto per abbandono.

«Nessuno lo ha abbandonato. È lui che ha rifiutato le cure».

Glielo dica ai suoi genitori che è morto ma non l’ha ammazzato nessuno.

«E’ nelle carte che i genitori lo avevano abbandonato a sé stesso e non lo andavano a trovare».

Non è così. Non mi risulta. Mi risulta solo che è stato scannato e che ci sono testimoni.

«I testimoni non sono stati ritenuti attendibili».

Ci sono le lastre e i referti delle fratture. Quelli sono attendibilissimi. Ma secondo lei come è morto Cucchi?

«Io penso che debba essere disciplinato per bene il Trattamento sanitario obbligatorio. Se fosse avvenuto tempestivamente, Stefano Cucchi sarebbe ancora tra noi».

Ammette quindi che ci sono responsabilità.

«Dico che se ci fosse stato un tso più rapido, Cucchi sarebbe vivo».

Forse sarebbe vivo se non fosse stato ricoverato per le botte che ha preso.

«Se qualcuno ha altre prove si faccia avanti. Non vedo l’ora che si trovi il colpevole. Io per la polizia non faccio che chiedere telecamere da un sacco di tempo. Vogliamo operare sotto la luce del sole, non ce la facciamo più a passare per mostri. Ma lei crede che dei deboli, di chi sta male, mi importa meno di lei?»

Allora chieda scusa per le sue parole inopportune.

«No, non lo farò perché non volevo offendere nessuno. Dico solo che in molte vicende ci sono concorsi di colpa. Ne aveva Cucchi, ne hanno avuto gli altri Cucchi e ne ha lo Stato. Non si può puntare l’indice in una sola direzione ogni volta».

Eppure qualcuno è stato. E in mancanza di un preciso responsabile, è stato ucciso dallo Stato. Ecco perché Stefano Cucchi merita che gli sia intitolata una via. Ecco tutto.

Tutti assolti per la morte di Stefano Cucchi, scrive “Il Post”. I giudici hanno assolto tutti gli imputati – medici, infermieri, agenti – per la storia dell'uomo morto in ospedale dopo essere stato arrestato nel 2009.  Sono stati tutti assolti in appello per insufficienza di prove. In primo grado solo i medici erano stati condannati per omicidio colposo (tranne uno). La decisione è stata presa dai giudici della Prima Corte d’Appello di Roma, dopo una camera di consiglio durata circa tre ore, gli imputati nel processo erano dodici: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. I giudici potevano scegliere in diverso modo, confermando la sentenza di primo grado o accogliere le richieste della procura che avrebbero portato a una profonda revisione della sentenza e alla condanna di tutti gli imputati. Infine potevano accogliere la tesi della difesa che aveva proposto l’assoluzione di tutte le persone imputate. Stefano Cucchi, 31 anni, lavorava come geometra nello studio di famiglia, con i genitori Rita Calore e Giovanni, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 fu arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di droga. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, fu portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente, Cucchi passò sei giorni in diverse strutture e con il coinvolgimento di decine di operatori sanitari e della giustizia, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati furono resi pubblici solo alcuni mesi più tardi. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Una commissione d’inchiesta del Senato, presieduta dall’allora senatore del PD Ignazio Marino, stabilì che al momento dell’ingresso in carcere Cucchi presentava già lesioni gravi al volto, lesioni vertebrali e un sospetto di trauma cranico e addominale. Secondo l’accusa, infatti, Cucchi fu picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Successivamente, dopo il suo ricovero al “Pertini”, secondo l’accusa Cucchi non fu curato né nutrito, lasciandolo morire di fame e di sete, nonostante le sue pessime condizioni cliniche. Cucchi, che era tossicodipendente e soffriva di epilessia, aveva infatti, già dal 19 ottobre, una grave ipoglicemia (mancanza di zuccheri), oltre ai traumi alla testa e alla schiena. Dopo la lettura della sentenza di appello la madre di Stefano Cucchi ha parlato di una decisione “assurda: mio figlio è morto dentro quattro mura dello Stato che doveva proteggerlo”. Il padre di Cucchi ha ricordato che “le persone ferite siamo noi e lo saremo per tutta la vita. Vogliamo la verità. Possono assolvere tutti, ma io continuerò a chiedere allo Stato chi ha ucciso mio figlio”.

Il volto tumefatto e la resa dello Stato incapace di giustizia, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Si devono guardare i suoi occhi pesti, il suo viso tumefatto, il suo corpo straziato. Si deve sapere che nessuno si è occupato del suo dolore fisico, né si è preoccupato che quel ragazzo, arrestato per possesso di droga, avesse smesso di bere e di mangiare. Nessuno ha dato importanza al fatto che non riuscisse più a reggersi in piedi tanto da non poter essere trasferito in carcere e dunque dovesse essere ricoverato nel centro di detenzione dell’ospedale Pertini. E ci si deve interrogare su come sia possibile che nessuno pagherà per questo. Era nelle mani dello Stato Stefano Cucchi ma ieri lo Stato si è arreso e ha mostrato l’incapacità di rendere giustizia. La scelta di sua sorella Ilaria di far vedere ancora una volta in televisione la foto di quel volto devastato dalle botte sul lettino dell’obitorio è la nuova ennesima umiliazione che questa famiglia è costretta a subire pur di conoscere la verità. Un inammissibile sopruso che la mamma e il papà di Stefano hanno dovuto nuovamente sopportare. Sembra assurdo che in una vicenda dove ci sono decine di persone coinvolte, testimoni o protagonisti, non ci sia nessuno che decida di raccontare davvero che cosa è accaduto dal momento dell’arresto fino al ricovero. Ma ancor più difficile da comprendere è che di fronte agli elementi forti già contenuti negli atti processuali i giudici non riescano a trovare i colpevoli. Stefano è stato ucciso. Lo Stato che non lo ha protetto adesso è chiamato a dire chi lo ha ammazzato. Ci sono stati tanti errori, omissioni e bugie commessi da chi era incaricato di indagare. Ma il verdetto di ieri, che ci lascia senza risposte e rende l’omicidio insoluto, è una sconfitta per tutti.

Chi è Stato? Si chiede Massimo Gramellini su “La Stampa”. Recita il ritornello: le sentenze si rispettano. Però non possono diventare lotterie, come accade quando sugli stessi fatti il giudizio d’appello smentisce, ribaltandolo, il processo precedente. Per l’accusa Stefano Cucchi è morto in carcere di botte e di stenti. Per il primo giudice «soltanto» di fame e di sete. Per la corte d’assise neanche di quello. Ne dovremmo dedurre che sia ancora vivo. O che si sia ammazzato da solo. E infatti è questa la versione che ci vogliono apparecchiare: Cucchi si sarebbe lasciato morire di inedia. Se medici e infermieri hanno una colpa, è di non avere insistito con la forza per nutrirlo.  Una «responsabilità morale» ammette persino Giovanardi. E le fratture? E gli occhi pesti? E il corpo preso in consegna vivo dallo Stato e restituito cadavere alla famiglia? Una famiglia che ha sempre rispettato e aiutato le istituzioni, al punto di fornire prove a carico del figlio sul possesso di droga. Toccherà alla Cassazione mettere il timbro su questa storia allucinante, dove il latinorum dei giudici è contraddetto dalla potenza persuasiva delle foto. Purtroppo abbiamo fin d’ora una certezza: che quando una delle due sentenze risulterà sbagliata, nessun magistrato pagherà per il suo errore. 

P.S. Solidarietà ai poliziotti e agli agenti penitenziari che accettano di farsi odiare dal prossimo per 1200 euro al mese. Ma il portavoce di un loro sindacato che - di fronte alla morte impunita di un uomo - dichiara: «Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute e conduce una vita dissoluta, ne paghi le conseguenze», dovrebbe fare soltanto una cosa. Vergognarsi.  

Luciano Panzani, 64 anni, è in magistratura dal 1975. Ha fatto il pretore a Torino, ha presieduto il tribunale di Alba e poi quello di Torino, è stato consigliere di Cassazione. Oggi presiede la Corte d’Appello di Roma. Ieri si è sentito in dovere di difendere i suoi colleghi: «Non ho l’abitudine di intervenire, tanto meno di commentare le sentenze. Però sento che qualcuno vorrebbe far pagare i magistrati per i loro errori. È un concetto pericoloso». Ha parlato di «gogna mediatica». «Basta gogna mediatica, non c’erano prove» e nessun invito a «far pagare i magistrati per i loro errori - ha detto il magistrato - se non vogliamo rischiare di perdere molto più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. E' quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta». Lo afferma il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, in risposta al "Buongiorno" di Massimo Gramellini su La Stampa. «Questo è il suo compito - aggiunge il presidente della Corte d'Appello di Roma, a lungo presidente del Tribunale di Torino - per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità. - Panzani ricorda poi che - la Corte d'Assise è formata in prevalenza di giudici scelti tra semplici cittadini. Anche Lei - osserva rivolgendosi direttamente a Gramellini - avrebbe potuto farne parte, ed a maggior diritto giudica in nome del Popolo Italiano, perché è espressione del Popolo. Posso comprendere - scrive ancora il presidente della Corte d'Appello di Roma - che sentenze contrastanti in primo grado e in appello suscitino sconcerto, ma questo sovente succede nei casi difficili, dove la prova è indiziaria e proprio per questa ragione esistono l'appello e il ricorso in Cassazione».

«Io non critico la sentenza - commenta il giorno dopo l’avvocato Anselmo - Non posso fare a meno di ricordare che già durante l’udienza preliminare avevo previsto questo esito. Adesso abbiamo una sentenza che certifica l’insufficienza di prove su tutto: sugli autori del pestaggio e sulle singole responsabilità di medici e infermieri. La fragilità e le imbarazzanti contraddittorietà della perizia disposta dalla Corte di primo grado mai avrebbero potuto reggere a un vaglio severo e giusto da parte dei giudici di seconda istanza».

Parla con il dolore alimentato dall’indignazione la sorella del ragazzo, Ilaria, da sempre in prima linea nella battaglia legale: «Mi devono uccidere per fermarmi. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro. Mi sono svegliata con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma».

Ma la verità non è impunità, risponde Massimo Gramellini. «Gentile dottor Panzani, la ringrazio per le sue pacate riflessioni. Nel mio corsivo ho cercato di dare voce allo “sconcerto” (come lo chiama anche lei) dell’opinione pubblica di fronte a una sentenza che rovescia quella di primo grado, pur in assenza di fatti nuovi che possano giustificare un cambiamento di giudizio. Ho cercato soprattutto di trasmettere la sensazione di straniamento e di impotenza che invade il cittadino davanti a sentenze tecnicamente ineccepibili, ma che in sostanza ci lasciano addosso il sapore amaro della negazione di verità.  Lei parla di gogna mediatica, ma forse i tribunali dovrebbero adeguare la loro comunicazione ai tempi moderni. In casi di interesse pubblico come questo, non possono più limitare il verdetto alla mera enunciazione del dispositivo, ma dovrebbero dare subito qualche elemento ulteriore di comprensione. Rendendosi conto che l’insufficienza di prove si traduce, per chi osserva da fuori, in una legittimazione dell’impunità. 

Cucchi, tutti gli incredibili errori. Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. I militari dell’Arma scrissero che era nato in Albania ed era senza fissa dimora, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato. Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però - che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente - non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico. Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice - e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte -, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento - con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto - Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo - o non solo - l’ultima sentenza.

Omicidio Stefano Cucchi: Vergognosi tentativi di depistaggio, scrive “Aikido e dintorni” Stefano Cucchi è stato arrestato dai Carabinieri il 15 ottobre scorso. Trascorre la notte in caserma e l’indomani, con un processo per direttissima, il giudice dispone l’arresto in carcere in attesa dell’udienza successiva. Mentre sono ancora in attesa di vedere il figlio, una settimana fa i familiari ricevono dai carabinieri la notifica del decreto col quale il pm autorizzava l’autopsia sul corpo di Stefano. E’ così che i genitori e la sorella vengono a conoscenza della morte di Stefano. Un’altra morte di carcere.

Il Blog ha intervistato Ilaria e Giovanni Cucchi, rispettivamente sorella e padre di Stefano.

llaria Cucchi: “Stefano Cucchi era un ragazzo di 31 anni, un normalissimo ragazzo di 31 che la notte tra il 15 e il 16 ottobre è stato arrestato dai Carabinieri, perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti. L’abbiamo visto uscire di casa accompagnato di Carabinieri, che precedentemente tra l’altro avevano perquisito la sua stanza non trovandovi nulla e accompagnato dai Carabinieri in ottime condizioni di salute, senza alcun segno sul viso e non lamentando alcun tipo di dolore. L’abbiamo rivisto morto il 22 ottobre all’obitorio: nel momento in cui l’abbiamo rivisto, mio fratello aveva il viso completamente tumefatto e pieno di segni, il corpo non l’abbiamo potuto vedere.”

Blog: “possiamo ripercorrere le tappe di quei giorni? La notte tra il 15 e il 16 ottobre viene fermato dai Carabinieri e viene portato in caserma: da lì i Carabinieri lo portano qui in casa a controllare se.. ”

llaria Cucchi: “a perquisire la sua stanza, esatto, dove ovviamente non viene trovato nulla.”
Blog: “sostanzialmente trascorre la notte in caserma e poi viene.. ”

llaria Cucchi: esattamente. La mattina successiva, verso le dodici avviene il processo per direttissima, dove il giudice ritiene che questo ragazzo debba passare il tempo fino al 13 novembre, data in cui è fissata l’udienza successiva, in carcere e viene assegnato a Regina Coeli.

llaria Cucchi: da quel momento non lo vediamo più. Ripeto: la mattina del processo per direttissima mio fratello aveva già il segno gonfio di botte, da qui è uscito in ottime condizioni.

Blog: “i Carabinieri che cosa vi hanno detto, quando era qui in casa?”

llaria Cucchi: “ci hanno detto di stare tranquilli, perché per così poco sicuramente il giorno dopo sarebbe stato a casa agli arresti domiciliari.”

Blog: “poi, quando vi avvisano, arriva una telefonata che dice ‘Stefano sta male’?”

llaria Cucchi: “il sabato sera. La notizia successiva l’abbiamo il sabato sera, intorno alle nove vengono i Carabinieri a informarci che Stefano è stato ricoverato d’urgenza presso la struttura del Sandro Pertini: ovviamente i miei genitori si recano immediatamente sul posto e lì viene negato loro alcun tipo di notizia. Nel momento in cui, ingenuamente, mia madre domanda di poter vedere il ragazzo e di sapere quello che aveva, le viene risposto: “assolutamente no, questo è un carcere, tornate lunedì in orario di visita e parlerete con i medici”. I miei genitori tornano il lunedì mattina, all’orario che era stato loro detto, vengono fatti entrare e vengono loro presi gli estremi dei documenti e vengono lasciati in attesa. Dopo un po’ di tempo esce una responsabile, la quale li informa di non poterli fare parlare con i medici, in quanto non è arrivata una certa autorizzazione da parte del carcere. “Comunque tornate, perché deve arrivare quest’autorizzazione e non vi preoccupate, perché il ragazzo è tranquillo”, è stato risposto loro, quando mia madre chiedeva: “ditemi almeno per quale motivo mio figlio è stato ricoverato”. “Il ragazzo è tranquillo”. Il giorno dopo, ovviamente, i miei tornano …esattamente, il martedì mattina tornano presso la stessa struttura, al reparto carcerario del Sandro Pertini e questa volta non vengono proprio fatti entrare, viene risposto loro al citofono che non possono entrare, perché non c’è l’autorizzazione. Finalmente viene detto loro però che sono loro a dover chiedere un’autorizzazione a Piazzale Gloria, se vogliono vedere il ragazzo: mio padre chiede quest’autorizzazione e la ottiene per il 25.. mi scusi, per il 22, giovedì. Il 22 all’alba mio fratello è morto e mio padre non ha fatto in tempo a vederlo. Sappiamo della notizia della morte di mio fratello dai Carabinieri, che vengono a casa intorno alle 12: 30, le premetto che sembrerebbe che mio fratello sia morto all’alba, vengono intorno alle 12: 30 per notificare a mia madre il decreto con il quale il Pubblico Ministero autorizzava l’esecuzione dell’autopsia in seguito al decesso di Cucchi Stefano. Questo è stato il modo in cui mia madre ha saputo della morte del figlio.”

Blog: “da lì in poi come avete fatto per vedere il corpo? All’obitorio vi è stata concessa questa possibilità?”

llaria Cucchi: “inizialmente no, c’è stata negata: dopo alcune insistenze è stata fatta una telefonata al Pubblico Ministero, il quale ha autorizzato che potessimo vederlo, ovviamente dietro a un vetro. Quello che abbiamo visto è stato uno spettacolo – mi creda – allucinante: mio fratello aveva il viso completamente devastato, era irriconoscibile, aveva un occhio gonfio e un altro sembrava incavato, la mascella sembrava rotta, aveva il viso come bruciato. Il corpo era coperto da un lenzuolo, non so quello che ci fosse sotto.”

Blog: “è vero che il magistrato vi ha vietato di fare fotografie al vostro.. ”

llaria Cucchi: “ovviamente il nostro consulente ha chiesto di poter fare la documentazione fotografica e le riprese, ma è stato negato. Adesso ci aspettiamo innanzitutto una serie di risposte e che lo Stato ci dica come è potuto accadere che non ci sia stato possibile stare vicini a Stefano nel momento in cui stava morendo. Ci devono spiegare anche perché abbiamo consegnato mio fratello allo Stato, alle istituzioni in una certa condizione di salute ottima e perché ce l’hanno restituito morto. Stefano era un normalissimo ragazzo di 31 anni, lavorava, lavoravamo insieme, lui era un geometra, anche mio padre è geometra e lavoriamo insieme nella stessa struttura. Mio fratello aveva un trascorso in una comunità di recupero per tossicodipendenti, dalla quale era uscito completamente riabilitato, tant’è che lavorava e stava bene, mio fratello stava bene, aveva tanta voglia di vivere e lo posso documentare con le sue lettere, con i suoi messaggi, mio fratello aveva voglia di vivere. In questo momento non sono in grado di accusare nessuno, e il problema è proprio questo, perché non so come sono andate le cose.”

Blog: “ci sono state delle interrogazioni parlamentari rivolte al Ministro della Giustizia? Cosa è successo?”

llaria Cucchi: “mi giunge voce che la risposta all’interrogazione del Ministro Alfano è stata che Stefano è caduto: ora mi spieghino dove, come e perché è caduto e, soprattutto, come ha fatto a morire. Che mi spieghino, per una caduta, come poteva riportare tutti quei segni di traumi sul viso e sul corpo e che mi spieghino perché è stato lasciato morire.”

Blog: “per voi questa non è la verità?”

llaria Cucchi: “questa non è assolutamente la verità: forse è parte della verità, ma sicuramente la vicenda non si chiude qui e sicuramente non si spiega la morte di mio fratello.”

Giovanni Cucchi: “quando è il momento in cui ho visto mio figlio all’obitorio mi è caduto il mondo, vedendolo così, in quelle condizioni veramente inimmaginabili. Ho provato un dolore enorme e un senso di frustrazione di fronte a quello che lo Stato ci può dare e, in effetti, mio figlio è entrato sano e è uscito morto in quelle condizioni. Voglio dire, non è ammissibile che, per qualsiasi cosa uno possa aver fatto, sia ridotto sia dal punto di vista fisico che anche dal punto di vista morale in quel modo, perché mio figlio è morto solo. E’ una rabbia enorme per come può finire un figlio così, massacrato in quel modo...”

Blog: “in che condizioni era il giorno dell’udienza per direttissima?”

Giovanni Cucchi: “il giorno dell’udienza lui… guardi, Stefano era una persona magra, lei ha visto la foto e perciò si è reso conto… non tutti forse… non può apparire… lui praticamente ha il viso gonfio, il doppio del viso di quello che si vede rispetto all’ultima foto che aveva e poi aveva, sotto gli occhi, dei segni neri, quindi segni evidenti di pugni negli occhi, di botte negli occhi. Si è presentato così alla causa. Però dal punto di vista fisico stava benissimo, si muoveva, il fatto delle vertebre rotte assolutamente non sussisteva, per quanto ho potuto vedere lo escludo al 100%. Stefano si muoveva, camminava, parlava, assolutamente si muoveva come una persona normale e, se ci fosse stato quel problema delle vertebre, per prima cosa avrebbe provato dolore e quindi l’avrei saputo, me l’avrebbe detto, ma a parte quello il suo comportamento era un comportamento normalissimo e conseguentemente lo escludo nella maniera più categorica.”

Blog: “è stato l’ultimo giorno che avete potuto vederlo?”

Giovanni Cucchi: “sì, sì, è l’ultimo giorno in cui abbiamo potuto vedere Stefano, esatto. E le assicuro che, nel momento in cui l’ho rivisto, non credevo ai miei occhi: non era possibile che Stefano mi fosse stato presentato in quelle condizioni, non era possibile! Guardi, è una cosa inimmaginabile, per un padre vedere il figlio così, dopo sei giorni che chiede notizie, avere una notizia in quel modo, detta in quel modo, chiedere addirittura – è quasi una beffa! – alla dottoressa che ci è venuta a comunicare all’esterno del carcere la morte di Stefano, dice “ma potevate chiederlo ai medici?”, ma come?! Sono cinque giorni che veniamo qui a chiedervi e non ci avete fatto entrare! Il secondo, il sabato… il lunedì siamo andati in carcere e ci hanno fatto entrare, ci hanno preso i documenti, dopo è uscita una sovrintendente e ha detto “no, mi dispiace, non vi possiamo fare parlare con i medici”. “Ma guardi che vogliamo solo parlare con i medici, non è che vogliamo parlare con Stefano, vogliamo sapere il suo stato di salute”, “no, non è possibile, perché deve arrivare il permesso”. Il permesso da dove non si sa, però dice “guardi, tornate domani, perché domani probabilmente questo permesso sarà arrivato e quindi potrete parlare con i medici”. L’indomani siamo tornati, il piantone non ci ha neanche fatto entrare: ci ha detto soltanto “io non so niente di questo, per parlare con i medici dovete avere il permesso del colloquio rilasciato dal giudice”. Sono andato il giorno dopo a chiedere il permesso, l’ho ottenuto e poi, il giorno dopo, sarei andato a Regina Coeli a farmelo confermare, perché lì c’è una questione di orari, non si riesce a fare tutto in una giornata. Però mentre tornavo per... mentre andavo per chiedere questo permesso mia moglie mi ha comunicato che Stefano era morto. Siamo andati a informarci sul perché Stefano è morto e non ci hanno dato nessuna scheda ufficiale, ci hanno solo comunicato verbalmente queste testuali parole: “si è spento, aveva un lenzuolo sempre sulla faccia, non voleva mangiare, non si voleva nutrire e non voleva le flebo, praticamente si è spento”. Siamo rimasti esterrefatti, allibiti, anche loro vedevo che tutto sommato erano imbarazzati nel rispondere: ci hanno comunicato questo, nessun documento ufficiale, soltanto questa affermazione, si è spento.”

Blog: “che ragazzo era Stefano?”

Giovanni Cucchi: “era un ragazzo normale, pieno di vita, allegro, determinato, volenteroso, lavorava, faceva il geometra, aveva tanti progetti, tante ambizioni e ogni tanto me le confidava. Insomma, era un ragazzo che stava in progressione, stava nel pieno assolutamente, era un ragazzo... ma poi, tra l’altro, aveva un carattere veramente da amico, da amicone, era amico con tutti, voglio dire, non poteva fare la fine …assolutamente, non poteva fare una fine così, guardi, non mi rassegno a che Stefano abbia fatto una fine del genere, non se lo meritava nella maniera più assoluta, non se lo meritava!”

Blog: “e adesso che cosa vi aspettate?”

Giovanni Cucchi: “ci aspettiamo che si faccia chiarezza, che ci dicano quello che non hanno potuto dirci prima, che ci spieghino con esattezza quello che è avvenuto e i motivi delle percosse, i motivi della morte con precisione: finora c’è stato il nulla, adesso vogliamo sapere tutto!”

Blog: “cosa è disposto a fare per ottenere questo?”

Giovanni Cucchi: “tutto, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultima goccia di vita io e mia moglie ci batteremo perché si faccia chiarezza su mio figlio!”

I magistrati? Tutti uguali.

Caso Cucchi, Ilaria attacca i pm: "Presi in giro", scrive “Libero Quotidiano”. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo l'incontro con la famiglia Cucchi si era detto disposto a riaprire l'indagine sulla morte di Stefano Cucchi, pronto a valutare nuovi elementi che dovessero emergere. Aspetti della vicenda che portò alla morte del giovane in carcere mai considerati a livello processuale, come la decisione da parte del giudice di direttissima di convalidare l'arresto del giovane (scambiandolo per un albanese) anzichè mandarlo agli arresti domiciliari. Poche ore dopo, però, lo stesso Pignatone è sceso in difesa dei pubblici ministeri che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy: "Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio" ha detto. E tra la sorella di Stefano, Ilaria, e la procura romana è tornato a scendere il gelo: "Non sono passate nemmeno due ore e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo". Prima dell’appuntamento con Pignatone Ilaria aveva sottolineato: "Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato". Poi, al termine dell’incontro, aveva anticipato: "Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio". Ma la doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro.

Caso Cucchi, al via l’inchiesta-bis. Ma è gelo tra Ilaria e la Procura. Pignatone difende i pm dell’inchiesta, la sorella di Stefano: «Allora abbiamo perso tempo». Il procuratore rivedrà le carte: nel mirino i carabinieri che arrestarono il geometra e i medici che lo visitarono al Fatebenefratelli e a Regina Coeli, scrive Lavinia Di Gianvito e la redazione Roma online su “Il Corriere della Sera”. Pace fatta. Anzi no. È gelo - ancora una volta - tra Ilaria Cucchi e la procura di Roma nonostante il capo, Giuseppe Pignatone, abbia promesso di rivedere le carte dell’inchiesta sulla morte di Stefano. Il grande freddo scoppia quando il magistrato, per la prima volta da quando si è concluso il processo d’appello, spende qualche parola in difesa dei pm che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, in questi giorni alquanto «irritati» dallo tsunami esploso dopo la sentenza di assoluzione degli imputati in appello. «Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio», sottolinea Pignatone dopo aver avuto con loro un colloquio di un’ora. Per Ilaria, che con i due sostituti si è scontrata più volte, è come gettare benzina sul fuoco: «Non sono passate nemmeno due ore (dall’incontro con la famiglia Cucchi, ndr) e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo». La revisione annunciata dal procuratore sarà, comunque, a tutto campo. E stavolta nel mirino dell’accusa potrebbero finire i carabinieri che nel 2009 arrestarono Stefano Cucchi e lo condussero in tribunale per l’udienza di convalida. E i medici del Fatebenefratelli e di Regina Coeli che nelle ore successive lo visitarono senza accorgersi delle botte. Pignatone lo spiega tra le righe: «Procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell’inchiesta, dal primo all’ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo». Il procuratore aspetterà anche le motivazioni della sentenza d’appello (90 giorni per il deposito) e quindi deciderà se formalizzare una nuova indagine. Le probabilità, tuttavia, non appaiono elevate se, come si fa notare nei corridoi di piazzale Clodio, «nessun giudice ha mai segnalato lacune nell’operato della procura né ha mai trasmesso gli atti all’ufficio per approfondire questa o quella posizione». Prima dell’appuntamento con Pignatone, ai microfoni di RaiNews24, Ilaria aveva sottolineato: «Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato». Poi, al termine dell’incontro lunedì pomeriggio a piazzale Clodio, aveva anticipato: «Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio». E aveva ringraziato Pignatone per aver «fatto le condoglianze ai miei genitori. Una frase così scalda il cuore dopo cinque anni che mio fratello è stato trattato come un cane e noi siamo stati presi in giro dalla giustizia». Insomma, sembrava che la famiglia Cucchi avesse siglato la pace - o almeno una tregua - con la procura. Ma doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro. E intanto dopo le proteste, lo sconcerto, le manifestazioni di solidarietà alla famiglia, sul caso Cucchi è arrivata anche una lettera di Adriano Celentano, postata sul suo el blog «Il Mondo di Adriano». Il cantante scrive direttamente al giovane morto immaginando di potergli parlare là dove potrebbe trovarsi, in Paradiso: «Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un’altra cosa. L’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c’è la LUCE, la LUCE vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici “ignavi” che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene né da quella del male sono i più pericolosi, e giustamente il Poeta li condanna. Ma adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l’AMORE del “Padre che perdona”» e non i sentimenti «di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». Dal fronte opposto però non è mancato un attacco durissimo: il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ha sporto querela contro la sorella del geometra. «Dopo essersi improvvisata aspirante deputato prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni dei pm - si legge in una nota -, magari per confezionare la sentenza che più la soddisfi». Sulla bufera di questi giorni è intervenuto anche il senatore Luigi Manconi. «C’è un problema culturale di portata enorme - osserva-: quando due sindacati di polizia, il Cosip e il Sap, sostengono che “lo stile di vita dissoluto di Cucchi è stata la causa della sua morte” e quando un parlamentare della Repubblica, Giovanardi, parlando di Cucchi lo definisce “larva, zombie, anoressico, epilettico, tossicodipendente”, vuol dire che messaggi del genere si trasmettono agli apparati dello Stato che hanno a che fare con persone simili a Stefano Cucchi. È quindi evidente che queste persone, quelle che hanno incontrato Stefano, lo abbiano guardato come un cittadino di serie B. E che lo abbiamo ritenuto una persona condannabile e non considerato come essere umano di pari dignità rispetto agli altri».

Cucchi, la famiglia: "Procura rivedrà atti". Ma Pignatone li gela: "Dai pm un ottimo lavoro", scrive “La Repubblica”. L'incontro con il procuratore capo di Roma che aggiunge: "Controlleremo anche le posizioni di chi non fu oggetto di indagine". Ma la sorella si indigna sulla fiducia accordata a Barba e Loy: "Forse abbiamo perso tempo". Celentano sul suo blog scrive: "Hai visto Stefano in che mondo vivevi? Pieno di giudici ignavi". Lungo post su Fb di Jovanotti. Magistratura democratica: "Sconfitta per lo Stato". Il Sappe (polizia penitenziaria) querela Ilaria Cucchi perchè "istiga l'odio e il sospetto". La Rete si infiamma per Stefano: #sonostatoio e #vialadivisa"Abbiamo avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della vicenda". A dirlo, lasciando gli uffici del tribunale di piazzale Clodio, è stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il geometra romano arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. "Mi aspetto che mio fratello, morto per ingiustizia, abbia giustizia". A dirlo è Ilaria Cucchi poco prima di fare ingresso, insieme al padre Giovanni e alla mamma Rita, negli uffici del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Proprio Pignatone domenica, nel ritenere inaccettabile una morte come quella di Stefano Cucchi, ha espresso la disponibilità a riaprire le indagini. Venerdì scorso la sentenza d'appello ha assolto tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato per droga nel 2009 e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. Mostrando le foto di Stefano subito dopo il decesso, Ilaria Cucchi ha detto: "Questa per i giudici è morte per insufficienza di prove. Lo Stato non è stato in grado di garantire i diritti di Stefano da vivo e ora non è in grado di dire che era ridotto così. Basterebbe guardare queste foto per riflettere". Ora, ha proseguito Ilaria, "mi aspetto che il procuratore capo pignatone assicuri alla giustizia i responsabili di questo pestaggio, che è avvenuto qui in tribunale". Domenica 2 novembre 2014 il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, aveva dichiarato "inaccettabile una morte che avviene quando si è affidati Stato" e si era detto disponibile a "riaprire le indagini". E oggi pomeriggio ha incontrato la famiglia Cucchi. "Con animo sereno e senza pregiudizio, nè positivo nè negativo, procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell'inchiesta, dal primo all'ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo. E all'esito di questo esame, una volta conosciute le motivazioni della sentenza della corte d'assise di appello di Roma, faremo le nostre valutazioni" ha confermato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Che però, dopo un successivo incontro di circa 40 minuti con i pm che hanno condotto l'inchiesta sulla morte di Cucchi ha voluto precisare: "I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno svolto un lavoro egregio, ho estrema fiducia in loro". E questa dichiarazione, in serata, ha fatto indignare Ilaria Cucchi: "Non sono passate nemmeno due ore e il dottor Pignatone ha già capito che i pm Barbara e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo".  Si chiama #sonoStatoio ed è l'hastag che sta spopolando su Twitter, assieme a #vialadivisa, dopo la sentenza di assoluzione della Corte d'appello per tutti gli imputati del processo Cucchi. In tanti hanno deciso di mettere la propria foto con un cartello o un semplice pezzo di carta e la scritta che rimanda allo "Stato la responsabilità di quanto successo a Stefano", il giovane geometra romano arrestato nel 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale. Un collage di solidarietà alla famiglia del giovane morto e insieme di indignazione verso la sentenza. Prima di entrare negli uffici della Procura, Ilaria Cucchi aveva voluto esporre nuovamente le foto del fratello morto davanti a Palazzo di Giustizia.  "Non ci fermeremo, andremo avanti fino a quando non si dirà cosa è successo a Stefano" ha ribadito Rita Calore, la mamma di Stefano. E Ilaria ha aggiunto, mostrando la gigantografia del fratello: "Questa è l'insufficienza di prove, lo Stato non ha saputo garantire i diritti di mio fratello da vivo, ed ora non è in grado di dire chi l'ha ridotto così. Basta guardare questa foto e riflettere". Intanto, anche i big della musica prendono posizione sulla vicenda di Stefano Cucchi. Adriano Celentano e Jovanotti hanno scritto due lunghi post rispettivamente sul proprio blog e sulla propria pagina Fb.  Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, invece,  ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Secondo Donato Capece, segretario generale del sindacato, "Ilaria Cucchi vuole istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria".

Adriano Celentano. "Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un'altra cosa". Comincia così la lettera indirizzata a Stefano Cucchi da Adriano Celentano e pubblicata sul blog dell'artista. Il cantante definisce "ignavi" i giudici "che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene e né da quella del male sono i più pericolosi". E aggiunge: "Certo, dove sei ora è tutta un'altra cosa. L'aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c'è la luce, la luce vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici ''ignavi''. Adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l'amore del ''Padre che perdona'' e non di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti. Perché dove sei tu non si può morire. La morte non è che un privilegio dei comuni mortali e quindi proibito a chi non ha la fortuna di nascere. Un privilegio dell'anima che, se non la uccidiamo del tutto, ci riconduce alla Vita Eterna", conclude Celentano.

Jovanotti. "A me Stefano Cucchi sembra di conoscerlo. Questa famiglia potrebbe essere la mia, e la famiglia di tantissima gente, per questo ci si sta male, per questo è da ieri che se ne parla, si cerca di capire, ci si commuove e ci si arrabbia, e ci si vorrebbe stringere a questa famiglia" scrive da New York, dove sta lavorando al suo nuovo album, Jovanotti. "Quando la Polizia prende il consegna un cittadino disarmato, lo arresta, in base al diritto democratico quella persona deve potersi sentire totalmente al sicuro anche nel caso più estremo, anche se fosse il peggiore dei fuorilegge. E' una cosa ovvia, la cosa più ovvia, la base stessa di una democrazia. Tocchi questa cosa e salta tutto per aria". "C'è qualcosa in questa storia - aggiunge Lorenzo - che mi fa pensare alle sliding doors, quella teoria per cui bastano due passi nella direzione giusta e sei al sicuro e una porta sbagliata al momento sbagliato e imbocchi una serie di porte maledette, fino all'ultima porta. Ci sono però alcune 'sliding doors' che non possono essere una lotteria. La vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai". "Se per qualsiasi ragione - prosegue il musicista - mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso e si mettono a parlare del tempo, quei paesi dove c'è un solo telegiornale, non so se avete presente. L'Italia non è uno di quei paesi, ormai rari, per fortuna, per questo i caso come quello di Stefano Cucchi spezzano il cuore e fanno paura, perché sono squarci che si aprono verso l'inferno vero, quello della violenza protetta da una divisa o da un camice. La famiglia Cucchi andrà avanti a cercare la verità, perché è giusto, ci vuole coraggio e il loro coraggio va sostenuto, e spero proprio che tutta l'Italia sarà al suo fianco, prima di tutto l'Italia delle istituzioni, senza farne una ragione per dividersi anche sul più fondamentale dei principi della democrazia", conclude Jovanotti.

Magistratura democratica. Secondo Md l'epilogo, momentaneo, del processo Cucchi "è una sconfitta per lo Stato" ma anche per le forze dell'ordine "che non hanno saputo collaborare lealmente all'accertamento della verità"), per il sistema penitenziario e per il Servizio Sanitario ("che non hanno saputo assicurare assistenza e cure adeguate a chi ne aveva bisogno"), per il sistema giudiziario ("e non perché gli imputati sono stati assolti, ma perché quel sistema non ha saputo infondere in un giovane arrestato la fiducia di cui avrebbe avuto bisogno per denunciare chi, con grave violazione dei propri doveri, aveva attentato alla sua integrità fisica", e impone di interrogarsi "sulla capacità di assicurare effettiva tutela ai diritti violati". "Cinque anni e due gradi di giudizio non hanno consentito di accertare responsabilità penali per la morte di Stefano Cucchi e tuttavia è stato provato in giudizio che egli fu vittima di violenza mentre si trovava in stato di arresto" argomenta il comitato esecutivo di Magistratura democratica.

La querela del Sappe. Il Sappe (il Sindacato autonomo polizia penitenziaria) ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Lo ha reso noto Donato Capece, segretario generale del sindacato, sostenendo che "l'insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria di soggetti operanti nell'ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione. Questo non lo possiamo accettare. Abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi a difesa dell'onore e del decoro della polizia penitenziaria". "Dopo essersi improvvisata aspirante deputato - ricorda Capece - aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di pubblico ministero, magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello. Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo. Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell'esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c'era nulla) e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l'autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento? ". Il segretario del sindacato definisce poi "Pretestuosa" anche l'idea di intitolare una strada di Roma a Stefano Cucchi: "E' una proposta demagogica e strumentale. A parte che non possono intitolarsi strade o vie a chi è morto da non meno di dieci anni, lo dice la legge, mi chiedo quali siano le benemerenze verso la nazione di Stefano Cucchi idonee a legittimare tale singolare richiesta. Ma quante sono, a Roma, le strade dedicate alla memoria degli appartenenti alle forze di polizia e di soccorso pubblico morti per mano della criminalità o, appunto, nel corso di interventi di soccorso?".

Il sindacato di polizia. Il Coisp attacca invece l'ipotesi approvata in Assemblea capitolina e confermata dal sindaco Marino di dedicare una strada al giovane: "Una faccenda incomprensibile" l'ha definita il segretario generale Franco Maccari.

Il giudice: "Lo Stato deve punire i responsabili della morte di Cucchi al di là delle sentenze". Parla il fondatore di magistratura democratica Livio Pepino. "L'amministrazione pubblica deve reagire". Per ridare fiducia nelle istituzioni ed evitare che le violenze si ripetano, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.

«Dunque non ci sono responsabili per la morte di Stefano Cucchi, che entra così nel sempre più lungo elenco dei morti di Stato senza giustizia. Lo strazio e la vergogna per un esito del genere restano, per me, insuperabili. Da cittadino e da giudice».

È il primo sentimento che vuole ribadire Livio Pepino, tra i fondatori di Magistratura democratica, di cui è stato presidente, parlando della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati - agenti, medici e infermieri - per la morte, a una settimana dall'arresto, del trentunenne Stefano Cucchi.

«Ma credo sia ipocrita e deresponsabilizzante fermarsi solo sul segmento finale», aggiunge subito: «Il fatto più inquietante è l’omertà, la serie infinita di coperture che ha caratterizzato questo processo e che caratterizza la totalità (o quasi) dei processi analoghi». 

«C’è stato chi ha infierito e chi ha omesso di soccorrere», precisa: «Ma c’è stato anche chi ha girato gli occhi dall’altra parte, chi ha finto di non vedere, chi ha taciuto pur avendo l’obbligo giuridico di denunciare i fatti. Questo è lo scandalo più grande e una delle ragioni dell’esito sconvolgente del processo. Credo – e lo dico con piena convinzione – che chi ha taciuto e tace per omertà o per corporativismo sia altrettanto colpevole di chi ha colpito o omesso di soccorrere».

«Da magistrato quindi vedo due problemi», spiega: «Quello penale, di un'indagine che non è riuscita nel suo scopo. E quello, altrettanto grave, che riguarda le istituzioni: la mancata risposta da parte del corpo dello Stato, la mancata azione nei confronti dei responsabili politici e amministrativi di questa morte». Perché «una risposta diversa, istituzionale, sarebbe stata ed è ancora possibile. Oltre che necessaria. Perché se non cambiamo questa cultura d'omertà casi come quello di Stefano purtroppo si ripeteranno».

Pepino, ex sostituto procuratore generale a Torino, poi consigliere di Cassazione e fino al 2010 membro del Csm, condivide con queste parole la sua «considerazione preoccupata» a due giorni dalla sentenza. Per la quale: «La famiglia continua a chiedere giustizia», spiega il giudice, che ha lasciato il servizio quattro anni fa: «Ma demandare la risposta, ancora una volta, solo all'ambito penale sarebbe un errore gravissimo. Il tribunale fa il suo lavoro, cerca colpe individuali dimostrabili con prove certe. Ma al di là del processo, l'amministrazione pubblica e la rappresentanza politica possono fare molto. Devono farlo. Non possono lavarsene le mani, dicendo: ci pensino i pm».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che lo Stato può punire i responsabili per le loro colpe politiche e gestionali, anche se quelle penali non si dovesse riuscire a dimostrarle».

È mai successo?

«Sì. Nell'agosto del 1985 un giovane calciatore fu picchiato a morte da alcuni poliziotti di Palermo, mentre era in arresto perché ritenuto colpevole dell'omicidio del commissario Beppe Montana. L'allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro fece subito dimettere il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. E non perché fossero ritenuti coinvolti penalmente nel pestaggio. Magari erano altrove, il processo non era nemmeno iniziato. Ma sotto la loro guida si era formata quella squadra, la sua prassi, il suo modo d'agire. Essendo i capi dovevano essere puniti. Per dare un segnale, un esempio, a tutto il corpo dello Stato».

Per Cucchi non si è avviato niente di simile...

«Infatti. Ed è quello che mi preoccupa di più. Il clima di omertà e copertura che hanno avuto gli apparati dello Stato coinvolti nella morte di Cucchi è un pessimo segnale per tutto il paese. Perché mostra come sia lontana quella cultura delle garanzie e del rispetto dell'altro, qualunque sia il reato di cui è sospettato, che dovrebbe permeare le istituzioni. Messaggi come quello del sindacato di Polizia Sap, in cui gli agenti si dicono soddisfatti perché "se uno si droga e muore non è colpa nostra" sono di una gravità assoluta. Oggi chi è sospettato è considerato un inferiore, a cui far subire quello che si vuole. Come possiamo chiedere fiducia dopo aver visto i responsabili della carneficina della Diaz di Genova 2001 fare carriera?»

Forse la procura di Roma riaprirà le indagini. Cosa ne pensa?

«Lo ribadisco. Cucchi non si è suicidato e non è morto per cause naturali. Di sicuro quindi l'indagine che ha portato alla sentenza di venerdì non è arrivata al risultato: individuare i colpevoli. In questi casi, quando le responsabilità vengono continuamente palleggiate da una parte all'altra, bisogna riuscire subito a mettere alcuni punti fermi, altrimenti sarà sempre più difficile fondare delle certezze. Quindi è un bene che la magistratura cerchi di fare al meglio il suo lavoro. Ma non può essere lasciata sola. Perché giustizia può, e dovrà essere data, in questo caso, anche se fosse impossibile individuare colpe penali».

Chi dovrebbe agire allora?

«Come dicevo: lo Stato. Punendo i responsabili gestionali, amministrativi, politici, della morte di Stefano Cucchi. Trovare i colpevoli è importante. Ma è fondamentale chiedersi anche come è stato materialmente possibile che Cucchi sia stato visto da una pluralità di persone, dal magistrato, l'avvocato, dagli agenti delle camere di sicurezza, dal personale sanitario, e nessuno abbia visto niente, tranne il compagno di cella».

"Si sono girati dall'altra parte", ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi.

«Anche a me da Pm è capitato di vedere in carcere qualcuno arrestato da poco con un occhio nero. Chiedevo "Come mai?" e spesso non ottenevo risposta, perché sia gli imputati che gli avvocati consigliano di stare zitti per evitare di essere accusati di calunnia, per il timore di denunciare un fatto che non puoi dimostrare, che ti si ritorca contro. Stefano è arrivato sano nelle mani dello Stato ed è uscito una settimana dopo cadavere. Ora, a prescindere dal processo, lo Stato è responsabile di questa morte».

Un medico imputato, intervistato dall'Espresso, aveva parlato di "Processo mediatico". Additando l'ingiustizia di una pressione pubblica che aveva indicato colpevoli prima delle prove.

«Rispondo con una citazione: "Il compito del giudice è assolvere in mancanza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per la condanna, e condannare in presenza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per l'assoluzione". E il giudice, questo suo ruolo, lo svolge».

Anche il giudice popolare di una Corte d'Assise?

«Anche lui. L'attenzione pubblica e mediatica in casi come questo, è fondamentale. Perché permette di equilibrare quel clima di coperture e omertà che aleggia intorno processi così delicati. Perché il giudizio su Piazza Fontana fu spedito a Catanzaro? Per distogliere l'attenzione, per allontanarsi dalla pressione della gente che voleva sapere. Così è, credo, in questo caso: la mobilitazione dell'opinione pubblica restituisce al giudice la sua terzietà. E dà sostegno alle vittime».

Da chi si aspetterebbe allora un intervento oggi, proprio in riferimento a quella necessità che siano tutte le istituzioni, e non solo i tribunali, a muoversi, se un ragazzo muore nelle mani dello Stato?

«Mi aspetterei l'intervento del capo dello Stato. Del primo ministro o del Presidente. Per l'omicidio Brown a Ferguson è intervenuto il presidente americano Barack Obama. Sono i vertici politici a doversi esporre contro questi episodi, che fanno male allo Stato di diritto e alla fiducia nelle istituzioni».

Il sindacato di polizia querela Ilaria Cucchi. E su Facebook: "È fortunata a vivere in Italia". Non sono bastati i primi comunicati. Ora il sindacato autonomo della Penitenziaria - Sappe - ha depositato una denuncia per istigazione all'odio contro la sorella di Stefano. "Basta con le illazioni contro di noi". Mentre sui Social Network si scatenano gli insulti. E le difese delle guardie, scrive ancora Francesca Sironi su “L’Espresso”. Ilaria Cucchi con la foto del fratello protesta dopo la sentenza d'appello Istigazione all'odio. Ne sarebbe responsabile, secondo il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto mentre era nelle mani dello Stato il 22 ottobre del 2009. «Dopo essersi improvvisata aspirante deputato, aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di Pubblico Ministero», attacca il segretario generale del sindacato Donato Capece, in un comunicato pubblicato in rete e ripreso dalla stampa nazionale: «magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello». Insomma: la richiesta di giustizia della famiglia, nata da una sentenza che ammette (mentre si aspettano le motivazioni) un black out di Stato sulla morte di un ragazzo di 31 anni visto in una settimana, fra camere di sicurezza e ospedale, da numerose persone, fra funzionari, agenti e medici, sarebbe totalmente illegittima, secondo il sindacato. «Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo», continua Capece: «Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell’esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c’era nulla) [Loro però non le stanno pubblicando ndr] e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l’autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento?». Per tutto questo il corpo poliziesco ha deciso di depositare una querela nei confronti di Ilaria Cucchi con l'accusa di istigazione all'odio nei confronti della categoria. Lei, a cui "è stato ucciso il fratello". «L’insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione», recita il comunicato: «Questo non lo possiamo accettare. Proprio per questo abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi: a difesa dell’onore e del decoro della Polizia Penitenziaria». «Non è Ilaria Cucchi a istigare l'odio ed il sospetto nei confronti dei poliziotti ma la sentenze scandalosa della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano», commenta sulla pagina Facebook del sindacato (9mila like) Salvatore Mara: «State scavando un solco preoccupante tra istituzioni e cittadini». Ma non tutto il dibattito è di questo tenore. «Per me Cucchi non è sicuramente innocente o un santo perché comunque sia ha seminato morte spacciando droga», è la convinzione di Ilaria Dimitrio Bonsignore: «La fortuna della sorella di Cucchi è di vivere in Italia ovvero il paese dei balocchi in un altro Stato tutto ciò non sarebbe mai esistito». «Un applauso al nostro condottiere dott. Donato Capece. Lei è l'unico a difesa della Polizia Penitenziaria», scrive entusiasta il casertano Paolo Galeone. «Io servo lo stato non la violenza, ma ti farei fare un giorno in carcere chiavi in mano con soggetti come il Cucchi...», scrive Vincent B. di Formia: «Che pretendono solo e ti denigrano continuamente... saresti il primo a tirare due ceffoni. Noi invece resistiamo, li calmiamo, io ci parlo con loro. Ma purtroppo quando, come per Giuliani, nel momento in cui ti lanciano un estintore ti devi difendere». «Due ceffoni sono una cosa, pestare come hanno fatto molti tuoi colleghi alla Diaz per puro divertimento è un'altra. O magari anche quelli si sono comportati da impeccabili servitori dello Stato?», replica Paolo. «Perdonami ma con Cucchi siamo oltre i 2 ceffoni», interviene sempre su Facebook Giovanni Spagnolo: «Io sono per il rispetto dell ordine, sto dalla parte di chi ci difende e capisco che ci sono soggetti che ti mandano fuori di testa ma siamo pur sempre in Italia non in una galera messicana e abbiamo strumenti moderni per sedare un facinoroso senza sfondarlo di botte». «Qui si parla di soggetti che anche senza motivo collezionano testate al muro per capire quanto misura il perimetro della cella, oppure si tagliano sapendo di essere infetti da patologie veneree e ti schizzato il sangue addosso, oppure prendono, scaldano lolio e te lo buttano in faccia», ribatte allora Vincent: «Magari ci fossero le pistole elettriche, almeno si paralizza il soggetto... alla nostra incolumità non pensa nessuno: siamo diventati camerieri, nessuno ci loda o ci lustra. Sai quanti suicidi ci sono nel nostro corpo? Siamo alla frutta. E la storia di Cucchi è una storia triste da entrambe le parti: gli agenti padri di famiglia avevano piacere gratuito ad uccidere di botte un ragazzo senza motivo? Non credo...». Dopo gli sfoghi arrivano anche gli insulti. Concentrati in queste ore contro Adriano Celentano, per uno suo post sul blog personale in cui scrive a Stefano Cucchi dicendogli «Ora puoi scorazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». «Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma poi si corre il rischio di mettere in evidenza la propria ignoranza», ha risposto Capece: «Celentano è tanto ignorante da non sapere che in Italia non esistono guardie carcerarie ma, soprattutto, che i poliziotti penitenziari coinvolti nella vicenda giudiziaria sulla morte di Stefano Cucchi, sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti. Lo preferiamo come cantante, Celentano. Almeno evita di dire stupidaggini». «Querelate anche lui», suggeriscono gli amici sui social network.

Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.

Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....

Un Giudice di Fabrizio de André

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura,

ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,

o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,

che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;

la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore,

per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale,

giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"

e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

Ilaria Cucchi querelata. E, purtroppo, poco sorprendentemente, a sporgere denuncia per diffamazione è stato il Coisp, il piccolo sindacato di polizia finito agli onori delle cronache già l'anno scorso, quando organizzò una manifestazione in solidarietà agli agenti di Ferrara che uccisero Federico Aldrovandi proprio sotto gli uffici della madre della vittima. Ora, il sindacato, se la prende con la sorella del giovane Stefano Cucchi, il geometra romano morto in circostanze poco chiare qualche giorno dopo l'arresto. Un mese fa, anche i tre agenti assolti in primo grado per la morte del ragazzo avevano deciso di querelare Ilaria per alcune sue dichiarazioni. Così che adesso la donna si trova a dover rispondere dalle accuse mossegli dalla stessa Procura da lei più volte criticata.  Interpellata riguardo la querela, comunque, la trentottenne non mostra segni di cedimento. "Lo considero un vero e proprio atto intimidatorio", ha infatti commentato al Fatto Quotidiano. "Se pensano che questo possa in qualche modo fermarmi nella mia battaglia di verità e per il rispetto dei diritti civili si sbagliano di grosso. Spero che la giustizia faccia il suo corso, ma che lo faccia in fretta. Credo di avere il diritto di chiederlo come cittadina e come tutti i cittadini”.

«Ebbene si! Sono sono sottoposta ad indagini dalla procura della Repubblica di Roma. Mi ha querelato il signor Maccari del sindacato della polizia di Stato COISP». Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi. «Sono indagata per aver offeso l'onore della Polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte - si legge -. Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato. Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello. Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia. Io voglio confessare tutto, ogni cosa. Queste morti offendono la Polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti». «Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Federico Perna, Gabriele Sandri e tanti tanti altri non dovevano morire. No. È colpa loro se è stato offeso lo Stato. Stefano Cucchi è morto per essere stato portato nel Tribunale di piazzale Clodio, a Roma e poi all'ospedale Pertini. Stefano Cucchi non doveva morire. La colpa è sua se la polizia si sente offesa. È colpa mia. Voglio essere processata per questo. Questi padri figli fratelli non dovevano morire. E siccome sono morti noi famigliari dovevamo stare zitti. Il dolore e le tremende sofferenze alle quali sono stati sottoposti non sono importanti. No. Loro non dovevano morire e se sono morti è colpa loro. Tutta colpa loro. E noi tutti, soprattutto, dovevamo e dobbiamo stare zitti. Zitti. E ringraziare» conclude amareggiata Ilaria Cucchi. «Sono stata denunciata dal Coisp, dal signor Franco Maccari che oltre me hanno denunciato anche Lucia Uva e Ilaria Cucchi. Non so ancora per Quale reato sono stata denunciata, domani il mio avvocato Fabio Anselmo si recherà in procura a Roma per ritirare il fascicolo a mio carico. Questa per me è la prima denuncia se dire la verità costituisce reato, io andrò avanti a commettere reati, tanti reati, continuerò a dire la verità che tutti conosciamo. In Italia funziona così chi ammazza i nostri cari rivestendo una divisa, negando spudoratamente anche d'avanti ai giudici, dopo aver fatto un giuramento continua a lavorare e chi dice la verità viene denunciato. Non mi fermerò continuerò a dire la verità, non sono spaventata, vogliono condannarmi per aver detto la verità?, io mi assumo le mie responsabilità, non ho nulla da temere chi ha qualcosa da temere e chi indossa una divisa sporca di sangue. La divisa è sacra rappresenta lo stato, chi ha ucciso non è degno di indossare una divisa, deve essere butto fuori dalle istituzioni». Così in una nota Domenica Ferrulli, figlia di Michele, l'uomo di 51 anni morto il 30 giugno 2011 a Milano durante un arresto. "Conosco da anni Lucia Uva, Ilaria Cucchi e Domenica Ferrulli: da quando i loro familiari sono rimasti vittime di violenze da parte di membri di apparati dello Stato. Come so e come posso ne sostengo le richieste di accertamento della verità e la domanda di giustizia. In tutto questo tempo ho avuto modo di conoscere quanto sia esemplare la loro coscienza di cittadine che, nonostante le mille delusioni e le frequenti umiliazioni patite, continuano a credere nello stato democratico e nelle sue istituzioni. Dopo tanti anni di attese frustrate, queste tre "donne coraggio" si rivolgono ancora con fiducia ostinata ai tribunali della Repubblica. Contro di loro, un sindacatino fellone ha l'improntitudine di promuovere un'azione giudiziaria, cercando uno straccio di notorietà nell'infangare la memoria di tre vittime dello Stato e dei loro familiari. È proprio questo simil-sindacato a "vilipendere" la dignità delle istituzioni dello Stato democratico e a macchiare la divisa e i valori dei quali dovrebbe essere simbolo". Così il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, presidente della Commisisone Diritti Umani a Palazzo Madama.

Vergogna di Stato. Caso Uva, il pm è sotto inchiesta: "Aggressivo con l'unico testimone", scrive “La Repubblica”. L'operaio di Varese morì in ospedale dopo essere stato trattenuto per ore in caserma. A più di cinque anni di distanza il magistrato sente l'unico testimone. E il senatore Manconi, presidente dell'associazione "A buon diritto" lo accusa: "Ha avuto un atteggiamento intimidatorio". Ora la vicenda è al vaglio del Csm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare: Alberto Biggiogero. Il video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste. Il confronto tra Abate e Biggiogero è durato più di quattro ore, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere sé stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione. La convocazione di Biggiogero in Procura, lo scorso 26 novembre 2013, arriva proprio dopo che i due autonomi procedimenti. Il tribunale di Varese, nella sentenza con cui aveva assolto il medico del pronto soccorso dall'accusa di omicidio colposo, aveva chiesto di indagare su quanto accaduto in caserma "perché - scriveva - tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri". Indagini che secondo la Procura generale della Cassazione non sono state mai compiute dal pm Abate, che nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione per otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali in relazione alla morte di Uva. Ciò nonostante il gip varesino Giuseppe Battarino aveva configurato come sussistenti i reati di arresto abusivo e lesioni dolose in capo agli agenti, chiedendo al pm se c'erano anche altri reati. "Questo interrogatorio è stato fatto solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto', anche lui convocato in Procura per rendere conto delle sue dichiarazioni sui media in cui accusava il pm di indagini lacunose e parziali. Adesso il Csm si occuperà nuovamente del caso Uva. L'assemblea dovrà pronunciarsi su un altro esposto nei confronti del pm Abate. La denuncia riguarda l'iniziativa del pm che ha messo sotto indagine l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, per "poter acquisire informazioni sull'attività difensiva di quest'ultimo in favore dei propri assistiti". A presentarla sono state Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara nel 2005 durante un controllo di polizia, e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato per droga e morto una settimana dopo in ospedale. La prima commissione del Csm aveva chiesto al plenum di archiviare l'esposto con la motivazione che non ci sono provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto che si tratta di "censure ad attività giurisdizionale". Ma grazie a un intervento di Giovanna Di Rosa, togata di Unicost, la proposta è stata stralciata e messa all'ordine del giorno del plenum.

Da Cucchi ad Aldrovandi: l’onore non ha divise, scrive Giulia D’Argenio su “OrticaLab”. Il marciume che il Coisp vorrebbe celare va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Accusano Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Domenica Ferrulli, figlia di Michele, Lucia Uva, sorella di Giuseppe, di avere offeso l’onore della Polizia di Stato. Figlie e sorelle di uomini uccisi da uomini in divisa. La querela a carico delle tre donne è stata depositata dal signor Franco Maccari in nome e per conto del Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia, il Coisp. Insieme a loro, querelato anche Leonardo Fiorentini, consigliere di circoscrizione ferrarese, colpevole di essersi schierato al fianco Patrizia Moretti Aldrovandi, mamma di Federico, all’epoca della farsa posta in essere da un manipolo di iscritti al medesimo sindacato. Nel mese di marzo del 2013, infatti, un gruppo di aderenti al Coisp organizzò un sit-in sotto la finestra dell’ufficio comunale dove lavora Patrizia Moretti, una madre colpevole di avere chiesto verità e giustizia per il figlio. Una verità scomoda, perché ha coperto di vergogna, come in tanti altri casi di morti di Stato accertate, gli organi di Polizia. Con le sue azioni provocatorie, il coordinamento sindacale non ha certo contribuito alla causa né riabilitato quei corpi di polizia nell’interesse dei quali dichiara di agire. Perché, come ha scritto Ilaria Cucchi in risposta alla notizia del fascicolo aperto, a suo carico come di altri e per i medesimi motivi, presso la Procura della Repubblica di Roma, è “colpa loro se è stato offeso lo Stato”. E se la verità processuale ha assolto gli uomini in divisa sotto accusa per la morte di Stefano Cucchi e di Stefano Brunetti, il cui nome non ricorre in questa grottesca vicenda, mentre sono state archiviate le indagini sul caso Uva, a riprova di quell’offesa restano le morti violente di Aldrovandi, Ferrulli e di Riccardo Rasman, omone il cui nome Maccari ha scelto di lasciare in pace. Sono i responsabili di quei fatti ad aver disonorato le divise che portavano, in quanto tutori dell’ordine, perché sono stati loro, volontariamente e deliberatamente, a sporcarle di sangue, sentendosi titolari di un potere di vita o di morte su chi avevano di fronte. Quelle divise rappresentano il fondamento stesso della legittimità dello Stato, volendo fare un po’ di teoria politica spicciola. Oltraggiandole con la loro condotta hanno portato uno smacco alle stesse istituzioni che erano chiamati a tutelare, riempiendo di vergogna i loro colleghi. Senza voler celebrare eroi, perché un lavoro è un lavoro e lo si sceglie, accettandone tutti i rischi e i pericoli che lo connotano, senza voler giustificare né cercare alibi, è pur vero che quelle stesse uniformi sono portate anche da uomini e donne non avvezzi a un utilizzo gratuito della violenza. Persone che fanno quello stesso lavoro con correttezza, credendo nei principi che sono chiamati a tutelare e che le loro divise dovrebbero rappresentare. Perché ci sono anche agenti di polizia che hanno provato vergogna di fronte alle immagini della Diaz e ai quali si sono drizzati i peli della barba ad apprendere delle morti di Stato, come giornalisticamente si usa chiamarle. Se il Coisp con questa nuova farsa pensa di fare l’interesse della Polizia di Stato o di qualsiasi altro corpo si sbaglia. Perché è innegabile la presenza di mele marce al loro interno e, tanto quanto i criminali, i violenti, i facinorosi che caricano durante le manifestazioni, senza alcun rispetto per le regole, questo marciume va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Perché un agente di polizia non è certo immune dalla legge che dovrebbe far rispettare. Anzi. I tanti, troppi casi come quello di Cucchi, Aldrovandi, Ferrulli, Uva sono la prova di quanto urgente sia garantire il rispetto dell’elementare principio secondo il quale la “legge è uguale per tutti”, senza cedere a facili e inutili strumentalizzazioni, da nessuna parte. Il rispetto lo si guadagna sul campo. E ciò vale in ogni caso. Ostinarsi a coprire o negare simili vergogne è uno smacco per lo Stato stesso e per la sua legittimità.

Caso Cucchi: la Cassazione ordina un nuovo processo per l'agente assolto. La Suprema corte annulla l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane romano morto 4 anni fa, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. La Cassazione riapre il caso Cucchi: forse non furono solo i medici i responsabili della sua morte. Ma tornano nel mirino gli agenti delle forze dell'ordine. Succede che la Suprema corte annulli l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane geometra romano morto 4 anni fa. E questo, facendolo ricoverare nel reparto «protetto» dell'ospedale Pertini (simile in tutto ad un carcere) e non in uno normale dove le sue lesioni sarebbero state forse curate meglio, ma sarebbero state anche più evidenti a tutti. La sentenza depositata in questi giorni alla Suprema Corte potrebbe pesare, nei prossimi mesi, sul processo d'appello conclusosi a giugno in Corte d'assise con la condanna per omicidio colposo di 5 dei 6 medici imputati (un altro fu condannato per falso ideologico) e l'assoluzione di tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. A fare ricorso in Cassazione è stato Eugenio Rubolino, per la procura generale presso la Corte d'appello di Roma. Non ha accettato la sentenza dell'aprile 2012 che riguarda solo il dirigente penitenziario Marchiandi, assolto dalle accuse di concorso in falsità ideologica in atto pubblico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, con un ribaltamento della condanna del gup nel corso del giudizio abbreviato. Le tesi di Rubolino sono state completamente accolte dagli ermellini della quinta sezione penale, che hanno ordinato un nuovo processo d'appello, in una sezione diversa dalla precedente, che dovrà esprimersi «in piena libertà decisionale», scrivono nella sentenza. Motivo dell'annullamento i troppi «vizi» nel verdetto che faceva uscire di scena il funzionario del Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria (Prap). Vizi, si legge nella motivazione, «che inficiano alcuni passi di rilevante momento nel tessuto argomentativo della sentenza impugnata». In sostanza, per la Cassazione le carte dicono che Marchiandi avrebbe fatto pressioni sui medici del Pertini per far ricoverare Cucchi in un reparto il cui protocollo riguardava invece pazienti con patologie lievi, escludendo quelle più gravi, cioè «in situazioni cliniche di acuzie». Che interesse aveva a intervenire in questo modo, in un orario anche extralavorativo? Forse, quella di «far apparire soddisfatte le condizioni necessarie a giustificare il suo ricovero nella struttura protetta», quindi di minimizzare il vero stato di salute del paziente. E anche quella di assicurarsi che fosse assegnato alla struttura «protetta» e piantonato da agenti penitenziari e dove potevano non essere evidenti all'esterno i segni di un pestaggio? Per i giudici di secondo grado, Marchiandi non aveva interesse a sostenere il falso, perchè nulla sapeva delle reali condizioni di Cucchi, non avendolo neppure visto. Ma la Cassazione demolisce questo che è il secondo dei capisaldi della sentenza, affermando che in realtà tutte le notizie necessarie sulla salute di Cucchi gli erano state fornite dal direttore di Regina Coeli, a sua volta informato dal medico del carcere che le aveva ritenute «tanto gravi da richiederne il ricovero con urgenza». Viene contestato decisamente dalla Suprema Corte anche il terzo caposaldo, quello per cui far ricoverare Cucchi nella struttura protetta del Pertini non voleva dire isolarlo per impedire indagini sui responsabili delle sue condizioni. In realtà, per la Cassazione, l'isolamento nel reparto protetto c'era, eccome. «Corre l'obbligo di osservare come, alla stregua della normativa vigente, non sia conforme a logica sostenere - conclude la sentenza - che il ricovero in una struttura protetta comporti un'attenuazione dello stato di isolamento del detenuto che è proprio del regime carcerario». C'è da chiedersi a questo punto che conseguenze avrà questa sentenza sul processo d'appello che si celebrerà nei prossimi mesi. Nella prima sentenza nessuno è stato considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi, infatti le condanne ai medici si riferiscono al mancato soccorso, dopo l'entrata in ospedale. Per i 12 imputati le accuse erano, a seconda dei casi, abbandono di incapace (reato più grave, con pena massima 8 anni), abuso d'ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Marchiandi aveva chiesto il rito abbreviato e la sua posizione aveva seguito una via diversa, con la condanna del 2011 a 2 anni per favoreggiamento, falso e abuso in atti d'ufficio e poi l'assoluzione in secondo grado ad aprile 2012. A novembre scorso, poi, la famiglia Cucchi ha trovato un accordo con l'ospedale Pertini, per un risarcimento di un miliardo e 340 milioni di euro.

Cucchi, i medici pagano, ma il processo continua, scrive Salvatore Maria Righi, sull’Unità. Quattro anni dopo l’omicidio di Stefano, un altro anniversario da barrare con la penna, non era esattamente dei soldi che volevano parlare. Invece tocca farlo, alla famiglia Cucchi tocca anche questo, mentre aspettano di parlare del bel libro che Duccio Facchini ha dedicato ad una delle morti bianche più dolorose di tutte. Il volume si chiama “Mi cercarono l’anima - Storia di Stefano Cucchi” ed è stato pubblicato da Altreconomia. Ne hanno parlato ieri sera alla Garbatella, una sera gentile di tardo autunno come quella in cui i carabinieri portarono via Stefano dicendo «per tanto poco, domani sta a casa». Non è andata così, come ripetevano quei militari nella casa di Torpignattara e come ricorda perfettamente la signora Rita, perché le mamme sono fatte così, tengono strette le cose che contano, anche quelle piccole. Rita ricorda i suoi 40 anni da insegnante statale in una materna e sorride con amarezza, pensando che a lei toccavano tre verbali da compilare, ogni volta che c’era un problema: «Per Stefano, ridotto in quelle condizioni, non ce n’è nemmeno uno, eppure era con altri dipendenti dello Stato per cui ho lavorato io». Si gira attorno al palo, in questo processo, come in quello per la morte di Giuseppe Uva e come in tanti altri. «Una battaglia per l’ovvio», lo definisce l’avvocato Fabio Anselmo che ha convinto la famiglia, il padre Giovanni e la sorella Ilaria, ad accettare un parziale risarcimento offerto per togliere di mezzo la responsabilità civile dei medici, condannati per aver dimenticato Stefano nel suo letto del reparto dei ristretti al Pertini. Anche perché, spiega, con l’ipotesi di amnistia dietro l’angolo, l’alternativa potrebbe essere un bel colpo di spugna su responsabilità accertate in primo grado. «Non fatemi parlare di cifre, le smentirei tutte. Di sicuro c’è che non si tratta di una pietra tombale su questa vicenda. La famiglia ha accettato l’accordo, per poter continuare la sua battaglia legale, con la condizione che si possa continuare a perseguire la responsabilità degli agenti». Si va avanti, in corte d’Appello, ripartendo dalla sentenza che assolve gli agenti di polizia penitenziaria e condanna i medici della struttura romana. La famiglia Cucchi ritira la costituzione di parte civile e il secondo grado di questo processo che Anselmo ha definito «un massacro», finora, tra i migliori avvocati di Roma e la Procura schierati contro le ragioni di chi vorrebbe far valere le ragioni dell’evidenza. Nella sala Abracadabra del piccolo teatro, peccato che non basti una magia per cambiare le cose, si susseguono le voci di chi ha vissuto questi anni come un viaggio al contrario. «Cinque professori venuti da Milano per dimostrare come si possa morire di fame e sete dopo quattro giorni, l’ultimo caso del genere è roba che risale al 1917. Le prime volte, lo confesso, uscivo dall’aula, perché non riuscivo a sopportare questo ribaltamento della realtà». Giovanni Cucchi non avrebbe nemmeno bisogno di una platea, quando racconta di questi anni di «dolore, tormenti, rievocazioni e udienze dove se ne sono viste di cotte e di crude», perché sono le memorie del sottosuolo di un padre a cui lo Stato ha strappato senza motivo e con molti sotterfugi un figlio che è entrato in carcere dopo una giornata come tante altre, lavoro, palestra, al tapis-roulant, perché ai pugili tocca anche fare fiato, non basta il sacco e la corda. Quindi, a ben vedere, un prodigio, per un «anoressico, drogato e sieropositivo», come lo ha definito un senatore della Repubblica, Carlo Giovanardi, in una delle sue imperdibili riflessioni. Mamma Rita ricorda ancora una volta che i giudici hanno ignorato quello che ha visto e sentito Yaya Samura, il detenuto che era seduto nella cella del tribunale di piazzale Clodio a fianco di quella dove, secondo il suo racconto, gli agenti hanno picchiato Stefano Cucchi. «Si ricordava tutto, ha dato particolari precisi, come il colore delle divise o le striature che ha visto sulla gamba di mio figlio, quando Stefano si è alzato i jeans per mostrargli le percosse». Non si dà pace, Rita, non si dà pace nemmeno il senatore Luigi Manconi che interviene e racconta della seconda e terza morte di Stefano, così come quella di Giuseppe Uva o di Federico Aldrovandi. Di tutti quelli, in una parola, che vengono uccisi anche dopo essere morti, con aggettivi e pensieri che non hanno molto di umano e giusto: «Il piccolo-spacciatore di Tor Pignattara, così è stato definito Stefano per settimane dal principale quotidiano della città», ricorda Manconi, con molta più amarezza che rabbia. C’è anche un po’ di rassegnazione, o meglio pessimismo, perché l’avvocato Anselmo spiega che ci sono «motivate preoccupazioni sul fatto che in appello non si possa e non si voglia dar torto alla Procura di Roma, anche se ormai tutti, anche il ministro che ho incontrato l’altro giorno, hanno capito che abbiamo ragione noi».

Stefano Cucchi, le motivazioni della sentenza: "Morì di malnutrizione", scrive L'Huffington Post. Stefano Cucchi è morto di malnutrizione: lo scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di condanna dei medici. Il giovane romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale, è stato ucciso da una "sindrome da inanizione". La terza Corte d'assise di Roma ha fatto proprie le conclusioni dei periti. Le motivazioni arrivano a quasi tre mesi dalla sentenza con la quale sono stati condannati per omicidio colposo il primario del 'Sandro Pertini' Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La corte ha ritenuto "di dover condividere le conclusioni cui è giunto il collegio peritale, fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d'indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore". La "sindrome da inanizione", è "l'unica in grado di fornire una spiegazione dell'elemento più appariscente e singolare del caso, e cioè l'impressionante dimagrimento cui è andato incontro Stefano Cucchi nel corso del suo ricovero". I giudici affermano che non possono essere condivise le tesi delle difese, secondo le quali il giovane sarebbe stato condotto alla morte da un'improvvisa crisi cardiaca. Ancor meno posso essere condivise le conclusioni dei consulenti delle parti civili, secondo cui il decesso si sarebbe verificato per le lesioni vertebrali. "Anche questa tesi - si evidenzia nella sentenza - presta il fianco all'insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali abbiano interessato terminazioni nervose". Per la sentenza "è legittimo il dubbio che (Stefano) Cucchi, arrestato con gli occhi lividi (perché molto magro e tossicodipendente) e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri" prima del suo arrivo in tribunale. "Non è certamente compito della Corte indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui - scrivono i giudici della Corte d'Assise di Roma -, e tuttavia sono le stesse dichiarazioni dei carabinieri che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da Samura Yaya". Si tratta di un immigrato del Gambia, che in qualità di testimone riferì di aver sentito di un pestaggio nelle celle del tribunale di Roma. Per i giudici "è indubitabile che nulla di anomalo si era verificato al momento dell'arresto e fino alla perquisizione domiciliare. Se qualcosa di anomalo si è verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare e l'arrivo della pattuglia" in caserma. "In via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che il Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare, atteso l'esito negativo della stessa".

Giudici di Cucchi, avete letto questo articolo?  Se si ha la pazienza di rileggere gli atti del processo Cucchi, se ne comprende l'esito sconvolgente. La sentenza della terza Corte di Assise che derubrica le responsabilità della morte di Stefano alla sola negligenza dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, elidendo come irrilevante quanto accaduto nei sotterranei del palazzo di giustizia, è figlia infatti della decisione del collegio di assumere in toto le conclusioni della perizia di ufficio. Un lavoro che ha richiesto sei mesi, che ha riscritto la "verità" sull'agonia e la morte di un ragazzo di trent'anni, accompagnandola su un binario cieco. Una "verità" che, all'osso, suona così. Stefano Cucchi muore per «una sola causa». Per «sindrome di inanizione», vale a dire di fame e di sete. È vero - concedono i periti - la sua colonna vertebrale presentava una frattura al coccige. Ma solo quella e non invalidante. È vero - aggiungono - il suo corpo mostrava segni di traumi recenti. Ma in nessun modo collegabili in un rapporto di causa-effetto al precipitare del suo quadro clinico e comunque «compatibili» con «una caduta dalle scale», piuttosto che con un pestaggio. Dunque, se responsabili ci sono in questa storia, sono due. I medici del Pertini che non si sono accorti che stavano perdendo un paziente per auto-consunzione. Nonché il fisico fragile e minato da un passato di tossicodipendenza della vittima. Detta altrimenti: Cucchi sarebbe potuto morire anche da solo se sottoposto a un regime alimentare simile a quello che ebbe nei suoi cinque giorni di ricovero. Ebbene, almeno quattro circostanze accertate processualmente raccontano un'altra storia. LESIONI DA PESTAGGIO. Che Stefano Cucchi sia stato pestato prima dell'udienza di convalida a palazzo di Giustizia è una circostanza che appare pacifica. Ne riferisce ai pm un testimone oculare (Samura Yaya), che lo vede e lo sente gemere sotto una gragnuola di pugni, prima, e di calci, poi. Sferrati alla schiena, quando è già in terra. Ne riferiscono ai pm, gli agenti della penitenziaria che lo traducono a Regina Coeli e che qui lo accolgono (ricorda La Rosa: «Ho 30 anni di servizio. Ho visto tante persone pestate. Cucchi era pestato». Dice l'agente Mastrogiacomo: «Quando lo vidi alla matricola, dissi al ragazzo: "Che hai fatto, un frontale contro un treno?"»). Lo comprende da subito il dottor Ferri, il medico che visita Cucchi al palazzo di Giustizia: «Mi riferì in modo evasivo di essere caduto dalle scale. E io guardando come era conciato gli risposi: "Dovevano essere strane scale"». Le lesioni riportate da Cucchi interessano la zona lombo-sacrale. E anche qui i ricordi dei medici che lo visitano il 16 e 17 ottobre al Fatebenefratelli sono tetragoni. Le ecchimosi e il dolore lancinante che provocano consigliano infatti non solo radiografie, ma anche un immediato ricovero. Stefano, infatti, non può più camminare, né urinare spontaneamente, tanto che gli viene applicato un catetere. Di più, quando la salma di Stefano sarà riesumata per la perizia di ufficio, lungo il tratto vertebrale verranno ritrovate copiose tracce di sangue nella zona lombare, indice di quei traumi che non si vogliono vedere. Anche qui, la risposta dei periti è singolare. Si tratta di sangue che, sfidando la legge di gravità, è «risalito dal basso verso l'alto» a causa del trauma nella zona del coccige. Quella interessata dalla "caduta" sulle scale. PANTALONI MACCHIATI. Per i periti di ufficio quelle lesioni non esistono. I testi che ne riferiscono - argomentano - sono "suggestionati". Le cartelle cliniche non ne forniscono la prova. In realtà, le cartelle cliniche ne riferiscono eccome. Non solo: esiste una prova regina, che conferma il pestaggio ma che i periti non prendono in considerazione. I pantaloni che Stefano indossa al momento del pestaggio presentano striature di sangue all'interno. Una circostanza formidabile che conferma i ricordi di Samura Yaya, il testimone oculare. Una circostanza, va aggiunto, che dimostra l'impossibilità che le lesioni siano l'esito di una caduta sulle scale. Come è possibile infatti cadere di sedere su dei gradini e ferirsi gli stinchi? Anche qui, i periti della Corte pattinano. Le ferite agli stinchi sono risalenti nel tempo, dicono. Ma perché, allora, se sono così antiche hanno lasciato tracce di sangue sui pantaloni che Stefano indossava nei sotterranei del palazzo di giustizia? INDICE DI MASSA CORPOREA. Cancellata ogni rilevanza delle lesioni, i periti concludono che la morte per fame e sete di Cucchi è facilitata dal suo basso indice di massa corporea. L'indice BMI di Stefano al momento dell'arresto (il rapporto tra l'altezza, 1 metro e 65, e il peso, 50 kg) è di 18,4. Il che, a loro dire, lo rende «un uomo sull'orlo del precipizio». La Parte civile obietterà che Zou Chiming, pugile medaglia d'oro alle Olimpiadi di Londra del 2012, ha un indice BMI di 17,64. «Anche lui - chiede l'avvocato Fabio Anselmo - è caduto nel baratro senza saperlo?». VESCICA. Del resto, c'è un dato non confutato da nessuna letteratura scientifica che rende la causa di morte per fame e sete singolare. Un corpo che si spegne non restituisce più nulla. Come si spiegano allora i 1.400 centimetri cubi di urina di cui era gonfia la vescica al momento della morte? Come si spiega che, al momento dell'autopsia, nessuno degli organi interni presentasse segni tipici di quel tipo di decesso? di Carlo Bonini, La Repubblica del 7 giugno 2013.

Intanto sul caso Stefano Cucchi, via al processo.  In 12 sul banco degli imputati per la morte del giovane nel reparto penitenziario dell'ospedale Pertini. «C'è in noi enorme tensione per quello che ci aspetta» ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi «Da oggi in avanti sarà ancora una sofferenza, perchè tutto ci riporterà alla mente quanto accaduto». È iniziato giovedì 24 marzo 2011 il processo davanti alla terza Corte d'assise del Tribunale di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato il 16 ottobre del 2009 e poi deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Sul palco degli imputati tre agenti carcerari, 6 medici dell'ospedale Sandro Pertini in servizio presso il reparto detenuti e tre infermieri dello stesso reparto. In tutto dodici persone. «Ci sono diversi coni d'ombra in questa vicenda - ha detto l'avvocato di parte civile Fabio Anselmo - Ricostruiremo l'ultimo mese di vita di Stefano». Tra le richieste preliminari all'inizio del dibattimento c'è stata quella che ha sollecitato una delle difese, relativa all'effettuazione di un sopralluogo nella cella del tribunale di Roma dove fu tenuto il giovane in attesa dell'interrogatorio successivo al suo arresto. I tre agenti di Polizia penitenziaria - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici - devono rispondere del reato di lesioni personali aggravate per aver abusato dei loro poteri. In pratica avrebbero picchiato Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, quando questo era in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Ma l'accusa più grave è quella contestata ai quattro medici ed ai tre infermieri che prestavano all'epoca dei fatti servizio al Sandro Pertini. Il reato è quello di abbandono di persona incapace, aggravato dalla morte, la condanna prevista dal Codice va dai tre agli otto anni. Ne devono rispondere i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi Preite e Silvia Di Carlo; e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Un altro dottore, Rosita Caponetti, è accusata di falso e abuso d'ufficio in relazione alle condizioni di Cucchi ed al suo ricovero. È già stato condannato a due anni il dirigente del Prap - Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria -, Claudio Marchiandi, a cui è stata data una pena di due anni.

Il padre: rivendicava i suoi diritti "Stefano prima di morire rivendicava solo i suoi diritti. E' vero, ha fatto il digiuno ma solo perché voleva che venissero rispettati i suoi diritti come quello di nominare un suo avvocato. E' morto in maniera civile, e' stato ammazzato in maniera incivile". Così Giovanni, padre di Cucchi, ripercorre gli ultimi momenti di vita del figlio.

La storia Cucchi fu arrestato il 15 ottobre di due anni fa alle 23.30. Una pattuglia di carabinieri lo trovò in possesso di stupefacenti. Fu portato in carcere e, il giorno dopo, fu portato davanti al giudice monocratico per la convalida dell’arresto. Alle 13.30, dopo la convalida, Cucchi fu affidato alla polizia penitenziaria e qualche tempo dopo il medico del tribunale si accorse che aveva alcune ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni. Alle 15.45 arrivò a Regina Coeli ma, tre ore più tardi, fu trasportato al Fatebenefratelli dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Alle 23 venne riportato in carcere ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato all'ospedale al Pertini. La mattina del 22 ottobre Stefano morì e da lì è iniziò il procedimento penale che ha portato al rinvio a giudizio di chi, tra guardie carcerarie, medici e infermieri, era stato coinvolto.

Ferite che assomigliano a bruciature di sigarette. Croste sulle mani. Un doppio livido trasversale all’altezza dell’osso sacro, forse dovuto a un calcio. Volto tumefatto. Sono «terribili», dicono gli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, le foto dell’autopsia di Stefano Cucchi conservate nel fascicolo della procura. Le prime due mostrano il giovane vestito «come nel giorno dell’arresto, non gli hanno mai dato un cambio».

Nelle altre il geometra è spogliato e allora saltano agli occhi «le tremende condizioni di deperimento» del suo corpo esile. E non possono non notarsi «le escoriazioni profonde, ovali o circolari», come se qualcuno gli avesse spento dei mozziconi addosso: «Su un pollice, sui gomiti, sul dorso delle mani e all’attaccatura dei capelli». Le foto avvalorano l’ipotesi del pestaggio formulata dai pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy. Una «pista» basata sulla deposizione del supertestimone che, sabato, sarà sottoposto a incidente probatorio davanti al gip Luigi Fiasconaro. Il suo racconto è contenuto in un verbale di 30 pagine piuttosto confuso, in cui i magistrati sono costretti a chiedere più volte di che colore fossero le divise dei «picchiatori».

«L’hanno colpito a calci», ha riferito il giovane ai pm descrivendo la scena che sarebbe avvenuta nel corridoio delle celle di sicurezza del tribunale. Finita l’udienza di convalida Cucchi sarebbe stato rinchiuso con lui: «Dopo che l’hanno messo in cella — ha detto il supertestimone — ho visto che lo spingevano». E Cucchi si sarebbe confidato: «M’hanno menato quegli stronzi». Il Dap, senza aver ancora concluso l’inchiesta interna, ha spostato i tre agenti della penitenziaria indagati a Fiumicino, a Rebibbia e al carcere minorile di Casal del Marmo.

Filippo Facci su Libero Quotidiano del 5 gennaio 2016 e la foto boomerang di Ilaria Cucchi: "Perché passa dalla parte del torto". Si tratta di spiegare ciò che è indelicato spiegare, cioè quanto Ilaria Cucchi sia riuscita a sfracassare le scatole anche al più robusto dei garantisti, col rischio serio che tutta la sua battaglia - che non appartiene solo a lei - finisca in malora. È brutto da dire, ma ha stufato lei e ha stufato anche quella foto del fratello mummificato che si porta dietro come una coperta di Linus, quella foto riproposta milioni di volte e che è divenuta un feticcio e un lasciapassare per le pagine della cronaca. A quella foto si deve tutto: nel tardo ottobre 2009 la notizia sui maltrattamenti a Stefano Cucchi era disponibile da giorni, snobbata dai più, ma d' un tratto spuntarono le foto: ed ecco che i grandi quotidiani si avventarono su una notizia che già c'era, «Morto dopo l'arresto, diffuse le foto shock» titolò per esempio il Corriere, purché fosse chiaro che la notizia non era «Morto dopo l'arresto» bensì «diffuse le foto shock». Il destino delle immagini ormai è questo: riesumare delle notizie di cui ai giornalisti altrimenti non sarebbe fregato niente. Quelle immagini furono dirompenti, perché la loro eloquenza baipassò qualsiasi valutazione di tipo medico o periziale: qualcosa era successo, lo pensiamo tutti ancor oggi. Viva quelle foto, dunque. Ma anche basta. Nei giorni scorsi - l'avete già letto - Ilaria Cucchi è riuscita a far incazzare persino i giornaloni più moderati, quelli che prima di muoverle un rilievo ogni volta premettono per ottanta righe che lei «chiede soltanto la verità», come se altri - compresi noi, e la magistratura, e le forze dell'ordine per bene - chiedessero menzogne. La Cucchi ha pubblicato su Facebook la foto di uno dei carabinieri indagati (in costume da bagno e addominali in vista, sorta di indizio di colpa) e l'ha data in pasto al qualunquismo mascherato della Rete: e del teatrino che ne è seguito, con smentite e riconferme, non andrebbe dato conto. Peccato che l'idea abbia fatto proseliti. Ieri Lucia Uva da Varese - sorella di un uomo che nel 2008 morì in ospedale dopo essere stato portato in caserma da ubriaco - ha pubblicato pure lei la foto di uno dei carabinieri coinvolti nell' inchiesta sulla morte del fratello: anche lui con gli addominali in bella vista, ormai le palestre sono diventate un'aggravante. Nota personale: nel 1996 pubblicai un intero libro dedicato per buona parte a maltrattamenti subiti da gente incarcerata: ma di tecniche di comunicazione, evidentemente, non capivo nulla. Ieri mattina, per capirci, Ilaria Cucchi era stata invitata a un talkshow: forse ha ragione lei. E aveva ragione, forse, anche quando divenne inviata di Raitre per un programma di prima serata: del resto la sua professione precedente era amministratrice di condominio. Ma sin lì si poteva anche capire: occorre avere rispetto di chiunque cerchi a suo modo di sfangarla. La notorietà di Ilaria Cucchi era e resta dovuta alla sua campagna mediatica per Stefano: è per questo che Ingroia la candidò alle politiche, è per questo che la presero per un breve periodo a Raitre. E ci va anche bene, comunque sia finita. È lecito chiedersi, però, sin dove possa arrivare l'eterno rilancio del caso Cucchi. Da garantista, Ilaria Cucchi io la ringrazio. Il suo attivismo, sgangherato ma pervicace, penso abbia contribuito a far emergere altri casi paragonabili a quello del fratello. Ci hanno fatto dei libri, dei documentari, su wikipedia si segnalano venti brani musicali dedicati a Stefano. E il punto non è alzare il sopracciglio di fronte all' attivismo discutibile di Ilaria Cucchi, il punto è che la sua missione è riuscita. Da tempo. La sua missione non consisteva nel mettere alla gogna o in galera chi pensa o pensava lei, ma nel rimettere il caso Cucchi nei doverosi binari giudiziari cui era destinato: senza le inerzie che purtroppo caratterizzano migliaia di altri casi non propriamente al centro dell'attenzione mediatica. Ci è riuscita. Da tempo. In parte ha gettato un faro sulle carceri. Ma non è che la campagna per suo fratello possa diventare una professione a vita, non è che possa lottare per la «verità» fottendosene della verità giudiziaria e sino al giorno in cui non vadano in galera tutti i carabinieri con gli addominali scolpiti, e segnatamente da lei indicati. Ancor oggi, giornali e televisioni - pur stufi, e si vede - ogni tanto ripompano il caso Cucchi come se l'inchiesta e il processo non si fossero mai fatti: mancava la Cassazione, ma a dicembre ha sancito che debbano andare a processo anche alcuni medici precedentemente assolti. Insomma, si va avanti, ma a Ilaria non basta. Nel Paese in cui le sentenze peggiori spesso sono sbattute sui giornali, Ilaria verga le sue: e senza elaborarne granché le motivazioni. Ieri Ilaria ha scritto: «Non è stata una scelta della famiglia Cucchi, quella di essere processata insieme al loro caro per sei anni». Bugia. Vittimismo. Se processo c' è stato, è stato di beatificazione. Perché la gente - come i giornali - è volubile, giudica e assolve e condanna in fretta. E Ilaria Cucchi sta facendo molto, sta facendo di tutto per passare dall' altra parte della vetrina.

Stefano Cucchi: la sorella Ilaria ci ricorda le tante crepe della nostra giustizia, scrive Davide Grassi il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Quando ho visto il post di Ilaria Cucchi sulla sua bacheca di Facebook con la fotografia del carabiniere indagato per la morte di suo fratello Stefano, ne ho compreso il motivo. Non aveva un fine illecito, ovviamente, né sperava nelle reazioni violente di alcuni commentatori. La fotografia era stata estrapolata dal profilo pubblico dell’uomo e chi conosce Facebook sa che non esiste privacy per chi decide di esporsi in questa piazza virtuale. I giornalisti, è da lì che attingono notizie sulla vita privata di personaggi pubblici o persone inevitabilmente oggetto di attenzione da parte dei media. E Facebook è utile anche per chi vuole svolgere delle indagini. Ilaria ha deciso di pubblicare la fotografia del militare in questi giorni in cui è presa dalla lettura delle intercettazioni delle conversazioni che inchioderebbero chi avrebbe pestato suo fratello. Conversazioni che per lei devono essere pura sofferenza. Con quel post Ilaria ci ha reso partecipi del suo dolore e dell’indignazione nei confronti di uno Stato latitante da tempo su certi argomenti. Che potesse diventare un pretesto di alcuni per fomentare odio era prevedibile ma non spetta di certo a Ilaria censurare e perseguire questi ultimi. “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene.” La didascalia sulla fotografia postata da Ilaria (che vive nel ricordo del proprio caro senza vita e pieno di lividi e con il volto tumefatto)grida giustizia (quella dei tribunali e non di certo rappresaglia) dopo che le motivazioni della Corte d’Assise di Appello di Roma (quella che ha assolto gli agenti della penitenziaria, i medici e gli infermieri per la morte di Stefano) suggeriscono una probabile strada da percorrere nell’indagine sul pestaggio di suo fratello Stefano: “(…) le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, che può essere consistita anche in una semplice spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento”. Esiste per Costituzione la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, è vero. Tuttavia, quei quotidiani (e quei politici) che oggi accusano Ilaria di aver messo alla gogna il carabiniere postandone la fotografia sulla sua bacheca sono i primi ad abusare spesso di quel principio. Sto con Ilaria perché non c’è nulla di più difficile (anzi è impossibile) dell’accettare la morte di un fratello per mano dello Stato. E sto con Ilaria perché grazie alla sua tenacia e al suo modo di rendere pubblica ogni vicenda che ruota attorno al caso di Stefano ci ricorda che sono ancora molte le crepe nel nostro sistema giudiziario.

La madre di Cucchi: "Mio figlio? Un delinquente". La donna a chi le consigliava di affidarsi a un avvocato rispondeva: "Non spendo altri soldi per quel delinquente", scrive Chiara Sarra, Sabato 30/01/2016, su “Il Giornale”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". In un'intercettazione agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi e rivelata da “Il Tempo”, il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi, svela un retroscena finora inedito. Nella registrazione, infatti, Mandolini parla con un consulente legale del Sap a Vibo Valentia, sostenendo che al procuratore dichiarerà di aver "omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". E cioè che dopo l'arresto per spaccio avvenuto nel 2009, i carabinieri avevano suggerito ai familiari di contattare un avvocato di fiducia, ricevendo in riposta solo insulti per Stefano. "Quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere", ha aggiunto Roberto Mandolini, "La sorella pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla". Vero o falso? Toccherà ai giudici stabilirlo.

"Cosa pensavano davvero di Cucchi". Intercettazione choc di madre e sorella, scrive “Libero Quotidiano”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Lo rivela in una intercettazione - riportata dal Tempo - agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (deceduto a 31 anni all'ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) del maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità "per il violentissimo pestaggio" che avrebbe subito Cucchi. Il 17 luglio 2015, Mandolini (che il giorno prima ha ricevuto l'invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio) chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia, e le dice che al gip dirà: "Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". Lei lo incalza e lui continua: "Quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Il maresciallo aggiunge che "quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere". Difficile dire se quello che dichiara il carabiniere sia vero visto che queste intercettazioni sono fra quelle che lo hanno inguaiato. Tant'è. Mandolini continua: "La sorella (Ilaria, ndr) pseudo -giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla".

Cucchi, i familiari e le accuse al telefono. Le intercettazioni del carabiniere indagato nell’inchiesta sulla morte di Stefano "La madre ci disse che il figlio era un delinquente". Disposta una nuova perizia, scrive Valeria Di Corrado il 30 gennaio 2016 su “Il Tempo”. «Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». A rivelarlo in una intercettazione agli atti dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (il 31enne deceduto all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) è il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio presso la stazione Appia, sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità «per il violentissimo pestaggio» che avrebbe subito Cucchi. È il 17 luglio 2015, Mandolini ha ricevuto da un giorno l’invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio (in quell’occasione si è avvalso della facoltà di non rispondere). L'ex vice comandante della stazione Appia chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia e attivista in varie associazioni antimafia. Le confida che quando il procuratore gli domanderà se ha omesso qualcosa, gli risponderà: «Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia. Questo, questo e quell’altro». A quel punto la donna si incuriosisce e gli chiede cosa abbia detto il ragazzo. Mandolini si sfoga spiegando che «quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». Il maresciallo spiega inoltre che «quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere». Vero? Falso? Queste intercettazioni fanno parte dello stesso «blocco» che ha inguaiato di recente questo carabiniere. L’interlocutrice del militare consiglia di riferire tutto nell’interrogatorio. Mandolini, evidentemente scottato dalla battaglia della sorella di Stefano Cucchi per l’accertamento della verità, conclude così: «La sorella (Ilaria, ndr) pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla». Dalle stesse intercettazioni raccolte dalla Squadra Mobile nel corso dell’attività investigativa emerge però che il maresciallo si rapporta con un pregiudicato che chiama «fratello» e con il quale si incontra per scambiarsi oggetti d’oro. La svolta investigativa arriva quando Anna Carino, ex moglie di D’Alessandro, gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (...) che te ne vantavi pure... che te davi le arie». La frase intercettata viene confermata dalla donna quando il 19 ottobre scorso è stata sentita dal pm. La sua deposizione è finita nell’informativa finale della Mobile: «Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento». Per appurare se il pestaggio abbia causato la morte di Cucchi la Procura ha chiesto un nuovo accertamento medico-legale. Il gip ha nominato 4 periti che dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Il giudice ha respinto, ritenendola infondata, un’istanza di ricusazione di Francesco Introna presentata dal legale della famiglia Cucchi per i rapporti di inimicizia con il suo consulente Vittorio Fineschi.

Stefano Cucchi, di prescrizione in prescrizione verso la proscrizione della memoria, scrive Beppe Giulietti il 6 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Il presidente del collegio dei periti incaricato da tribunale di Roma di rispondere a una serie di quesiti sulle modalità del decesso, il 22 ottobre del 2009, di Stefano Cucchi ha chiesto una proroga di 90 giorni. (In effetti l’incarico è stato dato dal GIP Elvira Tamburelli nel procedimento a carico dei cinque carabinieri indagati, nda). La notizia è stata accolta con legittima indignazione dai familiari e dai difensori della famiglia Cucchi che già avevano contestato la nomina del professor Francesco Introna, da loro accusato di essere massone e troppo legato ai comandi militari e ai carabinieri. Lo stesso giudice per l’udienza preliminare ha ridotto da 90 a 30 giorni la richiesta dei periti, anche perché lo slittamento dei tempi avvicina sempre più l’ipotesi della prescrizione. Sono passati sette anni da quel pestaggio e dalla morte di Stefano. Depistaggi, omissioni, perizie contraddittorie, hanno determinato l’apparente paradosso per il quale Stefano è morto in seguito alle botte ricevute, ma nessuno avrebbe ordinato ed eseguito il pestaggio. Per fortuna che non hanno ancora avuto il coraggio di seguire la pista del suicidio…Di perizia in perizia, di rinvio in rinvio, la ricerca della verità e della giustizia si allontana sempre più, mentre si avvicinano i tempi della prescrizione e della cancellazione delle responsabilità. Se così dovesse accadere spetterà a tutti noi continuare a sostenere le ragioni della famiglia di Stefano e impedire che la prescrizione possa trasformarsi anche nella proscrizione della sua memoria e delle responsabilità di chi ha causato la sua morte, anche perché “quello che è accaduto una volta può sempre ripetersi”.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Intanto il pg Rubolino l'8 giugno 2016, parlando per 3 ore, chiede cinque condanne per omicidio colposo. Il processo che si celebra oggi è stato disposto dalla Corte di Cassazione che il 15 dicembre dello scorso anno annullò la sentenza con la quale la Corte d’Assise d’Appello mandò assolti i sanitari che ebbero in cura Cucchi. Ha chiesto 4 anni di reclusione per il primario Aldo Fierro, 3 anni e 6 mesi per i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite. Stefano Cucchi morì il 22 ottobre del 2009 nel reparto di medicina protetta dell'ospedale Sandro Pertini, dove era stato ricoverato, una settimana prima, dopo il suo arresto. I cinque camici bianchi, dopo la condanna in primo grado, erano stati assolti in secondo. Giudizio, quest'ultimo, annullato dalla Cassazione e dunque tornato in aula davanti alla Corte d'Assise d'Appello. Per Rubolino, i cinque imputati non possono meritare la concessione delle attenuanti generiche, anche se sono incensurati. «Pure Stefano Cucchi era un ragazzo incensurato, anche se era stato giustamente arrestato per la prima volta - ha osservato il sostituto Pg -. La realtà è che questa vicenda presenta profili di colpa ai confini di un dolo eventuale, una colpa con previsione, una colpa gravissima. Chi lavora in un reparto protetto come quello del Pertini dovrebbe avere un'attenzione e una preparazione maggiore nel riconoscere nei pazienti una sindrome da inanizione (malnutrizione) attribuita a Cucchi; chi lavora lì dovrebbe essere abituato a quei detenuti che spesso fanno lo sciopero della fame per rivendicare chissà quali pretese giudiziarie. E invece - ha proseguito Rubolino - Cucchi è stato trascurato durante la sua degenza, non è stato per nulla curato. Gli imputati potevano e dovevano intervenire e invece fino all'ultimo al ragazzo è stata somministrata solo dell'acqua, quando ormai era già cominciato quello che i periti hanno definito un catabolismo proteico catastrofico. Stefano, cioé, si stava nutrendo delle sue stesse cellule e stava perdendo un kg al giorno. Al momento del decesso il suo peso si aggirava intorno ai 37 kg. Per Cucchi quell'ospedale era l'equivalente di un lager. La sua morte orribile e tragica ricorda per certi versi quella di Giulio Regeni. Io non vorrei che Stefano Cucchi morisse per la terza volta - ha affermato Rubolino -: una prima volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilirne il colore, la seconda volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in camice bianco. La Cassazione, annullando l'assoluzione dei medici, ha evitato che sulla vicenda calasse una pietra tombale. Già all'ingresso al Pertini sono state riportate circostanze chiaramente false sulla cartella clinica di Cucchi: era un bradicardico patologico, con 40 battiti cardiaci al minuto (rispetto ai 60 fisiologici) eppure i medici non gli hanno mai preso il polso. Presentava una frattura alla vertebra sacrale per il pestaggio avvenuto nelle fasi successive all'arresto, aveva un trauma sopraccigliare con scorrimento del sangue, per migrazione, sotto gli occhi, aveva un forte dolore fisico in conseguenza di quell'aggressione, eppure al Pertini gli è stato solo somministrato un antidolorifico che ha contribuito a rallentare il cuore, muscolo già indebolito perché non irrorato. L'apparato muscolare nel suo complesso, in quella cartella clinica fasulla, venne definito tonico e trofico ma il paziente non aveva neppure i glutei per poter avere una iniezione. Cucchi rifiutava le terapie e non mangiava perchè nessuno lo metteva in contatto col suo avvocato. Nessuno si è preoccupato di riferire ad altri le sue esigenze. La sua morte è arrivata dopo cinque giorni di vera agonia». Per la Procura Generale, poteva bastare un farmaco che desse vigore al battito del suo cuore, poteva bastare un po' di acqua con zucchero, forse, per migliorare una situazione gravemente compromessa. E invece niente di tutto ciò. «Cucchi - ha concluso Rubolino - non doveva stare in quel reparto perchè non era stabilizzato. Eppure si è fatto in modo che venisse ricoverato lì, in quella struttura protetta lontana da occhi e orecchi indiscreti". Intanto la prima sezione penale della Corte d'appello di Roma ha nuovamente assolto (con la formula perchè il fatto non sussiste) Claudio Marchiandi, il funzionario del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, coinvolto nell'inchiesta.  Per Marchiandi questo era il secondo processo d'appello: condannato a due anni nel 2012 in abbreviato dal gup Rosalba Liso per falso ideologico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, il funzionario del Prap venne assolto nel giudizio di secondo grado l'anno successivo. Sentenza poi annullata nel 2014 dalla Cassazione che ordinò un nuovo processo.

Cucchi, Cassazione: «Per i testimoni fu picchiato dai carabinieri». La sentenza di 57 pagine depositata dalla Suprema Corte sintetizza le testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso del geometra morto nel 2009 al Pertini durante la custodia cautelare, scrive Ilaria Sacchettoni su "Il Corriere della Sera” il 9 marzo 2016. C'erano testimonianze che portavano ai carabinieri, ma non si sono ascoltate. C'era superficialità nella perizia medica che, «parcellizzando» le lesioni, ne ridimensionava il valore «probatorio», ma nessuno ci fece caso. E c'erano testimoni delle lesioni e della sofferenza di Stefano Cucchi durante la convalida dell'arresto, ma, nella prima inchiesta, nessuno le considerò. Stefano Cucchi «sarebbe stato aggredito da appartenenti all’Arma dei carabinieri», prima di essere «preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria poi rinviati a giudizio». Lo scrive la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza depositata oggi, ricordando alcune testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso Cucchi. Nel bocciare la prima inchiesta sulla vicenda Cucchi, i giudici della Cassazione osservano che furono trascurate diverse testimonianze. Versioni che smentivano le parole di Samura Yaya, il testimone «uditivo» al quale i pm della prima inchiesta si erano affidati completamente e che accusava la penitenziaria del pestaggio nei confronti di Cucchi. La Cassazione li elenca. C'era il carabiniere Mario Cirillo che, vigilando sul corridoio davanti alle celle, non vide nessun movimento attorno a quella di Cucchi. E che dunque portava ad escludere la tesi del pestaggio in cella. C'era la donna in attesa della convalida del proprio arresto, Anna Maria Costanzo, che parlando con Cucchi apprese che era stato picchiato «dagli agenti che l'avevano arrestato». E c'erano altri due detenuti, Stefano Colangeli e Vilbert Lamaj, che, nelle stesse celle, «non hanno riferito di alcuna aggressione ma solo di aver sentito Cucchi lamentarsi e accusare dolori già prima dell'ora in cui sarebbero avvenuti i fatti descritti da Samura Yaya». Infine, come sottolineato dal pg Nello Rossi nella sua requisizione di dicembre scorso, c'era la testimonianza di altri carabinieri. In particolare quella di Pietro Schirone che «con disarmante sicurezza e semplicità» testimoniò: «Era chiaro che era stato menato». Infine c'erano le parole degli assistenti di polizia penitenziaria Bruno Mastrogiacomo e Mauro Cantone che essendosi occupati di Cucchi durante la detenzione iniziale a Regina Coeli riferirono di aver appreso dallo stesso Cucchi di essere stato picchiato dai carabinieri. Versione confermata anche dall'infermiera del Pertini Silvia Porcelli. Alla luce di tutto ciò anche «il battibecco non consono all'aula» condito da insulti rivolti da Cucchi ai carabinieri in divisa nell'aula del gip si spiega meglio: è la rabbia di chi sentiva di aver subito un'ingiustizia.

Stefano Cucchi, Cassazione: “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. A scriverlo sono i giudici nelle motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell'ospedale Pertini dove nel 2009 il ragazzo è morto dopo una settimana di ricovero, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 marzo 2016. “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. E inoltre “non sono state fornite spiegazioni esaustive e convincenti del decesso di Stefano Cucchi”. Sono queste le motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell’ospedale Pertini. Erano stati invece definitivamente assolti invece tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto procedimento. Secondo la Cassazione, si legge nel testo, i medici dell’ospedale Pertini avevano una “posizione di garanzia” a tutela della salute di Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare “con precisione” la sua patologia anche in presenza di una “situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico”. Nelle 57 pagine depositate mercoledì 9 marzo dai giudici, sono contenute anche le motivazioni del proscioglimento dei tre agenti penitenziari coinvolti nella vicenda: secondo i giudici infatti viste le “plurime deposizioni di fondamentale importanza” secondo cui il giovane “sarebbe stato aggredito da appartenenti all’arma dei carabinieri” e “quindi prima di essere preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria tratti a giudizio” è da escludere il coinvolgimento degli agenti del penitenziario. Nel documento si sottolinea poi che non sono state fornite “spiegazioni esaustive e convincenti del decesso”, motivo per cui nel processo bis assieme alle cause della morte, dovrà essere accertata anche “la concreata organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza e ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella vicenda”. Il tutto “senza dimenticare che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti”. Coinvolti nel processo bis il primario Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. Secondo il verdetto, gli stati patologici di Cucchi, preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato, avrebbero dovuto imporre “maggiore attenzione ed approfondimento”, con ricorso alla “diagnosi differenziale”. I giudici inoltre scrivono che è di “manifesta illogicità” la decisione con la quale la Corte di assise di Appello di Roma nel processo per la morte di Stefano Cucchi, “ha escluso di procedere ad un nuovo accertamento peritale” sostenendo che “non residuano aspetti delle condizioni fisiche di Cucchi che non siano stati già esplorati e valutati dagli esperti nominati”. Quindi un nuovo accertamento “per l’imponente mole del materiale probatorio acquisito agli atti” si sarebbe potuto svolgere sugli atti stessi, “giovandosi anche dei contributi forniti dai diversi esperti” e non può essere impedito dalla solo “affermata” – dai giudici dell’appello – “impossibilità di effettuare riscontri sulla salma di Cucchi”. Sulle cause della morte di Cucchi, scrive la Cassazione condividendo le parole usate nella sua requisitoria dal Pg Nello Rossi, non può esserci “una sorta di ‘resa cognitiva'”. Ad avviso dei giudici era ben argomentata, dai giudici di primo grado che avevano condannato i medici del Pertini, l’individuazione della causa della morte del giovane nella sindrome da inanizione, decesso per mancanza di nutrimento in un soggetto già sottopeso e politraumatizzato.

Caso Cucchi, Ilaria: "Finalmente la verità", in un video di Mariacristina Massaro su "Repubblica Tv" l'11 marzo 2016. "La giustizia non poteva far finta di nulla e alzare le spalle di fronte a una mancata causa di morte", Ilaria Cucchi commenta così le motivazioni della Cassazione sulla sentenza del 15 dicembre 2015. Lo scorso 9 marzo, infatti, sono state depositate 57 pagine in cui vengono spiegati i motivi per cui a dicembre furono annullate le assoluzione dei cinque medici che avrebbero dovuto curare Stefano Cucchi, morto nel 2009 dopo una settimana di ricovero. “Quello che sta succedendo ora mi dà enorme speranza e fiducia: so che finalmente siamo di fronte a un percorso di verità rispetto a quello che accadde a mio fratello Stefano”, ha ammesso Ilaria Cucchi, anche se ancora timorosa. “Chiaramente rimane la preoccupazione di fronte a meccanismi che fino a sei anni fa ignoravo'', ha aggiunto, ''ma che oggi conosco bene. Ho capito con quanta facilità periti e consulenti possono distorcere e capovolgere la realtà dei fatti senza nemmeno porsi il problema di rendere credibile quello che dicono".

Da Cucchi a Budroni, le "vittime della tortura di Stato" arrivano a Bruxelles. Il prossimo 15 marzo una folta delegazione di familiari, l'eurodeputata Eleonora Forenza, e alcuni rappresentanti dell'associazione Acad saranno ascoltati presso la sede del Parlamento Europeo, scrive Ylenia Sina, Giornalista di RomaToday, l'11 marzo 2016. Cucchi, Bianzino, Budroni, Magherini, Uva, Ferrulli, Mastrogiovanni, Casalnuovo. Le “vittime della tortura di stato” arrivano al Parlamento Europeo. È questa infatti la delegazione che, insieme all'eurodeputata de L'Altra Europa Eleonora Forenza, ad alcuni rappresentanti dell'Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad) e con l'avvocato Fabio Anselmi verranno ascoltati a Bruxelles il prossimo 15 marzo. Il lavoro è stato presentato oggi pomeriggio nel corso di una conferenza stampa presso la sede romana del Parlamento Europeo, in via IV Novembre. “Vogliamo portare quella che definiamo 'l'anomalia Italia' all'attenzione del parlamento europeo e dell'opinione pubblica” ha spiegato Luca Blasi di Acad. Alle spalle due pannelli con i volti, e le storie, di chi questo 'caso italiano', suo malgrado, lo rappresenta. “Non parliamo delle vittime di alcune mele marce ma di un vero e proprio sistema, che troppo spesso gode di copertura mediatica e politica”. “Tante vicende che nascondono famiglie spesso abbandonate a loro stesse, nel disinteresse generale. Famiglie che si sono ritrovate troppe volte di fronte all'evidenza che i loro morti non valgono niente” racconta Ilaria Cucchi, tra i familiari della delegazione che andrà a Bruxelles. Ilaria rompe il silenzio e continua un elenco “che potrei continuare all'infinito: Savia, Perna, Ronzi, Bifolco”. Così la 'missione' al parlamento europeo rappresenta un “atto di speranza” ma anche di “disperazione” il secondo l'avvocato Fabio Anselmo, “perché l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica ha giocato spesso un ruolo fondamentale nei processi per le vittime di questo genere di abusi”. I nomi citati aumentano nel corso della conferenza stampa. Ricorda il caso Aldrovandi: “Se non se ne fosse parlato sui giornali saremmo arrivati con difficoltà in tribunale”. Ricorda quello Rasman: “Per il suo caso, in seguito ad un'interrogazione parlamentare, venne revocata la richiesta di archiviazione”. E ancora la vicenda di Rachid che da anni denuncia i maltrattamenti e gli abusi che subisce in carcere, anche tramite delle registrazioni ambientali. “Ecco come si presenta in tribunale” ha spiegato l'avvocato mostrando i segni delle violenze sul corpo dell'uomo. L'Italia, sintetizza Anselmi, “non ha abbastanza anticorpi”. Lo spiega Forenza: “Certamente il tema della repressione è europeo ma in Italia registriamo anomalie pesantissime in termini di mancanza di rispetto dei diritti”. Ne è un esempio “il fatto che non esista il reato di tortura e che la polizia italiana non abbia, come invece accade in altri paesi, i numeri identificativi”. Per l'eurodeputata “è una questione che spesso rimane sotto traccia ma che riguarda la vita delle persone che spesso restano senza giustizia”. L'eurodeputata ricorda “Davide Rosci, detenuto per un reato assurdo a cui va tutta la mia solidarietà”. Conclude Forenza: “Speriamo che questa audizione contribuisca a fare in modo che le istituzioni italiane vengano sollecitate a prendere le misure che vanno verso il pieno riconoscimento dei diritti umani”.

«Abusi in divisa»: i familiari delle vittime in missione a Bruxelles.

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…ltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

E poi su caso Cucchi per cui l’Arma dei Carabinieri ha diffuso un comunicato stampa. Notizia epocale percepita troppo in superficie sino ad oggi come la volontà di difendersi in extremis da una valanga indiscriminata di accuse. «È una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni Carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che altri abbiano saputo e non abbiano sentito il dovere di segnalarlo subito, che questo non sia stato appurato da chi ha fatto a suo tempo le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi».

Abbiamo un problema con i Carabinieri? Si chiede Luigi Manconi. Luigi Manconi chiede al ministro Roberta Pinotti di richiamare l'arma al rispetto dei diritti delle persone fermate, dopo i casi Cucchi, Uva e Magherini, "Cara senatrice Roberta Pinotti, mi rivolgo a te in quanto, per il tuo ruolo di ministro della Difesa, sei titolare della responsabilità politica per l’attività dell’Arma dei Carabinieri. Poche ore fa, con riferimento alla vicenda della morte di Stefano Cucchi, il comandante generale della stessa Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato: “È inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”. E ancora: “Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri”. Il generale Del Sette ha ragione: e posso aggiungere che la responsabilità penale è personale. Un principio fondamentale quest’ultimo al quale sento il dovere di attenermi sempre. Dunque – come suggerisce il comandante generale – non si deve fare di tutta l’erba un fascio. In altre parole, il corpo dei Carabinieri è in gran parte sano e le colpe sono da attribuirsi a “poche mele marce”. Ma è sulle implicazioni di tutto ciò che devo esprimere un profondo dissenso. Temo infatti che il ragionamento di Del Sette si risolva in una conclusione fallace e consolatoria. Sia perché, per rimanere nell’universo linguistico dell’ortofrutta, “le poche mele marce” se raccolte in un cestino sono capaci in men che non si dica di contagiare le altre; sia perché i rari elementi infetti possono rivelare una patologia assai più diffusa. Insomma, quanto venuto alla luce in questi giorni a proposito della morte di Stefano Cucchi può inquietare particolarmente chi, come me, a quella e altre vicende simili dedica attenzione da molti anni. E allora è certo che si tratta di una perversa coincidenza, e che ciascun episodio fa storia a sé e si è verificato in luoghi e con protagonisti differenti, ma è altrettanto innegabile che – come si vedrà – vi compaiano sempre militari dell’Arma dei Carabinieri. Non solo: queste storie diverse e distanti – ecco l’insidiosa combinazione – si dipanano e si avviluppano nell’arco di alcuni giorni. Venerdì scorso, le confessioni relative al “violentissimo pestaggio subito da Cucchi” (parole del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, al quale si deve essere tutti grati); ieri, lunedì 14 dicembre, sono cadute in prescrizione – grazie alla scellerata gestione da parte del procuratore Agostino Abate, infine sanzionato dal Csm – gran parte delle accuse perla morte di Giuseppe Uva, trattenuto illegalmente per ore nella caserma dei carabinieri di Varese; e sempre ieri si è tenuta un’udienza per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta a Firenze il 3 marzo del 2014 nel corso di un fermo a opera di quattro carabinieri. Nel corso dell’udienza un testimone ha così dichiarato: “Uno dei carabinieri colpì Riccardo Magherini con dei calci all’addome, almeno cinque o sei volte”, poi “vidi due calci alla testa. Cioè vidi un paio di calci all’altezza della testa, non saprei dire dove colpirono”. Ripeto, so bene che parliamo di tre vicende diverse avvenute in tempi diversi e in luoghi diversi. Ma è forte la sensazione che qualcosa li tenga insieme. E che l’accertamento dell’accaduto, l’individuazione dei responsabili e la loro sanzione, nel caso di provata colpevolezza, costituisca un’impresa davvero ardua. Per molte, comprensibili quanto ingiustificabili ragioni, il conseguimento della verità sulle cause di morte di persone custodite sotto la responsabilità delle forze dell’ordine e di istituzioni dello Stato è sempre complicato. Ma, tra queste, spiccano le inchieste che vedono coinvolte l’Arma dei Carabinieri, sue articolazioni territoriali, suoi singoli esponenti. E così ci sono voluti ben sei anni per trovare riscontri all’ipotesi che la tragedia di Stefano Cucchi si fosse consumata nella stazione dei Carabinieri “Appia” di Roma. E analoghe deficienze investigative si sono verificate, come detto, nel caso della morte di Giuseppe Uva a Varese. E mi auguro di cuore che nulla del genere possa ripetersi a Firenze. In proposito, va ricordato che nel gennaio del 2014 il comando generale dei carabinieri inviò a tutte le caserme d’Italia una circolare nella quale si raccomandava di non ricorrere più proprio a quella modalità di fermo che, due mesi dopo, avrebbe provocato la morte di Magherini. La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con le manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche tre-quattro, gravano sulla sua schiena per impedire qualsiasi movimento. Si determina qualcosa definibile come “compressione toracica” e che può portare all’infarto o all’asfissia. Quella circolare, che metteva in guardia contro una simile metodica, viene affissa in tutte le bacheche di tutte le caserme: e, dunque, anche in quella da cui parte la gazzella che incrocerà Magherini. Certo, quella direttiva è stata impartita con decenni di ritardo e tuttavia, se fosse stata letta e conosciuta e messa in pratica da quei quattro carabinieri, un giovane uomo probabilmente si sarebbe salvato. Cara senatrice Pinotti, come ho già detto, le responsabilità penali sono personali e quelle politiche non valgono certo per il pregresso, ma se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti. Sapendo che, per come ti conosco, condividi queste mie considerazioni, attendo una tua presa di posizione su avvenimenti che colpiscono profondamente l’opinione pubblica.

Luigi Manconi è senatore del PD, sociologo e attivista per i diritti umani.

Caso Cucchi, parla il carabiniere: "Lui ucciso, io isolato". Parla, per la prima volta, il militare che ha denunciato i pestaggi dei colleghi su Stefano. E accusa esponenti dell'Arma: «Adesso subisco pressioni e soprusi», scrive Giovanni Tizian il 26 luglio 2016 su "L'Espresso". Quattordici maggio 2015. Una data spartiacque per l’appuntato scelto dei carabinieri Riccardo Casamassima. È uno dei pochi a conoscere la verità sul caso Cucchi. Dopo una notte insonne, a valutare conseguenze e possibili ripercussioni, il caffè scioglie gli ultimi dubbi e le insicurezze della sera prima. Si veste ed esce di casa per incontrare Fabio Anselmo, l’avvocato di Stefano Cucchi. Con lui c’è la convivente, anche lei nell’Arma. E come lui a conoscenza di alcuni segreti sulla morte del geometra romano, fermato da una pattuglia il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sei giorni dopo all’ospedale Pertini di Roma. Casamassima ha 38 anni, indossa la divisa da quando ne ha 19. Bussa alla porta di Anselmo, dunque. Lì confessa per la prima volta ciò di cui era venuto a conoscenza. Ma è necessario un passo ulteriore per formalizzare le accuse. Perciò il 30 giugno del 2015 lo convoca il pm Giovanni Musarò, che coordina l’indagine bis sul trentenne pestato selvaggiamente da uomini in divisa. La prima inchiesta ha portato a un nulla di fatto. Tutti assolti gli agenti penitenziari. E l’appello bis concluso la settimana scorsa ha scagionato i medici del Pertini. Insomma, trascorsi sette anni ancora nessun colpevole. L’enigma da risolvere è scritto nelle motivazioni che giudici di Cassazione e di Appello hanno prodotto negli anni: Stefano Cucchi è stato, senza dubbio, picchiato. Per questo, come sostiene la Suprema corte, sarà necessario ripartire dalle testimonianze che fornivano più di qualche indizio su picchiatori vestiti da carabinieri. Da questo dato di fatto è ripartita la procura guidata da Giuseppe Pignatone per aprire il nuovo fascicolo. Certo, né la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, né l’avvocato della famiglia, né i pm, potevano immaginare di poter contare su un teste commilitone dei presunti autori del pestaggio. Militare che sostiene di aver ricevuto le confidenze del superiore- il maresciallo Roberto Mandolini- dei presunti colpevoli. Il maresciallo è uno dei cinque indagati. A lui e a Vincenzo Nicolardi viene contestato il reato di falsa testimonianza. Per gli altri tre - Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco - i pm ipotizzano il reato di lesioni. Accusa che potrebbe mutare all’esito dell’incidente probatorio, se la nuova perizia dovesse stabilire che Cucchi è morto a causa dei pugni e dei calci ricevuti. Tra il 2008 e il 2010 Casamassima era in forza al comando di Tor Vergata. Proprio da qui era stato trasferito Mandolini con destinazione caserma Appia, la stessa da cui partiranno gli agenti per arrestare Stefano. Un mese dopo il trasferimento, Mandolini, tornò nella sua vecchia “casa” ufficialmente a salutare il comandante. Tuttavia, stando al racconto dell’appuntato, il passaggio a Tor Vergata non era un gesto di cortesia: piuttosto era dovuto a questioni più urgenti e “critiche”. «Quando lo vidi nella caserma lui si mise una mano sulla fronte, poi esclamò: “È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”», conferma a “l’Espresso” quanto già messo a verbale in procura. «Dopo di che si recò a passo spedito verso l’ufficio del comandante della stazione, il maresciallo Enrico Mastronardi», prosegue Casamassima. E qui avrebbe confessato “il casino” al superiore, indicando il nome del ragazzo pestato dai colleghi. A sentire quelle parole, e il cognome Cucchi, è stata la convivente dell’appuntato. Insieme hanno deciso di denunciare. La donna si trovava nella stanza prima che Mandolini entrasse. E mentre si dirigeva verso l’uscita il maresciallo aveva iniziato già a parlare. Non si ricorda il giorno esatto della visita, l’appuntato. Ma di una cosa è certo: «Cucchi era ancora vivo». Riferisce, inoltre, dell’incontro avuto con il figlio di Mastronardi, anche lui nell’Arma. «Mi disse di aver visto Cucchi la sera dell’arresto, e di aver constatato che era ridotto male a causa delle botte ricevute dai colleghi del comando Appia. Disse: non puoi capire come me l’hanno portato, era messo proprio male». Mastronardi junior, però, sentito dai magistrati non ricorda di aver pronunciato quelle parole, ma non esclude di aver sentito voci di caserma sul fatto: «Non posso escludere di aver partecipato ad una conversazione fra colleghi nella quale si diceva che Cucchi avesse subito un pestaggio dai colleghi di Roma Appia, ma in questo momento non ricordo bene». Il racconto di Casamassima troverebbe conferma anche nella testimonianza, agli atti dell’inchiesta, del militare, Stefano Mollica, che ha accompagnato Cucchi in tribunale: «Come ho già riferito in precedenza, il gonfiore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia». Perché Casamassima ha deciso di parlare solo ora? A distanza di anni? «Non ho più seguito il caso Cucchi e solo pochi mesi fa, essendo in convalescenza, ho visto in televisione la sorella di Stefano Cucchi. In quel momento ho trovato la forza di dire tutto ciò che sapevo». L’appuntato ai magistrati ha anche indicato una chiave di lettura sui trasferimenti di alcuni colleghi all’interno dell’Arma. Sostiene che esistono trasferimenti premio e altri punitivi. Nel caso di Mandolini, per esempio, il suo spostamento al battaglione Tor di Quinto rientrerebbe nella seconda categoria: «Il battaglione e la Compagna speciale sono reparti con tanti colleghi che hanno problemi con la giustizia. E Mandolini non aveva neppure i requisiti per fare domanda, non aveva per esempio meno di 35 anni, per questo deduco che è stato un trasferimento d’ufficio, cioè punitivo». Anche Casamassima è stato trasferito. Il paradosso, però, è che i vertici l’hanno mandato nello stesso ufficio del maresciallo Mandolini. Ora convivono, denunciante e denunciato. Ciò che preoccupa di più il militare, però, è la distanza, 45 chilometri, che deve percorrere ogni giorno. Per questo ha tentato di chiedere il trasferimento sfruttando la legge sul ricongiungimento famigliare. La richiesta è partita dopo la notizia della sua testimonianza in procura. L’appuntato ha due figli e una compagna che vivono appena fuori Roma. Ne avrebbe diritto, ci spiega durante l’incontro. Niente da fare, però: «La domanda per riavvicinarmi a casa è stata approvata da tutti gli ufficiali territoriali, poi una volta arrivata al comando generale è stata respinta». Ma i guai per l’appuntato iniziano ben prima della denuncia sul caso Cucchi. Nel 2014 ha presentato una denuncia dettagliata, letta da “l’Espresso”, alla procura militare. Una relazione con nomi e cognomi di chi tra i suoi colleghi dell’ultima stazione avrebbe superato lo steccato di ciò che è lecito. Con dovizia di particolari indica militari assenteisti, altri che gestirebbero aziende intestate alle mogli, altri ancora in affari con Onlus. Racconta persino di “buste” con soldi. La denuncia è ferma sul tavolo degli inquirenti da due anni. Un fascicolo è stato aperto, ma per ora, senza alcuno sviluppo. Intanto lui sta affrontando un processo al tribunale di Roma, per una serie di omissioni nella gestione degli informatori. Già, perché, come ripete spesso, è uno “sbirro” di strada. Ha condotto numerose operazioni. Lavorava soprattutto con informatori. Fonti sempre borderline. Tra i suoi contatti anche personaggi di calibro del milieu delle borgate romane. Questo è l’argomento che i suoi nemici usano più spesso: «Ma chi? Casamassima? Ha solo voglia di vendicarsi», racconta. Eppure per i pm di Roma il suo racconto è credibile. A loro nell’estate 2015 confessava: «Avrei preferito tenere fuori la mia donna, temo forti ripercussioni all’interno dell’Arma». Un anno dopo queste ultime parole si ritrova a lavorare con il collega che avrebbe coperto il pestaggio di Cucchi, lontano dalla famiglia e con un procedimento disciplinare aperto successivamente alla testimonianza, per un vecchio danno all’auto di servizio. Per questo si appella al comandante generale Tullio Del Sette: «Lo ritengo un militare scrupoloso e capace. Vorrei solo che lui ascoltasse le nostre ragioni».

Caso Cucchi, un'insostenibile mancanza di giustizia, scrive Giuseppe Anzani il 20 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare «tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente», il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché «caduto dalle scale» piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Il caso Cucchi e i segreti della massoneria. Del collegio di esperti che dovrà fare la nuova perizia sul corpo di Stefano fa parte un professore ex massone. "In sonno" dal 1983. Sulla vicenda è stata aperta un'indagine, ora archiviata. Ma la procura ha acquisito i documenti ufficiali della Loggia di Bari. Dal giuramento alla costituzione massonica. Materiale inedito e segreto che apre le porte del Grande oriente, scrive Giovanni Tizian il 12 aprile 2016 su "L'Espresso". «Certificato di apprendista numero 33547. Loggia Saggezza Trionfante 984 Bari. Grande Oriente d'Italia. Con fraterni saluti». Il documento del 1980 attesta l'affiliazione di Francesco Introna, ordinario di Medicina Legale dell'Università di Bari. Perito in importanti processi, come il caso Claps, consulente di parte per Raffaele Sollecito. E nominato nel collegio dei periti per l'incidente probatorio nell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi che vede indagati cinque carabinieri. E proprio in quest'ultima sede, durante la prima udienza, l'avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi ha sollevato la questione dell'incompatibilità di Introna vista la sua presunta fede massonica e la passata candidatura nel 2009 nelle fila del Pdl alle comunali di Bari. Fazione politica che su Stefano Cucchi ha dimostrato, con dichiarazioni e prese di posizione, una profonda ostilità. L'affiliazione massonica del perito è finita così in una denuncia presentata in procura dalla famiglia del geometra romano. Dopo un'approfondita verifica di atti e documenti, l'indagine è stata chiusa e per Introna è stata richiesta l'archiviazione: «L'accusa non potrebbe essere sostenuta in giudizio per evidente carenza dell'elemento soggettivo del delitto ipotizzato». In pratica, Introna, ha sì dichiarato il falso davanti al giudice, affermando di non essere nemmeno più “in sonno”, ma l'ha fatto senza dolo. Perché convinto di quella sua affermazione. Introna è stato un libero muratore ufficialmente fino al 1983. Poi, come emerge dai documenti acquisiti dai magistrati, risulta “assonnato”. Non c'è dunque motivo per dubitare della buona fede del professore. Potrà così continuare a fare parte del pool che dovrà svolgere una nuova perizia sul corpo di Stefano Cucchi, morto nell'ottobre 2009 dopo l'arresto per possesso di droga. Messa da parte la vicenda specifica, il materiale inviato dal Grande Oriente ai pm del caso Cucchi apre le porte di un mondo misterioso e segreto. Tessere di iscrizione, codici scritti, la costituzione massonica, elenchi, simboli esoterici e timbri ufficiali di maestri venerabili. Tutto materiale che “l'Espresso” ha potuto consultare. «Mi laureai nel 1979, e quell'anno all'interno dell'istituto di Medicina Legale di Bari conobbi due colleghi, i quali erano iscritti alla Loggia Saggezza Trionfante. Uno di questi si chiamava Roberto Gagliano Candela (medico luminare ndr). Sentendoli parlare della Loggia ritenni l'argomento interessante e, presentato, da questi due colleghi mi iscrissi alla medesima nel 1980». Francesco Introna ripercorre davanti ai magistrati romani i giorni del reclutamento massonico. «Aggiungo che la mia convinzione di essere stato espulso dalla massoneria risultava confermata dal fatto che un paio di anni fa ricevetti l'onorificenze di Commendatore per meriti professionali e in questo caso la mia persona fu oggetto di accertamenti da parte dei carabinieri su incarico della prefettura. Perciò ritengo che se io fossi stato in “sonno” questa circostanza sarebbe venuta fuori. Invece i carabinieri non mi chiesero nulla». Sul significato dell'essere “assonnato” gli inquirenti chiedono spiegazioni al gran maestro del Goi, Stefano Bisi. Convocato a piazzala Clodio negli uffici della procura risponde dettagliatamente alle domande. «La collocazione in “sonno” viene comunicata con raccomandata con ricevuta di ritorno. I fratelli attivi partecipano alle riunioni e pagano una quota, il fratello in “sonno” e quello depennato hanno comunque l'obbligo di lealtà nei confronti degli altri fratelli, così come risulta dall'articolo 9 della Costituzione del Grande oriente d'Italia». Poi, Bisi, riferisce delle quote d'iscrizione: «L'importo dovuto è predeterminato, non si tratta comunque di importi considerevoli, vari da 400 a 500 euro l'anno, a seconda della singola loggia. «Io Francesco Introna liberamente, spontaneamente, con piano e profondo convincimento dell'animo, con assoluta e irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell'Universo, sul mio onore e in piena coscienza solennemente giuro: di non palesare i segreti dell'iniziazione muratoria, di aver sacri l'onore e la vita di tutti; di soccorrere, confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principi che osteggiano quelli propugnati dalla Libera Muratoria». Il giuramento è impresso su una pergamena con la firma del venerabile maestro. E risale al 1980. L'atto ufficiale è successivo alla votazione, con scrutinio delle schede su cui ogni fratello vota il “gradimento” del nuovo adepto. A seguire il testamento, altro passaggio fondamentale per entrare a far parte della loggia. Si tratta di una seconda pergamena in cui l'iniziato risponde alle domande sulle regole di comportamento generale che i fratelli devono tenere: «Quali sono i doveri dell'uomo verso se stesso? Migliorarsi in continuazione; Quali sono i doveri verso la Patria? Amarla. Rispettarla; Quali sono i doveri verso l'umanità? Porsi al suo servizio per essere utile». Di Dio e la religione; Del magistrato civile supremo e subordinato; Delle Logge; Dei maestri, sorveglianti, compagni e apprendisti; Della condotta dell'Arte nel lavoro; Del Comportamento. Questi sono i titoli generali della Costituzione della libera muratoria del Goi. Al punto 3 del capitolo sul Comportamento è spiegato l'atteggiamento da tenere nel caso in cui due “fratelli” si incontrano non in una loggia e senza estranei: «Vi dovete salutare l'un l'altro in modo cortese, chiamandovi fratello l'un l'altro, liberamente fornendovi scambievoli istruzioni che possano essere utili, senza essere visti o uditi e senza prevalere l'uno sull'altro o venendo meno al rispetto dovuto a ogni fratello». Al punto successivo, invece, le istruzioni sul come comportarsi in presenza di non massoni: «Sarete cauti nelle vostre parole e nel vostro portamento affinché l'estraneo più accorto non possa scoprire o trovare quando non è conveniente che apprenda; e talvolta dovrete sviare un discorso e manipolarlo prudentemente per l'onore della rispettabile Fratellanza». Ma cosa fare davanti a uno straniero? «Lo esaminerete cautamente, conducendovi secondo un metodo di prudenza, affinché non siate ingannati da un ignorante falso pretendente, che dovrete respingere con disprezzo e derisione». Se lo straniero è degno di affiliazione, invece, cambia tutto: «Dovete allora rispettarlo e se egli ha bisogno dovete aiutarlo se potete oppure indirizzarlo dove possa venire aiutato: dovete occuparlo per qualche giornata di lavoro oppure raccomandarlo perché venga occupato. Ma non siete obbligato a fare oltre la vostra possibilità». Può anche succedere però un litigio tra fratelli o tra affiliati e “stranieri”. Che fare? Anche per questo il regolamento è chiaro: «Non consentite agli altri di diffamare qualsiasi onesto fratello...E se qualcuno vi ingiuria dovete rivolgervi alla vostra o alla sua loggia e dopo appellarvi alla Gran Loggia annuale, come è stato l'antico lodevole costume dei nostri antenati in ogni nazione. Non dovete intraprendere un processo legale a meno che il caso non possa venire risolto in altro modo e pazientemente affidatevi all'onesto e amichevole consiglio del Maestro e dei Compagni, allorché essi vogliono evitare che voi compariate in giudizio contro estranei...Amen così sia». Insomma, le questioni è meglio risolverle in Loggia. Tra fratelli. I liberi muratori una volta giurato sono sottoposti alla giustizia massonica dell'Ordine: «E vi restano soggetti anche se non più attivi». È l'articolo 56 del titolo X, “Della Giustizia massonica”, della costituzione del Goi. I fratelli possono sbagliare, come tutti gli esseri umani. Perciò il regolamento prevede delle “colpe massoniche” e pene collegate. «Costituiscono colpa massonica: ogni azione contraria alla lealtà, all'onore o alla dignità della persona umana». I provvedimenti sono tre: Espulsione, censura solenne e censura semplice. A giudicare i cattivi massoni sono gli organi interni: il tribunale della loggia; tribunale dei Colleggi dei maestri venerabili; la corte centrale del Grande oriente. Fidarsi l'uno dell'altro. Per chi è dentro una loggia, questo è un presupposto imprescindibile. La fiducia deriva dalla modalità “sicura” di affiliazione. Il neofita è sempre presentato da almeno tre fratelli anziani. Ognuno dei quali deve mettere per iscritto, su un modulo, le motivazioni della scelta. Tendendo però presente le regole del buon massone: «Moralità, costumi e reputazione; probità costante nel corso della vita; esattezza nel disimpegno dei doveri del proprio stato; fermezza di carattere nei principi professati; cultura, impegno, attitudini a penetrare e assimilare la dottrina massonica». Inoltre, chi presenta il nuovo arrivato deve specificare se questo appartiene «ad associazioni di carattere ricreativo, filantropico, benefico, religioso, politico, culturale o di altra natura; se ha avuto eventuali cariche in enti e altre notizie eventuali sulla persona». La radiografia del pretendente è approfondita. Ma spesso, come ha insegnato la storia passata e recente, non è stata sufficiente a rintracciare “l'intruso”, con interessi che poco hanno a che fare con la il rispetto dell'umanità.

Condannare tutti gli imputati (agenti, medici e infermieri) a pene comprese tra i due anni e i sei anni e otto mesi di reclusione, così scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera” e così riporta “La Repubblica”. Queste le richieste dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy ai giudici della III Corte d’Assise, presieduti da Evelina Canale al termine della requisitoria nel processo per la morte di Stefano Cucchi, geometra romano 31enne fermato per possesso di droga il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini. In particolare i pm hanno chiesto che siano inflitte le seguenti pene: sei anni e otto mesi di reclusione per il primario Aldo Fierro, sei anni ciascuno per i medici Stefania Corbi e Flaminia Corbi, cinque anni e mezzo ciascuno per gli altri due medici Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite; quattro anni ciascuno per Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; due anni ciascuno per gli agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Tutti i sanitari sono accusati a diverso titolo di abbandono di persona incapace. Secondo il magistrato è stata riscontrata una "sciatteria assoluta" nel modo in cui era tenuta la cartella clinica di Cucchi. Tutto il personale medico e infermieristico deve rispondere anche di favoreggiamento e omissione di referto. A carico di Rosita Caponetti è ipotizzato invece il reato di falso e abuso d'ufficio. Per lei sono stati chiesti due anni. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono stati chiesto 2 anni. I tre sono: Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Loro devono rispondere di lesioni personali aggravate. In particolare gli agenti penitenziari sono accusati di lesioni aggravate e di abuso d'autorità nei confronti di arrestati o detenuti per aver, secondo l'accusa, il 16 ottobre del 2009 picchiato Cucchi nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell'udienza di convalida. Non solo gli agenti avrebbero anche sottoposto il 31enne stante "le continue lamentele, a misure di rigore non consentite dalla legge per farlo desistere dalla reiterate richieste di farmaci". Falso ideologico e abuso d'ufficio sono contestati a un medico e al direttore dell'ufficio detenuti per aver scritto cose non corrispondenti al vero nella cartella clinica di Cucchi relativamente alle sue condizioni generali di salute facendolo ricoverare in una struttura per pazienti non acuti, stabilizzati e non con politraumatismi come nel suo caso. Secondo la ricostruzione dell'accusa, in sostanza, sarebbero state precostituite le condizioni formali per coprire gli agenti penitenziari. Gli altri medici e i tre infermieri sono accusati di falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto di atti d'ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto sono invece i reati contestati, sempre a seconda delle singole posizioni processuali. Secondo l'accusa, questi, "dal 18 al 22 ottobre abbandonavano Cucchi incapace di provvedere a se stesso", omettendo anche "di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo per altro certamente idonei ad evitare il decesso di paziente". Secondo l'accusa, questi, tra l'altro, omettevano "volontariamente di adottare qualunque presidio terapeutico al riscontri di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica pericolosa per la vita, neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d'acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso". Secondo l'accusa gli stessi indagati, sempre "volontariamente": non avrebbero né svolto un "necessario" elettrocardiogramma né una "semplice palpazione del polso" per tenere sotto controllo la brachicardia; non avrebbero comunicato a Cucchi "l'assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita, limitandosi ad annotare gli asseriti rifiuti nella cartella clinica, motivati dalla volontà di effettuare colloqui con un avvocato, circostanza che omettevano di comunicare alla polizia penitenziaria"; non avrebbero trasferito Cucchi in un reparto più idoneo a curarlo; non avrebbero controllato il "corretto posizionamento o occlusione del catetere". Nella loro requisitoria i pm hanno affrontato le violenze subite da Cucchi. «È stato picchiato nelle celle del Tribunale di piazzale Clodio in attesa del processo di convalida perchè pretendeva cure per la sua crisi d'astinenza in cui probabilmente si trovava. Comunque quelle lesioni non ne causarono la morte» ha detto Barba. "I tre agenti di polizia penitenziaria non hanno mai chiamato il medico, dopo aver preso in consegna Stefano Cucchi, prima dell'udienza di convalida quella mattina", ha detto in un passaggio della sua requisitoria il pm Vincenzo Barba davanti ai giudici della corte d'assise di Roma. "Samura ha sentito il pestaggio che ha subìto Cucchi. Proprio il fatto che lui dice solo di aver ascoltato e non visto gli da proprio ulteriore attendibilità - ha detto parlando del cosiddetto 'supertestimone', un immigrato del Gambia che fu portato in carcere lo stesso giorno del giovane geometra poi deceduto - Samura ha parlato delle lesioni avute da Cucchi, ci ha mostrato come lui gli fece vedere il colpo ricevuto sulla gamba. E quando trovammo i pantaloni che aveva indosso la vittima abbiamo avuto l'ulteriore conferma della veridicità del racconto di Samura. Vedendo le “strisciate” di sangue all'interno della gamba del pantalone si capisce".  "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. ''Sin dall'inizio - ha sottolineato ancora - i pm hanno operato nell'ombra senza clamori mediatici emersi in seguito non certo per nostra volontà. Abbiamo voluto dare massimo spazio a tutte le parti in causa, a tutte le loro richieste. Ma l'impatto mediatico è divenuto sempre più invasivo, ci sono state ben due commissioni che hanno indagato contemporaneamente a noi e con evidenti interferenze. Ci sono state svariate interrogazioni parlamentari fino a numerosi tentativi di depistaggio da parte di personaggi che noi abbiamo inserito nella lista testimoniale''. "Ci sono tre punti chiave di questo processo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio; fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni; la condotta del personale sanitario dell'ospedale fu caratterizzata da lacune, omissioni e incurie che rivelano un vero e proprio e stato di abbandono del paziente che essendo detenuto non poteva scegliere da chi farsi curare", ha proseguito il pm Barba durante la requisitoria. Il magistrato ha quindi aggiunto che il ricovero all'ospedale Sandro Pertini "per isolarlo dal mondo, dalla sua famiglia e nascondere quanto accaduto nelle celle di piazzale Clodio". E ancora: "Cucchi e la sua malattia sono stati trattati come una mera pratica burocratica come si evince dal certificato di morte, una farsa in cui si parla di morte naturale. Niente degli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi doveva trasparire dalla documentazione ospedaliera. In sostanza secondo il pm l'amministrazione penitenziaria si sarebbe fortemente impegnata per far ricoverare Cucchi al Pertini benché tale struttura sanitaria non fosse adeguata alle sue condizioni di salute. Per raggiungere tale scopo si attiva anche il funzionario del Prap (provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) Claudio Marchiandi. Giudicato con rito abbreviato in altro procedimento questi fu condannato a due anni di reclusione. Tale sentenza è stata capovolta nel giudizio di secondo grado, dove è stato assolto. Pendente il ricorso in Cassazione. "C'è un'evidente falsità di quanto scritto nella documentazione sanitaria da cui sembrerebbe che Cucchi stava benino", ha concluso Barba. E l'altro pubblico ministero, Maria Francesca Loy ha aggiunto: «Le lesioni che aveva Stefano non sono neanche una concausa della sua morte ma hanno valenza occasionale. Cucchi - ha sottolineato il pm - è morto perché non è stato alimentato, non è stato curato, rifiutava di cibarsi e nessuno dei medici si è preoccupato di farlo nutrire». Per il pubblico ministero Loy, Cucchi «è morto di fame e di sete». La magrezza del 31enne viene paragonata a quella «dei prigionieri di Auschwitz». «Tutti noi possiamo immaginare le conseguenze di uso di droghe su un corpo umano per vent'anni. Assumeva ogni tipo di sostanza stupefacente, soffriva inoltre di crisi epilettiche dall'età di 18 anni. Dal 2001 al 2009 ha compiuto ben 17 accessi al pronto soccorso dell'ospedale Vannini, una media di due all'anno». Secondo il pm, quello dei medici «non è stato un comportamento colposo, ma chiari indici di indifferenza nei confronti del paziente». «Il dolo è configurabile in tutte le manifestazioni. Non stiamo dicendo che i medici e gli infermieri hanno voluto far morire Cucchi, ma davanti al rifiuto di un paziente maleducato, cafone e scorbutico, hanno accettato il rischio che potesse morire» spiega Loy. «Non c'è dubbio che nei comportamenti dei sanitari ci siano profili di imperizia. La condotta dei medici ha determinato la morte di Cucchi», anche se «non stiamo parlando di un giovane sano», ha concluso. Forti della super perizia chiesta dal tribunale e che – attribuendo il decesso alle mancate cure - dà loro sostanzialmente ragione sulla scelta di non contestare il reato di omicidio per le percosse subite dal 31enne dopo l’arresto, i pm hanno aperto la loro requisitoria accusando chi, a loro avviso, ha voluto speculare fin dall’inizio sulla vicenda: «Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi», ha detto Barba. Un processo che la pubblica accusa – coprotagonista di aperte polemiche con i familiari del giovane - non ha esitato a definire «mediatico». «I mass media - ha sostenuto ancora il pm - hanno influenzato l'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo». "Cucchi era una persona di una magrezza patologica di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz". Cosi il pm Maria Francesca Loy nel corso della sua requisitoria davanti alla III Corte d'Assise. Il magistrato quindi ha affrontato la questione delle lesioni riportare da Cucchi: "Secondo tutti i periti sono modeste anche se dolorose - ha detto - Siamo convinti che le lesioni cagionate dalla penitenziaria siano state, più che un pestaggio, probabilmente una spinta o un calcio che lo ha fatto cadere a terra. Una violenza gratuita inflitta nei confronti di un detenuto che in quel momento teneva un comportamento ritenuto insopportabile". "Stefano Cucchi era lungi da essere un giovane, sano e sportivo - ha aggiunto - era tossicodipendente da circa trent'anni con gli effetti devastanti che ciò comporta per il corpo di una persona. Soffriva inoltre di crisi epilettiche da quando aveva 18 anni. Due volte all'anno circa negli ultimi dieci anni si e' recato al pronto soccorso per traumi, abusi d'alcol. Non e' normale per un giovane sano. Periti definiscono le sue condizioni di grave deperimento organico. Durante la degenza al Pertini ha perso dieci chili". "L'unica lesione comprovata dalla perizia è quella della vertebra sacrale – continua il pm Maria Francesca Loy. - In termini di invalidità civile si può affermare che provocò un danno biologico inferiore al 9 per cento, quindi una lesione lieve, modesta, anche se dolorosa. Ma certamente non doveva portare ad un esito mortale". Il magistrato ha sottolineato che "i medici legali più famosi d'Italia si sono concentrati su questa vicenda". L'atto di violenza subita da Stefano Cucchi fu "gratuito e inutile". “Non servivano esperti per dirci la causa di morte - ha detto - Bastava vedere le foto”. Nel ricostruire quelle lesioni, il pm ha ricordato quanto riferito da un testimone ritenuto dagli inquirenti "credibile": il cittadino del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava in stato di fermo nelle celle sotterranee del tribunale di Roma insieme a Cucchi. "Ho sentito quando loro davano calci - cosi il pm Barba leggendo la testimonianza di Samura che raccontava quanto sentì in quella cella - Lui è caduto e piangeva. Ho guardato dal finestrino e ho visto tre persone vestite di blu che lo trascinavano. Lui poi mi ha fatto vedere una ferita alla gamba". Il gambiano "non ha avuto niente in cambio che non fosse un suo diritto". Per Loy, il comportamento dei medici e degli infermieri del Pertini "non fu colposo, ma un chiaro sintomo dell'indifferenza che hanno avuto nei confronti di quel paziente". Nessun dubbio quindi per il pm sulla configurabilità del reato di abbandono di persona incapace nei confronti del personale che curò Cucchi al Pertini, stesso reato ipotizzato anche nel caso del naufragio della Costa Concordia. "Anche di fronte a un paziente maleducato, che rifiuta le cure e il cibo - ha aggiunto - non si doveva lasciar perdere, dagli esami erano evidenti le gravi condizioni, se cosi non fosse meglio cambiare mestiere". "I medici dell'ospedale Sandro Pertini, con condotte colpose o con imperizia o con negligenza, non hanno saputo individuare la patologia da cui era affetto il paziente Stefano Cucchi, di cui ne sottovalutarono le condizioni. L'evento morte era prevedibile". Era stato il parere dei periti (i milanesi Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla, Luigi Barana) incaricati dalla terza corte di assise di Roma di stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi. "La causa della morte di Stefano Cucchi - dice testualmente la perizia - per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche va identificata in una sindrome da inanizione". "Con il termine di morte per inanizione - scrivono i periti - si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi". Secondo i pm, il processo mediatico ha reso per esempio reso difficile proteggere uno dei testimoni chiave, l'immigrato del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava nella cella adiacente a quella di Cucchi nei sotterranei del tribunale di Roma. «Abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico», ha detto ancora il magistrato- Andando poi nel merito della vicenda, l’accusa si è soffermata a su un punto in particolare: «Il giorno del suo arresto dopo la convalida in tribunale ed il pestaggio, arriva la decisione di portarlo dal carcere all'ospedale Fatebenefratelli. Ma dalle 16.35 alle 19.50 lui resterà in una panchina, senza assistenza perché sono stati posti tutti i possibili ostacoli per impedire, rallentare. E tutto questo tempo per percorrere dieci minuti al massimo di strada, tra il Fatebenefratelli e Regina Coeli». Un atteggiamento che ha secondo i pm una motivazione ben precisa: «La necessità di evitare che occhi estranei vedessero. Per celare una situazione di precarietà»."Abbiamo avuto l'esigenza di tutelare Samura come fonte di prova - ha detto Barba - il clamore mediatico era diventato insopportabile. Ad un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi". Per determinare il momento in cui "Cucchi è stato aggredito - ha aggiunto il magistrato - rilevano le dichiarazioni dei familiari. Dopo l'arresto fu perquisita casa prima di andare a piazzale Clodio e in quell'occasione non fu notato niente di strano. Quando poi il padre incontrò Stefano in tribunale lo notò sofferente e con il volto tumefatto. Tutto ciò dimostra che l'aggressione avvenne prima dell'udienza. Il medico del tribunale che lo visitò, poi, per la prima volta certificò la presenza di lesioni. Lesioni che furono riscontrate anche dal medico di Regina Coeli che però trovò ostruzionismo da parte del personale del carcere per far trasferire il detenuto al Fatebenefratelli. Anche i medici di questa struttura decretarono la gravità delle condizioni di Cucchi".

Questa la verità requirente, dall’altra parte la verità storica riferita dai parenti della vittima. Versione della vittima che lo Stato dovrebbe tutelare e non degli imputati. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Affermare, o peggio alludere al fatto che noi non avessimo riferito ai carabinieri, durante la perquisizione in casa nostra, che Stefano avesse anche un'altra casa a Morena per nascondere la droga, da noi stessi poi ritrovata e denunciata, è un comportamento intollerabile oltre che incomprensibile. Tra l'altro nessuna indagine è stata fatta su chi l'abbia data a Stefano. I pm nella loro ansia accusatoria dimenticano che mio padre aveva regolarmente denunciato alla Questura la presenza di Stefano in quella casa - ha precisato Ilaria Cucchi, sorella della vittima - Io e la mia famiglia ci siamo sottoposti a questo processo lunghissimo e dolorosissimo. Continuiamo a sperare che si riconosca verità su quanto accaduto a Stefano e per questo riponiamo estrema fiducia nella Corte. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso, vi era una vecchia frattura. Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico».

«C'è in noi enorme tensione per quello che ci aspetta» ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi «Da oggi in avanti sarà ancora una sofferenza, perchè tutto ci riporterà alla mente quanto accaduto». È iniziato giovedì 24 marzo 2011 il processo davanti alla terza Corte d'assise del Tribunale di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato il 16 ottobre del 2009 e poi deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Sul palco degli imputati tre agenti carcerari, 6 medici dell'ospedale Sandro Pertini in servizio presso il reparto detenuti e tre infermieri dello stesso reparto. In tutto dodici persone. «Ci sono diversi coni d'ombra in questa vicenda - ha detto l'avvocato di parte civile Fabio Anselmo - Ricostruiremo l'ultimo mese di vita di Stefano». Tra le richieste preliminari all'inizio del dibattimento c'è stata quella che ha sollecitato una delle difese, relativa all'effettuazione di un sopralluogo nella cella del tribunale di Roma dove fu tenuto il giovane in attesa dell'interrogatorio successivo al suo arresto.

I tre agenti di Polizia penitenziaria - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici - devono rispondere del reato di lesioni personali aggravate per aver abusato dei loro poteri. In pratica avrebbero picchiato Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, quando questo era in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Ma l'accusa più grave è quella contestata ai quattro medici ed ai tre infermieri che prestavano all'epoca dei fatti servizio al Sandro Pertini. Il reato è quello di abbandono di persona incapace, aggravato dalla morte, la condanna prevista dal Codice va dai tre agli otto anni. Ne devono rispondere i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi Preite e Silvia Di Carlo; e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Un altro dottore, Rosita Caponetti, è accusata di falso e abuso d'ufficio in relazione alle condizioni di Cucchi ed al suo ricovero. È già stato condannato a due anni il dirigente del Prap - Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria -, Claudio Marchiandi, a cui è stata data una pena di due anni.

Il padre: rivendicava i suoi diritti "Stefano prima di morire rivendicava solo i suoi diritti. E' vero, ha fatto il digiuno ma solo perché voleva che venissero rispettati i suoi diritti come quello di nominare un suo avvocato. E' morto in maniera civile, e' stato ammazzato in maniera incivile". Così Giovanni, padre di Cucchi, ripercorre gli ultimi momenti di vita del figlio.

La storia Cucchi fu arrestato il 15 ottobre di due anni fa alle 23.30. Una pattuglia di carabinieri lo trovò in possesso di stupefacenti. Fu portato in carcere e, il giorno dopo, fu portato davanti al giudice monocratico per la convalida dell’arresto. Alle 13.30, dopo la convalida, Cucchi fu affidato alla polizia penitenziaria e qualche tempo dopo il medico del tribunale si accorse che aveva alcune ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni. Alle 15.45 arrivò a Regina Coeli ma, tre ore più tardi, fu trasportato al Fatebenefratelli dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Alle 23 venne riportato in carcere ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato all'ospedale al Pertini. La mattina del 22 ottobre Stefano morì e da lì è iniziò il procedimento penale che ha portato al rinvio a giudizio di chi, tra guardie carcerarie, medici e infermieri, era stato coinvolto.

Ferite che assomigliano a bruciature di sigarette. Croste sulle mani. Un doppio livido trasversale all’altezza dell’osso sacro, forse dovuto a un calcio. Volto tumefatto. Sono «terribili», dicono gli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, le foto dell’autopsia di Stefano Cucchi conservate nel fascicolo della procura. Le prime due mostrano il giovane vestito «come nel giorno dell’arresto, non gli hanno mai dato un cambio».

Nelle altre il geometra è spogliato e allora saltano agli occhi «le tremende condizioni di deperimento» del suo corpo esile. E non possono non notarsi «le escoriazioni profonde, ovali o circolari», come se qualcuno gli avesse spento dei mozziconi addosso: «Su un pollice, sui gomiti, sul dorso delle mani e all’attaccatura dei capelli». Le foto avvalorano l’ipotesi del pestaggio formulata dai pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy. Una «pista» basata sulla deposizione del supertestimone che, sabato, sarà sottoposto a incidente probatorio davanti al gip Luigi Fiasconaro. Il suo racconto è contenuto in un verbale di 30 pagine piuttosto confuso, in cui i magistrati sono costretti a chiedere più volte di che colore fossero le divise dei «picchiatori».

«L’hanno colpito a calci», ha riferito il giovane ai pm descrivendo la scena che sarebbe avvenuta nel corridoio delle celle di sicurezza del tribunale. Finita l’udienza di convalida Cucchi sarebbe stato rinchiuso con lui: «Dopo che l’hanno messo in cella — ha detto il supertestimone — ho visto che lo spingevano». E Cucchi si sarebbe confidato: «M’hanno menato quegli stronzi». Il Dap, senza aver ancora concluso l’inchiesta interna, ha spostato i tre agenti della penitenziaria indagati a Fiumicino, a Rebibbia e al carcere minorile di Casal del Marmo.

Senza dimenticare, però il caso Cucchi. Ilaria Cucchi: «Sì, a volte ho pianto, ma non mi fermerò mai», scrive Manuela Saraceno su “Il Garantista”. Incontro Ilaria Cucchi in un quartiere popolare di Roma, un luogo vivace ma allo stesso tempo dimenticato: il Pigneto. Tra uno spritz, un boccone e brevi interruzioni di gente comune che le si avvicina per un abbraccio o una semplice parola di conforto, inizia la nostra chiacchierata.

L’abbiamo vista in tv, nel programma “Questioni di famiglia” in onda su RaiTre. Come è andata nei panni dell’inviata?

«Per me è stata un’esperienza bellissima, anche se breve. Mi ha trasmesso emozioni molto forti e mi ha consentito di raccontare le storie quotidiane di gente comune. Purtroppo la trasmissione è stata chiusa perché gli ascolti sono andati male, ma sono felice di averne fatto parte e per questo devo ringraziare coloro che mi hanno voluta lì».

È stata scelta come inviata perché in quel momento faceva notizia?

«Non credo, anzi escludo assolutamente qualunque tipo di strumentalizzazione da parte loro. La proposta di RaiTre è arrivata a fine settembre 2014, quindi prima della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma. Eravamo quattro inviati, tutti con la propria storia alle spalle. Probabilmente questi cinque anni e ciò che è successo a Stefano mi hanno reso una persona diversa da quella che ero prima, più diretta, più sensibile a certi temi. Credo che siano questi i motivi per cui mi hanno scelta».

Si è avuta l’impressione che una volta ottenuta la partecipazione alla trasmissione il caso Cucchi sia finito nel dimenticatoio. È così?

«Intende dire che è come se dopo l’inizio della trasmissione io abbia smesso di pensare a mio fratello?»

Alcuni hanno mosso anche questa critica. La hanno accusata di utilizzare la vicenda di Stefano per fare carriera in tv.

«Intanto ti dico che non ho mai utilizzato la trasmissione per pubblicizzare alcunché. La mia pagina ufficiale conta qualcosa come trentacinquemila visualizzazioni, e ciò senza che io l’abbia mai sponsorizzata o pubblicizzata. Mi hanno accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. È vero, ho strumentalizzato la morte di Stefano, ma non per sete di successo! L’ho fatto perché fino a cinque anni fa non sapevo, ad esempio, quale fosse la realtà delle carceri; come tante persone ne avevo sentito parlare distrattamente, ma avevo sempre pensato che in fondo fosse qualcosa che non mi avrebbe mai riguardato. Dopo quello che è successo a Stefano ho capito che non potevo più far finta di niente e che d’indifferenza si può morire. Il mio compito – è l’unico senso che posso dare a quello che mi è capitato – è fare in modo che tanti sappiano e che sempre meno persone decidano di voltarsi dall’altra parte. Se strumentalizzare serve a questo, ben venga».

Quali iniziative state pensando di realizzare per ricordare Stefano?

«Intanto a pochissimi giorni dalla sentenza, e questo forse non tutti lo sanno, abbiamo dato inizio ad un progetto meraviglioso che interessa i licei romani. Quasi ogni giorno racconto la mia esperienza a ragazzi che mi ascoltano in silenzio per ore e che sono veramente straordinari; sono loro che arricchiscono me, e non il contrario, perché mi regalano la speranza che prima o poi le cose cambieranno. Inoltre per mantenere vivo il ricordo di Stefano, grazie all’aiuto del Comune di Roma e della Regione Lazio, stiamo cercando di portare avanti un progetto importante che dovrebbe chiamarsi “La Casa di Stefano”. Io e la mia famiglia possediamo un vecchio casale che si trova a San Gregorio da Sassola. È un luogo al quale siamo particolarmente legati, perché apparteneva a mio nonno e perché è lì che è sepolto mio fratello. L’idea è quella di creare un luogo in cui i ragazzi che escono dalle comunità di recupero per tossicodipendenti possano trovare un futuro, possano trovare delle motivazioni e quindi anche un lavoro. È tutto ancora a livello embrionale, però la nostra idea è questa».

Come avete vissuto in famiglia i giorni di custodia cautelare di Stefano?

«Ti posso parlare delle sensazioni di quei sei giorni. La prima è stata quella di rabbia nei confronti di Stefano per averci traditi; per noi, in quel momento, il vero problema non era la possibile reclusione in carcere, ma la droga. Ciò che credevamo uscito per sempre dalle nostre vite in realtà era tornato e forse anche in maniera peggiore di prima. Dopo la rabbia c’è stata la preoccupazione per Stefano chiuso in carcere, per come poteva vivere quei momenti, per quello che lo aspettava».

In un’intervista ha dichiarato che “Stefano è morto perché la giustizia non è uguale per tutti”. Di cosa è morto Stefano?

«Stefano è morto di ingiustizia, perché subito dopo essere stato pestato nei sotterranei del Tribunale, è stato per circa un’ora in un’udienza davanti a un pubblico ministero ed a Giudici che non l’hanno guardato in faccia, che non hanno ascoltato la sofferenza della sua voce. Loro dicono che guardavano dall’altra parte e quindi non hanno visto l’imputato che era in quell’aula, io ho ascoltato la registrazione dell’udienza e ti assicuro che dalla voce di Stefano si capisce benissimo che sta male, che è sofferente. Più volte si scusa, perché non riesce a parlare, eppure queste persone lo hanno mandato in carcere come “albanese senza fissa dimora” sulla base di un verbale sbagliato, in cui l’unica cosa esatta era il suo nome: Stefano Cucchi. Stefano era lì, davanti ai loro occhi ed è morto perché abbiamo una giustizia che non si preoccupa neanche di guardare in faccia chi sta mandando in carcere».

È considerata una donna forte, ma le è mai capitato di perdere le speranze?

«Mai, assolutamente mai. Anzi dopo ogni batosta la volontà di non fermarmi, di non abbassare la testa, aumenta sempre di più. Paradossalmente è così. Sarò un’ingenua, ma credo che arriverà il momento in cui finiranno le ingiustizie, in cui qualcuno si renderà conto che non si può continuare in eterno a negare l’evidenza. Devo confessare però, che subito dopo la sentenza del 31 ottobre di quest’anno, dopo cinque anni nei quali difficilmente avevo versato una lacrima perchè sentivo di non potermi fermare a piangere, ho avuto un momento nel quale ho voluto, per qualche tempo, vivere quelle mie sensazioni e quel mio dolore insieme ai miei affetti, in maniera intima. Ciò non vuol dire che io mi sia arresa o che intenda farlo. Io non mi fermo».

Ha dichiarato che la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma rappresenta un “fallimento dello Stato”. Crede ancora nella giustizia e nelle Istituzioni?

«Ci credo, perché la giustizia non è quella che ha conosciuto Stefano e non è quella che abbiamo conosciuto noi in primo grado. Non ce l’ho con i giudici, altrimenti non andrei in quelle aule per chiedere giustizia, dico semplicemente che quelle indagini erano sbagliate e tutte volte ad affermare una verità precostituita».

Per questo motivo ha fatto un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, consulente dei pm nell’inchiesta sulla morte di Stefano?

«Ho fatto un esposto perché questa persona si è presa gioco di noi. A incarico appena ricevuto, già dichiarava alle telecamere del Tg5 che era un caso di colpa medica e che sarebbe stato suo compito dimostrarlo. Quelli erano segnali chiari, non doveva essere un caso di responsabilità dello Stato, doveva sembrare una morte naturale, al massimo una morte per colpa medica, ma sicuramente non bisognava tirare in ballo altri tipi di responsabilità. Questo perché chiedere allo Stato di inquisire e giudicare sé stesso è una delle cose più difficili che si possa fare, significa chiedere di ammettere che il sistema non funziona».

A proposito di colpa medica, è vero che avete accettato dall’ospedale Sandro Pertini un risarcimento milionario?

«È vero, abbiamo accettato questo risarcimento perché rappresenta un riconoscimento della responsabilità medico-sanitaria. Nel momento in cui ci è stato proposto l’accordo ci era stato chiesto di estenderlo anche agli altri imputati e di rinunciare ad ogni diritto anche per i futuri gradi di giudizio. Bene, noi abbiamo accettato a condizione che l’accordo non riguardasse gli altri imputati e che ci fosse consentito di continuare la nostra battaglia processuale. Abbiamo fatto ciò perché siamo convinti che ci siano delle responsabilità scomode, che continuiamo a pretendere che vengano accertate».

Segue con particolare attenzione il caso Magherini. Riccardo, come Stefano, rientra nell’immaginario collettivo tra coloro che “se la sono cercata”. Crede che il suo caso, nonostante le molte testimonianze ed i video, avrà gli stessi risvolti di quello di suo fratello?

«Credo di no, credo che siamo in un momento di svolta, prima di tutto nell’immaginario collettivo. Se è vero che la gente per proteggersi tende sempre a dire “beh lui in fondo se l’è cercata, era un tossicodipendente e gli è capitato”, oggi sempre più persone si rendono conto che non è così, che siamo tutti potenzialmente a rischio. Ricordo il 3 marzo di un anno fa, quando morì Riccardo. Ricordo che non si parlò di quella vicenda e che io stessa, in un primo momento, fui perplessa perché passò la notizia di un ragazzo che era morto perché fatto di cocaina. Oggi fortunatamente la gente si ribella, non ci sta più. Vengono fatti i video e le persone sono disposte ad intervenire anche in prima persona. Ci sono tante testimonianze e non si possono ignorare. Alla famiglia Magherini, così come alla mia ed a quelle di molte altre vittime del sistema, viene fatta una doppia violenza. Le nostre famiglie sono chiamate in prima persona, nonostante il dolore e la drammaticità dell’evento, a mettersi sul fronte se vogliono sperare di arrivare alla verità; ci viene chiesto di farci carico del compito che spetterebbe invece allo Stato ed alle Istituzioni: quello di fare chiarezza. Prendi il caso di Stefano, per dimostrare a tutti che le cose stavano in maniera diversa, che non si trattava di una morte naturale, abbiamo dovuto fare quelle foto. Se non le avessimo fatte, staremmo ancora a parlare di caduta dalle scale».

Il Procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha garantito che studierà tutto il fascicolo di Stefano, ed in presenza di nuovi elementi si è reso disponibile a riaprire le indagini. Finalmente verranno accertate le responsabilità? Il vento sta cambiando?

«Sono felice di questo, però so cosa è stata la nostra vita per cinque anni, per cinque anni siamo stati presi in giro! Mi auguro che questa volta ci sia la volontà e la forza di cambiare il vento, di fare in modo che finalmente la verità su queste morti sia più importante di tutto, più importante di questi meccanismi che a noi vittime non devono appartenere e non devono riguardare».

Cosa pensa della proposta di liberalizzare le droghe leggere?

«Mi fa terribilmente paura. Qualcuno, forse anche tu, ti spettavi una risposta diversa da me. Io sono una madre, ho due bambini: Giulia che ha sei anni, e Valerio che ne ha dodici ed inizia ad uscire con i suoi amici. Per lui inizia la crisi preadolescenziale. Ci riflettevo stamattina, è tutto molto più precoce rispetto a quando ero bambina io, adesso la sola idea che mio figlio possa incappare nelle amicizie sbagliate, e questo può succedere comunque, e possa ottenere la droga in modo semplice, possa usarla, mi fa venire la pelle d’oca. Forse hanno ragione quelli che dicono che le droghe leggere vanno liberalizzate, ma da mamma mi fa paura. In tanti si aspettavano che io dicessi che Stefano è morto perché esistevano quelle leggi. Ci tengo a precisare che sono contenta che non esista più la legge Fini-Giovanardi, ma non dirò mai che Stefano è morto a causa di quella legge. La Fini-Giovanardi esisteva, Stefano ne era a conoscenza ed ha commesso un errore: l’ha violata. Era giusto, quindi, che fosse arrestato, quello che non doveva succedere è tutto il resto che non c’entra nulla con le leggi che esistevano in quel momento».

Avete ricevuto sin da subito grande solidarietà, soprattutto dalla gente comune; quanto questo vi ha aiutato e vi aiuta a combattere la vostra battaglia?

«È stato fondamentale, perché quando accadono queste vicende si viene immediatamente assaliti dalla sensazione di essere soli. Il sostegno delle persone comuni ci ha reso più sopportabile la solitudine, e l’indignazione della gente, la presa di posizione delle persone, hanno consentito che non si stendesse un velo sulla vicenda di Stefano, come quasi sempre accade in questi casi».

Come avete accolto la notizia che il Comune di Roma intitolerà una strada a Stefano?

«È meraviglioso, il mio sogno è che Via Golametto, quella piccola stradina che porta alla Città Giudiziaria, venga intitolata: Via Stefano Cucchi. In tal modo tutti gli avvocati, le forze dell’ordine, gli agenti penitenziari, tutti coloro che passano lì ogni mattina, potrebbero ricordarsi di Stefano, dell’ultimo tragitto che ha fatto a piedi nella sua vita».

Che lavoro faceva e che lavoro fa ora, e in che cosa la sua vita è cambiata, se è cambiata, dopo ciò che è successo a Stefano?

«Continuo a fare esattamente quello che facevo prima, lavoro nello studio di famiglia, mio papà è geometra ed io faccio l’amministratore di condominio. La mia vita da questo punto di vista non è cambiata, la porto avanti magari con più fatica di prima, però è rimasta assolutamente la stessa. In più mi sono investita di un ruolo secondo me importantissimo, quello di farmi portatrice di queste realtà e lo faccio perché da quando ho capito di cosa stiamo parlando non riesco più a voltarmi dall’altra parte».

C’è ancora la tv ed il giornalismo nel futuro di Ilaria Cucchi?

«Chiaramente non sono una giornalista, né pretendo di essere considerata tale. Nel corso di questi cinque anni ho capito quanto i mezzi di informazione siano fondamentali nelle nostre vicende, perché se non ci fosse l’informazione pubblica queste storie finirebbero tutte e immediatamente nel dimenticatoio, nel silenzio. Quello che posso dirti è che in me c’è la ferma volontà di utilizzare tutti i mezzi che mi saranno concessi per continuare a parlare di quanto è accaduto a Stefano».

IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,...

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. (Niemöller)

Blasfemo di Fabrizio De Andrè (Dietro Ogni Blasfemo, C'è Un Giardino Incantato).

Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,

più non arrossii nel rubare l'amore

dal momento che Inverno mi convinse che Dio

non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,

non avevano leggi per punire un blasfemo,

non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,

mi cercarono l'anima a forza di botte.

 

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,

lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,

nel giardino incantato lo costrinse a sognare,

a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male.

 

Quando vide che l'uomo allungava le dita

a rubargli il mistero di una mela proibita

per paura che ormai non avesse padroni

lo fermò con la morte, inventò le stagioni.

 

... mi cercarono l'anima a forza di botte...

 

E se furon due guardie a fermarmi la vita,

è proprio qui sulla terra la mela proibita,

e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato.

 

Il “morto istituzionale” Stefano Cucchi e la polemica a metà della sorella Ilaria, scrive Fabio Cammalleri su “La Voce di New York” del 26 dicembre 2015. Quale che sarà (se sarà) l’accertamento sulle responsabilità per la morte del giovane Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 in circostanze controverse mentre era agli arresti, resta che anche nella percezione del dolore, trova spazio, inspiegabilmente, la distinzione fra polemiche possibili e polemiche impossibili. Qualche giorno fa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane tossicodipendente morto il 22 Ottobre 2009 in circostanze, come si dice, controverse, ha inviato gli auguri di Natale anche “all’ex Ministro La Russa che difese i carabinieri”. L’indirizzo polemico cade a ridosso della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha annullato, parzialmente, l’assoluzione di quanti, agenti della polizia penitenziaria e medici variamente intervenuti su Stefano Cucchi dopo il suo arresto del 15 Ottobre 2009 e fino alla morte, erano stati tratti a giudizio. In primo grado, la Corte di Assise di Roma aveva assolto gli agenti penitenziari e gli infermieri, condannando i medici; in grado d’Appello, erano stati assolti tutti. La Corte di Cassazione ha confermato definitivamente l’assoluzione per gli agenti di polizia penitenziaria e ha invece disposto un nuovo giudizio per i medici. Stefano Cucchi aveva 32 anni quando è morto. E’ stato colpito e, in ragione delle lesioni subite, si è spento nel giro di una settimana. Che fosse tossicodipendente, di gracile corporatura, epilettico e in condizione complessive certo segnate dall’attossicamento cui si sottoponeva, non solo non attenua la gravità di una “morte istituzionale”, ma semmai ne accresce il significato simbolico, sinistramente simbolico: di come le cose possono andare in questo beneamato Paese, quando “la macchina della giustizia” si mette in moto, e uomini e donne sono chiamati a fungervi da carburante. E scrivo di macchina della giustizia non a caso. Accantoniamo i medici, per i quali si dovrà svolgere un altro processo; ma in questa storiaccia si sono avvicendati due altri ordini di soggetti (o forse tre), che quella locuzione concorrono ad incarnare: gli agenti di custodia, assolti in via definitiva; i carabinieri, contro i quali Ilaria Cucchi leva la sua pubblica accusa, abbozzandone anche un’articolazione politica, come ricordato. E che i carabinieri (non tutti, s’intende: ma meglio precisare) che avevano arrestato Stefano Cucchi potessero essere implicati, era già stato scritto, a chiare lettere, dalla Corte di Assise di Appello di Roma. Perciò non stupisce che la sorella, in nome del fratello, sia forte nel dolore e tocchi, peraltro con moderazione, il registro polemico. Quello che non è del tutto chiaro in chi osserva è la giustificazione logica della limitazione, della scelta. La famiglia Cucchi ha sempre sostenuto la colpevolezza degli agenti penitenziari, e la colpevolezza di questi escludeva quella dei carabinieri, e viceversa: sia la sentenza di primo grado che quella di appello hanno tenuto ferme queste acquisizioni: fino a circa le ore 01:30-02.00 del giorno 16 dicembre 2009, per concorde e non smentita affermazione dei genitori, Stefano non presentava ecchimosi o segni di lesioni o di alterazione organico-funzionale; condotto nella Caserma di Tor Sapienza dai Carabinieri, lì sostava fino a circa le ore 9:30, quando veniva condotto in Tribunale per la convalida dell’arresto e il giudizio direttissimo; in udienza si presentava, secondo il padre e l’avvocato d’ufficio, claudicante e con vistose ecchimosi sotto gli occhi, stando seduto male, quasi chino su un fianco. Si è ritenuto pacifico che avesse subito lesioni; e si è escluso che le avessero causate gli agenti di polizia mentre era nelle celle del Tribunale (del Palazzo di Giustizia), dove vi giunge intorno alle 09:15 e vi rimane fino alle 12-15-12:30, quando viene introdotto in aula per la convalida. L’assoluzione (definitiva) degli agenti esclude perciò che le lesioni siano state inferte a Piazzale Clodio, come si esclude che fossero antecedenti all’arresto o causate accidentalmente durante gli spostamenti verso e dalla caserma; perciò, conclude la Corte di Assise d’Appello (ottobre 2014), i sospetti cadono pesantemente sui carabinieri. Ma questa decisione è stata impugnata due volte dalla famiglia Cucchi, anche se la Procura di Roma, conseguentemente all’input della Corte di Assise di Appello, aveva annunciato di voler approfondire il punto con una nuova indagine. La Corte di Cassazione, assolvendo definitivamente gli agenti di polizia, disattende definitivamente la tesi sostenuta dalla famiglia Cucchi per tutti i tre gradi di giudizio. Ma qui qualcosa comincia a sfuggire alla comprensione. Ovviamente, la famiglia Cucchi non poteva protestare contro quegli organi giudiziari che hanno assolto coloro che essi hanno sempre ritenuto colpevoli, augurandogli, più o meno polemicamente Buon Natale. Siamo in Italia, e ci sono auguri e auguri. E ovviamente, qui i soggetti passibili di processo o di sospetto istituzionale non possono che essere due, e solo due rimanere. E, infatti, nemmeno in ambito, diciamo, interno (CSM) si è avuta una qualche curiosità. Eppure il giudice della convalida, (e anche il Pubblico ministero presente in aula) vide Stefano Cucchi in udienza, tredici ore dopo il suo arresto, con evidenti ecchimosi agli occhi e vistosamente claudicante e, come nulla fosse, ne dispose la custodia cautelare in carcere. Rinviando a 28 giorni, quando l’imputato sarebbe “purtroppo” risultato morto da 23 giorni. E, in quelle condizioni, senza fare domande agli agenti che lo accompagnarono in udienza. Senza fare il diavolo a quattro perché un imputato gli veniva presentato come un vitello pronto per il foro boario. Senza chiedere il referto all’ambulatorio del Tribunale in cui, due ore dopo quella prima udienza, erano state diagnosticate, oltre che agli occhi, anche lesioni alla schiena e alla gambe. Senza coltivare il minimo sospetto. Gente che, per mestiere, fa domande a tutti e su tutto. Senza magari disporre gli arresti domiciliari, nonostante l’imputato, incensurato, avesse ammesso lo spaccio di cui era accusato e dichiarato la già conclamata condizione di tossicodipendente (peso d’udienza: 52 chili), cioè, di malato. Si capisce che nessuno può anche solo minimamente sospettare che i provvedimenti sulla libertà personale di Stefano Cucchi e l’asettico svolgimento del giudizio di convalida abbiano inciso sul corso della vicenda. Tuttavia, la Corte di Assise d’Appello non ha potuto fare a meno di rilevare la circostanza, riducendola però ad un refolo, ad un colpetto di tosse: “Il fatto che il giudice e il pubblico ministero non abbiano notato alcunchè di strano sullo stato fisico del Cucchi, nel corso dell’udienza di convalida, non è detto che sia dipeso da disattenzione o distrazione (evenienze, peraltro, non impossibili per un magistrato), poichè non può escludersi che sia stato dalle particolari condizioni nelle quali entrambi lavoravano e dalla distanza che li separava dall’arrestato”. Dunque, o erano distratti o erano allo stadio. Allora, vanno bene gli auguri polemici a chi ha difeso senza dare un’occhiatina alle carte (e veniva facile, anche per dimestichezza forense propria), ma, tutto sommato, e sia detto con ogni reverenza per il dolore e per la memoria, un salutino anche a chi le carte le ha lette ci poteva stare: per coerenza di tesi in un caso, per buon senso nell’altro, Gentile Ilaria Cucchi. O no?

Ilaria Cucchi su Facebook: "Ecco la faccia di chi ha ucciso mio fratello". La donna ha pubblicato la foto di uno dei 5 carabinieri indagati per la morte del giovane arrestato nell'ottobre del 2009 per droga e deceduto una settimana dopo al Pertini di Roma. Poi un secondo post: "Non rispondiamo alla violenza con la violenza". Il militare la denuncia, scrive Viola Giannoli il 3 gennaio 2016 su “La Repubblica”. "Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso". Su Facebook Ilaria Cucchi, la sorella del giovane di 31 anni arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini di Roma, interviene di nuovo sulla morte del fratello. E pubblica stavolta la foto, tra gli scogli e in costume da bagno, di uno dei cinque carabinieri della stazione Appia indagati nell'inchiesta bis avviata dalla procura sulle lesioni subite dal ragazzo che avrebbero provocato il suo decesso. "Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene" aggiunge Ilaria nello stesso post. Un'ora e mezzo dopo, in seguito alle reazioni, anche violente, di alcuni internauti scatenate dal suo commento, la Cucchi decide di pubblicare un secondo post: "Non tollero la violenza, sotto qualunque forma - precisa - Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male, ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui. Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza". E a chi le chiede che senso abbia postare quell'immagine che mostra il viso del militare coinvolto nell'indagine per lesioni, risponde: "Il senso è che Stefano era la metà di questa persona". Il carabiniere però attraverso il suo legale annuncia che denuncerà Ilaria "per le sue affermazioni e per le numerose gravissime minacce ed ingiurie che sono state rivolte a lui e ai suoi familiari a seguito e a causa della signora Cucchi". Tra i commenti arrivati sul social network ci sono infatti insulti pesanti e c'è chi propone ronde anti-carabiniere. In molti si schierano con la Cucchi, divisi tra chi critica però la decisione di svelare l'identità del carabiniere e chi le manifesta totale sostegno anche in questa scelta. E lei decide, in serata, di rompere ancora una volta il silenzio: "Sto ricevendo numerose telefonate anche di giornalisti su questa fotografia - scrive - La prima domanda che mi pongo è: se fosse stato un comune mortale, cioè non una persona in divisa, non ci si sarebbe posto alcun problema. Ho pubblicato questa foto perché la ritengo e la vedo perfettamente coerente col contenuto dei dialoghi intercettati e con gli atteggiamenti tenuti fino ad oggi dai protagonisti. Il maresciallo Mandolini (il primo indagato tra i militari, ndr) incurante di quanto riferito sotto giuramento ai giudici sei anni fa e non curandosi nemmeno della incoerente scelta di non rispondere ai magistrati ha avviato un nuovo processo a Stefano e a noi, che abilmente sarà di una violenza direttamente proporzionale alla quantità di prove raccolte contro di loro dai magistrati. E quindi io credo che non mi debba sentire in imbarazzo se diventeranno pubblici anche i volti e le personalità di coloro che non solo hanno pestato Stefano ma pare se ne siamo addirittura vantati ed abbiamo addirittura detto di essersi divertiti". Piuttosto "difronte al possibile imbarazzo che qualcuno possa provare pensando che persone come queste possano ancora indossare la prestigiosa divisa dell'arma dei carabinieri io rispondo che sono assolutamente d'accordo e condivido assolutamente questo imbarazzo" scrive ancora la Cucchi. Che poi conclude: "Quella di avere pestato Stefano è stata una scelta degli autori del pestaggio. Quella di nascondere questo pestaggio e di lasciare che venissero processato altri al loro posto è stata una scelta di altri. Così come quella di farsi fotografare in quelle condizioni e di pubblicarla sulla propria pagina Facebook è stata una scelta del soggetto ritratto. Io credo che sia ora che ciascuno sia chiamato ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Accollandosene anche le conseguenze. E il fatto che questo qualcuno indossi una divisa lo considero un aggravante non certo un attenuante o tantomeno una giustificazione". E' l'ennesima polemica del caso Cucchi. Pochi giorni fa era emerso l'audio di un'intercettazione telefonica contenuta negli atti dell'inchiesta bis in cui l'ex moglie di Raffaele D'Alessandro, un altro dei militari indagati, lo accusava: "Poco alla volta arriveranno a te... Hai raccontato a tanta gente quello che hai fatto. Hai raccontato che vi siete divertiti a picchiare quel drogato di m... ". Subito dopo la pubblicazione dell'audio, sempre Ilaria, in una intervista a "Repubblica", si era chiesta: "Perché chi ha pestato mio fratello è ancora nell'Arma?". E ancora, in base ai nuovi accertamenti, la procura ha disposto un incidente probatorio e il 29 gennaio è stata fissata l'udienza nel corso della quale il gip Elvira Tamburelli nominerà i periti che dovranno accertare la natura, l'entità e l'effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi. La sua famiglia ha però deciso di non essere in aula: i familiari del ragazzo ritengono infatti che uno dei periti - Francesco Introna del policlinico di Bari - "sia troppo legato all'ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ha sempre difeso i carabinieri a prescindere da tutto, e alla professoressa Cristina Cattaneo, uno dei consulenti che ha redatto la perizia disposta dalla III Corte d'Assise". Il primo filone dell'inchiesta è invece già arrivato al terzo grado di giudizio ma il 15 dicembre scorso la Cassazione ha annullato l'assoluzione dei medici disponendo un Appello bis per omicidio colposo.

Ilaria Cucchi e quella foto sul web che sa di gogna. Il post su Facebook contro i carabinieri indagati per la morte del fratello Stefano, scrive Giusi Fasano il 4 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ilaria va alla guerra. Non quella di sempre, non più con la fotografia di suo fratello morto fra le mani e la voce a scandire quella parola: giustizia. No. Stavolta Ilaria Cucchi usa nuove armi, se così si può dire. E per la prima volta si muove in direzione dello stesso piano che lei ha sempre creduto appartenesse soltanto ai suoi «nemici», i cinque carabinieri indagati per la morte di suo fratello Stefano, arrestato per droga e restituito cadavere alla famiglia una settimana dopo. Era il 2009. In questi sei anni l’abbiamo vista mille e mille volte, Ilaria, quasi avvolta in quella gigantografia di Stefano con la faccia tumefatta. Una sorella che chiede la verità, nient’altro che la verità, per suo fratello. Ma ieri no. Ieri abbiamo visto (anzi, immaginato) un’Ilaria diversa, per la quale è un po’ più difficile provare quell’empatia spontanea che si prova per le vittime e per le loro famiglie. È successo che dalla sua pagina Facebook Ilaria ha deciso di postare la fotografia di uno dei carabinieri sotto inchiesta per la morte di Stefano. Un uomo in costume in posa davanti agli scogli, fisico da evidente dipendenza da palestra e sorriso verso l’obiettivo. «Volevo farmi del male» diceva la didascalia, «volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso». Una gogna, in sostanza. In un momento e in una fase in cui la strada verso la verità che Ilaria chiede da anni non è che all’inizio. Perché il fascicolo sui carabinieri è aperto da giugno 2015, perché - al di là delle convinzioni personali di ciascuno di noi - non siamo ancora arrivati nemmeno alla richiesta di rinvio a giudizio degli indagati e perché vale sempre quel famoso principio secondo cui nessuno è colpevole fino a prova contraria. Quella stessa mancanza dello stato di diritto che Ilaria lamenta per suo fratello Stefano non può essere evocata per i suoi (al momento presunti) carnefici. Da donna intelligente quale è deve aver capito anche lei di aver fatto quantomeno un passo falso, anche perché contro il carabiniere si sono esibiti i giustizialisti del web. Tanto da convincere Ilaria a un nuovo post: «Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male, ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui. Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza». Ecco. Questa è l’Ilaria di «prima», quella avvolta nella gigantografia di Stefano. Quella che crede nello stato di diritto. 

Varese, Lucia Uva come Ilaria Cucchi: su Fb la foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. La foto pubblicata da Lucia Uva sul suo profilo, scrive il 4 gennaio 2016 “la Repubblica”. Lucia Uva come Ilaria Cucchi. Anche la sorella di Giuseppe -  l'uomo morto il 14 giugno 2008 all'ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato fermato ubriaco per strada e portato in caserma - ha deciso di pubblicare sul suo profilo Facebook la foto di uno degli uomini delle forze dell'ordine coinvolti nell'inchiesta sulla morte del fratello. Cucchi lo ha fatto nelle scorse ore ed è stata denunciata dal carabiniere in questione. Uva ha deciso di imitare l'azione perché, spiega su Fb, "noi vittime dello Stato vogliamo solo la verità e non ci fermeremo fin quando i colpevoli non verranno tutti fuori". "Questo - scrive allora Uva sotto la foto dell'uomo, un autoscatto fatto a torso nudo in palestra - era il poliziotto che la notte del 14/6/2008 era presente nella caserma quando hanno preso Giuseppe". Poi, continua il post: "Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello. Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...". L'uomo nella foto è uno dei poliziotti che, insieme ad alcuni colleghi e a un carabiniere, condusse l'intervento e che sono stati rinviati a giudizio nel corso di una lunga e complicatissima vicenda giudiziaria. Di nuovo seguendo lo schema di Ilaria Cucchi, Lucia Uva invita le persone che visitano la sua pagina a non lasciarsi andare a "offese come loro hanno fatto coi nostri cari, niente guerra. Solo i vostri commenti di quello che pensate.... noi vogliamo solo la verità e giustizia per tutti, nessuno escluso. Noi siamo e saremo una famiglia e saremo sempre uniti!!!".

Caso Cucchi, il carabiniere annuncia querele dopo la gogna su Facebook, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 5 gennaio 2016. È di origine brindisina uno dei cinque carabinieri indagati per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo morto nel 2009 ad una settimana dal suo arresto per droga. La sua foto nel pomeriggio di domenica è stata postata da Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, sul suo profilo Facebook, scatenando un’ondata reazioni, commenti furibondi e minacce di morte. Nella foto il militare è ritratto in costume da bagno. «Il mio assistito dopo il post su Facebook di Ilaria Cucchi è stato sommerso da minacce di morte rivolte a lui e ai suoi familiari. Per questo, oltre a denunciare Ilaria Cucchi per diffamazione, denunceremo anche gli autori di queste minacce». Ad annunciarlo all’Ansa è stato Elio Pini, l'avvocato di Francesco Tedesco, il carabiniere indagato nell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, tirato in ballo dalla sorella del ragazzo scomparso, Ilaria, che ha pubblicato su Facebook una foto del militare per far «vedere le facce di coloro che hanno ucciso» Stefano. Erano da poco passate le 16.30 di domenica quando Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ha deciso di pubblicare su Facebook la foto di uno dei carabinieri indagati per la morte del fratello. Non una foto qualunque, ma quella di un ragazzo sorridente in posa da fotomodello tra gli scogli. «Volevo farmi del male - ha spiegato Ilaria -, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene». Parole che hanno innescato l’immediata reazione di numerosi utenti del social network che si sono lanciati in invettive ed offese contro il militare. Qualcuno ha proposto addirittura di istituire una ronda anti-carabiniere. «Perchè non organizzare una squadra di tre o quattro persone di buona volontà per sgonfiare i muscoli a questo bastardo con il cervello pieno di letame?», è stato scritto in uno dei tanti commenti al vetriolo. Ma c'è anche chi ha provato a riportare la questione su binari più consoni. «La gogna mediatica non è ammessa in un paese democratico - spiega un utente Facebook -. I processi si fanno in Tribunale e chi ha sbagliato, qualora verranno accertate responsabilità, pagherà per i suoi errori». Ilaria Cucchi dopo un paio d’ore dall’invio del post, ha dovuto correggere il tiro chiedendo di moderare i toni. «Non tollero la violenza, sotto qualunque forma - ha scritto in un post mezz'ora dopo le 18 -. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui. Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza. Grazie a tutti». E a chi le ha chiesto «che senso aveva pubblicare quella foto», Ilaria ha replicato: «Il senso è che Stefano era la metà di questa persona. Se poi lei si sente offeso da questa foto, posso solo dire che non l’ho messa io su Facebook». «I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma dopo l’esposto di alcune mamme e genitori preoccupati. Questo hanno fatto e basta, tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in parlamento». Queste sono le parole con cui Roberto Mandolini, un altro carabiniere indagato nell’inchiesta bis su Stefano Cucchi, ha risposto al post della sorella Ilaria in cui pubblicava la foto di un militare indagato per fare «vedere le facce di coloro che hanno ucciso» Stefano». Intanto il prossimo 29 gennaio si terrà l’incidente probatorio per accertare la causa della morte di Stefano Cucchi. Un accertamento disposto nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte del geometra romano che vede indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia, tra cui anche quello immortalato nella foto.

Cucchi, foto dell’agente sul web. La sorella Ilaria: «Non sono pentita». «Mi spiace per i messaggi violenti» arrivati dopo il post. «Se ho sbagliato si vedrà, ma non ho paura. Quelle conversazioni telefoniche per me sono prove schiaccianti», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” il 5 gennaio 2016.

Ilaria Cucchi, s’è accorta di aver fatto un autogol, mettendo a rischio la battaglia per la verità sulla morte di suo fratello?

«Io? No, perché?». 

Perché ha diffuso la foto di uno dei carabinieri inquisiti per il pestaggio di Stefano, esponendolo al pubblico ludibrio, e adesso quel carabiniere sostiene di aver ricevuto addirittura minacce di morte.

«Questo mi rattrista e me ne rammarico, ma io mi sono dissociata appena sono comparsi i primi commenti violenti; così come sei anni fa con i miei genitori scendemmo in strada per prendere le distanze da chi aggrediva le forze dell’ordine e bruciava i cassonetti in nome di mio fratello. Abbiamo sempre detto che vogliamo giustizia, non vendetta».

E non le pare esagerato definire un indagato per lesioni «quello che ha ucciso mio fratello», prima di un eventuale processo?

«Le intercettazioni per me sono prove schiaccianti. Tra loro, senza che avessero motivo di mentire, gli inquisiti discutono delle strategie per avere la pena sospesa, usano quattro o cinque telefonini come fanno i banditi, uno insulta la ex moglie che gli ricorda di quando si vantava di aver picchiato Stefano... E in questi sei anni hanno taciuto, lasciando processare persone che sono state dichiarate innocenti». 

Ecco, anche questo è un problema: nel primo processo sostenevate la colpevolezza degli imputati poi assolti; non sarebbe consigliabile un po’ più di prudenza?

«Di certo non avevamo gli elementi di oggi. I nuovi indagati, di fatto, confessano il pestaggio. E chi ha testimoniato al processo ha detto bugie. Il maresciallo Mandolini (inquisito per falsa testimonianza, ndr), il quale ora si vanta per l’arresto di uno spacciatore che vendeva droga fuori dalle scuole dopo un esposto delle mamme, e di aver taciuto per rispetto ciò che Stefano gli avrebbe confidato sulla nostra famiglia, al processo disse tutt’altro. Perché? Forse pensavano di averla fatta franca, mentre ora si sentono alle corde e si difendono gettando fango su di noi».

Questo giustifica la gogna per gli indagati?

«Guardi che la vera gogna l’ha subita mio fratello, dopo essere stato ucciso. Io non ho mai detto che Stefano non aveva colpe, ma doveva essere giudicato ed eventualmente condannato, non pestato e lasciato morire. Scrivendo il messaggio non ho pensato al rischio di fomentare la violenza; volevo solo che l’immagine muscolosa e sorridente di quel carabiniere fosse messa a confronto con quella di Stefano. Era una foto già pubblica, lui l’aveva messa su Facebook e l’ha tolta solo l’altro ieri, non quando s’è saputo che è inquisito per il pestaggio. Il mio è stato uno sfogo contro chi non s’è limitato a picchiare, ma se n’è pure vantato». 

Quel carabiniere l’ha denunciata.

«Non c’è problema: io non porto divise e mi assumo le mie responsabilità. Ma basta con le ipocrisie, sono stanca: hanno massacrato un ragazzo, poi hanno nascosto le prove arrivando a sbianchettare un registro ufficiale, hanno taciuto e mentito. E adesso querelano? Si vede che non hanno altra strada. Piuttosto mi chiedo come sia possibile che questi carabinieri, tra cui quello che medita di rapinare gli orafi se lo cacciano, siano ancora in servizio; che girino armati con le pistole di ordinanza». 

Il comandante generale Del Sette ha già definito grave la vicenda e promesso provvedimenti, mettendo però in guardia dal delegittimare l’Arma. Non si fida? 

«Certo che mi fido, l’ho sempre fatto e voglio continuare a farlo. Ma per non generalizzare e delegittimare tutti devono garantire fermezza. Non posso pensare che i tanti carabinieri onesti che ho conosciuto abbiano come colleghi persone che evidentemente credevano di godere dell’impunità, si sentivano protetti. Ecco, io temo la protezione, ma spero che non ci sia». 

Non credevate nemmeno che la Procura potesse arrivare a nuove incriminazioni...

«Quando il procuratore Pignatone mi disse che non poteva promettermi nulla se non il massimo impegno l’ho frainteso, pensavo stesse mettendo le mani avanti. Invece lui e il pm Musarò hanno fatto un lavoro straordinario».

Ora però contestate i periti scelti dal giudice per i nuovi accertamenti tecnico-legali. Come se voleste sempre qualcosa in più, o di diverso se non coincide con la vostra tesi.

«L’accertamento sulle connessioni tra le percosse e la morte di Stefano è decisivo. Che posso fare se il mio stesso consulente denuncia il conflitto di interessi per uno dei nominati, già candidato per il partito dell’ex ministro La Russa che da ministro della Difesa assolse subito i carabinieri, e con legami professionali con i periti precedenti? Possibile che non si trovi qualcuno senza rapporti sospetti? Se in Italia non c’è lo andassero a cercare in Svizzera».

Nessun pentimento, insomma?

«Sinceramente no. Poi se ho sbagliato si vedrà. Io non ho paura, a differenza di altri».

Cucchi, il carabiniere e le vie dell’ingiustizia, scrive Aldo Cazzullo il 5 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. È una strada già percorsa indicare «responsabili» di un «omicidio di Stato». Una strada che non conduce alla giustizia, ma a nuove ingiustizie. Una strada che non ripara a un lutto, ma ne prepara altri. La storia non si ripete mai allo stesso modo; e in particolare i richiami agli anni Settanta sono sin troppo frequenti. Ma i post con le foto dei «colpevoli» sembrano davvero la versione digitale di gogne che negli anni di piombo, in un contesto ovviamente diverso, venivano costruite con le montagne di carta degli appelli, delle vignette, dei volantini. Non si assomigliano le vicende, si assomigliano i fenomeni, che crescono in modo esponenziale: non a caso, il giorno dopo che Ilaria Cucchi ha additato all’odio del web un carabiniere indagato per la morte del fratello, la sorella di un’altra vittima, Lucia Uva, ha fatto lo stesso con un poliziotto. Ed è un fenomeno da fermare. Per le stesse ragioni che ci hanno indotti e ci inducono ad appoggiare la battaglia di giustizia che Ilaria Cucchi ha portato avanti in questi anni. Il rispetto del corpo dell’arrestato è il fondamento dello Stato di diritto. Qualsiasi violazione va perseguita con rigore. Il caso Cucchi era stato liquidato con leggerezza. Solo la tenacia di una sorella e di una famiglia l’ha tenuto vivo. Ma la strada passa dai processi, non dai social network. Ilaria stessa l’ha scritto su Facebook: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello...».  È davvero così: in questo modo ci si fa del male. E si rischia di farne involontariamente ad altri. È una tentazione, quella di vendicare o rivendicare in rete, cui anche uomini dello Stato hanno ceduto. E hanno sbagliato. Alcuni sono stati sanzionati, altri dovrebbero esserlo. Ma gli errori altrui, talora i crimini, non consentono il ricorso a una giustizia rapida ma sommaria come quella digitale. Resistere è difficile, in un Paese dove troppo spesso il male resta impunito. Ma resistere è sempre necessario.

La tenacia ha un nome e un cognome: Ilaria Cucchi, scrive Giulio Cavalli il 4 gennaio 2016 su “Left”. Si è alzato un gran polverone ieri sera quando Ilaria Cucchi (sorella di Stefano ammazzato di botte da un’allegra combriccola di uomini di Stato) ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di uno dei carabinieri che ha avuto la grazia di vantarsi di avere partecipato al pestaggio oltre che aver consegnato alla storia (dei miserabili) una bella testimonianza falsa; il tutto sotto il nome sacro dell’Arma dei Carabinieri che ha un ufficio di Eccesso di Difesa sempre pronto a stanare le deplorevoli azioni degli altri, nonostante la miopia interna. Ha voluto, Ilaria, raccontare la sensazione che ha provato nel vedere la foto del caro carabiniere Francesco Tedesco (ai tempi del pestaggio maresciallo presso la Stazione Appia) che sorride con postura da bronzo di Riace in riva al mare fornito di sorriso marpione. Forse Ilaria avrà pensato che valesse la pena sottolineare la differenza tra la “freschezza” del Tedesco spiaggiato rispetto alle ultime foto di suo fratello Stefano che ricordano piuttosto un Frankenstein viola di botte e cucito tutto sghembo. Forse anche Ilaria, come molti in questo tempo di sensazioni effimere, ha capito che non c’è tempo per i ragionamenti ma a volte occorre puntare sull’emergenza emotiva. Molti ovviamente hanno gridato allo scandalo: “ma come si permette la sorella di un morto ammazzato di botte di mostrare le foto (pubbliche) di uno degli aguzzini del fratello?”. Già, che schifo. E non ho dubbi che qualche appartenente all’arma alzerà la voce in nome del vizio capitale del nostro tempo: il garantismo a targhe alterne. Un garantismo che ha attecchito tra le fronde dei moralisti per convenienza e dei ricercatori di granelli di sabbia negli occhi degli altri che si scordano (tu guarda a volte il caso) di vedere le travi che stanno negli occhi di alcuni pezzi di Stato. Gente in divisa che vorrebbe godere di maggior condono piuttosto che responsabilità in nome di un ruolo di garanzia che vale solo per se stessi. Appartenenti alle forze dell’ordine che si sono specializzati in una solidarietà valida solo tra sodali alla stregua dei meccanismi sociali di un clan. “I processi si fanno in tribunale” dicono, “mica su Facebook” dimenticando che se Ilaria si fosse fermata alla porta dell’Aula di tribunale oggi avrebbe solo un fratello scemo morto per malnutrizione. Roba da spaccare i muri a testate. E invece, lei, ha capito e ci ha insegnato (e ci insegna ancora) che la tenacia è tutto quel rumore che si riesce a coagulare per urlare che qualcosa è falso, sbagliato o finto. E qui di falso c’è la strategia difensiva di carabinieri che meriterebbero una confisca dei beni e della divisa; di sbagliato c’è un primo grado di giudizio che ha fatto acqua da tutte le parti e di finto c’è il garantismo di chi si è già giocato la credibilità. La tenacia ha un nome e un cognome: Ilaria Cucchi. E ce n’è bisogno di tenaci, ostinati e curiosi in un Paese dove la propaganda è una forma evoluta di servitù.

Matteo Salvini vs Ilaria Cucchi: "Il post su Facebook? Mi fa schifo, si vergogni. Il carabiniere fa bene a querelarla", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5/01/2016. "Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma quel post mi fa schifo. Ci sarà un 1% tra chi porta la divisa che sbaglia e deve pagare. Anzi, deve pagare doppio perché porta la divisa. Ma io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri. E averne di polizia e carabinieri, come quelli che abbiamo in Italia. La sorella di Cucchi si dovrebbe vergognare, per quanto mi riguarda”. Sono le parole del leader della Lega, Matteo Salvini, ospite de La Zanzara (Radio24). Il segretario del Carroccio si pronuncia sul discusso post pubblicato da Ilaria Cucchi nei giorni scorsi su facebook, a proposito di uno dei carabinieri indagati per l’omicidio del fratello Stefano. Come riportato dal FattoQuotidiano.it, Salvini paragona il post d'accusa pubblicato da Ilaria Cucchi al "documento pubblico contro il commissario Calabresi, che poi fu assassinato (la lettera aperta del 1971 a L’espresso di politici e intellettuali sul caso Pinelli, ndr)". "D’altronde - continua Salvini - in Italia c’è un’aula del Parlamento intitolata a Carlo Giuliani. Ma poi un carabiniere non può andare a mare e mettere su facebook una sua foto in costume da bagno? E’ assolutamente vergognoso. Ci sarà una sentenza: chi ha sbagliato paga, però io sto comunque con polizia e carabinieri. Quel carabiniere fa bene a querelare la signora Cucchi”. E aggiunge: “Cosa pensava di ottenere la signora Cucchi con quel post? Che i suoi commentatori facessero i complimenti alle forze dell’ordine? Queste però non sono puttanate. Sapete quanti sui social network mi minacciano di morte? Io me ne frego e mi faccio una risata e vado oltre. Però, visto che di menti labili in Italia purtroppo ce ne sono tante, additare un uomo delle forze dell’ordine al pubblico massacro mi sembra demenziale”. Infine conclude: “Mi sembra difficile pensare che in questo, come in altri casi, ci siano stati poliziotti e carabinieri che abbiano pestato Cucchi per il gusto di pestare. Se così fosse, chi l’ha fatto, dovrebbe pagare. Ma bisogna aspettare la sentenza, anche se della giustizia italiana onestamente non ho molta fiducia. Comunque, onore ai carabinieri e alla polizia”.

Il segretario del Sap alla Cucchi: "Non forzi l'opinione pubblica". Gianni Tonelli interviene sulla polemica delle foto postate dalle sorelle di Stefano Cucchi e Giuseppe Uva, scrive Francesco Curridori Martedì 5/01/2016 su “Il Giornale”. "Alla sorella di Giuseppe Uva rispondo che anche noi servitori dello Stato pretendiamo la verità. Nel suo caso, però il perito della procura ha detto le stesse cose del perito della famiglia e cioè che il mio collega non c’entra a nulla con la morte di suo fratello. La verità è che si vuole rimestare nel torbido ma Giuseppe è morto per abuso di alcolici e per una malformazione cardiaca a causa di una vita dissoluta e dei difficili e distaccati rapporti con la sua famiglia". Così Gianni Tonelli, segretario nazionale del Sap interviene, intervistato dal giornale.it, sulla polemica nata dopo la pubblicazione sui social delle foto degli agenti che, secondo le sorelle di Giuseppe Uva e Stefano Cucchi, avrebbero ucciso i loro fratelli. A Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, dalla quale Tonelli ha ricevuto pure una querela, il segretario del Sap, risponde pregandola di non "spettacolarizzare e cercare di forzare la mano dell’opinione pubblica e della magistratura non fa bene alla verità" anche perché ormai, in base alla sentenza passata in giudicato, la sua morte "è da attribuirsi alla denutrizione e non alle lesioni ricevute e perciò ora si deve solo valutare se sono queste state patite ingiustamente oppure no". Qual è dunque la soluzione per evitare casi simili?" La soluzione - conclude il segretario del Sap - sono le videocamere sulle divise e sulle auto mentre il numero identificativo è fuorviante. Solo la videocamera non perdona nulla né ai miei colleghi né ai delinquenti che non la vogliono, come dimostra il caso Expo. Il fatto stesso che questa proposta venga da noi poliziotti la dice lunga. Noi vogliamo la verità ma siamo contro la disumanizzazione ingiusta delle forze dell’ordine".

È scontro sull'applauso Poliziotti contro poliziotti, scrive Patricia Tagliaferri Giovedì 1/05/2014 su “Il Giornale”. La chiamano «operazione verità». E non solo per il caso Aldrovandi per il quale invocano, a nome dei colleghi coinvolti, un procedimento di revisione del processo nella convinzione che gli agenti siano stati condannati ingiustamente per la morte dello studente ferrarese scomparso nel 2005. I poliziotti sono stanchi di sentirsi del mirino, bersagliati da un'opinione pubblica sempre loro ostile. Vogliono pagare quando sbagliano, ma non essere sempre e comunque un bersaglio solo in virtù della divisa che indossano. Sono stanchi di essere vittime di campagne mediatiche spesso violentissime, che talvolta avrebbero addirittura condizionato i pronunciamenti dei giudici. Ne è convinto il neosegretario del Sap Gianni Tonelli, che sta lavorando ad un sito internet dove mettere on line tutti gli atti processuali non solo del caso Aldrovandi, ma di tutte quelle vicende in cui i poliziotti sarebbero stati coinvolti ingiustamente. «Per confrontare menzogna e verità - dice il sindacalista - Non vogliamo difendere a priori i colleghi, ma raccogliere le loro segnalazioni, approfondire i fatti per inserirli nel sito così come vengono raccontati dalle carte processuali». Perché le cronache sono piene di storie con protagonisti agenti finiti troppo in fretta nel tritacarne. Con tutto ciò che comporta: la gogna mediatica, le indagini, la sospensione dal servizio. E poi il processo. Che spesso finisce in una bolla di sapone, come dimostra una vecchia statistica del dipartimento di polizia in base alla quale su 1.300 procedimenti con agenti indagati o imputati il 95 per cento è finito con l'archiviazione o l'assoluzione. «Il nostro è un lavoro esposto alla denuncia, non è normale però che non ci siano sistemi per fare chiarezza immediatamente», dice Franco Maccari, segretario generale del Coisp. È facile per un agente ritrovarsi nei guai mentre indossa la divisa. Accade nelle manifestazioni, ma anche durante altri servizi. Nella memoria di chi è abituato a lavorare di notte, in strada, a contatto con delinquenti, spacciatori e rapinatori, si rintracciano decine di casi. Come quello di un poliziotto veneziano incaricato di accompagnare una prostituta al confine, a Trieste, la quale poco prima di essere espatriata si è ricordata che anni addietro proprio quell'agente aveva preteso da lei delle prestazioni sessuali. «Dopo la sua denuncia - racconta Maccari - il collega è rimasto indagato per 5 anni e la donna ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Poi è arrivata l'assoluzione». Tonelli racconta della bufera che si è scatenata sulla polizia a Terni quando un agente è stato accusato di aver dato una manganellata in testa al sindaco durante un corteo. Peccato che le telecamere abbiano poi dimostrato che a colpirlo sia stata l'ombrellata di un amico. E poi tutte quelle manifestazioni, come l'ultima di Roma, in cui si parla solo delle cariche della polizia, non di quello che le ha scatenate. La stessa cosa che accade in Val di Susa con i No Tav. Per questo il Sap vorrebbe che sui caschi dei poliziotti venissero installate delle videocamere che certifichino in maniera inequivocabile l'accaduto. Per il momento in Emilia Romagna il sindacato ha dotato 800 agenti di una spypen, una piccola penna da tenere in tasca in grado di fare registrazioni audio e video. L'obiettivo è quello di fornirla a tutti gli agenti che si occupano di ordine pubblico in modo da rendere più difficili le denunce infondate. Perché oltre ai casi mediatici, come quello di Federico Aldrovandi e di Giuseppe Uva, morto dopo una notte in caserma, ce ne sono decine di altri noti solo alle cronache locali. Ne sa qualcosa quel poliziotto condannato a 2 anni e 3 mesi per falso ideologico e accompagnamento abusivo in seguito alla denuncia di un extracomunitario portato in questura per l'identificazione nonostante avesse in tasca un documento che in un primo momento non aveva mostrato. «Querelare un agente - spiega Stefano Paoloni, neo-presidente del Sap - può servire a spostare la sua posizione da testimone a imputato. Sarà un caso che da quando in qualche camera di sicurezza sono state installate le telecamere sono crollati i casi di autolesionismo».

I militari: "Cucchi faceva impressione". Ma il carabiniere indagato: "Trattato con i guanti". I verbali: i tentativi di insabbiare l'inchiesta, giallo sulla riunione con i vertici dell'Arma e sulle spese legali, scrive Giuseppe Scarpa il 6 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Stava benissimo Stefano Cucchi. Anzi: è stato trattato con i guanti. Questa la versione fornita il 30 luglio scorso dal carabiniere Vincenzo Nicolardi, indagato per falsa testimonianza, al pm Giovanni Musarò. Seccamente smentita ("Cucchi faceva impressione ") da un suo collega, un carabiniere della stazione di Tor Sapienza che prese in consegna Cucchi dalle mani di Nicolardi. E sempre dalle sommarie informazioni dello stesso carabiniere, Gianluca Colicchio (non indagato), emerge un altro pezzo del puzzle. Nicolardi gli consegna gli effetti personali del detenuto: all'interno c'è un foglietto con il numero di cellulare del maresciallo Mandolini, comandante della stazione Appia, il primo luogo in cui, secondo la procura, Cucchi fu pestato. Un comportamento che Colicchio giudica "inusuale". Perché questa scelta? E di cosa voleva essere tenuto al corrente Mandolini? È ancora il militare a riferire ai magistrati di una riunione con i vertici dell'Arma pochi giorni dopo la morte di Cucchi. Cosa fu detto durante quell'incontro? Dall'interrogatorio non emerge, il sottufficiale però fa i nomi dei partecipanti. E infine il giallo delle spese legali: il maresciallo Mandolini comunica alla moglie di essere indagato per la vicenda Cucchi, ma le dice di non preoccuparsi: "Ho parlato con un colonnello, mi fa pure le spese legali". Millanta o qualcuno gli ha promesso un aiuto economico, nonostante le regole lo prevedano solo come rimborso e in caso di assoluzione? Nuove rivelazioni che arrivano nel giorno in cui Ilaria Cucchi torna sulle polemiche seguite alla pubblicazione, sul suo profilo Facebook, della foto di uno dei carabinieri accusati del pestaggio, che le è valsa una denuncia: "I processi non vanno fatti sul web, ma nelle aule di giustizia. Ma anche Stefano era incensurato: è facile processare un morto che non ha più diritti". "So che si dice che Cucchi -  spiega Nicolardi al pm Musarò -  è stato malmenato, ma io posso dire che (...) presso la nostra stazione (Appia, ndr) era stato trattato benissimo. Anzi, ho notato che non veniva trattato neanche da detenuto: lo hanno fatto mangiare, hanno dato da mangiare al cane, non lo hanno neanche messo in cella". A smentire Nicolardi è Colicchio, il militare che a Tor Sapienza riceve il detenuto dal collega: "Sinceramente lo stato del Cucchi destava impressione". Poco dopo, infatti racconta al pm di aver chiamato "il 118 non solo perché il Cucchi mi disse di avere dolori alla testa e all'addome, ma percepii in lui un evidente stato di sofferenza. Inoltre aveva un arrossamento anomalo sul viso, immediatamente sotto gli occhi e quasi fino alle guance". Nicolardi consegna ai colleghi insieme agli effetti personali di Stefano il numero privato del comandante della stazione Appia, Mandolini. Il carabiniere che lo riceve, Colicchio), spiega al pm che è una cosa inusuale. "Il fatto che mi fosse stato dato (da Nicolardi, ndr) il numero di telefono personale del comandante era una cosa strana, perché il numero della stazione era indicato sul verbale di arresto e soprattutto perché, per qualsiasi problema, io avrei dovuto contattare esclusivamente il 112 e non rapportarmi autonomamente con un collega ". Al contrario, Nicolardi giustifica questa scelta sostenendo che il suo maresciallo Mandolini "è un tipo molto premuroso". "Ho parlato con il colonnello -  spiega Mandolini alla moglie nel corso di una telefonata intercettata il 16 luglio del 2015 -  mi fa pure le spese legali, hai capito? (...) . Paga l'Arma. Pè stà tranquillo ". "Quindici giorni dopo la mia deposizione davanti al pm -  spiega ancora Colicchio - (si tratta della prima indagine, ndr), tutti i carabinieri coinvolti furono convocati presso la sede del comando gruppo carabinieri Roma. Fummo ricevuti davanti al comandante provinciale, generale Tomasone, al comandante del gruppo colonnello Casarsa, ai comandanti della compagnia Casilina e Montesacro. Ricordo che c'era il maresciallo Mandolini. I nostri superiori ci chiesero conto di quanto accaduto. Ci limitammo a fare un rapporto orale, senza sottoscrivere nulla".

Roma, Cucchi: ex moglie carabiniere indagato: "Pronta a testimoniare, ho chiesto scusa a Ilaria". La donna al Tg3 rivela di aver incontrato la sorella del geometra morto una settimana dopo l'arresto. "Non ho parlato per paura". Dopo gli attacchi di Salvini, Lucia Uva scrive alla Boldrini: "Si alzi la voce delle istituzioni". A Brindisi scritte contro uno dei militari indagati, scrive il 6 gennaio 2016 “La Repubblica”. "La verità che so sul caso Cucchi? Quello che lui mi ha raccontato, che loro quella sera gliene hanno date tante, questo è il termine che ha usato". Parla al Tg3 Anna Carino, ex moglie del carabiniere Raffaele D'Alessandro, indagato per la morte di Stefano Cucchi. Lo raccontava spavaldo? "Purtroppo sì, quasi vantandosene, forse si sentiva intoccabile, ha voluto raccontare quella vicenda così, divertito", ha detto Carino, che si dice pronta a testimoniare. "Ho incontrato Ilaria e le ho chiesto scusa per non aver parlato prima". "Perchè ho deciso di parlare? Perchè è giusto che a quella famiglia venga data giustizia. Ho voluto incontrare Ilaria per chiederle scusa, per fargli capire che mi dispiace, che avrei dovuto parlare prima, ma non l'ho fatto perché avevo paura, ho tre bambini, quindi non è facile - ha aggiunto al Tg3 Anna Carino, ex moglie di Raffaele D'Alessandro con cui ha avuto due dei tre figli, uno dei carabinieri indagati nell'inchiesta bis per la morte di Stefano Cucchi - Ilaria mi ha detto solo 'grazie, immagino quanto possa essere stato difficile'", ha continuato. La conversazione tra la donna e l'ex marito, intercettata dagli investigatori, è negli atti dell'indagine. Carino ha detto che uno dei figli ha sentito le notizie sul padre, indagato per il "violentissimo pestaggio" (secondo i pm) sul giovane romano dopo l'arresto per droga nel 2009, e di avergli detto che "purtroppo il padre anni fa ha fatto qualcosa di sbagliato e dovrà pagarne le conseguenze, non si sa quali saranno". "Qualsiasi cosa possa aver fatto questo ragazzo - ha concluso -, massacrarlo così di botte non credo sia giustificabile". Solidarietà anche da parte di Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, morto nel 2008 poco dopo il suo arresto. La donna ha scritto una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini, oltre a ribadire la sua vicinanza a Ilaria Cucchi che ha pubblicato la foto di Francesco Tedesco uno dei carabinieri coinvolto nell'inchiesta sulla morte del fratello (che ha poi querelato Ilaria) ha espresso il suo "sdegno e umiliazione" per gli attacchi di Matteo Salvini e altri politici. Una lettera dove la donna chiede al presidente della Camera affinché "si alzi la voce autorevole delle istituzioni". La lettera è stata pubblicata sul suo profilo Facebook da Luigi Manconi, senatore e presidente dell'Associazione "A buon diritto". E due scritte contro Tedesco, "Cucchi vive" e "Via gli infami da Brindisi" sono apparse a Brindisi, città d'origine del militare su un muro in viale Risorgimento. La stessa frase è impressa con spray nero sulla recinzione della palestra che frequentava dell'uomo. In entrambi i casi c'è la firma della Curva Sud. Anche i tifosi della Roma hanno ricordato il caso Cucchi al Bentegodi di Verona nel corso di Chievo-Roma. Durante il riscaldamento dalla zona occupata dai tifosi romanisti si sono alzati cori per Stefano Cucchi. Poi, immediatamente dopo la rete di Sadiq, è apparso uno striscione con la scritta "con Ilaria per Stefano" accompagnato, tuttavia, da cori volgari nei confronti dei carabinieri.

Tifosi della Roma solidali con Ilaria Cucchi allo stadio Bentegodi di Verona durante la partita tra il Chievo e i giallorossi, scrive “L’Ansa” ripresa da “la Repubblica” del 6 gennaio 2016. Nel riscaldamento, dalla zona occupata dai tifosi romanisti si sono alzati cori per Stefano Cucchi. Poi, immediatamente dopo la rete di Sadiq, è apparso uno striscione con la scritta "con Ilaria per Stefano" accompagnato da altri cori stavolta contro i carabinieri: cinque militari dell'Arma sono indagati nell'inchiesta bis per il decesso del giovane arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e morto una settimana dopo al Pertini di Roma. Il 3 gennaio la sorella Ilaria ha pubblicato su Fb la foto di uno dei carabinieri: un post che ha alimentato insulti e minacce via Facebook contro l'indagato e ha scatenato il dibattito attorno alla scelta della donna, che da anni si batte affinché emerga la verità sulla morte del fratello. Dopo di lei anche Lucia Uva ha postato la foto di un agente coinvolto nell'inchiesta sul fratello Giuseppe, la figlia di Michele Ferulli si è sfogata sul social network contro un militare e la mamma di Federico Aldrovandi ha scritto su Twitter che, tornasse indietro, pubblicherebbe pure lei le foto degli agenti indagati (e poi condannati) per la morte del figlio, dieci anni fa.

Caso Cucchi, mamma Aldrovandi: "Pure io oggi pubblicherei foto degli agenti". Patrizia Moretti pubblica un tweet di solidarietà verso Ilaria Cucchi, scrive il 6 gennaio 2016 “La Repubblica”. Anche la mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, pubblicherebbe oggi le foto degli agenti indagati (e poi condannati) per la morte del figlio diciottenne, dieci anni fa. E' la stessa donna a scriverlo sui social network, dopo le polemiche per gli scatti messi online dalla sorella di Stefano Cucchi. Intanto oggi è emersa una nuova notizia sugli agenti condannati per la morte del ragazzo: la Corte dei Conti infatti ha ridotto moltissimo il risarcimento alle divise, che è passato dai 467mila euro richiesti all'inizio a non più di 67mila a testa. A suo tempo non ho pubblicato le foto degli agenti ma con l'esperienza di oggi lo avrei fatto anch'io" è il tweet della Moretti. Federico Aldrovandi è morto durante un controllo di polizia a Ferrara all'alba del 25 settembre del 2005, vicenda per cui quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva.

Aldrovandi, "maxi-sconto" sul risarcimento degli agenti condannati. La Corte dei conti ha stabilito che dovranno pagare dai 16 ai 67mila euro a testa, e non 467mila come chiesto all'inizio, scrive il 6 gennaio 2016 “la Repubblica”. La sezione d'appello della Corte dei Conti ha ulteriormente ridotto l'entità del risarcimento che dovranno pagare allo stato i quattro poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. A fronte di una richiesta, in prima istanza di 467mila euro a testa, se la caveranno con cifre da 16mila a 67mila euro, da versare entro 60 giorni. Si tratta della rivalsa dello Stato per il risarcimento pagato alla famiglia Aldrovandi. Con la sentenza di primo grado la Corte dei Conti aveva ridotto, a marzo, l'entità del risarcimento al 30%, imponendo di pagare 224mila a Enzo Pontani e Luca Pollastri e circa 56mila a Monica Segatto e Paolo Forlani. Adesso la sezione di appello ha accolto la richiesta dei legali, secondo cui una norma in vigore nel 2005 prevede un indulto, corrispondente ad un'ulteriore riduzione del risarcimento, per circostanze di questo tipo. Tweet per la Cucchi. "I condannati sono tornati al lavoro e nemmeno pagano il risarcimento. Cosa penso non ve lo dico", ha scritto su Twitter Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, commentando la sentenza. Anche stamattina la Moretti aveva scritto un tweet, in quel caso in solidarietà a Ilaria Cucchi per la foto dell'agente indagato per la morte del fratello pubblicate su Facebook: "#iostoconilaria e #iostoconluciauva. A suo tempo non ho pubblicato le foto degli agenti ma con l'esperienza di oggi lo avrei fatto anch'io" è il tweet della Moretti. Federico Aldrovandi è morto durante un controllo di polizia a Ferrara all'alba del 25 settembre del 2005, vicenda per cui quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva.

Caso Cucchi, anche la figlia di Ferrulli su Fb contro l'indagato. Lucia Uva scrive a Boldrini. Il padre morì durante l'arresto. La donna pubblica il commento ricevuto da Mandolini, uno dei carabinieri coinvolti nell'inchiesta 'bis' sulla morte del geometra. L'appello della sorella dell'uomo morto dopo essere stato portato in caserma al presidente della Camera, scrive il 6 gennaio 2016 “La Repubblica”. "Quest'uomo è indagato per falsa testimonianza sul processo di Stefano Cucchi, vedo che per quest'uomo qualunque motivo è buono per far del male. Signori quest'uomo si commenta da solo. Forza Ilaria Cucchi, Lucia Uva". Sono le parole di Domenica Ferrulli, figlia di Michele, il manovale che il 30 giugno 2011 morì a Milano per un arresto cardiaco mentre quattro poliziotti lo stavano ammanettando. La donna interviene nella vicenda di Stefano Cucchi e posta un commento che al tempo Roberto Mandolini, uno dei carabinieri indagati nell'inchiesta 'bis' sulla morte del geometra, fece alla morte del padre. La sorella di Giuseppe Uva, morto in ospedale nel 2008 a Varese dopo essere stato fermato da poliziotti e carabinieri e portato in caserma, aveva imitato quanto fatto da Stefania Cucchi postando l'immagine di un agente imputato nel processo per la morte del fratello. Domenica Ferrulli ha pubblicato sulla sua pagina Fb uno 'screenshot' nel quale si legge che Mandolini il primo ottobre 2014, giorno in cui vennero depositate le motivazioni dell'assoluzione dei 4 poliziotti per la morte di Michele Ferrulli, scrisse: "Chi è causa dei suoi mali ... pianga se stesso ...!!! Alle 20.00 si cena a casa e in famiglia e non si sta a schiamazzare ubriachi sotto le case della gente". Dopo la pubblicazione della foto, Lucia Uva ha scritto a Laura Boldrini, ricordando quando, circa due anni fa, il presidente della Camera la ricevette con Ilaria Cucchi, Patrizia Adrovandi e altri familiari "di vittime dello Stato". "Oggi mi rivolgo ancora a Lei e a tutte le deputate e senatrici - si legge nel testo della lettera - chiedendo di spogliarvi dei vostri abiti parlamentari per riconoscervi come madri, sorelle e figlie per capire il nostro strazio e la sete di giustizia che ci accomuna". E ancora: "Vorrei ricordarle che da anni noi vittime subiamo violenza psicologica da parte di militari e poliziotti coinvolti nei processi relativi alla morte dei nostri cari, senza che si alzi una voce autorevole delle istituzioni dello Stato a nostra difesa. Chiedo a Lei Presidente, da donna a donna, quanto dovremo subire ancora per avere verità è giustizia? Noi continueremo a batterci, finché ci sarà consentito, nelle sedi appropriate, i tribunali, affinché sulle sofferenze patite dai nostri cari e sulla loro morte non cada l'oblio, ma una Sua parola ci sarebbe di grande conforto".

Caso Cucchi: ma i social non sono un tribunale o una gogna, scrive Carlo Bonini il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. La famiglia Cucchi merita il rispetto del Paese. E alla famiglia Cucchi, da sei anni, è ancora dovuto l'unico risarcimento possibile da parte di uno Stato che si voglia e non si dica soltanto di diritto. L'accertamento delle responsabilità di chi uccise Stefano. Per questo motivo, la scelta di Ilaria Cucchi di postare sul proprio profilo Facebook la foto di uno dei carabinieri accusati nella nuova inchiesta della Procura di Roma della morte del fratello è stato un errore. Perché è il cedimento umano, ma esiziale, a quella forma di violenza intollerabile e contagiosa come la peste che consegna un individuo ad un processo sommario. La stessa di cui Stefano è stato vittima da vivo e continua ad esserlo da morto. Ilaria è donna intelligente, non mossa dall'odio, e nel raccontare a Repubblica le ragioni di quella scelta ha dimostrato di comprendere subito quale confine quel post rischiasse di oltrepassare. E, del resto, oggi, ne misura lei per prima gli effetti perversi. In un diabolico capovolgimento delle parti, dovrà difendere se stessa e la sua famiglia in un tribunale (lei che in tribunale va chiedendo giustizia da sei anni) dalla querela per diffamazione dell'uomo accusato dell'omicidio di suo fratello. È uno spettacolo avvilente. Che dimostra cosa accada quando uno Stato di diritto non è in grado di spiegare a una famiglia per quale motivo le ha ammanettato un figlio sano per riconsegnarlo cadavere. E che interpella il convitato di pietra di questa vicenda. L'Arma e il suo comandante generale Tullio Del Sette. Il 12 dicembre, il generale Del Sette ha usato parole di vicinanza per i Cucchi, di condanna per quanto accaduto, salvo dirsi preoccupato per la "possibile delegittimazione di migliaia di carabinieri". Sarebbe stato più utile - e forse avrebbe fermato la mano di Ilaria - chiedere pubblicamente scusa (lo fece ad horas il Capo della Polizia Antonio Manganelli per Federico Aldrovandi e Gabriele Sandri, dimostrando di aver compreso la lezione del G8 di Genova). E non certo per anticipare o condizionare l'accertamento delle responsabilità da parte di un tribunale. Ma per le oscenità, le falsità e la consapevolezza dell'impunità documentate dalle intercettazioni a carico dei carabinieri oggi accusati dell'omicidio di Stefano. Sarebbe stato più utile informare il Paese e la famiglia Cucchi se quei carabinieri siano stati o meno sospesi dal servizio e per quali motivi il maresciallo Roberto Mandolini, dopo aver coperto i propri uomini e mentito in corte di assise inquinando la ricerca della verità, possa ancora oggi discettare sul proprio profilo Facebook su chi fosse Stefano Cucchi e cosa accadde la notte in cui cominciò a morire in una caserma dell'Arma. Facebook non è e non deve diventare né un tribunale, né una gogna. Ma chi veste un'uniforme, una toga o un camice bianco non si nascondano dietro il post di una donna che chiede solo di sapere chi le ha portato via il fratello.

Caso Cucchi: «Ragazzi dobbiamo giocarcela per avere la pena sospesa». In una lunga intercettazione ambientale due dei militari accusati di lesioni gravissime parlano della notte fra 15 e 16 ottobre 2009, in cui arrestarono Stefano Cucchi, scrive Ilaria Sacchettoni il 31 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. C’è una lunga intercettazione ambientale che ritrae assieme - liberi di parlare - i carabinieri sotto inchiesta per la morte di Stefano Cucchi. La registrazione risale alla notte fra il 30 e il 31 luglio 2015. In viaggio sull’autostrada, a bordo dell’Alfa del collega Gabriele Aristodemo, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, oggi indagati per lesioni gravissime, parlano di un’altra notte. Quella del 15 ottobre 2009 in cui Stefano Cucchi fu arrestato per spaccio, perquisito e - dicono oggi gli investigatori - pestato violentemente dagli stessi carabinieri che lo custodivano. I due sono addetti ai lavori, conoscono metodi e mezzi utilizzati per le indagini. La conversazione è lucida. Non è lo sfogo drammatico liberato, al telefono con l’ex moglie, da D’Alessandro («Cosa vuoi tu da meeee?»). Qui i militari si sentono padroni di se e trattano la questione in modo professionale. «In primo grado ci danno 5 anni, l’avvocato ci dice vicino a noi...ragazzi ce la dobbiamo giocare per avere la pena sospesa» dice D’Alessandro. Poco prima, sempre durante il viaggio, domandava con tono semischerzoso al collega: «Ti ho capito a te e giustamente ti deve prima arrivare l’avviso di garanzia...ma io comincio a vedere per Coppi...vuoi Coppi? O quell’altra come si chiamava?...scegli l’avvocato di Berlusconi o quello di Sollecito?» Di quando in quando i due indagati si ripetono: «Ma con che lo fanno il processo?» fiduciosi nel fatto che non è scontato l’esito delle indagini. E che il tempo gioca in loro favore. Altrove uno dei due mette a fuoco la situazione drammatica dal punto di vista familiare e lavorativo: «Mi è venuto un flash uà, stamattina ho chiamato l’avvocato per la separazione e mo’ devo mettere un altro e ho visto tutte ... bello e buono mi sono sentito mancare». Conversano nella consapevolezza che la faccenda è seria, certo. Che un’inchiesta è in corso e il magistrato che la segue è molto deciso («Quel pm è proprio un figlio di m...» si sente a un tratto) ma i sentimenti non entrano, al riparo degli anni ormai trascorsi. Giocano, forse, sapendo che il tempo è dalla loro parte.

Caso Cucchi, carabiniere inchiodato dalla moglie: tu hai raccontato che avevate picchiato quel drogato. Una lite familiare al telefono registrata dalla procura inguaia uno degli indagati. Il militare si infuria quando la donna gli ricorda le confidenze sul pestaggio del giovane, scrivono Giovanni Bianconi ed Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera” del 30 dicembre 2015. La lite tra ex coniugi sui soldi da versare per il mantenimento dei figli, registrata dalle microspie della polizia, è divenuta una delle principali prove a carico nella nuova indagine sulla morte di Stefano Cucchi. Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri indagati per il «violentissimo pestaggio» a cui secondo la Procura di Roma fu sottoposto il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto dopo una settimana di detenzione, il 26 settembre scorso parla al telefono con la ex moglie Anna Carino. Nei giorni precedenti fra i due (entrambi di origine campana) c’era stato uno scambio di sms in cui la donna aveva scritto a D’Alessandro, sempre a proposito dei figli: «Prima o poi dovrai cacciare la tua parte...cosa che fino ad adesso sta a provvede qualcun’altro! Poi ti lamenti che non li vedi x via della partita la domenica e il catechismo!!ma sii contento che fanno ste cose e so felici… preoccupati di più se nn li vedi se t’arrestano!!». Un riferimento, quello alla possibilità di finire in carcere, che l’ex marito mostra di non gradire quando parla con la Carino. La quale ribatte che era stato lui stesso a raccontare, a lei come ad altre persone, «di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda», cioè Cucchi. Quando la donna dice questa frase D’Alessandro perde completamente le staffe, sospettando – a ragione, visto che l’indagine a suo carico era stata aperta da mesi e lui stesso era stato interrogato a luglio dal pubblico ministero di Roma Giovanni Musarò – di avere il telefono intercettato. Di qui lo sfogo contro la ex moglie, le urla e gli improperi lanciati nel tentativo di farla passare per pazza. Dopo questa telefonata, come riferiscono gli investigatori della Squadra mobile nell’informativa finale sull’indagine-bis relativa alla morte di Stefano Cucchi, il carabiniere D’Alessandro chiamò altre persone per riferire quanto accaduto e spiegare – a loro ma anche a chi intercettava le conversazioni, sospettano gli investigatori – «che a suo parere la donna diceva alcune cose solo per istigarlo e per ottenere più soldi». Ma secondo i magistrati romani la realtà è un’altra. La ex moglie di D’Alessandro (interrogata come pure la madre e il nuovo convivente di lei, tutti al corrente di questa vicenda) ha confermato che l’ex marito le parlò ripetutamente dell’arresto di Cucchi e delle percosse subite dall’arrestato: «Mi disse che, la notte dell’arresto, Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi della Stazione di Appia di cui non mi ha mai fatto il nome». Dall’indagine-bis è emerso che il nome di D’Alessandro, insieme a quello del collega ora coindagato Alessio Di Bernardo, non compare sul verbale d’arresto di Cucchi, nonostante i due avessero partecipato, in abiti borghesi, all’operazione. E la telefonata tra D’Alessandro e Anna Carino – insieme al racconto di un ex detenuto secondo il quale Cucchi, in carcere, gli rivelò di essere stato picchiato dai carabinieri in borghese – è uno degli elementi che la Procura ha portato a sostegno dell’accusa nei confronti degli appartenenti all’Arma. Gli inquirenti hanno chiesto al giudice dell’indagine preliminare di fissare un incidente probatorio per affidare a una nuova perizia medica l’eventuale connessione tra le percosse subite da Cicchi e le cause della sua morte. L’udienza per affidare l’incarico è stata fissata per il prossimo 29 gennaio, ma i familiari di Cucchi hanno già annunciato che – se non cambia qualcosa – non parteciperanno perché a loro giudizio uno dei medici individuati dal giudice non offre sufficienti garanzie di essere «al di sopra delle parti».

«Così mio marito si vantò dopo il pestaggio di Cucchi». Parla l’ex moglie del carabiniere indagato: «Testimonierò, ma ho paura. Lui mi parlò del pestaggio quando l’inchiesta prese una strada diversa», scrive Ilaria Sacchettoni il 2 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Stefano Cucchi? Credevo che fossero esagerazioni di mio marito. Diceva: “Lo abbiamo pestato noi quel tossico...”. Si vantava: lui è sempre stato così nel suo lavoro: “ho fatto questo, ho fatto quello”, “ho avuto una missione importante” e così via. Tra carabinieri fanno così. Poi la radio ha trasmesso un’intercettazione in cui lui stesso parla con gli amici: “Ragazzi ci dobbiamo far dare la sospensione della pena...” Non è un’ammissione questa? La mia telefonata con lui ha fatto il giro dei siti. E sapete i commenti? La sua ex — dicono — vuole vendicarsi». Ed è vero, vuole vendicarsi? L’ex moglie di Raffaele D’Alessandro, il carabiniere accusato di aver pestato Stefano Cucchi 6 anni fa — se ne abbia provocato la morte è tuttora da stabilire — è una donna di trent’anni, magra da non sembrare mamma di tre figli, alta, bel viso, diretta. Si chiama Anna Carino. È sua la voce dall’altra parte del telefono nell’intercettazione che, secondo il pubblico ministero Giovanni Musarò, conferma l’ipotesi di un «violentissimo pestaggio» dei carabinieri della stazione Appia nei confronti del ragazzo. È lei a dire: «Non ti ricordi che mi raccontavi di come vi eravate divertiti a pestare “quel drogato di m..”?». Ma perché vantarsi di aver pestato un ragazzo «che pesava 40 chili» come a un certo punto si sente dire nelle intercettazioni? «Era l’inizio del 2010 — risponde lei —. Sembrava allora che i colpevoli fossero altri. Lui credeva di averla fatta franca, era compiaciuto». Ora, il primo giorno di un anno incerto, in provincia di Viterbo dove vive con il suo nuovo compagno, Anna Carino spiega: «Raffaele aveva 24 anni all’epoca, come me. Era spavaldo, certo, è sempre fuori di sé. Ne ho passate tante. Ma con lui ho avuto due figli e ora sono di là che dormono. Ho visto i commenti sui forum online e vi chiedo, se Raffaele finisce in galera cosa ci guadagno io, che vantaggio ne hanno i bambini?». Nei mesi scorsi gli investigatori della squadra mobile hanno monitorato le conversazioni di Raffaele D’Alessandro e di altri due colleghi che erano in servizio la notte in cui Cucchi fu arrestato e che ora sono stati raggiunti da un avviso di garanzia (assieme a D’Alessandro, oggi in servizio a Napoli, c’erano anche Alessio Di Bernardo e Francesco Tedesco). Non sembrano dialoghi fra carabinieri quelli. In un caso D’Alessandro dice agli amici: «Se mi congedano vado a fare le rapine agli orafi». Non è tutto. Il suo rapporto con le armi appare inquietante. D’Alessandro sembra ostentare il potere che gli deriva dal suo stesso ruolo. In seguito a un incidente in famiglia, dove viene visto puntarsi la pistola alla tempia, gli viene tolta l’arma in dotazione. Ma sapevano i superiori delle sue bravate? Suo marito fu trasferito? «A me ha sempre detto che fu lui a chiedere quel trasferimento» dice l’ex moglie. È una donna decisa: «Testimonierò se mi chiamano — dice — ma non sanno ancora se ci sarà un processo». Cos’altro sa? «Non molto, solo quello che mi ha raccontato lui. Perché lui ne parlava, non solo con me ma anche con altri, io questo l’ho ripetuto ai magistrati». E cosa diceva? «Che quella notte era in borghese come piaceva a lui. Odiava stare qui in provincia con la divisa addosso. Mi rimproverava sempre: “per colpa tua sono dovuto venire in questo posto di m...”. E che il ragazzo, un tossicodipendente fu pestato. Raffaele mi parlò di Cucchi solo dopo che la prima indagine, quella che non è arrivata da nessuna parte, aveva preso un’altra strada. Penso volesse vantarsi per averla scampata. Nessuno li cercava più». Il suo ex marito potrebbe essere processato per omicidio preterintenzionale...«Sì» risponde rivolta al suo attuale compagno. Poi torna sulla questione: «Non sono andata in cerca di tutto questo ma quando mi sono sentita fare delle domande, ho deciso di non mentire. Me le ricordo le foto di quel ragazzo». Persone che non erano coinvolte hanno subito un processo. Ci pensa mai? «Io e Raffaele siamo stati assieme fino al 2013» precisa lei, facendo domande a sua volta: «Domani (oggi,ndr) verrà a prendere i bambini e li terrà fino al 6 gennaio, credete che sia una cosa da niente? Sarà il primo giorno che ci vediamo dopo che i giornali hanno parlato della mia testimonianza. Non dovrei avere paura? Ce l’ho invece e penso anche che, prima o poi, a riflettori spenti, potrebbe decidere di vendicarsi nei confronti di tutti noi».

Caso Cucchi, la sorella Ilaria: "Perché i carabinieri che pestarono mio fratello sono ancora nell'Arma?" L'intervista di Francesco Salvatore del 30 dicembre 2015 su “La Repubblica” dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali dei militari coinvolti nell'inchiesta bis sulla morte del giovane geometra romano deceduto nell'ottobre del 2009 all'ospedale Pertini una settimana dopo il suo arresto. Nel suo appartamento tra il Pigneto e Tor Pignattara, a poca distanza da dove abitava con la sua famiglia e insieme a Stefano, Ilaria Cucchi siede intorno a un tavolo con i suoi avvocati. Dietro di loro giocano quattro bambini, i suoi due figli e quelli di un amico. Accanto ha l'avvocato Fabio Anselmo, che l'ha accompagnata nei lunghi 7 anni dalla morte del fratello, tra un'indagine e i tre processi. Con attenzione ascolta l'audio delle intercettazioni in cui uno dei carabinieri coinvolti nell'inchiesta bis sulla morte del fratello viene accusato dall'ex moglie "di essersi divertito a picchiare Stefano". "Fa male sentire queste cose. Quasi non ci credo. Ma finalmente la verità sta venendo fuori" dice con un filo di voce.

Alcuni carabinieri avrebbero picchiato suo fratello e altri avrebbero anche mentito per coprirli. Questo dice al momento l'inchiesta della procura di Roma. Si sta facendo giustizia?

"Sono soddisfatta di quello che stanno facendo il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò. Ma a questo punto vorrei chiedere al generale dei carabinieri Vittorio Tomasone, che ci telefonò subito dopo la morte di Stefano, mettendosi a nostra disposizione, cosa aveva saputo dell'inchiesta interna. Visto che dagli atti leggo che Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza, ndr) dopo aver parlato con Mastronardi, parlò anche con lui".

Crede che altri siano coinvolti?

"Non lo so, da quello che leggo sui giornali lo credo. Però intanto vorrei sapere anche del bianchetto sul nome di Stefano sul registro del fotosegnalamento e soprattutto della sparizione dei nomi dei due carabinieri che oggi vengono accusati di aver pestato mio fratello. Ma sono stati presi dei provvedimenti nei confronti di queste persone che sono indagate?".

Alla luce di quello che sta scoperchiando l'inchiesta bis della procura di Roma si sente soddisfatta?

"Certamente sì, a parte la nomina del perito Francesco Introna, che ritengo sia legato all'ex ministro della Difesa Ignazio.

Caso Cucchi, gli auguri di Natale a La Russa che difese i carabinieri. Nel post pubblicato su Facebook la sorella ricorda che l’allora ministro della Difesa «garantì a gran voce» che i militari dell’Arma non c’entravano nulla con la morte di Stefano, scrive “Il Corriere della Sera” il 24 dicembre 2015. Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, il ragazzo romano morto nel 2009 dopo essere stato posto in arresto, affida ad un post su Facebook i propri inusuali auguri di Natale, corredando le sue parole con una foto del fratello con il cappello da Santa Claus accanto ad un albero di Natale. «Auguro buon Natale a tutti ma proprio a tutti. E lo dico col cuore - scrive -. Buon Natale anche al signor La Russa, che da Ministro della Difesa immediatamente dopo l’orribile morte di Stefano garantì a gran voce e ammonendo tutti che "i Carabinieri non c’entravano assolutamente"». Ilaria Cucchi fa riferimento all’inchiesta bis sulla morte del fratello che vede indagati cinque carabinieri, tre per lesioni aggravate e due per falsa testimonianza. «Buon Natale - continua - al professor Arbarello, che ha eseguito l’autopsia in modo così brillante da meritarsi poi la nomina a consigliere di amministrazione di un grande gruppo assicurativo insieme al figlio del signor La Russa a processo in corso. Buon Natale al nuovo perito professor Introna, appartenente al partito del signor La Russa già candidato capolista nelle elezioni del 2009 in Puglia. Buon Natale a tutti coloro che sicuramente sosterranno che noi vogliamo sceglierci i periti e ai quali rispondo: "c’è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?". Buon Natale a tutti!».

Caso Cucchi, inchiesta bis: il gip nomina 4 periti. Ma è polemica. Il 29 gennaio fissata l'udienza in cui il giudice incaricherà i consulenti che dovranno accertare la natura delle lesioni patite dal giovane morto nel 2009. Ma è scontro con i familiari del ragazzo: "Non parteciperemo all'incidente probatorio", scrive “La Repubblica” IL 22 dicembre 2015. E' stato fissato il 29 gennaio l'udienza nel corso della quale il gip di Roma Elvira Tamburelli nominerà i periti che dovranno accertare la natura, l'entità e l'effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 una settimana dopo il suo arresto per droga. Il collegio peritale sarà composto dai professori Francesco Introna (Istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari) e Franco Dammacco (Clinico medico emerito dell'Università di Bari), e dai dottori Cosma Andreula (neuroradiologo Anthea Hospital di Bari) e Vincenzo D'Angelo (neurochirurgo della Casa 'Sollievo della sofferenza' di San Giovanni Rotondo). Ma è subito scontro con la famiglia del giovane: il professore Vittorio Fineschi, a capo del collegio dei consulenti scelti dai familiari di Cucchi, rinuncia all'incarico per l'incidente probatorio "per motivi personali". E l'avvocato Fabio Anselmo rende noto che anche la famiglia "resterà a casa e non presenzierà all'atto istruttorio". Tutto parte da una comunicazione di Fineschi all'avvocato Anselmo: "Vista la tua comunicazione sul collegio peritale, al fine di non danneggiare la tua posizione, sono a rinunciare al mandato affidatomi". Secondo quanto si è appreso tutto nascerebbe da problemi di carattere personale tra medici della stessa regione. "Continuiamo ad avere massima fiducia nei magistrati - ha commentato l'avvocato Anselmo - Vista la comunicazione del prof. Fineschi, però, valutata la collaborazione e amicizia con lui, riteniamo opportuno stare a casa. Con questi periti non parteciperemo all'incidente probatorio". L'accertamento, per cui sono stati nominati i 4 periti, è stato disposto su richiesta della procura nell'abito dell'inchiesta bis che vede indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità), nonché di Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza e, il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm). In più, arriva a una settimana dalla decisione con cui la Cassazione ha annullato l'assoluzione di 5 medici del reparto detenuti dell'Ospedale Pertini di Roma (dove Cucchi morì), disponendo un appello-bis per omicidio colposo, e assolse definitivamente tre agenti della polizia penitenziaria, tre infermieri e un sesto medico.

Cucchi, il possibile movente: «Non fece la spia sulla droga e fu pestato». La testimonianza chiave di un detenuto vicino di cella del 31enne romano sentito dal pm Musarò nell’inchiesta-bis, scrive “Il Corriere della Sera” il 23 dicembre 2015. C’è un possibile movente del «violentissimo pestaggio» subito da Stefano Cucchi, nelle carte dell’inchiesta bis che ha portato all’accusa contro tre carabinieri per le lesioni e altri due per falsa testimonianza. Ai militari-investigatori che cercavano informazioni sulla droga venduta (provenienza, fornitori, nascondigli), il trentunenne morto dopo una settimana di reclusione oppose un silenzio che potrebbe essere la causa delle percosse. Lo ha rivelato un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014: Luigi L. ha 46 anni, è un ex detenuto che incontrò il geometra (tossicodipendente-spacciatore) nel centro clinico di Regina Coeli all’indomani dell’arresto; a confidargli la ragione delle botte, dice, fu proprio Stefano. «Io ero detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina – ha raccontato al pubblico ministero Giovanni Musarò –. Quando arrivò Cucchi lo vidi passare con la “zampogna” (cioè con gli effetti forniti all’amministrazione penitenziaria: una bacinella, una coperta, lo spazzolino, eccetera). Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto... era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere». Il giorno successivo i due si incontrarono di nuovo, e Luigi L. tornò a fare domande: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra... Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino... Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla». Ed eccoci al motivo del pestaggio: «Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”». Aggiunge il testimone che quando gli chiese di mostrargli i segni del pestaggio, Stefano «si tolse la maglietta; restai impressionato, sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto». Per gli inquirenti Luigi L. è attendibile: altre persone hanno confermato i particolari riferiti, ma soprattutto il testimone – è scritto nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo – «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati. L’ipotesi che da Cucchi i carabinieri volessero informazioni non deriva solo dal successivo ritrovamento, nella casa dove abitava da solo (sconosciuta agli investigatori), di un etto di cocaina e un chilo di hashish. In un’intercettazione telefonica del luglio scorso il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini». Se le parole del maresciallo rispondessero a verità, e quindi se in passato Cucchi abbia fatto il confidente, rafforzerebbero l’ipotesi che i carabinieri pretendevano da lui nuove informazioni; soprattutto dopo l’inutile perquisizione a casa dei genitori. Altrimenti Mandolini (che poteva immaginare di essere intercettato) può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Certamente il padre e la madre di Stefano, scoprendo che era riceduto nel giro della droga, poterono apparigli adirati e ostili. Con la conseguenza di provocare qualche atteggiamento violento da parte di Cucchi nei confronti dei carabinieri, come raccontano i nuovi indagati in qualche recente intercettazione. Con successiva reazione. Ma all’epoca nulla di tutto questo fu scritto nei verbali, né resistenze né altro. Perché? Solo Mandolini e i suoi colleghi possono sciogliere questi retroscena, ma quando sono stati convocati da inquisiti in Procura hanno preferito non rispondere alle domande del pm. Com’è loro diritto.

Caso Cucchi, Cassazione: «Nuovo processo per i medici». L'accusa chiede un nuovo appello per i medici assolti. Nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale parla di «capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza dell'assistenza riservata a Cucchi al Pertini», scrive Giovanni Tizian il 15 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Nello Rossi, nella sua requisitoria davanti alla V Sezione penale, ha auspicato che «i nuovi accertamenti» disposti dalla Procura di Roma possano «fare luce sui tanti punti oscuri della vicenda». Non c'è dubbio, secondo Rossi, che Stefano Cucchi sia stato picchiato mentre era sotto custodia delle autorità. «Questi comportamenti di violenza vanno ricercati a approfonditi in ogni modo». Nel corso della sua requisitoria, il Pg Rossi ha criticato la sentenza d'Appello che ha assolto tutti gli imputati, anche i medici del Pertini. «La Corte d'Appello è incorsa in un errore di metodo con i contributi scientifici del processo. La giurisprudenza della Cassazione, infatti, parla della possibilità di un giudice di aderire a tesi scientifiche ma spiegando il perché di questa adesione, e non limitandosi ad una pura critica». «Lo Stato senza diritto - ha proseguito Rossi - è una banda di briganti, come ha scritto Sant'Agostino e come ci ha ricordato un fine teologo come Benedetto XVI». Per il magistrato, inoltre, «è questo pericolo mortale per lo Stato e per la collettività che spiega l'attenzione che circonda questo processo e le nuove indagini e che giustifica ogni sforzo, compreso il nostro, per giungere ad esiti di giustizia in questa vicenda». Per questo i giudici della suprema corte hanno annullato le assoluzioni dei cinque medici dell'ospedale Pertini di Roma-dove Stefano Cucchi morì nel 2009- disponendo un appello-bis per omicidio colposo. Convalidate le assoluzioni ai tre agenti di Polizia penitenziaria. In sostanza, il pg Rossi ha chiesto un parziale accoglimento del ricorso della Procura di Roma mentre ha chiesto il rigetto dei ricorsi presentati dai famigliari di Stefano Cucchi che ricorrevano contro le assoluzioni accordate ai tre agenti di Polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Per quanto riguarda la posizione dei tre agenti, il pg Rossi ha evidenziato che bisogna prendere atto che «gli accertamenti compiuti sui tre agenti non hanno portato a trovare responsabilità». Il sostituto procuratore ha inoltre invitato a non mettere «una pietra tombale sulle cause della morte di Cucchi, persona morta in un ospedale pubblico che è stata violata nella dignità». La famiglia di Cucchi, tramite l'avvocato Fabio Anselmo, ha rinunciato al ricorso in Cassazione. «Alla luce della nuova inchiesta abbiamo deciso di rinunciare al ricorso», ha dichiarato Anselmo nel corso dell'udienza, e ha aggiunto: «Avevano impostato il ricorso sulle carte, se queste carte sono state falsate noi siamo le prime vittime di questo falso». Il riferimento è all'inchiesta bis che ha iscritto - a diverso titolo - cinque carabinieri nel registro degli indagati per la morte del giovane geometra romano avvenuta sei anni fa. Nella nuova indagine i magistrati hanno raccolto importanti indizi sui militari. In particolare ci sono due super testimoni, colleghi dei presunti picchiatori in divisa, che hanno messo a verbale particolari inquietanti di quella notte quando Stefano Cucchi venne arrestato per droga. Oltre alle testimonianze, poi, ci sono anche le consulenze disposte dalla famiglia del giovane che smontano punto per punto quelle degli esperti incaricati dalla corte di assise. E che, secondo la sorella Ilaria, avrebbero portato fuori pista i giudici di primo e secondo grado.

Caso Cucchi, per il consulente la morte fu conseguenza del pestaggio. Le botte inferte al giovane avrebbero portato alla sua morte. In una consulenza depositata in procura per la prima volta viene indicato il nesso causale tra violenza e decesso. Un documento che smentisce ancora una volta le perizie degli esperti della Corte d'assise di Roma, continua Giovanni Tizian. Nel giorno in cui la Cassazione celebra il terzo grado del processo sulla morte di Stefano Cucchi, dall'inchiesta bis in corso emerge un nuovo particolare sulla morte del ragazzo. E cioè che il pestaggio subito da Cucchi potrebbe essere la causa della sua morte. In pratica, le botte avrebbero provocato danni tali da innescare una catena di disfunzioni nell'organismo che avrebbero poi provocato il decesso. Un'agonia durata una settimana. Quello che era un sospetto sempre smentito dai periti durante i processi, ora diventa un tassello importante nella nuova inchiesta coordinata dalla procura di Roma. Il nesso tra il pestaggio e la morte del geometra di 31 anni lo evidenzia, in una consulenza, il professore Alessandro Rossi. Il rapporto è stato depositato in procura dalla famiglia di Stefano. Un documento che rappresenta un'ulteriore smentita dei periti della Corte d'Assise di Roma. Perizia già peraltro indebolita dalla relazione tecnica del professor Carlo Masciocchi, che aveva messo in evidenza le fratture alla schiena non prese in esame dai precedenti esperti. Nel documento firmato dal medico Alessandro Rossi si legge che «il meccanismo di morte di Stefano Cucchi, sulla base delle evidenze scientifiche, si spiega nella seguente catena causale: traumi spinali con fratture vertebrali  - parali vescicale - sovradistensione vescicale – attivazione delle fibre responsabili dei riflessi autonomici cardio-vascolari - vasocostrizione cororonarica - alterazione dei meccanismi di generazione e trasmissione dell’impulso elettrico cardiaco – morte elettrica cardiaca, la quale trovava un elemento predisponente nella disautonomia da shock neurogeno come specificato in premessa». Una sequenza mortale che può essere avvenuta anche in assenza di percezione del dolore da parte di Cucchi: «Tale quadro, per le ragioni sopra esposte, non esclude, ma può del tutto prescindere dalla percezione del dolore da parte di Stefano Cucchi: l’indicato meccanismo di morte è, infatti, scientificamente riscontrabile anche in uno stato di sonno o di coma, poiché determina una vasocostrizione coronarica che prescinde dall’attivazione delle fibre che trasmettono il dolore e comunque dalla percezione del sintomo dolore. L’eventuale percezione di dolore nel caso di specie avrebbe potuto costituire, in ogni caso, un ulteriore elemento bradicardizzante, favorendo e contribuendo con lo shock disautonomico, al meccanismo di morte elettrica.». Una relazione molto tecnica, le cui conclusioni però sono chiarissime. Stefano è stato picchiato. Quei colpi hanno provocato danni irreversibili. E hanno innescato la lenta agonia che ha portato al decesso. Un'analisi che peserà nell'inchiesta bis su Cucchi che vede già cinque carabinieri indagati: Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro per lesioni; mentre il maresciallo Roberto Mandolini e l'appuntato Vincenzo Nicolardi sono indagati per falsa testimonianza. Al momento, comunque, l'ipotesi di reato per i presunti picchiatori resta quella di lesioni. Secondo i magistrati, infatti, i tre militari parteciparono alla perquisizione in casa Cucchi e al trasferimento del ragazzo nella caserma Appia. Gli eventi accaduti in quelle ore sono descritti nella richiesta di incidente probatorio firmato dal pm titolare dell'indagine, Giovanni Musarò: «Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri del comando stazione Appia. Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l'esatta ricostruzione dei fatti e l'identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai militari della caserma. Non si diede atto della presenza di D'Alessandro e Di Bernardo nella fasi dell'arresto. Il nominativo dei due militari non compariva nel verbale, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti. «Fu cancellata ogni traccia del passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti foto segnaletici e dattiloscopici. Al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a foto segnalamento». Sul tavolo del magistrato ci sono poi alcune telefonate da cui emergono i particolari di quella notte di violenza. «Gliene abbiamo date tante a quel drogato», avrebbe detto uno degli indagati. «Oggi sento per la prima volta parlare di violentissimo pestaggio e mi viene da chiedere cosa c'entra questo con la caduta nominata nella perizia. Spero che adesso si faccia chiarezza sugli aspetti medico-legali e su quanto i consulenti e i periti abbiano segnato la sorte di sei anni di processo per la morte di mio fratello». Perizie anomale che Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ha denunciato più volte e che le nuove relazioni portate dalla famiglia in procura smontano punto per punto. I sospetti avanzati sui risultati medico-legali dalla famiglia Cucchi e dal loro avvocato Fabio Anselmo potrebbero così diventare il nuovo fronte dell'inchiesta della procura di Roma.

Stefano Cucchi, l’intercettazione dei Carabinieri: «Gliene abbiamo date tante a quel drogato», scrive il 12/12/2015 "Giornalettismo". Spunta una telefonata di uno dei tre carabinieri indagati alla moglie, che le racconta del pestaggio del giovane. Stefano Cucchi picchiato da tre carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Un pestaggio violentissimo, che potrebbe averne provocato la morte, raccontato da uno dei tre carabinieri a quella che oggi è la sua ex moglie. La donna ha riferito in procura ciò che il marito le aveva raccontato di quella notte, in particolare una frase: «Gliene abbiamo date tante a quel drogato…». I particolari sono riportati oggi su Repubblica in un articolo a firma Giuseppe Scarpa: L’ex moglie di Raffaele D’Alessandro ha confermato in procura il contenuto di una telefonata intercettata durante le indagini: «Ricordo che Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando raccontava queste cose Raffaele rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva: “ Chill è sulu nu drogatu è merda”. E ancora la donna ha spiegato al pm ciò che allora le aveva confidato il marito: «Gliene abbiamo date tante a quel drogato… ». E non è tutto, perché nel caso di Stefano Cucchi sono emersi anche documenti falsificati: La procura ha scoperto una serie di documenti falsificati per nascondere quello che accadde, dopo l’arresto di Cucchi per detenzione di stupefacenti, nelle due stazioni di Appia e Casilina. I militari, secondo la procura, appoggiati dal loro maresciallo Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza assieme all’appuntato Vincenzo Nicolardi), avrebbero tentato di mescolato le carte. [...] Fu scientificamente orchestrata una strategia – scrive il pm Musarò nella richiesta d’incidente probatorio – finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai militari della caserma. Non si diede atto della presenza di D’Alessandro e Di Bernardo nella fasi dell’arresto. Il nominativo dei due militari non compariva nel verbale, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti. Fu cancellata ogni traccia del passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti foto segnaletici e dattiloscopici. Al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a foto segnalamento». In particolare, dicono i magistrati, «si è appurato che l’annotazione relativa all’unico foto segnalamento nel registro per la giornata del 16.10.09 (quello di Misic Zoran) era stata eseguita sopra un’altra annotazione cancellata col bianchetto. Osservandola in controluce era possibile leggere Cucchi Stefano». E, nelle intercettazioni ai militari indagati, spuntano i dialoghi sui “piani futuri” in caso di congedo dall’Arma: La procura intercetta i tre carabinieri indagati per il caso Cucchi. Di Bernardo e D’Alessandro temono di essere destituiti dall’Arma e ipotizzano nuovi impieghi: «Se ci congedano ci apriamo un bar» dice Di Bernardo a D’Alessandro. Quest’ultimo risponde: «Se mi congedano te lo giuro sui figli miei, e non sto giocando, mi metto a fare le rapine». Di Bernardo chiede di nuovo al collega: «Ma se ti buttano fuori che lavoro fai?» “Ti ho detto che vado a fare le rapine. Magari agli orafi».

Stefano Cucchi, pm: subì violento pestaggio in stazione carabinieri. Il duro atto di accusa è contenuto nella richiesta di incidente probatorio inoltrata al Gip per sollecitare una nuova perizia medico legale sulle lesioni subite dal giovane poi morto, scrive “Il Corriere della Sera” dell’11 dicembre 2015. «Nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte di Carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia». Lo scrive la procura di Roma in una richiesta di incidente probatorio per chiedere al gip una nuova perizia medico legale sulle lesioni patite da Cucchi. Cucchi morì nell’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per droga. La richiesta di incidente probatorio è stata inoltrata nel quadro degli accertamenti bis avviati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò. Nell’inchiesta sono indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità), nonché di Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza e, il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm). In particolare, ai primi tre si contesta, dopo avere proceduto all’arresto di Cucchi per detenzione di droga e dopo aver eseguito una perquisizione domiciliare, «spingendolo e colpendolo con schiaffi e calci, facendolo violentemente cadere in terra» - si legge nel capo d’imputazione - di avergli cagionato «lesioni personali, con frattura della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare». La richiesta di una nuova perizia medico-legale, in sede d’incidente probatorio (il cui esito avrebbe valore di prova in un eventuale processo) è basata sulle risultanze di una consulenza del radiologo Carlo Masciocchi, il quale nelle radiografie ha trovato una frattura lombare recente sul corpo di Cucchi. Per gli inquirenti questo elemento di novità «rende necessaria una rivalutazione dell’intero quadro di lesività anche ai fini della sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni patite da Stefano Cucchi a seguito del pestaggio, e l’evento morte». «Hai raccontato la perquisizione... hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». A parlare, in una conversazione intercettata dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta bis sul caso Cucchi, è l’ex moglie di uno dei carabinieri indagati. Il dialogo, che la donna intrattiene al telefono con l’ex marito nel settembre del 2015, è solo una delle comunicazioni tra i due finite al vaglio della magistratura. «Non ti preoccupare... che poco alla volta ci arriveranno perché tu mi hai raccontato a me... lo hai raccontato a tanta gente di quello che hai fatto», insiste la donna nel corso della conversazione, cercando di tenere testa all’uomo che dal canto suo nega di aver mai detto cose simili. Sentita dal pm, la donna ha poi riferito di aver appreso dall’ex marito «che la notte dell’arresto Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi della Stazione Appia», e che in particolare il militare le disse: «Gliene abbiamo date tante a quel drogato di merda». Lo stesso carabiniere, aggiunge l’ex moglie, ascoltata lo scorso 19 ottobre, «raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che erano stati arrestati o che comunque avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo in particolare che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello». Stefano Cucchi «mi disse che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma dell’Arma in cui era transitato la notte del suo arresto». Così L.L. un detenuto del centro clinico di Regina Coeli che, nell’ottobre 2009, ebbe modo di vedere il geometra romano e di parlare con lui. La circostanza si ricava dalla richiesta d’incidente probatorio avanzata dalla procura di Roma al Gip. «Non appena vide il viso tumefatto e gonfio di Stefano - scrivono i pm - gli chiese chi lo avesse ridotto in quelle condizioni, poiché gli sembrava evidente che fosse stato picchiato»; e, ottenuta l’autorizzazione di recarsi a trovare Stefano nella sua stanza, gli chiese «se fosse stata la polizia penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni, dicendogli che in quel caso avrebbero fatto un casino. Cucchi rispose che era stato picchiato dai carabinieri. In proposito si sottolinea che il riferimento è inequivocabilmente al Comando Stazione CC di Roma Appia». «Leggendo queste cose mi immagino cosa avrà potuto soffrire Stefano in quella notte. Noi non abbiamo mai smesso di sperare e a questo punto possiamo dire che finalmente io e la mia famiglia ci stiamo avvicinando alla verità» ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano

Cucchi, pm di Roma: "Pestato dai carabinieri della stazione Appia". Lo scrive la procura in una richiesta di incidente probatorio per chiedere al gip una nuova perizia medico legale sulle lesioni patite dal giovane la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, scrive “La Repubblica” l'11 dicembre 2015. "Nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto a un violentissimo pestaggio da parte di carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia". Lo scrive la procura di Roma in una richiesta di incidente probatorio per chiedere al gip una nuova perizia medico legale sulle lesioni patite da Cucchi. Stefano morì nell'ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per droga. La richiesta di incidente probatorio è stata inoltrata nel quadro degli accertamenti bis avviati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò. "Leggendo queste cose mi immagino cosa avrà potuto soffrire Stefano in quella notte - ha detto la sorella, Ilaria - Noi non abbiamo mai smesso di sperare e a questo punto possiamo dire che finalmente io e la mia famiglia ci stiamo avvicinando alla verità". "Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l'esatta ricostruzione dei fatti e l'identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al comando stazione Appia", si legge nella richiesta di incidente probatorio. Nell'inchiesta sono indagati cinque carabinieri della stazione Roma Appia: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità), nonché di Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza e, il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm). In particolare, ai primi tre si contesta, dopo avere proceduto all'arresto di Cucchi per detenzione di droga e dopo aver eseguito una perquisizione domiciliare, "spingendolo e colpendolo con schiaffi e calci, facendolo violentemente cadere in terra" - si legge nel capo d'imputazione - di avergli cagionato "lesioni personali, con frattura della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare". Nello specifico, scrive il pm nella premessa alla richiesta inoltrata al gip, "non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D'Alessandro e di Alessio Di Bernardo nelle fasi dell'arresto di Stefano Cucchi. Il nominativo dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pure essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell'arresto di Cucchi e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi". Un fatto anomalo al quale si aggiunge un'altra circostanza che sembrerebbe volta ad un tentativo di allontanare ogni sospetto dagli indagati: "Fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento". Inoltre, si legge ancora, che "nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento". Stefano Cucchi, infine, sempre secondo gli inquirenti, "non non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato presso i locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina né fu denunciato per tale delitto, omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l'attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia". Quanto accaduto nella stazione Casilina, si legge ancora, "fu taciuto agli altri Carabinieri che avevano partecipato all'arresto di Stefano Cucchi". Per quanto riguarda gli indagati Mandolini e Nicolardi, rispettivamente Comandante e appuntato scelto della Stazione Carabinieri Appia all'epoca dei fatti, sono indagati per aver taciuto davanti ai giudici della Corte d'Assise ciò che sapevano in merito alle condizioni di salute di Stefano Cucchi e delle responsabilità dei carabinieri accusati del pestaggi. La richiesta di una nuova perizia medico-legale, in sede d'incidente probatorio (il cui esito avrebbe valore di prova in un eventuale processo) è basata sulle risultanze di una consulenza del radiologo Carlo Masciocchi, il quale nelle radiografie ha trovato una frattura lombare recente sul corpo di Cucchi. Per gli inquirenti questo elemento di novità "rende necessaria una rivalutazione dell'intero quadro di lesività anche ai fini della sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni patite da Stefano Cucchi a seguito del pestaggio, e poi la morte". E tra le intercettazioni dell'inchiesta bis, emergono nuovi spezzoni di verità. "Hai raccontato la perquisizione... hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda". A parlare è l'ex moglie di uno dei carabinieri indagati. Il dialogo, che la donna intrattiene al telefono con l'ex marito nel settembre del 2015. "Non ti preoccupare... che poco alla volta ci arriveranno perché tu mi hai raccontato a me... lo hai raccontato a tanta gente di quello che hai fatto", insiste la donna nel corso della conversazione, cercando di tenere testa all'uomo che dal canto suo nega di aver mai detto cose simili. Sentita dal pm, la donna ha poi riferito di aver appreso dall'ex marito "che la notte dell'arresto Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi della Stazione Appia", e che in particolare il militare le disse: "Gliene abbiamo date tante a quel drogato di merda". Lo stesso carabiniere, aggiunge l'ex moglie, ascoltata lo scorso 19 ottobre, "raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che erano stati arrestati o che comunque avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo in particolare che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello".

Cucchi, ex moglie del carabiniere indagato: «Vi siete divertiti a picchiarlo». Scrive “Il Messaggero” dell’11 dicembre 2015. «Non ti preoccupare? che poco alla volta ci arriveranno perchè tu come mi hai raccontato a me? lo hai raccontato a tanta gente quello che hai fatto? Hai raccontato la perquisizione? hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». Così l'ex moglie di uno degli indagati nell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi in una conversazione intercettata e finita agli atti del procedimento. La frase è contenuta nella richiesta di incidente probatorio della procura di Roma. Dopo questa dichiarazione, il carabiniere «essendo ben conscio del fatto che la telefonata potesse essere intercettata - si legge nell'atto - non riusciva a contenere la sua reazione, tanto che nell'ultima parte della conversazione perdeva totalmente il controllo, urlando in modo forsennato e ripetendo la frase "cosa vuoi da me"». La Procura della Repubblica, con un documento di 50 pagine, ha chiesto al gip di disporre lo svolgimento di un incidente probatorio per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini, «dopo aver subito - come si afferma nel documento della procura - nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». La richiesta di incidente probatorio avviene nell'ambito della seconda inchiesta che vede indagati per il pestaggio di Cucchi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco indagati per lesioni aggravate e, per falsa testimonianza altri due carabinieri Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini. Come si è detto nel documento di oltre 50 pagine il pubblico ministero Giovanni Musarò ricostruisce tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Stefano Cucchi. Fatti che alla luce delle nuove indagini disposte dalla procura «correggono» molti dei fatti oggetto dell'indagine. Nella ricostruzione dell'accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D'Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell'abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall'arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l'esatta ricostruzione dei fatti e l'identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell'arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell'arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi». Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l'attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all'arresto di Cucchi.

Cucchi: Manconi, c'è stato vuoto investigativo su carabinieri, scrive "AGI" il 16 ottobre 2015. Nel caso Cucchi "c'è stato un vuoto investigativo, ovvero la parte di competenza dei carabinieri è stata totalmente ignorata e le indagini sono partite da un punto dove il ruolo dei carabinieri non era più attivo. Non so per quale ragione ci sia stato quella che nella maniera più ottimistica definiremmo omissione. Ora l'inchiesta bis evidenzia tutto questo". Lo ha detto il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani di palazzo Madama, in occasione della presentazione della nuova indagine medica indipendente sulla morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009 una settimana dopo il suo arresto per droga. L'indagine medica indipendente condotta dal chirurgo Alberto Barbieri e dallo psichiatra Massimiliano Aragonma, entrambi dell'associazione MEDU (Medici per i diritti umani) ha evidenziato come le percosse siano state la prima causa della morte del geometra, mentre il trauma psichico post-aggressione è stato concausa in quanto ha innescato una serie di meccanismi, fino alla inanizione, che si sono tradotti infine in un arresto cardiaco aritmico e quindi decesso di Cucchi. Il senatore Manconi ha rilevato che "le sentenze confermano che le prime 24 ore della vicenda sono state omesse dalle indagini della Procura in tutta la prima fase che ha poi portato ai procedimenti di primo e secondo grado". Quindi ha sottolineato altri due punti: innanzi tutto che le due sentenze "hanno detto che il pestaggio c'è stato". Poi "va rilevato che Cucchi durante la detenzione al Pertini non ha ricevuto la visita psichica, e tantomeno psichiatrica, quando era in quella condizione di sofferenza psicologica e in presenza di importante diminuzione dell'appetito. Sappiamo bene che la legge impone invece interventi persuasivi a mangiare, diversamente significherebbe l'abbandono" del soggetto. Il presidente della commissione Diritti umani del Senato ha insistito a più riprese sulla mancanza di indagini relative alle prime 24 ore del caso Cucchi, rilevando che ora "la vicenda va ricostruita anche sotto il profilo di una politica giudiziaria". In precedenza, a margine della conferenza stampa, lo stesso Manconi aveva già parlato di "gravissime concause" e di "trascuratezza e negligenza" nella vicenda che ha portato alla morte di Cucchi. Il fatto che "al Pertini il giovane non è stato sottoposto ad alcuna visita psicologica che le circostanze richiedevano è la conferma che distrazione colpevole, indifferenza medica hanno segnato quei giorni. Emerge la conferma delle gravi carenze dell'assistenza di Cucchi, e questo si somma alle risultanze delle indagini bis della Procura che conferma quanto detto negli anni dai familiari del giovane. Ora l'inchiesta bis - aveva aggiunto - si concentra giustamente su quelle prime 24 ore che hanno visto Cucchi passare da una caserma carabinieri all'altra, cosa che la prima indagine di investigatori e Procura aveva totalmente ignorato. Emergono false testimonianze e si confermano soprattutto le azioni dei carabinieri che l'avevano fermato e portato in caserma due volte in 24 ore". E l'avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha detto che ora l'inchiesta bis "da cui emerge la grande capacità professionale del procuratore Pignatone e del pm Musaro'", affronta il tema delle cause di morte di Stefano "con una visuale diversa che noi avevamo già tentato di far emergere in primo grado ma fummo brutalmente stoppati dalla Corte. Tentammo di ottenere la testimonianza dell'allora senatore Marino (si tratta di Ignazio Marino, poi divenuto sindaco di Roma, ndr) ma senza esito e io fu addirittura deferito dalla Corte d'assise alla Procura per calunnia, poi finita come sappiamo... Oggi emerge una vicenda che era rimasta oscurata durante il processo, l'inchiesta bis produrrà risultati importanti".

Cucchi, gli strani errori nel verbale dei carabinieri, scrive Checchino Antonini. L’ultima notizia è relativa alle pressioni sul medico che lo visitò a Regina Coeli. Secondo la commissione parlamentare che indaga sul servizio sanitario nazionale sarebbe stato oggetto di pressioni per autosospendersi. Dubbi e ancora dubbi. Più si scovano carte e voci più i dubbi sulla versione ufficiale della vicenda di Stefano Cucchi si fanno importanti. L’ultima notizia è relativa alle pressioni sul medico che lo visitò a Regina Coeli non appena arrivò dal tribunale. Questo dottore constatò che il trentunenne romano, arrestato solo tredici-quattordici ore prima, era in fin di vita e protestò per il ritardo con cui venne trasferito al Fatebenefratelli. Ci vollero tre ore per oltrepassare il ponte che separa il lungotevere dall’isola Tiberina, un paio di chilometri. E dire che, a causa dell’urgenza del ricovero, la direzione di Regina Coeli disse che non era stato possibile sottoporre Cucchi a una visita psicologica. Ora, grazie alle risultanze della commissione parlamentare che indaga sul servizio sanitario nazionale, pare che il medico sia stato oggetto di pressioni per autosospendersi. Ancora più inquietante il dettaglio fornito da Ignazio Marino, capo di quella commissione: quando venne convocato al Senato da Regina Coeli avrebbero risposto che era irreperibile, fuori dal Paese, forse in viaggio di nozze. Il camice bianco in questione è stato sentito già dai pm che si occupano della vicenda ma, all’uscita dal tribunale non ha rilasciato dichiarazioni. Dunque il dubbio è legittimo. Secondo: una serie di siti, da Antigone a Ristretti.it fino alle pagine web dei radicali, hanno messo in rete le 348 pagine della relazione finale dell’indagine interna del Dap, il dibattimento dell’amministrazione penitenziaria. Spulciando meglio le carte dell’inchiesta amministrativa saltano agli occhi gli errori clamorosi contenuti nel verbale di arresto. Il primo sbaglio è relativo alla data di nascita e al luogo: si legge che Cucchi sia nato in Albania il 24 ottobre del 75, ossia sei anni prima di quanto sia nella realtà. Ed è nato a Roma. Poi si scopre che sarebbe «sfd», senza fissa dimora come l’indomani avrebbe scritto anche la giudice che gli ha negato i domiciliari senza accorgersi dei segni delle percosse sul viso. A dire il vero non se ne rese conto il legale d’ufficio. Solo al padre fu evidente che il figlio - quando poté abbracciarlo per l’ultima volta nell’aula di Piazzale Clodio - era stato gonfiato di botte. E se ne accorsero anche i suoi compagni di viaggio di quella mattina, dalle rispettive camere di sicurezza in caserme dell’Arma fino alle celle dei sotterranei della Città giudiziaria. Hanno testimoniato che Cucchi soffriva come un cane per il trattamento riservatogli dai carabinieri. Il verbale prosegue. E dice che Cucchi fu identificato a mezzo di rilievi fotosegnaletici e accertamenti dattiloscopici. Davvero esiste una foto segnaletica di Cucchi? Quando fu presa? E perché il verbale lo scheda come pregiudicato quando la sua famiglia lo nega decisamente? Solo il nome corrisponde: si chiamava Cucchi Stefano. L’ora segnata dai carabinieri, le 15.20, neanche quella corrisponde. E perché il ragazzo che fu fermato con lui ricorda cinque uomini, tre in divisa e due in borghese, ma nel verbale ci sono solo quattro firme a dare atto di aver proceduto all’arresto? Poi il verbale sembra prendere una piega più corrispondente al vero: «In data odierna, alle 23.35, mentre espletavamo servizio di pattuglia automontata per le vie della giurisdizione per prevenire e reprimere reati di spaccio di stupefacenti, nei pressi della chiesa di S.Policarpo, adiacenze via Lemonia, notavamo un giovane intento a cedere involucri di cellophane trasparenti in maniera furtiva ricevendo in cambio una banconota». Un racconto che, pare, non sarebbe stato confermato da chi fu fermato assieme a Cucchi. I due sarebbero stati fermati mentre erano sulle rispettive auto, affiancate. Ma è un dettaglio decisamente meno interessante di un altro. Dopo l’arresto, infatti, si scrive che «il detenuto interpellato» dichiarava «di non voler nominare difensore di fiducia». Bugia: il teste ha sentito almeno tre volte pronunciare da Stefano il nome del legale di fiducia. Quaranta minuti dopo l’arresto, Cucchi fu accompagnato a casa per la perquisizione. Sua madre chiese se dovesse attivarsi per avvisare un legale. «Stia tranquilla - le rispose uno dei militari - è tutto a posto». Mica tanto perché il verbale recita che «pertanto questo comando nominava un avvocato d’ufficio» e segue un nome ma non è quello che Cucchi trovò al mattino in tribunale. Altra curiosità del verbale d’arresto: «Il pervenuto dichiarava di non dare notizia del proprio arresto ai propri familiari». Una frase che suona strana dal momento che pochi minuti Stefano e i carabinieri tornarono a casa Cucchi per la perquisizione che non avvenne in tutti i locali, come assicura il verbale, ma solo nella cameretta di Stefano e senza alcun risultato. Però, a un certo punto, spunta finalmente il nome del legale che avrebbe voluto Stefano, che si lasciò morire al Pertini perché gli si impediva di avere contatti con l’esterno. Il nome dell’avvocato compare solo nel verbale di consegna del detenuto alle guardie penitenziarie dopo udienza di convalida. Sono le 13.30 del 16 ottobre. Si domanda Ilaria, sua sorella: «Se è vero che Stefano non l’aveva nominato che ne sapevano i carabinieri?». Ma anche in questo passaggio c’è un errore: quel nome viene segnato come avvocato d’ufficio. Invece Stefano aveva nominato in aula il legale che gli avevano fatto trovare e che non sarebbe mai andato a trovarlo in ospedale. Morirà il 22 ottobre, solo, disidratato e immobilizzato. Per la sua morte, finora, sono indagati tre agenti penitenziari e sei medici. Finora.

Stefano Cucchi, altri quattro carabinieri indagati: tre sono accusati di lesioni. Il giovane morì nel 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. In tutto sono cinque i militari iscritti nel registo, tra cui il vice comandante della stazione di Tor Sapienza, Roberto Mandolini, accusato di falsa testimonianza. Avvocato della famiglia: "Questa contestazione interromperà la prescrizione", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 13 ottobre 2015. I nomi di altri quattro carabinieri sono stati iscritti nel registro degli indagati per la morte di Stefano Cucchi, deceduto nell’ottobre 2009 nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, una settimana dopo il suo arresto per droga. Le nuove iscrizioni riguardano Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco e Vincenzo Nicolardi. Per la prima volta si ipotizza il reato di lesioni aggravate avanzato contro i primi tre militari, che parteciparono alla perquisizione in casa Cucchi e al trasferimento di questi nella caserma Appia. Nicolardi è accusato di falsa testimonianza. Stessa ipotesi di reato per la quale è iscritto da tempo l’allora vice comandante della stazione di Tor Sapienza, Roberto Mandolini. Al momento sono dunque cinque gli indagati nella nuova inchiesta, per la prima volta tutti appartenenti all’Arma. “Come avevamo detto fin da subito, la procura di Roma è andata ben oltre il primo contributo alle indagini che noi abbiamo dato”, commenta all’Ansa Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. “Questi successivi passi – aggiunge – confermano quanto da noi detto al trapelare delle prime indiscrezioni. Ora abbiamo altri indagati e tra di essi alcuni sono accusati di lesioni dolose aggravate. Loro ma non solo sono i veri responsabili della morte di Stefano. Questa contestazione, che riteniamo essere provvisoria, interromperà la prescrizione. Ma, lo ribadiamo con forza e lo stiamo provando, senza quel o quei pestaggi Stefano sarebbe ancora vivo. Questo è certo ed ormai tutti lo hanno capito”. L’iniziale accusa era quella che Stefano Cucchi fosse stato pestato nelle celle del tribunale di Roma, dove era stato portato per l’udienza di convalida del suo arresto, e poi abbandonato a se stesso in ospedale. Nel primo processo, furono condannati solo i medici; in appello la sentenza fu completamente ribaltata con l’assoluzione di tutti gli imputati. E per il 15 dicembre è fissata la Cassazione. Adesso va avanti l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano, nata dopo un esposto presentato dalla famiglia e alla luce di quanto scritto nelle motivazioni della sentenza dai giudici d’appello. L’attenzione degli investigatori mira a chiarire quanto accaduto dal momento dell’arresto e fino all’arrivo nelle celle del tribunale, dopo una sentenza d’appello nella quale i giudici hanno sostenuto che il giovane “fu sottoposto ad una azione di percosse e non può essere definita una astratta congettura l’ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare”. E la Procura di Roma ora accusa per la prima volta i carabinieri. Nel nuovo fascicolo sono state depositate le testimonianze – raccolte dall’avvocato dei Cucchi e tutte da verificare – di due carabinieri che dopo le assoluzioni hanno deciso di collaborare con la procura. Oltre a una nuova perizia firmata dal professore Carlo Masciocchi, presidente della Società Italiana di Radiologia, confermerebbe che il ragazzo venne picchiato.

Caso Cucchi, "picchiato due volte e ucciso da shock". L'ultima verità dei medici indipendenti. Presentato in Senato un dossier dell'associazione Medu sul giovane morto nel 2009 sei giorni dopo il suo arresto: "Ha certamente subito violenze che gli hanno provocato traumi multipli tra la perquisizione nella casa dei genitori e la visita medica alla città giudiziaria. Violenze riconducibili ai pubblici ufficiali che lo avevano in custodia, ossia ai carabinieri oppure agli agenti di polizia penitenziaria o ad entrambi", scrive Corrado Zunino su “La Repubblica” il 16 ottobre 2015. "Stefano Cucchi picchiato due volte e ucciso dallo shock". Sostiene Medu, l'associazione che da undici anni cura rifugiati e migranti in fuga, che c'è una connessione tra le violenze subite (almeno due volte) dal giovane e la sua morte nel 2009 in un ospedale romano, una settimana dopo il suo arresto. Una interdipendenza che, se raccolta, trasformerebbe l'accusa di lesioni fin qui sostenuta nei processi in quella di omicidio preterintenzionale, è un dato clinico e si chiama shock post-traumatico. Secondo Medu, che ha presentato questa mattina in Senato "Il caso Cucchi, un'indagine medica indipendente", la medicina (anche legale) italiana sottovaluta per cultura questo aspetto: lo shock post-traumatico. Ma c'è ampia letteratura, soprattutto anglosassone, nel considerare le reazioni psichiche a un'aggressione sullo stesso piano delle complicanze cliniche (l'infiammazione interna, il blocco urinario, nel caso di Cucchi). Le reazioni psichiche "possono risultare decisive nell'ammaloramento grave di una persona e nella sua morte". "Sono le spine nel cuore, le ferite invisibili", ha detto Alberto Barbieri, chirurgo d'urgenza che guida Medici per i diritti umani e che ha lavorato al dossier Cucchi per nove mesi, affiancato da Massimiliano Aragona, docente di psicopatologia fenomenologica all'Università La Sapienza. Il punto di vista di Medu è quello di chi ha curato centinaia di vittime di violenza, a volte di tortura. Questa esperienza ha ispirato il dossier su Stefano Cucchi, morto a 31 anni alle 6,45 del 22 ottobre 2009 nel reparto di Medicina protetta dell'ospedale Pertini di Roma. Le conclusioni dell'indagine medica dicono, "senza esitazioni" che "non è possibile comprendere la tragica vicenda di Stefano Cucchi senza prendere in considerazione, oltre alla violenza fisica, la dimensione psico-traumatica e la gravità della sue conseguenze". Ecco: "Cucchi ha sviluppato una grave reazione psico-patologica caratterizzata da un insieme di sintomi tra cui una serie di alterazioni neurovegetative come la riduzione del senso di fame che, in concomitanza con altre reazioni post-traumatiche (la chiusura e la sospettosità), è stata determinante nel provocare una severa riduzione nell'apporto alimentare e una conseguente drastica perdita di peso". Da 52 chili a 37 in sei giorni. Questo in un paziente che, sul piano nutrizionale, si presentava già vulnerabile al momento dell'arresto. "Nelle reazioni traumatiche acute un comportamento anormale interferisce con la sopravvivenza". Nel caso di Cucchi, "le conseguenze del trauma psichico hanno avuto effetti ancora più profondi e devastanti delle ferite provocate dalle lesioni fisiche". In sei giorni è avvenuta la demolizione di un essere umano, si legge. Nel costruire l'indagine medica il dottor Barbieri ha letto le motivazioni delle due sentenze di tribunale fin qui note (primo grado e appello), le diverse perizie mediche, le consulenze richieste, quindi la ricostruzione della commissione parlamentare. Ha ascoltato i legali di Stefano e la sua famiglia (alla presentazione del dossier in Senato era presente Ilaria Cucchi, la sorella) e operatori della comunità Ceis che si sono occupati della tossicodipendenza e dell'alcolismo del trentenne. Medu ha così scoperto che Stefano assumeva cannabis dall'età di 12 anni e che per 17 volte era finito in un pronto soccorso. "Una personalità debole e problematica e che si è trovato a subire un oltraggio troppo grande". Per sei giorni Stefano Cucchi, l'occhio sinistro gonfio e nero, ha mangiato poco, ha rifiutato tac ed ecografie, ha vissuto in uno stato di intorpidimento nascosto sotto un lenzuolo o una coperta, non ha collaborato con i medici alternando polemiche a silenzi, "ma, attenzione, secondo la nostra tesi non si è lasciato morire, piuttosto è stato ucciso a causa di uno stress acuto post-traumatico".  Il lavoro medico sostiene anche una ricostruzione cronologica degli avvenimenti e, dopo sei pagine di messa in fila degli eventi, conclude: "Si può affermare con certezza che Stefano Cucchi ha subito violenze che gli hanno provocato traumi multipli (due vertebre fratturate, ecchimosi agli occhi) nel periodo intercorso tra la perquisizione presso la casa dei genitori (1,30-2 del 16 ottobre) e la visita medica effettuata alla città giudiziaria di piazzale Clodio (il 16 ottobre alle ore 14). Tali violenze non possono che essere ricondotte ai pubblici ufficiali che lo hanno avuto in custodia durante questo periodo ossia ai carabinieri oppure agli agenti di polizia penitenziaria o ad entrambi". La ritraumatizzazione, conclude l'indagine ricordando, appunto, la doppia violenza subita, "acuisce i sintomi psicopatologici di un paziente". I primi due processi per la morte di Stefano Cucchi hanno prodotto dodici assolti (dodici i rinviati a giudizio iniziali, sei i condannati solo in primo grado). La Cassazione ha riconosciuto vizi nei procedimenti ordinando un nuovo processo. L'inchiesta penale solo di recente ha messo al centro la caserma di Tor Sapienza, a Roma, e indagato tre carabinieri per lesioni.

Caso Cucchi, il sospetto dei pm: picchiato in auto dai carabinieri. La nuova indagine e il mistero dei 15 minuti di buco. La famiglia: torniamo a sperare La verità La sorella: «Non cerco capri espiatori, ma solo che si accerti la verità, qualunque sia», scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Nelle ventiquattr’ore trascorse in mano ai carabinieri, in stato di arresto, a Stefano Cucchi non venne scattata una foto segnaletica, non gli furono prese impronte digitali né fu fatto un confronto con il database degli arrestati. Procedura che venne invece rispettata al momento dell’ingresso nel carcere di Regina Coeli. È questo il mistero attorno al quale ruota l’inchiesta bis nella quale sono coinvolti tre carabinieri: il maresciallo Roberto Mandolini e gli appuntati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Perché non fotografarlo visto che l’adempimento tutela anche chi esegue il provvedimento di cattura? Aveva già segni di percosse? Il sospetto dei pm è che l’omissione servisse a nascondere i lividi provocati dalle botte ricevute nella macchina dei militari. Per questo il pubblico ministero Giovanni Musarò vuole accertare cosa sia avvenuto davvero fra l’una di notte, ora dell’arresto per spaccio del ragazzo e le tre del mattino, quando Cucchi entra nella cella di sicurezza della stazione dell’Arma di Tor Sapienza dove trascorrerà una notte alquanto tormentata. Il trentenne avrebbe dovuto essere trasportato al comando provinciale dei carabinieri per eseguire fotosegnalazione e rilievi delle impronte. Così non fu. Tra i due momenti - l’arresto e l’ingresso a Tor Sapienza - c’è anche la perquisizione domiciliare in casa dei genitori, dove Stefano fu accompagnato e poi portato via dai carabinieri che lo avevano fermato in via Appia e che in seguito furono cautelativamente trasferiti, assieme ai colleghi che ebbero in consegna Cucchi. Secondo i verbali il tragitto durava «circa 15 minuti» ad andare e altrettanti a tornare. La perquisizione in famiglia aveva riacceso preoccupazione e rabbia in Stefano, che, ovviamente, non voleva far sapere ai genitori di quell’arresto. Ci furono momenti di tensione. Il dubbio è che i carabinieri - tornati in auto - abbiano reagito di fronte all’atteggiamento aggressivo del giovane. I nuovi approfondimenti - partiti dalla falsa testimonianza del vicecomandante di Tor Sapienza Mandolini - confermano che il carabiniere mentì sul punto anche quando fu ascoltato dai pubblici ministeri dell’epoca. Secondo lui Cucchi non fu fotosegnalato perché si sarebbe opposto («gli ha dato molto fastidio quindi si è subito un pochettino impressionato su questa cosa che doveva anda’ a fare» fa mettere a verbale il maresciallo), facendo credere che si trattasse quasi di un favore fatto all’arrestato dai carabinieri che comunque lo avevano identificato attraverso i documenti. Altro piccolo mistero. La frase pronunciata da Cucchi all’ingresso nella caserma di Tor Sapienza, quando venne ispezionato. All’epoca il carabiniere che condusse la verifica disse che alla richiesta di togliere anche la cintura dei pantaloni Cucchi rispose: «Che ve devo dà pure ‘sta cintura che mi hanno rotto?». Frase che aleggiò senza essere approfondita e sembrava alludere al fatto che fosse stato picchiato. «Prendiamo atto con soddisfazione della notizia che ci sarebbero carabinieri sotto inchiesta - ha commentato il legale della famiglia, l’avvocato Fabio Anselmo - Stefano è stato pestato probabilmente più volte e in conseguenza di quei pestaggi è morto». Dopo l’assoluzione di tutti gli imputati al processo d’Appello, si attende a dicembre il giudizio della Cassazione. «Torno a sperare - dice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano - che si possa intraprendere un discorso di verità sulla morte di mio fratello. Non la verità che qualcuno vorrebbe o che farebbe comodo a qualcuno. Neanche la verità che vorrei io. Solo la semplice verità. Non cerco capri espiatori». Ilaria Cucchi e il suo legale ritengono che i primi risultati dell’inchiesta bis siano solo parziali e si dicono convinti che questo sia solo l’inizio. Sulle speranze riaccese da questi nuovi accertamenti giovedì 8 settembre è intervenuta anche la mamma di Federico Aldrovandi, il 17enne di Ferrara morto durante il fermo di polizia nel 2005: «Un passo avanti verso la giustizia». Per il senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della commissione Diritti Umani (fu lui a convocare la prima conferenza stampa per rendere pubbliche le immagini dei lividi sul corpo di Cucchi): «Avevano ragione Ilaria, Rita e Giovanni Cucchi a chiedere nuove e approfondite indagini sulla morte di Stefano il 22 ottobre 2009. È quanto ha fatto, finalmente, la Procura di Roma nell’inchiesta bis, iscrivendo nel registro degli indagati un carabiniere per falsa testimonianza».

L'inchiesta bis sulla morte del geometra romano ha il primo indagato. E due testimoni "in divisa" che hanno rivelato particolari importanti su quella sera aprendo nuovi e inquietanti scenari, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Due testimoni di peso, “in divisa”, che la famiglia di Stefano Cucchi ha portato davanti ai magistrati. E che avrebbero rivelato la confessione del maresciallo dell'Arma ora indagato: «Con Cucchi quei due hanno esagerato e non sappiamo come risolvere la situazione». È questa, in sintesi, la seconda importante novità dell'inchiesta bis sulla morte del giovane geometra romano. Che prosegue senza sosta e che vede il primo indagato per falsa testimonianza: il maresciallo Roberto Mandolini, ex vice comandante della stazione di Tor Sapienza a Roma, dove era stato portato Stefano la notte del 15 ottobre 2009 dopo l'arresto per droga. Ci sarebbero poi altri due militari, i presunti autori del pestaggio, sui quali la procura capitolina guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone vuole vederci chiaro. In questi mesi hanno lavorato sodo e raccolto tanti nuovi elementi. Da quanto risulta a “l'Espresso” i due testimoni “in divisa” sarebbero stati già sentiti qualche mese fa dal procuratore capo in persona. E avrebbero fornito dettagli importanti. In particolare avrebbero messo a verbale proprio quanto riferito loro da Mandolini. Hanno cioè descritto gli attimi convulsi di quella notte e l'agitazione del loro superiore per quanto accaduto. Non è escluso quindi che le loro rivelazioni abbiano impresso un'accelerazione all'indagine. Per il momento l'identità dei due resta top secret, ma è certa la loro appartenenza all'Arma dei carabinieri. La nuova inchiesta guidata dal pm Giovanni Musarò riguarda quindi i carabinieri che quella sera arrestarono Stefano Cucchi. Una novità rispetto al primo filone che si era concentrato sulle responsabilità della polizia penitenziaria e dei medici del Pertini che curarono Cucchi durante la detenzione, fino alla morte, il 22 ottobre del 2009. Da quel primo filone scaturì il processo. Nel giugno 2013 la corte d'assise di Roma aveva condannato i medici dell'ospedale romano, assolvendo invece gli infermieri e gli agenti della polizia penitenziaria. L'appello poi aveva ribaltato la sentenza: tutti assolti. Un giudizio contro il quale sia la procura generale che i familiari di Cucchi avevano fatto ricorso, chiedendo inoltre l'avvio di un'inchiesta bis sulla morte di Stefano. Una richiesta basata sulle motivazioni della sentenza di appello: gli stessi giudici invitavano la procura a valutare «la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse» perché Cucchi «fu sottoposto ad una azione di percosse e non può essere definita una astratta congettura l'ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare». Da qui l'impulso alla nuova inchiesta che vede già un militare dell'Arma indagato per falsa testimonianza. "Prendiamo atto con soddisfazione che ci sarebbero tre carabinieri sotto inchiesta per la morte di Stefano. Credo che si tratti solo dell'inizio; la verità sta venendo a galla". Così Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha commentato la notizia che potrebbe segnare un punto di svolta per il caso. L'avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, ha commentato le ultime novità spiegando che «altre situazioni molto più importanti stanno emergendo e che cambieranno la storia che è stata scritta finora». Anselmo ha poi chiarito: «Quello che posso dire è che Stefano Cucchi è morto perché è stato pestato. E siamo in grado di dimostrare anche il fumo che è stato fatto nel processo e che non ha permesso di arrivare alla verità. Adesso questo fumo si sta diradando».

L'inchiesta della procura di Roma prosegue. I pm hanno indagato un carabiniere e sospettano di altri due. Intanto la famiglia di Stefano ha portato davanti ai magistrati due test importanti la cui identità resta segreta, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". Due testimoni di peso, “in divisa”, che la famiglia di Stefano Cucchi avrebbe portato davanti ai magistrati. È questa la seconda importante novità dell'inchiesta bis sulla morte del giovane geometra romano. Che prosegue senza sosta e che vede il primo indagato: il maresciallo Roberto Mandolini, ex vice comandante della stazione di Tor Sapienza a Roma, dove era stato portato Stefano la notte del 15 ottobre 2009 dopo l'arresto per droga. Ci sarebbero poi altri due militari sui quali la procura capitolina guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone vuole vederci chiaro. In questi mesi hanno lavorato sodo e raccolto tanti nuovi elementi. Da quanto risulta a “l'Espresso”, invece, i due testimoni “in divisa” sarebbero stati già sentiti qualche mese fa dal procuratore capo in persona. E avrebbero fornito dettagli importanti. Non è escluso quindi che le loro rivelazioni abbiano impresso un'accelerazione all'indagine. Per il momento l'identità dei due resta top secret, ma farebbero parte delle forze dell'ordine. La nuova inchiesta guidata dal pm Giovanni Musarò riguarda quindi i carabinieri che quella sera arrestarono Stefano Cucchi. Una novità rispetto al primo filone che si era concentrato sulle responsabilità della polizia penitenziaria e dei medici del Pertini che curarono Cucchi durante la detenzione, fino alla morte, il 22 ottobre del 2009. Da quel primo filone scaturì il processo. Nel giugno 2013 la corte d'assise di Roma aveva condannato i medici dell'ospedale romano, assolvendo invece gli infermieri e gli agenti della polizia penitenziaria. L'appello poi aveva ribaltato la sentenza: tutti assolti. Un giudizio contro il quale sia la procura generale che i familiari di Cucchi avevano fatto ricorso, chiedendo inoltre l'avvio di un'inchiesta bis sulla morte di Stefano. Una richiesta basata sulle motivazioni della sentenza di appello: gli stessi giudici invitavano la procura a valutare «la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse» perché Cucchi «fu sottoposto ad una azione di percosse e non può essere definita una astratta congettura l'ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare». Da qui l'impulso alla nuova inchiesta che vede già un militare dell'Arma indagato per falsa testimonianza. "Prendiamo atto con soddisfazione che ci sarebbero tre carabinieri sotto inchiesta per la morte di Stefano. Credo che si tratti solo dell'inizio; la verità sta venendo a galla". Così Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha commentato la notizia che potrebbe segnare un punto di svolta per il caso. L'avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, ha commentato le ultime novità spiegando che «altre situazioni molto più importanti stanno emergendo e che cambieranno la storia che è stata scritta finora». Anselmo ha poi chiarito: «Quello che posso dire è che Stefano Cucchi è morto perché è stato pestato. E siamo in grado di dimostrare anche il fumo che è stato fatto nel processo e che non ha permesso di arrivare alla verità. Adesso questo fumo si sta diradando». È intervenuto anche il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani a palazzo Madama: «Già nella sentenza d'appello veniva censurata la mancanza di indagini nei confronti dei militari che hanno trattenuto Stefano Cucchi, in ben due caserme romane, la notte dell'arresto. Non va dimenticato che, nelle due sentenze finora emesse, pur in assenza di una precisa identificazione dei responsabili è stato affermato inequivocabilmente che Stefano Cucchi, mentre si trovava privato della libertà, è stato sottoposto a violenze e abusi».

I carabinieri su Cucchi: "L'hanno massacrato, sta messo malissimo". La testimonianza-shock di due militari sull'arresto. Smentita la perizia: "Aveva una frattura lombare recente", scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. "Ricordo il maresciallo Mandolini arrivare in ufficio con passo veloce. In quel periodo ero al comando di Tor Vergata. Aveva la faccia tesa. "Come stai?", gli chiesi. Si mise la mano sulla fronte: "È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato un ragazzo arrestato". Era preoccupato e scosso, mi salutò e andò nell'ufficio del mio comandante, Mastronardi". R. C., appuntato scelto dei carabinieri ricorda così quel 16 ottobre del 2009, il giorno successivo all'arresto di Stefano Cucchi. La sua testimonianza e quella della collega, resa all'avvocato Fabio Anselmo il 14 maggio scorso e poi al procuratore capo Giuseppe Pignatone è registrata su un nastro. Ed è grazie a queste denunce che la procura di Roma ha riaperto il caso Cucchi e ha già iscritto nel registro degli indagati, dopo aver ascoltato 14 testimoni, tre carabinieri per falsa testimonianza. Si tratta del maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti comandante della stazione Appia (dove sembra appunto essere avvenuto il primo pestaggio) e gli appuntati De Bernardo e D'Alessandro, in servizio in quella caserma. R. C. non ha assistito al pestaggio, però dice cose importanti. "Non sapevo chi fosse Cucchi, ma quando in tv ho sentito della morte di quel ragazzo ho capito che la persona massacrata di botte era quella di cui parlava il maresciallo Mandolini che il 16 ottobre venne di corsa alla stazione Tor Vergata per parlare col mio comandante". E ancora: "Il figlio di Mastronardi, Sabatino, anche lui carabiniere alla stazione Tor Sapienza, parlando del caso Cucchi mi disse: "ho visto 'sto ragazzo male male. Mamma mia come l'hanno ridotto". La notte dell'arresto Sabatino ha visto Cucchi massacrato di botte e mi disse che non volevano tenerlo nelle celle della caserma per come era combinato. "Me l'hanno portato messo male, era in pessime condizioni" ". Quindi secondo la ricostruzione dell'appuntato, Cucchi fu portato, dopo la perquisizione a casa (che avvenne all'1.30 di notte e in cui i genitori lo videro "sano"), alla stazione Appia, picchiato e poi accompagnato alla caserma Tor Sapienza.

I due carabinieri raccontano quanto appreso in quelle ore da alcuni loro colleghi. Per la famiglia Cucchi è una testimonianza decisiva che permetterà di arrivare presto alla verità sulla morte di Stefano, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Due testimoni di peso, “in divisa”, che la famiglia di Stefano Cucchi ha portato davanti ai magistrati. La nuova perizia che smentisce quella fatta per il primo processo. I primi indagati nell'indagine bis coordinata dalla procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. Indizi che iniziano far emergere pezzi di verità su quella notte in cui il giovane geometra romano venne arrestato dai carabinieri. Il primo indagato per falsa testimonianza è il maresciallo Roberto Mandolini, ex vice comandante della stazione di Tor Sapienza a Roma, dove era stato portato Stefano la notte del 15 ottobre 2009 dopo l'arresto per droga. Ci sarebbero poi altri due militari sui quali la procura capitolina guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone vuole vederci chiaro. E proprio di Mandolini parlano i due carabinieri, un uomo e una donna, durante la loro testimonianza registrata dall'avvocato della famiglia Cucchi. La donna racconta di quando nelle ore successive all'arresto di Stefano ha incontrato nei corridoi della caserma un collega, che lei sostiene essere proprio Mandolini. Ecco la testimonianza audio raccolta dalla famiglia di Stefano Cucchi. Un carabiniere donna racconta di quando il maresciallo Roberto Mandolini, ora indagato per falsa testimonianza, gli disse che con Cucchi due agenti avevano esagerato, ovvero l'avevano massacrato di botte. Quest'ultimo, racconta la testimone, era molto agitato e preoccupato e disse al suo superiore che «l'avevano (Cucchi ndr) massacrato di botte, che dei carabinieri non si erano regolati a livello fisico e che a questo ragazzo cercavano di scaricarlo». Ecco la testimonianza del carabiniere che raccolse lo sfogo del maresciallo Mandolini, preoccupato di quanto accaduto durante l'arresto del giovane geometra romano. Le registrazioni effettuate dall'avvocato Fabio Anselmo sono per la famiglia di Stefano Cucchi un passo ulteriore verso la verità. La seconda testimonianza è quella del carabiniere. «È successo un casino, i ragazzi hanno combinato un casino», spiega all'avvocato il militare che ha aggiunto: «Non volevano nemmeno tenerlo nelle celle perché stava messo proprio male».

Stefano Cucchi, le nuove testimonianze degli agenti: “Massacrato, volevano scaricarlo come una valigetta”. I carabinieri che collaborano con i pm denunciano falsi verbali d’arresto. "Un collega disse al comandante che l'avevano picchiato", ma lui nega tutto. Nuova perizia sulla frattura lombare: “Fu nascosta”, scrivono Silvia D'Onghia e Valeria Pacelli il 12 settembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “Mandolini s’è presentato che glie se stava a strigne il sederino. Lo volevano scarica’ come fosse ‘na valiggetta. La “valiggetta” sarebbe Stefano Cucchi. A parlare è una carabiniera, che nei giorni dell’arresto del ragazzo era in servizio alla stazione di Tor Vergata, a Roma. Le sue parole, che il Fatto ha ascoltato e che sono depositate nell’inchiesta bis della Procura di Roma sulla morte del giovane, sono incise in una registrazione. Davanti all’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, il 14 maggio scorso la donna ha raccontato tutto ciò che sapeva sul caso. Nella sua deposizione – tutta da verificare – tira in ballo due figure: il comandante della stazione di Tor Vergata, luogotenente Enrico Mastronardi, (mai citato nell’inchiesta nè indagato) e il maresciallo Roberto Mandolini, che all’epoca dei fatti prestava servizio presso la stazione Appia e che ora è indagato– nell’ inchiesta bis – per falsa testimonianza. Non solo. La donna, insieme a un collega, racconta anche gli scontri interni alla caserma e un caso di verbali di arresto falsi. Solo accuse per ora, tutte da verificare. Ma partiamo dalla deposizione. “Ero in corridoio con il comandante – racconta la carabiniera –. Arrivò Mandolini, che non conoscevo, in evidente stato di agitazione e disse a Mastronardi che i carabinieri avevano massacrato di botte un ragazzo”. Lei non conosceva Stefano Cucchi, nè lo sente nominare allora. Ricollega la faccenda una settimana dopo, quando il ragazzo muore. La donna poi aggiunge che Mandolini non fece i nomi di chi avrebbe “massacrato” Cucchi: “Credo quelli che avevano operato l’arresto. Disse che non si erano regolati, a livello fisico. Cercavano discaricarlo, ma nessuno si prendeva la responsabilità di prenderselo conciato così”. I due, a detta della signora, si chiusero poi nell’ufficio del comandante. La versione della donna viene confermata dal collega che con lei era in servizio a Tor Vergata: entrambi hanno avuto problemi in quella caserma e da cinque anni non lavorano più lì. Il Fatto ha ascoltato anche questa deposizione registrata e depositata in Procura. Racconta l’appuntato: “Quel giorno si presentò con passo veloce e la faccia tesa. Gli chiesi: “Come stai?”. Mi disse: "I ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato, è successo un casino". Ho appreso solo dopo tramite i giornali che c’era stata la morte di Cucchi”. L’uomo tira in ballo – anche queste accuse da verificare – anche il figlio del comandante, maresciallo: “Parlando del caso Cucchi, una volta esploso, mettendosi la mano sulla fronte, scuoteva il viso come a dire: ‘Ho visto ‘sto ragazzo proprio male, massacrato di botte’. Non sono sicuro che facesse servizio a Tor Sapienza o là vicino. So che nella notte dell’arresto ha visto Cucchi”. I due carabinieri hanno deciso di parlare dopo le assoluzioni di secondo grado, nell’ottobre 2014. E raccontano anche altro. Non hanno lasciato la caserma con serenità, ma nelle registrazioni hanno parlato anche di insulti e verbali di arresto falsi. Accuse di cui ora, dopo quella militare, potrebbe occuparsi la Procura ordinaria. Dice la donna: “Il rapporto di fiducia si è incrinato, perché lui (Mastronardi, ndr) pretendeva che io facessi dei verbali di arresto falsi: faceva comparire me rispetto all’agente operante”. La donna racconta di aver subìto insulti e sul collega aggiunge: “Lo stanno massacrando. Mastronardi pretendeva che facessi annotazioni di servizio rispetto a lui dicendo che è pazzo, violento. Mi sono rifiutata”. Anche il carabiniere racconta come i rapporti a Tor Vergata “si sono guastati quando ho cominciato a vedere atteggiamenti poco chiari. (…) Io mi sono visto messo in un verbale d’arresto quando ero a riposo”. Qui la storia si complica: il carabiniere – nell’ambito di un procedimento per ora poco chiaro – ha subito una perquisizione. Contattato dal Fatto, Enrico Mastronardi ha ammesso di aver incontrato Mandolini, ma non gli avrebbe riferito nulla: “Qualora mi avesse riferito un qualsiasi reato, lo avrei trascinato direttamente dai magistrati. Questi signori possono dire quello che vogliono, ne risponderanno”. Intanto in Procura nei mesi scorsi è stato convocato Mandolini che si è avvalso della facoltà di non rispondere. Anche Mastronardi è stato sentito. I Cucchi hanno consegnato una nuova perizia medico-legale sulla frattura della terza vertebra lombare, che per Anselmo era conseguenza del pestaggio ma secondo i periti della corte non c’era. Scrive il professor Carlo Masciocchi: “Le fratture riscontrate possono essere definite in modo temporale come recenti o comprese in una finestra temporale entro i 7-15 giorni”. Ai periti del collegio sarebbe stata nascosta mezza vertebra: “Penso – scrive Masciocchi – che sia stato tagliato il soma di L3”. Dal Fatto Quotidiano di sabato 12 settembre 2015

Da Cucchi ad Aldrovandi: l’onore non ha divise, scrive Giulia D’Argenio su “OrticaLab”. Il marciume che il Coisp vorrebbe celare va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Accusano Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Domenica Ferrulli, figlia di Michele, Lucia Uva, sorella di Giuseppe, di avere offeso l’onore della Polizia di Stato. Figlie e sorelle di uomini uccisi da uomini in divisa. La querela a carico delle tre donne è stata depositata dal signor Franco Maccari in nome e per conto del Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia, il Coisp. Insieme a loro, querelato anche Leonardo Fiorentini, consigliere di circoscrizione ferrarese, colpevole di essersi schierato al fianco Patrizia Moretti Aldrovandi, mamma di Federico, all’epoca della farsa posta in essere da un manipolo di iscritti al medesimo sindacato. Nel mese di marzo del 2013, infatti, un gruppo di aderenti al Coisp organizzò un sit-in sotto la finestra dell’ufficio comunale dove lavora Patrizia Moretti, una madre colpevole di avere chiesto verità e giustizia per il figlio. Una verità scomoda, perché ha coperto di vergogna, come in tanti altri casi di morti di Stato accertate, gli organi di Polizia. Con le sue azioni provocatorie, il coordinamento sindacale non ha certo contribuito alla causa né riabilitato quei corpi di polizia nell’interesse dei quali dichiara di agire. Perché, come ha scritto Ilaria Cucchi in risposta alla notizia del fascicolo aperto, a suo carico come di altri e per i medesimi motivi, presso la Procura della Repubblica di Roma, è “colpa loro se è stato offeso lo Stato”. E se la verità processuale ha assolto gli uomini in divisa sotto accusa per la morte di Stefano Cucchi e di Stefano Brunetti, il cui nome non ricorre in questa grottesca vicenda, mentre sono state archiviate le indagini sul caso Uva, a riprova di quell’offesa restano le morti violente di Aldrovandi, Ferrulli e di Riccardo Rasman, omone il cui nome Maccari ha scelto di lasciare in pace. Sono i responsabili di quei fatti ad aver disonorato le divise che portavano, in quanto tutori dell’ordine, perché sono stati loro, volontariamente e deliberatamente, a sporcarle di sangue, sentendosi titolari di un potere di vita o di morte su chi avevano di fronte. Quelle divise rappresentano il fondamento stesso della legittimità dello Stato, volendo fare un po’ di teoria politica spicciola. Oltraggiandole con la loro condotta hanno portato uno smacco alle stesse istituzioni che erano chiamati a tutelare, riempiendo di vergogna i loro colleghi. Senza voler celebrare eroi, perché un lavoro è un lavoro e lo si sceglie, accettandone tutti i rischi e i pericoli che lo connotano, senza voler giustificare né cercare alibi, è pur vero che quelle stesse uniformi sono portate anche da uomini e donne non avvezzi a un utilizzo gratuito della violenza. Persone che fanno quello stesso lavoro con correttezza, credendo nei principi che sono chiamati a tutelare e che le loro divise dovrebbero rappresentare. Perché ci sono anche agenti di polizia che hanno provato vergogna di fronte alle immagini della Diaz e ai quali si sono drizzati i peli della barba ad apprendere delle morti di Stato, come giornalisticamente si usa chiamarle. Se il Coisp con questa nuova farsa pensa di fare l’interesse della Polizia di Stato o di qualsiasi altro corpo si sbaglia. Perché è innegabile la presenza di mele marce al loro interno e, tanto quanto i criminali, i violenti, i facinorosi che caricano durante le manifestazioni, senza alcun rispetto per le regole, questo marciume va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Perché un agente di polizia non è certo immune dalla legge che dovrebbe far rispettare. Anzi. I tanti, troppi casi come quello di Cucchi, Aldrovandi, Ferrulli, Uva sono la prova di quanto urgente sia garantire il rispetto dell’elementare principio secondo il quale la “legge è uguale per tutti”, senza cedere a facili e inutili strumentalizzazioni, da nessuna parte. Il rispetto lo si guadagna sul campo. E ciò vale in ogni caso. Ostinarsi a coprire o negare simili vergogne è uno smacco per lo Stato stesso e per la sua legittimità.

Caso Cucchi: la Cassazione ordina un nuovo processo per l'agente assolto. La Suprema corte annulla l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane romano morto 4 anni fa, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. La Cassazione riapre il caso Cucchi: forse non furono solo i medici i responsabili della sua morte. Ma tornano nel mirino gli agenti delle forze dell'ordine. Succede che la Suprema corte annulli l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane geometra romano morto 4 anni fa. E questo, facendolo ricoverare nel reparto «protetto» dell'ospedale Pertini (simile in tutto ad un carcere) e non in uno normale dove le sue lesioni sarebbero state forse curate meglio, ma sarebbero state anche più evidenti a tutti. La sentenza depositata in questi giorni alla Suprema Corte potrebbe pesare, nei prossimi mesi, sul processo d'appello conclusosi a giugno in Corte d'assise con la condanna per omicidio colposo di 5 dei 6 medici imputati (un altro fu condannato per falso ideologico) e l'assoluzione di tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. A fare ricorso in Cassazione è stato Eugenio Rubolino, per la procura generale presso la Corte d'appello di Roma. Non ha accettato la sentenza dell'aprile 2012 che riguarda solo il dirigente penitenziario Marchiandi, assolto dalle accuse di concorso in falsità ideologica in atto pubblico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, con un ribaltamento della condanna del gup nel corso del giudizio abbreviato. Le tesi di Rubolino sono state completamente accolte dagli ermellini della quinta sezione penale, che hanno ordinato un nuovo processo d'appello, in una sezione diversa dalla precedente, che dovrà esprimersi «in piena libertà decisionale», scrivono nella sentenza. Motivo dell'annullamento i troppi «vizi» nel verdetto che faceva uscire di scena il funzionario del Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria (Prap). Vizi, si legge nella motivazione, «che inficiano alcuni passi di rilevante momento nel tessuto argomentativo della sentenza impugnata». In sostanza, per la Cassazione le carte dicono che Marchiandi avrebbe fatto pressioni sui medici del Pertini per far ricoverare Cucchi in un reparto il cui protocollo riguardava invece pazienti con patologie lievi, escludendo quelle più gravi, cioè «in situazioni cliniche di acuzie». Che interesse aveva a intervenire in questo modo, in un orario anche extralavorativo? Forse, quella di «far apparire soddisfatte le condizioni necessarie a giustificare il suo ricovero nella struttura protetta», quindi di minimizzare il vero stato di salute del paziente. E anche quella di assicurarsi che fosse assegnato alla struttura «protetta» e piantonato da agenti penitenziari e dove potevano non essere evidenti all'esterno i segni di un pestaggio? Per i giudici di secondo grado, Marchiandi non aveva interesse a sostenere il falso, perchè nulla sapeva delle reali condizioni di Cucchi, non avendolo neppure visto. Ma la Cassazione demolisce questo che è il secondo dei capisaldi della sentenza, affermando che in realtà tutte le notizie necessarie sulla salute di Cucchi gli erano state fornite dal direttore di Regina Coeli, a sua volta informato dal medico del carcere che le aveva ritenute «tanto gravi da richiederne il ricovero con urgenza». Viene contestato decisamente dalla Suprema Corte anche il terzo caposaldo, quello per cui far ricoverare Cucchi nella struttura protetta del Pertini non voleva dire isolarlo per impedire indagini sui responsabili delle sue condizioni. In realtà, per la Cassazione, l'isolamento nel reparto protetto c'era, eccome. «Corre l'obbligo di osservare come, alla stregua della normativa vigente, non sia conforme a logica sostenere - conclude la sentenza - che il ricovero in una struttura protetta comporti un'attenuazione dello stato di isolamento del detenuto che è proprio del regime carcerario». C'è da chiedersi a questo punto che conseguenze avrà questa sentenza sul processo d'appello che si celebrerà nei prossimi mesi. Nella prima sentenza nessuno è stato considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi, infatti le condanne ai medici si riferiscono al mancato soccorso, dopo l'entrata in ospedale. Per i 12 imputati le accuse erano, a seconda dei casi, abbandono di incapace (reato più grave, con pena massima 8 anni), abuso d'ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Marchiandi aveva chiesto il rito abbreviato e la sua posizione aveva seguito una via diversa, con la condanna del 2011 a 2 anni per favoreggiamento, falso e abuso in atti d'ufficio e poi l'assoluzione in secondo grado ad aprile 2012. A novembre scorso, poi, la famiglia Cucchi ha trovato un accordo con l'ospedale Pertini, per un risarcimento di un miliardo e 340 milioni di euro.

Cucchi, i medici pagano, ma il processo continua, scrive Salvatore Maria Righi, sull’Unità. Quattro anni dopo l’omicidio di Stefano, un altro anniversario da barrare con la penna, non era esattamente dei soldi che volevano parlare. Invece tocca farlo, alla famiglia Cucchi tocca anche questo, mentre aspettano di parlare del bel libro che Duccio Facchini ha dedicato ad una delle morti bianche più dolorose di tutte. Il volume si chiama “Mi cercarono l’anima - Storia di Stefano Cucchi” ed è stato pubblicato da Altreconomia. Ne hanno parlato ieri sera alla Garbatella, una sera gentile di tardo autunno come quella in cui i carabinieri portarono via Stefano dicendo «per tanto poco, domani sta a casa». Non è andata così, come ripetevano quei militari nella casa di Torpignattara e come ricorda perfettamente la signora Rita, perché le mamme sono fatte così, tengono strette le cose che contano, anche quelle piccole. Rita ricorda i suoi 40 anni da insegnante statale in una materna e sorride con amarezza, pensando che a lei toccavano tre verbali da compilare, ogni volta che c’era un problema: «Per Stefano, ridotto in quelle condizioni, non ce n’è nemmeno uno, eppure era con altri dipendenti dello Stato per cui ho lavorato io». Si gira attorno al palo, in questo processo, come in quello per la morte di Giuseppe Uva e come in tanti altri. «Una battaglia per l’ovvio», lo definisce l’avvocato Fabio Anselmo che ha convinto la famiglia, il padre Giovanni e la sorella Ilaria, ad accettare un parziale risarcimento offerto per togliere di mezzo la responsabilità civile dei medici, condannati per aver dimenticato Stefano nel suo letto del reparto dei ristretti al Pertini. Anche perché, spiega, con l’ipotesi di amnistia dietro l’angolo, l’alternativa potrebbe essere un bel colpo di spugna su responsabilità accertate in primo grado. «Non fatemi parlare di cifre, le smentirei tutte. Di sicuro c’è che non si tratta di una pietra tombale su questa vicenda. La famiglia ha accettato l’accordo, per poter continuare la sua battaglia legale, con la condizione che si possa continuare a perseguire la responsabilità degli agenti». Si va avanti, in corte d’Appello, ripartendo dalla sentenza che assolve gli agenti di polizia penitenziaria e condanna i medici della struttura romana. La famiglia Cucchi ritira la costituzione di parte civile e il secondo grado di questo processo che Anselmo ha definito «un massacro», finora, tra i migliori avvocati di Roma e la Procura schierati contro le ragioni di chi vorrebbe far valere le ragioni dell’evidenza. Nella sala Abracadabra del piccolo teatro, peccato che non basti una magia per cambiare le cose, si susseguono le voci di chi ha vissuto questi anni come un viaggio al contrario. «Cinque professori venuti da Milano per dimostrare come si possa morire di fame e sete dopo quattro giorni, l’ultimo caso del genere è roba che risale al 1917. Le prime volte, lo confesso, uscivo dall’aula, perché non riuscivo a sopportare questo ribaltamento della realtà». Giovanni Cucchi non avrebbe nemmeno bisogno di una platea, quando racconta di questi anni di «dolore, tormenti, rievocazioni e udienze dove se ne sono viste di cotte e di crude», perché sono le memorie del sottosuolo di un padre a cui lo Stato ha strappato senza motivo e con molti sotterfugi un figlio che è entrato in carcere dopo una giornata come tante altre, lavoro, palestra, al tapis-roulant, perché ai pugili tocca anche fare fiato, non basta il sacco e la corda. Quindi, a ben vedere, un prodigio, per un «anoressico, drogato e sieropositivo», come lo ha definito un senatore della Repubblica, Carlo Giovanardi, in una delle sue imperdibili riflessioni. Mamma Rita ricorda ancora una volta che i giudici hanno ignorato quello che ha visto e sentito Yaya Samura, il detenuto che era seduto nella cella del tribunale di piazzale Clodio a fianco di quella dove, secondo il suo racconto, gli agenti hanno picchiato Stefano Cucchi. «Si ricordava tutto, ha dato particolari precisi, come il colore delle divise o le striature che ha visto sulla gamba di mio figlio, quando Stefano si è alzato i jeans per mostrargli le percosse». Non si dà pace, Rita, non si dà pace nemmeno il senatore Luigi Manconi che interviene e racconta della seconda e terza morte di Stefano, così come quella di Giuseppe Uva o di Federico Aldrovandi. Di tutti quelli, in una parola, che vengono uccisi anche dopo essere morti, con aggettivi e pensieri che non hanno molto di umano e giusto: «Il piccolo-spacciatore di Tor Pignattara, così è stato definito Stefano per settimane dal principale quotidiano della città», ricorda Manconi, con molta più amarezza che rabbia. C’è anche un po’ di rassegnazione, o meglio pessimismo, perché l’avvocato Anselmo spiega che ci sono «motivate preoccupazioni sul fatto che in appello non si possa e non si voglia dar torto alla Procura di Roma, anche se ormai tutti, anche il ministro che ho incontrato l’altro giorno, hanno capito che abbiamo ragione noi».

Stefano Cucchi, le motivazioni della sentenza: "Morì di malnutrizione", scrive L'Huffington Post. Stefano Cucchi è morto di malnutrizione: lo scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di condanna dei medici. Il giovane romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale, è stato ucciso da una "sindrome da inanizione". La terza Corte d'assise di Roma ha fatto proprie le conclusioni dei periti. Le motivazioni arrivano a quasi tre mesi dalla sentenza con la quale sono stati condannati per omicidio colposo il primario del 'Sandro Pertini' Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La corte ha ritenuto "di dover condividere le conclusioni cui è giunto il collegio peritale, fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d'indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore". La "sindrome da inanizione", è "l'unica in grado di fornire una spiegazione dell'elemento più appariscente e singolare del caso, e cioè l'impressionante dimagrimento cui è andato incontro Stefano Cucchi nel corso del suo ricovero". I giudici affermano che non possono essere condivise le tesi delle difese, secondo le quali il giovane sarebbe stato condotto alla morte da un'improvvisa crisi cardiaca. Ancor meno posso essere condivise le conclusioni dei consulenti delle parti civili, secondo cui il decesso si sarebbe verificato per le lesioni vertebrali. "Anche questa tesi - si evidenzia nella sentenza - presta il fianco all'insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali abbiano interessato terminazioni nervose". Per la sentenza "è legittimo il dubbio che (Stefano) Cucchi, arrestato con gli occhi lividi (perché molto magro e tossicodipendente) e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri" prima del suo arrivo in tribunale. "Non è certamente compito della Corte indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui - scrivono i giudici della Corte d'Assise di Roma -, e tuttavia sono le stesse dichiarazioni dei carabinieri che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da Samura Yaya". Si tratta di un immigrato del Gambia, che in qualità di testimone riferì di aver sentito di un pestaggio nelle celle del tribunale di Roma. Per i giudici "è indubitabile che nulla di anomalo si era verificato al momento dell'arresto e fino alla perquisizione domiciliare. Se qualcosa di anomalo si è verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare e l'arrivo della pattuglia" in caserma. "In via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che il Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare, atteso l'esito negativo della stessa".

31 ottobre 2014. Caso Cucchi, nessun colpevole. I giudici: «Prove insufficienti».

Le vittime del reato in giudizio sono rappresentate dallo Stato, con il Pubblico Ministero. Il magistrato requirente, se ha svolto bene le indagini, dirigendo le attività della polizia giudiziaria, porterà le prove a sostegno dell'accusa costringendo anche il magistrato decidente più ostile a decidere secondo forma e sostanza.

Presidente del collegio d'appello, Mario Lucio D'Andria;

Consigliere a latere, Tiziana Gualtieri;

Procuratore Generale, Mario Remus.

La sorella di Stefano comincia a pubblicare gli audio delle udienze sul social network. "Lungi dall'essere una persona sana e sportiva - dice ad esempio il pubblico ministero Francesca Loy durante la requisitoria finale del 1° grado - Cucchi era un tossico da 20 anni". Siamo stanchi degli attacchi e degli insulti alla memoria di Stefano. Abbiamo subìto un processo che si è rivelato un massacro”. Ilaria ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Vi annuncio che da oggi pomeriggio provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo.

«Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto. Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà». Avv. Fabio Anselmo.

Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?

La sorella di Stefano Cucchi commenta l’assoluzione di tutti gli imputati in appello nel processo per la morte del fratello: «Stefano, morto di giustizia».

Dopo la lettura della sentenza legata al caso Stefano Cucchi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, qualcuno, alcune persone hanno reagito così, con il dito medio alzato, contro gli amici e i parenti della famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria, ha definito questi gesti terribili.

Cucchi, il legale della famiglia: "Troppa omertà, sembra un processo di mafia''. "Sembra che ci sia stata una regia che abbia fatto un ping-pong di responsabilità tra carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Alla fine la pallina è uscita dal campo". Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, commenta così la sentenza del processo d'appello sul decesso di Stefano Cucchi. "C'è un clima che assomiglia molto ai processi di mafia - ha aggiunto - 170 persone hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla. Di cosa possiamo parlare se non di omertà?", scrive di Francesco Giovannetti su “La Repubblica”.

Senta, lei dice che è convinto che non siano stati i tre carabinieri che lo hanno arrestato, ma quindi è convinto che siano stati i tre della polizia giudiziaria?

«Noi abbiamo chiesto la loro condanna in primo grado ed abbiamo chiesto la loro condanna in secondo grado e la restituzione degli atti. Noi siamo profondamente convinti che i responsabili siano loro. Oggi ce lo ha confermato lo stesso giudice Minichini. Lo stesso Minichini oggi ha detto oggi una cosa eclatante, nel senso che ha detto “quando lui ha visto Stefano, Stefano aveva solo due ematomi sotto gli occhi e non aveva niente, quando il suo difensore in tutto il processo ha sostenuto che Stefano era già stato pestato dai carabinieri. Ora, il fatto di dire che Stefano non avesse niente, è una grande bugia. E se tu dici questa grande bugia, ti sottrai a qualsiasi esame, interrogatorio dibattimentale. Ti avvali della facoltà di non rispondere e poi usi la dichiarazione spontanea al termine del processo per non essere messo in condizione di giustificare e mi dici questa grande bugia: tu sei responsabile.»

Quante sono le speranze in vista della Cassazione?

«In questo momento è un pronostico che non posso fare. Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Vero, questo hanno ragione i pubblici ministeri. Sembra proprio che ci sia stata una regia ad arte. Vi è stata una sorta di ping pong di responsabilità tra carabinieri ed agenti di polizia penitenziaria ed alla fine la pallina è uscita dal campo. Io credo che un po’ ci si debba forse vergognare. Ribadisco. Non per la sentenza. Non è la sentenza che abbiam voluto. Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?»

Ma con l’esito di questa sentenza sarà sempre confermato il detto “cane non morde cane", "cane non mangia cane"?

«Io, se mi è consentita, l’esito di questa sentenza posso dire che il clima in cui vengono fatti questi processi. Ma non quello di oggi. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto».

Troppa omertà…

«Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà».

Stefano Cucchi, tutti assolti in appello. «Mio figlio è morto ancora una volta». Sono passati cinque anni dall'ottobre in cui il trentunenne, arrestato, morì con il volto e la schiena coperti di lividi all'ospedale Pertini di Roma. La corte in primo grado aveva assolto i poliziotti e condannato per omicidio colposo i medici. Ora sono stati tutti assolti per insufficienza di prove, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Una gigantografia del volto tumefatto di Cucchi esposta durante il processo Tutti assolti. Medici, infermieri e poliziotti. Per insufficienza di prove. Questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma nel processo di secondo grado per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, con il volto, gli occhi e la schiena coperti di lividi, e lesioni ovunque. «Non ci arrenderemo mai finchè non avremo giustizia», hanno commentato i genitori, piangendo: «Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli. Noi vogliamo sapere esattamente chi siano i responsabili». «Per quale motivo sarebbe allora morto Stefano?», ha chiesto il padre, Giovanni: «Mio figlio era sano, non è possibile quello che è successo». «È una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha pianto la madre, Rita Calore: «Lo Stato si è autoassolto. Per lui, unico colpevole sono le quattro mura». Ilaria, la sorella, ha aggiunto, in lacrime: «La giustizia ha ucciso Stefano. Mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l'udienza di convalida del suo arresto per droga, e il giudice non vide che era stato massacrato». «Stefano», ha continuato: «si è spento da solo tra dolori atroci. Di sicuro andrò avanti e non mi farò frenare perché pretendo giustizia. Chi come mio fratello ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita». Il legale di famiglia, Fabio Anselmo, ha già annunciato il ricorso: «Era quello che temevo», ha detto: «Vedremo le motivazioni, e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte». In primo grado i giudici avevano condannato per omicidio colposo i medici e assolto i tre agenti che lo avevano avuto in custodia, scrivendo che Stefano era morto per una «sindrome di inanizione», ovvero per malnutrizione, e che i 5 medici e l'infermiere condannati avevano agito con «imperizia, imprudenza e negligenza». Oggi i giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria, hanno assolto sia i medici (il primario del reparto detenuti del Pertini, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti) che i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, per insufficienza di prove. «Sono veramente felice di questa sentenza», ha commentato uno degli infermieri assolti anche in secondo grado, Giuseppe Flauto: «Sono felice non solo per me, ma anche per i medici del Pertini perché più volte è stato detto di loro che non erano degni di vestire il camice. Oggi c'è stata una giustizia vera; non era giusta la nostra assoluzione senza la loro».

Ilaria Cucchi in lacrime dopo la lettura della sentenza d'appello. «La verità la dicono le foto di mio fratello. È stato massacrato», aveva detto stamattina Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano: «Abbiamo di lui una foto segnaletica e le foto di quando ce l'hanno restituito, cadavere. Le ho guardate e riguardate tante volte. È stato massacrato. Ecco la verità». Il procuratore generale Mario Remus aveva chiesto alla Corte di condannare tutti gli imputati. Due dei poliziotti, Nicola Minichini e Antonio Domenici, avevano chiesto allora di poter fare dichiarazioni spontanee, le prime dopo cinque anni di silenzio. «Siamo innocenti», avevano detto questa mattina. «Dopo 25 anni di servizio», aveva letto Minichini: «riesco a riconoscere i segni dei pugni e posso dire che quei segni sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano più l’impressione di una malattia, che non di pugni». «Sono innocente», aveva continuato il poliziotto: «ho solo avuto la sventura di avere effettuato il servizio in quel momento». «Provo rispetto», aveva concluso: «per la famiglia Cucchi, per il loro dolore. Nessuno potrà mai dire che io abbia avuto un atteggiamento poco educato nei loro confronti in questi anni nonostante le accuse infamanti e le numerose interviste rilasciate. Tutti hanno espresso solidarietà alla loro famiglia ma per noi nessuna parola, solo un uragano di fango». Alle richieste del procuratore si erano aggiunte durante il dibattimento quelle del legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: «Chiediamo che venga annullata la sentenza di primo grado e che vengano restituiti gli atti alla procura: si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale», aveva detto l’avvocato stamattina: «Stefano Cucchi faceva pena perchè aveva la schiena ridotta in quelle condizioni. Il suo ricovero non è avvenuto per magrezza ma per politraumatismo e questo non dimentichiamolo. I periti hanno spiegato che le condizioni di Stefano hanno rallentato il meccanismo di guarigione e allora come si può sostenere che quelle lesioni non abbiano avuto delle conseguenze anticipandone la morte?». «Cucchi», aveva aggiunto: «non era un tossicodipendente come è stato descritto, lo era nel 2003, ma in quei giorni svolgeva una vita del tutto normale come ci hanno riferito alcuni testimoni».

«L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio. Intanto a Roma è stata approvata la mozione del gruppo Sel del Campidoglio per dedicare una piazza o una via della capitale a 'Stefano Cucchi, ragazzo". «Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 per evidenti responsabilità istituzionali durante la custodia cautelare conseguente al fermo di polizia» ha spiegato Gianluca Peciola, capogruppo Sel e primo firmatario della mozione votata: «A cinque anni dalla sua morte l'intitolazione di una piazza o di una via è un importante riconoscimento da parte dell'Assemblea Capitolina alle battaglie della famiglia per la verità e la giustizia». «Quello che è accaduto a Stefano», ha aggiunto Peciola: «non deve succedere mai più. Nel nostro sistema carcerario devono trovare cittadinanza lo Stato di Diritto e il rispetto dei diritti umani. Questo atto serva da monito a quanti nelle nostre Istituzioni continuano a perpetrare la violenza nei confronti delle persone che sono prese in custodia». Ma nemmeno questa battaglia è passata indenne alle polemiche dopo la sentenza d'assoluzione della Corte d'Assise d'Appello di Roma per tutti gli imputati al processo. Il presidente del sindacato di polizia Sap infatti ha chiesto «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l'intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».

Cucchi, le due verità dell’agente sul pestaggio, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Difficile dar torto al presidente del Senato Pietro Grasso. Difficile dissentire da quel suo appello sul caso Cucchi, «chi sa, parli». Anche perché finora chi sa, in qualche caso, ha parlato senza dire tutto quello che poteva. E’ il caso dell’agente di polizia penitenziaria Nicola Minichini, imputato e assolto al processo sulla morte di Stefano. In un’intervista pubblicata ieri dal Fatto quotidiano Minichini ricorda «quei segni sotto agli occhi» della vittima, e un «livido sullo zigomo». Poi fa una dichiarazione che in sé gli rende onore. Si espone e suggerisce di indagare anche su altri corpi dello Stato: «Sarebbe ora di allargare gli orizzonti», dice. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi», dice Minichini. Lascia intendere che nella notte trascorsa da Cucchi in due diverse caserme dell’Arma qualcosa potrebbe essere successo. «Quello che so per certo è che da noi non è successo niente». Da noi, cioè nelle celle di sicurezza della Città giudiziaria di Roma, dove Stefano transitò il 16 ottobre 2009 al termine dell’udienza di convalida. Se qualcosa c’è stato è successo prima, è l’ipotesi che Minichini avanza nella conversazione con il Fatto. Peccato che al processo l’agente non abbia fatto nulla perché un simile dubbio si insinuasse nella mente di giudici. Peccato davvero. Nella sua deposizione davanti alla prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, Minichini dice testualmente: «Io riesco a riconoscere i segni di percosse, dopo trent’anni di servizio. Quelli che vidi sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano l’impressione di essere il sintomo di qualche particolare malattia, ma di sicuro non erano segni di percosse». Gli stessi dubbi che finalmente, a cinque anni dalla tragedia, Minichini rivela nell’intervista al Fatto avrebbero potuto utilmente essere riferiti alla Corte. Qualcosa comunque si muove, come riconosce in un timido sussulto di speranza anche Ilaria Cucchi. Insieme con i genitori la sorella di Stefano ha incontrato ieri a Palazzo Madama proprio il presidente del Senato Pietro Grasso. Da parte della seconda carica dello Stato è stato ribadito l’impegno a «sensibilizzare tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce, andare verso la verità». Ilaria Cucchi ha parlato di «momento emozionante». Ha poi però presentato un esposto contro il professor Paolo Albarello, il consulente della Procura di Roma che nelle sue perizie avrebbe «minimizzato le lesioni di Stefano» e escluso «qualsiasi legame tra queste e la sua morte». La ricerca della verità dovrà fare i conti anche con posizioni come quella di Carlo Giovanardi, secondo il quale il presidente del Senato sarebbe l’«ultimo nell’ordine a prestarsi a questo gioco al massacro delle istituzioni». Esplosioni di tifo a parte, paiono esserci solo due possibilità: o Minichini mente, è colpevole, è stato lui a riempire di botte Stefano Cucchi insieme con le altre due guardie carcerarie assolte, e questa però è un’ipotesi negata da due gradi di giudizio; oppure il pestaggio, che secondo i giudici c’è comunque stato, è avvenuto prima, ad opera dei carabinieri che lo hanno arrestato. A questo punto persino il sindacato della polizia penitenziaria Sappe non esita a dichiarare che «la verità su Cucchi deve emergere, se viene fuori non può che andare a nostro favore». Parole del segretario generale aggiunto Gianni De Blasis, che al Garantista chiarisce anche la questione della querela sporta nei confronti di Ilaria Cucchi: «Non ha a che vedere con il caso di Stefano ma con un episodio che si è verificato nello scorso mese di agosto, quando la signora Cucchi convocò una conferenza stampa e innescò un’incredibile campagna mediatica sulla presunta aggressione a un passante compiuta da un nostro agente a Roma, nei pressi del Verano. Coincidenza ha voluto che il deposito materiale della querela avvenisse in coincidenza della sentenza d’appello sulla morte di suo fratello Stefano, ma si tratta di due questioni distinte». Ma il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria sarebbe pronto a compiere un gesto di pacificazione nei confronti della famiglia Cucchi? «Assolutamente sì», risponde De Blasis, «non abbiamo nulla contro la famiglia, a cui esprimiamo tutta la solidarietà di questo mondo, hanno perso una persona cara, è un fatto gravissimo. Difendiamo semplicemente i nostri tre colleghi che sono stati accusati di averlo picchiato. Siamo sicuri che non hanno fatto niente». Viceversa De Blasis ricorda come Stefano Cucchi sia stato «tutta la notte in custodia dai carabinieri. Trasferito peraltro da una caserma all’altra intorno alle 3 del mattino». E quindi le perplessità rivelate da Minichini nell’intervista al Fatto quotidiano, con l’invito a indagare anche sull’Arma, corrispondono a un dubbio legittimo? «Sì, si tratta di un dubbio legittimo ed è l’unica cosa che ci sentiamo di dire. Oltre a ricordare la pena per uno dei nostri tre colleghi finiti sotto processo, scoppiato in lacrime nel protestare la propria innocenza e nel raccontare gli insulti subiti a scuola dai suoi figli, additati per un padre assassino che in realtà non aveva fatto nulla».

La mia innocenza è provata, scrive Nicola Minichini, Assistente capo polizia penitenziaria su “Il Tempo”. È la prima volta che intervengo pubblicamente su questo processo. E’ l’aula di Giustizia il posto per affrontare i processi, e lo è in primo luogo per chi è imputato di un grave fatto. E io all’interno del processo mi sono sempre difeso con forza, a fianco del mio avvocato Diego Perugini, da accuse che erano assolutamente infondate. Io non ho picchiato Stefano Cucchi né ho visto qualcuno farlo. Lo ho detto, lo ribadisco. Sono innocente e da innocente ho dovuto sopportare 5 anni di processo scanditi da una insopportabile clima mediatico. Il processo non è fatto per condannare innocenti, ma per stabilire se delle persone hanno commesso un reato sulla base di prove al di la di ogni ragionevole dubbio. Leggo che la Giustizia ha fallito perché ha assolto tutti gli imputati. Ma se mi avessero condannato ingiustamente avreste avuto Giustizia? È questa la Giustizia che cercate? Mi hanno giudicato due Corti: 4 Giudici togati. Magistrati seri, preparati, di lunga esperienza; ben 12 Giudici popolari. Persone “normali”, di varia estrazione culturale e sociale. Un Magistrato fa solo il suo lavoro. Ed è un lavoro difficile. Condanna se deve, assolve in caso contrario. Lo ho detto nel processo, lo ribadisco. Ho visto quel ragazzo solo dopo le 13,30 quel maledetto giorno. Vedendo che non stava bene, ho chiamato un medico. Se avessi visto qualcuno anche solo tentare di fare qualcosa a quel ragazzo, lo avrei impedito. Non ho mai ammesso la violenza. Mai e contro nessuno: figuriamoci contro un debole. Quante volgarità ho letto, quante ne sto vedendo. Mi hanno dipinto come un carnefice, un aguzzino. Persone codarde e vili che non mi conoscono. Ho letto di giudizi che non mi appartengono. Nessuno è autorizzato a parlare per me. Chi sfrutta la morte di un ragazzo per un minuto di popolarità non merita considerazione. Come padre ho condiviso totalmente il dolore dei familiari di Stefano Cucchi. E’ giusto cercare verità. Ma io sono Nicola Minichini e sono innocente. Rispettate anche questo.

Stefano Cucchi, l’agente assolto: “Arrivò già segnato. Indagate sui carabinieri”, scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano” del 5/11/2014. Parla Nicola Minichini, il poliziotto della penitenziaria che era finito alla sbarra per la morte di Stefano: "Ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutarlo, di più non avrei potuto". “Aveva già quei segni sotto gli occhi, lamentava mal di testa. Al medico che lo ha visitato ha detto di avere anche mal di schiena. E quel medico l’ho chiamato io, cinque minuti dopo averlo preso in consegna. Io non ho visto il pestaggio, non ho assistito, ma secondo lei, uno che appena vede l’arrestato in quelle condizioni chiama il medico…”. Nicola Minichini è un fiume in piena. Dopo cinque anni e due assoluzioni, uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti alla sbarra per la morte di Stefano Cucchi adesso chiede di essere lasciato in pace, “per non passare il resto della vita additato come un mostro”.

Minichini, può ricostruire quello che è accaduto nei sotterranei di piazzale Clodio il 16 ottobre 2009?

«Io ho ricevuto Cucchi alle 13:30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l’udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne, si fanno le domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva anche un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale. Si rifiutò di farsi visitare. Ferri gli somministrò una pillola per il mal di testa. Poi rientrò in cella. E dopo un’ora lo vennero a prendere i colleghi per portarlo a Regina Coeli».

Non notò nient’altro?

«Si alzò da solo, ma non di scatto, faceva fatica a camminare. Ma in cella entrò da solo».

Quindi la versione dell’altro detenuto, Samura Yaya, secondo cui Stefano si rifiutava di entrare e voi lo portaste dentro con la forza, non è vera?

«Nessuno dei 150 testimoni ha confermato quella versione. Senta, immagini questa situazione. In quei sotterranei transitano mediamente 30/32 arrestati al giorno, ci sono due agenti ogni arrestato più il personale di Villa Maraini più gli avvocati. Ma secondo lei è veramente possibile riempire di calci e pugni una persona senza essere notati? E per cosa, poi?»

Me lo dica lei: per cosa?

«Ecco, non lo so. Me lo devono ancora spiegare. Perché ci aveva chiamato “guardie”? Ma ci chiamano in tutti i modi, persino “secondini”. Perché Cucchi era un rompiscatole? Quaranta arrestati al giorno e sa quanti rompiscatole ci sono. Perché mi doveva far trovare qualcosa, mi doveva far fare carriera? E io sarei così pazzo da menare uno davanti a tutti? Io quel reparto l’ho aperto nel 1993 e da allora non ho mai avuto un problema».

Minichini, lei però non ha mai accusato nessun altro di averlo pestato. A questo punto avrebbe potuto farlo.

«Io non ho visto il pestaggio, se c’è stato io non c’ero. Quello che so per certo è che da noi non è successo niente».

Ma è certo che il pestaggio ci sia stato?

«Lo dicono le sentenze, non lo dico io. Per quanto mi riguarda, quei segni sotto gli occhi potevano anche essere il risultato dell’eccessiva magrezza. Però, gliel’ho detto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare il medico».

Quindi lei ha la coscienza a posto, pur sapendo che è morto un ragazzo di 31 anni e che a cinque anni di distanza non c’è ancora un colpevole.

«Io ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutare Cucchi, di più non avrei potuto».

Ha letto che adesso il procuratore capo Pignatone si è detto disposto a riaprire le indagini, qualora dovessero emergere nuovi elementi?

«Io me lo auguro e mi auguro che possano trovare qualcosa. Sarebbe ora di allargare gli orizzonti. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi».

Come si sente da “innocente”?

«Come uno che chiede giustizia. Per la famiglia Cucchi e per la mia. Senza un colpevole agli occhi dell’opinione pubblica sarò sempre quello del caso Cucchi. Ho dovuto spiegare ai miei vicini che non sono un mostro, pensi come mi sono vergognato. Anch’io cerco la verità, perché anch’io mi sento una vittima di questa storia.»

Ilaria Cucchi denuncia il perito dei pm: "Rassicurava gli agenti: vi assolveranno". Le contraddizioni dell'agente, scrive Laura Eduati su l'Huffington Post. La famiglia Cucchi vuole "una nuova indagine a tutto campo" e senza pregiudizi perché "Stefano è stato certamente pestato" e ora secondo i parenti la Procura di Roma dovrebbe dare un nome e un cognome a coloro che hanno picchiato il ragazzo, tanto da rendere necessario un ricovero alla sezione penitenziaria dell'ospedale romano Sandro Pertini, dove poi è morto. Molta fiducia viene riposta nelle parole di Samura Yaya, il detenuto del Gambia che sostiene di aver udito e visto il pestaggio nei sotterranei del Tribunale. E quelle celle di piazzale Clodio dove Stefano attendeva di essere processato per direttissima sono gestite dalla polizia penitenziaria. Tuttavia i Cucchi sono chiarissimi: "Non abbiamo preconcetti e non vogliamo un capro espiatorio". "Chi sa parli e spezzi la catena", è l'invito della sorella Ilaria Cucchi dopo avere incassato in poche ore la solidarietà di Matteo Renzi ("per me Cucchi come un fratello minore") e l'appoggio del presidente del Senato Piero Grasso ("sensibilizzeremo tutte le istituzioni a fare luce su questo caso"). La vicenda ha sollecitato il commento del presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Tesauro: "Lasciamo fare alla giustizia, che è lenta, molto lenta, ma alla fine un risultato lo si ottiene". Per la sorella di Stefano "siamo a punto di svolta" e dunque "chi sa parli". Perché per riaprire le indagini i magistrati romani, ora sollecitati con forza dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, devono avere nuovi indagati - un agente della polizia penitenziaria escluso dal primo processo o i carabinieri che arrestarono Cucchi e lo portarono in due diverse caserme nella notte precedente il processo per direttissima. Nessun componente dell'Arma è mai stato indagato per le botte, e proprio oggi il Fatto quotidiano pubblica l'intervista a Nicola Minichini, uno dei tre agenti assolti, che punta il dito contro i carabinieri: "Io ho ricevuto Cucchi alle 13.30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l'udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne si fanno le solite domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale". Minichini non aveva mai parlato in prima persona prima d'ora. Nel 2009, attraverso il suo legale Diego Perugini, aveva sostanzialmente ribadito che Stefano "stava male" e per questo "abbiamo chiamato il medico", respingendo l'ipotesi di aver partecipato al pestaggio. Durante il processo l'agente, come gli altri due colleghi imputati Antonio Dominici e Corrado Santantonio, si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Tranne nell'udienza del 31 ottobre, il giorno della sentenza, quando aveva rilasciato una sorprendente dichiarazione spontanea: "I segni che aveva Cucchi sotto gli occhi mi fecero pensare a una malattia, non ai lividi lasciati dalle botte", così ha spiegato alla corte, ritirando dunque i sospetti sui militari dell'Arma. Ecco perché quando Ilaria Cucchi ha letto le ultime dichiarazioni di Minichini, che parla nuovamente di botte e tira nuovamente in ballo i carabinieri, ha pensato che fossero un nuovo valzer degli imputati per distogliere l'attenzione dalla verità. Così preferisce non commentare. Anzi, chiede rispetto per gli agenti, i medici e "i futuri indagati". "Non non siamo quelli col medio alzato", dice riferendosi all'immagine scattata dopo la lettura della sentenza. Tuttavia Ilaria, insieme con i genitori Giovanni e Rita, non ha intenzione di attendere le mosse della Procura. Al termine della visita istituzionale in Senato ha depositato un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, dirigente del dipartimento di Medicina legale della Sapienza e consulente dei pm nell'inchiesta sulla morte di Stefano. Secondo la famiglia Cucchi il professore orientò l'indagine dei magistrati con una tesi preconcetta, dichiarata anche in una intervista al Tg5 pochissimi giorni dopo aver avuto l'incarico, e cioè che le lesioni inflitte al corpo del giovane Cucchi non fossero così gravi da provocare la sua morte. Una lettura che tendeva a diminuire le responsabilità dei rappresentanti delle forze dell'ordine e contemporaneamente accendeva i fari sul personale medico del Pertini. La perizia di Arbarello, scrivono i parenti del ragazzo, negava che le lesioni potessero essere causate dalle botte, negava che l'impossibilità di urinare di Stefano fosse imputabile a quelle lesioni, negava che quelle botte, il dolore e i traumi potessero aver provocato la morte. Non solo: dalle intercettazioni emerge che i consulenti di parte degli agenti imputati "ricevevano in qualche modo (da Arbarello, ndr) delle rassicurazioni sul fatto che sarebbe stata riconosciuta una 'morte naturale' di Stefano indipendente dalle lesioni subite". Il luminare inoltre faceva intendere "agli agenti e ai loro famigliari che la consulenza del pm li avrebbe alleggeriti rispetto alla responsabilità della morte di Stefano quale ipotizzata nell'iniziale capo di imputazione di omicidio preterintenzionale". Dopo il deposito della perizia, avvenuto il 10 aprile 2010, i magistrati si convincono che le lesioni sul corpo di Stefano Cucchi non hanno "alcuna valenza causale nel determinismo della morte" e dunque, il 29 aprile, cambiano il capo di imputazione nei confronti dei tre agenti a lesioni lievi e abuso di autorità. Ecco perché ora la famiglia spera che, al di là di nuovi indagati nel raggio d'azione della Procura, il processo sulla morte di Stefano si possa riaprire con nuove accuse, più pesanti. Intanto a dare manforte a Carlo Giovanardi, il senatore del Nuovo Centro Destra da sempre convinto dell'innocenza degli agenti di polizia, arriva un suo collega di partito, Roberto Formigoni. Con una tesi pressoché identica: "Stefano Cucchi è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente. Certo, quel che è successo in carcere va investigato fino in fondo".

Quando ero anche io poliziotto e dissi buonasera, scrive Marco La Greca su “Il Garantista”. Le foto di Stefano Cucchi di nuovo sui giornali. Storia nera. Storia di pestaggi da mani in divisa. Forse. E forse è per dimenticare che viene in mente un’altra piccola storia. Sembra una favola e, per certi versi, lo è. Un paio di vite fa indossavo la divisa anch’io. Dovevo fare il militare e in Polizia pagavano. Una notte mi spedirono al Laurentino 38, a Roma. C’era stata un’operazione antiprostituzione e servivano due agenti per piantonare i fermati. Arrivammo al posto di Polizia, il mio collega ed io, e trovammo un po’ di trambusto, con un’esagitata che minacciava di prendere a testate il muro: «Così poi dico che siete stati voi e vi faccio passare i guai». Non appena tornò la calma, ci rendemmo conto che nella rete della poderosa operazione della Questura erano rimaste impigliate due sole persone: una transessuale della Balduina (l’esagitata di cui sopra) ed una prostituta tedesca. La prima millantava frequentazioni e marchette presso tutta la Roma bene. La prostituta tedesca, per parte sua, non esitò un istante a dichiararsi, per l’appunto, una prostituta; quella sera, però, non era uscita per lavorare: era il giorno del suo compleanno, voleva festeggiare con le sue amiche, le sue amiche erano sul marciapiede e così le aveva raggiunte. Questo disse e noi, confesso, le credemmo. Nel corso della notte si stabilì una certa familiarità. La trans ci rivelò di essersi calmata perché il mio collega ed io, arrivando, ci eravamo presentati dicendole, come prima cosa, «buonasera». Pensa un po’. «Vedi? La forza di un atteggiamento democratico», filosofeggiai con il mio collega. Iniziammo a parlare di tante cose, eravamo tutti più o meno coetanei. Ogni tanto si univano ai discorsi anche gli altri due colleghi che erano in servizio per le ordinarie incombenze del posto di polizia. A notte fonda uno di loro uscì senza spiegarcene la ragione. Tornò, poco dopo, con cappuccini, cornetti e una bottiglia di spumante. Festeggiammo il compleanno della tedesca, tutti insieme. Auguri, cin cin e bacetto. Forse troppa familiarità. Ad un certo punto le due ospiti si addormentarono accucciandosi sui divanetti all’ingresso. Gli altri due colleghi già da un po’ si erano ritirati nelle stanze interne lasciando a noi la responsabilità della situazione. Prima uno, poi l’altro, ci addormentammo anche il mio collega ed io. Decisamente troppa familiarità. Quando mi svegliai di soprassalto, come prima cosa guardai l’orologio: erano le sei. Le due ospiti non c’erano più. Notai la finestra socchiusa e realizzai che ci eravamo addormentati senza adottare nessuna cautela per impedire un’eventuale fuga. «Tu e il tuo atteggiamento democratico del menga», mi maledissi. Spalancai la porta e mi precipitai fuori pensando che la mia carriera di poliziotto, forse non solo quella, fosse finita. Andai, ricordo, verso sinistra, e, incredibilmente, le trovai lì, davanti al posto di polizia, sedute sull’erba; parlavano tranquillamente. Erano uscite per vedere l’alba, mi dissero. Mi sedetti anch’io, vicino a loro, e insieme guardammo nascere il giorno. Fu un’alba senza sole, però con una luce speciale. Una luce che in questi giorni bui proprio non riesco a vedere.

"Io, poliziotto, chiedo scusa alla famiglia di Stefano Cucchi per l'oltraggio infinito". Ecco la lettera aperta su “L’Espresso” con cui un agente della questura di Bologna si rivolge ai parenti del ragazzo morto a Roma, dopo la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati e dopo la querela del Sappe alla sorella Ilaria. 04 novembre 2014 Servo lo Stato da 26 anni soltanto grazie a un prudente disincanto che mi permette ancora di sopravvivere tra le pieghe di quel medesimo nulla costituito per lo più da ingiustizie, bugie, miserie umane, silenzi, paure, sofferenze. Oggi intendo rompere quel silenzio cui si è condannati quasi contrattualmente da regolamenti di servizio che impongono e mitizzano l’obbedire tacendo, perché le parole pronunciate dal Segretario nazionale del Sap all’esito della pronuncia di assoluzione non restino consegnate anch’esse al fenomeno di cui sopra. Il diritto di parola consentito al Segretario nazionale del Sap gli ha permesso di esprimere “La piena soddisfazione per l’assoluzione di tutti gli imputati” con una disinvoltura che abitualmente può trovare applicazione esclusivamente in uno stadio dove l’unica forma di dolore può derivare abitualmente da un goal mancato e non già dalla morte violenta di un giovane celebrata in un’aula di Giustizia. "Sono convinto che potrebbe ricapitare altre volte, se questo clima perdura". Così Giovanni Cucchi, padre di Stefano, entrando nel tribunale di Roma per incontrare il procuratore capo della Capitale Giuseppe Pignatone. "Le parole del Sap? Sono sempre le stesse. Per tutti i ragazzi morti sono sempre le stesse frasi" ha detto invece Rita, la madre del geometra romano, in merito alle polemiche scatenate dal segretario del sindacato di polizia Sap “Bisogna finirla in questo Paese di scaricare sui servitori dello Stato la responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo della condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Queste parole, in un contesto democratico che ne apprezzasse il loro peso, sortirebbero reazioni, conseguenze, interrogativi e dibattiti sul loro senso, sull’utilità e gli effetti di questa allegra scampagnata lessicale sul dolore di una famiglia nonché una minima inchiesta semantica sul concetto di vita dissoluta e al limite della legalità. Sarebbe da attendersi dal Segretario la spiegazione su quanto realmente produca paura in questo Paese e se l’abuso di alcol e droghe sia causa di morte per lesioni e se vi sia qualcosa di più dissoluto di un diritto calpestato. Andrebbe preteso che ci chiarisse se quelle parole siano rappresentative di tutto l’universo della Polizia o invece siano la personale interpretazione di un dramma o la recensione di un abominio. E ancora gli andrebbe richiesto se il silenzio seguito alle sue parole sia l’indicatore di un Paese dove domina sul diritto l’incertezza, sulla complessità della vita l’omologazione, sui drammi umani l’assenza di indignazione e l’ignavia. Per questo chiedo scusa alla famiglia Cucchi per questo oltraggio infinito, per questa deriva che non può rappresentare la totalità degli appartenenti alle forze di polizia neppure quelli a cui per regolamento è precluso il diritto di indignarsi e di affrancarsi dalla convivenza col divieto di opinione. Nel dubbio, semplicemente nel dubbio. Francesco Nicito, agente della Questura di Bologna.

Filippo Facci su Stefano Cucchi: "Quella verità che non si vuole accettare", scrive su “Libero Quotidiano”. C’è da rimanere un po’ straniti. In teoria sul caso Cucchi non dovrebbe ripartire nessuna nuova indagine, a meno che emergano delle novità che farebbero riaprire qualsiasi processo come prevede l’istituto della revisione. E a meno che il procuratore di Roma segue dalla prima Giuseppe Pignatone, con una procedura sicuramente non aliena alla pressione mediatica, non decida di andare a scovarsi personalmente le novità: rileggendo le carte del processo così da inventarsene un altro, un Cucchi-bis. Ma questo potrebbe avvenire solo a carico di altri soggetti, per esempio i carabinieri che nel 2009 arrestarono Cucchi e lo portarono in tribunale per l’udienza di convalida. Loro, in effetti, non furono neppure mai indagati, diversamente da alcuni agenti di polizia penitenziaria prosciolti due volte. Ora la procura potrebbe dirottarsi sui carabinieri - a grande richiesta - ma difficilmente sarà una revisione «a tutto campo», come titolava il Corriere online di ieri: non c’è più campo, infatti. Rimanere perplessi comunque è il minimo. Nella mattinata di ieri era sembrato che i giornali avessero titolato il falso nel tentativo d’intercettare un’indignazione comprensibilmente diffusa: «L’inchiesta può ripartire» (Corriere della Sera) o ancora «Riapriremo le indagini» (Il Fatto Quotidiano) anche se l’inchiesta e il processo in realtà sono chiusi: manca la Cassazione, ma dovrebbe essere solo un controllo di legittimità, ovvio. La sensazione, soprattutto a margine della spaventosa pressione mediatica che sta riguardando il caso Cucchi, è che questo Paese ancora una volta stia tentando di sfuggire a un caposaldo dello stato di diritto: cioè che la verità e la verità giudiziaria possono non coincidere. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti i medici che dovevano curare Stefano Cucchi, ma conosciamo le carte del processo d’Appello perché sono identiche a quelle del primo grado: gli imputati, del resto, sono stati assolti sulla base degli stessi elementi in base ai quali dapprima erano stati condannati. Sicché, in primo luogo, ci sarebbe da chiedersi per quale ragione un giudice avrebbe dovuto forzare delle assoluzioni così impopolari, se non ne fosse stato convinto in punto di diritto. La risposta, a guardar le carte, rischia di essere molto impopolare e dolorosa: perché di prove a carico di singoli - nella sentenza di primo grado - purtroppo non se ne vedono. Ma in questo Paese è ancora molto difficile distinguere tra ciò che sembra evidente e ciò che risulta provabile. Esiste la verità: ma non esiste necessariamente una conseguente verità giudiziaria che sia dimostrabile nel corso di un processo. La verità sostanziale del caso Cucchi la conosciamo tutti: c’è un colpevole che si chiama Stato, perché uno Stato che prende in consegna un cittadino e poi se lo ritrova morto per incuria, beh, è uno stato colpevole e da Terzo mondo. Colpevole, di conseguenza, è oggettivamente l’intera filiera che ha riguardato la vicenda di Stefano Cucchi: si parte dal carabiniere che nel verbale d’arresto non trascrive i dati di Cucchi ma, per sbaglio, trascrive quelli di un albanese senza fissa dimora, e impedisce così che il detenuto possa fruire degli arresti domiciliari; ci sono i carabinieri che secondo la perizia possono aver picchiato Stefano Cucchi nei sotterranei del tribunale, o che, sempre secondo le perizie, possono anche non averlo fatto, perché il ragazzo era già malmesso di suo ed era già stato più volte al pronto soccorso per via della vita che conduceva da spacciatore acclarato; c’è, poi, il giudice che in ogni caso non si accorse di nulla nonostante le ecchimosi e le tumefazioni che il ragazzo già presentava; c’è il medico di Regina Coeli secondo il quale il detenuto era improbabilmente «caduto dalle scale», come del resto gli aveva raccontato Stefano stesso; e c’è naturalmente tutto il personale medico che cedette con sciatteria alle riluttanze di Cucchi, il quale rifiutava le cure (faceva lo sciopero della fame e respingeva le flebo, anche se era ipoglicemico) talché i medici neppure si accorsero che quella specie di scheletro vivente, che all’arresto pesava 43 chili nonostante fosse alto 1 e 76, in punto di morte era ormai ridotto a 37 chili. Fanno parte della filiera anche i regolamenti stupidi e le burocrazie ottuse: quelle che hanno impedito all’avvocato della famiglia di arrivare per tempo - Cucchi ne ebbe uno d’ufficio - e quelle che impedirono alla famiglia di vedere Stefano sino al lunedì della sua morte. Tutto questo, e altro, compone l’imperdonabile colpa di uno Stato che forse non ha ucciso Cucchi, ma l’ha accompagnato indifferente a morire. Cambia poco, per una famiglia e, nel nostro piccolo, per la nostra rabbia. Cambia poco anche se lo Stato ha già riconosciuto la sua colpa: la struttura ospedaliera che ha lasciato morire Stefano ha già risarcito la famiglia con un milione e 340mila euro, e altre cause probabilmente seguiranno. Giustamente. Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Quello che è mancato, nel processo, è un singolo atto compiuto o non compiuto che abbia verosimilmente causato la morte di Stefano Cucchi. Sono mancate le responsabilità personali che permettessero a un giudice di dire «tu sei un omicida» a una guardia, a un giudice, a un medico o a un infermiere: al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice. Ma la rabbia e il dolore, dei dubbi, non sanno che farsene.

Il giorno dopo il clamore sulla riapertura delle indagini, i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy si sono sfogati con il procuratore capo. “Ma quale sciatteria? Abbiamo sentito oltre cento persone. La famiglia Cucchi sa che alle 10 di sera del 23 dicembre eravamo ancora qui a interrogare gente”…, scrive Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica”. «Ora basta, sul banco degli imputati non possiamo finire noi. Su questo processo abbiamo lavorato giorno e notte, anche di domenica. Abbiamo la coscienza a posto, non potevamo fare di più». Bersagliati da giorni dalle accuse di Ilaria Cucchi. Presi di mira dall’opinione pubblica. Inchiodati «dall’insufficienza di prove». Alla fine sotto accusa ci si sono sentiti loro, i due pm che hanno fatto le indagini sul caso Cucchi. Che, per giunta, ieri mattina sulla prima pagina di tutti i giornali hanno trovato l’apertura del loro procuratore capo Giuseppe Pignatone alla possibilità di riaprire le indagini. Parole che suonavano come un atto di sfiducia nei loro confronti. Così ieri pomeriggio, subito dopo l’incontro con Ilaria Cucchi, i due pm sono andati a parlare col capo. Vincenzo Barba e Francesca Loy si sono lamentati dei titoloni sui quotidiani e hanno difeso il loro lavoro dalle accuse della famiglia Cucchi e da quelle, più velate, di alcuni giudici. Non da ultimo il presidente della Corte d’Appello, Luciano Panzani, che, sabato, aveva parlato di «assoluzione per insufficienza di prove». E anche in quel caso, la lettura era stata solo una: bocciatura dell’inchiesta che non è riuscita a scoprire chi ha ammazzato il geometra romano. Il solo pensiero di riprendere in mano quel fascicolo pesa come un macigno sui due magistrati: è stato un processo difficile per tutti. Loy e Barba non ci stanno a essere sconfessati. Ed è proprio per questo che, dopo il confronto, hanno chiesto al loro capo di guardare le carte. «Sarai tu a dirci se abbiamo sbagliato qualcosa, trascurato qualche elemento». Loro pensano di avere fatto tutto il possibile ed escludono che possano emergere elementi nuovi. Hanno schivato per giorni i cronisti. Lo hanno fatto anche ieri. Ma si sono sfogati con gli amici che li hanno cercati per esprimere solidarietà. Hanno passato la giornata a riguardare gli atti del processo, a snocciolare i dettagli di un’indagine che conoscono a memoria. «Ci accusano di essere stati sciatti — spiegano ai colleghi — Abbiamo sentito oltre cento persone, disposto due consulenze in contraddittorio, una il 22 ottobre con l’autopsia, l’altra il 16 novembre, durante la riesumazione. Basti pensare che il gip ha rigettato la richiesta di perizia perché ha ritenuto che la nostra fosse sufficiente. Poi c’è stata quella della Corte d’Assise: sei medici che hanno sostanzialmente confermato la tesi dei nostri esperti». Cucchi era morto per malnutrizione. Le loro stanze sono un via vai continuo. E loro, provati, ripetono ai colleghi che in questo processo sono state fatte 40 udienze in Corte d’Assise e che certo non si può dire che non ci hanno creduto. «Siamo stati noi a fare appello contro la sentenza di primo grado che aveva condannato solo i medici». La premessa è sempre la stessa. Stefano non doveva morire, ma gli attriti con la parte civile di sicuro non hanno aiutato. Anzi. «La famiglia avrebbe voluto che noi contestassimo l’omicidio preterintenzionale, ma non c’erano elementi per farlo». L’interesse mediatico. E in cui gli interessi in gioco erano molti. Rivendicano di avere fatto personalmente tutti gli accertamenti, non delegando alcuna indagine per non perdere nemmeno un dettaglio. «Anche la famiglia Cucchi sa che il 23 dicembre alle 10 di sera eravamo ancoro qui a interrogare persone». Sanno, i due pm, che la ricostruzione vacillava in alcuni punti. Sono consapevoli di non aver saputo dare un nome a chi ha picchiato Stefano. Ma precisano che «gli agenti della polizia penitenziaria hanno parlato solo la prima volta che sono stati sentiti come testimoni, negando di avere visto alcunché. E poi, dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere. Anche a processo». Eppure erano gli unici tre in servizio quella mattina. Poi c’è il processo. Che non sempre va come ci si augura. Vale ad esempio per il testimone di punta della Procura, Samura Yaya, detenuto quella mattina del 19 ottobre insieme a Stefano Cucchi: secondo i pm «affidabilissimo». Ma della sua testimonianza, resa in incidente probatorio, la Corte d’Assise non ha tenuto conto. E probabilmente nemmeno quella d’appello. «Errori? No. Solo la dialettica, fisiologica, del processo». E una sentenza d’assoluzione che, certo, non fa piacere nemmeno a loro.

Un anno fa, al momento di firmare l’accordo con l’ospedale, Ilaria Cucchi dichiarò: "Abbiamo accettato soltanto con la garanzia del nostro avvocato di poter continuare la battaglia processuale contro gli agenti. Altrimenti non avremmo accettato nessuna somma". Insomma, poliziotti sì, medici no…scrive Dagospia. “Come mai nessuno ricorda che la sorella di Stefano Cucchi, oltre a candidarsi per la lista Ingroia, ha ottenuto e incassato € 1.340.000 dall'Ospedale Pertini (il 2 Novembre 2013) quale indennizzo e con la clausola di non presentarsi parte civile contro questa struttura e relativi indagati (medici e infermieri) nel processo di Appello? La cifra è stata liquidata da Unipol Assicurazioni. ps - Questo indennizzo permetteva loro di presentarsi parte civile contro i poliziotti indagati per il pestaggio. L'accordo dei Cucchi prevede che chi l'abbia poi curato non è per loro rilevante”.

Scrive “La Repubblica” del 02.11.2013. E' di un milione e 340mila euro la cifra che l'ospedale Pertini verserà alla famiglia Cucchi per il risarcimento del danno conseguente alla morte di Stefano, deceduto il 22 ottobre del 2009 proprio nel nosocomio romano, una settimana dopo il suo arresto per droga. La cifra è stata ufficializzata oggi, dopo le indiscrezioni uscite nei giorni scorsi per la notizia dell'avvenuto tra le due parti accordo sul risarcimento. I soldi verranno versati dall'assicurazione Unipol ai genitori, alla sorella e ai nipotini di Stefano per conto della struttura che ha visto i suoi medici condannati in primo grado per omicidio colposo. I Cucchi escono così dal processo d'appello: non saranno parte civile contro i camici bianchi (il primario Aldo Fierro condannato a due anni, i medici Stefania Cordi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo a un anno e 4 mesi e Rosita Caponetti a otto mesi per falso ideologico). Il risarcimento, infatti, sostituisce ogni rapporto civilistico. Saranno invece ancora tra le vittime per quanto riguarda gli agenti della polizia penitenziaria, assolti dalla Corte d'Assise ma colpevoli, secondo Ilaria, della morte di suo fratello. "I medici hanno fatto gravissimi errori ma devono esser assicurati alla giustizia coloro che lo hanno pestato. Non avremo pace fino a che giustizia non sarà fatta". Nei giorni scorsi Ilaria Cucchi aveva precisato: "Abbiamo accettato soltanto con la garanzia del nostro avvocato di poter continuare la battaglia processuale contro gli agenti. Altrimenti non avremmo accettato nessuna somma". E oggi il legale Fabio Anselmo ha ribadito: "Il risarcimento è limitato esclusivamente alla responsabilità sanitaria. L'obiettivo della famiglia è quello di avere giustizia non a metà, ma a 360 gradi. Per questo, andremo in appello anche e soprattutto sulla posizione degli agenti per i quali con soddisfazione la Procura generale ha chiesto alla Corte d'assise d'appello un giudizio completo e non limitato". Quanto al processo, l'appello contro la sentenza di primo grado che ha condannato per omicidio colposo (e non per abbandono d'incapace come chiesto dall'accusa) 5 dei 6 medici imputati (un sesto è stato condannato per falso ideologico), mandando assolti 3 infermieri e 3 agenti della penitenziaria, è stato proposto non solo dai pm ma anche dalla procura generale. La finalità dell'appello firmato dal sostituto procuratore generale Mario Remus è quella di formulare una serie di osservazioni "per togliere eventuali dubbi" sulla configurazione dei reati e sulle condanne da infliggere, nella consapevolezza che "la Corte d'Assise d'appello potrà esaminare l'intero quadro probatorio, comprese le configurazioni giuridiche più appropriate". Il Pg si 'scaglia' contro la decisione della Corte d'assise di concedere agli imputati condannati le attenuanti generiche ("Tali statuizioni sono state fatte in violazione di legge", si legge nelle 4 pagine tecniche), concludendo con la richiesta "di dichiarare la penale responsabilità degli imputati, applicando le pene che saranno chieste dal rappresentante del Pubblico Ministero in udienza".

·         Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.

Caso Cucchi, procedimento contro chi trasferì Casamassima. Adnkronos il 14 settembre 2019. Sulla vicenda Cucchi adesso irrompe l'Anac. A quanto apprende l'Adnkronos l'organismo di controllo anticorruzione, dopo aver ricevuto alcune segnalazioni di esponenti del Movimento cinque stelle e del Gruppo Misto, ha riscontrato irregolarità nella gestione del trasferimento dell'appuntato dei carabinieri Riccardo Casamassima, diventato "supertestimone" dell'inchiesta sulla morte del giovane Stefano Cucchi. In particolare l'Anac ha definito "sussistenti" i presupposti per l'avvio di un procedimento nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento di Casamassima che in passato denunciò di essere stato "trasferito e demansionato per aver testimoniato" al processo Cucchi. L'Anac ha così comunicato "l'avvio del procedimento sanzionatorio" ai sensi del "Regolamento sull'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro", il cosiddetto “whistleblowing”. Nelle motivazioni del provvedimento l'Anac riferisce quanto espresso dall'appuntato Casamassima il quale ha riferito di aver subito "numerose ritorsioni" sul luogo di lavoro. "Il whistleblower riferisce, inoltre, di aver subito presso la Scuola Allievi un ulteriore demansionamento, consistente nella sua assegnazione all’Ufficio Servizi presso il quale non avrebbe svolto alcuna mansione. La completa inattività alla quale Casamassima sarebbe stato costretto - aggiunge l'Anac - avrebbe quindi indotto quest’ultimo a richiedere la riassegnazione alla precedente e già demansionante attività di apertura e chiusura del cancello di ingresso della Scuola Allievi". L'Arma ha sempre respinto le accuse contenute nella versione di Casamassima e in tutte le sedi ha rimarcato la correttezza dei provvedimenti presi anche a tutela dell'Istituzione. Contattate dall'Adnkronos fonti dell'Arma spiegano "di attendere l'esito del procedimento" Per l'Arma infatti il trasferimento dell'appuntato dall'8° Reggimento Lazio alla Legione Allievi Carabinieri è arrivato a 3 anni dalle dichiarazioni rese nel caso Cucchi in quanto Casamassima più volte si era lamentato con i vertici su circostanze negative nei rapporti con altri carabinieri. Per l'Arma il trasferimento aveva avuto l'unico scopo di rasserenare Casamassima fornendogli un ambiente di lavoro più favorevole. Anche sul “'demansionamento” l'Arma ha sempre respinto l'accusa spiegando che ancorché non operativo, il compito assegnato a Casamassima coincide con quelli assegnati a suoi pari grado e non ha avuto ricadute economiche negative per l'appuntato. Nella sua difesa, l'Arma aveva rimarcato come il cambio di mansione era dovuto anche ad una richiesta dello stesso Casamassima di non svolgere turni che gli avrebbero reso difficoltosa la gestione della vita familiare. L'Arma dunque ha sempre respinto le accuse lanciate da Casamassima ma non è stata creduta dall'Anac sul fronte del "ripetuto rigetto - scrive l'autorità anticorruzione - di domande di trasferimento legittimamente avanzate per il ricongiungimento al coniuge lavoratore nonché in una generale azione di screditamento della sua persona". Casamassima è finito al centro del processo Cucchi e ha diviso l'opinione pubblica. C'è chi considera le sue rivelazioni un contributo fondamentale e coraggioso per la riapertura del caso, anche sul fronte del coinvolgimento di alcuni ufficiali dell'Arma nei presunti depistaggi. Altri invece nutrono dubbi sul personaggio in passato finito in vicende che sono tutt'ora al vaglio del tribunale e non hanno ad oggi alcun giudicato definitivo. Casamassima infatti torna in storie giudiziarie legate a questioni di droga. In una non avrebbe comunicato all'autorità giudiziaria presunti fatti di reato (su questa vicenda è in corso il primo grado) su un'altra, dove pende ancora una richiesta di rinvio a giudizio per lui e per la compagna, è accusato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. L'avvocato Serena Gasperini accoglie "con soddisfazione" l'avvio del procedimento sanzionatorio, da parte dell'Anac, nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento per Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri divenuto teste-chiave al processo per la morte di Stefano Cucchi. "Evidentemente le sue dichiarazioni e le sue motivazioni sono state riconosciute come fondate", dice l'avvocato Gasperini all'Adnkronos. Il graduato dell'Arma "è stato convocato dall'Anac, gli sono state poste domande e sono stati acquisiti documenti. Casamassima, che è stato oggetto di una campagna volta a screditarlo, è stato considerato credibile. Evidentemente -aggiunge- la coincidenza tra le dichiarazioni di Casamassima e i trasferimenti ha lasciato qualche dubbio e l'Anac ha voluto analizzare a fondo la vicenda".

·         Cucchi, processo sui depistaggi:  a giudizio  8 carabinieri.

Cucchi, processo sui depistaggi:  a giudizio  8 carabinieri. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Comincia con un colpo di scena il procedimento sui depistaggi del caso Cucchi. Si astiene per incompatibilità Federico Bonagalvagno, il giudice del cosiddetto processo ter. Bonagalvagno ha giustificato la sua astensione spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. Il processo sarà seguito dalla collega Giulia Cavallone: al via il cosiddetto Cucchi ter che punta a ricostruire quanto avvenne all’indomani della morte di Stefano Cucchi. Alla prima udienza hanno depositato la richiesta per la costituzione di parte civile, tra gli altri, il ministero della Giustizia e l’associazione Antigone. Secondo l’accusa, rappresentata dal pm Giovanni Musarò, un gruppo di carabinieri, alcuni dei quali ai vertici dell’Arma, falsificò i rapporti per coprire il pestaggio eseguito da due dei militari che arrestarono il ragazzo lanotte del 15 ottobre 2009. Si tratta di Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Massimiliano Colombo Labriola, Francesco Di Sano e Luciano Soligo, imputati al processo ter per falso ideologico. Altri due ufficiali contribuirono al depistaggio quando nel corso della seconda indagine sul caso Cucchi omisero di denunciare i falsi affiorati dai verbali dell’Arma. Per questo sono alla sbarra gli ufficiali Lorenzo Sabatino e Tiziano Testarmata. Infine il militare Luca De Cianni avrebbe manipolato un’annotazione di servizio attribuendo false dichiarazioni a un collega, Riccardo Casamassima, che aveva offerto il proprio contributo all’indagine bis, denunciando ciò che sapeva. Al processo, oltre ai familiari, sono parti civili la presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero della Difesa, l’Arma dei carabinieri, il ministero dell’Interno, gli agenti della polizia penitenziaria processati ingiustamente, il carabiniere Riccardo Casamassima e la onlus Cittadinanza attiva. In tutto, dunque, si tratta di otto imputati. Nel decreto che dispone il loro rinvio a giudizio sono ricostruite le singole responsabilità. In particolare Casarsa (ex comandante del gruppo Roma, di recente promosso a Capo di Stato Maggiore del Comando unità e specializzate “Palidoro”), Cavallo, Soligo, Colombo Labriola e Di Sano avrebbero modificato l’annotazione di servizio che riferiva le condizioni di salute di Cucchi attestando che il ragazzo «riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la accentuata magrezza». Ecco, in questo passaggio, compare per la prima volta l’accenno pretestuoso al peso di Cucchi come alla causa del suo malessere, discendente invece dall’avvenuto pestaggio. Quanto a Sabatino e Testarmata, di fronte alle annotazioni fasulle sulle condizioni di salute di Cucchi, emerse dai verbali dell’Arma, «omettevano di presentare denuncia per iscritto all’autorità giudiziaria» scrive la gip Antonella Minunni. Infine De Cianni attestava che «Cucchi si era procurato le lesioni più gravi compiendo atti di autolesionismo» e che «Casamassima avrebbe chiesto una somma di denaro aIlaria Cucchi in cambio di dichiarazioni gradite alla stessa Cucchi». L’avvio del Cucchi ter precede di due giorni la sentenza sull’altro processo quello per il pestaggio di Stefano Cucchi. Il 14 novembre è attesa la decisione del presidente della I Corte d’assise Vincenzo Capozza.

Da repubblica.it il 12 novembre 2019. Comincia con un colpo di scena il processo che riguarda i depistaggi sul caso Cucchi, il giovane detenuto morto nel 2009 all'ospedale Pertini di Roma. In apertura dell'udienza, la prima su altri otto carabinieri imputati, il giudice monocratico Federico Bona Galvagno, si è astenuto dal processo. Bona Galvagno si è giustificato spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. L'astensione c'è stata a seguito della richiesta sollevata dagli stessi familiari di Cucchi, che da fonti aperte avevano visto che il giudice è un carabiniere in congedo. Tutto rinviato. La prossima udienza che si dovrà pronunciare sugli 8 carabinieri imputati, con un nuovo giudice, si svolgerà il 16 dicembre. E' già stata designata Giulia Cavallone. Tutto è successo mentre si avvia a conclusione il processo principale sulla morte di Stefano Cucchi, nato dall'inchiesta su cinque carabinieri. Sentenza questa prevista per il 14 novembre. Stamani a piazzale Clodio si apriva invece il filone del procedimento, il cosiddetto Cucchi ter, che vede imputati otto militari per i depistaggi. Tra di loro, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono imputati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'Arma dei Carabinieri si è costituita parte civile insieme, tra gli altri, alla Presidenza del Consiglio, e alla famiglia Cucchi. Anche il ministero di Giustizia ha presentato istanza di costituzione. L'inchiesta del pm Giovanni Musarò ruota attorno alle annotazioni redatte da due piantoni dopo la morte del geometra romano e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che il giovane lamentava la notte dell'arresto dopo il pestaggio subito nella stazione della compagnia Appia.

Cucchi, si astiene il giudice del processo sul depistaggio. Simona Musco 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. Le ragioni: «Sono un ex carabiniere». Al processo sulla morte del ragioniere i legali chiedono l’assoluzione degli imputati: «nessun nesso tra il pestaggio e la morte». Nella settimana in cui verrà pronunciata la sentenza nei confronti dei cinque militari imputati per la morte di Stefano Cucchi, si apre con l’astensione del giudice Federico Bona Galvagno il processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine del 31enne romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il colpo di scena è arrivato in apertura dell’udienza, quando il giudice ha spiegato di non poter giudicare il caso in quanto ex carabiniere attualmente in congedo. Una decisione presa a seguito della richiesta dei legali della famiglia Cucchi, che ne avevano chiesto l’astensione dopo aver saputo, da fonti aperte, di alcuni convegni organizzati proprio da Bona Galvagno con la presenza di alti ufficiali dell’Arma. Il nuovo giudice monocratico nominato è Giulia Cavallone. Gli imputati sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Nel corso dell’udienza di oggi, il ministero della Giustizia ha presentato istanza di costituzione di parte civile. Tra le parti già costituite ci sono la presidenza del Consiglio dei ministri, l’Arma, il ministero della Difesa e quello dell’Interno. Nella lista dei testi della difesa di Casarsa, invece, c’è anche il primo pm che si è occupato della vicenda di Stefano Cucchi, il sostituto procuratore Vincenzo Barba. L’avvocato Carlo Longari lo ha inserito tra i suoi testimoni per la vicenda della relazione medica dell’ottobre del 2009 che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia del giovane geometra, di cui il Comando Provinciale dei carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. Sul punto citato come teste anche il generale Vittorio Tomasone, all’epoca numero uno del Comando provinciale. Si è detta soddisfatta dell’astensione Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, mentre indignazione è stata espressa dall’ex ministro Carlo Giovanardi, di Idea, popolo e libertà, già in passato entrato in polemica con la famiglia Cucchi per aver detto che ad uccidere il giovane sarebbe stata la droga. «Non soltanto il processo ai Carabinieri per la morte di Stefano Cucchi si svolge in una pressione mediatica che ne dà già per scontato l’esito prima ancora della sentenza di primo grado – ha commentato – ma passa il principio che un magistrato che abbia servito, sia pure di leva, nell’Arma e frequenti i Carabinieri non può esercitare la sua funzione quando sono imputati dei Carabinieri. Spero che non sfugga – ha aggiunto – l’enormità di questo pregiudizio, che ha indotto il giudice ad astenersi su richiesta della famiglia Cucchi, che aveva avanzato il sospetto di ombre sull’imparzialità del magistrato. Mi chiedo e lo chiedo alle istituzioni di questo Paese che cosa dovrebbe accadere, in base a questo precedente, tutte le volte che un magistrato viene chiamato a giudicare su di un altro magistrato». Nel corso del processo bis sulla morte del giovane, invece, i legali di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro – per i quali il pm Giovanni Musarò ha chiesto la condanna a 18 anni – hanno chiesto l’assoluzione dei propri assistiti, puntando il dito contro Francesco Tedesco, l’imputato che poi ha svelato il pestaggio subito da Cucchi accusando i suoi due colleghi. «Quello che dice non è oggettivo», hanno contestato i legali. «La morte di Stefano Cucchi è stata una perdita grave e ingiusta per la famiglia. Ma in questo processo si sta facendo una caccia alle streghe perché si deve trovare il colpevole di una morte ingiusta, non di un omicidio», ha sottolineato l’avvocato Antonella De Benedictis, difensore del carabiniere Di Bernardo, accusato di omicidio preterintenzionale. per la penalista, «non c’è un nesso diretto tra il pestaggio e l’evento morte, e in mezzo ci può essere stato un errore medico se è vero che Cucchi è morto per la crescita abnorme del globo vescicale dovuto all’ostruzione del catetere».

Ilaria Cucchi il 12 Novembre 2019 sulla sua pagina Facebook. "Ascoltando i difensori degli imputati che oggi ammettono tranquillamente il pestaggio inflitto a Stefano, non posso non pensare quanto esso sia stato ostinatamente negato dal prof. Paolo Arbarello, consulente della Procura nominato per l’esecuzione dell’autopsia sul suo corpo. Non posso non pensare alla prima perizia Grandi - Cattaneo che ipotizzando anche la caduta ha fatto morire mio fratello di fame e di sete. Non posso non pensare al braccio di ferro tra la Corte d’Assise di Appello e la Suprema corte di Cassazione sulla responsabilità dei medici per la sua morte. La prima assolve e riassolve. La seconda annulla e riannulla quelle assoluzioni. Un rimpallo di 4 sentenze. Si tratta di un processo sbagliato. Drammaticamente sbagliato. Anche questo processo andrà a sentenza il 14 novembre insieme a quello ben più importante in corso contro i veri responsabili della morte di Stefano. I reati contro i medici sono tutti prescritti. Ma si va avanti lo stesso contro di loro. Perchè? Perchè penso che verranno ancora una volta assolti nonostante le loro evidenti responsabilità. Nonostante la durissima ultima sentenza della Suprema Corte. È un mio pensiero. È solo un mio pensiero. Non si dichiarerà la prescrizione e questo sperano i difensori di D’Alessandro e Di Bennardo. Attendo il 14 novembre. Io ed i miei genitori siamo allo stremo delle forze. Mamma e papà sanno già di essere condannati all’ergastolo di processi che si protrarranno fino alla fine della loro vita. Comunque, grazie al lavoro dei PM Pignatone e Musarò, la verità è venuta a galla anche in un aula di giustizia ma c’è sempre qualcuno pronto a metter i bastoni tra le ruote di una Giustizia sempre più difficile da comprendere e spesso troppo lontana dai cittadini comuni in nome dei quali dovrebbe operare.

·         Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.

·         Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma:  12 anni ai due carabinieri.

Cucchi: prescrizione per quattro medici, uno assolto. Attesa la sentenza sui carabinieri. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. Sentenza appello ter, prescrizione per quattro medici e uno assolto. È quanto deciso dai giudici della Corte d’Assise di Appello di Roma per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi. Ad essere assolta la dottoressa Stefania Corbi. Accuse prescritte per il primario del reparto di Medicina protetta dell’ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è «per non commesso il fatto». Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici dell’ospedale Pertini ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l’accusa di abbandono d’incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d’Appello confermarono l’assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi. Ecco la prima delle due sentenze che ricostruiscono il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi e che vedono sul banco degli imputati sia i carabinieri che lo ebbero in custodia la notte del 15 ottobre 2009 che i medici dell’ospedale Sandro Pertini che lo curarono durante i giorni della detenzione fino al decesso il 22 ottobre 2009. Quanto ai militari Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, invece, sono imputati di omicidio preterintenzionale. Secondo il capo d’imputazione «in concorso fra loro colpendo Cucchi con schiaffi, pugni e calci, provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale, cagionavano al predetto lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni» ma che unite alle omissioni dei medici del Pertini che lo ebbero in cura portarono il ragazzo alla morte. Stando all’accusa del pm Giovanni Musarò, che ha sollecitato per i due imputati una condanna a 18 anni di carcere, D’Alessandro e Di Bernardo sarebbero stati responsabili di tumefazioni al viso, ecchimosi del cuoio capelluto e delle palpebre, fratture delle vertebre e infiltrazioni emorragiche in varie parti del corpo. L’indagine delegata alla Squadra Mobile di Roma ha ricostruito che le lesioni inferte a Cucchi determinarono una sorta di piano inclinato che condusse alla sua morte. C’è poi la posizione di Francesco Tedesco. Nei suoi confronti l’accusa aveva chiesto l’assoluzione per le percosse (il militare che aveva confermato il pestaggio ad opera dei suoi due colleghi, non vi aveva preso parte e anzi, aveva cercato di fermarlo) ma la sua condanna per aver falsificato il verbale d’arresto di Cucchi. Infine per Roberto Mandolini erano stati chiesti otto anni sempre per reato di falso, collegato al verbale d’arresto che fra le altre cose attestava un fotosegnalamento mai avvenuto. L’attesa verso le due sentenze è più che comprensibile. Non solo perché, trascorsi dieci anni, la famiglia di Stefano Cucchi si aspetta un punto fermo nella vicenda, ma anche perché il pronunciamento dei giudici influirà sul terzo processo Cucchi, quello relativo ai depistaggi e che vede otto militari dell’Arma indagati per reati che vanno dal falso all’omessa denuncia all’autorità giudiziaria. Dice Ilaria Cucchi: «La nostra famiglia è arrivata esausta a questo appuntamento. Ci aspettiamo giustizia». 

Cucchi, fu omicidio:  12 anni ai due carabinieri.  Il baciamano del militare  in aula alla sorella Ilaria. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Responsabili del delitto loro ascritto al capo A», dice il presidente della corte d’assise Vincenzo Capozzi. Significa colpevoli della morte di Stefano Cucchi, un pestaggio che s’è trasformato in omicidio preterintenzionale. Per questo i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono condannati a 12 anni di carcere. Ilaria Cucchi e il suo avvocato-compagno Fabio Anselmo, si stringono forte la mano. Il giudice va avanti nella lettura della sentenza. Assolto dall’omicidio il carabiniere Francesco Tedesco, che dopo nove anni di silenzi e menzogne ha confessato di aver assistito alle botte rivelatesi letali, e condannato per i falsi commessi dal 2009 in poi. Condannato pure il suo ex comandante di stazione, Roberto Mandolini: tre anni e otto mesi di pena perché contribuì a manomettere le relazioni di servizio per proteggere i suoi sottoposti, e per le bugie dette durante l’altro processo, quello agli imputati sbagliati: i tre agenti penitenziari già assolti e ora presenti in aula come «parti offese»; anche per loro oggi è un giorno di riscatto. Ma è soprattutto la vittoria di ciò che resta della famiglia Cucchi: la sorella Ilaria, che sorride commossa al baciamano di un carabiniere addetto alla sicurezza che vuole renderle omaggio a nome dell’Arma, e i genitori Rita e Giovanni, che dopo dieci anni di battaglie e sconfitte possono sciogliersi in un abbraccio finalmente liberatorio con l’ex senatore, Luigi Manconi, sempre al loro fianco. Al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, arriva il verdetto di primo grado contro gli imputati «giusti», autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. Cominciarono le indagini e i processi contro agenti di custodia e medici (ieri assolti o prescritti nel terzo giudizio d’appello), ma solo nel 2015 la nuova inchiesta avviata dalla Procura di Roma ha imboccato la strada giusta. Grazie ai due carabinieri Riccardo Casamassima e Maria Rosati, che si presentarono ai Cucchi per raccontare ciò avevano sentito dire in caserma dopo la morte di Stefano; e al detenuto Luigi Lainà, che a Regina Coeli rivelò a Cucchi: «Mi hanno picchiato due carabinieri in borghese, di quelli che m’hanno arrestato, che se so’ divertiti, mentre uno in divisa gli diceva di smettere». Gli accertamenti del pubblico ministero Giovanni Musarò, che con l’accordo del procuratore Giuseppe Pignatone ha messo in campo tecniche investigative antimafia affidate alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Roma, ha portato alla luce l’identità degli imputati condannati, nascosta a suo tempo nei verbali d’arresto ma confermata dalle intercettazioni andate avanti per mesi. Compresa quella della ex moglie di uno dei due, che gli rinfacciava al telefono: «L’hai raccontato tu di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda!». L’impianto dell’accusa è stato accolto pressoché integralmente dalla corte: rispetto alle richieste le pene sono inferiori perché i giudici hanno concesso agli imputati in divisa le attenuanti che il pm aveva proposto di negare, considerati i dieci anni di omertà. Ma le difese, che continuano a reclamare l’innocenza dei condannati, hanno già annunciato appello. Le nuove indagini negli archivi dell’Arma, affidate al Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, hanno smascherato le false relazioni sulle condizioni di Cucchi. Manomesse con l’avallo degli ufficiali oggi imputati nel processo sui depistaggi che comincerà a dicembre, per evitare — all’epoca — che l’inchiesta sulla morte di Cucchi prendesse di mira chi l’aveva arrestato e tenuto in custodia. Ancora nel 2015 altri appartenenti all’Arma tentarono di ostacolare l’inchiesta, e nonostante ciò sono ugualmente venuti alla luce il registro della caserma in cui avvenne il pestaggio con il nome di Cucchi cancellato col «bianchetto», più altri elementi che hanno portato alla sentenza di ieri. Vicende che hanno spinto il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, a esprimere alla famiglia Cucchi «dolore e vicinanza», ribaditi ieri dopo le condanne «di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell’Istituzione».

Cucchi, 12 anni ai due carabinieri. La sorella: ora può riposare in pace. Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sentenza in Corte d’Assise. Reati prescritti per quattro medici, uno assolto. Processo ai medici, un’assoluzione e 4 prescrizioni. Per il pm Musarò, attorno alla sua morte fu realizzata «un’opera di depistaggio che ha toccato picchi da film dell’orrore», con lo scopo di far ricadere la colpa sugli agenti penitenziari. Stefano Cucchi morì per le botte in caserma la notte dell’arresto. Così ha deciso la prima Corte d’Assise di Roma, che ieri ha condannato a 12 anni, per omicidio preterintenzionale, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti dalla procura gli autori del pestaggio ai danni del geometra romano 31enne, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e picchiato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana. Mentre nulla, secondo i giudici, ha avuto a che fare con quel sopruso l’imputato- teste Francesco Tedesco, assolto dall’accusa di omicidio ma condannato a due anni e sei mesi per la compilazione del falso verbale di arresto. Stessa accusa per la quale la Corte ha inflitto 3 anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della Stazione dei carabinieri Roma Appia, dove la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu portato dopo il suo arresto. I giudici hanno poi riqualificato in falsa testimonianza l’originario reato di calunnia ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria, accusati ingiustamente e poi assolti del pestaggio di Cucchi, assolvendo Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi perché il fatto non costituisce reato. Per la corte d’assise, infatti, i tre militari furono sentiti senza l’assistenza di un difensore e, dunque, senza le garanzie di legge.

Per il sostituto procuratore Giovanni Musarò, attorno alla morte di Cucchi sarebbe stata realizzata un’opera di depistaggio che ha «toccato picchi da film dell’orrore», con l’unico scopo di far ricadere la responsabilità di tutto su alcuni agenti della Polizia penitenziaria, poi assolti in maniera definitiva. Il 3 ottobre scorso, il pm aveva chiesto una condanna a 18 anni per Di Bernardo e D’Alessandro per l’omicidio, chiedendo, per tale reato, l’assoluzione di Tedesco, ieri a Rebibbia per la lettura della sentenza. Per Musarò, sarebbe «impossibile» negare il nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. «I periti aveva spiegato – parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Ma nelle stesse ore, mentre ancora deve partire il processo sul depistaggio, che vede alla sbarra otto militari, si è chiuso anche un altro capitolo della vicenda, con la sentenza del terzo processo d’appello nei confronti dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, dove Stefano, che ormai pesava solo 37 chili, morì il 22 ottobre 2009. E si è chiuso con una sentenza di assoluzione e una di “non doversi procedere”, perché il reato di omicidio colposo è ormai prescritto. Ma la seconda corte d’Assise di appello ha comunque fatto una distinzione essenziale tra la posizione dei medici: non è colpevole Stefania Corbi, assolta per non aver commesso il fatto, mentre per gli altri imputati i giudici hanno recepito le conclusioni del sostituto pg Mario Remus, che lo scorso 6 maggio aveva sollecitato la prescrizione nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, che seguirono a vario titolo Stefano. Una sentenza, dunque, che stabilisce comunque un giudizio di merito sull’operato dei quattro sanitari. I medici finirono a processo, inizialmente, con l’accusa di abbandono d’incapace, assieme a tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, furono poi assolti in appello. E da lì, due annullamenti con rinvio della Cassazione, fino alla sentenza di ieri. Nella sua requisitoria, il pg fu lapidario: «questo processo dovrà concludersi con la prescrizione del reato – disse -, ma è una sconfitta della giustizia. Per salvare Stefano Cucchi sarebbe bastato un tocco di umanità, un gesto, per convincerlo a bere e a mangiare». Una vicenda contorta e intricata, quella di Cucchi, dalla quale sono scaturiti già sette processi e riaperta grazie alla tenacia della famiglia del giovane, in particolare della sorella Ilaria, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo. Dopo la morte del geometra, la procura di Roma aveva aperto un’inchiesta mettendo sotto accusa i tre agenti penitenziari che accompagnarono il ragazzo il giorno dopo il suo arresto in tribunale per la convalida. Ma si trattava di un depistaggio, svelato da Musarò, che ha ribadito il nesso tra le botte e la morte, inizialmente attribuita ad un attacco di epilessia. La svolta ad aprile scorso, quando Tedesco ha raccontato in aula le fasi del pestaggio. Facendo i nomi degli autori: Di Bernardo e D’Alessandro.

Da roma.repubblica.it il 15 Novembre 2019. Quello di Stefano Cucchi fu un omicidio preterintenzionale. La Corte d'Assise di Roma ha condannato i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro a 12 anni. Assolto dall'accusa di omicidio Francesco Tedesco, l'imputato-accusatore che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio subito da Stefano Cucchi in caserma la notte del suo arresto, a suo carico rimane solo la condanna a 2 anni e sei mesi per falso. Stesso reato che viene contestato a Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione Appia: 3 anni e otto mesi. Assolti, invece, Vincenzo Nicolardi e Tedesco e Mandolini dall'accusa di calunnia. La corte ha disposto il pagamento di una provvisionale di 100mila euro ciascuno ai genitori di Cucchi e alla sorella Ilaria. Di Bernardo, D'Alessandro, Mandolini e Tedesco, a vario titolo, dovranno risarcire, in separato giudizio, le parti civili Roma Capitale, Cittadinanzattiva e i tre agenti della polizia penitenziaria e intanto sono stati condannati al pagamento delle loro spese legali per complessivi 36mila e 500 euro. Di Bernardo e D'Alessandro sono stati inoltre interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, mentre un'interdizione di cinque anni è stata disposta per Mandolini. I legali dei quattro carabinieri condannati annunciano ricorso in appello. "Come si concilia questa sentenza sul piano tecnico-giuridico col fatto che oggi stesso la corte d'Assise d'Appello ha dichiarato la prescrizione per i medici?" si domanda Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini. "Se secondo la corte d'assise d'appello non è escluso che Cucchi sia morto per colpa dei medici - prosegue- come si può concepire una morte per omicidio preterintenzionale? Leggeremo le motivazioni della sentenza e faremo certamente appello. Abbiamo aspettato 5 anni per farci riconoscere dalla Cassazione, nel processo mafia capitale, quello che abbiamo sostenuto fin dall'inizio. Abbiamo pazienza anche per questo processo".

La famiglia: "Finalmente ci sono i colpevoli". "Stefano è stato ucciso, lo sapevamo, forse adesso potrà riposare in pace e i miei genitori vivere più sereni. Ci sono voluti 10 anni di dolore ma abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano l'ultima volta che ci siamo visti che saremmo andati fino in fondo". Lo ha detto Ilaria Cucchi in lacrime dopo la sentenza di primo grado del processo bis per la morte, ad ottobre 2009, del fratello Stefano. "Questa sentenza parla chiaro a tutti.. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente dopo 10 anni di processi li abbiamo" commenta Giovanni, il padre del geometra. "Era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Io considero Mandolini corresponsabile quanto i due condannati per il reato. Vedremo le motivazioni della sentenza. La verità è che Stefano è morto per le percosse subite" sottolinea Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.

Il baciamano del carabiniere a Ilaria Cucchi: "Finalmente giustizia". E subito dopo la sentenza, visibilmente commosso un carabiniere ha fatto il baciamano a Ilaria. "L'ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia", dice il militare mentre accompagna i genitori di Stefano Cucchi, anche loro commossi, fuori dall'aula di Rebibbia dove si è celebrato il processo.

Medici del Pertini: 4 prescrizioni e un'assoluzione. Un'assoluzione e quattro prescrizioni che riconoscono le colpe dei medici ma che di fatto li salvano. Hanno deciso così i giudici della Corte d'Assise di Appello di Roma i per camici bianchi dell'ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano, morto una settimana dopo nel Reparto detenuti dell'Ospedale Sandro Pertini di Roma. Assolta il medico Stefania Corbi. Accuse prescritte dunque per il primario del Reparto di medicina protetta dell'ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è "per non commesso il fatto". Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici del 'Pertinì ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l'accusa di abbandono d'incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). "Una sentenza che lascia l'amaro in bocca. Non è comprensibile dal punto di vista logico perché l'assoluzione della dottoressa Corbi avrebbe dovuto comportare come conseguenza anche l'assoluzione del primario. Aspettiamo di leggere le motivazioni e quasi sicuramente faremo ricorso in Cassazione" commenta a caldo l'avvocato Gaetano Scalise, difensore di Aldo Fierro. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d'Appello confermarono l'assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi.

Generale Nistri: "Dolore ancora più intenso per responsabilità di alcuni carabinieri". "Abbiamo manifestato in più occasioni il nostro dolore e la nostra vicinanza alla famiglia per la vicenda culminata con la morte di Stefano Cucchi. Un dolore che oggi è ancora più intenso dopo la sentenza di primo grado della corte d'Assise di Roma che definisce le responsabilità di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell'istituzione". Così il comandante generale dell'Arma dei carabinieri generale Giovanni Nistri dopo la sentenza.

Rinviato il processo sui depistaggi. Martedì scorso era stata rinviata al 16 dicembre la prima udienza del processo cosiddetto Cucchi-ter sui successivi 10 anni di depistaggi sulla morte del geometra, che vede imputati 8 alti ufficiali dell'Arma. Il rinvio perché il giudice monocratico Federico Bona Galvagno ha ammesso - dopo l'istanza di ricusazione presentata dai legali della famiglia Cucchi - di essere un carabiniere in congedo e di essere legato da rapporti di conoscenza con l'ex comandante generale Tullio Del Sette.

Il padre di Magherini; "Sono contento".  "Sono contento, è una cosa giusta" commenta Guido Magherini, padre dell'ex calciatore Riccardo morto dopo essere stato fermato per strada a Firenze dai carabinieri. "Sarebbe stato giusto", continua facendo riferimento a una sentenza di condanna, "anche per Riccardo - continua il papà di Magherini - ma a Roma sono bravi a fare i 'giochi di prestigio': oggi non è stato così". "Ilaria deve ringraziare sicuramente la sua forza e dedizione, ma anche Riccardo Casamassima", sottolinea Magherini.

"Se Stefano Cucchi è morto per colpa dei miei colleghi Carabinieri io non posso più tacere". Nove anni di silenzi. Poi uno degli agenti imputati rompe il muro di omertà sulla morte del giovane. E rivela i pestaggi subiti dal ragazzo. Parla il suo avvocato per la prima volta. Giovanni Tizian il 21 maggio 2019 su La Repubblica. Francesco Tedesco: «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto». Eugenio Pini è l’avvocato di Francesco Tedesco, il carabiniere che ha rotto il muro dell’omertà sul caso Cucchi, il geometra romano morto dopo l’arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Avremmo voluto intervistarlo, ma l’Arma non glielo permette. E così abbiamo chiesto al suo avvocato di raccontarci la genesi di una denuncia che ha sovvertito le regole interne e non scritte degli apparati militari: il silenzio sui misfatti che riguardano le forze armate. Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Il vicebrigadiere non è solo imputato a Roma. È stato sospeso per cinque anni. Su di lui pesa un procedimento disciplinare e rischia peraltro la destituzione. Che ne sarà di lui dipenderà molto dalle decisioni che assumerà l’Arma guidata dal generale Giovanni Nistri, che ha annunciato di volersi costituire parte civile nel futuro processo per i depistaggi architettati dagli ufficiali per coprire il pestaggio di Stefano Cucchi. Il futuro di Tedesco sarà nell’Arma? «È molto sconfortato. Vorrebbe tornare in servizio ma teme che non gli verrà consentito. Non posso però tacere che Tedesco è anche l’esempio che l’Arma ha anticorpi per superare pagine come queste. Lui ha sempre detto che i colleghi non si dovevano permettere di toccare Stefano Cucchi. Perciò sostengo che Francesco Tedesco si sia messo a difesa di un ultimo (come la famiglia ha definito Stefano Cucchi) in un ambiente nel quale la possibilità dell’impunità è elevata. Tedesco è il carabiniere che ha difeso, soccorso e protetto Cucchi e che immediatamente ha denunciato il fatto prima oralmente e poi con un annotazione di servizio. Da quel momento nove anni di silenzio e di sofferenza. Credo che questi siano elementi meritori che l’Arma dovrà considerare». Spetta al comandante generale Giovanni Nistri valutare la posizione di Tedesco. Pini è ottimista, perché con Nistri le cose sono cambiate: «Credo che il generale abbia gestito il caso Cucchi con rispetto delle Istituzioni e dell’Autorità Giudiziaria». Negli anni precedenti non è stato così. E il terrore che ha frenato Tedesco per nove lunghi anni ne è la dimostrazione.

Stefano Cucchi e quella verità raggiunta dopo dieci anni. Ma non è ancora finita. Il primo grado riconosce l'omicidio preterintenzionale da parte di due agenti. Gli esecutori del pestaggio sono stati condannati a 12 anni e il super testimone assolto dal reato più grave. Ora il prossimo passo è accertare le responsabilità di chi ha depistato per tutto questo tempo. Giovanni Tizian il 15 novembre 2019 su La Repubblica. Dieci anni per ottenere verità e giustizia. Dieci anni per chiarire una volta per tutte che Stefano Cucchi non è morto di droga. È stato ucciso della botte dei carabinieri. Due di loro sono stati condannati a 12 anni: Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Il processo di primo grado che si è concluso con il riconoscimento da parte della corte del reato di omicidio preterintenzionale ha avuto la sua svolta ad aprile scorso. Quando cioè Francesco Tedesco uno dei militari presenti quella notte, per troppo tempo ostaggio del silenzio corporativo dell’Arma, durante la sua testimonianza da imputato ha deciso di dire la verità. Non ha retto più il peso della menzogna. Da quel momento si è aperto uno squarcio profondo nel muro di gomma alzato dall’Arma anche attraverso falsi ripetuti e depistaggi, per i quali si aprirà un nuovo processo. Le parole di Tedesco sono crollate come macigni sulle spalle dei suoi colleghi, forti della protezioni ricevute nei dieci anni dal pestaggio di Cucchi. L’Espresso aveva intervistato l’avvocato Eugenio Pini, che segue Tedesco e lo ha accompagnato nel percorso di “pentimento”. «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto», ricordava con L’Espresso Eugenio Pini . Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi.  «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Anche l’avvocato parla di muro di gomma. Quel muro che cadrà definitivamente nel processo sui protagonisti dei depistaggi che per dieci anni hanno reso impossibile accertare la verità su quella notte iniziata in via Lemonia. Omissioni che portano il timbro della catena gerarchica dell’Arma.

Cucchi, la sorella: «Ci sono voluti 10 anni, ma forse ora Stefano può riposare in pace». Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sorella Ilaria: «è stato ucciso, lo abbiamo sempre saputo, ma ora I miei genitori potranno vivere più sereni». Il padre Giovanni: «non volevamo un colpevole, ma il colpevole». Ci sono voluti dieci anni, «ma Stefano ora può riposare in pace», dice sua sorella Ilaria dopo la lettura della sentenza. Un carabiniere, visibilmente commosso, le prende la mano e la bacia: «l’ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia», sussurra il militare mentre accompagna i genitori di Stefano, con le lacrime agli occhi, fuori dal palazzone di Rebibbia. «Stefano è stato ucciso – continua Ilaria -, questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni. Forse i miei genitori potranno vivere più sereni. Abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano». Rita, sua madre, ha lo sguardo stanco. «Un po’ di sollievo dopo 10 anni di dolore e di processi non veri», dice abbracciando il marito. Giovanni, che al suo fianco a stento trattiene le lacrime. Rincorre il pm Giovanni Musarò per stringergli la mano prima che lasci l’aula bunker, anche lui stremato. «Volevo ringraziarla», afferma grato. «Questa sentenza parla chiaro a tutti aggiunge -. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente li abbiamo». Fabio Anselmo, legale della famiglia e compagno di Ilaria, non ha dubbi: «era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Stefano è morto per le percosse subite». Ilaria pensa al carabiniere Riccardo Casamassima, che grazie alle sue rivelazioni ha aperto il processo. «Il nostro pensiero va a lui e alla moglie Maria Rosati, per tutto quello che stanno passando», sottolinea. Stefano non è caduto dalle scale, non ha avuto le convulsioni. Era un relitto di 37 chili, con la mandibola rotta e il corpo livido. Ad esultare è anche Francesco Tedesco, il carabiniere che ha fatto i nomi dei suoi colleghi. «La corte gli ha creduto: è stato un percorso partito con aspettative di legalità e finito con la realizzazione di queste aspettative», dicono i suoi legali, gli avvocati Eugenio Pini e Francesco Petrelli. Ma le difese promettono battaglia: i due carabinieri, giurano, sono estranei alla morte e faranno ricorso in appello. «Non ci fu pestaggio dice Maria Lampitella, difensore del carabiniere Raffaele D’Alessandro -. È una condanna ingiusta». Così come per Giosuè Naso, legale del maresciallo Roberto Mandolini. «Se non è escluso che sia morto per colpa dei medici come si può concepire una morte anche per omicidio preterintenzionale?».

Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, e le condanne per omicidio: «Il suo corpo ha raccontato la verità». Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. La voce è tonica, le parole fluide: alle 20,30 Giovanni Cucchi è davanti al televisore di casa, con la moglie Rita a guardare i notiziari e aspettare di vedere Ilaria, ospite di «Porta a porta». «Sapete che effetto mi fa tutto questo viavai mediatico?»

No, quale?

«Rinvia l’appuntamento con il silenzio che presto o tardi arriverà anche se finora, in questi dieci anni, non c’è mai stato il tempo».

É un appuntamento con Stefano?

«Sì. Finora abbiamo dovuto combattere e siamo stati sempre circondati da gente: ci sono stati i media che hanno svolto un ruolo importante ma quando calerà questo caos allora mi troverò, ci troveremo soli con Stefano».

Quanto le manca?

«Ogni giorno».

Cosa prova in una giornata come questa?

«Un leggero sollievo».

Tutto qui? Vuol descriverci il suo stato d’animo?

«Sono stati anni di trincea. Ora avremo un po’ di pace: conforta».

Condanna per omicidio preterintenzionale e condanna per falso. Pestaggio e depistaggi. Cosa ne pensa?

«Possiamo cominciare a credere nella giustizia».

È scattata la prescrizione per i medici.

«L’esperienza di questi anni mi ha insegnato che la verità processuale è un’altra da quella sotto gli occhi di tutti. Per quella processuale occorrono le prove. Ma quei medici hanno grandi responsabilità. Che dire di un infermiere che non sa manovrare un catetere?».

Il primo processo si concluse con l’assoluzione degli agenti penitenziari. Per la morte di Stefano Cucchi nessun colpevole. Come si sentì?

«Me lo ricordo bene quel giorno. Uscii dal tribunale impietrito. Come se qualcosa dentro di me si fosse guastato. Non riuscivo a capacitarmi. Sa quel giorno cosa disse mia figlia?».

No, che disse?

«Disse rivolta a Fabio Anselmo: “Abbiamo vinto”. E lui rispose “Ma che dici?”. E lei: “Ma sì abbiamo vinto di fronte all’opinione pubblica”».

Un lungo calvario?

«Sì, ricordo l’invito del presidente del Senato Pietro Grasso. Disse: “Chi sa parli”. Iniziò con una piccola crepa, poi la crepa si allargò. E oggi...»

Luigi Manconi oggi era in aula, commosso anche lui.

«Gli ho detto grazie. É stato l’uomo che ci ha convinto a mostrare le foto di Stefano, noi non volevamo, pensavamo che a Stefano dispiacesse. Il suo corpo, in tutti questi anni, ha raccontato la verità».

Finalmente qualcuno vi ha creduto.

«I magistrati Giovanni Musarò e Giuseppe Pignatone hanno avuto l’audacia e il coraggio di riscattare la giustizia». 

Stefano Cucchi, la sorella Ilaria valuta querela a Salvini: «La droga non c’entra». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», afferma Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, i, dopo che commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, il leader leghista Matteo Salvini ha detto che rispetta la famiglia ma il caso «dimostra che la droga fa male». «Anch’io da madre sono contro la droga - ha aggiunto Ilaria Cucchi - ma Stefano non è morto di droga». Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi - ha aggiunto Ilaria Cucchi in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital- ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini».

Stefano Cucchi, la sorella Ilaria pronta a querelare Matteo Salvini: "Mio fratello non è morto di droga". Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte del ragazzo, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". La Repubblica il 15 novembre 2019. "Stefano non è morto di droga, cosa c'entra la droga?". Ilaria Cucchi non ci sta. Ed è pronta a querelare Matteo Salvini. Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". "Che c'entra la droga? Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto", ribatte Ilaria in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital. "Anch'io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini". I due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro sono stati condannati ieri in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale nel processo per la morte di Stefano Cucchi. La sentenza è arrivata dopo dieci anni. Il reato contestato: omicidio colposo. Francesco Tedesco, che denunciò il pestaggio, imputato al processo, è stato condannato a due anni e sei mesi per falso ed assolto dall'accusa di omicidio. Il maresciallo Mandolini, condannato a tre anni 8 mesi per falso, assolto dalla calunnia. Accuse prescritte per 4 medici e una assoluzione. "Ora mio fratello riposa in pace", è stato il commento di Ilaria Cucchi. "Sono ancora frastornata, sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia". Prosegue Ilaria ai microfoni di RTL 102.5. Il baciamano ricevuto da un uomo dell'Arma "è stato un momento emozionante, perché racchiude un po' quello che diciamo da sempre - spiega -. Anche se da più fronti si è voluto far passare il concetto che noi fossimo in guerra con le istituzioni e con l'Arma dei Carabinieri, quello che sta accadendo oggi anche nel processo sui depistaggi, dimostra che non è così e anzi, tutt'altro. L'Arma dei Carabinieri è stata danneggiata quasi quanto la famiglia di Stefano Cucchi da ciò che è avvenuto". C'è anche l'attore Alessandro Borghi, che ha interpretato Stefano Cucchi nel film 'Sulla mia pelle', tra coloro che ieri sera hanno gioito per la sentenza. Borghi, che per prepararsi al film ha conosciuto bene la famiglia di Stefano e la loro vicenda giudiziaria, ha scritto sui social, una sorta di dedica della sentenza al ragazzo: "A Stefano. Sempre".

Ilaria Cucchi conferma: «Probabilmente querelerò Salvini». L’avvocato Fabio Anselmo: «La battaglia non è ancora finita». Il Dubbio il 17 novembre 2019. «Sì, probabilmente sì». Così conferma Ilaria Cucchi, rispondendo nel corso del programma “In mezz’ora in più” sui Raitre alla domanda della conduttrice Lucia Annunziata, sull’intenzione di querelare l’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini, per le sue dichiarazioni sulla morte del fratello Stefano a causa della droga. «Al di là di questo – aggiunge Ilaria -, Salvini delle volte mi fa sorridere, è davvero imbarazzante: nel giorno in cui, dopo dieci anni, c’erano state le condanne per omicidio preterintenzionale per la morte di mio fratello, lui vivendo forse in un’altra dimensione, ha minacciato una controquerela, continuando a parlare di droga. Anche a me fa paura la droga, ma mio fratello Stefano non è morto a causa della droga: questo lo abbiamo appurato nel processo anche se era chiaro fin dal principio; ora è ancora più chiaro». Per l’avvocato Fabio Anselmo – che è anche il compagno di Ilaria Cucchi – «è chiaro che si tratta di un’uscita pubblica che ha uno scopo comunicativo ben preciso: distrarre l’opinione pubblica da quello che era il nocciolo della notizia e cioè della vittoria della giustizia e della dimostrazione che aveva ragione la famiglia Cucchi. Semmai – aggiunge il legale – fa specie che il ministro dell’Interno era costituito parte civile nel processo e dunque Salvini deve veramente mettersi d’accordo con se stesso». «Abbiamo ottenuto una importante vittoria, però non è ancora finita: di questo dobbiamo essere consapevoli», ha aggiunto Anselmo. «Il processo non è finito, si è svolto soltanto il primo grado e ho ben memoria di cosa è successo in altre occasioni, con condanne in primo grado e in appello e poi una sentenza della Cassazione, ritenuta eccentrica un po’ da tutta la giurisprudenza, con cui sono state annullate tutte le sentenze. Purtroppo, considerando i vari gradi processuali, potremmo dire che la famiglia Cucchi sia stata “condannata” a una sorta di ergastolo giudiziario, nel senso degli anni che ancora ci vorranno da qui alla fine». «Anche io ho paura – confessa Ilaria Cucchi – ma il messaggio che dobbiamo lanciare è un messaggio di speranza: non bisogna mai smettere di credere nella verità e nella giustizia, bisogna sempre battersi fino in fondo per quello in cui crediamo, andando a testa alta, sfidando le istituzioni ma sempre nel rispetto delle stesse istituzioni».

Ilaria Cucchi pronta a querelare Salvini: «Stefano fu ucciso». Il leader della Lega: «Questa storia prova che la droga fa male». Simona Musco il 16 Novembre 2019 su Il Dubbio. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto». Ilaria Cucchi non ci sta e preannuncia azioni legali contro Matteo Salvini che dopo la sentenza di condanna a 12 ai due carabinieri accusati di aver brutalmente pestato suo fratello, morto in ospedale sette giorni dopo l’arresto, si è lasciato andare ad un commento infelice e, soprattutto, fuori luogo: «questo caso testimonia che la droga fa male sempre», ha affermato, da Bologna, il leader leghista. Parole di troppo, che fanno riferimento al motivo per cui Cucchi, in quel momento, si trovava sotto custodia in un carcere di Roma: possesso di droga. Ma a causare la sua morte, secondo quanto stabilito dai giudici della Corte d’Assise di Roma, non è stata affatto la droga, né le convulsioni o l’eccessiva magrezza, bensì botte e percosse che hanno causato una violenta caduta a terra e la frattura di due vertebre, con conseguenze che lo portarono alla morte. Tant’è che i due militari sono stati condannati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. «Anch’io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga – ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di “Circo Massimo”, su Radio Capital -. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini». Sin da subito, l’ipotesi che a provocare la morte del giovane fossero stati uomini dello Stato provocò levate di scudi da parte di diversi esponenti della politica. Da Carlo Giovanardi, secondo cui «la causa delle lesioni è la malnutrizione», avendo avuto «una vita sfortunata», passando per Ignazio La Russa, certo del «comportamento corretto dei carabinieri». Fino a Salvini, secondo cui è «difficile pensare che in questo, come in altri casi, ci siano stati poliziotti o carabinieri che per il gusto di pestare abbiano pestato». Posizioni mantenute dai protagonisti anche dopo la pubblicazione delle foto che ritraevano il giovane disteso sul lettino dell’obitorio, con il viso sfigurato, livido all’inverosimile. Uno corpo di soli 37 chili mezzo fratturato e ormai senza vita. E quel corpo era ridotto così per un pestaggio, secondo la famiglia. Un pestaggio confermato poi dal carabiniere Riccardo Casamassima, che nel 2016 consentì al pm Giovanni Musarò di riaprire l’inchiesta accusando i colleghi e, ad aprile scorso, anche da uno degli imputati, Francesco Tedesco, che ha indicato in Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro gli autori di quella aggressione. Da Bologna, a chi gli chiedeva se non fosse il caso di chiedere scusa alla sorella di Stefano Cucchi, Salvini ha risposto cercando di rimanere fermo sulla propria posizione. «Scuse? Perché, io ho ucciso qualcuno? Ho invitato la sorella al Viminale, in Italia chi sbaglia, paga. Però non posso chiedere scusa per eventuali errori altrui – ha affermato -. Se qualcuno l’ha fatto, ha sbagliato e pagherà», ha detto riferendosi alle violenze dei carabinieri. Aggiungendo: «Ma io devo chiedere scusa anche per il buco dell’ozono? Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga, posso dirlo? Io sono contro lo spaccio di droga sempre e comunque» . «Sono ancora frastornata – ha commentato Ilaria Cucchi ai microfoni di Rtl -. Sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in un’aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia». Le parole di Salvini hanno subito fatto insorgere la politica. Dal sindaco di Roma, Virginia Raggi, che le ha definite «vergognose», al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra, che si è posto la stessa domanda di Ilaria Cucchi. «Cosa c’entra la droga? – ha scritto sul suo profilo Facebook – Il giudice ha detto che Stefano è stato ammazzato da mani umane. Potresti chiedere scusa alla famiglia Cucchi. Sarebbero le tue uniche parole sensate in tutta questa vicenda. Ma non lo fai perché non conosci umiltà e vergogna, perché non sai cosa sia l’umanità dell’errore e del riconoscere le proprie responsabilità. Cinicamente vuoi apparire invincibile. In realtà sei solo inguardabile per la strafottenza che ostenti». E il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha rincarato la dose. «Salvini, non puoi dire che la sentenza su Cucchi dimostra che la droga fa male. Cosa significa? Che se uno sbaglia nella vita deve essere pestato a morte? Credo che sarebbe meglio porgere le scuse…». Mentre Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana- Leu, ha invitato Salvini a vergognarsi. «Quanta differenza ha detto – fra la compostezza e la dignità della famiglia Cucchi e l’arroganza, il cinismo, le trivialità e le meschinità di un Salvini qualunque».

Francesca Bernasconi per il Giornale il 19 novembre 2019. Ilaria Cucchi ha deciso di presentare querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Dopo aver appreso della condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, il leader della Lega aveva affermato: "Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". La sorella del 31enne morto nel 2009, a seguito di un pestaggio, avvenuto in caserma a Casilina, aveva già annunciato la volontà di sporgere querela nei confronti dell'ex vicepremier. Lo scorso 14 novembre, i militari dell'Arma Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, sono stati condannati a 12 anni di carcere, per l'omicidio colposo di Stefano Cucchi. Decaduta invece l'accusa di omicidio per Francesco Tedesco, che aveva denunciato il pestaggio, falsificando i verbali: per lui la condanna è di 2 anni e 6 mesi. È stato assolto dall'accusa di calunnia il maresciallo Mandolini, che è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per falso. A seguito della sentenza, Matteo Salvini aveva commentato la condanna, sostenendo che "se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà. In divisa e non in divisa". Poi, aveva aggiunto: "Sono vicinissimo alla famiglia, ho invitato la sorella al Viminale. Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga. Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". Una dichiarazione, che aveva fatto indignare la sorella della vittima, che aveva risposto al leader del Carroccio, durante un'intervista a Radio Capital: "Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto. Anche io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto per droga. Chiaramente non c'entra assolutamente nulla, va contro questo pregiudizio, va contro questi personaggi. Noi abbiamo dovuto batterci per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia e non escludo che uno di questi possa essere proprio Salvini". E infatti, oggi arriva la notizia della querela. A renderlo noto è la stessa Ilaria, tramite un post su Facebook: "Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi", scrive la donna. "Stefano Cucchi ha sbagliato ed avrebbe dovuto pagare ma non morire in quel modo - continua Ilaria Cucchi -Il giorno in cui viene pronunciata la sentenza ha il coraggio di dire quelle parole come se fosse al bar e parlasse ai suoi amici? Sono solo una normale cittadina e non posso fare altro che querelarlo". Ma Matteo Salvini non sembra essersi lasciato intimorire e risponde: "Me ne farò una ragione, mi ha querelato anche Carola Rackete. Dopo le minacce di morte dei Casamonica, i proiettili in busta e le scritte sui muri, non è una querela a farmi paura anzi". Poi aggiunge: "Andremo avanti perchè il Parlamento approvi la legge 'droga zero' per cancellare la droga, gli spacciatori di droga da ogni angolo della città". E in quelle parole ("Il caso dimostra che la droga fa male") il leader della Lega non ha mai letto una provocazione: "Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia chi ha sbagliato ha pagato".

Ilaria Cucchi e la foto della querela a Salvini: «Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. «Ora basta. Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre. Questo signore deve smetterla di fare spettacolo sulla nostra pelle». Poche parole, postate su Twitter, accompagnate da una fotografia. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha pubblicato le immagini della querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, annunciata nei giorni scorsi. Dopo la sentenza di condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati dell'omicidio di Cucchi, Salvini aveva affermato che il caso testimonia che «la droga fa male sempre». Cucchi ha presentato una denuncia — formalizzata attraverso il legale Fabio Anselmo — «nei confronti di Matteo Salvini, nonché di chiunque altro venga ritenuto responsabile» per il reato di diffamazione. «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo. Questo era il suo volto quando io e i miei genitori lo vedemmo all'obitorio il 22 ottobre del 2009. Questo era quel che rimaneva di Stefano. Dei suoi diritti. Della sua dignità di essere umano», aveva scritto subito dopo su Facebook la sorella del ragioniere romano morto dieci anni fa dopo l'arresto, postando l'immagine drammatica dell'autopsia del fratello. «Lo devo a mia madre che, pur estremamente sofferente, ha trascorso tutta la giornata del 14 novembre scorso in attesa di una sentenza che ci rendesse giustizia. Lo devo a mio padre la cui fiducia nello Stato ha fatto sì che compisse il sacrificio più pesante che si potesse chiedergli: denunciare il proprio figlio, da morto e dopo averlo visto in queste terribili condizioni, per la sostanza stupefacente trovata a casa sua». «Dopo Carola Rackete, mi querela la signora Cucchi? Nessun problema, sono tranquillissimo, dopo le minacce di morte dei Casamonica e i proiettili in busta, non è certo una querela a mettermi paura», aveva replicato il segretario della Lega. Provocazione? «Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia, chi ha sbagliato ha pagato».

Minacce di morte a Ilaria Cucchi: «Salvini che ne pensa?» Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Una pallottola in testa. È l’auspicio contenuto in un messaggio di morte, scritto nero su bianco, indirizzato a Ilaria Cucchi a 24 ore dall’annuncio della querela nei confronti del leader della Lega, Matteo Salvini. Ed è proprio all’ex ministro che si rivolge la sorella di Stefano, il ragazzo per la cui morte sono stati condannati due carabinieri, pubblicando l’immagine in cui le viene augurata la morte. «Chiedo a Matteo Salvini e a tutti gli iscritti alla Lega cosa pensano di questo post - scrive Ilaria -. Dato che viene da un soggetto che ha un profilo nel quale si dichiara loro sostenitore. Non posso far altro che denunciare ma mi rendo conto che di fronte a tutto questo io e la mia famiglia siamo senza tutela». Il post («a sta str...a qualcuno metterà una palla in testa prima o poi, a prescindere da quest’ultima stronzata») è stato pubblicato da un account che ha tutte le caratteristiche dell’odiatore seriale, probabilmente creato ad hoc per diffondere messaggi diffamatori e minacce sui social, come troppo spesso accade. Quello rilanciato da Ilaria Cucchi non è l’unico messaggio minatorio indirizzato alla donna, tirata in ballo già il 19 novembre scorso, commentando l’intenzione della sorella di Stefano di querelare Salvini. «Insistendo, insistendo otterrà quello che vorrà», aveva scritto aggiungendo l’emoticon di un diavolo. Innumerevoli i post contro il movimento delle Sardine e a favore della Lega e del suo leader. In un paio di messaggi auspicava un attentato alle moschee o al parlamento europeo tanto da essere sospeso da Facebook più di una volta. Esattamente come accaduto subito dopo la sentenza di condanna dei carabinieri, e come ribadito ieri dopo l’annuncio della querela partita da Ilaria Cucchi, anche oggi Matteo Salvini è tornato a rilanciare la stessa identica dichiarazione, senza citare direttamente il caso Cucchi. «La droga fa male sempre e comunque - ha detto -, spero di non essere denunciato se il sabato pomeriggio denuncio che la droga fa male, sempre e comunque». Proprio ieri la stessa Ilaria era tornata a chiedere di interrompere lo «spettacolo» dell’ex ministro «sulla pelle» della famiglia Cucchi, depositando ufficialmente la querela contro l’ex vicepremier e contro chiunque infanghi il nome di Stefano.

Lettera aperta a Ilaria Cucchi. Il Corriere del Giorno il 15 Novembre 2019. Un allievo ufficiale dei Carabinieri dell’Accademia Militare scrive senza firmarsi a Ilaria Cucchi, il cui comportamento è del tutto riprovevole. "Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, sono un carabiniere senza infamia e senza lode, un onesto lavoratore, e volevo dirle che poche parole si possono trovare per commentare questa assurda tragedia, stante che quanto accaduto a suo fratello è qualcosa di aberrante, atroce, ingiusto, qualcosa che non avrebbe mai dovuto succedere. Lei non ha mollato fino alla fine e grazie alla sua caparbietà ora giustizia è stata fatta. Chi ha pestato e ucciso Stefano non era evidentemente degno di portare la divisa che indossava. Ma questi soggetti non devono pagare solo per Cucchi, per Lei e per i suoi familiari, devono pagare per tutti quegli uomini che dentro quella divisa ci mettono l’anima, il cuore, il sudore e molto spesso ci rimettono la loro stessa vita, per il bene di tutti e ciò per pochi soldi. Perchè il loro è un sacrificio quotidiano che non puó e non deve essere infangato da 4 delinquenti. Suo fratello meritava di più, meritava assistenza, aiuto, comprensione, meritava di tentare l’ennesimo percorso di recupero e non certo di morire in questo modo. Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato ed a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia, in risposta, al telefono, sono volati solo insulti nei confronti di Stefano, e sua madre aggiunse che “non avrebbe speso altri soldi per quel delinquente di suo figlio e avrebbe dovuto fare avanti il barbone per strada”. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi che fu lei a non far vedere i nipoti a Stefano da ben 2 anni, certo per proteggerli da lui, dal suo stato di tossicodipendenza, da suo fratello che frequentava ambienti loschi, e fu sempre lei che non volle più nella sua vita, ed anche tutta la sua famiglia emarginò ed abbandono. Rimase così solo e perduto come un cane randagio. Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico, conseguendo anche un giusto rimborso di un milione di euro (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano. La “pulizia” andava fatta (anche per i fiancheggiatori) ed era sacrosanta. Dispiace però un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli, non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece, da quando si è candidata per la sinistra, ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe! Una perdita immensa! No sig.ra Ilaria, Stefano non era un eroe, gli eroi son altri, era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato, anche se si era perduto. Forse sarebbe stato meglio dimostrarsi caparbia anche nei tragici momenti della dipendenza, quando era un ragazzo allo sbando e finì nelle mani dei suoi aguzzini, ovvero preoccuparsi di lui prima di tutto ciò, prima che tutto diventasse “troppo tardi“! Stefano aveva tanto bisogno della sua grande caparbietà!!!! Ma ormai è troppo tardi per tutti! Da questa vicenda ne usciamo sconfitti tutti quanti, tutta la nostra società, Lei compresa. Da par mio spero di continuare a servire il mio paese nel miglior modo possibile: la morte di Stefano ha insegnato a me e ad altri tante cose, per non errare di nuovo in futuro. Spero che tale insegnamento abbia raggiunto anche Lei! Firmato: un carabiniere qualunque". (La lettera non è firmata e circola sul web, ma interpreta il comune sentire di milioni di cittadini).

Cucchi, parla per la prima volta il generale Gallitelli: «Quei militari hanno tradito l’Arma». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Sono addolorato per l’afflizione della famiglia Cucchi, provocata da chi ha commesso violenze, ha tradito la verità e con essa anche l’Arma», dice in tono grave il generale Leonardo Gallitelli. Tra il 2009 e il 2015 — dunque al tempo dell’arresto, del pestaggio, della morte di Stefano Cucchi e dei falsi con cui si tentò di inquinare le prove — è stato comandante dei Carabinieri, e raggiunto dopo la sentenza che per quei fatti ha condannato quattro appartenenti all’Arma concede solo questo rapido e sofferto commento. Ammettendo e stigmatizzando per la prima volta, dopo dieci anni di riserbo, responsabilità e reati che non si fermano all’omicidio preterintenzionale, ma comprendono anche le bugie contenute nei primi atti sul fermo di Cucchi redatti dagli imputati. Gallitelli sa bene che le manomissioni della verità da parte di ufficiali e sottufficiali dell’Arma, secondo quanto emerso dalle indagini della Procura di Roma, vanno oltre il verdetto dell’altro ieri, e saranno giudicate nel processo contro altri otto carabinieri che comincerà tra un mese. Di quello però il generale in pensione non vuole e non può parlare: il suo nome è inserito nella lista testi presentata dai legali dei Cucchi, e dunque è possibile che sia chiamato a deporre in tribunale. Tuttavia la reazione alle quattro condanne di altrettanti uomini in divisa si inserisce nel solco di quella dell’attuale comandante, Giovanni Nistri. Che oltre a ribadire solidarietà alla famiglia della vittima, s’è costituito parte civile nel processo sui depistaggi. La parola chiave è «tradimento» dei doveri e dei valori dell’Arma. Addebitato ai responsabili (seppure ancora solo nel giudizio di primo grado) sia della morte di Cucchi — i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo — sia a chi ha sottoscritto i falsi contenti nel verbale d’arresto del detenuto: il maresciallo ex comandante di stazione Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, che confessò di aver assistito al pestaggio con nove anni di ritardo (le false testimonianze commesse durante il processo agli agenti penitenziari poi assolti, invece, sono state giudicate non punibili dalla Corte d’Assise). Ma in un Paese dove la macchina della propaganda elettorale è sempre in moto, la sentenza finisce per alimentare anche le immancabili polemiche politiche. L’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini non fa in tempo a esprimere vicinanza ai Cucchi che aggiunge: «Questo dimostra che la droga fa male, sempre e comunque, e io combatto lo spaccio di droga, sempre e comunque». Una postilla che solleva l’indignazione di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano con cui il capo leghista aveva già battibeccato quando disse che un suo messaggio su facebook «faceva schifo». Ieri Ilaria ha replicato: «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», annunciando la possibilità di querelare l’ex ministro. La famiglia di Stefano non ha mai negato che avesse avuto in passato problemi di droga, né che fosse uno spacciatore. La sera dell’arresto Cucchi, sorpreso a cedere due «canne» a un amico, aveva con sé 20 grammi di hashish e 2 di cocaina. Ma soprattutto, all’indomani del decesso sono stati i genitori a scoprire, nella casa in cui abitava da solo, oltre un etto di cocaina e quasi un chilo di hashish, non recuperati dai carabinieri. Potevano distruggere la droga e nessuno ne avrebbe saputo niente, invece l’hanno consegnata alla polizia, di fatto denunciando il figlio dopo la sua morte. Avvenuta — secondo la sentenza di giovedì — come conseguenza del pestaggio, che nulla aveva a che vedere con lo spaccio. La frase di Salvini ha riacceso lo scontro con gli ex alleati del Movimento Cinque Stelle: Luigi Di Maio e Nicola Morra lo invitano a chiedere scusa alla famiglia Cucchi, mentre la sindaca di Roma Virginia Raggi definisce «vergognose le parole di Matteo Salvini su Stefano Cucchi».

Cucchi, bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale Palozzi: "La sorella sfrutta il fratello tossico". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. È bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Adriano Palozzi. Il totiano è finito nel mirino delle critiche per aver accusato la sorella di Stefano Cucchi di aver sfruttato la tragedia per un briciolo di notorietà. "Stefano ha avuto finalmente giustizia (Bah)! La sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare) - scrive sul suo profilo Facebook a ridosso della sentenza che condanna due carabinieri -. Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso!". Poi Palozzi conclude il discorso con un'altra durissima frase: "Per carità nessuno può morire e deve morire di botte ma neanche può passare per vittima o per eroe lui e tantomeno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!". A replicare ci ha pensato il segretario del Pd del Lazio, il senatore Bruno Astorre. "Non varrebbe la pena replicare né fare polemica con chi immagino sia in cerca di visibilità sfruttando il dramma di una famiglia - fa sapere in una nota -. Voglio, tuttavia, ringraziare Ilaria Cucchi per aver combattuto una battaglia di civiltà, sui diritti che ha aiutato tutto il Paese a compiere passi avanti nelle coscienze di ciascuno perché lo stato di diritto vale per tutti anche per chi specula sui drammi".

Matteo Salvini a Ilaria Cucchi: "Mi quereli pure, la droga fa male. Punto". La sfida è totale. Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Dopo la querela presentata da Ilaria Cucchi nei suoi confronti, Matteo Salvini non arretra di un millimetro. Il leader della Lega, dopo la condanna di due carabinieri a 12 anni per l'omicidio di Stefano Cucchi, aveva commentato la sentenza dicendo che "la droga fa sempre male". Parole per le quali, come detto, la Cucchi lo ha querelato. E oggi, mercoledì 20 novembre, alla Camera per presentare degli emendamenti alla manovra sul comparto sicurezza, Salvini è stato interpellato sulla querela: "Ilaria Cucchi? Non entro nella mente di nessuno, la droga fa male, punto. E combatto la droga ovunque e comunque, punto. A meno che qualcuno mi dimostri che la droga fa bene". Insomma, Salvini ribadisce il concetto dopo la querela. Quindi, aggiunge: "La giustizia sta facendo il suo corso, che poi la droga non aiuti i nostri ragazzi mi sembra evidente. No, lo ripeto ogni giorno: la droga fa male, la droga fa male. Se poi secondo lei la droga fa bene abbiamo due punti di vista scientificamente diversi". E ancora, sui carabinieri condannati: "Se qualcuno ha sbagliato andrà in galera, alla fine del percorso. Ribadisco che la droga fa male. Se qualcuno dei qui presenti sostiene che la droga faccia bene sono disposto ad un dibattito accademico". Un giornalista, infine, dice rivolgendosi al ministro dell'Interno che accostare le due cose non ha senso: "Se vuole andare avanti a farmi la stessa domanda, le do la stessa risposta", conclude Matteo Salvini, tranchant.

Ilaria Cucchi: «Candidata sindaco a Roma? Ecco cosa volevo dire». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Ho detto che sono pronta a presentarmi come sindaco di Roma purché tutti i partiti facciano un passo indietro. Più una provocazione che altro e infatti sono rimasta a casa. Ora penso a godermi questo momento di riconciliazione con me stessa. Avevamo ragione noi, faccio ancora fatica a pensare che ce l’abbiamo fatta». Con queste parole Ilaria Cucchi è intervenuta durante il programma Lavori in Corso in onda su Radio Radio e Radio Tv, commentando la recente condanna a 12 anni dei due carabinieri accusati dell’omicidio preterintenzionale del fratello. Nel corso dell’intervista, è poi tornata ad attaccare l’ex ministro dell’Interno che aveva affermato «il caso testimonia che la droga fa male». Matteo Salvini —ha chiarito Cucchi — «fa speculazione su mio fratello, è uno sciacallo. Fa politica di basso livello sulla morte di mio fratello e sulla nostra storia. Arriva al punto di parlare ancora di droga nel momento in cui sono state emesse le sentenze di condanna per omicidio dopo dieci anni dalla morte di mio fratello». Ma che ci vuole dire — ha aggiunto — «che i drogati devono essere uccisi? Secondo me lui è completamente fuori dal mondo». Il giorno della sentenza, ha raccontato, «mia madre che sta molto male è rimasta tantissime ore in quell’udienza ad aspettare la pronuncia. Mio padre è una persona talmente per bene e onesta che a pochi giorni dalla morte di Stefano ha denunciato suo figlio per aver trovato un quantitativo di droga nella sua abitazione di Morena. Questa è la nostra famiglia. Anche io da madre ho paura della droga, anche io sono contraria, ma qui parliamo di omicidio preterintenzionale non di droga». E ha concluso: «Salvini si preoccupi di casa sua, pensi a loro, non alla mia famiglia. Probabilmente sarà ancora sotto gli effetti del mojito. La querela — ha concluso — è in via di presentazione».

Sentenza Cucchi, la frase di Salvini applicata a Salvini: anche rubare fa male. Francesco Oggiano il 19/11/2019 su Notizie.it. Immaginate che Matteo Salvini venga convocato in Procura per riferire sui 49 milioni rubati dalla Lega e nascosti ai cittadini italiani. E che durante l’interrogatorio venga picchiato dagli agenti di Polizia. Ora immaginate che un esponente politico avversario, anziché gridare allo scandalo, condannare i colpevoli e chiedere giustizia, commenti: “Questo prova che il furto fa male”.

La pseoudoideologia portata avanti dalla destra. Pressapoco il medesimo, è il senso logico adottato da Salvini dopo la condanna dei poliziotti per il pestaggio di Cucchi. “Il caso dimostra che la droga fa male”. Davanti alla querela annunciata dalla sorella Ilaria, il leader leghista ha rilanciato e ha offerto una pratica lezione di giornalismo: “Ancora adesso si ricorda qualcuno che sarebbe stato (occhio al condizionale, ndr), in passato, malmenato (occhio pure al verbo, ndr) dalle forze dell’ordine, però scommetto che oggi quasi nessun giornale, quasi nessun telegiornale ricorderà che proprio il 19 novembre di 50 anni fa fu ucciso il primo poliziotto a Milano, Antonio Annarumma”.

Però, continua, “Si rompono le scatole a qualcuno se dice che la droga fa male”. È l’ultimo rifugio della pseudoideologia portata avanti a pappagallo da diversi esponenti di destra in questi anni, che hanno voluto marcare la tossicodipendenza della vittima per cercare di renderla un po’ meno vittima, una frase alla volta. Tra le più assurde: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze“, Gianni Tonelli, leghista ed ex capo del sindacato di polizia Sap. “Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell’attenzione di oggi, sarebbe ancora vivo”, Maurizio Gasparri. “Cucchi era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”, Roberto Formigoni. “Se Cucchi avesse condotto una vita sana, se non si fosse drogato, se non fosse entrato in un tunnel che poi l’ha portato agli arresti, non sarebbe successo”, Carlo Giovanardi. Ora ci è tutto chiaro: l’hanno massacrato di botte coi panetti di fumo.

Carlo Cambi per “la Verità” il 5 dicembre 2019. La droga fa male? È comunque una storia di dipendenza. Perché dipende: se la droga serve a sottacere che quattro africani clandestini hanno stuprato e ammazzato una quasi-bambina di 16 anni, se è utile a non far emergere che con l' immigrazione abbiamo importato la mafia nigeriana e che un nigeriano ha fatto a pezzi una ragazzina di 18 anni, oppure se va rimossa da una storiaccia di botte e di violenza finita con la morte di un uomo, ancora più grave se a picchiare è chi porta una divisa della Repubblica Italiana. Sono tutte storie di droga, ma c' è una certa differenza. In due è in dosi mortali, in una è solo uno sfumato fondale della scena del delitto. Lo spunto per rifletterci lo ha fornito l'house organ del politicamente corretto. Per annunciare il processo cominciato in Corte d' assise a Roma per l' uccisione di Desirée Mariottini, 16 anni, ieri Repubblica ha dedicato una mezza pagina a un' intervista a Barbara Mariottini, la mamma della quasi-bambina ammazzata. Non c' è una riga sul fatto che ieri mattina nell' aula bunker del carcere di Rebibbia sono comparsi come imputati con l' accusa di omicidio volontario aggravato, violenza carnale aggravata, cessione di stupefacenti a minori quattro africani: Alinno Chima, Mamadou Gara, Yussef Salia e Brian Minthe. Per l' accusa sono loro ad aver prima drogato Desirée con un cocktail micidiale di stupefacenti, poi abusato a turno e per ore della ragazza e infine ucciso quella quasi-bambina. Tutto è avvenuto la sera del 19 ottobre di un anno fa in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, a due passi dalla Stazione Termini. Quello è un luogo proibito anche alle forze dell' ordine: lì bivaccano i clandestini, lì il domino è delle bande di criminali africani che spacciano. Ma per Repubblica che ha un tono contrito con mamma Roberta tanto da non fare nessuna domanda sui presunti assassini, Desirée è stata ammazzata dalla droga. Nell' intervista si cerca di scavare nel passato di quella quasi-bambina. Che passato può essere quello di una creatura che ha vissuto 190 mesi? Eppure c' è spazio solo per determinare come Desirée ha cominciato a usare psicotropi, o per sapere da una mamma che ha perso una figlia massacrata da quattro spacciatori clandestini se è giusto denunciare un figlio che si droga per salvarlo. Perché la morte di Desirée è come l' intervista: stupefacente. Se ne conclude che Repubblica ha scoperto e ribadisce che la droga fa male. Ma dipende. Perché quando Matteo Salvini da ministro dell' Interno lo ha detto a proposito dell' uccisione di Stefano Cucchi gli sono saltati addosso tutti. Per prima la sorella del geometra arrestato per spaccio, Ilaria Cucchi, che nei giorni scorsi si è fatta fotografare con la querela depositata contro Salvini. Che cosa aveva detto il capo della Lega? Commentando la sentenza di condanna di cinque carabinieri, di cui due per omicidio preterintenzionale, pronunciata dalla Corte d' Assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi procurata - così hanno stabilito i giudici - dalle botte che l' uomo ha ricevuto in caserma dopo il suo arresto per spaccio Salvini aveva affermato: «Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l' ho invitata al Viminale. Se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la droga fa male, sempre e comunque. E io combatto la droga in ogni piazza». Ma a Ilaria Cucchi questo non è piaciuto affatto. Perché come ha scritto su Facebook la sorella: «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo». Ed è certamente vero che la morte di Stefano Cucchi - il 22 ottobre di dieci anni fa - è avvenuta dopo l'arresto e il ricovero al Pertini di Roma, ma è del pari vero che il geometra romano aveva precedenti per spaccio. E allora la droga fa male? Dipende: dal caso Cucchi la droga è sparita. Il racconto era altro perché è aberrante che un arrestato venga pestato a morte. Non è accettabile che uomini in divisa che devono difendere la legge e portano le insegne della Repubblica si macchino di una così feroce violenza. Ma allora perché la droga e solo la droga emerge nel caso di Desirée? È inaccettabile che quattro immigrati africani uccidano una quasi bambina attirandola con gli stupefacenti e facciano scempio della sua adolescenza. Ma è un dejà vu. Pamela Mastropietro, la diciottenne romana drogata, violentata e ammazzata a Macerata il 31 gennaio 2018 e il cui corpo fu ritrovato fatto a pezzi in due trolley. Per il delitto sconta l' ergastolo Innocent Oseghale un nigeriano spacciatore anche lui arrivato da clandestino. Si sospetta che sia un esponente della mafia nigeriana, ma la Procura lo ha sempre smentito. Anche lo scempio di Pamela si è cercato di spiegarlo con la droga. Lei, si è detto in ambienti della sinistra, era una povera tossicodipendente. Pamela, Desirée sono morte perché la droga fa male. Anzi crea dipendenza. Perché dipende se serve al politicamente corretto.

·         Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.

Stefano Cucchi, l’avvocato di Tedesco: “Non è rimasto inerte davanti al pestaggio. Piccola rondella di un ingranaggio potente”. Alla fine della sua arringa l'avvocato ha chiesto l'assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula "per non aver commesso il fatto". Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l'assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale "per non aver commesso il fatto" e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. Il Fatto Quotidiano il 29 ottobre 2019. “Francesco Tedesco non è rimasto inerte davanti al pestaggio di Cucchi, lo stavano massacrando di botte, Tedesco intima a Di Bernardo e D’Alessandro di smetterla, non vi permettete dice, e riferisce l’accaduto a un superiore”. Per difedendere il suo assistito l’avvocato Eugenio Pini ha ripercorso in aula le parti principali della sua testimonianza sul pestaggio di Stefano Cucchi. Francesco Tedesco è l’imputato-testimone che con le sue dichiarazioni ha accusato altri due carabinieri svelando le botte che, secondo l’accusa, portarono alla morte del giovane, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e poi morto in ospedale una settimana dopo. Nel processo in corso sono imputati cinque carabinieri, tre dei quali – compreso Tedesco – accusati di omicidio preterintenzionale. E oggi Tedesco è presente in aula al fianco dei suoi difensori. Il difensore nel suo intervento ha spiegato che Tedesco era presente al momento del pestaggio ma intervenne per bloccare i suoi due colleghi. Tedesco, ha ricostruito il legale, ha liberato Cucchi “dalla morsa” dei due carabinieri “prima richiamando verbalmente il collega Di Bernardo e poi stoppando materialmente Raffaele D’Alessandro. Tedesco ha soccorso e protetto il ragazzo salvo poi, una volta lasciata la caserma, avvertire il comandante Mandolini di quanto accaduto poco prima”. Da lì, però, passarono nove anni prima che raccontasse la verità a un magistrato. “Le parole pronunciate da Tedesco mentre D’Alessandro e Di Bernardo stavano pestando Stefano, "Smettetela!! Non permettetevi!! Che cazzo fate?!?!", non sarebbero state sicuramente sufficienti a fermare la furia della violenza dei colleghi. Ci doveva essere un intervento fisico come è effettivamente accaduto”, ha scritto su facebook Ilaria Cucchi al termine dell’udienza. “In questa vicenda Francesco Tedesco ha rappresentato inconsapevolmente la più piccola e debole rondella di un ingranaggio smisurato e potente che per una volta ha ruotato in controfase. Lui ha cercato di fermare questo meccanismo ma ne è stato inesorabilmente travolto, investito”, ha detto il legale nella sua arringa. “Francesco Tedesco – ha aggiunto l’avvocato Pini – ha percorso un sentiero solitario; poi c’è stata la sua vittoria, una vittoria umana. Oggetto di questo processo è accertare se ha o meno concorso nell’omicidio di Stefano Cucchi, non misurare la tempestività o la puntualità delle sue dichiarazioni. Anche perché noi dobbiamo pensare in termini di relatività agli anni di silenzio; sia in termini soggettivi, domandandoci cosa avremmo fatto noi o meglio cosa avremmo potuto fare noi, sia in termini oggettivi. C’è qualcuno in questa aula che possa con certezza affermare che il pacchetto conoscitivo di cui disponeva Tedesco, se svelato anche un giorno prima, sarebbe restato integro e fruibile e non sarebbe stato sminato e combattuto fino a farlo disperdere?”. La richiesta è di “restare sordi innanzi a ogni tentativo di correlare il momento delle sue dichiarazioni alla sua credibilità; restare sordi innanzi ai tentativi di farlo nuovamente immergere nel silenzio; restare sordi innanzi a ogni tentativo di renderlo ridicolo; restare sordi innanzi a tutto quanto è periferico al processo anzi extraperimetrale”. Alla fine della sua arringa l’avvocato ha chiesto l’assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula ‘per non aver commesso il fattò. Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale ‘per non aver commesso il fatto’ e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. L’accusa ha chiesto invece di condannare a 18 anni di carcere Di Bernardo e D’Alessandro, i due presunti autori del pestaggio. Chiesta poi per l’accusa di falso la condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini, mentre il non doversi procedere per prescrizione dall’accusa di calunnia è stata chiesta per Tedesco, Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.

Lorenzo Attianese per l'ANSA il 31 ottobre 2019. Testimoni eccellenti in aula, per fare chiarezza sulla vicenda dei presunti depistaggi che sarebbero avvenuti dopo la morte di Stefano Cucchi. A chiedere che vengano a testimoniare nei prossimi mesi, in vista della prima udienza al nuovo processo Cucchi, quello sui presunti insabbiamenti messi in atto dalla scala gerarchica, sono i legali della famiglia di Stefano. In una lista di oltre trenta testi, che verrà depositata dall'avvocato Fabio Anselmo in vista della prima udienza al quinto processo Cucchi, ci sono anche i due ex ministri della Difesa, Elisabetta Trenta e Ignazio La Russa, e il comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri. Tra i generali c'è anche Vittorio Tomasone, che la parte civile chiede di ascoltare in merito a quanto l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma apprese circa l'inchiesta disposta dopo la morte di Stefano, sulla riunione che lo stesso generale tenne con i militari qualche giorno dopo e sulle informazioni apprese sugli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo del giovane. E proprio quelle note mediche presenti nella relazione del 30 ottobre saranno sotto l'attenzione degli inquirenti, perché all'epoca quel documento anticipava le conclusioni di esperti medici legali che ancora dovevano essere nominati. Tra gli altri generali che figurano nella lista testimoni e che potrebbero essere convocati in aula, ci sono Leonardo Gallitelli, Tullio Del Sette, Biagio Abrate e Salvatore Luongo. Alla sbarra, dal prossimo 12 novembre, ci saranno otto carabinieri, tutti componenti della catena di comando che secondo gli inquirenti avrebbe depistato le indagini per accertare le cause sulla morte di Stefano. Tra gli imputati ci sono anche alti ufficiali dell'Arma, che avrebbero orchestrato il tentativo di insabbiamento della verità sulla morte del geometra romano. L'imputato al processo con il più alto grado nell'Arma, l'allora comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa. Per l'accusa i depistaggi partirono proprio da quest'ultimo e a cascata furono 'messi in atto' dagli altri secondo i vari ruoli di competenza. Gli altri imputati sono il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, accusato di omessa denuncia; Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, già comandante della Compagnia Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all'epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni. Nel procedimento l'Arma dei carabinieri si è costituita parte lesa. Il prossimo 14 novembre sono invece previste due sentenze riguardo ad altri due importanti procedimenti sul caso Cucchi: quella al processo d'appello 'ter', nei confronti medici dell'ospedale Pertini, e quella riguardante la Corte d'Assise, che prenderà la decisione nell'altro processo a cinque militari dell'Arma, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per il presunto pestaggio.

L’ultima anomalia del caso Cucchi. La famiglia chiede che un giudice si astenga dal processo sui presunti depistaggi perché “troppo vicino ai carabinieri”: avrebbe partecipato a convegni con ufficiali dell’Arma. Maurizio Tortorella il 28 ottobre 2019 su Panorama. Tra le mille stranezze e anomalie del caso di Stefano Cucchi, il giovane tossicodipendente morto nell’ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare (da anni le cause della sua morte e le responsabilità sono oggetto di procedimenti giudiziari che coinvolgono alcuni militari dell’Arma dei Carabinieri e i medici dell'ospedale Pertini), ora c’è anche la decisione dei suoi familiari di chiedere l’astensione dal giudizio di Federico Bona Galvagno, magistrato del Tribunale di Terni. Galvagno dovrebbe giudicare nel processo appena avviato su presunti depistaggi legati al caso, un procedimento che vede fra gli imputati alcuni alti ufficiali dei carabinieri, ma secondo i familiari di Stefano Cucchi lo stesso Galvagno tra il 2016 e il 2018 avrebbe partecipato a una serie di convegni, inaugurazioni e conferenze cui ha preso parte fra gli altri anche l’ex comandante generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette. Per Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi, questo motivo basterebbe a fare del giudice Galvagno un magistrato “troppo vicino ai carabinieri”. In realtà, se passasse il principio che non debba partecipare a un qualsiasi giudizio che coinvolge aderenti alle forze dell’ordine un giudice che abbia partecipato a iniziative o manifestazioni pubbliche organizzate dalle stesse, probabilmente nessun processo di quel tipo potrebbe aver luogo. A essersene accorto è il solo Carlo Giovanardi, ex ministro, oggi rappresentante di Idea Popolo e Libertà: “A me pare un principio impossibile” dice. Giovanardi ricorda anche che la richiesta della famiglia Cucchi “avrà comunque un suo effetto sul prossimo processo, sia che il giudice Galvagno si astenga, sia che invece decida di confermare il suo impegno, ipotizzando ombre sul suo svolgimento, avendo lo stesso avvocato Anselmo precisato che questa scelta è stata fatta con l’obiettivo di sgomberare qualsiasi ombra da questo processo”.

Carlo Bonini per ''la Repubblica'' il 26 ottobre 2019. La battaglia della famiglia Cucchi non è finita. E alla vigilia ormai del terzo processo che si aprirà il 12 novembre agli otto tra ufficiali e sottufficiali dell' Arma imputati a diverso titolo per i depistaggi che, nel 2009 e nel 2015, impedirono di arrivare tempestivamente alla verità sull' omicidio di Stefano e sui suoi responsabili, Ilaria e i suoi genitori Rita e Giovanni (e con loro tutte le parti civili private che si sono sin qui costituite, dunque anche gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente processati nel primo giudizio di merito), chiedono formalmente, con un' istanza che è stata depositata al presidente del Tribunale di Roma, che il giudice monocratico assegnato a quel dibattimento si astenga "per gravi ragioni di convenienza". Il magistrato si chiama Federico Bona Galvagno e, fino alla primavera scorsa, è stato giudice a Terni. Ma, quel che conta, per la parti civili del processo per il depistaggio degli ufficiali dei carabinieri, è stato ed è "troppo vicino" all' Arma. E in particolare a uno dei suoi ex comandanti generali, Tullio Del Sette, per altro attualmente imputato proprio a Roma per violazione del segreto di ufficio nell' inchiesta Consip. «Da un casuale accesso a fonti aperte - si legge infatti nell' istanza depositata in tribunale - è emerso che il giudice Bona Galvagno ha partecipato, quale magistrato appartenente al Tribunale di Terni, a una serie di eventi (convegni, inaugurazioni, conferenze) tenutisi tra il 2016 e il 2018 che, sia per l' oggetto, sia per i partecipanti (tra gli altri, alti appartenenti all' Arma dei carabinieri), hanno attirato l' attenzione degli scriventi». In particolare, l' istanza ne elenca due: L' incontro dell' 8 maggio 2018, dal titolo "Sicurezza e Carabinieri: l' Arma oggi tra le forze dell' ordine" alla presenza dell' allora comandante generale Tullio Del Sette. E quello del successivo 22 novembre dello stesso anno - "Il ruolo dei Carabinieri nell' attuale mutamento socio-culturale", sempre alla presenza del generale Del Sette. Troppo - a giudizio dei Cucchi - per scacciare il dubbio che quel magistrato coltivi un' istintiva e consolidata vicinanza o, comunque, una non sufficiente serenità, per sedersi da giudice monocratico nell' aula dove si dipanerà il filo del più importante forse dei tre processi celebrati per la morte di Stefano. Quello sui depistaggi, appunto. Dove per altro il generale Del Sette, quale ex comandante generale dell' Arma negli anni in cui uno dei due depistaggi si consumò, verrà chiamato a deporre. E dove, inevitabilmente, uno dei nodi cruciali sarà comprendere per quale motivo un' intera catena gerarchica (quella dei carabinieri di Roma) cospirò per il silenzio lasciando che venissero accusati degli innocenti (tre agenti della polizia penitenziaria). E, soprattutto, se di quel silenzio fu o meno complice il vertice stesso dell' Arma (due i comandanti generali che si sono avvicendati tra il 2009 e il 2015, Gallitelli e Del Sette). «La situazione di fatto che si è venuta a creare - si legge così nell' istanza di astensione - può concretare quelle gravi ragioni di convenienza che i difensori delle parti civili ritengono sussistenti in relazione allo specifico tema del processo () Inoltre, dato il clima di forte sospetto dell' opinione pubblica sul tema oggetto del processo, la divulgazione mediatica delle informazioni sopra riportate, potrebbero far nascere speculazioni che finirebbero per influire sul clima di sereno giudizio necessario al corretto svolgersi del dibattimento». Si vedrà quale sarà la decisione del tribunale. Certo, questo incipit aiuta a comprendere quale sia la partita che andrà a cominciare tra due settimane (appena due giorni prima della sentenza che deciderà sui tre carabinieri imputati per l' omicidio di Stefano). Un processo dove l' Arma, per altro, sarà a sua volta parte civile e dunque accusa privata contro i suoi otto ufficiali.

Omicidio di Stefano Cucchi: dieci anni senza giustizia. Le Iene il 21 ottobre 2019. Dieci anni fa Stefano Cucchi moriva dopo un pestaggio violento di alcuni carabinieri. Un pestaggio che i Pm hanno definito "degno di teppisti da stadio". Con Gaetano Pecoraro e Pablo Trincia vi abbiamo raccontato in più servizi la tragica vicenda di Stefano Cucchi e la coraggiosa lotta per la verità portata avanti dalla sorella Ilaria. Dieci anni fa moriva Stefano Cucchi. Di un pestaggio violento da parte due carabinieri, un pestaggio che i giudici hanno definito “degno di teppisti da stadio”. Mentre si trovava nelle mani di uomini dello Stato, che avrebbero dovuto essere un presidio di giustizia. È un tristissimo anniversario quello che si consuma il 22 ottobre 2019 per un crimine che non ha ancora avuto giustizia. Proprio in questo giorno esce il libro della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi e dell'avvocato Fabio Anselmo, che ha seguito tutti i processi, "Il coraggio e l'amore". Il libro ricorda quel ragazzo sano e allegro di 31 anni: "Nulla poteva far pensare che fosse in pericolo di vita" e ripercorre una battaglia giudiziaria che è già storia d’Italia. Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso della morte di Stefano Cucchi. Il ragazzo viene fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. Stefano muore il 22 ottobre, in ospedale, mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di depistaggio e due di omicidio preterintenzionale. Uno di questi carabinieri, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Lo stesso pm Giovanni Musarò, nella requisitoria del processo ai militari, ha ricostruito le ultime tragiche ore di Stefano:  “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore. Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. Il detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli, aveva raccontato: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... 'Si sono divertiti', mi aggiunse". Pablo Trincia aveva intervistato l’ex moglie di un altro imputato (nel servizio che potte rivedre sopra), il carabiniere Raffaele D’Alessandro che racconta come l’ex marito parlava del caso: “Eh, c'ero anch'io quella sera là, quante gliene abbiamo date a quel drogato di merda”. Una tragedia a cui si è aggiunto un vergognoso depistaggio, come ha spiegato ancora il pm: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il prossimo 14 novembre è attesa la sentenza nel processo bis che vede indagati i cinque carabinieri, due dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Il pm ha chiesto 18 anni di carcere per i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.

«Senza le fratture Stefano Cucchi non sarebbe morto». Le parole dei periti in aula. La sorella Ilaria: «Dopo 10 anni è stato detto in tribunale quello che tutti sapevamo fin dall’inizio» Simona Musco il 16 giugno 2019 su Il Dubbio. A causare la morte di Stefano Cucchi ci sono più cause legate tra loro. Ma senza la frattura alla vertebra, causata dal pestaggio in caserma, probabilmente il giovane non sarebbe morto. È quanto ha detto ieri in aula bunker, a Rebibbia, Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari e perito del gip, sentito nel processo bis sulla morte del geometra romano, in merito alla perizia redatta nel 2016 dal collegio di esperti nominati dal gip, nella quale si parla di «morte improvvisa ed inaspettata per epilessia». Ma la malattia, hanno chiarito ieri i periti, non era «l’unica causa del decesso di Stefano Cucchi. Non abbiamo certezze». Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Per la sua morte sono imputati cinque militari, tre dei quali per omicidio preterintenzionale. Sono due le ipotesi sul piatto. La prima, non per importanza, ha chiarito Introna, parte da elementi concausali, come «il grave dimagrimento ( 15 chili in 7 giorni), la inanizione marcata, cronica, e la presenza anche di cardiopatie mai emerse» e che «da sole non avrebbero mai portato alla morte il soggetto». La seconda , invece, è quella di maggiore rilievo, ha spiegato il medico legale, ed è proprio quella che chiama in causa le fratture. Ed «ha un peso maggiore – ha aggiunto – essendo documentata». Si basa sulle «lesioni inferte», ovvero una frattura a livello del rachide lombare e una a livello del rachide sacrale. Quest’ultima, ha spiegato Introna, ha determinato «una vescica neurogena, ovvero una mancata sensazione della vescica» e una sua «dilatazione», con conseguente «riflesso vagale». Situazione che «insieme alla cardiopatia, all’inanizione, alla tossicodipendenza» ha determinato «la morte per un’aritmia». Ma quanto ha influito sull’evento morte quella frattura? «Se non ci fosse stata la lesione alla vertebra S4 il soggetto, verosimilmente, non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni, ovvero immobile nel letto, per problemi connessi alle fratture lombari. Non avrebbe avuto la vescica atonica e neurogena, probabilmente avrebbe avuto uno stimolo alla diuresi». Insomma, senza la frattura «e se il catetere non si fosse inginocchiato o ostruito, verosimilmente la morte del Cucchi non sarebbe accorsa o sarebbe accorsa in un altro momento». E oggi, dopo 10 anni, secondo la sorella della vittima, Ilaria Cucchi, «è stata detta la verità in un’aula di tribunale», quella che «tutti sappiamo fin dal principio: se Stefano Cucchi non fosse stato vittima di quel pestaggio non sarebbe mai finito in ospedale e non sarebbe molto». «Ora nessuno potrà dire che è morto per colpa propria», ha aggiunto l’avvocato Anselmo. Diverso il parere di Antonella De Benedictis, difensore di Alessio Di Bernardo, uno dei cinque carabinieri imputati. «Se anche venisse provata la lesione S4 come causa della vescica neurogena, la stessa non si sarebbe distesa e quindi non ci sarebbe stato il globo vescicale, qualora il catetere avesse funzionato correttamente – ha affermato Quindi il problema non è la lesione in sé, ma il malfunzionamento del catetere».

Caso Cucchi, i periti  del gip: «Senza lesioni  non sarebbe morto». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Ilaria Sacchettoni  su Corriere.it. Ascoltato in udienza Francesco Introna che ha coordinato il collegio dei periti, incaricato dal tribunale di stendere una relazione sulle circostanze che portarono alla morte di Stefano Cucchi, sottolinea un elemento. L’insorgenza della vescica neurogenica nella vittima. Una dilatazione vescicale che non si sarebbe verificata se il ragazzo fosse stato adeguatamente sorvegliato. Ma che certamente non si sarebbe verificata se non fosse stato colpito in precedenza. «In sostanza se non ci fossero state lesioni non sarebbe finito in ospedale e non sarebbe morto» dicono i periti. Il collega di Introna, Vincenzo d’Angelo spiega nei dettagli come funziona: «Il parasimpatico fa svuotare la vescica — dice — ma quando c’è una lesione il parasimpatico può paralizzarsi. Se la vescica si dilata in eccesso può portare a disturbi anche cardiaci». Certamente, spiegano gli esperti, non c’era più una autonoma gestione dello svuotamento della vescica. Cucchi non riusciva più ad andare in bagno. Mille quattrocento centilitri sono stati trovati con autopsia sottolineano i periti. Introna sottolinea come sulla base delle risultanze dell’autopsia Stefano Cucchi inalò sangue. Fu trovato nei bronchi e nello stomaco. Il collegio dei periti spiega di aver rintracciato un edema nel corpo. Quanto all’epilessia, i periti confermano su sollecitazione della parte civile, avvocato Stefano Maccioni, che, dalla documentazione disponibile, Cucchi non risultava avere mai avuto crisi epilettiche durante il sonno. Il processo Cucchi bis è iniziato un anno fa, mentre un terzo filone della vicenda è in discussione in questi giorni davanti al giudice per le udienze preliminari. Si tratta della tranche che vede indagati sette carabinieri per il reato di depistaggio, falso e favoreggiamento. Secondo l’accusa, infatti fra il 2009 e il 2015 un gruppo di carabinieri, fra cui anche un generale, avrebbero contribuito a depistare le indagini sulla morte di Stefano Cucchi. Per quest’ultimo filone la presidenza del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri si sono dichiarati parti lese, la decisione dei giudici è attesa a luglio.

Caso Cucchi, i periti del gip: "Morte dovuta a concatenazione di eventi". Secondo gli esperti nominati dal giudice "senza la frattura della vertebra non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento". la Repubblica il 14 giugno 2019. Stefano Cucchi è morto per "una concatenazione di eventi". Lo hanno affermato nell'aula bunker di Rebibbia i periti nominati a suo tempo dal gip e ascoltati oggi al processo bis sul pestaggio e sul decesso del geometra 31enne, morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Entrando nel dettaglio e ripercorrendo la perizia redatta nel 2016, gli esperti hanno spiegato che "l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata di un paziente affetto da epilessia resta la principale, ma non abbiamo mai detto che la malattia fosse l'unica causa del decesso di Stefano Cucchi". Infatti, hanno affermato, "anche in assenza della frattura della vertebra S4 la morte di Cucchi non sarebbe capitata o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso". "Nessuno può avere certezze. Se non ci fosse stata la lesione S4 il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento", ha detto uno dei periti. "Non abbiamo certezze, parliamo sempre e comunque di ipotesi" sulle cause che hanno portato al decesso del ragazzo, hanno aggiunto i periti che hanno definito come "più attendibile" l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata. "C'è un vuoto tra la notte del 21 ottobre e il 22 ottobre 2009 - hanno ribadito -. Il secondo momento è quello in cui al Pertini si sono accorti che Cucchi era morto; ma non sappiamo cosa sia accaduto in quelle ore". "Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto", ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al termine dell'udienza al processo sulla morte del detenuto che si è svolta nell'aula bunker di Rebibbia. "Ora nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria", ha aggiunto Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.

Il caso Cucchi e la strage di Bologna visti da un medico di carcere. "uomini come bestie", il libro, scritto da Francesco Ceraudo, ex presidente dell’Associazione medici penitenziari, ipotizza una lettura originale per le due vicende giudiziarie. Maurizio Tortorella il 13 giugno 2019 su Panorama. Dubbi sul caso Cucchi, con un indice puntato soprattutto sui medici dell’Ospedale Pertini, che a suo dire non avrebbero adeguatamente curato e nutrito il detenuto, meritevole di un trattamento sanitario obbligatorio. Dubbi anche sulla verità giudiziaria sulla strage di Bologna, e la convinzione che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non ne siano i veri colpevoli. Questo e altro scrive Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere di Pisa, poi presidente dell'Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana, nel suo libro “Uomini come bestie, il medico degli ultimi” (edizioni Ets, 310 pagine, 19 euro) la cui prefazione è stata scritta da un detenuto di fama: Adriano Sofri.

Su Cucchi, Ceraudo scrive: “Da medico penso che si sarebbe dovuti intervenire immediatamente e fare un certificato di incompatibilità con la carcerazione, così che il magistrato avrebbe potuto mandarlo agli arresti domiciliari”. Il professore ricorda anche che la famiglia di Cucchi “è stata già risarcita dall'Ospedale Pertini con 1 milione e 340 mila euro, e anche questo dice molto sul versante delle responsabilità”. 

Sulla strage di Bologna, per la quale a suo tempo è stato interrogato come teste (peraltro ritenuto inattendibile) Ceraudo ricorda che Francesca Mambro è stata sua paziente per tanti anni a Pisa: “Ha riferito con molta chiarezza ciò di cui è stata responsabile” scrive Ceraudo, mentre il medico si dice convinto non abbia fatto altrettanto uno dei principali testimoni dell’accusa, e cioè Massimo Sparti, “un pregiudicato romano di simpatie neo-naziste, appartenente alla banda della Magliana”. A sua volta rinchiuso nel carcere di Pisa nel dicembre 1981, Sparti fu messo in libertà sulla base di accertamenti diagnostici che indicavano un cancro al pancreas. “Dal momento in cui è stato liberato” scrive però il professor Ceraudo “Sparti ha vissuto altri 23 anni ed è deceduto per tutt’altro motivo”.

·         Processo Cucchi, medici verso la prescrizione. 

Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.  Il pg: «E’ una sconfitta per la giustizia». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Una prescrizione che rappresenta anche una sconfitta della giustizia. Così, nove anni dopo, invocando l’estinzione del reato (omicidio colposo) nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, primario e medici del «Sandro Pertini» dove Stefano Cucchi, detenuto, morì, il procuratore generale Mario Remus sottolinea la resa giudiziaria implicita in questo (inevitabile) passaggio. Perché qualunque sia, a questo punto, l’esito del processo bis nei confronti dei carabinieri accusati di aver picchiato Cucchi, o di quello eventuale verso ufficiali e sottoufficiali che, secondo la nuova inchiesta della Procura, depistarono le indagini, è certo che nel reparto dell’ospedale «Pertini» si verificarono «negligenze imperdonabili». Di più: è lecito parlare, secondo Remus, di una mancanza di «umanità» da parte dell’ospedale. Non solo Cucchi non fu trattato con la dedizione e il riguardo che meritava. Ma, come sottolinea anche l’avvocato del Campidoglio (parte civile), Enrico Maggiore, ci furono lacune e superficialità imperdonabili. Neppure la disidratazione del paziente fu rilevata. Un fatto che, per il pg, rappresenta l’indice «di una trascuratezza inammissibile e di una sciatteria che imperversava in quell’ambiente». Dunque l’accusa di omicidio colposo nei confronti degli imputati, pur in via di prescrizione, appare supportata da elementi incontrovertibili né è vero che il ragazzo non collaborasse: «Cucchi — dice Remus — era un paziente difficile sotto l’aspetto psicologico ma non è vero che non collaborava. Un tocco di umanità sarebbe bastato per salvarlo». Da quei medici, conclude l’accusa, non fu ascoltato «dal punto di vista sanitario e da quello psicologico». Quanto al primo processo, messo in piedi tra «imputazioni traballanti» nei confronti dei medici e accuse ingiustificate nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, è «iniziato male» e proseguito «peggio». L’esito — prescrizione per i sanitari del Pertini — è frutto dei depistaggi dell’Arma secondo la famiglia Cucchi. In questa direzione il commento dell’avvocato Fabio Anselmo: «Credo che la dichiarazione di prescrizione sia lo stigma finale di sette anni di depistaggi dei quali, dal 21 maggio (giorno in cui è fissata l’udienza davanti al gip per gli otto carabinieri indagati dal pm Giovanni Musarò, ndr) in poi, saranno chiamati a rispondere generali e alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri». Sul punto interviene anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: «Un processo del tutto sbagliato fatto a spese e sulla pelle della nostra famiglia che ha pagato un prezzo altissimo ma che, fortunatamente, oggi si trova in una fase completamente diversa. Una fase di verità, arrivata grazie al nostro impegno e soprattutto a quello di Fabio Anselmo, ma anche grazie alla presenza di tutti coloro che, in tutti questi anni, non ci hanno mai abbandonati perché da soli non si fa niente».

·         Pietre sulla Petrelluzzi.

Ilaria Cucchi contro Un giorno in Pretura: "Spazio solo a show". Ma è uno show che serve. Le due puntate non sono piaciute alla sorella di Stefano. Che scrive su Facebook tutta la sua rabbia e amarezza per i tagli e le omissioni. «Grazie per il servizio pubblico offerto». Ma da casa l'impressione è stata ben diversa. E ciò che resta è il senso immane di ingiustizia per aver dovuto attendere 10 anni. Beatrice Dondi il 25 novembre 2019 su L'Espresso. «Anche stasera 'Un giorno in Pretura' non si è smentito. Ha completamente tralasciato due intere udienze sul tema medico legale, che hanno risolto il nostro processo, per dar spazio allo show dell'avv. Naso. L'avv. Anselmo ovviamente è stato totalmente oscurato così come i nostri medici legali ma soprattutto quelli del Giudice quando affermano che Stefano senza le botte non sarebbe morto. Ma non avevamo dubbi. Posso solo dire che mi dispiace per il Dott. Musarò e per il Dott. Pignatone ma d'altra parte tutti ricordiamo bene i selfie fatti in aula mentre si svolgeva il processo. Mi ha chiamata mia madre disgustata. Pubblicherò sulla mia pagina tutto ciò che "Un giorno in Pretura" ha omesso. Grazie per il servizio pubblico offerto». Scrive così Ilaria Cucchi su Facebook, quando la seconda puntata del programma in onda su Rai Tre si è chiuso sulla sentenza. Lo scorso maggio aveva fortemente criticato la condutrice del programma Roberta Petrelluzzi per quella foto in Aula con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini, un atteggiamento confidenziale con la difesa ritenuto del tutto fuori luogo. E lo stesso sentimento di indignazione lo esprime l'avvocato Anselmo, che definisce il programma di Rai Tre "Imbarazzante. Tutte le questioni medico legali liquidate ed oscurate. Il taglio della vertebra l3. Il nesso causale. La testimonianza scioccante della dottoressa Feragalli. Quella del Prof. Masciocchi. Quella dei Periti. Che tristezza. Mi spiace per il lavoro del dott. Musarò e del Procuratore Pignatone completamente annichiliti. Va beh. Lo sapevo fin dalla imbarazzante udienza dei selfie. Il processo Cucchi è stata tutta un’altra cosa. Lo sappiano coloro che hanno guardato la trasmissione. Si è arrivati addirittura al tifo per l’appello". Ma da casa ciò che resta nella testa del pubblico che ha visto la trasmissione è altro. Rabbia sì, ma in primis per aver dovuto attendere 10 anni prima di sentire le parole "colpevoli". Era il 2009, una sera di fine ottobre. Durante Anno Zero, condotto da Michele Santoro, una giovane donna si alzò in piedi. Per raccontare la tragica storia di suo fratello Stefano, arrestato per spaccio e morto “all’improvviso” dopo sei giorni all’ospedale Pertini. Ilaria Cucchi aveva cominciato a denunciare cosa era accaduto a quel ragazzo massacrato, «con un occhio fuori dalle orbite, una mascella visibilmente rotta», ucciso da uno Stato che aveva il dovere di proteggerlo. E non avrebbe più smesso, Ilaria, in tutti gli studi, davanti a ogni telecamera, come un dito spinto nel costato delle coscienze. Ma nulla sembrava bastare, non le interviste, non i faccia a faccia, neppure il film “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi calato nei lividi, nel filo di voce, nel respiro spezzato di Stefano Cucchi era riuscito a tutelare quella verità terrificante dalla violenza dell’insinuazione, del dubbio. Per trasformare quelle parole già lette e sentite, quelle lacrime, già viste e asciugate in purissima realtà per tutti ci volevano i microfoni accesi tra le mura di un tribunale di una televisione una volta tanto testimone silente. Per questo vedere quelle due puntate di “Un giorno in pretura”, che in prima serata, seppur parziali, tagliate, rimontate hanno mostrato le fasi del processo in cui i carabinieri autori del pestaggio sono stati condannati per omicidio ha avuto un effetto roboante. Non droga, ma botte. E all’improvviso la tv diventa portatrice  di realtà. I ricordi e le testimonianze che per anni Ilaria ha ripetuto con fermezza ricevendo spesso in cambio manciate di commenti esecrabili, vanno in onda  aprendo occhi sinora rimasti chiusi. E l’esperienza a quel punto, diventa un dolore comune non più negabile. Dal racconto  monocorde di Francesco Tedesco, che srotola i fatti, il calcio all’altezza dell’ano, la caduta di Stefano, il rumore della testa che sbatte sul pavimento. All’immagine dell’obitorio, le urla del padre, i depistaggi, le bugie, gli schiaffi. Sino alle parole della signora Rita, che ripercorre quei minuti in cui un carabiniere entra in casa sua, le chiede di seguirlo per andare in caserma a firmare dei documenti e poi, senza guardarla, prende i fogli, li piega e le dice: «Le devo dare una brutta notizia, suo figlio è deceduto». «Ma sei giorni fa stava bene»... «Io non lo so, le dico soltanto che suo figlio è morto». Senza filtri, luci, mediazioni. Solo una voce spezzata. Che rompe in due chiunque la guardi. Mancano, certo, tanti tasselli al puzzle. Ma quando si arriva alla sentenza, tutti da casa si devono sono obbligati a vedere, senza più un alibi che permetta di girare la testa.

PIETRE SULLA PETRELLUZZI.  Ilaria Cucchi sulla sua bacheca Facebook: il 20 maggio 2019. Alla fine ho deciso di parlare. Ieri, un giorno in Pretura. Anzi no. Un giorno in Corte d’ Assise. Uno dei tantissimi giorni trascorsi in Tribunale da me e dai miei genitori. Era un momento di pausa quando, uscendo, dall’aula ho notato la conduttrice della notissima trasmissione televisiva “Un giorno in Pretura“, Roberta Petrelluzzi, parlare in modo strettamente confidenziale con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini. Non l’avevo mai vista prima di persona. Nulla di male, per carità. La mia memoria va a sei anni fa, quando, in un momento di nostra grande difficoltà, la trasmissione dedicò un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate. La redazione ci chiese tutti gli atti che fornimmo regolarmente. Chiesi di poter parlare con lei ma mi venne opposto un netto rifiuto. “Non le vuole parlare per non essere influenzata”. Rispettai quella decisione anche se il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte. Quando, dopo qualche minuto, sono rientrata in aula, la scena che ho avuto davanti è la seguente: la signora Petrelluzzi che, con sorrisi e grande cordialità, spalle ai banchi della Corte, si fa fare numerosi selfie, guancia a guancia, con gli avvocati degli imputati. Si rivolge poi all’avvocato Pini che era nelle vicinanze per chiedergli: “Ma tu chi difendi?” “Tedesco”, gli risponde lui. “Stai sempre dalla parte sbagliata eh!”, ribatte lei. Tutto questo è avvenuto di fronte a noi famigliari e giornalisti. Che dire? Facciamoci un selfie che tutto passa. Farò una segnalazione all'ordine dei giornalisti ed alla direzione generale della Rai. Intanto pubblico la foto con il difensore di D'Alessandro mentre con me non ha mai voluto parlare perché doveva essere super partes.

Selvaggia Lucarelli il 20 maggio 2019. L'ammirazione e la riconoscenza che provo per per Ilaria Cucchi rimarranno immutate, ma quello che ha scritto su fb su Roberta Petrelluzzi è ingiusto. La giornalista di "Un giorno in pretura" non ha fatto alcun selfie sorridente in aula. Quella che l'avvocato della controparte ha fatto scattare da non so chi e pubblicato è una foto che lo stesso avvocato le ha chiesto perchè "suo mito". Parlare di selfie è fuorviante e scatena un sentimento negativo e immeritato. Sostenere che la Petrelluzzi, sei anni fa, quando stava per raccontare le prime fasi del processo Cucchi si sia rifiutata di parlare con lei per rimanere imparziale e trovare inopportuno che oggi invece si scambi qualche parola con gli avvocati degli imputati, è scorretto. Fa bene la Petrelluzzi a non voler rimanere coinvolta emotivamente dalle storie che racconta, perchè lei racconta i processi, non i sentimenti. E gli avvocati non sono gli imputati, questo processo di identificazione è profondamente sbagliato. Scambiare due parole in aula con un avvocato che magari si conosce da tempo, non significa nulla. Se si fosse appartata a chiacchierare con gli imputati sarebbe stato diverso. I difensori non sono i loro assistiti e un rapporto cordiale tra la Petrelluzzi e due avvocati non vuol dire, di conseguenza, una narrazione sbilanciata a favore dei loro clienti. E a tal proposito, Ilaria Cucchi fa un velato riferimento a Un giorno in pretura e a "un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate... il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte". Quel processo, dalla Petrelluzzi, fu raccontato, non interpretato o giudicato. Era sbilanciato, dunque è normale che sia stato raccontato così. Se Ilaria Cucchi ritiene che la Petrelluzzi lo abbia raccontato con malafede o realizzando montaggi ingannevoli, ci dica cosa intende, altrimenti sono accuse sfocate, che massacrano la conduttrice senza chiarire il perchè. La minaccia di segnalazioni all'Odg e alla Rai sono francamente insensate. Non si capisce cosa vada segnalato. Il rapporto cordiale della Petrelluzzi con degli avvocati? Una foto fatta in un tribunale? (anche la Cucchi ha pubblicato foto fatte in tribunale) Cosa? La battuta che la Petrelluzzi avrebbe fatto all'avvocato di Tedesco poi si presta a varie interpretazioni. Non credo, francamente, che una Petrelluzzi si sia messa pubblicamente a fare ironia sulla vicenda lasciando intendere che lei sia dalla parte di chi ha picchiato Stefano o più genericamente da quella degli omertosi. E' più probabile che intendesse dire "sei dalla parte sbagliata della storia, ovvero dei carabinieri", al di là del fatto che alla fine Tedesco abbia raccontato del pestaggio. Voglio dire, vi pare plausibile che volesse dire ad alta voce che la parte sbagliata è quella di Ilaria Cucchi e di chi ha cominciato finalmente a parlare? Ecco. Chiudo con un'ultima osservazione: io capisco che dopo tutto quello che ha passato Ilaria Cucchi la sua suscettibilità, l'amarezza, la frustrazione non possano essere misurate attenendosi a parametri comuni, ci mancherebbe. E posso pure capire che abbia trovato inelegante la Petrelluzzi, perchè chiunque non mostri disprezzo verso chi ha mentito per anni è tuo nemico, perfino se è un avvocato e fa solo il suo lavoro. Perfino se è una conduttrice che alla fine mostra solo quello che succede nelle aule, senza letture e dietrologie. Però la mia sensazione è che quest'accusa pubblica sia una mannaia troppo grossa, immeritata. Ilaria Cucchi, in questo momento, ha un enorme potere mediatico e lasciando intendere che la Petrelluzzi sia una pessima giornalista nonchè una che tifa per i cattivi ("Mostrerò i video!"), annienta la reputazione di una giornalista che fa questo lavoro da decenni. Le macchia una carriera appassionata e rigorosa. E non sono cose da cui ci si risolleva facilmente, specie a 75 anni. Roberta Petrelluzzi è una delle poche giornaliste che ha sempre raccontato la cronaca senza fronzoli, senza falsi scoop, senza i sensazionalismi così di moda, cercando di narrare quello che accade nelle aule di giustizia con l'asciuttezza e la distanza che tutti le hanno sempre riconosciuto. E se tanti hanno conosciuto la storia di Stefano è anche grazie a Un giorno in pretura, che a questa storia ha dedicato tante puntate. Continuo ad ammirare Ilaria, ma no, questa volta non posso darle ragione. Poteva farle una telefonata e urlarle la sua rabbia, ma questa gogna la Petrelluzzi non se la meritava. Per niente.

·         Ilaria Cucchi: una donna normale.

Ilaria Cucchi ospite a Domenica In, sui social tanti insulti vergognosi. La Repubblica il 27 ottobre 2019. "Mi manca mio fratello, mi manca da morire" e intanto, mentre Ilaria Cucchi legge su Rai Uno alcuni passi del libro dedicato alla morte del fratello Stefano, sotto il post dedicato all'ospite condiviso sui social da Domenica In spunta una vergognosa sequenza di insulti. "Pensi ai soldi", "Ma basta! E i poliziotti e i carabinieri che hanno perso la vita?", "Morto da solo come un cane...hai detto bene ma questo è accaduto per scelta sua e vostra come famiglia" . E anche, "Scusa, perchè non parli di Bibbiano?". E' questo il tenore di moltissimi dei commenti, in tutto oltre 400, postati sotto una breve clip dell'intervista a Ilaria Cucchi, accompagnata dall'avvocato ( e suo compagno) Fabio Anselmo. Una testimonianza forte che evidentemente però ha "disturbato" il pubblico della tivvù domenicale. Che forse tanto placido non è, stando almeno al tenore delle cattiverie che tributa a Ilaria Cucchi. C'è chi se la prende direttamente con la Venier: "Domenica la gente vuole un pò di leggerezza ed in questo tu sei brava, e invece quel tono di voce lacrimevole non ci sta proprio", chi contro la giovane donna: "Quando finirà questa telenovela, ancora a lucrare sul fratello, sappiamo vita morte e miracoli di questa storia, non se ne può più". E un altro che commenta: "Oggi mio figlio si è sintonizzato su Rai 1 per sbaglio. Mi ha rovinato la domenica. Ho smemorizzato il primo canale, così neanche per sbaglio lo vedremo più". E sono poche le voci che cercano di porre un freno a tanto veleno.

Cucchi, una famiglia in lotta per tutti noi. È stata una vittoria importante quella dei parenti di Stefano. Perché combattuta con grande coraggio, e soprattutto ottenuta attraverso il Diritto. Roberto Saviano il 24 novembre 2019 su L'Espresso. Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il “colpevole” e lo colpisce a morte», scrisse Marco Pannella nel 1973. In queste parole come fare a non leggere ciò che ha significato per l’Italia la vicenda Cucchi? La vicenda Cucchi, sì, perché non riguarda solo Stefano, ma anche la sua famiglia, una famiglia che non è arretrata, che non ha avuto paura, o che forse ne ha avuto, ma si è comunque aggrappata con una determinazione incredibile a tutto il coraggio che aveva a disposizione. Pannella, nella frase che ho ricordato, usa le virgolette per la parola “colpevole” e lo fa perché spessissimo si punisce la vittima, credendola qualcos’altro. Si punisce la vittima spacciandola per colpevole o peggio: la vittima è vittima, ma una volta morta, deve diventare qualcos’altro per evitare che il nostro sistema di “valori” vada in frantumi. I Radicali si sono negli anni occupati di tutti quei casi, che poi sono persone, in cui “colpevoli” hanno perso la vita mentre erano affidati alle cure o alla tutela dello Stato; quindi so che se non racconto qui ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi, a Giuseppe Uva e a Riccardo Magherini sto omettendo una parte importante della storia della difesa dello Stato di Diritto, sto omettendo informazioni che per voi che leggete potrebbero essere importanti per comprendere come si arrivi al caso Cucchi; per comprendere fino in fondo con quale senso di ingiustizia ci siamo specchiati nel volto tumefatto di Stefano che Ilaria ha avuto il coraggio di mostrarci. In quel volto abbiamo visto i nostri volti perché sappiamo di non essere al riparo, perché non crediamo di essere migliori, immuni, lontani; ci siamo specchiati perché siamo uomini e sappiamo che ciò che accade a uno di noi, può accadere a tutti. E Ilaria ha mostrato il corpo martoriato di Stefano sapendo bene almeno due cose: che avremmo ricordato suo fratello così e non come in quelle foto, in cui sono insieme, fratello e sorella, e sorridono. E che chi ha in famiglia persone cadute nella rete della tossicodipendenza è solo. Le famiglie dei tossicodipendenti sono sole, sole a gestire problemi troppo più grandi di loro. Sole e spaventate, tra l’incudine e il martello. E nessuno, se non poche, pochissime persone, a tendere una mano. Non è facile lottare per avere giustizia dopo la morte di un familiare che ha avuto problemi di droga, decidere che nonostante quello che penseranno le persone, nonostante quello che diranno, avere giustizia è l’unico modo per non perdere fiducia in tutto. «Da oggi potrai riposare in pace», dice Ilaria Cucchi pensando a suo fratello, lei che dieci anni fa aveva fatto una promessa e, agendo nel Diritto, l’ha mantenuta. Aveva promesso che avrebbe lottato perché sulla morte di Stefano emergesse la verità, e cioè che Stefano non è morto per droga - perché “tossico”, “drogato”, “spacciatore”, sì, così negli anni lo hanno chiamato - ma perché picchiato a morte. Servirebbe un trattato per dire quanto la lotta della famiglia Cucchi nel Diritto sia preziosa per il nostro Paese perché ha portato alla luce, una volta per tutte, un fatto che deve essere chiaro: chi è affidato allo Stato deve sentirsi al sicuro e non minacciato. E, per corollario, che chi fa uso di droghe, va curato e non punito. Mi ha commosso la foto di Ilaria Cucchi in Tribunale, mi ha commosso vedere la sua mano stretta nella mano del maresciallo presente in aula, che l’ha portata alla bocca e l’ha baciata: «Finalmente dopo 10 anni è stata fatta giustizia», ha detto quel carabiniere mentre compiva un gesto antico. Dal 2006 vivo tra carabinieri e so che questa sentenza ti rompe dentro se sai che qualcuno, con la tua stessa missione, ha tradito ciò in cui credi. Ma so anche che i carabinieri che conosco non permetterebbero mai che un colpevole si nascondesse dietro la loro divisa. La verità sulla tua morte, caro Stefano, è importante per te e per la tua famiglia, ma è fondamentale per noi, perché è l’affermazione dello Stato di Diritto. E oggi sappiamo che non c’è divisa sotto la cui protezione i colpevoli potranno trovare riparo. Mai più.

Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo: un amore  nato dalla lotta per Stefano. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Sul magazine la storia di dolore e felicità. Ilaria Cucchi, 45 anni, insieme con Fabio Anselmo, 62 anni, suo avvocato e compagno, nella loro casa di Roma (foto Ada Masella)In occasione del decimo anniversario della morte di Stefano Cucchi (qui il podcast di Corriere.it), pubblichiamo un’anticipazione dell’articolo di Giovanni Bianconi per 7 sulla relazione tra la sorella del giovane romano morto dopo l’arresto, Ilaria Cucchi, e l’avvocato che l’ha seguita in tutti questi anni: Fabio Anselmo. L’articolo completo sarà pubblicato sul prossimo numero di 7 in edicola venerdì 25 ottobre. Le ultime parole sono affidate a Fabio che ricorda quando il carabiniere Francesco Tedesco, davanti alla Corte d’Assise, terminò la confessione del pestaggio di Stefano Cucchi: «Si alza dal banco dei testimoni e non si avvia subito all’uscita dell’aula. Viene verso di noi. Va da Ilaria, che nel frattempo si è alzata in piedi. Le porge la mano. Ilaria ha una breve incertezza, poi accetta quella stretta». Il libro finisce lì. Ma poi che è successo? Che cosa ha pensato, provato, e detto lei? Risponde Ilaria: «Io la mano non gliela volevo stringere. Tedesco aveva appena finito di raccontare ciò che fino a quel momento avevamo solo potuto immaginare, e i suoi nove anni di silenzio sono stati la causa del nostro dramma. Poi ho ripensato ai silenzi e all’omertà degli altri testimoni e imputati, e a quanto gli dev’essere costata una confessione che avrebbe continuato a pagare cara. Così ho teso la mia mano. Lui ha detto “mi dispiace”; io avrei voluto rispondere “dispiace più a me”, invece ho detto “grazie”». Gli scatti dei fotografi hanno immortalato la scena. Un dolore esposto in pubblico e ripercorso nel libro che Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, il suo avvocato diventato il compagno di una nuova vita, hanno deciso di pubblicare nel decimo anniversario di una morte ancora in attesa di giustizia: Il coraggio e l’amore - Giustizia per Stefano: la nostra battaglia per arrivare alla verità. Un altro passo sotto la luce dei riflettori, che durante questi dieci anni non si sono mai spenti. Per non far calare l’attenzione dell’opinione pubblica ma anche — potrebbe sospettare qualcuno — per strumentalizzare e orientare le inchieste e il processo. Tanto più alla vigilia della sentenza per i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. Fabio: «Non abbiamo strumentalizzato niente e non rinnego nulla di quello che abbiamo fatto. Se mi volto indietro e rivedo ciò che abbiamo dovuto subire, da un processo sbagliato (agli agenti penitenziari assolti, ndr) ai continui interventi a gamba tesa di ministri e scale gerarchiche, mobilitate con tutto il loro potere, credo che abbiamo fatto quel che dovevamo. Come dimenticare che il medico incaricato di stabilire le cause della morte di Stefano annunciò in tv le sue conclusioni prima ancora di cominciare il lavoro? E che la Procura rimase a guardare in silenzio? Avevamo lo scopo di farli vergognare, denunciando tutto, perché di fronte a certe storture e violazioni non c’era altra strada. E ci siamo riusciti».

Sempre mettendo avanti la faccia di Ilaria, che dalla prima intervista in tv, la sera stessa in cui morì suo fratello, è apparsa dura e gentile insieme, distesa e decisa, serena anche quando era arrabbiata: «È la mia arma migliore», confessa nel libro l’avvocato Anselmo. Fabio: «È vero. In tanti altri casi ho dovuto farmi carico di rappresentare il dolore dei familiari delle vittime, e non c’è cosa più triste. Stavolta no, perché il volto di Ilaria era perfetto. E quello che diceva ancora di più». Ilaria: «Mi sono trovata catapultata in un mondo che non era il mio, con un microfono davanti alla bocca, all’improvviso, senza sapere cosa dire. Mi è sempre venuto tutto spontaneo, ma ho dovuto rinunciare alla dimensione privata del dolore per metterlo in piazza. Ho faticato a prendere la decisione, ma non a interpretare una parte, perché non l’ho mai fatto: ho sempre detto quello che pensavo, e tirato fuori ciò che avevo dentro». Fabio: «Lei è sempre uguale, davanti a una telecamera o in casa; naturale e diretta, veloce come un Frecciarossa. Senza il suo viso e il suo modo di essere, la sua semplicità così dirompente, non ce l’avremmo mai fatta. E io mi sono innamorato anche di questo»...

Davide Desario per Leggo l'8 ottobre 2019. Ilaria Cucchi ha 45 anni. Ha un lavoro (il suo studio amministra condomini). E ha due figli. Ma da dieci anni non ha più suo fratello: Stefano, è morto a 31 anni all’ospedale Pertini di Roma (reparto detenuti) dove era stato ricoverato in condizioni disumane dopo essere stato fermato dai carabinieri perché trovato in possesso di un piccolo quantitativo di sostanze stupefacenti. Era il 22 ottobre del 2009. Pesava appena 37 chili.

Partiamo dalla fine: nell’ultima udienza del processo il Pubblico ministero Giovanni Musarò ha chiesto 18 anni di reclusione per i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Che ne pensa?

«Penso che il Pm non abbia chiesto pene esemplari ma pene giuste. Sono passati dieci anni e finalmente lo Stato è al nostro fianco. Ma abbiamo dovuto soffrire. Io e i miei genitori abbiamo dovuto sopportare indagini truccate, depistaggi e momenti di sconforto che non auguro a nessuno».

Mi dica il primo che le viene in mente.

«La requisitoria di primo grado nel 2013, quando il pm Maria Francesca Loy definì mio fratello un cafone maleducato. Sembrava che il processo fosse contro Stefano e non contro chi lo aveva ridotto così mentre era nelle mani dello Stato. È stata dura ma ne è valsa la pena. Le cose ora sono cambiate. Lo Stato sta dimostrando che la legge è uguale per tutti, senza sconti. Anche per chi si nasconde dietro una divisa».

Cosa avete organizzato per questo anniversario?

«Questo fine settimana ci sarà uno splendido memorial in due giornate. Sabato una serata di musica e diritti all’Angelo Mai. E domenica mattina una maratona e tanto sport, come piaceva a mio fratello, nel Parco di Torre del Fiscale. E per la prima volta vivrò tutto questo senza il peso di dover chiedere scusa a Stefano per averlo sottoposto a dieci anni di processi».

Dieci anni: tanto tempo? Poco tempo?

«A me sembra ieri. Il tempo sembra si sia fermato. Sarà che non mi sono fermata un attimo. Che non ho avuto il tempo di pensarci perché dovevo lottare per lui. Anzi dovevamo: perché da soli non si fa niente. Poi però, quando faccio fatica a ricordare com’era la voce di Stefano, mi rendo conto di quanto tempo è andato via».

In questi dieci anni c’è mai stato un giorno che non abbia pensato a suo fratello?

«No, mai. Mi sveglio ogni mattina con il suo pensiero. E questo pensiero mi ha dato la forza per andare avanti. Per superare problemi di ordine economico, sì ci sono anche quelli in una brutta storia come questa. Ma soprattutto problemi sul piano emotivo. Io e la mia famiglia abbiamo dovuto patire delle sofferenze che non riesco nemmeno a spiegare. Basti pensare a come ce lo hanno restituito, a come l’hanno ammazzato. Non solo di botte. Ma di pregiudizi. Di solitudine».

Le tornano in mente ricordi di quando giocava con suo fratello da bambina?

«Certo. Quando venivano le mie amiche a casa, per esempio, lo usavamo come un bambolotto e ci divertivamo a vestirlo. E lui stava al gioco».

Come la chiamava Stefano?

«Usava sempre il mio diminutivo, Ila».

E lei?

«Io lo chiamavo tappetto, perché è sempre stato piccolo».

Oggi c’è una canzone su tutte che glielo ricorda subito?

«Sì, il Cielo di Renato Zero».

Perché?

«Ricordo una scena di qualche anno fa. Eravamo a Tarquinia in campeggio. Stavamo facendo un barbecue in famiglia, cercavamo un momento di serenità. Il mio compagno ha messo un po’ di musica all’Ipad ed è partita la canzone di Renato Zero. Ci siamo voltati e abbiamo visto mio padre Giovanni piangere come un bambino».

Cosa le è rimasto nel suo cassetto di Stefano?

«Conservo tante cose. Ma su tutte c’è quello che rappresenta la voglia che Stefano aveva di cambiar vita. Si stava dando molto da fare nel seguire le pratiche nei cantieri. Ci credeva. Gli piaceva. E così si era fatto fare i bigliettini da visita. Ma sono arrivati, qualche giorno dopo la sua morte».

Cosa c’è scritto?

«Stefano Cucchi, geometra. Via Ciro da Urbino 55 (l’indirizzo dello studio di famiglia ndr.). E il telefono. Sono lì. Nessuno li ha toccati».

Ha dei rimorsi?

«No. Rimorsi zero». Silenzio, un sospiro. «No, forse un rimorso ce l’ho, è vero. Quello di non aver buttato giù quella porta quando stava in ospedale. Ma ero un’altra donna, più giovane, più ingenua. Mi fidavo dello Stato».

Oggi non si fida più? Cosa ha detto ai suoi figli?

«Ai miei ragazzi ho detto la verità. Che ci sono stati dei carabinieri che hanno sbagliato con una crudeltà disumana. Ma ho detto loro che non tutte le persone che indossano una divisa sono così. Dobbiamo continuare ad avere il diritto di credere in quel che rappresentano le forze dell’ordine».

In questi anni i politici le sono stati vicini?

«Sì, tante persone. Di destra e sinistra, senza bandiera. Davvero».

Faccia un nome.

«Mi viene subito da ricordare Luigi Manconi, fu il primo a chiamare pochi giorni dopo il decesso. E ci è stato molto vicino».

E chi è che l’ha ferita di più?

«Carlo Giovanardi. Ha accusato me e la mia famiglia di cose orribili. Ma mi sono fatta una grande risata. Ma la cosa peggiore è che ha insultato Stefano. E Stefano non poteva difendersi».

Eppure non ha avuto rigetto della politica, anzi si è candidata due volte.

«La prima nel 2013, seguendo Antonio Ingroia. Credevo che potesse essere l’opportunità per portare all’attenzione di tutti i temi che mi stavano a cuore, quelli dei diritti umani, temi che sembra che non interessano a nessuno e di cui si parla sempre troppo poco.

E la seconda?

«Nel 2016. Alle amministrative di Roma. Fu più una provocazione per chiedere a quei politici di fare un passo indietro. Ma non l’hanno fatto. E allora me ne sono andata io».

Oggi ci proverebbe ancora?

«No. Perché credo che la politica è quella che io e la mia famiglia abbiamo fatto in questi dieci anni lottando per la giustizia. E non solo per Stefano ma per tutti gli ultimi. Perché ognuno pensa che quello che è successo a Stefano sia lontano dalla sua vita ma purtroppo non è così».

A proposito di credere, crede in Dio?

«Sono una persona profondamente cattolica. Io e Stefano siamo cresciuti tra la parrocchia e gli scout. La fede è stato un altro importante elemento che mi ha permesso di andare avanti. Nel film Sulla mia Pelle c’è un passaggio, forse l’unico minimamente ironico, in cui gli chiedono se è credente e lui risponde “no sperante”. Ecco anche io sono sperante».

Da credente come se lo immagina Stefano ora?

«Che mi sorride per la prima volta. Quando ancora non sapevamo e non potevamo immaginare nulla di quel che gli era accaduto, Stefano apparì in sogno. Era sorridente e disse che dovevo andare avanti ad accertare la verità. Non solo per lui. Ma per tutti quelli come lui. Ecco penso che gli sia tornato il sorriso dopo dieci anni».

La Chiesa le è stata vicina?

«Sì, sono stata ricevuta insieme ai parenti di tante altre vittime da Papa Ratzinger. Ma la cosa che mi colpì fu quando, dopo la riesumazione della salma, lo rinchiusero nel loculo del cimitero senza dirci nulla. Ancora una volta Stefano moriva da solo. Come un cane. Senza nemmeno qualcuno al suo fianco. Raccontammo tutto questo al nostro vescovo, monsignor Giuseppe Marciante, e lui venne con me e i miei genitori a pregare sulla tomba di Stefano».

Non crede che ora il film Sulla Mia Pelle meriterebbe un seguito?

«Sì, certo. Dopo aver raccontato la tragedia di Stefano bisognerebbe raccontare il dramma della sua famiglia. Di me, dei miei genitori che sono distrutti, e degli altri familiari. Come i miei figli a cui forse non ho dato un’infanzia come tutti gli altri. Ho sofferto anche per questo, ma oggi credo di avergli dato un grande esempio».

In attesa di un nuovo film, tra poco uscirà il suo libro.

«Sì, il 22 ottobre proprio nell’anniversario della sua morte. L’ho scritto insieme all’avvocato Fabio Anselmo che nel frattempo è diventato il mio compagno. Raccontiamo la nostra storia, la nostra battaglia, la nostra sofferenza».

Come si intitola?

«Il coraggio e l’amore».

Già, più coraggio o più amore?

«Non lo so. Ma sicuramente l’amore ci ha dato il coraggio di andare avanti. Di non smettere di crederci anche nei momenti più bui. Quelli che non ti fanno dormire».

Come sono le sue notti?

«Mi sveglio in preda al panico come se mi accorgessi all’improvviso che è proprio vero che mio fratello non c’è più. A volte quando mi risveglio questa sensazione ce l’ho ancora addosso».

Ma Ilaria Cucchi ha più sorriso?

«Certo. Non dobbiamo mai smettere di sorridere, altrimenti è davvero la fine».

L’ultima volta?

«Oggi a pranzo. Con mia figlia siamo andati da Mc Donald’s. Lei è una simpaticona. Abbiamo parlato molto, soprattutto di lei. Aveva voglia di raccontare. E quando siamo uscite mi ha detto: “Mamma è già finito il nostro momento delle confidenze?”. E io sorridendo le ho promesso che dopo cena avremmo ricominciato».

Ultima domanda: per tanti anni ha scritto sulle pagine di Leggo, tornerà?

«Volentieri. Davvero. Appena posso».

Ilaria Cucchi e il coraggio  di mostrare il corpo del reato. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Umiliare la persona che ami per avere giustizia. Esporre la foto del cadavere di tuo fratello per scoprire la verità sulla sua morte. È questa la battaglia che Ilaria Cucchi ha deciso di combattere, la guerra che alla fine è riuscita a vincere. Perché Ilaria ha fatto quello che inizialmente non avrebbe mai pensato di dover fare: usare il corpo per scoprire il reato. Lo racconterà il 13 settembre dal palco del Tempo delle donne, festa-festival del Corriere della Sera che si tiene ogni anno alla Triennale Milano. Ricorderà quei primi giorni dopo aver seppellito Stefano, quando non sapeva che fare per scoprire cosa fosse accaduto prima nelle caserme dei carabinieri, poi in tribunale e nel carcere di Regina Coeli, infine all’ospedale Pertini. Fino all’incontro con Luigi Manconi, il parlamentare del Pd che decise di affiancarla e aiutarla. E alla telefonata con l’avvocato Fabio Anselmo, che aveva seguito altri casi analoghi, che le spiegò in maniera forte ma efficace come muoversi. Era il 2009. Dieci anni sono trascorsi, ma recentemente Ilaria è stata costretta a parlare del proprio corpo per smentire il sospetto che Stefano fosse morto perché indebolito dall’anoressia. Quanto basta per comprendere l’odissea di questa donna apparentemente fragile, e invece forte e determinata, che si è fatta carico del dolore della sua famiglia riuscendo a trasformarlo nella sua forza. È un cammino pieno di ostacoli quello che Ilaria Cucchi intraprende quando suo fratello non è ancora stato sepolto. È Manconi a guidare le sue prime mosse, lui che di quanto accade nelle carceri si occupa da sempre e di casi come quello di Stefano Cucchi ne ha seguiti tanti. Nel frattempo Ilaria aveva contattato il legale che già assisteva la famiglia Aldrovandi, determinata a far processare i poliziotti che nel 2005 avevano fermato per strada e poi picchiato Federico, 18 anni, fino a farlo morire. E che le rimarrà sempre accanto. Adesso Ilaria lo racconta quasi con fierezza, ma nel 2009 fa quel consiglio dell’avvocato le era suonato quasi come un oltraggio: «Parlai con Anselmo e lui mi disse “la prima cosa è scattare foto al corpo”. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare». Ben presto si rese conto che non era affatto così e adesso lo conferma: «Senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque». L’obiettivo di Ilaria era soltanto uno: scuotere le coscienze, mostrare la propria disperazione per avere il sostegno dell’opinione pubblica. L’esibizione delle foto è stata la prima mossa per consentire all’avvocato e agli esperti scelti dalla famiglia, che seguivano ogni passo delle indagini, di avere una voce forte, anche mediatica. Nulla è stato facile, le resistenze, le bugie e le omissioni di chi avrebbe dovuto invece raccontare sin dall’inizio che cosa fosse accaduto erano evidenti. E lei non si è arresa. Il 13 giugno 2019 — alle battute finale del processo-bis in Corte d’Assise, dopo quello rivelatosi sbagliato contro gli agenti penitenziari definitivamente assolti — arriva la dimostrazione che l’esibizione del corpo di Stefano Cucchi avvenuta dieci anni prima è servita. Perché i periti del giudice per la prima volta stabiliscono il possibile nesso di causa-effetto tra le lesioni vertebrali provocate dal pestaggio subito da Cucchi e la sua fine. Vuol dire che non sarebbe morto se le botte prese in quella caserma dei carabinieri, dove fu portato dopo essere stato arrestato e confessate dopo quasi nove anni di silenzi e coperture da uno degli attuali imputati, non avessero fiaccato il suo fisico in maniera irreversibile. Ilaria lo racconterà per dimostrare quanto è importante in un’indagine giudiziaria far «parlare il corpo». Ma anche quanta sofferenza provoca e soprattutto quanta determinazione e forza bisogna avere per andare avanti. Racconterà quello che sono stati questi dieci anni per i suoi genitori, le loro iniziali resistenze a rendere noto tutto, anche il fatto che Stefano fosse uno spacciatore. Svelerà che cosa accade quando in una famiglia normale, abituata ad avere fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti, devi compiere scelte dolorose e rischiose per valicare il muro di omertà. E soprattutto come ha vissuto lei, che ha dovuto a sua volta subire insulti e umiliazioni, ma non ha mai chinato il capo. Anzi. L’ultima volta è accaduto qualche settimana fa, quando si è ricominciato a parlare della possibilità che Stefano fosse morto perché anoressico. E allora lei ha deciso di rendere pubblica una foto che la ritrae pochi giorni prima dell’arresto del fratello. È in costume, in braccio ha la sua bambina. «Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... non me ne sono accorta. Certo se mi avessero pestata violentissimamente...».

Ilaria Cucchi: «Pesavo 40 chili come Stefano, non ero malata.  E nessuno mi ha picchiato». Pubblicato lunedì, 18 marzo 2019 da Corriere.it. Ha pubblicato su Facebook una foto che la ritrae proprio nei giorni precedenti all’arresto del fratello. Uno scatto per raccontare che anche lei, come lui, pesava 40 chili. Ilaria Cucchi torna a parlare della morte del fratello Stefano, di quei verbali dei Carabinieri in cui i militari riferiscono che il fratello, tra le altre cose, fosse anoressico. «Questa ero io pochi giorni prima dell’arresto di mio fratello. Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... io non me ne sono accorta - scrive Ilaria nel post che accompagna l’immagine, che la ritrae sorridente con la figlia - Certo se mi avessero pestata violentissimamente spezzandomi la colonna vertebrale in due punti e provocandomi una commozione cerebrale avrei sicuramente smesso di stare bene. Se poi ne fossi morta in ospedale dopo sei giorni, sono certa che qualunque medico legale avrebbe mandato in carcere i miei aggressori» prosegue nel messaggio.  Per poi concludere: «A meno che non fossero intervenuti con le loro “consulenze“ fatte in casa ma preveggenti i Generali Casarsa e Tomasone»,e il riferimento è proprio a quei documenti dell’Arma in cui Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale a Roma, e l’allora comandante del gruppo Roma Alessandro Casarsa, arrivano alle conclusioni sulle cause della morte di Cucchi prima che vengano effettuate le perizie. Documenti in cui si legge appunto che «i risultati parziali dell’autopsia sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi», e dove si parla di «malessere attribuito al suo stato di tossicodipendenza», di «gravi patologie, anoressia, epilessia e sieropositività». Gli stessi documenti su cui si basò l’informativa del ministro della Giustizia Alfano al Senato il 3 novembre 2009. Casarsa, che fino a gennaio era capo dei corazzieri in servizio al Quirinale, è stato iscritto nel registro degli indagati ed è accusato di falso.

Ilaria Cucchi: «Stefano voleva che fossi felice. L’amore con Fabio è un suo regalo». Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. «Abbiamo scritto una piccola pagina di storia. Abbiamo cambiato il corso di un processo dall’esito annunciato», dice Ilaria Cucchi al Corriere. Dicendo «abbiamo», parla di lei e dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha combattuto al suo fianco da quando suo fratello Stefano è morto, dopo un arresto per spaccio. Nel frattempo, Anselmo è diventato il suo compagno. Lei racconta: «A volte, gli dico: io e te cambieremo il mondo. E lui: non esagerare». L’altro giorno, nel Cucchi Ter, che vede imputati per presunto depistaggio otto carabinieri, si sono costituiti parte lesa l’Arma, i ministeri dell’Interno e della Difesa, la presidenza del Consiglio: un gesto simbolico che premia la tenacia di Ilaria. Stasera, alle 21.25, sul Nove, va in onda Stefano Cucchi, la seconda verità. Il documentario ripercorre quelli che lei chiama «sei anni di processi sbagliati» più quelli del Cucchi Bis e Ter in cui per la prima volta, dice lei, «la giustizia non mi ha fatto sentire sola e mi ha dato una speranza per Stefano e per tutti gli ultimi». 

Come sono stati questi dieci anni?

«Io non ho ancora lasciato andare mio fratello, non l’ho salutato. Lo farò quando avrò la verità. Sono ferma a quando, guardando il corpo martoriato all’obitorio di Roma, gli dico: è colpa mia, non ho saputo salvarti, ma ti prometto che andrò fino in fondo». 

Perché «colpa sua»?

«Perché nei sei giorni in cui fu agli arresti, non riuscii a ottenere l’autorizzazione per vederlo. E io, che credevo nelle istituzioni, mi dicevo: però, è in buone mani, non può succedergli nulla. Invece, Stefano stava morendo solo come un cane, pensando che l’avessimo abbandonato. Questo farò fatica a perdonarlo, se arriverà il giorno del perdono». 

Chi era Ilaria Cucchi, prima di quel 22 ottobre 2009? 

«Una ragazza normale, che s’era sposata a 26 anni, aveva avuto Valerio a 28, Giulia a 34 e che non aveva mai preso una decisione da sola. Mi ero sempre affidata ai genitori, poi a mio marito. Ero una perfettina, diceva Stefano. Nell’ultima telefonata, mi parlava della difficoltà di reinserirsi dopo la comunità, io gli facevo coraggio. E lui: “Ma che ne sai? Tu hai una vita perfetta”».

Come si perde Stefano?

«Era sempre il più piccolino di tutti. Per camuffare la fragilità faceva lo spavaldo, ha incontrato brutte compagnie e la droga. Ma era buono, e simpatico al punto che io, da timida, me lo portavo dietro per fare amicizia più facilmente. Mi chiedeva “ma sei felice?”. Era così sensibile da aver capito che la mia vita era perfetta solo all’apparenza».

Dov’era l’imperfezione?

«In questi dieci anni, Stefano mi ha fatto tanti regali. Il primo è farmi capire che certe cose non possiamo cambiarle, mentre per altre abbiamo il dovere di lottare. E poi, nel tempo, ho trovato la mia dimensione di donna e la felicità che lui mi augurava. Mi sono separata e l’altro regalo di Stefano è stato Fabio, che a volte mi fa: vorrei non averti conosciuta, perché significherebbe che Stefano è vivo». 

È un amore straordinario.

«Lo è. Ci ha consentito di trovare forza l’uno nell’altra. In un’udienza in cui pareva che sotto accusa ci fosse Stefano perché drogato o magro, Fabio ha chiesto di fare una domanda ai medici che l’avevano visitato vivo. Gliel’hanno negata. L’ho visto lanciare in aria la toga e urlare “io vengo da Ferrara tutte le settimane a spese di questa famiglia e voi non mi consentite di fare il mio lavoro”. In quell’istante, mi sono innamorata di lui». 

Non l’immaginava quando lo scelse perché aveva seguito il caso Aldrovandi.

«Mi disse: la prima cosa è scattare foto al corpo. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare. Invece, senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque. Lasciavo i figli a casa, Giulia mi vedeva solo in tv. Lì ho scoperto che parlare significa non elaborare il lutto, rivivere sempre lo stesso dolore».

Quando avrà dei colpevoli come si sentirà?

«So che comunque, avremo perso anni e serenità. Io non ho mai portato mia figlia a una festa. Però, ho anche insegnato ai figli molto di più di quanto avrebbe fatto la mamma perfettina che ero».

Ilaria Cucchi, senza retorica. La vita straordinaria di una donna normale, scrive  Valentina Della Seta il 15 Aprile 2019 su rivistastudio.com. In un altro universo di Ilaria Cucchi non ho mai sentito parlare. Magari l’ho intravista nel gruppo di madri e padri alla piscina comunale, aspettano i figli per aiutarli ad asciugarsi i capelli dopo la lezione di nuoto il sabato pomeriggio. O è una vicina di casa, di quelle che si accorgono se qualcuno sta arrivando al portone con le mani occupate e lo lascia aperto. Me la immagino riservata, saluta sorridendo ma non si ferma a chiacchierare in cortile. Ci sono persone che fioriscono e prosperano nella normalità, nell’anonimato. Ilaria Cucchi, vista da lontano, mi è sempre sembrata una di queste. La prima cosa che noto se cerco di ricostruire la sua storia, se leggo in giro quello che è stato scritto su di lei, è che è quasi impossibile raccontarla senza frasi retoriche. Ovunque si parli di Ilaria Cucchi trovo rappresentazioni di «eroine che non si arrendono, ferite che non si rimarginano, muri che crollano, veli di polvere marcia, verità che squarciano il buio». Non mi pare che queste visioni ne colgano l’essenza. Cucchi, ogni volta che ha preso la parola in questi anni, lo ha fatto con semplicità e senza la minima retorica: «In sei anni avrò pianto un paio di volte la morte di mio fratello, io quel lutto non l’ho mai completamente elaborato perché non ce n’era il tempo», ha detto per esempio in un’intervista del giugno 2016 firmata da Fabrizio Rostelli. In quel «non ce n’era il tempo» si può trovare forse qualcosa che unisce l’Ilaria Cucchi di prima della tragedia con quella di adesso, una sorta di amorevole e solida praticità nei confronti della vita che più di ogni altro dettaglio la caratterizza.

Tutto accade a Roma, ma in una zona un po’ lontano da San Pietro, il Colosseo, il Circo Massimo o Piazza Venezia: «Una matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi (…), una fossa di mattoni e sabbie mobili fortificata dall’abitudine e dal futuro che non arriva», la descrive Claudia Durastanti in Cleopatra va in prigione (Minimum Fax 2016). Ilaria Cucchi nasce nella metà degli anni Settanta in un posto così. A Torpignattara, quartiere sorto tra gli anni Venti e Trenta all’inizio della Casilina subito dopo il Pigneto. Una delle periferie storiche della città: «Negli anni Settanta e Ottanta non era ancora il quartiere (per fortuna) multietnico, ma pieno di realtà atomizzate e contraddizioni, che conosciamo oggi. Torpignattara era la tipica borgata romana di una volta, in cui si mescolavano famiglie della piccola borghesia impiegatizia, artigiani, commercianti, muratori», spiega Valerio Mattioli, che a settembre pubblicherà con Minimum Fax un libro sulle periferie romane. «Facendo attenzione a non romanticizzare troppo il passato, si può forse dire che Ilaria Cucchi, con il suo impegno titanico e solitario, è l’incarnazione di come poteva essere il quartiere quando c’era un diverso senso della collettività».

Roma non è mai diventata una vera metropoli, forse perché ci sono troppi ministeri, o perché le zone sono così mal collegate che ognuna resta una sorta di Paesone a sé. Di sicuro non è mai stata come Londra, dove i ragazzi che restano in giro di notte possono finire accoltellati. O come New York, da cui sono arrivate storie (come un saggio di Joan Didion) di ragazze andate a fare jogging all’alba stuprate e uccise nel parco. È una città tutto sommato inoffensiva, di parrocchie e mercati rionali, dove i piccoli fuorilegge sono tradizionalmente detti «malandrini», una parola che si porta dietro una connotazione anti-drammatica e in un certo senso accogliente.

Stefano Cucchi non era El Chapo e, per restare da queste parti, non era nemmeno Massimo Carminati (che condivide l’avvocato con i carabinieri imputati per la morte di Cucchi); era più probabilmente il fratello minore un po’ inquieto e malandrino di una sorella maggiore che, dal giorno della sua nascita (Ilaria allora aveva quattro anni), aveva iniziato a prendersene cura come una seconda mamma: «Era la persona che amavo di più al mondo», ha detto lei. Nei casi di morte violenta per mano dello Stato sono state quasi sempre le madri a affrontare la lotta per la verità e giustizia (quelle che ne hanno avuto la forza, perché devono essere molte di più le storie che non conosciamo). Ci sono le madri argentine di Plaza de Mayo, e qui, per citarne alcune, la madre di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Giulio Regeni. Ilaria Cucchi in Italia è stata forse l’unica sorella a ricoprire questo ruolo (in Francia c’è Assa Traoré, 32 anni, che si definisce «portavoce di una famiglia numerosa e affiatata» originiaria del Mali, e cerca la verità per la morte per soffocamento in una gendarmeria del fratello Adama di 23 anni). Non che Ilaria Cucchi fosse preparata: «In tribunale c’ero stata solo dal giudice di pace, per le questioni dei condomini che amministro. Non avevo mai messo piede in un’aula giudiziaria», ha raccontato un milione di udienze più tardi.

Sorellanza e fratellanza sono tra le parole giuste per descriverla, non solo perché è cresciuta andando a catechismo e agli scout. Alla morte di Stefano, ancora sotto choc, aveva cercato il numero dell’avvocato Fabio Anselmo di Ferrara. Anselmo ha creato un precedente importante nella storia dei procedimenti contro le violenze delle forze dell’ordine, facendo condannare i poliziotti che nel 2005 avevano ucciso a manganellate il diciottenne Federico Aldrovandi («Non ho concorrenti. Solo un pazzo come me può fare il mio lavoro», ha detto lui a Vanity Fair qualche anno dopo). Nel libro di Carlo Bonini Il corpo del reato(Feltrinelli, 2016) è descritto il primo incontro nello studio di Anselmo tra Ilaria Cucchi e Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi: «Rimasero a parlare con Patrizia per un tempo che le sembrò lunghissimo, durante il quale sentì crescere una confidenza istintiva», scrive Bonini. «La mia nuova famiglia è formata da Patrizia Moretti, Lucia Uva, Domenica Ferrulli. Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli sono i loro morti», gli fa eco Ilaria Cucchi sull’Huffington Post. Colpisce il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua.

In un’immagine tra le più note della vicenda Cucchi c’è Ilaria davanti al tribunale a Roma nel 2014. Tra le mani tiene una foto ingrandita con la faccia del fratello all’obitorio, come un poster che è quasi l’unica cosa che riesci a vedere. Ma lei, dietro, la noti lo stesso: gli occhiali da vista con la montatura bicolore, i capelli lisci con le schiariture tagliati alle spalle, la bocca stretta di una persona che si sta facendo forza per resistere a tutto. Colpisce anche il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua. O come qualcuno che da anni si ripeta a mente sempre lo stesso discorso per paura di dimenticarne dettagli essenziali. Senza mai alzare la voce o perdere la pazienza, Ilaria Cucchi resiste da più di tremila giorni alle voci di chi ha tentato di infangarla in tutti i modi. Si sa di chi si tratta, vorrei evitare di riverberarne una volta di più i nomi nell’algoritmo. Ministri dallo sguardo incattivito che hanno tentato di approfittare dell’idea antiquata ma diffusa che la dipendenza da sostanze sia come l’invasione degli ultracorpi, che chi si droga si ritrovi posseduto come i bambini biondi nel film del 1960 Il villaggio dei dannati.

Non è così. La droga non trasforma le persone. Forse mette in crisi le famiglie, e Ilaria Cucchi, nella propria, si è data sempre da fare per convincere il fratello a curarsi, a andare in comunità. Non è un compito facile: «Sono stata anche la sua peggior nemica», ha detto lei. Che Stefano Cucchi non sia morto di droga ma di violenza meschina, riservata a persone considerate di serie B, vigliacca e oscena, che si consuma nelle celle isolate, di notte, in tanti contro uno, oggi è accertato. C’è la confessione di uno dei carabinieri presenti la notte del 22 ottobre 2009 nella caserma Appia di Roma: «Il momento è arrivato. Lui c’era e finalmente può raccontare», ha scritto Ilaria Cucchi sul suo profilo twitter l’8 aprile. Lei resta fedele all’immagine che ce ne siamo fatti, dice: «Ho visto delle cose così brutte in carcere che quasi non lo auguro nemmeno agli assassini di mio fratello». È rimasta a vivere a Roma Est. Si prende cura dei genitori, che per il dispiacere si sono ammalati. Un amico che fa il cameriere in un bar famoso al Pigneto racconta che va spesso a pranzo li con Fabio Anselmo: «Sono sempre gentili». È l’unico particolare non triste di questa storia, il fatto che Cucchi e Anselmo si siano innamorati: «Un regalo che mi ha fatto Stefano», ha detto lei. «Mi chiedeva sempre se ero felice, perché si accorgeva che non lo ero». 

·         Il Concerto per Cucchi.

“LO “SCONCERTO” DEL PRIMO MAGGIO MI METTE UNA TRISTEZZA INFINITA”. Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Non so a voi, ma a me lo «sconcerto» del 1° maggio in piazza San Giovanni a Roma mette una tristezza infinita. Colpa mia, lo ammetto, perché leggo che ad altri è piaciuto molto. Forse perché ragiono in termini di comunicazione, ma il maglioncino di Ambra con la scritta «Cgil Cisl Uil» era come mettere il dito nella piaga. Ambra ha assorbito lo spirito polemico del suo fidanzato Massimiliano Allegri e ha voluto infilarsi uno straccetto in polemica con quanti lo scorso anno l' avevano criticata per aver indossato una mise griffata. Avrei voluto essere Lele Adani e spiegarle alcune cose. Forse perché la pioggia suggerisce mestizia, desiderio di un riparo: «C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo». O forse per tutti quegli omaggi iniziali a illustri scomparsi: Kurt Cobain, Lou Reed, metà dei Beatles Il problema non è Ambra (per quanto), il problema è la scritta, un vero paradosso. In termini simbolici, il concertone è quanto di più distante esista dalle politiche sindacali, dal tipo di comunicazione di Maurizio Landini (anche lui ha un suo modo di vestirsi), dal vuoto di Carmelo Barbagallo, dalle lezioncine di Annamaria Furlan. E infatti il sindacato è assente, non si rivolge ai giovani, lavora su altre piazze. Certo, la presenza di Noel Gallagher che canta «All you need is love», accanto ai suoi successi con gli High Flying Birds, ha portato un respiro internazionale e ha elevato il tasso di rock della serata dopo un pomeriggio segnato, bisogna dirlo, da bande di misconosciuti (a parte i portentosi Pinguini Tattici Nucleari) in cerca della necessaria visibilità. Poi, come dicono le cronache, «Carl Brave diverte, Manuel Agnelli fa sognare, Daniele Silvestri fa sfogare la piazza con un liberatorio "mortacci", i Subsonica fanno ballare». Accanto ad Ambra c' era Lodo Guenzi. Due spalle (di cui una spalluccia) non fanno un conduttore.

Poche cantanti sul palco. Ma le donne conquistano la scena. Polemiche per una scaletta quasi tutta di uomini ma Ambra Angiolini, Ilaria Cucchi e a Bari Valeria Golino sono le protagoniste di un immaginario che sta cambiando. Meno star e più artisti che parlano ai giovani. Angela Azzaro il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio. La scaletta del Concertone a piazza San Giovanni le aveva tenute fuori, ma le donne si sono riprese la scena. La polemica che aveva caratterizzato la vigilia del classico appuntamento del Primo Maggio non era campata in aria e bene hanno fatto le artiste che hanno organizzato un contro evento all’Angelo Mai, lo spazio occupato a Roma. Ma accesi i riflettori, iniziata la “festa” la voce delle donne si è fatta sentire con forza. Si è sicuramente sentita quella di Ambra Angiolini, una attrice e donna di spettacolo che ogni volta, come una sorta di maledizione, deve dimostrare di non essere più la ragazza teleguidata di “Non è la Rai”. Anche questa volta c’è riuscita dominando il palco senza sbavature, con simpatia e professionalità. Ilaria Cucchi, che da anni porta avanti con raro coraggio la battaglia perché emerga la verità sulla morte di Stefano, l’altro ieri ha conquistato anche il palco di San Giovanni. Il suo esempio, più di tanti altri discorsi politici, riesce a parlare alla generazione in piazza, rappresenta un simbolo importante anche per loro che hanno urlato, in coro, il nome del fratello. A Bari, dove era in corso la manifestazione di cinema Bifest, Valeria Golino nel salutare la platea ha osato addirittura fare l’augurio di un buon Primo Maggio con il pugno chiuso, con un gesto fino a qualche anno fa scontato, quasi retorico, ma che oggi in pochi, soprattutto nel mondo del cinema, sembrano ricordarsi e che assume quindi una valenza quasi dirompente. Ma come è possibile che l’accusa di esclusione delle donne dal Primo Maggio e questo protagonismo femminile vadano insieme? La risposta è semplice da enunciare, difficile da rimuovere. Il problema delle artiste che non arrivano sul palco dei grandi eventi non dipende certo dalla mancanza di talenti o dalla mancanza di artiste determinate, ma da una struttura di potere che – più si sale – più resta nelle mani degli uomini. Giustamente gli organizzatori del Primo Maggio hanno protestato contro produttori e agenzie delle cantanti che hanno detto no alle loro proposte di ingaggio. Sotto accusa è la struttura che va cambiata, anche forzando la mano, perché niente accade per caso o con facilità. Ma nonostante il potere continui a restare nelle mani maschili in vari ambiti ( politica, arte, sapere) le donne sono diventate più forti, più determinate e appena conquistano lo spazio pubblico si fanno sentire. Il Primo Maggio lo hanno fatto cogliendo anche il bisogno di simboli di una generazione. Il tifo quasi da stadio per Ilaria, il pugno chiuso di Valeria, la forza di Ambra di uscire dallo stereotipo che le era stato cucito addosso raccontano un immaginario in cui le nuove generazioni cercano di identificarsi. Per tanti anni si era pensato che la società liquida, secondo la definizione stra abusata ( anche da lui stesso) del sociologo Zygmunt Bauman, non avesse bisogno di simboli, che la caduta del muro portasse con sé un immaginario pacificato, lineare. In questi anni abbiamo scoperto, anche amaramente, che non è così. La mancanza di simboli ha generato l’identificazione nella rabbia, nel rancore. La comunità ha trovato coesione non sulla solidarietà ma sull’odio nei confronti dell’altro, un meccanismo profondo, che ha poi avuto nei social network lo strumento per diffondersi e rigenerarsi. Oggi le nuove generazioni sembrano voler chiedere altro, vogliono poter credere in qualcosa. Il successo del film sulla vicenda di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, il calore con cui Ilaria è stata accolta sul palco del Primo Maggio sono i segni di questa necessità, di questo bisogno di uscire dal presente e di credere nel futuro. E’ lo stesso meccanismo che ha fatto scattare Greta Thunberg ( un’altra giovanissima donna). Non solo la questione ambientale, ma il bisogno di credere in qualcosa. La preoccupazione per il pianeta che stiamo distruggendo come necessità di condividere la stessa idea di mondo, di umanità. E per questo che il Concertone funziona ancora: perché dà una risposta anche se occasionale alla necessità di stare insieme intorno a un ideale condiviso. Quest’anno l’offerta era molto giovane, nomi forse non noti a tutti, ma amati dal pubblico che va a piazza San Giovanni. Rancore, Anastasio, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ghali, Motta e gli ormai “vecchi” Daniele Silvestri e i Negrita. I quaranta, cinquantenni si sono molto lamentati. Ma questa volta tocca a loro, a quei ragazzi e a quelle ragazze che hanno urlato “Stefano, Stefano”.

·         Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.

Processo Cucchi,  gli agenti penitenziari scagionati ora chiedono un milione a testa. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it. Una vicenda giudiziaria che ha «devastato la loro vita». E ora «va resa giustizia a Stefano, ma anche a chi è stato accusato ingiustamente». I tre agenti della polizia penitenziaria, assolti in maniera definitiva nel primo processo sulla morte di Stefano Cucchi, attraverso i propri legali chiedono ora giustizia, nelle battute finali del procedimento contro cinque carabinieri. La sentenza è prevista a novembre. Le parti civili chiedono anche un risarcimento di un milione di euro per ognuno dei tre agenti della penitenziaria. Per il legale Diego Perugini, parte civile per uno degli agenti imputati nel primo processo, la vita del suo assistito «è stata distrutta da una cronaca giudiziaria che l’ha descritto come l’omicida di Stefano Cucchi. Gli hanno strappato la vita dalle mani. La sua vita è stata devastata. Un danno fatto anche alla giustizia». Per l’avvocato Massimo Mauro, dev’essere «resa giustizia a Stefano Cucchi e giustizia a tre appartenenti della polizia penitenziaria che devono riacquisire quella dignità che è stata loro calpestata». Sulla stessa linea la parte civile che rappresenta Rita Calore, madre di Stefano, e l’associazione Cittadinanzattiva onlus: «Il processo Cucchi diventerà un simbolo di come il sistema giudiziario possa rimediare ai propri errori - ha spiegato l’avvocato Stefano Maccioni -. Esattamente oggi, dieci anni fa, in queste ore - ha ricordato il penalista - Stefano veniva portato in tribunale per l’udienza di convalida del suo arresto». In aula è intervenuto anche il legale di Vincenzo Nicolardi, uno dei carabinieri imputati per calunnia. L’avvocato Alessandro Poli ha spiegato le ragioni del suo assistito: «In merito alle annotazioni di servizio dei carabinieri dopo la morte di Cucchi, prese in esame in aula, Nicolardi ha riconosciuto solo quella del 27 ottobre 2009 perché quella redatta il 16 ottobre non era stata scritta e firmata né mai vista da lui. Nella relazione del 27 ottobre, Nicolardi aveva specificato: fin quando è stato con noi non aveva lamentato nessun dolore. Quelle annotazioni erano state redatte dopo la morte di Stefano per fare chiarezza sulla vicenda, su richiesta dei vertici dell’Arma». Poli ha poi segnalato «le incongruenze» all’interno delle dichiarazioni dell’imputato-testimone, il carabiniere Francesco Tedesco, il quale ha denunciato di aver assistito al pestaggio di Cucchi da parte - secondo la sua testimonianza - dei colleghi Di Bernardo e D’Alessandro nella stazione Appia. I tre carabinieri sono accusati di omicidio preterintenzionale. Tedesco, così come Vincenzo Nicolardi e l’allora comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini, deve rispondere anche dell’accusa di falso e calunnia, per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, e aver testimoniato il falso al processo di primo grado, con dichiarazioni che portarono all’accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità nei confronti di Cucchi.

Roma, al processo Cucchi il pm chiede 18 anni per i due carabinieri. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni, Giovanni Bianconi. Musarò: «Non chiediamo pene esemplari ma giuste». «Vi chiedo di condannare per omicidio preterintenzionale Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a 18 anni di carcere e per il falso e calunnia Roberto Mandolini a 8 anni e Vincenzo Nicolardi, e di assolvere Francesco Tedesco per l’omicidio preterintenzionale ma di condannarlo a 3 anni e 6 mesi»: le richieste del pubblico ministero Giovanni Musarò chiudono la requisitoria del processo Cucchi bis, durante la quale sono stati ripercorsi i passaggi più importanti dal punto di vista processuale. Dopo due anni di dibattimento la discussione si avvia verso la conclusione. Il momento più significativo era venuto dalle rivelazioni in aula dell’imputato Francesco Tedesco il quale aveva ricostruito i momenti successivi all’arresto di Stefano Cucchi: «Cucchi e Di Bernardo (il carabiniere Raffaele Di Bernardo ndr) cominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano... Fu un’azione combinata» aveva rivelato l’imputato l’11 ottobre 2018. In seguito alla morte di Stefano Cucchi era scomparsa una relazione dello stesso Tedesco sul pestaggio, ha raccontato Tedesco assistito dal suo avvocato Eugenio Pini: «Pensavo — ha detto — che di lì a breve mi avrebbe convocato il maresciallo Mandolini per chiedermi conto dell’annotazione ma io ero determinato ad attestare quanto era accaduto. Qualche giorno dopo, invece, mi resi conto che, sulla copertina del fascicolo, era stato cancellato con un tratto di penna quello che avevo scritto e che le due annotazioni erano scomparse». La testimonianza è importante anche ai fini della ricostruzione del depistaggio che sarà affrontato al processo ter (inizierà il 12 novembre prossimo). Infine ci sono le dichiarazioni del collegio dei periti presieduto dal professor Francesco Introna che per la prima volta, a giugno, ha ammesso l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi. «Nessuno può avere certezze — ha detto Introna — però, se non ci fosse stata la frattura trasversale del bacino (causata dalle botte, ndr), Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni». La sentenza potrebbe arrivare già il 6 novembre.

Cucchi, chiesti 18 anni per i due carabinieri che lo pestarono. Il pm: "Depistaggi da film dell'orrore". Le richieste di condanna nel processo bis per le responsabilità dei cinque militari, tra cui i due autori del pestaggio rispondono di omicidio preterintenzionale e l'allora comandante della Stazione Appia per il quale sono stati chiesti 8 anni oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sorella Ilaria: "Questo processo ci riavvicina allo Stato". La Repubblica il 03 ottobre 2019. Diciotto anni per i due autori del pestaggio. Con la specifica che non si tratta di "un processo all'Arma dei carabinieri anche se nella vicenda Cucchi i depistaggi hanno toccato picchi da film dell'orrore". Sono arrivate le richieste di condanna nell'ultimo giorno di requisitoria nell'aula bunker di Rebibbia del pm Giovanni Musarò nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell'ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell'ospedale Pertini di Roma. "Questo è un processo contro cinque esponenti dell'Arma dei Carabinieri che - ha spiegato subito Musarò - come altri esponenti dell'Arma oggi imputati in altro procedimento penale, violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte". La sentenza è slittata al 14 novembre. La decisione è stata presa dai giudici della prima Corte d'Assise di Roma a causa dei numerosi avvocati difensori degli imputati che dovranno intervenire e per permettere eventuali repliche. Cinque gli imputati: si tratta Francesco Tedesco, che a nove anni di distanza ha rivelato che il 31enne venne 'pestato' da due suoi colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, accusati come lui di omicidio preterintenzionale per i quali è arrivata la richiesta di 18 anni di carcere. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia (nei confronti degli agenti penitenziari) assieme al maresciallo Roberto Mandolini, mentre solo di calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. Per Tedesco, accusato dello stesso reato di omicidio, il pm ha sollecitato l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Per lui, però, che risponde anche del falso, è stata chiesta una condanna a 3 anni e 6 mesi. Otto anni di reclusione, poi, sono stati avanzati per il maresciallo Mandolini (all'epoca comandante interinale della Stazione Appia), anche lui per il reato di falso. Il 'non doversi procedere' per prescrizione dalla calunnia commessa ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria è stato sollecitato, infine, oltre che per Tedesco e lo stesso Mandolini, anche per il quinto imputato, Nicolardi. "La responsabilità è stata scientificamente indirizzata verso tre agenti della polizia penitenziaria - ha detto il pm ricostruendo la drammatica morte del ragazzo - ma il depistaggio ha riguardato anche un ministro della Repubblica che è andato in Senato e ha dichiarato il falso davanti a tutto il Paese". Il riferimento è alla giornata di martedì 3 novembre 2009, quando nell'aula del Senato il ministro della giustizia, Angelino Alfano, nell'ambito dell'informativa del governo sulla vicenda, venne chiamato a riferire sulle circostanze della morte del giovane. “Un pestaggio violentissimo – ha proseguito l’accusa - in uno stato di minorata difesa. Sono due le persone che lo aggrediscono. Colpito quando era già a terra con calci in faccia, di questo stiamo parlando. La minorata difesa deriva dal suo stato di magrezza". "Stefano era magro – ha spiegato - era sottopeso, pesava circa 43 kg perché aveva la necessità di stare sotto i 44 kg dato che doveva combattere nei pesi 'super mosca'. Non era una magrezza patologica. Sul tavolo dell'obitorio invece pesava 37 kg. Perché perse 6 kg in 6 giorni? Perché durante la degenza al Pertini non si alimentava a causa del trauma subito. Si è speculato sulla sua magrezza". "Nel comportamento di Cucchi all'ospedale - ha sottolineato - vi era un atteggiamento di chiusura, chiarissimo sintomo da 'disturbo post traumatico da stress' a causa del pestaggio subito, come dichiarato dal professore Vigevano. Cucchi rifiutava le cure e prendeva le medicine solo quando venivano aperte davanti". "Venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata – l’affondo del pm - nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria". "Questo processo ci riavvicina allo Stato, riavvicina i cittadini e lo Stato", commenta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, a conclusione della requisitoria: "Non avrei mai creduto di trovarmi in un'aula di giustizia e respirare un'aria così diversa. Sembra qualcosa di così tanto scontato, eppure non è così. Se ci fossero magistrati come il dottor Musarò non ci sarebbe bisogno di cosiddetti eroi o della sorella della vittima che sacrifica dieci anni della sua vita per portare avanti sulle sue spalle quella che è diventata la battaglia della vita".

Da Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. Diciotto anni per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri autori del pestaggio costato la vita a Stefano Cucchi. È la richiesta del pm Giovanni Musarò, a conclusione della sua requisitoria nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Di Bernardo e D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso con Francesco Tedesco, il militare che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi. Per Tedesco il pm ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto sul reato di omicidio preterintenzionale e la condanna a tre anni e sei mesi per il reato di falso nella compilazione del verbale di arresto di cui risponde insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Per Mandolini il pm ha chiesto otto anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Chiesto il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di calunnia nei confronti di Mandolini, Tedesco e Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, a giudizio per le calunnie contro i tre agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso del primo processo.  “Questo non è un processo all’Arma ma a cinque carabinieri traditori che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’Istituzione di cui facevano e fanno parte” ha detto Musarò prima di formulare la richiesta di condanna nel processo per la morte del geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. Un riferimento, quello del tradimento, anche per gli altri carabinieri accusati del depistaggio nell’inchiesta-bis: il generale Alessandro Casarsa, il colonnello Francesco Cavallo, il tenente colonnello Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e il carabiniere Francesco Di Sano. Istituzioni tradite, ha aggiunto Musarò, raggiungendo “picchi di depistaggio inimmaginabili, da film dell’orrore“. Sul banco degli imputati, come detto, ci sono cinque militari dell’Arma: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assoluti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso). Per tutti, alla fine della requisitoria, l’accusa formulerà alla corte, probabilmente in giornata, le richieste di pena. Stefano Cucchi “venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata. Nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria”, ha spiegato il pm. Secondo Musarò anche così si tentò di “coprire la verità”. Quando venne arrestato, ha proseguito Musarò, Cucchi “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro”. Era “complessivamente” in “buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”.

Omicidio Cucchi, il pm chiede l’assoluzione del brindisino Tedesco. L’accusa ha chiesto 18 anni di carcere per i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro per omicidio preterintenzionale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Ottobre 2019. «Questo non è un processo all’Arma dei Carabinieri, ma è un processo contro cinque esponenti dell’Arma dei Carabinieri che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte». Ieri mattina nell’aula bunker di Rebibbia si è conclusa la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale «Pertini» di Roma. Il pm doveva formulare le richieste di condanna nei confronti degli imputati, tutti e cinque carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assolti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso) e prima di farlo ha posto quella premessa che concludeva le argomentazioni in fatto ed in diritto col rappresentante dell’accusa che precisato come «i depistaggi del 2009» avessero «assunto grande rilevanza, perché hanno condizionato la ricostruzione dei fatti» oggetto del processo, ed ha aggiunto che «la migliore riprova di tale assunto è rappresentata dal fatto che l’acquisizione di alcuni elementi decisivi, sia ai fini di questo processo sia ai fini di quello sui depistaggi del 2015, è stata possibile grazie alla leale collaborazione offerta nel 2018 e nel 2019 proprio dall’Arma dei Carabinieri, in particolare dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, dal Reparto Operativo e dal Nucleo Investigativo, i cui componenti hanno profuso impegno e intelligenza ai fini della esatta ricostruzione dei fatti». Secondo il pm «per sgombrare definitivamente il campo da strumentali insinuazioni, non si può sottacere che straordinaria importanza ha assunto la costituzione di parte civile del Comando Generale dei Carabinieri nel cosiddetto processo dei depistaggi» ha fatto rilevare ancora ponendo all’attenzione dei giudici una osservazione: «È impossibile dire che non ci sia un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte» di Stefano Cucchi. «Unica spiegazione medico-legale su causa morte che ha una dignità è quella del riflesso vagale bradicardizzante - ha aggiunto Musarò - I periti parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Del resto, secondo il pm, «quando la sera del 15 ottobre Stefano Cucchi fu arrestato “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro. Era complessivamente in buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”». E «non mangiava - ha ripreso - non da quando era al Pertini, bensì da quando era a Regina Coeli: lui non mangiava perché non stava bene. E il prof. Vigevano dice che era dovuto anche a un disturbo post traumatico da stress, i cui sintomi sono rinvenibili anche dal comportamento complessivo di Cucchi in quei giorni». Secondo il Pm, dunque, «due persone l’aggrediscono, lo colpiscono anche quando lui era già a terra, di notte. La tanta evocata magrezza diventa a carico anche sotto il profilo del dolo. Aggredire con quelle modalità una persona fragile e sottopeso, significa aggredire una persona che può riportare anche danni più gravi, com'è accaduto a Stefano Cucchi. E di questo occorrerà tenerne conto». Le conclusioni della requisitoria sono state dunque queste: condanne a 18 anni di carcere per due dei carabinieri della Stazione Roma Appia, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi. Cosa diversa per l’imputato-testimone Francesco Tedesco, per il quale il rappresentante dell’accusa ha sollecitato una sentenza d’assoluzione con la formula «per non aver commesso il fatto», ma la sua condanna a tre anni e mezzo di reclusione per l’accusa di falso. Una sentenza di condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini (all’epoca comandante interinale della Stazione Appia) per l’accusa di falso. Il non doversi procedere per prescrizione, infine, dall’accusa di calunnia è stata sollecitata per il carabiniere Vincenzo Nicolardi e per Francesco Tedesco e Roberto Mandolini.

Lettera di Ilaria Cucchi pubblicata da ''Leggo'' il 4 ottobre 2019. Siamo tornati nella stessa aula dove ci avevano insultati, attaccati, dileggiati. Quanto tempo è passato. 3650 giorni. Un centinaio di udienze. Siamo stremati. Un pubblico ministero come si deve. Finalmente. Lo ascolto ricostruire la verità. È bravo. È preparato. È onesto. È giusto. Ho dietro i miei genitori. Mia madre. Quando Fabio (l’avvocato Anselmo) inizia a parlare di loro mi viene da piangere. «Siamo stanchi - dice - siamo stremati. Guardateli i genitori di Stefano Cucchi. Hanno dato a tutti noi una lezione di rigore morale, di fiducia nella Giustizia». A Fabio si rompe un attimo la voce. Sento la sua stanchezza. È quella di tutti noi. Noi, famiglia di Stefano Cucchi, siamo stati condannati all’ergastolo da coloro che lo pestarono selvaggiamente causandone la morte tra atroci sofferenze. L’ergastolo più dieci anni di tortura. Non nutro odio né sentimento di vendetta. Sono troppo stanca anche per quelli e, poi, non mi sono mai appartenuti. Ho solo voglia di verità e giustizia. Sentire parlare così il Pubblico Ministero mi restituisce quella fiducia nello Stato che stava vacillando. L’altro ieri era il compleanno di mio fratello. Stefano vorrei tanto dirti che non eri solo. Ma già lo sai.

Caso Cucchi, il pm in aula: "Primo processo kafkiano, depistaggio scientifico. È stato pestato". La requisitoria del pubblico ministero nel processo bis in Corte d'Assise contro i cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio del geometra romano di 31 anni morto nel 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. La Repubblica il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi 'professoroni'. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise.

Caso Cucchi, le accuse del pm: «Pestaggio degno di teppisti». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Stefano Cucchi viene evocato più volte nell’atto conclusivo del processo bis per la sua morte. E non solo come vittima del pestaggio sul quale la procura conduce una requisitoria di sette ore, che avrà una coda il 3 ottobre con le richieste di condanna. Ma come una persona alla quale restituire dignità: «Non l’ho conosciuto ma lo immagino quando per orgoglio si rifiuta di parlare con chi può aiutarlo», dice il pm Giovanni Musarò. «Cucchi — aggiunge — è stato vittima di un vile e violentissimo pestaggio, degno di teppisti da stadio. La caduta gli ha causato gravi lesioni alle vertebre. E poi di uno scientifico depistaggio cominciato fin dal verbale di arresto, dove mancano i nomi di chi oggi è imputato e nel quale fu scritto che era senza fissa dimora per tenerlo in carcere. Questo “giochino” gli è costato la vita». I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale assieme a Francesco Tedesco, anche se la posizione di quest’ultimo è diversa. Perché non colpì il detenuto e provò a fermare i colleghi. E perché «ha rotto il muro del silenzio (arrivando a chiedere scusa in aula, ndr). Tedesco è accusato poi di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre Vincenzo Nicolardi risponde solo di calunnia (prescritta). Il magistrato che ha riaperto il caso prova a guidare la corte d’Assise in una rivisitazione storica di fatti che all’interno del processo hanno acquisito tutt’altro significato: «Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi», dice prima di incrociare tra loro testimonianze chiave (il detenuto Lainà che parlò con Cucchi («L’hanno ridotto come una zampogna, mi disse “si sono divertiti a picchiarmi”») e intercettazioni choc («Magari morisse»), prove materiali (i registri sbianchettati) e deduzioni logiche in una architettura in cui ogni elemento dà credibilità agli altri ma nessuno è indispensabile («neanche Tedesco»). «Non avevamo tesi precostituite, cercavamo la verità e non abbiamo fatto sconti». Il pm ricorda anche gli agenti della penitenziaria e i medici accusati nel «processo kafkiano» finito senza colpevoli, in cui «vittima e testimoni diventavano imputati» e fatto di «incredibili perizie mediche» che portarono la corte alla «resa cognitiva». «Ci hanno detto che Cucchi era sorridente e collaborativo per nasconderne la reazione che ha innescato il pestaggio, poi che era tossico, anoressico e sieropositivo, un morto che cammina, per sminuire la gravità dei colpi». Anche su questo il pm restituisce a Cucchi la sua immagine: «Pesava 43chili, ne ha persi sei in sei giorni perché non riusciva a mangiare dal dolore. La sua magrezza era però evidente a tutti ed è un aggravante per chi si è accanito selvaggiamente su un soggetto debole». Parole quasi di affetto per la famiglia: «Ci hanno detto che Cucchi era rimasto solo mentre il padre Giovanni era in aula ad abbracciarlo». E poi: «Si parla sempre della loro tenacia in questi anni, io ne apprezzo la fiducia con cui sono tornati a rivolgersi a noi». «Mi piacerebbe tanto che Stefano potesse aver sentito le parole del pm — il commento della sorella Ilaria — . Penso che sarebbe felice. Al mio avvocato ho detto “Allora è così che si fa un processo?”. Sto facendo pace con quest’aula. Sono commossa. Lo Stato è con noi».

Da repubblica.it il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi professoroni. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. "Le lesioni più gravi sono state prodotte dalla caduta di Cucchi, dopo un violentissimo pestaggio. Quella caduta - spiega Musarò - è costata la vita a Stefano Cucchi, si è fratturato due vertebre. Lui stesso, a chi gli chiese cosa fosse successo, disse: Sono caduto". Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise. "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz", continua Musarò citando Lainà. "Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana - era stato il ricordo di Lainà -. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse".

Cucchi, il pm: «Dalla storia di un pestaggio ne esce una di depistaggi». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. «È una discussione non semplice sia per la durata del processo, sia per quello che è venuto fuori. Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi che non possiamo ignorare». È l’incipit della requisitoria del pm Giovanni Musarò, l’atto finale del processo bis in corte d’Assise sul pestaggio e la morte di Stefano Cucchi, in cui sono imputati cinque carabinieri. A tre di loro viene contestato l’omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno di questi, il vicebrigadiere Francesco Tedesco che - chiedendo pubblicamente scusa in aula alla famiglia Cucchi - ha chiamato in causa i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Vincenzo Nicolardi. Il pm ha voluto ricordare anche i nomi degli agenti della polizia penitenziaria e dei medici ingiustamente accusati e poi assolti in un «processo kafkiano» in cui «la vittima diventava imputato» e del quale il pm ricorda come punto di partenza anche «incredibili» perizie mediche fatte su Cucchi che, si è scoperto poi, risentirono dello «scientifico depistaggio» dei vertici dei carabinieri. In aula oltre al pm Giovanni Musarò, c’è il capo della Dda capitolina e procuratore reggente, Michele Prestipino. Oltre naturalmente a Ilaria Cucchi con i suoi genitori, che assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo hanno seguito tutte le udienze del processo. Nel processo nato dal filone principale sono contestati ad altri otto carabinieri, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Imputati sono il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del gruppo Roma, il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, ex comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. E ancora il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo di Roma, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Infine il carabiniere Luca De Cianni, autore di una nota in cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima.

Cucchi, il pm: “Pestaggio violentissimo, poi un depistaggio kafkiano”. Le Iene il 20 settembre 2019. “Non riusciva a mangiare per il dolore, ha perso 6 chili in 6 giorni”, ha aggiunto il pubblico ministero durante la requisitoria. Noi de Le Iene abbiamo seguito con più servizi e articoli il caso della tragica morte di questo ragazzo dopo il fermo. Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, ma è stato vittima di un violento pestaggio. E anche se quella caduta alla fine gli è stata fatale, le botte subìte lo avevano già ridotto in condizioni disperate: “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore”. Il terribile racconto dell’inferno vissuto da Stefano Cucchi arriva dal pm Giovanni Musarò, durante la requisitoria nel processo che vede tre carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale: “Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. E dopo la sua morte è arrivato il depistaggio: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il magistrato ha ricordato anche le parole del detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli: "Cucchi lascia una sorta di testamento a Lainà dicendogli che a picchiarlo sono stati due carabinieri in borghese della prima stazione da cui è passato". Le parole di Lainà, pronunciate nel corso del primo processo e ricordate oggi, fanno inorridire: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse". Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso Cucchi. Il ragazzo è stato fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. È morto il 22 ottobre in ospedale mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati tre carabinieri per omicidio preterintenzionale. Uno di questi, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Subito dopo l’ammissione di Tedesco, Ilaria Cucchi ha detto a Gaetano Pecoraro: “La promessa che feci a Stefano davanti al suo corpo in obitorio l’ho mantenuta: sono sicura che per lui verrà fatta giustizia”.

La requisitoria del pm: «Su Cucchi pestaggio da stadio». “I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, autori di un’aggressione così vile, se la sono presa con una persona che sotto peso, di appena 40 kg, che consideravano un drogato”. Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Sulla morte di Stefano Cucchi è stato messo in atto «uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato». È iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis in Corte d’Assise contro cinque militari dell’Arma, accusati del pestaggio del geometra romano, morto a 31 anni il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato. Un processo «delicato», ha spiegato, nato dopo un primo processo che il magistrato ha definito «kafkiano» e che vedeva gli attuali imputati sul banco dei testimoni. Un processo in cui si è parlato di «cateteri applicati per comodità» e fratture lombari «non viste apposta da famosi “professoroni”» . Per la morte di Cucchi sono a processo i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, e Vincenzo Nicolardi. Quello su Cucchi fu un «pestaggio violento e repentino», cominciato con uno schiaffo in pieno viso, seguito da un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano e poi una spinta che provocò una rovinosa caduta a terra, determinante per la morte, perché causò la frattura delle vertebre L3 e S4, alla quale seguì un calcio in faccia. Un pestaggio «degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso» ha sottolineato Musarò. Dopo la caduta, «Tedesco interviene, blocca i colleghi, evita che a Cucchi arrivi un altro calcio, aiuta il ragazzo a tirarsi su e avverte subito il maresciallo Roberto Mandolini per raccontargli quello che era successo». Il depistaggio trova il suo punto di inizio già nel verbale d’arresto, nel quale Mandolini inserì per Cucchi la dicitura – falsa – “senza fissa dimora”, nonostante le perquisizioni domiciliari nella casa in cui il giovane viveva con la madre. «Per questo il giudice applica la misura in carcere – ha sottolineato il pm – E se a Cucchi fossero stati dati i domiciliari, questo processo non lo avremmo mai fatto. Questo giochetto del “senza fissa dimora” è costato la vita a Cucchi». Fu quel verbale d’arresto «il primo atto scientifico di depistaggio». Cucchi perse sei chili in sei giorni, un calo repentino di peso «riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all’epoca. Non mangiava perché aveva dolore, stava male». Una sofferenza testimoniata da Luigi Lainà, il detenuto che incontrò Cucchi il giorno dopo il suo arresto e diventato teste chiave per la riapertura del processo. «Era gonfio come una zampogna. Pure a me hanno massacrato ma mai a quei livelli ha raccontato – A quei livelli o lo fa un folle, o più folli o una persona senza scrupoli, si erano divertiti a picchiarlo». Ed era stato proprio Cucchi a dirgli che a picchiarlo brutalmente erano stati gli stessi due carabinieri in borghese che lo avevano arrestato, una sorta di «testamento» lasciato dal giovane a Lainà.

Cucchi, l’Arma e la Difesa chiedono di essere parte civile  Ilaria: «Sono emozionata». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Il giudice per le indagini preliminari Antonella Minnuni si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusato del depistaggio dell’inchiesta su Stefano Cucchi. Nel frattempo l’Arma e il ministero della Difesa hanno depositato la richiesta di costituirsi parte civile al processo. Di seguito ecco i nomi e le accuse nei loro confronti: il primo è il generale Alessandro Casarsa, fino a qualche mese fa comandante dei corazzieri al Quirinale che, secondo il capo d’imputazione, chiedeva la modifica «della prima annotazione redatta dal carabiniere Francesco Di Sano nella parte relativa alle condizioni di salute di Stefano Cucchi». In particolare, sempre secondo il capo d’imputazione, Casarsa induceva Di Sano ad «attestare falsamente che “il Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza” omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare palesate da Stefano Cucchi». Il generale, all’epoca colonnello, è accusato di falso. Stessa accusa per il colonnello Francesco Cavallo che, rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con il maggiore Luciano Soligo, chiedeva espressamente a quest’ultimo la modifica della prima annotazione di Di Sano. Falso anche per Soligo che «veicolando una disposizione proveniente dal gruppo carabinieri di Roma, ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola di redigere una seconda annotazione di servizio recante la falsa data del 26/10/2009» e nella quale si omettevano le difficoltà accusate da Cucchi nel camminare. Accusato di falso pure l’allora luogotenente Massimiliano Colombo Labriola che guidava la stazione di Tor Sapienza e che riceveva, stampava e faceva firmare la mail con l’annotazione modificata sulle condizioni di salute di Cucchi. E accusa di falso, infine, per Francesco Di Sano che sottoscriveva l’ annotazione di servizio con data e contenuti falsificati e omissivi. Secondo il pm Giovanni Musarò Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero fabbricato anche un’ altra nota sulle condizioni di salute di Cucchi: un appunto nel quale «si attestava falsamente che Cucchi manifestava “uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio” omettendo ogni riferimento ai dolori al capo, ai giramenti di testa e ai tremori manifestati dall’arrestato» Infine il depistaggio recente, quello contestato al colonnello Luciano Sabatino e al capitano Tiziano Testarmata, accusati di favoreggiamento e omessa denuncia all’autorità giudiziaria perché, nel 2015, ometteva « di denunciare la sussistenza dei reati di falso ideologico in atto pubblico e ometteva di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa». Falso anche per il carabiniere Luca De Cianni che, nel redigere una nota ufficiale in merito a un incontro con Riccardo Casamassima (fra i primi ad aver accusato i suoi colleghi di aver mentito sulla vicenda Cucchi), attribuiva a Casamassima alcune falsità fra le quali anche quella secondo la quale Cucchi «si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo».

Cucchi, inchiesta depistaggi: Arma, Difesa e Interni chiedono di costituirsi parte civile. Ilaria: "E' una cosa senza precedenti". Il gip si è riservato di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo La Repubblica il 21 maggio 2019. Il ministero della Difesa, l'Arma dei carabinieri, rappresentata dal comandante generale Giovanni Nistri, il ministero degli Interni e i familiari di Stefano Cucchi, i genitori e la sorella Ilaria, vogliono costituirsi parte civile nel procedimenti a carico di otto militari, accusati dei falsi e dei depistaggi legati alla vicenda del geometra 31enne deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di droga e picchiato in caserma per essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. L'istanza di costituzione, su cui il gip Antonella Minunni si è riservata di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo, è stata presentata anche dal carabiniere Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni ha consentito alla procura di riaprire le indagini sulla morte di Stefano, dai tre agenti della polizia penitenziaria, già processati con l'accusa di essere gli autori materiali del pestaggio e assolti in tutti i gradi di giudizio, dalla onlus Cittadinanzattiva e dal Sindacato dei Militari, guidato dal segretario generale Luca Marco Comellini. l pm Giovanni Musarò contesta agli imputati (che hanno chiesto di procedere con il rito ordinario) i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia in riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza: per tutti l'accusa è di falso. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni (autore di una nota di pg), cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccatè riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Stefano "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla corte d'assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato al pm e ribadito in aula da uno degli imputati (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. "Dopo 10 anni oggi è una giornata significativa e sono davvero emozionata per la decisione dell'Arma dei carabinieri di volersi costituire parte civile, è una cosa senza precedenti". Così Ilaria Cucchi al termine dell'udienza preliminare nell'ambito del filone dell'inchiesta sui presunti depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 dopo essere stato arrestato per droga. "Dedico questo a chi continua a insinuare che la famiglia Cucchi sia contro i carabinieri e viceversa" ha aggiunto. "Quanto accaduto oggi in udienza rappresenta un momento di riavvicinamento non solo tra la famiglia Cucchi e le istituzioni ma tra i cittadini e le stesse istituzioni - ha aggiunto Ilaria Cucchi - perché tante volte in questi anni le persone normali si sono ritrovate a vivere quel senso di frustrazione che la nostra famiglia ha provato in questi continui scontri con le istituzioni". Commentando poi la richiesta di costituzione di parte civile da parte del sindacato dei militari, Ilaria Cucchi ha poi affermato: "In vicende come la nostra troppe volte ho visto i sindacati di polizia intromettersi contro le nostre famiglie. In quest'aula per la prima volta un sindacato si è schierato al nostro fianco e non contro di noi. Questo lo dedico al signor Gianni Tonelli (ex segretario generale del sindacato di polizia Sap e parlamentare della Lega che ha denunciato Ilaria per diffamazione, ndr)". Dal canto suo, Luca Marco Comellini, segretario generale del sindacato dei militari, ha spiegato così la sua richiesta di costituzione: "Siamo qui perché vogliamo tutelare gli interessi della parte sana dell'Arma perché c'è ancora una parte sana".

Caso Cucchi: droga, chiesto il processo per il teste chiave Casamassima. Oltre al carabiniere, che nel 2016 con le sue dichiarazioni fece riaprire l'inchiesta sul pestaggio, coinvolte anche altre persone, tra cui la compagna, anche lei appuntato dell'Arma. La Repubblica 14 maggio 2019. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio dell'appuntato dei Carabinieri Riccardo Casamassima, teste chiave nel caso Cucchi, per il reato di detenzione di droga ai fini di spaccio. Assieme al militare risultano coinvolte nell'inchiesta del pm Giuseppe Bianco altre quattro persone, tra cui la sua compagna, anche lei appuntato dei Carabinieri, Maria Rosati. Secondo quanto riporta il capo d'imputazione, Casamassima e la compagna, "in concorso tra loro, detenevano nella loro casa a Roma quantitativi non determinati di sostanza stupefacente di tipo cocaina". Casamassima è il carabiniere che nel 2016 ha consentito al pm Giovanni Musarò di riaprire l'inchiesta sul pestaggio subito in caserma da Stefano Cucchi, quando venne arrestato da alcuni militari dell'Arma la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Il geometra di 31 anni morì all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo quel pestaggio. Casamassima ha ribadito le accuse ai suoi colleghi anche nel processo per omicidio preterintenzionale che si sta celebrando in corte d'assise e ha denunciato di essere stato demansionato con riduzione dello stipendio per la collaborazione fornita alla magistratura. Un mese fa sempre la procura di Roma ha chiesto il processo per otto carabinieri, dal generale Casarsa in giù, nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Tra loro anche il carabiniere Luca De Cianni, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Pochi giorni fa invece il procuratore generale ha chiesto la prescrizione per i medici dell'ospedale Pertini, ricordando però che "con più umanità" Cucchi "poteva essere salvato".

Depistaggio sull’omicidio Cucchi: chiesto il processo  per otto carabinieri. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Giovanni Bianconi su  Corriere.it. Adesso sono tutti imputati. Un generale, tre colonnelli, un capitano e altri tre carabinieri dell’Arma dei carabinieri dovranno rispondere davanti a un giudici dei reati di falso, favoreggiamento e calunnia contestati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, per i depistaggi attuati nell’ambito delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata dopo che circa un mese fa era stato inviato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Un salto di qualità non solo negli accertamenti che la magistratura romana ha svolto sulla fine del detenuto arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi mentre era detenuto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, ma anche nel livello delle persone coinvolte, che coinvolge buona parte della scala gerarchica romana dell’Arma. Il generale Alessandro Casarsa, fino all’autunno scorso comandante dei corazzieri in servizio al Quirinale, è imputato di falso insieme ai colonnelli Francesco Cavallo, Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano per aver modificato, nell’ottobre 2009, la relazione che Di Sano fece subito dopo la morte di Cucchi, cancellando alcune frasi che davano atto delle cattive condizioni del detenuto la mattina dopo l’arresto e inserendone altre meno compromettenti. Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola sono accusati dello stesso reato anche in relazione all’annotazione del carabiniere Gianluca Colicchio, dove pure furono eliminate le frasi relative ai «“forti dolori al capo, giramenti di testa e tremore» sostituite con un «malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza». Casarsa e Cavallo, a differenza di Soligo, hanno prima risposto alle domande dei pm quando furono convocati nella qualità di indagati, fornendo versioni considerate non convincenti dagli inquirenti, ma poi hanno scelto di avvalsi del diritto di non parlare quando sono stati chiamati a deporre davanti alla corte d’assise che sta processando altri cinque carabinieri per la morte di Cucchi. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capotano Tiziano Testarmata sono invece imputati di omessa denuncia perché nel 2015, quando scoprirono le doppie versioni delle relazioni di Di Sano e Colicchio, le trasmisero all’autorità giudiziaria senza segnalare che una delle due era necessariamente falsa. Inoltre Testarmata risponde di omessa denuncia perché quando scoprì che l’originale del registro del fotosegnalamento era stato “sbianchettato” alla data del 16 ottobre 1009 (giorno dell’arresto di Cucchi) non prese l’originale per portarlo in procura ma si limitò ad acquisire una copia. Infine il carabiniere Luca De Cianni è imputato di falso e calunnia perché con una relazione di servizio redata nell’ottobre 2018 ha cercato di screditare il collega Riccardo Casamassima che con le sue dichiarazioni aveva fatto riaprire, nel 2015, le indagini sul caso Cucchi.

Caso Cucchi: la procura di Roma chiede il processo per otto carabinieri. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi. Agli otto militari, incluso il generale Casarsa, coinvolti nell'inchiesta sui depistaggi sono contestati, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco", scrive il 17 aprile 2019 La Repubblica. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri della stazione Appia per detenzione di stupefacenti, la procura di Roma chiede il processo per otto militari dell'Arma (dal generale Alessandro Casarsa in giù) nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Le accuse, formulate dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone, fanno riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo adesso, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccate' riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Cucchi "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla Corte d'Assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno degli imputati poi diventato superteste (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. E ieri Tedesco ha stretto per la prima volta la mano a Ilaria Cucchi, dicendole: "Mi dispiace". Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco". "Sarò felice di avere l'Arma dei Carabinieri al mio fianco contro coloro che depistarono e scrissero le perizie che davano a Stefano tutta la colpa della sua morte ancor prima che venissero poi partorite dai medici legali del processo precedente". E' il primo commento di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di otto carabinieri.

Cucchi, il legale della famiglia: "Valutiamo azione risarcitoria contro lo Stato". Per l'avvocato Anselmo la presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte del geometra romano potrebbero avere costituito un danno alla famiglia, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte di Stefano Cucchi potrebbero avere non solo costituito un danno d'immagine all'amministrazione della giustizia ma sicuramente un danno alla famiglia, da sempre alla ricerca della verità. Per questo il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, starebbe valutando "un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato" ma anche un'iniziativa legale contro il Campidoglio", unico ancora costituito parte civile nei confronti dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, dove il geometra morì nel reparto protetto. "Quel processo però ora sta emergendo che si basa su atti e documenti falsi", spiega Anselmo. "Il primo processo, quello sui medici, sarebbe terminato con la prescrizione ma rimane allo stato in piedi solo per l'ormai unica parte civile, che è il Comune di Roma. Di fatto tutto ciò sta aiutando processualmente medici e carabinieri, i quali sperano di usufruire di una perizia che si basa su un processo sbagliato e sulle deposizioni di carabinieri che oggi sono imputati e coinvolti nell'inchiesta bis", precisa ancora Anselmo. Ma la questione dei presunti falsi, che sta emergendo ora con forza durante le udienze del processo nei confronti di 5 carabinieri, potrebbe indurre anche la Corte dei Conti a considerare nel fascicolo già aperto sul caso Cucchi il reato di danno all'amministrazione della giustizia. Ciò perchè i presunti atti modificati e falsificati avrebbero innescato depistaggi e di fatto impedito per anni di accertare la dinamica dei fatti che portarono alla morte di Cucchi. "Alla Corte dei Conti c'è un fascicolo aperto ma per muoversi su un eventuale danno di immagine la norma prevede il passaggio in giudicato della sentenza - spiega Massimiliano Minerva, consigliere della Corte dei Conti del Lazio, a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - stanno venendo fuori reati diversi come il falso o il cosiddetto depistaggio che potrebbero essere reati contro l'amministrazione della giustizia". L'annuncio della difesa della famiglia Cucchi arriva dopo l'udienza di ieri con l'audizione in aula del generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. Un'audizione in qualità di testimone fatta anche di molti “non ricordo” e che è arrivata dopo le parole del pm Giovanni Musarò che ha ricostruito ciò che l'accusa descrive come un depistaggio iniziato nell'ottobre del 2009. Da quel momento, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, la catena di comando dei Carabinieri mette in atto una serie di iniziative per "allontanare" la verità su quanto avvenuto. Un percorso fatto di falsi che è riuscito ad approdare perfino in Parlamento quando l'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, basò, in maniera del tutto inconsapevole, il suo intervento al question time sulla vicenda del geometra utilizzando una nota redatta dai carabinieri della stazione Appia. "In Aula il ministro riferì il falso su atti falsi", ha affermato il pm Giovanni Musarò. Ora quei falsi potrebbero portare ad un'azione risarcitoria contro lo Stato.

Caso Cucchi, il generale Nistri: "Pronti a costituirci parte civile contro i carabinieri". Esclusivo La svolta del comandante generale dell'Arma in una lettera alla famiglia: “Provvedimenti anche per gli ufficiali del depistaggio. Crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Una lettera di quattro pagine su carta intestata "Il Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri", a inchiostro stilografico e dalla calligrafia rotonda, consegnata a mano la mattina di lunedì 11 marzo a Ilaria Cucchi, spinge la storia della morte del fratello Stefano, le sue conseguenze, oltre un confine che, in nove anni, non era ancora stato superato. Il generale Giovanni Nistri torna infatti a inginocchiarsi di fronte al dolore di Ilaria e a quello dei suoi...

Cucchi, la lettera del generale Nistri a Ilaria: "Inflessibili con chi ha infangato uniforme". Esclusivo Ecco il testo della lettera inviata dal comandante generale dell'Arma alla sorella di Stefano: "Il suo dolore è il nostro. Ogni responsabilità sia chiarita e si faccia giustizia", scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica.

Roma, 11 marzo 2019. Gentile Signora Cucchi, ho letto con grande attenzione la lettera aperta che ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Sabato scorso a Firenze, nel rispondere alla domanda di un giornalista, pesavo a Voi e alla Vostra sofferenza, che ho richiamato anche nel nostro ultimo incontro. Pensavo alla Vostra lunga attesa per conoscere la verità e ottenere giustizia. Mi creda, e se lo ritiene lo dica ai Suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi sia mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. La abbiamo perché il Vostro lutto ci addolora da persone, da cittadini, nel mio caso mi consenta di aggiungere: da padre. Lo abbiamo perché anche noi - la stragrande maggioranza dei Carabinieri, come Lei stessa ha più volte riconosciuto, e di ciò la ringrazio - crediamo nella Giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un'aula giudiziaria. Proprio il rispetto assoluto della Legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Non possiamo fare diversamente perché, come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Per questo abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, "chi" ha fatto "che cosa". Nell'episodio riprovevole delle studentesse di Firenze il contesto era definito dall'inizio. C'erano due militari accusati, con responsabilità sin da subito impossibili da negare, almeno nell'aver agito all'interno di un turno di servizio e con l'uso del mezzo in dotazione, quando invece avrebbero dovuto svolgere una pattuglia a tutela del territorio e dei cittadini. In questo caso abbiamo purtroppo fatti nei quali discordano perizie, dichiarazioni, documenti: discordanze che saranno però risolte in giudizio. Le responsabilità dei colpevoli porteranno al dovuto rigore delle sanzioni, anche di quelle disciplinari. I tre accusati di omicidio preterintenzionale sono già stati sospesi. Non sono stati rimossi, è vero. Ma è vero che, se ciò fosse avvenuto, si sarebbe forse sbagliato. Faccio al riguardo due esempi. Oggi emerge che uno dei tre - secondo quanto egli ha dichiarato, accusando gli altri due - potrebbe essere innocente. Erano innocenti gli agenti della Polizia Penitenziaria, che pure erano stati incolpati e portati in giudizio. Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero, ora nella fase delle indagini preliminari, nella quale saranno giudicati anche coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita per quei Valori che fin qui ho richiamato, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell'essere accostati a comportamenti che non ci appartengono. Con sinceri sentimenti, Giovanni Nistri.

Caso Cucchi, la sorella Ilaria: “Mi si scalda il cuore, finalmente non mi sento sola”. “Oggi posso dire che l’Arma è con me e non con Mandolini, imputato di calunnia nel processo, o con Casarsa, indagato per i falsi che dovevano nascondere la verità”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Della lettera del generale Nistri, Ilaria Cucchi parla tradendo una evidente emozione. Dice: "La lettera è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi. Non dimenticherò mai la telefonata del generale Vittorio Tomasone pochi giorni dopo la morte di Stefano. Disse a mia madre che i carabinieri erano estranei, mentre oggi sappiamo altro. E cioè che mentre faceva quella...

Ilaria Cucchi: "Dopo la lettera dellʼArma mi sento meno sola, i giudici ora abbiano coraggio", scrive l'8 aprile 2019 Tgcom24. La sorella di Stefano commenta su Facebook e parla dallʼAula della Corte dʼAssise nel giorno dellʼinterrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco. "L'abbraccio dell'Arma ci arriva oggi, caldo e finalmente rassicurante". Ilaria Cucchi, dalla Corte d'Assise, nel giorno in cui Francesco Tedesco, imputato insieme ad altri due colleghi nel processo bis sulla morte del fratello Stefano, confesserà in aula quanto già messo a verbale, commenta così la lettera scritta dal generale Giovanni Nistri. "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - aggiunge, riferendosi anche al suo ultimo post su Facebook. - Mi rivolgo ai giudici: abbiate coraggio". "Mi sono emozionata a leggere la lettera di Nistri""La lettera scritta di proprio pugno dal generale Nistri - racconta ai microfoni di NewsMediaset Ilaria Cucchi - rappresenta un momento estremamente significativo per la mia famiglia, che per anni non solo si è sentita abbandonata, ma tradita". "E' un momento di svolta - aggiunge - ed è un enorme segnale perché la parte lesa, come dice il generale Nistri, non è solo la famiglia, ma anche l'Arma e ciò che rappresenta". "Leggerla - confessa - è stato molto emozionante; ho pensato che finalmente non siamo soli e che l'Arma è fatta dalla parte buona rappresentata dalla stragrande maggioranza dei carabinieri". "Il generale Nistri ci è vicino e non manca di farci sapere che il suo dolore è il nostro, che la nostra battaglia di verità è anche la sua". Inizia così il lungo post su Facebook in cui Ilaria Cucchi raccontava di aver ricevuto la lettera. "L’Arma non rimarrà spettatrice nei confronti dei depistatori - continua il messaggio. - I giudici ora abbiano coraggio e responsabilità ed acquisiscano quei documenti di verità imbarazzanti che fanno ora paura solo agli imputati di oggi. Ci sarà anche mia madre, nonostante la sofferenza per la grave malattia, ad ascoltare Tedesco che le racconterà come è stato ucciso suo figlio". "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale". La vicenda, dunque, ora è in mano ai giudici. "Tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di NewsMediaset. - Così mi rivolgo ai giudici: acquisite la documentazione del dottor Musarò, perché dimostra che tutto era già deciso, dai carabinieri oggi indagati, un istante dopo la morte di mio fratello". "Quel processo era sbagliato, quel processo era già scritto - conclude. - A nove anni dai fatti la mia famiglia ne esce devastata ma andiamo avanti perché siamo alla svolta, in un processo vero. Per quanto riguarda le botte, è tutto chiaro".

Cucchi, il giorno della confessione. L’Arma: «Pronti a essere parte civile». Pubblicato lunedì, 08 aprile 2019 da Corriere.it. Al processo per la morte di Stefano Cucchi è atteso per oggi l’interrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre imputati di omicidio preterintenzionale che alcuni mesi fa ha deciso di confessare il “violentissimo pestaggio” del detenuto da parte di due suoi colleghi, al quale dice di aver assistito. Ma nel giorno della deposizione più importante, la famiglia Cucchi ha deciso di rendere nota – consegnandola a la Repubblica – una lettera ricevuta quasi un mese fa, l’11 marzo, dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, che segna un mutamento di atteggiamento da parte dell’Arma nei confronti dei Cucchi e dei carabinieri coinvolti in questa vicenda. A Ilaria, la sorella di Stefano che dall’ottobre 2009 si batte per conoscere la verità sulla morte di suo fratello, Nistri scrive di nutrire «la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». I tre carabinieri imputati sono già sospesi dal servizio, in attesa di un procedimento disciplinare che potrà avviarsi dopo la conclusione del processo penale nei loro confronti, ma nella sua lettera Nistri si riferisce anche all’inchiesta-bis nei confronti di altri carabinieri che abreve saranno imputati di favoreggiamento e falso. Con i loro comportamenti, secondo la Procura di Roma, otto militari, tra i quali un generale e tre colonnelli, avrebbero ostacolato e depistato l’accertamento della verità, e chiamati a deporre nel processo in corso si sono avvalsi del diritto al silenzio. Nella lettera a Ilaria Cucchi il loro comandante generale scrive: «Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di consapevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla corte d’assise, e varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere». Nistri sottolinea che lui, in qualità di comandante, insieme agli oltre centomila carabinieri in servizio, «soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili, e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole dietro le quali si nasconderebbe l’intenzione – che l’Arma avrebbe fatto conoscere alla famiglia Cucchi – di costituirsi, qualora ne ricossero i presupposti giuridici, parte civile nel prossimo processo contro i carabinieri accusati dei depistaggi.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 19 marzo 2019. L’inchiesta sui depistaggi e l’occultamento delle prove sulla morte di Stefano Cucchi è finita, e otto carabinieri - dal grado di generale in giù- rischiano di diventare presto imputati con le accuse di falso e favoreggiamento. Il pubblico ministero di Roma Giovanni Musarò ha inviato l’avviso di conclusione indagini, firmato anche dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.

Le accuse. Le accuse si riferiscono alle manipolazioni delle relazioni di servizio redatte dai militari dell’Arma nell’ottobre 2009 (all’indomani della morte di Cucchi avvenuta all’ospedale Pertini una settimana dopo l’arresto da parte dei carabinieri) e alle mancate consegne dei documenti richiesti dalla magistratura nel novembre 2015, quando fu avviata la seconda indagine dopo l’assoluzione degli agenti penitenziari nel primo processo.

I coinvolti. La lista degli indagati avvisati si apre con il generale Alessandro Casarsa, che insieme ai colonnelli Francesco Cavallo e Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano, risponde di falso per la manipolazione dei documenti. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capitano Tiziano Testarmata sono invece accusati di favoreggiamento e omessa denuncia.

Le modifiche alle relazioni. Le modifiche delle relazioni di almeno due carabinieri che avevano visto Cucchi la sera dell’arresto - ordinate dalla catena gerarchica del comando provinciale di Roma - servirono, secondo l’accusa, a indirizzare le dichiarazioni in Parlamento dell’allora ministro Angelino Alfano per allontanare ogni possibile sospetto sul comportamento dei carabinieri. Da quegli appunti vennero fatti scomparire i riferimenti alle difficoltà del detenuto a camminare, inserendo considerazioni che legavano le sue precarie condizioni di salute alla tossicodipendenza.

«Violentissimo pestaggio». Tutto fu orchestrato, nella ricostruzione dell’accusa, per coprire le tracce del «violentissimo pestaggio» subito da Cucchi nella caserma della stazione dove doveva fare il fotosegnalamento, confessato mesi fa da uno dei carabinieri autori dell’arresto. I presunti favoreggiamenti avvenuti nel 2015, invece, si riferiscono al fatto che quando la Procura ordinò nuove acquisizioni di atti, i carabinieri incaricati di raccogliere quei documenti redatti nel 2009 evitarono di denunciare i falsi alla Procura, che solo in seguito e per altre vie si accorse delle manipolazioni. L’elenco degli indagati si chiude con Luca Di Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni del 2015 diede il primo impulso alla riapertura dell’inchiesta. Per la morte di Cucchi sono attualmente sotto processo, davanti alla corte di assise, altri cinque carabinieri, di cui tre imputati di omicidio preterintenzionale e gli alti due per falsa testimonianza e calunnia.

«Calci in faccia a Cucchi»: Arma e Difesa parti civili. Il testimone Tedesco: «Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile», scrive Valentina Stella il 9 Aprile 2019 su Il Dubbio. Forse ora Stefano Cucchi avrà finalmente giustizia. Non solo il comando dei Carabinieri è pronto a costituirsi parte civile, ma anche il ministero della Difesa. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dichiarando di parlare a nome del governo. Ieri il superteste Francesco Tedesco, il vicebrigadiere dei carabinieri imputato di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte del geometra romano, ha rivelato, a nove anni di distanza, il “pestaggio” ad opera di due suoi colleghi. «Al fotosegnalamento Cucchi si rifiutava di prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito. A un certo punto Di Bernardo ha dato uno schiaffo violento in pieno volto a Stefano. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi “state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più”. Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi “Come stai?” lui mi rispose “Sono un pugile sto bene”, ma lo vedevo intontito». È il drammatico racconto reso ieri in aula dal superteste Francesco Tedesco che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Il giovane geometra era stato arrestato il 15 ottobre 2009 e condotto nella caserma della Compagnia Casilina. Le cause del decesso di Cucchi sono in fase di accertamento ma è certo che il ragazzo morirà sotto la custodia dello Stato dopo qualche giorno. Prima di rispondere alle domande del pm, Tedesco – assistito dall’avvocato Eugenio Pini -, dopo quasi un decennio di silenzio, ha chiesto scusa alle vittime di questa vicenda: «Anzitutto voglio chiedere scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria imputati nel primo processo per questi 9 anni di silenzio. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile». Ma, ha aggiunto Tedesco, «non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno». Tedesco è un fiume in piena, la sua coscienza forse si è finalmente liberata di questo macigno che lo ha schiacciato per tutto questo tempo, diviso com’era tra il dovere della verità e l’appartenenza all’Arma: «Dire che ebbi paura è poco. Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo – ha detto Tedesco – contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C’era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza». “Tu devi continuare a seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere”, è quanto infatti il maresciallo Mandolini avrebbe detto al vicebrigadiere Tedesco, quando questi gli chiese come doveva comportarsi se fosse stato chiamato a testimoniare in merito alla vicenda della morte di Cucchi. «Ho percepito una minaccia nelle sue parole». In aula ieri come sempre la sorella di Stefano Cucchi: «Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno”. E sulla eventualità dell’Arma dei Carabinieri di costituirsi parte civile nei confronti dei carabinieri autori del depistaggio, come ipotizzato in una lettera del generale Giovanni Nistri inviata proprio alla famiglia Cucchi, Ilaria ha risposto: «Le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma ci fanno sentire finalmente meno soli, si è schierato ufficialmente dalla parte della verità». Molte le reazioni a quanto accaduto ieri in aula, a cominciare dal vice- premier Luigi Di Maio dalla sua pagina Facebook: «La deposizione del carabiniere Tedesco è sconvolgente e restituisce dignità a una famiglia che chiede giustizia da anni. E rispetto anche per l’Arma dei Carabinieri». Ha scelto twitter Nicola Zingaretti: «La verità grazie al coraggio della famiglia Cucchi e al percorso della giustizia sta finalmente emergendo. Un plauso alla scelta del Generale Nistri che può portare nuova forza e credibilità alle Istituzioni dello Stato». Per Silvja Manzi e Antonella Soldo, Segretaria e Tesoriera di Radicali Italiani, «la battaglia della famiglia Cucchi per la verità sulla morte di Stefano rappresenta il più grande esempio di fiducia nelle istituzioni della nostra storia contemporanea». Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale rivolge lo sguardo agli altri Stefano Cucchi: «Grazie Ilaria, per non aver mai mollato. Occorre – e tu lo stai urlando – che altri Stefano Cucchi non siano torturati e uccisi nell’indifferenza e nell’omertà». L’esponente del Partito Democratico Walter Verini plaude invece alla scelta di Nistri: «Mi ha riportato alla mente un altro gesto del nostro Stato democratico. Quello con il quale l’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, chiese scusa per i fatti della Diaz, che rappresentarono un’onta per il Paese. Anche quello fu un gesto dovuto, ma coraggioso». Donato Capece, segretario generale del Sappe ha ricordato la gogna subita dagli agenti penitenziari.

Caso Cucchi, il rammarico per il tempo perduto e il dolore per quella vita uccisa. Soddisfazione per la lettera del comandante Giovanni Nistri, scrivono Luigi Manconi e Valentina Moro il 9 aprile 2019 su Il Dubbio. Ad ascoltare la descrizione dettagliata e crudele delle violenze subite da Stefano Cucchi nella caserma Casilina, la notte del 15 ottobre del 2009, a opera di due carabinieri, tra le molte emozioni una risulta la più intollerabile, quella che porta a chiederci: ma tutto ciò non si poteva già leggere nelle foto del volto e del corpo del giovane scattate all’obitorio? Perché sono stati necessari quasi dieci anni e mille menzogne e altrettanti oltraggi prima che la verità esplodesse, nitidamente, nella testimonianza del vicebrigadiere Francesco Tedesco? Mentre finalmente una così lunga battaglia giunge al suo passaggio cruciale, è impossibile non rammaricarsi per tutto il tempo perduto e per l’immenso scialo di sofferenza che ha seguito il dolore per quella vita uccisa e che ha richiesto una tenacia senza pari e una inesausta pazienza ai familiari di Stefano Cucchi e al loro avvocato Fabio Anselmo. E così, anche la soddisfazione per il fatto che il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri, in una lettera alla famiglia, esprima il suo rammarico per il comportamento di alcuni militari e si impegni a costituirsi parte civile contro di loro, è attenuata dalla sensazione che ciò arrivi molto, forse troppo, tardi. Già nel febbraio del 2017, con Ilaria Cucchi incontrammo l’allora Comandante Generale Tullio Del Sette che definì estremamente grave che alcuni carabinieri avessero potuto “perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’avessero poi riferito e che alcuni altri avessero potuto sapere senza segnalarlo”. Da allora sono passati altri ventisei mesi e questo periodo di tempo non solo ha ancora differito l’accertamento della verità ma, temiamo, ha puntellato la costruzione della menzogna intorno a quella notte del 15 ottobre 2009, sorreggendo ulteriormente un castello di manipolazioni, deviazioni e deformazioni della verità. E ha ancora prolungato quell’atteggiamento di omertà che ha consentito in questo e in altre decine di non troppo dissimili casi Cucchi che lo spirito di corpo prevalesse su tutto, rafforzando legami di complicità all’interno dell’Arma, irrobustendo solidarietà di appartenenza e di corporazione, esaltando forme aggressive di chiusura. A tutto ciò ha contribuito l’inerzia di comandi dell’Arma, talvolta addirittura conniventi e la codardia di gran parte della classe politica nazionale. Quest’ultima rivela da sempre un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti dell’Arma dei carabinieri, una sudditanza psicologica che induce a ritenere come unico bene da perseguire l’unità – comunque e a qualunque costo – del corpo militare, invece che la sua democratizzazione che potrebbe comportare anche conflitti interni tra diverse idee del ruolo dell’Arma e della sua identità. In altre parole, piuttosto che favorire una evoluzione dei carabinieri verso una fisionomia costituzionale, rispettosa dei diritti e delle garanzie del cittadino, e al suo servizio, si opta tutt’ora per la sua connotazione come strumento essenzialmente, se non esclusivamente, di mera repressione. Questo, nonostante qualche segnale positivo e qualche misura riformatrice, fa sì che la grande questione della formazione degli appartenenti all’Arma resti trascurata e comunque sottovalutata. La formazione culturale e, appunto, costituzionale, ma anche quella operativa, strettamente collegata all’esigenza di tutelare sempre e comunque l’integrità del cittadino, è tutt’ora un problema irrisolto. Un esempio solo. Nel gennaio del 2014, il Comando generale dell’Arma aveva emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può costituire causa di asfissia posturale». Appena qualche settimana dopo, a Firenze, Riccardo Magherini moriva per strada sottoposto da parte di tre carabinieri esattamente a quella presa che la circolare del comando dell’Arma intendeva interdire. E, a quanto si sa, quella circolare è stata poi ritirata. E allora è impossibile non chiedersi quanti altri cittadini, italiani e non, in questi anni e nei prossimi, rischino di finire vittime di “asfissia posturale”.

Saul Caia per il “Fatto quotidiano”  il 10 luglio 2019. L' ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d' ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l'organismo sindacale dell'Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall' accusa di omissioni di atti d' ufficio. Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall' inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari). Comincia tutto con l'indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l'uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti "puniti" avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall' abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore. Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall' Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l' archiviazione. Per loro mancano gli "elementi costitutivi" dell' abuso d' ufficio, "sia dal punto di vista dell' elemento oggettivo che di quello soggettivo", perché "non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari". Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l'imputazione coatta per tutti e tre gli indagati. Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il "coinvolgimento" di "esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell' Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare "una lezione" a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici". Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile "affinché si attivasse per punire" Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea "la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015", quando "Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente" dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie. A Roma, l' ex comandante dell' Arma è imputato per favoreggiamento (con l' ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d' ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all' epoca presidente Consip, l' esistenza di un' indagine sull' imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.

IL CASO CUCCHI FA ESPLODERE L'ARMA DEI CARABINIERI. (ANSA il 9 aprile 2019.) - "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile nel caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". Lo afferma all'ANSA - parlando del comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri - il colonnello Sergio De Caprio, presidente del Sindacato italiano militari Carabinieri, noto come Capitano Ultimo.

Capitano Ultimo contro il comandante dell'Arma "Parte civile? Si dimetta". Il colonnello De Caprio contro il generale Nistri che ha deciso di costituire l'arma parte civile nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive Giovanni Neve, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile sul caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". A dirlo è il colonnello Sergio De Caprio, conosciuto come il "Capitano Ultimo" e attuale presidente del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri che incalza così il comandante generale dell'Arma, il generale Giovanni Nistri. "Per dieci anni i vertici dei carabinieri hanno ignorato e negato il caso Cucchi. Solo ora se ne accorge", dice De Caprio parlando della morte di Stefano Cucchi come riporta Tgcom24, "Qualcuno dirà meglio tardi che mai. Invece, no è troppo tardi. E noi carabinieri ci sentiamo parte lesa per questo ingiustificabile ritardo. Le lettere del generale Nistri non mi interessano. Non è questione di chiedere scusa. Mi interessano i fatti e i fatti sono un silenzio lunghissimo. Non lo dico io, lo dice il calendario. L'Arma vuole fare piena luce? Stiamo parlando di ovvietà e banalità. La violenza va condannata sempre e i responsabili vanno perseguiti, anche se si trovano all'interno della nostra istituzione: alla fine ci si è arrivati, ma con tantissimo ritardo rispetto ai fatti. Ora bisogna indagare e capire come mai e la procura lo sta facendo benissimo. Il sindacato dei carabinieri è con la famiglia Cucchi e con tutte le vittime di violenza. Nessuno potrà strumentalmente allontanarci da Ilaria Cucchi e dalla sua famiglia. Siamo da sempre accanto alle vittime e per le vittime contro ogni abuso e non al servizio di altri padroni. Da carabinieri, ci sentiamo parte lesa dall'assenza e dall'incapacità del vertice dell'Arma, che per dieci anni ha ignorato e negato l'esistenza stessa del caso Cucchi'. Vorremmo sapere perché, come tutti i cittadini".

 Francesco Grignetti per ''la Stampa'' il 9 aprile 2019. La politica vuole una svolta sul caso Cucchi. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ricevendo Ilaria al ministero, aveva già espresso chiaramente con chi stava. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ieri lasciava intuire come la pensa: «È una di quelle occasioni in cui mi piacerebbe dire qualcosa, però non dico nulla». E dice anche il presidente della Camera, Roberto Fico: «Sono contento delle parole del generale Nistri. Questo è un passaggio molto importante, perché rafforza le istituzioni». Ma è il governo tutto che si sta schierando. Sempre ieri, il premier Giuseppe Conte ha annunciato di essere «favorevole alla costituzione di parte civile da parte del ministero della Difesa». Il vero colpo di scena viene dal comando generale dei carabinieri. Con una lunga lettera alla famiglia, il generale Giovanni Nistri ha annunciato la volontà dell' Arma, qualora matureranno i presupposti giuridici, di costituirsi come parte civile contro i militari imputati. Scrive Nistri ai Cucchi di «nutrire la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». La svolta è clamorosa. Evidentemente le novità che un passo alla volta emergono dal palazzo di Giustizia, grazie alla tenacia del procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, stanno demolendo le residue resistenze dell' Arma. A Ilaria Cucchi non sfugge il valore di queste parole. «La lettera - ha raccontato - è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi». Un cambio di passo che però rischia di spaccare l' Arma, dove lo spirito di corpo è fortissimo e così anche la tentazione di lavare i panni sporchi in famiglia. Il malumore ha trovato voce in un neonato sindacato, il Sim-Sindacato dei militari, la cui costituzione è appena stata autorizzata dal ministro, e che da ora in avanti sarà sempre più una vera controparte per la gerarchia. «Il Sim Carabinieri - scrivono - prende atto della dichiarazione del comandante generale dell' Arma, esprimendo soddisfazione della volontà di difendere l' immagine di tutta l' Arma, nella misura in cui verrà accertata ogni responsabilità di pochi infedeli, per la tutela di tutti i Carabinieri che svolgono il loro servizio con dedizione ed onestà». E fin qui sembrerebbe una posizione allineata al vertice. Ma non è così. «Il Sim Carabinieri allo stesso modo non può non dichiarare con fermezza, la profonda delusione e amarezza per non aver mai sentito dagli stessi vertici dell' Arma, la possibilità di costituirsi parte civile in favore e a difesa dei Carabinieri che subiscono sputi e insulti da manifestanti nelle piazze o negli stadi, dai Carabinieri che vengono insultati solo per avere indosso una divisa, dai Carabinieri che sui social vengono posti come bersaglio di frasi di odio e nefandezze al loro indirizzo e dei loro familiari». I carabinieri raccolti nel sindacato si sentono abbandonati, insomma. In rotta con la politica e con l' opinione pubblica. «Il Sim Carabinieri auspica che da oggi, e per tutti i giorni a venire, il generale Giovanni Nistri senta l' impulso per chiedere all' Arma di costituirsi parte civile in ogni processo in cui ogni Carabinieri è parte lesa. Noi lo faremo, perché nessuno sarà mai più lasciato solo!». E c' è da crederci, perché il presidente del sindacato è il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio, una leggenda vivente dentro l' Arma, ancorché in rotta da sempre con le gerarchie.

 “NON DEVO CHIEDERE SCUSA ALLA FAMIGLIA CUCCHI”. Da “la Zanzara – Radio24” il 9 aprile 2019. Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24: “Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi”. “Io assolto dalle accuse dei Cucchi per diffamazione. Per questa storia io e i miei familiari siamo stati minacciati di morte”. “Porto in tribunale 29 consiglieri comunali di Torino che mi hanno dato del diffamatore”. “Nessuna relazione tra percosse dei carabinieri e morte di Cucchi, lo dicono le perizie”. “Morte Cucchi è avvenuta per una serie di concause tra cui la tossicodipendenza, il fisico debilitato e lo sciopero della fame. Lo dicono le perizie”. “Tutte le perizie escludono la relazione tra botte e morte”. “Chiedere scusa? Di cosa? Per cosa? La droga è una delle cause della morte”. “La verità è che a casa di Cucchi hanno trovato marijuana e cocaina già pronte per lo spaccio”. “Cucchi non è un benemerito, no a una strada in suo nome. Non è come Cavour e Garibaldi”. “Strada in suo nome? E alle vittime della droga non ci pensa nessuno?”. “Carabinieri? Aspetto la condanna definitiva, i linciaggi sono nazismo".

Morte di Stefano Cucchi: spuntano 17 ricoveri, 1 kg di hashish e cocaina. Il caso del giovane geometra morto diventa un enigma e secondo il senatore Giovanardi esiste un'altra realtà, scrive l'11/01/2016 blastingnews.com. A parlare della morte di Stefano Cucchi stavolta è il senatore Carlo Giovanardi che non ci sta e dice la sua sulla dipartita del giovane geometra, raccontando attraverso "Il Foglio" la verità sull'altro Cucchi e precisando che dopo la sentenza di assoluzione nei confronti degli agenti della Polizia Penitenziaria pronunciata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma, si è verificato un grave caso di disinformazione. In particolare dopo l'ultimo episodio mediatico che ha visto la sorella del Cucchi pubblicare la foto di un agente presentandolo come assassino di suo fratello.

La verità di Giovanardi. Un grave problema di disinformazione, questo è quanto dichiarato dal senatore che a sua volta racconta l'altro Cucchi, un ragazzo che attraverso gli organi d'informazione è passato per "pestato indifeso" e "ucciso da guardie bigotte", mentre a causa di alcuni media sono passati in secondo piano i seri problemi di droga e di spaccio che riguardavano il ragazzo. Attualmente la verità che viene fuori è quella che vede Stefano Cucchi trovato in possesso di 1 kg di hashish, vittima di 17 ricoveri per lesioni e ferite ma che ha come causa dichiarata della sua morte un arresto cardiocircolatorio da disidratazione.

L'altro Cucchi, il caso. Attraverso l'articolo pubblicato da "Il Foglio", Giovanardi vuole chiarire la posizione giudiziaria del Cucchi cercando di fare informazione e rivelando alcune informazioni che attraverso i principali organi di stampa sono passate in secondo piano e che a suo dire "hanno fatto disinformazione". Il senatore vuole precisare che non tutti sanno che Stefano Cucchi venne arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e che a seguito di perquisizione domiciliare venne trovato in possesso di 2 "panetti" di hashish del peso di 905 grammi, 103 grammi di cocaina, tre bilancini di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi.

Riguardo i 17 ricoveri al pronto soccorso causati da ferite, lesioni e fratture certificate negli anni, Giovanardi è convinto non si tratti di problemi con lo Stato, bensì del mondo che il ragazzo frequentava.

OLIO DI FEGATO DI MELUZZI. Gisella Ruccia per Il Fatto Quotidiano l'11 aprile 2019. L’esponente di Fratelli d’Italia afferma di aver pubblicato sui social un breve filmato sul processo Cucchi: “Ha avuto moltissime visualizzazioni”. “Non è sinonimo di intelligenza, anche il fascismo ebbe tanti voti“, obietta Parenzo. Meluzzi continua: “Ho un amore viscerale nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Il mio grande maestro Francesco Cossiga 20 anni fa diceva che le tre uniche istituzioni che ci sono in Italia sono la Chiesa Cattolica, il Partito Comunista e l’Arma dei carabinieri. Di queste tre oggi mi pare che rimanga in piedi solo l’Arma dei carabinieri. E io mi auguro che continui a rimanere in piedi. Quindi, mi sono permesso di fare un’osservazione modestamente critica sull’idea bizzarra, che poi si è rivelata falsa, del fatto che l’Arma dei carabinieri si costituisse parte civile contro i militari dell’Arma che sono attualmente indagati per la morte di Stefano Cucchi. E’ vero che questo forse accade in qualche pubblica amministrazione, come ad esempio nel catasto, ma l’Arma dei carabineri non è un’amministrazione qualsiasi dello Stato. E’ una istituzione fondamentale della storia italiana”. E aggiunge: “Quindi, come il comandante generale dell’Arma ha chiesto scusa alla famiglia Cucchi, per un principio ovvio, la famiglia Cucchi dovrebbe chiedere scusa a tutte quelle famiglie di giovani a cui il geometra Cucchi spacciava la droga. E’ un problema di reciprocità, io amo un principio di giustizia”. Insorge Parenzo: “Una persona più offensiva e più malevola di te non esiste. Non c’è nessun principio di giustizia. C’è un ragazzo che è morto nelle mani dello Stato“. “Questo lo accerterà la magistratura – rincara Meluzzi – Se io avessi avuto mia figlia morta nelle mani dello Stato, mentre faceva la spacciatrice di droga, avrei chiesto innanzitutto scusa alle famiglie a cui veniva rifilata quella droga”. La polemica deflagra irrimediabilmente. Parenzo ribatte: “Stefano Cucchi non faceva lo spacciatore di droga, smettila di infangare la sua memoria e la sua famiglia, che ha già subito dieci anni di deliri. Ti devi solo vergognare. E poi fai pure il prete caldeo e il religioso di ‘sta minchia”. ” Ma cosa c’entra? La base del Cristianesimo è la giustizia. I deliri sono quelli di chi come te nega l’evidenza”, afferma Meluzzi. Parenzo dà allo psichiatra della "macchietta televisiva e radiofonica" e del ‘pagliaccio che infanga la memoria delle persone’. Meluzzi annuncia a più riprese una querela nei suoi confronti e rivendica la sua tesi, invocando “un principio di simmetria”. “Me ne fotto della tua querela – risponde Parenzo – ti devi vergognare delle cose che hai detto. Cruciani, se non gli dici che si deve vergognare, sei complice di questa immondizia. Non gli puoi consentire questa immondizia. Tu gli permetti di dire menzogne. Vergognati anche tu”. Meluzzi dà dell’incivile al conduttore e ribadisce: “Chi detiene droga e la vende per strada si chiama spacciatore. Non ci sono altre parole per definire questo reato. Tanto che nobilmente la madre di questo ragazzo ha detto: ‘Mio figlio avrebbe pagato per il suo reato, ma non con la morte’. In questo ha ragione. E siccome il comandante Nistri ha chiesto scusa ufficialmente di questo fatto, allo stesso modo, per un principio giuridico, umano, morale di simmetria, se io fossi il padre di un ragazzo che spacciava chiederei scusa alle famiglie dei giovani a cui la droga è stata spacciata”. Parenzo decide di non intervenire più, Cruciani definisce "stronzata" l’insieme di argomentazioni addotto dallo psichiatra, che ripete il suo assunto: “La morte di una persona non cancella i comportamenti di quella persona. Non esiste questo fatto. Non esiste in nessun principio giuridico. Quello dei carabinieri sarà stato anche un reato, se il tribunale lo accerterà, ma spacciare droga è un reato che provoca la morte“. E a Parenzo che, alla fine, decide di esprimere il suo disgusto per le affermazioni di Meluzzi, quest’ultimo ribadisce: “Ti querelerò perché mi hai insultato in maniera insopportabile”.

"Ilaria Cucchi mi fa schifo". Ora Salvini querela il Pd per la fake news sulla sorella di Stefano. Il ministro dell'Interno ha annunciato di querelare il Partito Democratico, colpevole di aver diffuso un suo falso virgolettato circa la sorella di Stefano Cucchi, scrive Pina Francone, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Ilaria Cucchi mi fa schifo". Il Partito Democratico ha attribuito questo falso virgolettato a Matteo Salvini e ora i dem sono stati denunciati dal ministro dell'Interno. Già, il responsabile de Viminale ha deciso di querelare il Pd per aver diffuso, attraverso i suoi canali social, la dichiarazione contro Ilaria Cucchi. Insomma, una fake news vera e propria per gettare fango sul leader della Lega su un caso così tanto delicato. La verità, per l'appunto, è che Salvini non ha mai detto di provare schifo per la sorella di Stefano, come aveva già precisato nei mesi scorsi. Il ministro, altresì, faceva riferimento a un post della donna. E proprio Ilaria Cucchi, a conferma che quella uscita social fu infelice, la cancellò e ammise l'errore.

"BASTA. Avevo già smentito: la mia affermazione riguardava non la persona ma un POST di Ilaria Cucchi. Post che lei stessa cancellò successivamente, ammettendo l'errore. E al PD arriverà una querela", il post odierno su Facebook del vicepremier. 

Caso Cucchi, chi è il magistrato che ha svelato la partita truccata. Salentino, silenzioso, riservato. Prima Giovanni Musarò è stato in Calabria, a indagare sui boss della 'ndrangheta. Ora è alle prese con l'inchiesta più delicata che mette sotto accusa la catena di comando dell’Arma dei Carabinieri. Floriana Bulfon l'8 aprile 2019 su La Repubblica. «Anime salve in terra e in mare, / sono state giornate furibonde». La voce di Fabrizio De André filtra da una porta chiusa, facendo scorrere lungo il corridoio deserto l’inno agli spiriti solitari, liberi e diversi per scelta. È tarda sera e negli uffici grigi della procura di Roma il freddo comincia a farsi sentire: dopo le cinque il riscaldamento si spegne e molti ascensori si fermano. Orari di un’altra epoca, quando questo palazzo era chiamato “il porto delle nebbie”, dove le indagini svanivano nell’ombra del potere. Altri tempi, altri ritmi. Come testimoniano i versi di De André. Provengono da due altoparlanti incastrati tra lo schermo di un pc e i faldoni pieni di carte che fanno sembrare la scrivania una trincea. Dietro c’è Giovanni Musarò, il magistrato che ha risollevato da un destino ormai già scritto la storia di Stefano Cucchi: quella di un ragazzo morto nelle mani dello Stato e sepolto dalle menzogne di un sistema rivelatosi omertoso. Un pubblico ministero ancora giovane (46 anni, cinque più di Cucchi), che con il suo lavoro sta scuotendo le gerarchie dell’Arma, portando alla luce manipolazioni e depistaggi. Anche questa sera è qui fino a tardi, impegnato a cercare le anomalie nella montagna di fascicoli alterati per sotterrare la verità sulla fine di quel detenuto troppo fragile: sottolinea con l’evidenziatore giallo relazioni modificate, confronta documenti e testimonianze per scoprire parole, opere e omissioni, per smascherare il gioco falso e feroce di appuntati e ufficiali. Non lo fa per ostinazione, ma per senso dello Stato. «È il mio mestiere», ripete spesso quasi sentisse l’obbligo di una giustificazione. Un mestiere che non ammette deroghe: l’obbligatorietà dell’azione penale implica il dovere della verità, sempre e comunque. Anche a costo di mettere in discussione la credibilità della gerarchia dei carabinieri pur di capire cosa sia successo al corpo martoriato di un cittadino, considerato solo «un drogato de merda». Musarò si stringe nella giacca blu. La indossa sempre, persino quando è alla tastiera sotto il gagliardetto della Juventus, esposto in un ambiente pieno di tifosi della Roma: ha una venerazione per Dino Zoff, lo vorrebbe conoscere. Non sa quando ci riuscirà, come se il suo tempo fosse sospeso dentro quelle carte. Che gli raccontano una storia diversa da quella che si voleva far credere a un intero Paese e lo portano ad accusare coloro che avrebbero dovuto stare dalla sua stessa parte. E invece hanno tradito la legge e la lealtà ai valori dell’Arma. Lui li conosce bene quei valori. Su una mensola del suo ufficio c’è una scarpetta di cuoio. È la prima che ha indossato il suo unico nipote, quella con cui ha compiuto il primo passo il figlio di suo fratello, sottufficiale proprio dei carabinieri. L’altro fratello è nell’Esercito, spesso in missione in zone di guerra. Tre maschi, tutti “servitori dello Stato”. Oggi Musarò incarna lo Stato che processa lo Stato. Avvista depistaggi e coperture e non si ferma di fronte al rischio di urtare sensibilità, perché in gioco c’è molto di più. Il caso Cucchi è la contraddizione e l’incoerenza di quello Stato. Che finisce tra i ripetuti «non ricordo» e «mi avvalgo della facoltà di non rispondere» delle alte gerarchie dell’Arma, dopo dieci anni di relazioni di servizio modificate su richiesta dei “superiori”. Relazioni dove le fasi dell’arresto non sono più concitate e i malori spariscono. («Meglio così», commentano in una mail). Dove Cucchi è epilettico, anoressico, peggio, malato di Hiv. Documenti in cui i carabinieri riescono a dichiarare le cause della morte di Stefano prima della scienza, quando ancora non è stata condotta alcuna perizia, anzi quando i periti non sono nemmeno stati nominati. Dopo, i consulenti della procura, quelli che ancora non erano stati scelti, scriveranno le stesse cose. Ma per i carabinieri era già tutto chiaro subito, a pochi giorni dalla morte: «non attribuire il decesso a traumi», di più «non rilevati segni macroscopici di percosse». Una macchinazione che porta a mentire l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano davanti al Parlamento e a scaricare le responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria che sono costretti ad affrontare tre gradi di giudizio per essere assolti. Dopo dieci anni dal mancato foto-segnalamento nella caserma dove avvenne il violentissimo pestaggio confessato ora da Francesco Tedesco, uno dei carabinieri presenti, Musarò vede «la partita truccata» e avverte: «arrivati qui non è più una questione di ricerca della verità doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo. A questo punto è in ballo la credibilità dell’intero sistema». Quella democrazia tradita e minacciata nelle sue fondamenta, con il mancato rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. Con le intimidazioni per chi si ribella al sistema malato, a una catena di comando che nasconde la verità. Musarò è cresciuto nel Salento, all’ombra di enormi e contorti ulivi. Allevato dal nonno adorato e da una zia da cui ha imparato l’ostinazione da applicare sul lavoro. Una famiglia del Sud, il padre impiegato in banca, la madre insegnante. Che quel figlio promettente lo fanno studiare all’università di Roma. Si trasferisce così in un appartamento con altri studenti proprio nella prima periferia della Capitale, nei quartieri dove comandano i Casamonica: il clan rom su cui poi indagherà. Supera rapidamente l’esame da magistrato nel 2002 e sceglie la sede di Reggio Calabria. Si occupa prima di reati sessuali e anche in questo caso lo fa senza occhi di riguardo per nessuno: indaga, e fa condannare, un maggiore della Guardia di finanza a capo del reparto investigativo che, abusando del ruolo, molesta giovani coppie. Quando arriva a Reggio il procuratore Giuseppe Pignatone lo vuole nella squadra dei suoi più stretti collaboratori e lo affida al suo vice Michele Prestipino. Lavorare con i colleghi provenienti da Palermo è una grande scuola, soprattutto per chi come lui è cresciuto negli anni delle stragi e adesso può imparare dagli inquirenti che ne hanno svelato le trame. Con Prestipino riescono a ottenere dalla Cassazione una sentenza storica: il riconoscimento dell’unitarietà delle varie forme di ’ndrangheta, sancendo il disegno mafioso unico che mette insieme clan sparsi in diverse province. Un verdetto pari per rilevanza a quelli nati negli anni Ottanta dal maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra. L’indagine reggina si chiamava “Crimine”. Il giorno degli arresti 500 carabinieri indossavano una maglietta nera con quel nome stampato sopra. Una gliel’hanno regalata e Musarò l’ha incorniciata nel suo ufficio accanto alla foto del collega Antonio De Bernardo, immortalati insieme il giorno della requisitoria davanti al tribunale di Locri. Quell’esperienza calabrese si tramuta nell’approccio innovativo con cui il pm affronta la questione dei clan capitolini, sostenendo la caratura mafiosa dei Casamonica. Dando consistenza alla «condizione di assoggettamento e omertà» - come recita l’articolo 416 bis del codice penale - che loro esercitano nelle strade della capitale. Per concludere senza un filo di dubbio: la brutalità e gli affari del “padrino” Giuseppe e dei suoi parenti, il raid con le cinghiate dentro a un bar di periferia, quella testata degli Spada di Ostia al cronista televisivo, tutto questo è mafia. Quella che a Roma per decenni nessuno ha voluto vedere. Questo magistrato però parla solo con i provvedimenti: mai un’intervista, né un commento sui social. Evita la mondanità romana e i salotti che contano. «Lo fa per non rischiare cattivi incontri e per via della sua ironica sottile malinconia», sostiene chi lo conosce bene. Si concede solo qualche serata con pochi, fidati amici, e una passeggiata con la fidanzata per il quartiere dove abita. Un lusso per chi vive da anni sotto scorta per le minacce della ’ndrangheta. La tutela è al massimo livello ma non è bastata a proteggerlo dall’ergastolano Domenico Gallico. Intercettando la posta e i colloqui in carcere, Musarò ha disposto l’arresto di tutta la rete familiare. Il boss vuole essere interrogato e lui non si può rifiutare. Nel carcere di massima sicurezza chiede però la presenza di due agenti per difesa personale: «Se questo detenuto avrà la possibilità di colpirmi, lo farà». Quel giorno nemmeno lo storico avvocato dei Gallico si presenta, arriva soltanto un giovane difensore che non conosce il detenuto. Nella saletta sono soli. Gallico entra, gli va incontro col passo sostenuto e dice «procuratore, finalmente ci conosciamo, posso stringerle la mano?». Lui gliela porge e quello gli sferra un pugno in piena faccia, un sinistro che gli rompe il naso. Cade tra la sedia e il muro e allora ancora calci e pugni fino a che non arrivano i poliziotti e a fatica glielo staccano di dosso. Può denunciarlo, togliersi da una situazione pericolosa, ma significherebbe astenersi dal processo. Preferisce invece continuare la sua battaglia. «È il mio mestiere», taglia corto. I colpi della ’ndrangheta non si arrestano, arrivano anche in modo più subdolo. Maria Concetta Cacciola è una giovane donna che decide di diventare testimone di giustizia, collaborando con le sue indagini. Maria Concetta muore per ingestione di acido muriatico. Uccisa in quel modo atroce per cancellare la volontà di parlare. Musarò svela le violenze che subisce, la vita da segregata e umiliata che il sistema mafioso le impone e da cui prova a fuggire. A quel punto entra in azione la strategia diffamatoria della famiglia, millanta un inesistente stato depressivo, un’alterazione psichica. A tre giorni dalla morte Maria Concetta viene uccisa un’altra volta. I Cacciola, con un esposto, accusano i magistrati di aver estorto le dichiarazioni. Il tutto anche tramite la complicità di due avvocati che poi saranno condannati per questa calunnia. Dietro alla testa di Musarò ci sono la mappa del Salento e la foto con le colleghe con cui ha condiviso gli anni di Reggio Calabria. Sorride insieme a Beatrice Ronchi, il pubblico ministero che ha svelato la presenza della ’ndrangheta in Emilia, la sua migliore amica. Un ufficio arredato con le cose preziose che fanno compagnia nel silenzio rotto solo dai tasti e dalla musica di sottofondo. Lui sogna di guidare ancora l’auto, nella sua Squinzano: la libertà di una birra con gli amici d’infanzia e di un tuffo nel mare del Salento. Ma è un sogno impossibile, c’è sempre la scorta. In compenso quando parte per Roma la madre, come se fosse ancora studente, gli prepara una borsa con taralli, pasticciotti e altre prelibatezze: da dividere con i collaboratori nella cancelleria, tra stampante, timbri e cartelline. Un momento di familiarità che termina troppo rapidamente perché il telefono squilla. «Gianni ti dobbiamo parlare». Il procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino lo attendono giù al primo piano. Loro l’hanno visto crescere e lo conoscono bene. Sorridono quando si tocca la testa, perché sta riflettendo, alla ricerca di una soluzione al problema del momento. Scende le scale con una borsa stracolma di carte da cui sporge una copia di “Conversazione nella «Catedral»” di Mario Vargas Llosa. Un romanzo sulla dittatura e sull’abuso di potere, capace di infettare come un’epidemia ogni fascia sociale. Qualcosa di simile, seppur in dimensioni diverse, a quello che ha incontrato nelle sue indagini romane, con quel senso di impunità che sembra avere unito criminali di periferia e ufficiali dei carabinieri. E che lui non intende accettare.

Caso Cucchi, chiusa l'inchiesta per i depistaggi: rischio processo per 8 carabinieri. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo, scrive il 19 marzo 2019 La Repubblica. Falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia: sono questi i reati contestati, a seconda delle singole posizioni, a otto militari dell'Arma, coinvolti nell'inchiesta bis sui depistaggi legati al pestaggio di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per detenzione di droga. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo. Il 415 bis è firmato dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone. Tra gli altri carabinieri che sono a rischio processo figurano Francesco Cavallo, già tenente colonnello nonché a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, Luciano Soligo, all'epoca dei fatti maggiore e comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza, il capitano Tiziano Testarmata, già comandante del nucleo investigativo, e Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg. Casarsa, Cavallo, Colombo Labriola, Di Sano e Soligo sono accusati dalla procura di concorso nel reato di falso. Sabatino e Testarmata, invece, rispondono di omessa denuncia, mentre Testarmata ha anche l'accusa di favoreggiamento. A De Cianni sono attribuiti il falso e la calunnia. "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano) fosse modificato - è detto nel capo di imputazione - nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo i pm, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo e Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che "Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezzà omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Sabatino e Testarmata, invece, secondo la Procura erano stati incaricati di acquisire una serie di documenti nel novembre del 2015, nell'ambito dell'inchiesta bis sui depistaggi legati al caso di Stefano Cucchi, ma, resisi conto che le due annotazioni di servizio del 26 ottobre del 2009 sullo stato di salute dell'arrestato, una sottoscritta dal carabiniere scelto Francesco Di Sano e l'altra dal pari grado Gialuca Colicchio, "erano idelogicamente false", "hanno omesso di presentare denuncia per iscritto all'autorita' giudiziaria". "In questi momenti di difficoltà emotiva per la nostra famiglia è di conforto sapere che coloro che ci hanno provocato questi anni di sofferenza in processi sbagliati verranno chiamati a rispondere delle loro responsabilità. È un'enorme vittoria per la nostra famiglia e la nostra giustizia", ha detto Ilaria Cucchi commentando la chiusura indagini.

·         Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.

Cucchi, ecco come e chi lo picchiò. Il super test: "A Stefano schiaffi e calci in faccia, poi mi minacciarono". Tedesco, imputato per omicidio, davanti alla prima Corte d'assise di Roma nel processo ai cinque carabinieri: "Chiedo scusa alla famiglia e agli agenti della penitenziaria". Il vicebrigadiere: "La mia nota venne cancellata, ero terrorizzato". L'Arma è pronta alla svolta: "Ci costituiremo parte civile". Esclusiva di Repubblica: Nistri scrive una lettera alla famiglia di Stefano, scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica. "Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile". E' iniziata così al processo Cucchi-bis la deposizione davanti alla Corte d'Assise del carabiniere Francesco Tedesco, il supertestimone che ha rivelato a nove anni di distanza che Stefano, 31 anni, venne "pestato" da due suoi colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, imputati come lui di omicidio preterintenzionale.

Il pestaggio di Stefano Cucchi. L'imputato-superteste ha raccontato le fasi del pestaggio di Stefano Cucchi nella caserma della compagnia Casilina la notte del suo arresto a Roma, il 15 ottobre del 2009, dopo essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. "Al fotosegnalamento - racconta Tedesco - Cucchi si rifiutava di prendere le impronte, siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Di Bernardo è proseguito. Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D'Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all'altezza dell'ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: "Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete". Ma Di Bernardo proseguì nell'azione spingendo con violenza cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbattè anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D'Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi "state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più". Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi "Come stai?" lui mi rispose "Sono un pugile sto bene", ma lo vedevo intontito".

Le annotazioni sparite del carabiniere Tedesco sul pestaggio di Stefano Cucchi. "Non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno". Poi aggiunge: "Ho scritto una annotazione il 22 ottobre parlando dell'aggressione ai danni di Cucchi e della telefonata a Mandolini ma non che era stato Nicolardi a consigliarmi di fare questa relazione". "Ho fatto due originali delle mie annotazioni - ha aggiunto - sono andato in questo archivio al piano di sotto della caserma. Ho protocollato un foglio scrivendoci 'Cucchi annotazione', poi ho preso i due fogli e li ho messi nel registro per la firma del Comandante, di colore rosso, che poi era destinata all'autorità giudiziaria. L'altra copia era destinata alla 'piccionaia', come la chiamavamo in gergo, dove conservavamo tutti gli atti dell'anno corrente". Poi Tedesco ha spiegato: "Non dissi nulla di questa cosa a nessuno, pensavo di essere convocato da solo. Invece nei giorni successivi andai nel registro e vidi che nella cartella mancava la mia annotazione. Mi sono reso conto che erano state cancellate due righe con un tratto di penna".

Cucchi, il verbale già pronto da firmare. "Quando arrivammo alla caserma Appia in ufficio il verbale era già pronto e il maresciallo Roberto Mandolini (imputato per calunnia) mi disse di firmarlo. Cucchi non volle firmare i verbali". E ha spiegato: "Mentre stavamo in auto per rientrare alla caserma Appia Cucchi era silenzioso, si era messo il cappuccio e non diceva una parola, chiedeva il Rivotril". Subito dopo avere assistito all'aggressione di Cucchi, Tedesco ha testimoniato di avere chiamato l'allora capo della stazione Appia, Roberto Mandolini (imputato per calunnia), e "gli dissi cosa era successo. Mandolini mi chiese 'Come sta?'. Io replicai: 'Dice che sta bene ma è successo questo, questo e questo. Cucchi - ha proseguito tedesco- sentì quella telefonata perchè lo avevo sotto braccio. Quindi salii dietro sul defender con lui, mentre Di Bernardo e D'Alessandro stavano davanti. Cucchi non disse una parola, teneva la testa abbassata, io ero turbato e lui era sotto shock più di me". Invece Di Bernardo e D'Alessandro (imputati per omicidio preterintenzionale) "erano tranquilli, non erano spaventati più di tanto. Non erano preoccupati della telefonata che avevo fatto a Mandolini e mi dicevano: 'Non ti preoccupare parliamo noi con Mandolini'. Arrivati alla stazione Appia, Mandolini chiamò D'Alessandro e Di Bernardo, io stavo con Stefano Cucchi, che era ancora stordito anche se cominciava a parlare un pochino con me". Mandolini poi chiamò me e Cucchi, disse: 'Fateli venire che bisogna fermare il verbale d'arrestò. Presi il verbale e mi disse: 'Firmalo che tra un paio d'ore devi andare in tribunale. Io lo firmai senza nemmeno leggere. Con me mandolini faceva sentire il grado, se dovevo entrare in ufficio io dovevo chiedere permesso, se lo facevano D'Alessandro e Di Bernardo no. Cucchi non voleva firmare il verbale di perquisizione nè il verbale d'arresto". "Dire che ebbi paura è poco - ha raccontato Tedesco - Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C'era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l'ho vissuta come una violenza".

Cucchi, le minacce di Mandolini al carabiniere Tedesco. "Prima di andare dal pm per essere sentito dissi a Mandolini "ma ora cosa devo fare?" e lui mi rispose "non ti preoccupare, ci penso io, devi dire che (Cucchi, ndr) stava bene. Devi seguire la linea dell'arma se vuoi continuare a fare il carabiniere". E ha sottolineato il vicebrigadiere Tedesco: "Ho percepito quella minaccia come tanto seria- ha aggiunto- e poi vedevo i colleghi tranquilli".

La lettera del generale Nistri alla famiglia Cucchi. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi. "Mi creda - scrive il generale - e se lo ritiene lo dica ai suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà". E poi affronta l'onta che l'Arma porta nell'omicidio di Stefano: Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere".

Il processo ai cinque carabinieri del caso Cucchi. Sono cinque i carabinieri alla sbarra nel procedimento bis in corso davanti alla prima Corte d'Assise: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco e rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Altri otto carabinieri sono indagati nel fascicolo sui presunti depistaggi sul caso, e rispondono di reati che vanno dal falso, all'omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi.

Cucchi, stretta di mano tra Ilaria Cucchi e il superteste Tedesco: "Ha detto mi dispiace, lo ringrazio", scrive il 16 aprile 2019 Repubblica Tv. Al termine del suo esame nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi, l'imputato e superteste Francesco Tedesco, che nella scorsa udienza ha accusato i colleghi di aver pestato il geometra romano, si è alzato e si è diretto verso Ilaria Cucchi. "Mi dispiace", ha detto il vice-brigadiere alla sorella di Stefano. "E' stato un momento forte, quello che posso dire è che sono stata grata almeno per questo gesto", ha detto la donna. Nel corso dell'udienza inoltre, Maria Lampitella, la legale che difende Raffaele D'Alessandro, uno degli altri carabinieri imputati, ha chiesto a Tedesco se ricordava la frase pronunciata da Cucchi dopo il pestaggio 'Io muoio, ma a te tolgono la divisa'. Tedesco ha smentito la circostanza, ma per Ilaria Cucchi questo resta un passaggio significativo: "Ringrazio Lampitella, ha ribadito che Stefano era stato picchiato e stava molto male, tanto che è morto dopo sei giorni".

Caso Cucchi, il carabiniere stringe la mano a Ilaria. Nuova deposizione di Francesco Tedesco, imputato di omicidio preterintenzionale. A distanza di nove anni ha rivelato che il geometra romano venne “pestato” dai suoi ex colleghi, scrive Valentina Stella il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. “Mi dispiace”: con queste parole ieri, al termine dell’interrogatorio in Corte d’Assise a Roma, Francesco Tedesco si è rivolto a Ilaria Cucchi. Il carabiniere è imputato di omicidio preterintenzionale ed ha accusato gli altri due militari coimputati nel processo, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, per la morte di Stefano Cucchi. Al termine dell’interrogatorio l’uomo si è alzato ed è andato a stringere la mano alla sorella del geometra 31enne, morto nell’ottobre del 2009 sotto la custodia dello Stato una settimana dopo essere stato arrestato per droga. È dunque lontano quel gennaio del 2016 quando Ilaria Cucchi pubblicò sulla sua pagina Facebook una foto di Tedesco al mare, che esibiva un fisico palestrato e unto di crema solare in uno striminzito costume, aggiungendo il commento: “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo, le facce di coloro che lo hanno ucciso…”. Ieri forse l’inizio di un nuovo percorso, segnato dal pentimento e della ricerca della verità. Tedesco, infatti, nella scorsa udienza, a distanza di 9 anni da quella tragica morte, aveva rivelato che Cucchi venne “pestato” da Di Bernardo e D’Alessandro. Ieri ai giudici ha aggiunto altri particolari, sfogandosi contro i suoi ex colleghi: “Si sono nascosti dietro le mie spalle per tutti questi anni, per dieci anni loro hanno riso e io ho dovuto subire, mi sono stancato. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero l’unico minacciato”. Rispondendo poi alle domande delle difese, Tedesco ha detto perché ha aspettato così tant. “Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm ma ho voluto aspettare che uscissero le annotazioni mie falsificate e cancellate per corroborare le mie parole”. Subito dopo la morte di Stefano Cucchi “sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l’andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l’unico ad avere tutto da perdere” ha concluso Tedesco. Intanto tre agenti della penitenziaria – Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici che sono stati assolti in via definitiva nel 2015, e al momento persone offese, hanno depositato un atto di nomina dei difensori al fine di costituirsi parte civile contro i rappresentanti dell’Arma indagati. Stessa cosa ha fatto la la famiglia Cucchi.

Il carabiniere superteste: "Per 10 anni colleghi nascosti dietro di me". E stringe la mano a Ilaria: "Mi dispiace". La stretta di mano tra il superteste Francesco Tedesco e Ilaria Cucchi oggi in aula. Francesco Tedesco ha ricostruito le fasi dell'arresto e il pestaggio del giovane geometra. "Non ha avuto tempo di lamentarsi e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra". Smentita in aula la frase riportata da Ilaria Cucchi: "Io muoio ma a te ti levano la divisa", scrive il 16 aprile 2019 La Repubblica. "Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono nascosti per dieci anni dietro le mie spalle. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L'unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l'unica persona che aveva da perdere ero io, ero l'unico minacciato". Lo ha detto in aula davanti alla Corte d'Assise, Francesco Tedesco, il carabiniere superteste e imputato di omicidio preterintenzionale che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati coinvolti nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il giovane geometra morto nel 2009. E al termine della sua deposizione, Tedesco si è avvicinato alla sorella del geometra, Ilaria dicendole "mi dispiace" e stringendole per la prima volta la mano. Rispondendo alle domande delle difese, Tedesco ha spiegato perché ha aspettato tanti anni per fare le sue rivelazioni. "Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm", ha anche spiegato Tedesco, il quale in aula ha anche ricostruito tutte le fasi dell'arresto di Stefano dicendo di aver visto personalmente lo scambio droga-denaro di Cucchi con il suo cliente e indicando tutti i componenti del gruppo che realizzarono le varie perquisizioni (personale, dell'auto e domiciliare) del giovane quella notte. "Subito dopo la morte di Cucchi sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l'andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l'unico ad avere tutto da perdere" ha aggiunto Tedesco, accusato anche di falso e calunnia insieme con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. ""Dopo il primo schiaffo di Di Bernardo - ha detto il vicebrigadiere, ribadendo quanto già affermato nella precedente udienza - Stefano non ha avuto il tempo di lamentarsi, non ha gridato. E' caduto in terra, come fosse stordito, e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra da D'Alessandro. Poi, quando l'ho aiutato a rialzarsi, gli ho chiesto come stava e lui mi ha detto di stare tranquillo perché era un pugile. Ma si vedeva che non stava bene". "Vorrei ringraziare l'avvocato Lampitella, difensore di D'Alessandro, che ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento. Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto 'io muoio ma a te ti levano la divisa'. Stefano era stato appena picchiato e stava proprio male" lo ha scritto su Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, in merito ad una domanda formulata in aula dal legale della difesa. E oggi in aula, davanti alla Corte d'Assise, il legale ha chiesto al carabiniere Francesco Tedesco se Stefano avesse pronunciato la frase in questione. La risposta di Tedesco è stata negativa.

Stefano Cucchi, il carabiniere Tedesco in aula: «Chiedo perdono, mi ritrovai solo». Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Corriere.it. «Tu devi dire che non è successo niente, che Cucchi stava bene. Se vuoi continuare a fare il carabiniere devi seguire la linea dell’Arma». Il vice brigadiere Francesco Tedesco — 37 anni, imputato per l’omicidio preterintenzionale del detenuto romano arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana più tardi — attribuisce a questa frase del maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante supplente della stazione Roma-Appia, i nove anni di omertà con cui lui stesso ha taciuto e coperto il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi Confessato al pubblico ministero Giovanni Musarò solo l’estate scorsa, con una versione che accusa delle botte i suoi colleghi coimputati, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. «Vissi quell’esortazione come una minaccia, insieme a tanti altri comportamenti», racconta Tedesco davanti alla Corte d’Assise in una deposizione-fiume cominciata con la richiesta di perdono rivolta alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria processati e assolti in passato: «Chiedo scusa per i nove anni di silenzio, ma avevo davanti un muro insormontabile». Il muro costruito con intimidazioni mascherate da consigli che gli avrebbero impedito di svelare prima ciò che adesso racconta sollecitato dalle domande del pm e dei suoi avvocati difensori, Eugenio Pini e Stefano Petrelli. È la storia di un arresto notturno per droga uguale a tanti altri, trasformatosi prima in dramma e poi in uno scandalo. «Dopo la perquisizione domiciliare — ricorda Tedesco, offrendo il proprio volto a telecamere e fotografi — siamo andati alla caserma Casilina per il fotosegnalamento di Cucchi, ma al momento di prendere le impronte digitali Stefano ha avuto un battibecco con Di Bernardo, perché non voleva sporcarsi le mani con l’inchiostro. Hanno cominciato a insultarsi, Cucchi ha fatto il gesto di dare uno schiaffo a Di Bernardo. Era più una violenza verbale che altro. A quel punto D’Alessandro ha chiamato Mandolini, il quale ci ha ordinato di rientrare perché, essendo un italiano fornito di documenti, non c’era bisogno del fotosegnalamento. Mentre uscivamo Cucchi e Di Bernardo hanno continuato a offendersi, finché Di Bernardo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento. Poi D’Alessandro, che stava chiudendo il computer, gli ha dato un calcio all’altezza del sedere, facendolo cadere. Io ho detto “ma che cazzo fate?”. Poi ho spinto Di Bernardo, e D’Alessandro gli ha dato un secondo calcio, mi pare in faccia. Io l’ho spinto via dicendo “non vi avvicinate, non vi permettete”, ho preso sottobraccio Cucchi che mi ha detto “non ti preoccupare, sto bene, sono un pugile”». Da quel momento, rientrati tutti nella caserma Appia, è cominciato il calvario di Cucchi che l’indomani mattina è stato accompagnato in tribunale dallo stesso Tedesco: «Camminava lentamente, trascinando una gamba, e aveva gli occhi arrossati. Si capiva che era stato picchiato». Una settimana più tardi Cucchi morì nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini. E cominciò ad alzarsi il «muro impenetrabile» costruito anche con le bugie e i silenzi del vicebrigadiere che decise di attenersi alla «linea dell’Arma» emersa intorno a lui giorno dopo giorno: «In più occasioni mi fu fatto capire che non dovevo fare azioni isolate, né discostarmi dal comportamento degli altri. Per esempio quando davanti a me Mandolini chiamò un superiore della stazione di Tor Sapienza per dirgli che la relazione di servizio del piantone sulle condizioni di Cucchi non andava bene, dopo dieci minuti è arrivata quella modificata, e lui ha strappato la prima; io ho vissuto quell’episodio come una violenza». Non l’unica. «Quando seppi che Cucchi era morto — continua Tedesco —, scrissi un’annotazione di servizio in cui ricostruii ciò che avevo visto. Ne stampai due copie, ma dopo qualche giorno mi accorsi che nel fascicolo dove le avevo inserite non c’erano più». A questa versione c’è il riscontro di un registro che appare manomesso, come fu manomesso quello del fotosegnalamento dal quale fu cancellato il nome di Cucchi: «Erano tutti tranquilli». Poi Tedesco partì per la Puglia per un periodo di ferie prontamente concesso dal Mandolini, e ricevette una telefonata sospetta: «Mi chiamarono Di Bernardo e D’Alessandro per chiedermi come stavo, e D’Alessandro disse, a proposito della vicenda Cucchi, “mi raccomando, fatti i cazzi tuoi, occhio”». Tedesco si adeguò, anche dopo aver saputo di essere indagato nell’inchiesta-bis, nel 2015. Con un programma per ripulire il computer fece sparire le tracce della relazioni di servizio che oggi vorrebbe tanto ritrovare, e dalle intercettazioni risulta che fosse d’accordo con D’Alessio e Di Bernardo nel concordare le versioni e continuare a coprire la verità. «Mi fingevo loro amico per non destare sospetti, avevo paura di loro e delle conseguenze che potevo subire», spiega. Il controesame condotto dall’avvocato Bruno Naso, difensore di Mandolini, cerca di mettere in luce contraddizioni e smagliature nel racconto del carabiniere «pentito», che però si mostra granitico nella sua ricostruzione. E aggiunge: «Non dissi nulla ai superiori perché ebbi la sensazione che si volesse coprire tutto». La «linea dell’Arma» ha retto fino al luglio scorso quando Tedesco — evidentemente per alleggerire la propria posizione processuale e distinguerla da quella di chi oggi accusa essere i picchiatori di Cucchi, fornendo una versione che trova conferme nel racconto di un detenuto che parlò con Cucchi dopo l’arresto, a Regina Coeli — ha denunciato la scomparsa della relazione e accusato i colleghi del pestaggio. Proprio mentre il comando generale gli comunicava l’avvio della procedura disciplinare che potrebbe portarlo alla destituzione. Interrotta solo in seguito, in attesa della fine del processo.

·         I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.

Caso Cucchi, il pm: i carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia, scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Prima ancora che la procura conferisse l’incarico per l’esame medico legale sulla morte di Stefano Cucchi, i carabinieri erano già in possesso di una relazione ufficiosa e segreta, datata 30 ottobre 2009. L’ennesimo colpo di scena svelato nell’aula del processo bis dal pm Giovanni Musarò ha come conseguenza la richiesta della pubblica accusa alla corte D’Assise di revocare dalle prove di questo dibattimento le testimonianze rese dai vecchi periti. La prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi «è stata farlocca, le testimonianze di consulenti e periti dell'altro processo introdurrebbero un vizio nel processo attuale», sottolinea Musarò. «Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo», aggiunge il pm, ma la credibilità di quei testi «è irreparabilmente inficiata». Nella precedente udienza era emerso che sempre sulla base di false attestazioni mediche fornite dai carabinieri al ministro dell’Interno Angelino Alfano, il titolare del Viminale era stato indotto a dire il falso quando venne chiamato a riferire del caso in parlamento. Ora, il passo avanti ulteriore con cui la procura sostiene la sua accusa di depistaggio a carico di altri sette carabinieri, oltre ai cinque imputati per il pestaggio e i falsi. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, dice ancora il pm in aula, «erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm di allora non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell'autopsia». La relazione di cui parla l'Arma in documenti riservati del 2009, «era talmente segreta da essere negata anche alle parti», aggiunge Musarò.

Cucchi, il dossier sull’autopsia finito nelle mani dei carabinieri. Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Di udienza in udienza, al processo per la morte di Stefano Cucchi i misteri si infittiscono anziché chiarirsi. O meglio, affiora con sempre maggiore chiarezza un intrigo — legato ai depistaggi del 2009 e del 2015 denunciati dall’accusa — che i protagonisti non riescono a spiegare. O si rifiutano di spiegare avvalendosi del diritto al silenzio essendo a loro volta indagati per falso o favoreggiamento. A cominciare dal generale dei carabinieri Alessandro Casarsa e dal capitano Tiziano Testarmata, che dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò nel corso dell’inchiesta-bis sulla manipolazione delle prove, nell’aula dove vengono giudicati cinque loro colleghi imputati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso, scelgono di tacere.  «Sono emerse altre circostanze inquietanti relative agli accertamenti medico-legali sul decesso di Cucchi», annuncia il pm Musarò aprendo l’udienza di ieri, per mettere in guardia: «Nell’altro processo (quello contro gli agenti penitenziari finiti assolti, ndr) è stata giocata una partita con le carte truccate; oggi ne giochiamo un’altra con un mazzo nuovo, ma vorrei evitare altri trucchi». Stavolta la novità è una relazione preliminare del medico che il 23 ottobre 2009, il giorno dopo la morte di Stefano, effettuò l’autopsia sul cadavere. Otto pagine consegnate dal consulente Dino Tancredi al magistrato che all’epoca svolgeva le indagini, Vincenzo Barba, alle 17.40 del 30 ottobre e negate agli avvocati della famiglia Cucchi. Segrete per tutti ma non per l’Arma, che già negli appunti redatti dall’allora colonnello Casarsa lo stesso 30 ottobre e dall’ex comandante provinciale Vittorio Tomasone il 1° novembre, ne davano conto. Enfatizzando conclusioni parziali e interlocutorie, redatte «con riserva di ulteriori approfondimenti». Prima ancora che a Tancredi venissero affiancati altri consulenti, i carabinieri spiegavano nel loro appunto trasmesso al comando generale (poi utilizzato per informare il governo chiamato a rispondere alle interrogazioni parlamentari) che il collegio peritale sarebbe stato ampliato per «valutare i risultati parziali dell’autopsia che sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi». In realtà Tancredi aveva ripetutamente scritto che «allo stato attuale» non emergevano elementi che collegassero le lesioni alla morte di Cucchi; e che «la definizione dei mezzi produttori della medesima necessita di ancor più approfondito esame» di tutti gli elementi a disposizione e ancora da raccogliere. Tuttavia la mancanza del famoso «nesso causale» tra le percosse e la morte di Cucchi verrà poi introdotta nelle successive consulenze e perizie che hanno condizionato il primo processo, e che oggi il pm non esita a definire «farlocche». Anche in virtù di un’altra relazione senza data, che lo stesso Tancredi non sa spiegare, in cui sparì una lesione vertebrale invece presente in quella preliminare; e delle anticipazioni elaborate dai carabinieri, sebbene non si capisca a quale titolo furono informati in tempo reale degli accertamenti medico-legali in corso. Perché avevano quella relazione segreta? E come poterono anticipare le mosse successive? Nell’udienza precedente il generale Tomasone disse di non ricordare perché nel suo appunto escluse il collegamento tra botte e decesso, essendosi limitato a trascrivere ciò che gli aveva indicato il colonnello Casarsa. Il quale nel frattempo è diventato anche lui generale e al pm — nell’istruttoria sui presunti depistaggi — aveva detto di non ricordare chi gli aveva trasmesso quelle informazioni; negando di aver dettato l’annotazione al suo sottoposto, come riferito dal colonnello Cavallo. Versioni contraddittorie, un carabiniere contro l’altro. E ieri, convocato davanti ai giudici, Casarsa ha cambiato atteggiamento: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Come il capitano Testarmata — che sulle acquisizioni di carte del 2015 aveva risposto al pm, sostenendo tesi smentite da altri — ma in aula resta zitto, se non per declinare le proprie generalità. L’unico ufficiale che deve parlare per forza in quanto testimone, il tenente colonnello Paolo Unali, ex comandante della compagnia Casilina, non sa spiegare perché negli atti redatti all’epoca non si fa mai cenno ai motivi del mancato fotosegnalamento di Cucchi la sera dell’arresto (quando avvenne il pestaggio, secondo l’accusa). «Mi avevano riferito che era stato poco collaborativo», dice. Ma allora come mai negli appunti il detenuto viene descritto come «remissivo», oltre che falsamente «anoressico e sieropositivo»? «Non lo so», risponde Unali. Quelle carte dei carabinieri sono rimaste nascoste per nove anni, e solo di recente sono state consegnate dall’Arma, inserite negli atti della nuova indagine e prodotte in aula. Ma, un po’ misteriosamente, la corte d’assise per adesso ha stabilito che non debbano entrare nel processo.

Caso Cucchi, il pm al processo: "I carabinieri avevano una relazione segreta precedente all'autopsia". E' la novità emersa nell'udienza del procedimento bis sui presunti depistaggi. Musarò: "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i militari già lo sapessero?" Scrive l'8 marzo 2019 Maria Elena Vincenzi La Repubblica. Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell'autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. E' la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d'Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell'ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musarò, veniva evidenziato che la lesività delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell'Arma veniva esclusa la possibilità di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell'autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all'avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un'insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?" ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all'autopsia di Stefano Cucchi. "I legali di Cucchi nel 2009 - ha aggiunto - avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c'erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece - ha concluso - si sosteneva che non c'era un nesso di causalità delle ferite con il decesso".  "Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall'inizio delle operazioni" spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. "Per pervenire a delle conclusioni - ha aggiunto - io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perchè c'erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti. Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009". Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento "contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo perché è' poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni".

Stefano Cucchi, il pm: “I carabinieri avevano una relazione segreta sui primi risultati dell’autopsia, scrive Il Fatto Quotidiano l'8 Marzo 2019. Il 30 ottobre 2009 era stata fatta una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia di Cucchi tenuta segreta ma di cui il Comando Provinciale e il Gruppo Roma sapevano”. È quanto dichiarato dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel documento preliminare (effettuato il giorno stesso del decesso del geometra 31enne) si sottolineava che “la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte”. Parole che marcano una differenza netta rispetto a quanto sostenuto sempre nell’autopsia e nella maxi-consulenza, in cui veniva escluso un nesso fra le ferite di Stefano Cucchi e la sua morte. Si tratta infatti di risultati completamente diversi, che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari – che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi – si parlava di due fratture (e non precedenti), oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, “erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell’autopsia” ha evidenziato il pubblico ministero. La relazione di cui parla l’Arma in documenti riservati del 2009, “era talmente segreta da essere negata anche alle parti” ha aggiunto. Il documento in questione era stato firmato dal medico legale Dino Tancredi, l’unico già nominato il 30 ottobre 2009, e vi si sottolineava come servissero ulteriori approfondimenti per definire le cause del decesso. Eppure già in quei giorni l’Arma sottolineò come i medici legali avessero escluso il nesso di causalità tra la morte del giovane e le percosse subite. Musarò ha fornito anche altri dettagli: nella relazione si spiega “che c’erano due fratture non precedenti alla morte e non si faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e che Cucchi era morto per cause da accertare”. Il pm ha sottolineato che però “nei verbali dei Carabinieri già si sosteneva che non c’era nesso di causalità tra le ferite e la morte”. Infine ha ripetuto: “Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?”. Una presa di posizione, quella del pm Musarò, che segue quanto avvenuto il 27 febbraio scorso durante l’audizione in aula come testimone del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri. Tomasone ha detto di non essersi mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra 31enne, circostanza però smentita dal pm Musarò, che in aula gli ha mostrato un atto sua firma nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia, in particolare in merito a due fratture, che neanche la Procura di Roma ancora conosceva.”Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto il pm, con Tomasone che per rispondere ha chiamato in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha chiesto se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. E qui Tomasone ha replicato dicendo “questo non lo so”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia del geometra, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.

Caso Cucchi, nuove prove di depistaggio al processo: "Conclusioni mediche prima di perizia" . Tomasone: "Fu un arresto normale". Durissimo il pm: "Le carte acquisite a novembre 2018 dimostrano che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia". Depone come teste l'allora comandante: "Chiesi relazione sui fatti, sono convinto che non ci siano responsabilità da parte dei carabinieri", scrive Maria Elena Vincenzi il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Si è aperta alla Corte di assise di Roma, con un nuovo e ultimo deposito, l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchiche vede imputati cinque carabinieri nell'ambito del nuovo filone di inchiesta sui falsi e sui depistaggi legati alle condizioni di salute del 32enne geometra arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. Ma soprattutto è la giornata in cui è stato sentito Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. In apertura di udienza il pm Giovanni Musarò prende la parola. "È l'ultimo deposito di attività integrativa di straordinaria importanza. C'è stato depistaggio sia nel 2015 sia per il 2009 che è oggetto del procedimento. Pensiamo di essere riusciti a capire e dimostrare cosa accadde nel 2009, grazie ad acquisizione documentale resa possibile anche grazie alla leale collaborazione che ci è stata offerta dal comando provinciale dei carabinieri. "Due le circostanze - spiega il pm -  la prima attiene alla ricostruzione dei fatti. Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio".

Al ministro Alfano documenti falsificati. "Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Ma a cosa servivano: non servivano per il pubblico ministero, servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti".

Conclusioni mediche prima della perizia. "Secondo aspetto - prosegue Musarò - che attiene agli esami medico legali. Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false.   Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - aggiunge il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".

Anemia e epilessia diventarono anoressia. "Mi sono andato a risentire l'audio di quel processo per direttissima. Stefano Cucchi disse di avere l'anemia e l'epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni sulle condizioni di salute del ragazzo, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte". Lo ha sottolineato il pm Giovanni Musarò nel processo ai cinque carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Il magistrato ha quindi spiegato che il comando provinciale dell'Arma nel gennaio del 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. "Non è vero, perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ha negato che accadde ciò - ha concluso il pm -. L'epilessia di Cucchi era da tempo in fase di rimessione, come hanno detto i medici. Eppure l'epilessia, nella relazione peritale del gip dell'ottobre del 2016, diventò la causa più probabile del decesso. Si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia, ma ormai qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema".

Tomasone: "Fu un arresto normale". Per l'allora comandante dei carabinieri, quello di Cucchi "fu un arresto normale". Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Lo ha riferito davanti alla corte d'assise il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti (2009) comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, sentito come testimone nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Una versione, quella dell'alto ufficiale dell'Arma, caratterizzata da tante ammissione di "non ricordo" e "non ho memoria dei fatti" che hanno suscitato la stizza del pm Giovanni Musarò. Tomasone ha spiegato così il significato della riunione del 30 ottobre del 2009, che il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, ha definito in udienza 'come quella degli alcolisti anonimi': "A tutti coloro che erano stati presenti nella vicenda dell'arresto di Cucchi - ha detto il generale - avevo chiesto di venire da me al Comando provinciale e, oltre a portare una relazione scritta, di dire quello che avevano fatto. All'esito di questi ulteriori accertamenti, ne deducevo il convincimento che non vi potevano essere responsabilità. Il motivo di fare venire i militari non era solo quello di cogliere il 'focus' del loro racconto ma anche, attraverso l'espressione del loro viso, capire se qualcuno stesse correggendo altri nella ricostruzione dei fatti. Sentire i militari singolarmente si sarebbe prestato a una interpretazione diversa. Mi sembrava cosa più logica guardarli negli occhi tutti assieme"...

·         Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.

Caso Cucchi, i pm: ''Angelino Alfano indotto inconsapevolmente a dichiarare il falso su atti falsi'', scrive Giovanni Bianconi su Corriere della Sera, 1 marzo 2019. Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: "Qui di prassi non c'è nulla". Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel "caso Cucchi", il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d'interrogatorio degli ufficiali dell'Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d'allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell'inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell'informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all'epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: "Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l'ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo". Il procuratore commenta: "Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti". "Non è una risposta" - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell'autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: "Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...", e Pignatone lo avverte: "Questa non è una risposta. Mi scusi...". Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché "non è la prassi", e il procuratore sbotta: "Ma qua non c'è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c'è assolutamente nulla nella prassi, quindi...". Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l'ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: "Non ho capito la domanda". Il procuratore interviene: "E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l'ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c'era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità". "Cerchiamo la verità" - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: "Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false". Pignatone: "Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto "carte alla mano" queste benedette relazioni?". Sabatino: "Questo, procuratore, non lo so". Il magistrato prova a insistere: "Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?". Sabatino: "Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un'accusa che riguardava altro...". Pignatone: "Vabbè, andiamo avanti". Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver "messo mano" a quei documenti "su indicazione del colonnello Casarsa", il procuratore ricorda: "Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev'essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo". Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni "minimizzanti" sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. "Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...", prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: "Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette".

In aula ascoltato l’ex Comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone, scrive AntiMafiaDuemila il 28 Febbraio 2019. Nuovi inquietanti particolari sono venuti a galla dal processo bis sulla morte del trentenne Stefano Cucchi. Il pm Giovanni Musarò, ieri, durante l’apertura d’udienza, ha pronunciato parole al vetriolo: “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Il magistrato ha puntato il dito contro i continui depistaggi, posti in essere sulla morte di Stefano Cucchi dai vertici dell'Arma dei carabinieri, che via via sarebbero arrivati fino alle scrivanie del governo dell’epoca. In particolare a cadere nella trappola della manipolazione delle carte dell’Arma, sulla morte dell’ingegnere romano, sarebbe stato il ministro degli Interni di allora, Angelino Alfano. Questi “era stato inconsapevolmente indotto da atti falsi a riferire il falso” quando venne chiamato a rispondere davanti al Senato il 3 novembre 2009 su delle informative rinvenutegli dall’Arma. L'attività di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi ebbe inizio il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell'agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto, come invece vide il padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. - ha detto Musarò in aula- Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio”. Ed è da questa agenzia che si sarebbe mosso il meccanismo di depistaggio dei Carabinieri dal quale, grazie alle attività di indagine, sarebbero emerse due circostanze. La prima: “Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Che servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti”. Mentre il secondo scenario riguarda le conclusioni mediche eseguite prima della perizia: “Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - ha affermato il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".

L’udienza di ieri ha visto come teste il Generale dei Carabinieri Vittorio Tomasone, al quale dipendevano tutti i militari che ebbero a che fare con il giallo di Stefano Cucchi (inclusi i 5 imputati al processo bis), poichè all’epoca dei fatti era Comandante provinciale di Roma. La testimonianza dell’ex comandante è stata ricca di amnesie dipinte da vari “non ricordo” e "non ho memoria dei fatti" che hanno scaturito la stizza del pm Giovanni Musarò. Secondo Tomasone “quello di Cucchi era stato un arresto normale, come tanti” e alla questione se si fosse mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra il generale ha risposto negativamente. Negazione smentita però dal pm Giovanni Musarò che in aula gli ha mostrato un atto a firma proprio del generale nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia del giovane, in particolare in merito a due fratture, di cui neanche la procura capitolina era a conoscenza. “Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto quindi il pm. Alla domanda del pm, Tomasone ha risposto chiamando in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha domandato se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. Domanda alla quale il generale ha risposto brevemente: “questo non lo so”. Il pm ha riportato allora un’annotazione dalla quale emergeva che il 23 novembre 2009 fu disposta l’autopsia di Stefano, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicò la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando Generale, scriveva dei risultati parziali dell’autopsia che ancora non era stata fatta”, perché “non erano nemmeno stati nominati i periti”. A questo il generale si è difeso asserendo di “non avere memoria sul modo con il quale è stata assunta l’informazione”. Casarsa, ascoltato dai pubblici ministeri lo scorso 28 gennaio, aveva detto a riguardo: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. In quel documento Casarsa ha affermato, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia “sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”. Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa ha detto di non essere in grado di affermare da chi ebbe “le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza”. Nella lista degli indagati è stato iscritto anche il colonnello Lorenzo Sabatino insieme a Casarsa, gli ufficiali si sono difesi sostenendo di “non essere a conoscenza” del contenuto delle note, che sarebbero emerse come modificate. “Da persona innocente mi sono trovato in una rete senza uscita ordita nei nostri confronti. Eravamo tre pecore mandate al patibolo”, ha detto l’agente della polizia penitenziaria Nicola Minichini, processato con altri due colleghi e assolti in via definitiva. La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo.

Cucchi, il ministro Alfano mentì perché ingannato dai carabinieri. Lo ha detto il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri, scrive Valentina Stella il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Lo ha detto ieri il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri. Seconda l’accusa l’attività di depistaggio sulla morte del giovane geometra sarebbe iniziata il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell’agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono che Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti invece poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “A partire dal 26 ottobre del 2009 – ha precisato il pm – iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera il 3 novembre”. Di conseguenza “il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Inoltre, il ministro Alfano disse, sulla base di quelle informative pervenutegli dalla Difesa seguendo la scala gerarchica dell’Arma, “che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato dai carabinieri. Da qui – ha sottolineato il pm – cominciò una difesa a spada tratta dell’Arma che si tradusse in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo”. A tal proposito è Nicola Minichini, uno dei tre agenti della penitenziaria accusati inizialmente del pestaggio di Cucchi, assolti nei tre gradi di giudizio e poi ora parti offese nel processo- bis in corte d’assise a sfogarsi: “Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Io non riesco ancora a capire come sia stato possibile”. E di questa rete di depistaggio farebbero parte anche le falsificazioni degli esami medico legali: secondo il pm, nelle note dell’Arma, l’anemia e l’epilessia dichiarate dal povero geometra diventarono anoressia. Inoltre “due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all’Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Tutto ciò – aggiunge il magistrato era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati”. Tutto in regola invece per il generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri per cui, come riferito ieri in qualità di testimone, quello di Cucchi “fu un arresto normale”. La sua versione dei fatti è stata caratterizzata da tante ammissione di “non ricordo” e “non ho memoria dei fatti” che hanno suscitato l’irritazione del pm Giovanni Musarò.

Caso Cucchi, il pm: “Alfano disse il falso in Aula ingannato dagli atti fasulli prodotti dai carabinieri”. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm oggi nel processo per la morte del geometra romano. Durante l'udienza ha testimoniato in generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane, scrive Il Fatto Quotidiano il 27 Febbraio 2019. L’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “dichiarò il falso” di fronte al Parlamento sul caso Cucchi, sulla base di una “serie di annotazioni falsificate” da parte dei carabinieri. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Durante l’udienza odierna, ha testimoniato il generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane geometra romano, morto all’ospedale Pertini di Roma dove si trovava ricoverato dopo il fermo dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Secondo l’accusa, che indaga anche sul successivo presunto depistaggio portato avanti dai militari dell’Arma, nelle carte ci sono le prove dei “falsi e delle omissioni” dell’allora Comando provinciale dei carabinieri di Roma che hanno tratto in inganno anche l’ex ministro della Giustizia. Il 3 novembre 2009, al Senato, Alfano (sopra la foto di quel giorno, ndr) durante la sua informativa accusò implicitamente gli uomini della polizia penitenziaria, ha detto il pm spiegando come il “depistaggio” sarebbe partito subito dopo un dispaccio d’agenzia del 26 ottobre 2009 in cui il parlamentare Luigi Manconi “denunciava che i genitori del ragazzo lo avevano visto dopo l’arresto senza segni in viso mentre il giorno dopo era tumefatto”. Da quel momento, ha detto Musarò, “da parte dei carabinieri partono una serie di annotazioni falsificate” e Alfano “sulla base di atti falsi”, dichiarò “il falso in Aula, lanciando accuse alla polizia penitenziaria, quando ancora in procura non c’era nulla contro la penitenziaria”. Fino a quel giorno – ha ricordato il pm Musarò – il fascicolo dei pm Barba e Loy sulla morte di Cucchi “era a carico di ignoti e solo dopo le parole di Alfano partirà l’indagine sui poliziotti”. Per quello che il pm ha definito “un gioco del destino”, il 3 novembre 2009, “quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi”. Quella dichiarazione – ha detto il pm – “è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva”. Nel caso Cucchi, ha concluso Musarò, “si è giocata una partita truccata, con carte segnate”. Una partita “giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”.  Durante il suo interrogatorio, il generale Tomasone ha spiegato, relativamente alla riunione convocata con molti dei carabinieri ora indagati per il depistaggio: “Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.

·         Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.

Caso Cucchi a Roma, a processo Casarsa e altri sette carabinieri per depistaggio. Ilaria: "Momento storico". Prima udienza il 12 novembre, si apre così un quarto processo per il decesso del geometra romano.  L'allora comandante dei carabinieri della capitale aveva dichiarato di aver avuto informazioni solo dal suo superiore dell'epoca, Vittorio Tomasone. La sorella: "Tutto iniziato grazie a Casamassima". La Repubblica 16 luglio 2019. Sono stati rinviati a  processo  otto militari dell'Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell'ambito dell'inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che - secondo le accuse - avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre. Tra militari coinvolti, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'inchiesta coinvolge anche Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Cianni.

I capi di imputazione. Scrive il pm: "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano secondo cui Cucchi lamentava dolori al costato e che non poteva camminare, ndr) fosse modificato nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo Musarò, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che 'Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidita' della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Gli indagati rispondono di falso anche in merito alla annotazione di servizio, sempre del 26 ottobre del 2009 redatta dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio (non indagato), "indotto a sottoscrivere il giorno dopo una nota in cui falsamente attribuiva allo stesso Cucchi 'uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza', omettendo ogni riferimento ai dolori al capo e ai tremori manifestati dall'arrestato". Il tutto "con l'aggravante di volere procurare l'impunità dei carabinieri della stazione appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso". Sabatino e Testarmata, che erano stati delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell'ambito dell'indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsita' di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la cosa all'autorita' giudiziaria, favorendo così gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, una volta scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell'epoca con il nome di Cucchi "sbianchettato", non solo non acquisi' il documento originale, come gli era stato ripetutamente detto da due colleghi, ma neppure riporto' la circostanza nella relazione di servizio. Tra gli otto militari dell'Arma rinviati a giudizio figura De Cianni che in una nota di pg accuso' Casamassima, pur sapendolo innocente, di aver fatto dichiarazioni gradite alla famiglia Cucchi dietro la promessa di soldi da parte di Ilaria, sorella di Stefano. Casamassima, che per aver collaborato con la magistratura e aver dato un impulso significativo alle nuove indagini ha subito pressioni e ritorsioni, compreso un trasferimento ad altro incarico e relativo demansionamento, gli avrebbe riferito che Cucchi la sera dell'arresto tento' gesti di autolesionismo e che fu solo schiaffeggiato, non certo pestato. Dichiarazioni false che De Cianni ha confermato anche in un interrogatorio fatto alla squadra mobile.

Ilaria Cucchi: "Momento storico grazie a Casamassima". "Possiamo dire che la decisione del gup rappresenta un momento storico e significativo per noi. Tutto è cominciato per merito di Riccardo Casamassima (il carabiniere supertestimone che ha fatto riaprire l'inchiesta, ndr)".  E' il primo commento, a caldo, di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma per la vicenda legata ai depistaggi. "Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati - ha aggiunto Ilaria - non immaginavamo neanche quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Oggi poi abbiamo assistito a uno scaricabarile con il generale Casarsa che ha raccontato che le cause della morte di Stefano gli furono dettate dal generale Tomasone".

Casarsa si difende: "Uniche informazioni mediche dal mio superiore". "Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali. Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti". Si era difeso così, nel corso di una dichiarazione spontanea resa di fronte al Gup, Alessandro Casarsa. Il generale aveva chiamato in causa il suo diretto superiore, il generale Vittorio Tomasone (ex comandante provinciale di Roma e da gennaio 2018 comandante interregionale Ogaden), pur senza mai nominarlo direttamente. Casarsa era il comandante del Gruppo Roma, quando Stefano Cucchi venne arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti, picchiato in caserma e poi deceduto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo.

Tomasone: "Quello di Cucchi fu arresto normale". Fino a oggi Tomasone era entrato nella vicenda Cucchi solo in relazione alla sua deposizione avvenuta il 27 febbraio scorso, nella veste di testimone, nel processo in corso davanti alla corte d'assise dove figurano imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati dal pm Giovanni Musarò di omicidio preterintenzionale. "Per me quello di Cucchi era stato un arresto normale - aveva detto quel giorno in udienza Tomasone -. Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del Gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto fino alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Per l'attuale comandante interregionale Ogaden, "tutto portava ad escludere qualsiasi coinvolgimento dei carabinieri in questa storia". Rispondendo al pm, poi, Tomasone aveva escluso con forza di essersi mai interessato delle questioni medico-legali legate alle cause della morte di Cucchi. E a proposito di un atto interno all'Arma del primo novembre 2009, esibito in udienza dal magistrato, proprio a firma del generale, in cui venivano presi per buoni gli esiti (parziali) dell'autopsia, che la procura all'epoca non poteva conoscere anche perchè doveva essere integrato il pool dei suoi consulenti tecnici, il generale Tomasone aveva fornito questa spiegazione: "Confermo di non essermi mai interessato degli accertamenti medico legali così come escludo di aver mai parlato con i consulenti. Posso immaginare di aver raccolto queste informazioni sulla base di quanto giratomi dal comandante del gruppo Roma, ma non so se lui abbia interloquito con i medici".

Cucchi, l'inchiesta si allarga: indagato anche un colonnello. Avviso per favoreggiamento a Sabatino, all’epoca capo del nucleo operativo di Roma, scrive Carlo Bonini il 15 febbraio 2019 su La Repubblica. Prigionieri del vincolo di omertà con cui l’Arma dei carabinieri ha sequestrato per nove anni la verità sull’omicidio di Stefano Cucchi, cadono uno dopo l’altro. E tutti insieme. Ufficiali, sottufficiali, truppa. In una sequenza in cui i “morti” (marescialli e appuntati), abbandonati al loro destino giudiziario, si afferrano ai vivi (capitani, maggiori, colonnelli, generali), trascinandoli a fondo. E tocca ora, dunque, al colonnello Lorenzo Sabatino, ambiziosissimo ufficiale cresciuto all’ombra dell’ex Comandante generale Leonardo Gallitelli e oggi comandante provinciale dei carabinieri a Messina. Il pm Giovanni Musarò lo ha interrogato come indagato mercoledì pomeriggio, contestandogli il reato di favoreggiamento per l’attività di occultamento e manipolazione delle prove condotta nel novembre 2015 dal Reparto Operativo dell’Arma di Roma, di cui era allora comandante, che avrebbe dovuto far deragliare anche l’inchiesta bis dalla Procura sull’omicidio (quella per cui si sta celebrando il processo ai tre carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano). Al colonnello Sabatino, che in quel novembre del 2015 aveva ricevuto l’incarico di raccogliere e trasmettere alla Procura tutti gli atti interni all’Arma su Cucchi, il pm Musarò contesta infatti di non aver segnalato come in questo scartafaccio di carte che trasmise al suo ufficio fossero state “manomesse” due delle evidenze chiave in grado di ricostruire cosa fosse accaduto la notte del 16 ottobre 2009, quella dell’arresto e del pestaggio di Stefano. Si trattava delle relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, due piantoni di guardia nella caserma di Tor Sapienza, quella dove Stefano trascorse la notte dell’arresto. A entrambi – come l’indagine della Procura ha recentemente documentato – venne imposto dalla catena gerarchica dell’Arma di correggere quanto avevano inizialmente annotato per iscritto nelle loro relazioni in modo tale che scomparisse ogni riferimento alle tracce, già in quella notte dell’ottobre 2009 evidenti, del pestaggio appena subito da Stefano dai carabinieri che lo avevano arrestato. E vennero dunque confezionati due falsi. Due nuove “annotazioni di servizio” che di quelle originali avevano la medesima veste grafica e lunghezza, riportavano la stessa data, ma erano appunto purgate nei contenuti. Ebbene, Sabatino, sulla carta un fine investigatore, almeno se si sta al suo curriculum (Comando del Nucleo Investigativo e del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma, Comando di una delle sezioni del Ros, reparto di eccellenza dell’Arma, e quindi il comando a Messina), non notò quella discrepanza. Piuttosto, affastellò originali e falsi di quelle annotazioni in un unico malloppo di carte dove solo l’ostinazione del pm Musarò riuscì a scovarli, a notarne la “diversità”, e dunque a farli “parlare”. Né le omissioni dell’indagine di Sabatino si fermarono qui. A quella che, al momento, è per altro la sola contestazione formale che gli è mossa da Musarò. Per ordine dello stesso colonnello Sabatino, infatti, il capitano Testarmata (all’epoca in forza al Nucleo Investigativo e anche lui indagato per favoreggiamento), tra le carte da consegnare alla Procura, non acquisì in originale il registro “sbianchettato” del fotosegnalamento di Stefano la notte dell’arresto nella caserma Casilina (fu prodotta soltanto una fotocopia da cui il bianchetto non appariva). Né tantomeno raccolse lo scambio di mail con cui erano documentate le pressioni e le indicazioni dell’allora comandante del Gruppo Carabinieri (il colonnello Alessandro Casarsa) perché appunto le relazioni dei due piantoni della caserma di Torsapienza fossero manipolate. Il colonnello Sabatino, per quanto è stato possibile ricostruire, si è difeso durante l’interrogatorio scegliendo di indossare i panni dello sprovveduto. Ha provato infatti a scaricare la responsabilità della mancata segnalazione alla Procura delle “doppie annotazioni” prima sul povero capitano Testarmata, quindi sull’allora comandante del Nucleo Investigativo. A quanto pare senza riscuotere grande successo.

Cucchi, il registro "sbianchettato" che nessuno pensò di guardare in controluce. Processo bis. La testimonianza del maggiore Grimaldi: «L’originale non venne sequestrato, solo fotocopiato», scrive Eleonora Martini su Il Manifesto il 15.02.2019. La conferma che il nome di Stefano Cucchi venne «sbianchettato», e sostituito con un altro, dal registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, arriva dal processo bis che si celebra davanti alla I Corte d’Assise, a Roma, diventato ormai uno spaccato sul modus operandi dell’Arma dei carabinieri grazie all’attività investigativa sui tentativi di insabbiamento e depistaggio coordinata dal pm Giovanni Musarò. La riprova è arrivata dal maggiore Pantaleone Grimaldi, che di quella caserma fu comandante dal 2014 al 2016, nell’udienza di ieri, nella quale hanno testimoniato anche alcuni frequentatori della palestra dove Cucchi si allenava «regolarmente, con costanza, passione e grande intensità» malgrado fosse «magro e di bassa statura», e un agente di polizia penitenziaria che vide Stefano in una cella del tribunale, in attesa di comparire davanti al Gip, «con il volto tumefatto ed evidenti segni marrone scuro attorno agli occhi». Grimaldi ha ricordato di essere stato contattato nel novembre 2015 dall’allora Comandante del Nucleo operativo, colonnello Lorenzo Sabatino, che lo avvisava dell’imminente visita del capitano Tiziano Testarmata (ora indagato per favoreggiamento) volta ad acquisire i documenti contenuti nel fascicolo Cucchi, chiuso a chiave in un armadio della caserma. Fu Testarmata ad accorgersi dello sbianchettamento di tutti i campi relativi ad un fotosegnalamento avvenuto nello stesso giorno in cui venne arrestato Cucchi. «Questo modo di correggere un eventuale errore è vietato e comporta un procedimento disciplinare – riferisce Grimaldi – per questo suggerii a Testarmata di sequestrare il registro e acquisirne l’originale, invece delle fotocopie. Ma lui si allontanò per consultarsi con qualcuno e poi non accolse il mio invito». Davanti agli inquirenti che lo interrogarono, Grimaldi aveva riferito di essersi arrabbiato con Testarmata, ma ieri ha rettificato: «Mi fidavo completamente di lui, credevo lo avrebbe fatto in un secondo momento». Ma il pm Musarò, che è riuscito ad acquisire il documento originale senza aver mai ottenuto il nome di chi fece materialmente il fotosegnalamento di Cucchi e neppure dell’uomo arrestato il cui nome (straniero) è sovrapposto a quello di Stefano, lo incalza: «Quando in procura abbiamo visto quel foglio, abbiamo fatto la prima cosa che tutti farebbero: guardare in controluce attraverso lo sbianchettamento. Cosa che non si poteva fare con la fotocopia. Ed è apparso subito, evidente, il nome di Stefano Cucchi. Lei, o il capitano Testarmata, non avete pensato a fare subito questa verifica?». «No», è la risposta del maggiore Grimaldi. Elementare, Watson!

Caso Cucchi, un generale indagato per aver manipolato alcune relazioni. Si tratterebbe di note redatte da alcuni carabinieri sulle condizioni di salute del giovane morto dieci anni fa, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Anche un generale finisce nel mirino degli inquirenti nel caso Cucchi. Alessandro Casarsa, capo dei corazzieri al Quirinale fino a un mese fa, risulta indagato per falso in atto pubblico. Si tratterebbe di manipolazioni di relazioni di servizio sulle condizioni di salute del giovane romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Secondo il racconto del "Corriere della Sera" Casarsa, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, ha sostenuto di essere estraneo a qualsiasi manovra per ostacolare le indagini sulla verità, sia durante gli eventi sia dopo. Il generale è stato chiamato a rispondere sulle annotazioni riguardanti le condizioni di salute di Cucchi preparata dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. Tali relazioni erano state modificate, secondo il racconto del comandante Massimiliano Colombo Labriola, dopo l'intervento del maggiore Luciano Soligo che le aveva giudicate "troppo particolareggiate" e con particolari "medico-legali che non competevano ai carabinieri". La telefonata e le modifiche via mail - A Colicchio e Di Sano, dopo la morte di Cucchi, fu chiesto di raccontare quello che era accaduto la notte dell'arresto. Secondo quanto riferisce Colombo Labriola, già inquisito per questo episodio, il maggiore, al telefono con un superiore che chiamava "signor colonnello", inviò via posta elettronica le annotazioni al tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo dell'ufficio comando del Gruppo Roma, che le rimandò indietro dopo averle modificate con la postilla "meglio così". Non c'erano più i riferimenti a "forti dolori al capo e giramenti di testa", ai tremori e dolori al costato di cui Cucchi si lamentava. Di Sano firmò la relazioni dopo le modifiche, Colicchio no. Davanti ai pm, Cavallo avrebbe dichiarato di non ricordare quelle modifiche, aggiungendo che in ogni caso tutto era stato concordato con il comando del Gruppo Roma, legato a doppio filo con i comandanti di compagnia, senza quindi dover passare da lui. E avrebbe anche detto che del caso, visto il suo clamore, si era occupato anche il suo diretto superiore, Casarsa appunto. Ma il generale nega tutto - In seguito a tali elementi nel registro degli indagati è comparso anche il nome del generale. Da parte sua però l'alto ufficiale, oltre a negare ogni addebito, avrebbe detto di aver invitato tutti i carabinieri che avevano gestito il caso Cucchi a presentare ricostruzioni precise e dettagliate.

Un nuovo indagato per il caso Cucchi: è il generale Casarsa. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale, scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. C’è un generale tra gli indagati del caso Cucchi. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a qualche settimana fa comandante dei Corazzieri. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musaró, che coordinano l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano per cui sono già a processo 5 carabinieri, accusano l’alto ufficiale di falso. E l’indagine fa un salto di passo, scalando piano piano, la gerarchia dell’Arma romana dell’epoca. La vicenda è quella delle annotazioni di servizio modificate dalle quali vennero fatti sparire una serie di dettagli rispetto alle condizioni di salute di Stefano la notte del suo arresto. Una storia per la quale nei mesi scorsi erano già finiti iscritti i diretti sottoposti di Casarsa, il comandante della compagnia Montesacro e il suo vice. Casarsa nei giorni scorsi è stato interrogato e ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle modifiche delle annotazioni, ma i pm hanno il sospetto che a coordinare l’operazione sia stato lui.

Caso Cucchi, carabiniere in aula: "Nota di servizio cambiata su dettatura di Mandolini". Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo che scrisse i verbali con l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto, scrive l'8 febbraio 2019 La Repubblica. Ancora il tema delle annotazioni di servizio 'sostituite' è stato al centro dell'udienza di oggi del processo che vede cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo dei carabinieri Davide Antonio Speranza, firmatario di due annotazioni di servizioche contengono l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto. Già un problema si ha nell'indicazione del giorno della redazione: la prima annotazione datata 16 ottobre 2009, in realtà fu "redatta dopo la morte di Cucchi, mentre la datai qualche giorno prima perché pensai si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio"; la seconda datata 27 ottobre 2009 "dettata dal maresciallo Mandolini", uno degli imputati di calunnia e falso. Una circostanza, quella dell'annotazione sotto dettatura, già raccontata da Speranza ai pm che lo sentirono come persona informata sui fatti il 18 dicembre scorso. "Quando Mandolini lesse la nota disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla - ha detto Speranza - perché avremmo dovuto redigere una seconda annotazione in sostituzione. Io quella nota non la feci sparire, anche perché già protocollata. Il contenuto fu dettato da Mandolini, alla presenza di Nicolardi (altro imputato di calunnia. Ndr)". Importante il contenuto delle due annotazioni, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di Cucchi quella notte. Nella prima annotazione, infatti, si legge che "alle 5.25 la nostra Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla caserma della Stazione di Tor Sapienza in quando il sig. Cucchi era in stato di escandescenza"; nella seconda si legge che "è doveroso rappresentare che durante l'accompagnamento, il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito". Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al Pm Barba (rappresentante dell'accusa nel primo processo) né in Corte d'assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu "perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su". Prima del maresciallo Speranza c'è stata la conclusione dell'esame del dirigente della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, il quale ha continuato a parlare del contenuto di una serie di intercettazioni effettuate per la nuova inchiesta sui depistaggi che ci sarebbero stati - secondo l'impostazione accusatoria - nella compilazione degli atti. Nel corso dell'udienza Carlo Masciocchi, professore ordinario di radiologia dell'Università dell'Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica ha ribadito che sul corpo di Stefano Cucchi "sicuramente c'erano due fratture vertebrali" a livello lombo-sacrale, entrambe "recenti" e "contemporanee". Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell'avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell'odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant'è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò.

Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite». Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni», scrive Eleonora Martini l'8 febbraio 2019 su Il Manifesto. Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».

Morte Cucchi, il generale Nistri: "Verificheremo frasi su spirito di corpo". E il legale della famiglia: "Manomesse le radiografie". Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L'avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia, scrive Giuseppe Scarpa il 22 gennaio 2019 su "la Repubblica". "Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall'autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come 'spirito di corpo'. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare". Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d'armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: "Non ho mai parlato di mele marce ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato". Intanto l'appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: "Non ho nulla da dire". Le novità dell'indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell'Arma in merito alla vicenda Cucchi. "Bisogna avere spirito di corpo, se c'è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare" avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l'arresto. L'autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il fotosegnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell'intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l'autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c'è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state "manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi". In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L'analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni.

Cucchi, il carabiniere: “Il maresciallo Mandolini mi dettò la nota di servizio dicendo che la mia non andava bene”. C'è anche la storia dei documenti che sarebbero modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento sbianchettato: i militari se ne accorsero già nel 2015. La notte in cui il geometra passò alla caserma Casilina - dove per l'accusa fu pestato - in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 21 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Due annotazioni di servizio: in una c’era scritto che “Stefano Cucchi era in stato di escandescenza”. Nell’altra, che “durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. La prima per il maresciallo Roberto Mandolini “non andava bene”: chiese di scrivere la seconda. Anzi: ne dettò il contenuto al maresciallo Davide Antonio Speranza. C’è anche la storia dei documenti modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento cancellato col bianchetto: già nel 2015 i militari si accorsero che qualcosa in quel documento non andava. La notte in cui Cucchi passò alla caserma Casilina – dove per l’accusa è stato pestato – in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic. Un’anomalia evidente ma nessuno fece nulla. Adesso, però, quei documenti e i verbali dei testimoni sono stati depositati dal pm Giovanni Musarò agli atti del procedimento a cinque carabinieri: sono Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale, e poi Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, che rispondono di calunnia e falso.

La prima annotazione: “Cucchi in escandescenza” – Parallelamente al processo, la procura continua a indagare sui depistaggi che vennero messi in atto per coprire le prove sul pestaggio di Cucchi. La storia della doppia nota di servizio s’inquadra in questo scenario. A raccontarla è il maresciallo Antonio Speranza, che nel 2009 lavorava alla stazione del carabinieri del Quadraro. “Fui contattato telefonicamente dal maresciallo Mandolini, il quale fece riferimento alla morte di Stefano Cucchi (disse: “Hai sentito il telegiornale?”) e mi comunicò che avrei dovuto redigere un’annotazione. Allora io redassi l’annotazione che mi esibite, nella quale scrissi che Cucchi era in stato di escandescenza perché interpretai in tal modo quanto mi aveva riferito Vincenzo Nicolardi, il quale la notte del 16.10.2009 (cioè quando venne arrestato Cucchi ndr) era in contatto con la Centrale Operativa”, ha detto il militare, sentito dal pm il 18 dicembre scorso come persona informata. 

La seconda annotazione: “Dettata Mandolini” – Solo che quella ricostruzione dei fatti venne bocciata: “Mandolini – continua Speranza – quando lesse la nota di servizio disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. Il contenuto di tale annotazione fu dettato da Mandolini e lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi, quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Dieci anni dopo la morte di Cucchi il militare ammette l’errore: “Ripensandoci a posteriori all’epoca peccai di ingenuità, perché mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e avevano più esperienza di me”. La scritta “Bravi”. “Non so perché. Cucchi era morto” – Tra gli atti depositati dalla procura c’è il verbale dell’intervento alla stazione Appia dei militari per trasferire Cucchi a Tor Sapienza: in fondo, nello spazio riservato alle note dei superiori, compare la scritta a mano Bravi! Il maresciallo Sapienza nella sua deposizione ha commentato: “Non so dirvi per quale ragione, nella parte dell’ordine di servizio dedicata alle annotazioni dei superiori è scritto ‘Bravi‘, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine e che nel momento in cui l’ordine di servizio fu redatto Cucchi era già morto”.

Il registro: “Era una prova. Presero solo una copia” – Ma non solo. Perché i pm hanno ricostruito anche come già nel 2015 gli stessi carabinieri si fossero accorti di un’anomalia nel registro del fotosegnalamento della Casilina. Per il carabiniere Tedesco, infatti, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati D’Alessandro e Di Bernardo pestarono Cucchi. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, già tre anni fa la procura aveva inviato il capitano Tiziano Testarmata a prendere quel registro: si tratta di un ufficiale del nucleo investigativo, dunque esperto d’indagini. E infatti si accorge di quelle grossolane discrepanze in quel documento ufficiale. Ad attenderlo c’era il comandante Pantaleone Grimaldi, che all’epoca guidava la caserma. “Mi fece presente che c’era qualcosa che non quadrava nel registro. Mi fece vedere che un nominativo era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Visionandolo, mi resi conto immediatamente dell’anomalia, era evidente che era stato cancellato il passaggio di qualcuno dal foto-segnalamento, fu per questo che invitai il capitano Testarmata a portare con sé il registro in originale e, a quel punto, anche tutta la documentazione, perché era palese quel registro dovesse essere analizzato con maggiore attenzione”, ha raccontato ai pm il militare il 21 novembre scorso, spiegando di avere insistito col collega. “Lo invitai ripetutamente a portare con sé l’originale. Fra l’altro, nell’occasione evidenziai al Testarmata, per convincerlo, che non poteva essere casuale il fatto che quella anomalia riguardava proprio il giorno che interessava a loro, cioè il giorno in cui Stefano Cucchi poteva essere stato foto-segnalato”. Si accorse dell’anomalia anche il capitano Carmelo Beringhelli che aiutò i colleghi del nucleo operativo nell’esame dei documenti: “Il capitano Testarmata, oltre ad essere un mio superiore, era certamente più esperto di me. Nonostante ciò, mi permisi di dirgli che quel registro doveva essere sequestrato perché mi sembrava chiaro che poteva essere la prova di quello che stavano cercando, cioè il passaggio di Cucchi dai locali della compagnia Casilina per il fotosegnalamento”.

Il fotosegnalamento rimase nascosto – Testarmata, però, era titubante. “Ascoltando le mie obiezioni, il capitano si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale, cosa che a me non fece piacere perché compresi che non stava facendo un accertamento corretto”. Ovviamente dalle copie non si può notare l’anomalia che compare sotto al nome di Zoran Misic: in controluce è evidente il bianchetto usato per coprire un altro nome. Ma perché Grimaldi non fece cenno di quel particolare nella lettera di trasmissione degli atti? “Davo per scontato che Testarmata ne avrebbe comunque dato atto in un’annotazione in cui avrebbe dato conto dell’attività compiuta. Pensandoci ora, a posteriori, mi rendo conto di aver ragionato in modo notarile, ma visto che c’era un capitano del Nucleo Investigativo che era stato delegato a compiere accertamenti anche su quel registro io diedi per scontato che tutte le criticità che erano state rilevate le avrebbe attestate lui in un atto a sua firma”. Così non è stato. Perché nel caso Cucchi c’è sempre qualcuno che agisce con ingenuità, in modo notarile, senza riflettere. E pensandoci bene solo anni e anni dopo. Andò così anche per il fotosegnalamento di Cucchi: è rimasto nascosto per anni. Insieme al suo passaggio nella stanza in cui, con tutta probabilità, venne pestato. Morì sei giorni dopo che un bianchetto eliminò ogni traccia del suo nome.

Stefano Cucchi, il carabiniere al collega testimone: “Ha detto il comandante che dobbiamo aiutare i colleghi in difficoltà”, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Gennaio 2019. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”. Questo avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica tra i due carabinieri è stata intercettata il 6 novembre scorso e la trascrizione è contenuta in una nota della squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo Cucchi. Nell’intercettazione presente nella nota della Squadra mobile di Roma si fa riferimento a due telefonate intercorse il 6 novembre tra il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, entrambi in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli. Grimaldi, nel 2009 in servizio presso la stazione Casilina, verrà sentito come testimone dal pm il 21 novembre. Nell’intercettazione Iorio riferisce al collega quanto dettogli dal colonnello Pascale: “Mi raccomando dite al Maresciallo che ha fatto servizio alla Stazione – afferma nella intercettazione Iorio riportando al maresciallo Grimaldi le parole del colonnello- lì dove è successo il fatto di Cucchi…di stare calmo e tranquillo…mi stanno rompendo, loro e Cucchi“. E ancora Iorio riferisce al collega le parole del comandante: “Mi raccomando deve avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”.

«Sul caso Cucchi ha fatto il suo dovere e ora la sta pagando». Parla la legale del carabiniere Riccardo Casamassima, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Sono un avvocato penalista. E sono orgoglioso di esserlo. Ho sempre svolto la professione forense senza mai chinare il capo, consapevole che davanti alla legge siamo tutti uguali». L’avvocato romano Serena Gasperini assiste l’appuntato Riccardo Casamassima nella sua personale “battaglia” contro il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. Casamassima è il teste chiave del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma. La sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta che, inizialmente, aveva visto sul banco degli imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che visitarono Cucchi dopo il suo arresto e gli agenti della polizia penitenziaria che lo tennero in custodia nelle celle del Tribunale di Roma il giorno del processo. Lo scorso maggio, a nove anni dai fatti, Casamassima ha raccontato davanti al pm Giovanni Musarò che Cucchi fu oggetto di un violento pestaggio all’interno della stazione carabinieri di Roma Casilina. E ha raccontato anche il successivo tentativo da parte dei colleghi di scaricare la responsabilità di quanto accaduto sugli agenti della polizia penitenziaria. Dopo le dichiarazioni di Casamassima la posizione dei cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e falso si è aggravata, coinvolgendo nell’inchiesta alcuni dei massimi vertici dell’Arma in servizio all’epoca a Roma. Per quest’ultimi l’accusa è di aver coperto i militari che avevano arrestato Cucchi, intralciando le indagini della magistratura. Depistaggi tutt’ora in corso, come emergerebbe da una telefonata intercettata il 6 novembre fra due carabinieri in servizio a Napoli, uno dei quali chiamato il mese successivo a deporre come teste. «Ci vuole spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare», gli avrebbe fatto sapere un suo superiore.

Avvocato, come mai la decisione di Casamassima di denunciare il comandante Nistri? Ricorda Davide contro Golia.

«Lo scorso 17 ottobre 2018, il ministro della difesa Elisabetta Trenta aveva incontrato il generale Nistri, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che l’assiste nel processo, al fine di confrontarsi su quanto era emerso fino a quel momento nel dibattimento. Al termine dell’incontro, Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo parlando con i giornalisti hanno riferito di uno “sproloquio” di Nistri nei confronti di Casamassima. Invece di concentrarsi su quanto era accaduto a Stefano Cucchi, il generale avrebbe detto che Casamassima era un delinquente, un bugiardo, uno spacciatore. Inoltre il generale aveva informato i presenti all’incontro che il mio assistito era anche indagato per reato di spaccio di stupefacenti, pur essendo all’epoca la notizia coperta dal segreto».

Crede che il generale Nistri volesse screditare Casamassima agli occhi del ministro Trenta?

«Mi pare evidente che le dichiarazioni di Nistri siano state alquanto scomposte».

Cosa avrebbe dovuto fare il generale?

«Se proprio non voleva chiedere scusa, forse doveva dirsi dispiaciuto per quanto accaduto. Invece è finito nel mirino Casamassima».

Dove presta servizio adesso?

«E’ stato trasferito, dopo venti anni di incarichi operativi, al cancello della Scuola allievi carabinieri di Roma. Apre e chiude la sbarra d’ingresso».

Non sembra un incarico di grande prestigio…

«Oltre ad essere stato demansionato, ogni giorno riceve una comunicazione di avvio di procedimento disciplinare».

Il motivo? Non apre bene il cancello?

«No, è accusato di raccontare su Facebook, senza autorizzazione, il trattamento di cui è oggetto da parte del Comando generale dell’Arma».

Pensa che l’Arma voglia congedarlo?

«Mi auguro di no. Casamassima ha fatto solo il suo dovere, raccontando la verità».

Il processo intanto prosegue. Ad ogni udienza emergono le coperture poste in essere dai vertici dell’epoca.

«La fortuna, se così possiamo dire, è di avere come pm il dottor Musarò. Un giovane magistrato coraggioso che non ha alcuna sudditanza psicologica nei confronti delle divise e che sta svolgendo il proprio ruolo con grande equilibrio».

Cosa crede che succederà?

«Mi auguro che la denuncia venga assegnata ad un magistrato come il dottor Musarò. Ho chiesto che tutti i presenti all’incontro di ottobre al Ministero, quindi anche Elisabetta Trenta, riferiscano su cosa disse Nistri».

·         Il Processo sulla Morte.

Carabinieri o bucanieri? Dopo il caso Cucchi la caserma degli orrori di Piacenza. Alberto Cisterna su Il Riformista il 23 Luglio 2020. La Nazione non può fare a meno dell’Arma dei Carabinieri e nessuno ha mai neppure pensato di dover metter mano al più glorioso dei corpi di polizia, eletto finanche a Forza armata due decenni or sono accanto a Esercito, Marina e Aviazione. Un unicum al mondo, ritenuto un modello da imitare e una risorsa insostituibile nelle missioni internazionali. Ciò posto sarebbe ingiusto negare che la retata disposta dalla procura della Repubblica di Piacenza lasci tutti attoniti e sbigottiti. Al di là delle responsabilità dei singoli indagati, il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è un fatto grave che segnala, a questo punto in modo quasi irreversibile, l’emergere di un problema che deve essere risolto perché attinge alle radici della legittimazione democratica di una forza di polizia, ancor di più se si tratta di una forza armata vocata alla difesa della Nazione. Il ripetersi di episodi che hanno visto appartenenti dell’Arma chiamati a rispondere di gravi reati nell’esercizio delle proprie funzioni (per citare l’affaire Cucchi o la violenza sulle studentesse americane a Firenze o gli sviluppi ancora del tutto imprevedibili dell’omicidio del povero Cerciello Rega) interroga in profondità la coscienza dei cittadini e lascia cicatrici che devono essere rimarginate con rapidità e decisione. La straordinaria lettera di scuse indirizzata dal Comandante generale ai familiari di Stefano Cucchi contiene considerazioni che devono essere richiamate all’attenzione di queste ore in cui una caserma intera è stata messa sotto sequestro come fosse un covo di bucanieri e sopraffattori. Scriveva il generale Nistri: «Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole importanti che, a questo punto, esigono anche rimedi altrettanto decisi e decisivi. Ritenere che l’Arma potesse mantenersi esente da fenomeni degenerativi che, purtroppo, riguardano anche altre primarie istituzioni pubbliche sarebbe stato illusorio e nessuno si deve lamentare di uno sfilacciamento della coesione etica in qualche segmento dell’apparato. Ma mentre la corruzione o il malaffare negli uffici pubblici provocano le sperpero di risorse collettive e distruggono l’efficacia dell’azione amministrativa, le devianze dei corpi di polizia minacciano beni assolutamente primari e inviolabili del cittadino, tra cui in primo luogo la sua libertà personale e la sua incolumità fisica. La sola idea che qualcuno possa sentirsi a rischio o anche solo a disagio nell’entrare in contatto con un carabiniere o un poliziotto segna ovunque il discrimine tra una nazione democratica e un enclave sudamericana senza regole. E non serve richiamare l’ampio dibattito, in corso da decenni negli Usa, o le recenti, pesanti reazioni al caso di George Floyd per comprendere quali siano i parametri secondo cui si misura il rating di legalità dell’azione di polizia in una nazione. Il dovere dell’assoluta intangibilità fisica e morale dell’uomo in vincoli (Habeas corpus), il rispetto della sua indifesa soggezione alla potestà pubblica sono le colonne d’Ercole oltre le quali nessuno può spingersi. La relazione fiduciaria tra cittadini e forze di polizia non si manifesta solo – e com’è giusto – nella richiesta di un aiuto o di un intervento (che non mancano mai), ma soprattutto nella serenità e tranquillità con cui ciascuno affida sé stesso – anche contro la propria volontà se in custodia – alle mani di chi esercita su di lui una potestà limitatrice. Mantenere indenne questa sottile linea rossa che separa la forza legittima e l’arbitrio, impedire che la corruzione o l’abuso possano impadronirsi anche solo a macchia di leopardo delle strutture di polizia, evitare il formarsi di circuiti investigativi opachi in cui pubblici ministeri e operatori di polizia rafforzano legami extralegali al riparo o con la malcelata sopportazione dei vertici, contenere un carrierismo esasperato che induce a privilegiare i contatti con l’establishment gerarchico piuttosto che a dedicarsi all’antica, paziente cura degli uomini al proprio comando, sono obiettivi probabilmente imprescindibili per ogni forza di polizia in questo momento storico. E a maggior ragione per l’Arma dei carabinieri che ha un posto speciale e unico nella considerazione dei cittadini. Per farlo sono necessari, corpo per corpo e apparato per apparato, approcci diversi e soluzioni differenti. Troppo profonde le differenze strutturali e operative tra le tre principali forze di polizia perché possano immaginarsi rimedi omogenei. Certo, genera acuta attenzione il concentrarsi di episodi sul versante della Benemerita e il moltiplicarsi di casi mediaticamente dirompenti. Aveva ragione il generale Nistri quando scriveva alla famiglia Cucchi «…il rispetto assoluto della legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, “chi” ha fatto “ che cosa”». E malgrado ciò si staglia con una certa chiarezza, in queste parole, anche una fragilità e un limite oggettivo che l’attività di prevenzione interna degli abusi e dei reati incontra in una struttura che annovera oltre 4.500 stazioni e un centinaio di altri comandi. Un’articolazione pulviscolare pressoché unica e nella quale, drammaticamente, la lacerazione deontologica e l’aberrazione comportamentale sono più difficili da rilevare e da reprimere con rapidità. La lunga catena di comando che ha storicamente connotato l’organizzazione dell’Arma (che in oltre 3.700 comuni rappresenta l’unica forza di polizia presente) evidenzia cedevolezze e mostra crepe che vanno affrontate da chi di dovere. Con molta approssimazione e in punta di piedi può, forse, dirsi che la formazione dei quadri intermedi sia lo snodo nevralgico di questa sfida, come tutte le vicende recenti hanno mostrato. Sembra che occorra rafforzare la vicinanza dei comandi locali alle più piccole strutture periferiche affinché avvertano, a un tempo, la presenza e anche il controllo dei protocolli in cui sono inseriti. Protocolli in cui è sempre immanente il rischio che la burocrazia si sostituisca alla gerarchia. Probabilmente per nessuna altra articolazione dello Stato-amministrazione si avvertono così forti il coinvolgimento e l’aspettativa dei cittadini che hanno un preciso interesse all’onore e alla disciplina (art.54 Cost.) di tutta l’Arma solo perchè ne vanno orgogliosi.

Da corriere.it il 23 luglio 2020. «Un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello Stefano». Così Ilaria Cucchi commenta l’indagine della Procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati, tra l’altro, di traffico di droga, estorsioni e tortura. «Bisogna andare fino in fondo - ha aggiunto Cucchi - non si facciano sconti a nessuno come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’indagine sulla morte di Stefano- ricorda la sorella del geometra morto a una settimana dall’arresto per le conseguenze delle percosse subite dai carabinieri in caserma - Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando troppi.  Il problema è nel sistema: mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma subito dopo la testimonianza come nel caso del loro collega Casamassima», conclude Ilaria Cucchi, che per anni si è battuta per stabilire la verità sulla morte del fratello. Come si è battuta la mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti: anche lei ha dimostrato che il suo ragazzo, all'epoca diciottenne, è morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Nella condanna dei 4 agenti, del 2012, si legge che fu esercitata un'azione «sproporzionatamente violenta e repressiva». La morte fu causata dalla pressione esercitata dai poliziotti che nel tentativo di immobilizzare Federico, durante un controllo, gli erano montati sulla schiena. Inoltre, i giudici stigmatizzano il tentativo di manipolare le testimonianze e sminuire le colpe degli imputati. Oggi Moretti scrive su Twitter: «Quanti cesti di mele marce abbiamo accumulato?».

Il processo. A novembre scorso, al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, è arrivato invece il verdetto di primo grado contro gli imputati nel caso Cucchi, autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. I carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono stati condannati a 12 anni di carcere. Poi è stato aperto il cosiddetto «Cucchi ter», per ricostruire le responsabilità di chi cercò di coprire il pestaggio del geometra. Otto i militari sotto accusa. Il ministero di Giustizia si è costituito parte civile.

Ilaria Cucchi: “Basta parlare di mele marce: a Piacenza un sistema, ora niente sconti a nessuno”. Il Dubbio il 23 luglio 2020. Per la sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo morto dopo il pestaggio da parte di due carabinieri, le violenze di Piacenza mettono in evidenza un “sistema”. “La vicenda di Piacenza e’ un fatto enorme e gravissimo che ricorda il caso di mio fratello”. Lo ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commentando l’inchiesta della procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati di diversi reati dal traffico di droga alla tortura. “Bisogna andare fino in fondo e non fare sconti a nessuno, come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’inchiesta sulla morte di mio fratello e anche in questa indagine. Basta parlare di singole mele marce, i casi – ha proseguito Ilaria Cucchi – stanno diventando davvero troppi. Il problema e’ nel sistema. Mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma come subito dopo la testimonianza del loro collega Casamassima”. “Io barro, non voglio fare un falso ideologico!”. Dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Piacenza, emerge la figura di un neo carabiniere “dall’atteggiamento solitario, che non fa gruppo”, così lo definiscono due degli arrestati, che si oppone, quanto meno non partecipandovi, a quello che per gli inquirenti sarebbe stato un andazzo criminale, caratterizzato da pestaggi, arresti illegali, spaccio di droga, festini con escort dentro la caserma sequestrata. R.B., queste le iniziali del ragazzo che appare la "mela sana" in un contesto buio, confida al telefono i suoi dubbi sull’operato dei colleghi al padre, carabiniere in pensione. – Da questi colloqui, scrive il giudice Luca Milani, si evince “tutta la delusione del giovane militare dell’Arma per essere finito a lavorare in un ambiente in cui vengono costantemente calpestati i doveri delle forze dell’ordine, dove tutto e’ tollerato a condizione che vengano garantiti i risultati in termini di arresti”. Per il magistrato, il ragazzo manifesta “una scarsa propensione a seguire i colleghi dovuta al suo forte disagio nel constatare le continue violazioni e gli abusi commessi all’interno della caserma di via Caccialupi”. “Molte cose le fanno le cose a umma a umma, non mi piacciono”, ripete più volte al genitore, riferendosi ai colleghi poi arrestati, e spiegando al padre di non voler attestare falsamente “di avere fatto in una tot data un qualcosa che poi non e’ neanche vero”, commettendo quindi un falso.

Carabinieri della caserma degli orrori non sono male marce, la tortura di Stato è la norma. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Dopo aver appreso dal Corriere della Sera che nella caserma di Piacenza si infieriva su «spacciatori, immigrati ma anche semplici cittadini innocenti» (l’immigrato è notoriamente colpevole), potremmo adottare la retorica comune a destra e a manca secondo cui quando si discute di giustizia ci si dimentica sempre delle vittime. Sarebbe una retorica buona, per una volta: anche solo perché, guarda caso, non risuona mai quando a subire violenza sono quelli sottoposti alle cure di giustizia e quando a perpetrarla è l’ordinamento che semmai dovrebbe proteggerli. Di queste altre vittime, chissà perché (chissà perché per modo di dire, ovviamente), non si occupa mai nessuno, eppure lo stato di afflizione in cui versano è conclamato. A fronte della sperabilmente episodica vergogna piacentina c’è la tolleratissima normalità di un sistema che sottopone a tortura decine di migliaia di cittadini, perlopiù appartenenti ai ranghi infimi della società: e se ora fa scandalo la sopraffazione di cui sono stati destinatari i poveracci finiti nelle grinfie di quei criminali in divisa, nulla, ma proprio nulla si fa per mettere fine all’ordinaria ignominia di un’organizzazione pubblica che con il sigillo di Stato sequestra la vita delle persone e la consegna alla malattia, alla schiavitù sessuale, alla disperazione dell’isolamento, alla privazione di qualsiasi diritto riconosciuto persino alle bestie. E sono tutti innocenti, tutti: perché potranno anche aver commesso un illecito (molti non ne hanno commesso nessuno), ma non c’è colpa che giustifichi la sottomissione a quel dispositivo di multiforme degradazione. Ordini di carcerazione e condanne irrogate con sentenze emesse in nome del popolo italiano sono lo strumento con cui la società, ogni giorno, infligge a degli esseri umani una somma di sanzioni che non hanno nulla a che fare con la pena già gravissima costituita dalla privazione della libertà: e così quei provvedimenti di giustizia diventano il tramite indifferente di un’illegalità sostanziale, il mezzo formalmente impeccabile con cui si realizza il crimine di Stato, il lasciapassare della pubblica impunità. Non servono indagini e denunce per fare emergere la realtà del nostro sistema carcerario, perché è una realtà conosciuta. E non servono condanne, che dal pulpito della giustizia europea continuano a fioccare senza che cambi mai nulla e senza che lo Stato italiano, questo delinquente abituale, ritenga di adeguarvisi. Serve una classe dirigente per opporsi a questo schifo senza curarsi del consenso a rischio.

Casamassima, testimone nel processo Cucchi: "Così sono stato punito dall'Arma". L'appuntato racconta la lunga serie di procedimenti disciplinari subiti: 15 in tutto, cominciati dopo la testimonianza. Francesco Salvatore il 10 giugno 2020 su La Repubblica. È stato il testimone che con la sua rivelazione ha permesso la riapertura dell'indagine sull'omicidio di Stefano Cucchi. Riccardo Casamassima, appuntato dei carabinieri in servizio nell'ottobre 2009 alla caserma di Tor Vergata, è tornato nuovamente in aula anche nel processo Cucchi ter, quello che riguarda i presunti depistaggi compiuti da otto carabinieri - comandanti di gruppo e di stazione oltre a marescialli e appuntati - per indirizzare l'inchiesta Cucchi su un binario morto. "Ho parlato con l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Cucchi, solo nel 2015, a distanza di anni dal fatto, per paura di ritorsioni" ha esordito il militare. Per poi snocciolare una lunga serie di procedimenti disciplinari subiti, "sono 15, cominciati tutti dopo la testimonianza", oltre a raccontare nel dettaglio tre trasferimenti non voluti. Casamassima ha fatto nomi e cognomi, arrivando ad affermare di essere stato messo all'angolo su pressione del comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri: "Un superiore, in una conversazione, evidenziò la volontà di Nistri di fare pressioni su di me", ha spiegato in aula davanti al giudice Roberto Nespeca. Il super testimone ha raccontato dieci anni di vita, ma è sull'ultimo periodo che si è maggiormente focalizzato. Da dopo la sua deposizione al processo Cucchi bis, nel maggio 2018: "C'è stata la testimonianza e poi è partita la pratica del trasferimento. Subito subito - ha spiegato al pm Giovanni Musarò - sono finito sempre a Roma, ma a 7 chilometri di distanza più lontano rispetto a casa mia. Dalla caserma Tor di Quinto a quella in via Giulio Cesare, alla Scuola allievi. Ho perso tutto: indennità e straordinari. Sono minimo 400 euro al mese (da 2000 a 1600 euro circa ndr). Mi hanno voluto punire". A distanza di qualche mese la situazione non è migliorata: "Nel 2019, a giugno - ha proseguito Casamassima - mi hanno messo in ufficio dove non facevo nulla. Mi tenevano sei ore fermo. Era imbarazzante. Lo scrissi sui social e venni contattato dalla ministra della Difesa Trenta, che incontrai". Una spiegazione sulle cause l'ha fornita lui stesso poco dopo: "Un maresciallo, in una conversazione, mi ha detto che era volere del comandante Nistri, di fare pressioni su di me". Contro il vertice dei Carabinieri, lo stesso appuntato ha sporto due denunce: "Una per diffamazione e una per rivelazione del segreto d'ufficio". Entrambe le querele sono state archiviate dal gip lo scorso settembre. Quanto alle presunte pressioni riportate da Casamassima da parte di Nistri, l'Anac non ha ravvisato responsabilità. A spiegarlo è il comando generali dei carabinieri in una nota: "L'Anac ha espressamente evidenziato che si tratta di una conversazione decontestualizzata alla quale possono essere attribuiti significati completamente differenti da quelli prospettati dal Casamassima e che non risulta idonea a dimostrare intenti ritorsivi nei confronti del graduato". Quanto ai procedimenti disciplinari subiti, riferiti in aula dal testimone, la stessa Anac aveva aperto un procedimento in capo a 6 ufficiali, non rilevando vizi di legittimità: "L'Anac ha riconosciuto - riporta la nota - con delibera del 1 aprile 2020, la piena legittimità dei provvedimenti adottati nei confronti di Casamassima ed ha escluso sia qualsiasi carattere ritorsivo o discriminatorio o persecutorio e sia qualsiasi demansionamento".

Le motivazioni della sentenza: «Cucchi stava bene, morì per le lesioni». Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Né la droga né l’epilessia: solo il violento pestaggio al quale fu sottoposto Stefano Cucchi la notte del suo arresto (il 15 ottobre 2009) può spiegare la sua morte sopraggiunta una settimana dopo. È questa la certezza raggiunta dalla I Corte d’Assise di Roma, presieduta da Vincenzo Capozza: «Se (Cucchi, ndr) non avesse subito un evento traumatico non avrebbe sofferto di molteplici e gravi lesioni con l’instaurarsi di accertate patologie che hanno portato al suo ricovero e da lì a quel progressivo aggravarsi delle sue condizioni che lo hanno condotto a morte». Le lesioni ricevute hanno innescato «una serie di eventi (patologici, ndr) terminati con la morte». L’inchiesta bis sulla morte di Cucchi, coordinata dal pubblico ministero Giovanni Musarò, ha raggiunto un primo punto fermo nell’accertamento delle cause del decesso del ragazzo. Ma poi, sempre stando alle argomentazioni con le quali i giudici hanno motivato le condanne per omicidio nei confronti dei carabinieri Raffaele D’Alessandro (12 anni) e Alessio Di Bernardo (12 anni), anche sul fronte della ricostruzione di quanto avvenuto la notte dell’arresto di Cucchi si sono compiuti passi avanti. Fondamentale e attendibile la testimonianza del carabiniere, inizialmente imputato di omicidio con gli altri, Francesco Tedesco, presente al momento delle percosse: «L’istruttoria dibattimentale ha consentito di acquisire una molteplicità di univoci riscontri alla ricostruzione dei fatti operata da Tedesco e per altro aspetto questi ha offerto una spiegazione del suo pregresso silenzio assolutamente comprensibile e ragionevole». Tedesco è stato poi condannato per il solo falso relativamente al confezionamento del verbale di arresto di Cucchi. Ma è la sua testimonianza, accanto a quella di alcuni detenuti (fra cui Luigi Lainà), che ha permesso di accertare la verità. «Le lesioni accertate sul corpo di Cucchi, poi, sono state tutte tali da risultare perfettamente compatibili con l’azione lesiva descritta da Tedesco» scrivono i giudici. La notte del suo arresto Cucchi entrò in un silenzioso contrasto con i carabinieri che lo avevano arrestato fino a provocare uno di loro al momento del fotosegnalamento. La reazione fu «illecita e ingiustificabile»: «È indiscutibile che la reazione tenuta da Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sia stata illecita e ingiustificabile. Un’azione violenta nel corso dello svolgimento del servizio d’istituto, per un verso facendo un uso distorto dei poteri di coercizione inerenti il loro servizio, per altro aspetto violando il dovere di tutelare l’incolumità fisica della persona sottoposta al loro controllo». Motivata anche la condanna per falso ideologico di Roberto Mandolini (3 anni e 8 mesi) relativamente al verbale di arresto: «Il verbale di arresto di Stefano Cucchi appare già, ad una prima lettura, un concentrato di anomalie, errori ed inesattezze». Commenta Ilaria Cucchi: «È esattamente tutta la verità così come l’abbiamo sostenuta e urlata invano per tanti anni».

Morte Cucchi, “Stefano prima del pestaggio era in buone condizioni fisiche”. Il Dubbio il 7 febbraio 2020. Depositate le motivazioni della sentenza di condanna di primo grado dei carabinieri. Inflitti 12 anni a Raffaele d’Alessandro e Alessio di Bernardo per omicidio preterintenzionale 3 anni e 8 mesi a roberto mandolini e 2 anni a Francesco Tedesco per falso. “È indiscutibile che Stefano Cucchi la sera dell’arresto versava in condizioni fisiche assolutamente normali e che non presentava né manifestava alcun segno di lesioni fisiche’, così scrive nero su bianco la Corte d’assise di Roma nelle motivazioni depositate ieri della sentenza per la quale sono stati condannati 4 carabinieri di cui due per omicidio preterintenzionale per il pestaggio avvenuto nella caserma Casilina. “Va escluso – scrive la Corte – che fossero intervenute cause sopravvenute da sole sufficienti a cagionare l’evento morte. Non possono considerarsi tali né un atteggiamento di scarsa compliance del paziente con gli interventi terapeutici proposti né la possibilità/ probabilità di negligenze nel trattamento medico e/ o infermieristico inerenti scarsi controlli sul paziente e, in particolare, sull’andamento della diuresi e sull’efficienza del cateterismo’. Secondo la Corte c’era stata una catena causale che parte “da un’azione palesemente dolosa e illecita che ha costituito la causa prima di un’evoluzione patologica alla fine letale”. Secondo i giudici si tratta di "uno schema che, così, corrisponde perfettamente alla previsione normativa in tema di nesso di causalità tra condotta illecita ed evento e che, d’altra parte, rende chiara la differenza tra la mera causalità biologica, secondo cui nessuna delle singole lesioni subite da Cucchi sarebbe stata idonea a cagionare la morte, e la causalità giuridico penale, nel rispetto della quale il nesso di causalità sussiste se quelle lesioni, conseguenza di condotta delittuosa, siano state tali da innescare una serie di eventi terminati con la morte". Senza quel pestaggio, quindi, Cucchi non sarebbe morto. Questa è l’amara verità accertata processualmente in primo grado e che ha visto la condanna a 12 anni nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per il pestaggio. Oltre a loro, sono stati condannati – per falso – anche altri due militari: Roberto Mandolini e Francesco Tedesco. Un processo, ricordiamo, che si era aperto proprio dopo le dichiarazioni di quest’ultimo, Tedesco, che raccontò del pestaggio subito da Stefano in caserma. La vicenda di Stefano Cucchi inizia nella serata del 15 ottobre 2009, quando viene arrestato perché trovato in possesso di droga. Stefano è un geometra 31enne di Roma e viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti: trovato in possesso di 20 grammi di hashish, di cocaina e di alcune pastiglie per l’epilessia di cui soffriva. Il giorno dopo il fermo viene convalidato l’arresto e il 31enne viene processato per direttissima. Il giudice dispone che Cucchi rimanga in custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli, in attesa di un’udienza che si sarebbe dovuta tenere il mese successivo. Già alla fine dell’udienza per la convalida dell’arresto le condizioni di salute di Cucchi sono abbastanza preoccupanti e per questo viene fatto visitare dal medico del tribunale. Dopo l’ingresso in carcere viene visitato nell’infermeria di Regina Coeli, che dispone un immediato trasferimento al pronto soccorso del Fatebenefratelli per degli accertamenti. Cucchi rifiuta però il ricovero e torna in carcere. Il giorno dopo, le sue condizioni di salute sono sempre più preoccupanti e viene sottoposto ad altre visite, fino al ricovero nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Al momento del decesso pesa 37 chili. In sei giorni la famiglia non riesce mai a vederlo. È l’inizio di una complessa vicenda giudiziaria e di una lunga ricerca della verità, portata avanti soprattutto dalla sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. Il 14 novembre 2019, la Corte d’Assise di Roma ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri. Nello stesso giorno, è arrivata la sentenza d’appello che ha visto quattro medici prescritti e uno assolto.

Cucchi, le motivazioni della sentenza: “Stava bene, fatali le lesioni subite nel pestaggio”. Redazione de Il Riformista il — 7 Febbraio 2020. Il pestaggio subito da Stefano Cucchi la notte dell’arresto è “la causa prima della patogenesi che si è rapidamente conclusa con la morte” ed è “indiscutibile” che il giovane la sera in cui fu fermato, “fino all’esecuzione della perquisizione domiciliare, versasse in condizioni fisiche assolutamente normali” senza “alcun segno di lesioni”. È quanto si legge nelle motivazioni della Corte d’Assise di Roma che il 14 novembre scorso ha condannato quattro carabinieri. Non esiste “nessuna possibilità di dubbio”, sostengono i giudici, sul fatto che Stefano abbia subito “un evento traumatico in prossimità del suo arresto e, più precisamente, nel corso del suo passaggio presso la caserma Casilina per il fotosegnalamento”. Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, aggredendolo con tanta violenza hanno avuto una condotta “assolutamente ingiustificabile”: Cucchi è morto, per “una concatenazione polifattoriale”, la cui causa “essenziale, se non unica”, è “il riflesso vagale connesso alla vescica neurogenica originata dalla lesione in S4”. È stata dunque la lesione alla vertebra provocata dal calcio di uno dei due militari a provocare, sei giorni dopo, un decesso che, sostengono i giudici, non può esser stata in alcun modo una conseguenza dell’epilessia di cui aveva sofferto. Di Bernardo e D’Alessandro, sono ritenuti i responsabili del pestaggio, mentre la Corte ha anche inflitto tre anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, l’ufficiale condannato per falso che avrebbe coperto quanto accaduto, e due anni e sei mesi per falso a Francesco Tedesco, il militare che nel corso del procedimento ha accusato Di Bernardo e D’Alessandro ed è stato assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Altri otto carabinieri sono a processo perché accusati, a vario titolo, di reati che vanno dal falso, all’omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento: si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all’epoca dei fatti capo ufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani.

ILARIA: “GRAZIE A CHI LOTTATO CON ME” – “Leggo le 130 pagine delle motivazioni della sentenza per la morte di Stefano e ogni tanto devo smuovermi per capire che non sto sognando. Anni ed anni trascorsi nelle aule di tribunale a sentir dire da dei gran professoroni che mio fratello era morto di suo o comunque di qualcosa di bizzarro. Anni ed anni a combattere contro l’ipocrisia e l’arroganza del potere. Non ero sola per fortuna, perché da sola non avrei potuto fare nulla. Ma proprio nulla”. Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi. “In tutti questi anni ho visto delle persone lottare per un’idea. Ed il mio ringraziamento ogg va a loro. Quelle persone sono Fabio, il mio avvocato, ed i miei consulenti medico legali. Avevano ragione loro. Su tutto! E sarò loro per sempre grata per non essersi arresi”, aggiunge.

·         Processo sul Depistaggio.

Cucchi, processo depistaggi: "Lettere di apprezzamento ai carabinieri che arrestarono Stefano". Francesco Giovannetti su La Repubblica il 13 luglio 2020. "Siamo basiti e stanchi". Così Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi, il 31enne romano morto nell'ottobre del 2009 in seguito al pestaggio subito durante un arresto da parte dei carabinieri, al termine dell'ultima udienza del processo sui presunti depistaggi perpetrati da alcuni alti ufficiali dell'Arma. "E' terribile dover sentir ancora una volta che nei giorni in cui Stefano era ancora vivo già venivano messi in piedi depistaggi per mettere in cassaforte un eventuale processo", ha detto Ilaria Cucchi. Durante la testimonianza del luogotenente Giancarlo Silvia, del Nucleo comando della compagnia Roma-Casilina, sarebbe emerso come le condizioni fisiche di Cucchi avessero già destato attenzione. E tuttavia, negli stessi giorni, i responsabili dell'arresto avrebbero ricevuto lettere di plauso da parte dei loro superiori. "Per questo ci piacerebbe vedere le parti civili che rappresentano lo Stato (l'Arma si è costituita parte civile, ndr) più attive, perché finora sono rimaste nella totale inerzia", ha concluso Anselmo.

Caso Cucchi, "noi vittime, costretti a eseguire gli ordini": due imputati processo depistaggio chiedono di costituirsi parte civile. Si tratta di Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano. Sono 8 i militari alla sbarra con l'accusa di aver tentato di insabbiare l'inchiesta sul pestaggio sul giovane morto una settimana dopo l'arresto. "Non sapevamo del pestaggio". La Repubblica il 16 dicembre 2019. "Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi. C'è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all'epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l'abbiamo subita, erano ordini". Queste le parole, riferite dall'avvocato Giorgio Carta, di  Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, i carabinieri imputati che hanno annunciato l'intenzione di costituirsi parte civile contro i superiori coimputati Francesco Cavallo e Luciano Soligo. Si consuma così un nuovo colpo di scena al processo a carico degli otto carabinieri accusati dalla procura di aver "depistato" l'inchiesta sul pestaggio in caserma di Stefano Cucchi. La motivazione, hanno spiegato i legali dei due carabinieri, sarebbe da ricercare nell'obbligo come militari di eseguire ordini arrivati dai superiori: il tenente colonnello, Cavallo e il tenente colonnello, Soligo. Per questo la decisione di costituirsi parte civile contro i due superiori gerarchici, anche loro imputati nel processo. "L'ordine fu dato da chi insistendo sulla modifica sapeva qualcosa di più. - ha spiegato uno dei legali - Labriola e Di Sano hanno subito un danno di immagine, da questo punto di vista siamo nella stessa posizione degli agenti di polizia penitenziaria". "Fu bloccata la partenza già programmata e con biglietto già acquistato di Francesco Di Sano per la Sicilia, per firmare l'annotazione di servizio già modificata". Aggiunge l'avvocato  Carta, in riferimento alle parole che sarebbero state pronunciate dal tenente colonnello Luciano Soligo allo stesso Di Sano che avrebbe dovuto rinunciare alla partenza per firmare l'annotazione. A Labriola fu invece chiesto, dal tenente colonnello Francesco Cavallo, di inviare i due file word delle annotazioni modificate Per i depistaggi sono imputati il generale Alessandro Casarsa all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, all'epoca dei fatti maggiore dell'Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, all'epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all'epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunni. Presenti all'udienza di questa mattina quattro degli otto imputati: Colombo Labriola, Sabatino, Testarmata e Di Sano. "Chiediamo di poter citare come responsabile civile il ministero della Difesa in quanto organo di riferimento dell'Arma dei carabinieri". Lo ha detto in aula  l'avvocato Diego Perugini, legale di uno dei tre agenti della penitenziaria assolti in via definitiva al primo processo sulla morte di Stefano Cucchi. Alla richiesta si sono associati i legali degli altri agenti della penitenziaria. Il ministero della Difesa è anche parte civile bello stesso processo.

Caso Cucchi, i due carabinieri: «costretti a eseguire ordini». Simona Musco il 17 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Di Sano e Labriola, a processo per I presunti depistaggi, accusano I superiori coimputati: «non sapevamo nulla del pestaggio, ci hanno obbligati a modificare le relazioni». «Non sapevamo del pestaggio di Stefano e non abbiamo potuto rifiutarci di modificare le relazioni sul suo stato di salute. Erano ordini superiori. Vogliamo costituirci parte civile». Colpo di scena al processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine di Stefano Cucchi, il 31enne romano arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Ieri due degli imputati – Francesco Di Sano e Massimiliano Colombo Labriola – hanno chiesto al giudice Giulia Cavallone di costituirsi parte civile contro i due superiori co- imputati, i tenenti colonnello Luciano Soligo e Francesco Cavallo. «C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo, ma oggi sappiamo tutto. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini», hanno spiegato i due attraverso il loro legale, Giorgio Carta. Secondo cui il reato di falso, per i suoi assistiti, non si sarebbe verificato. Alla sbarra ci sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo, Francesco Cavallo, capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, in servizio alla stessa stazione, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni. Tutto sarebbe accaduto il 27 ottobre 2009, cinque giorni dopo la morte di Cucchi, nella stazione di Tor Sapienza, dove il geometra era stato condotto dopo l’arresto, dopo aver già subito il pestaggio ad opera, secondo la sentenza emessa a novembre scorso, dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni. Il giorno successivo all’arresto, Di Sano, allora piantone alla stazione di Tor Sapienza, dopo aver dato il cambio al collega, vide Cucchi in camera di sicurezza attraverso lo spioncino. Ed è proprio per questo motivo che venne coinvolto nella redazione della relazione di servizio richiesta dopo la sua morte. Il 27 ottobre, dunque, Soligo chiese a Labriola di inviare via mail il file con la relazione a Cavallo, che lo stesso rispedì via mail con delle modifiche specifiche sulla salute di Cucchi e l’annotazione «meglio così». Labriola stampò dunque il file consegnandolo a Soligo. L’atto necessitava, però, della firma di Di Sano, quel giorno fuori servizio e in procinto di partire per la Sicilia. Soligo lo avrebbe dunque fermato: «Prima di partire – gli avrebbe detto – devi firmare l’annotazione». E dopo essersi intrattenuto a lungo con Soligo, Di Sano avrebbe firmato il documento, attardandosi tanto da perdere l’aereo. «Quel biglietto aereo l’ho perso, tanto che ricordo di essere dovuto poi scendere in Sicilia in macchina», ha spiegato. Insomma, i due «non avevano nessun potere decisionale – ha sottolineato Carta -. Dovevano ubbidire». «Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi», hanno sostenuto i due. Per il legale, dunque, «non c’è alcun falso», anche perché «Labriola non hai mai incrociato Cucchi, non fu neppure informato quando fu portato nella sua stazione». E se i due non avessero eseguito quell’ordine, «sarebbero incorsi in un reato militare». Avendo subito «un danno di immagine – ha aggiunto – sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari». Che ieri hanno chiesto di poter citare come responsabile civile il ministero della Difesa.

Da ilfattoquotidiano.it il 16 dicembre 2019. I carabinieri Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, imputati nel processo sui presunti depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Stefano Cucchi, hanno chiesto di costituirsi parte civile contro i colleghi Luciano Soligo e Francesco Cavallo. Secondo i legali, infatti, i due militari dell’Arma avrebbero eseguito un ordine arrivato dai superiori: “L’ordine fu dato – hanno spiegato i difensori – da chi insistendo sulla modifica sapeva qualcosa di più. Loro hanno subito un danno di immagine, da questo punto di vista sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari”. Il loro avvocato ha riferito il pensiero dei due imputati: “Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi. C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini”. Per i depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, sono imputati il generale Alessandro Casarsa – all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma – e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Il dibattimento si svolgerà davanti alla giudice Giulia Cavallone che ha deciso di vietare le riprese video del processo perché “il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula”. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, allora maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Colombo Labriola e Di Sano, invece, erano rispettivamente comandante della stazione di Tor Sapienza e carabiniere scelto in servizio nella stessa stazione. Secondo quanto riferito dall’avvocato di Di Sano, Soligo gli disse: “Adesso non parti e modifichi l’annotazione di servizio”. Di Sano avrebbe spiegato che “quel giorno in cui eseguì la modifica era in partenza per la Sicilia, ma fu contattato da Soligo affinché prima eseguisse la modifica richiesta”. “Non c’è alcun falso – ha proseguito l’avvocato – Labriola e Di Sano non sapevano niente del pestaggio e Colombo Labriola non ha mai incrociato Cucchi. Inoltre, se non avessero eseguito gli ordini sarebbero stati puniti con reato militare che prevede la reclusione, per disobbedienza militare”. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Cavallo “rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest’ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato”. Soligo, invece, “veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi”. Per la morte di Cucchi, nel filone principale dell’inchiesta che ha squarciato un silenzio durato quasi 10 anni, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver pestato il geometra di 31 anni dopo averlo arrestato, sono stati condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale. I giudici della Corte d’assise di Roma hanno assolto da questa accusa l’imputato diventato teste dell’accusa Francesco Tedesco, che nel 2018 decise di parlare e di raccontare quanto aveva visto nella caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio. A lui sono stati inflitti 2 anni e sei mesi per falso. Il maresciallo Roberto Mandolini, il comandante della Stazione Appia dove fu portato Stefano, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per la falsificazione del verbale di arresto. Assolto Vincenzo Nicolardi che rispondeva di calunnia, poi riqualificata in falsa testimonianza.

IL CASO DI RICCARDO MAGHERINI.

Cassazione, sul caso Magherini assolti i tre carabinieri. Il Pg aveva detto in aula: "Se lo avessero tenuto nella posizione eretta si sarebbe salvato". Per la Cassazione "il fatto non costituisce reato": annullata senza rinvio la sentenza d'appello che condannava i militari per omicidio colposo, scrive Laura Montanari il 15 novembre 2018 su "La Repubblica". La quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta il 3 marzo 2014, dopo l'arresto in una strada di San Frediano, a Firenze. Il collegio ha disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza d'appello perché "il fatto non costituisce reato".  In primo e secondo grado i tre carabinieri, che lo avevano immobilizzato e ammanettato mentre percorreva in preda a un delirio, sotto effetto della cocaina, erano stati condannati per omicidio colposo per non averlo sollevato e messo in posizione eretta quando aveva smesso di agitarsi e di invocare aiuto.  Magherini aveva urlato, affannato, poi si era calmato per un paio di minuti, il cuore aveva smesso di battere. I carabinieri che l'avevano ammanettato e chiamato un'ambulanza, non si erano resi conto che quella richiesta d'aiuto, "sto morendo", filmata dai cellulari dei residenti di Borgo San Frediano, non erano solo proteste per essere lasciato andare. Vincenzo Corni, Stefano Castellano e Agostino della Porta erano stati condannati rispettivamente a 8 mesi il primo e a 7 mesi gli altri due, sia dal tribunale che dalla corte d'appello di Firenze. La Cassazione ha ribaltato queste decisioni, annullando la sentenza d'appello senza rinvio. Nell'udienza di oggi il pg della Cassazione, Felicetta Marinelli aveva ribadito: "Se i carabinieri lo avessero messo in posizione eretta" e non tenuto prono "avrebbero permesso i soccorsi, e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata". L'accusa sosteneva quindi un nesso di causa "tra condotta omissiva ed evento morte". "Il decesso di Magherini - aveva premesso il pg - è stato determinato dall'elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress", stress, ha ripetuto, "dovuto all'assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri". "È pacifico - ha aggiunto - che i carabinieri erano ben consapevoli dell'alterazione psico-fisica e se l'avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno", l'uomo "avrebbe potuto essere soccorso e con elevata probabilità di salvarsi". I carabinieri, ha proseguito il pg, "avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando e avevano l'obbligo di tutelarlo". Secondo la procura generale, che ha chiesto di rigettare anche il ricorso in tal senso presentato dai familiari di Magherini, si è trattato di un "reato chiaramente colposo" e non di "omicidio preterintenzionale": i colpi e i calci contestati dall'avvocato Fabio Anselmo, che rappresenta le parti civili, in ogni caso "non hanno avuto rilevanza nella morte". Opposta la tesi delle difese. "Riteniamo che i carabinieri non avessero elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente. Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire che era il momento di metterlo a sedere", ha osservato l'avvocato Francesco Maresca, che difende due dei tre carabinieri. Dopo la sentenza i legali dei militari hanno espresso la loro soddisfazione. "In attesa di leggere i motivi - ha detto l'avvocato Eugenio Pini, difensore di Castellano - ritengo che giustizia sia stata fatta. Dopo aver affrontato numerosi casi analoghi, spero che questa sentenza possa tracciare una nuova linea giurisprudenziale". Dal canto suo l'avvocato Maresca ha commentato: “Abbiamo sempre creduto nella legittimità dell’intervento dei carabinieri imputati e siamo felici che la Suprema corte abbia fatto giustizia di tante contestazioni ingiustificate”.

Riccardo Magherini, Cassazione assolve i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. La IV sezione penale si è espressa sulla sentenza della corte d’appello di Firenze del 19 ottobre dello scorso anno per la morte del quarantenne ex calciatore, in strada a Firenze, durante un controllo da parte dei militari nella notte del 3 marzo 2014 e ha stabilito che "il fatto non costituisce reato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 novembre 2018. La quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morta di Riccardo Magherini, avvenuta il 3 marzo 2014 a Firenze. Il collegio ha disposto l’annullamento della sentenza d’appello perché “il fatto non costituisce reato”. Il sostituto pg della Cassazione Felicetta Marinelli, aveva chiesto di confermare la condanna per omicidio colposo nella sua requisitoria davanti alla IV sezione penale, chiamata a esprimersi sulla sentenza della corte d’appello di Firenze del 19 ottobre dello scorso anno per la morte del quarantenne ex calciatore, in strada a Firenze, durante un controllo la notte del 3 marzo 2014. Magherini sarebbero deceduto, secondo quanto accertato dalle sentenze di merito, in seguito allo stress respiratorio dovuto all’assunzione di cocaina e alla posizione prona in cui era stato tenuto. “Se i carabinieri lo avessero messo in posizione eretta” e non tenuto prono “avrebbero permesso i soccorsi, e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata”: esiste quindi il nesso di causa “tra condotta omissiva ed evento morte” ha sottolineato la pubblica accusa. “Il decesso di Magherini – ha premesso il pg – è stato determinato dall’elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress”, stress, ha ripetuto, “dovuto all’assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri. È pacifico – ha aggiunto – che i carabinieri erano ben consapevoli dell’alterazione psico-fisica e se l’avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno”, l’uomo “avrebbe potuto essere soccorso e con elevata probabilità di salvarsi”. I carabinieri, ha anche evidenziato il pg, “avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando e avevano l’obbligo di tutelarlo”. Secondo la procura generale, che ha chiesto di rigettare anche il ricorso in tal senso presentato dai familiari di Magherini, si è trattato di un “reato chiaramente colposo” e non di “omicidio preterintenzionale”: i colpi e i calci contestati dall’avvocato Fabio Anselmo, che rappresenta le parti civili, in ogni caso “non hanno avuto rilevanza nella morte”. Per la procura generale vanno quindi rigettati i ricorsi della difesa dei carabinieri Vincenzo Corni condannato a 8 mesi, e Stefano Castellano e Agostino della Porta, condannati a 7 mesi ciascuno. E va rigettato anche il ricorso dei familiari di Magherini, rappresentati dall’avvocato Fabio Anselmo, che chiede l’omicidio preterintenzionale. In aula sono presenti parenti e amici di Magherini e Ilaria Cucchi. “Riteniamo che i carabinieri non avessero elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente. Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire se era il momento di metterlo a sedere” ha detto l’avvocato Francesco Maresca, difensore di due dei tre carabinieri. Uno dei punti su cui il legale ha fondato il suo ricorso è che ai militari non possa essere imputata un’omissione perché non hanno le conoscenze mediche per riconoscere i segni di una crisi respiratoria. Erano imputati anche tre volontari della Croce Rossa e uno dei carabinieri intervenuti, Davide Ascenzi, tutti assolti sia in primo grado che nel processo d’appello. I militari bloccarono Magherini mentre, sotto l’effetto di cocaina e in preda ad allucinazioni, convinto di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo, invocava aiuto in Borgo San Frediano, nel cuore del suo quartiere. Magherini quella sera era uscito a cena in un ristorante, poi aveva iniziato a vagare per le strade del quartiere gridando che gli avevano rubato portafoglio e cellulare. Era quindi entrato in una pizzeria dove aveva continuato a dare in escandescenze. Tornato in strada, era stato bloccato dai carabinieri e ammanettato a terra, a pancia in giù e a torso nudo, per almeno un quarto d’ora. All’arrivo di un’ambulanza senza medico a bordo, l’ex calciatore fu trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove alle 2.45 ne venne constatato il decesso. I militari, secondo quanto è stato ricostruito nel corso dei due processi, ammanettarono Magherini a pancia in giù e lo tennero così per almeno 15 minuti, in una posizione che gli impediva di respirare regolarmente. Per l’accusa, i carabinieri furono responsabili, “in cooperazione colposa tra loro”, della morte del quarantenne avvenuta “per arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata a un meccanismo asfittico”. L’udienza si è conclusa intorno alle 15, la presidente, Patrizia Piccialli, ha congedato la corte annunciando “una lunga camera di consiglio”.

Magherini, le colpe dei carabinieri, «Lo tennero giù e morì asfissiato». Le motivazioni della sentenza d’appello. La famiglia: «Lo sapevamo», scrive Stefano Brogioni il 19 gennaio 2018 su "la Repubblica". Dopo che Riccardo Magherini venne immobilizzato, non doveva restare in posizione prona sull’asfalto. Tale «mantenimento e immobilizzazione», scrivono i giudici della corte d’appello nelle motivazioni della conferma della sentenza di condanna nei confronti di tre dei quattro carabinieri che intervennero quella notte del tre marzo del 2014, in Borgo San Frediano, fu letale per l’ex calciatore della Fiorentina. Le 45 pagine di sentenza del tribunale, presieduto dal giudice Romagnoli, dopo una ricostruzione degli eventi basata su testimonianze e consulenze, si concentrano dunque su quei minuti in cui Magherini, in stato di agitazione dovuto anche all’assunzione di cocaina, diventò silenzioso. Proprio le sue condizioni, evidenziano i giudici, «imponevano di limitare al massimo l’uso della forza» da parte dei carabinieri. Anche se la cocaina non avrebbe potuto aver l’esito nefasto poi verificatosi: «Tale intossicazione di per sé sola non l’avrebbe condotto al decesso», si legge ancora nelle motivazioni, «così come non avrebbe condotto al decesso una persona sana e senza alcuna alterazione delle proprie funzioni, la sola posizione prona coatta». Ma il «mantenimento e immobilizzazione» di Magherini a pancia in giù, steso sull’asfalto, «gli impedì l’apporto di ossigeno che gli era necessario». Circostanza che, scrivono ancora i giudici, «fu per lui letale, e in tale condotta si ravvisa la colpa dei carabinieri: in particolare nell’aver trascurato di considerare che il placarsi delle sue grida e l’affievolimento della voce significavano, o comunque potevano significare, una grave sofferenza asfittica, e non giustificavano il permanere della posizione prona». «Se Riccardo Magherini fosse stato liberato dalla posizione prona quando manifestò i segni di calma, invero sofferente, le sue condizioni sarebbero state clinicamente valutabili e si sarebbe potuto prevenire l’arresto cardiaco». «L’immobilizzazione di Magherini nelle mani e nei piedi in una diversa posizione era ben possibile – concludono i giudici -, considerato il numero dei carabinieri presenti, e avrebbero impedito ulteriori sue condotte dannose per sé o altri». Sulla base di queste motivazioni, sono state confermate le condanne di primo grado a sette mesi per i carabinieri Stefano Castellano e Agostino La Porta e otto mesi per Vincenzo Corni. Per Corni, i giudici dell’appello hanno disposto la trasmissione degli atti alla procura: il pubblico ministero dovrà valutare se la sua condotta (calci all’indirizzo di Magherini durante le fasi dell’immobilizzazione) configurino il reato di abuso di autorità nei confronti di persona in custodia. I giudici, infine, «scagionano» la figura dei volontari della Croce Rossa, rimasti a distanza proprio a causa della situazione «insicura» prospettata dagli stessi carabinieri. «E’ la conferma che Riccardo non sarebbe morto senza quell’intervento – dice il padre Guido - ma sono cose che sapevamo sin dall’inizio».

Magherini: intervento carabinieri fu concausa della morte. Magherini, le colpe dei carabinieri: “L'immobilizzazione impedì l'apporto di ossigeno”. Le motivazioni della sentenza di condanna per la morte dell'ex calciatore: fatale il mantenimento della posizione prona, scrive il 19 gennaio 2018 Firenze Today. “È indubbia l'intossicazione da cocaina, ma di per sé non avrebbe condotto al decesso”. Così si legge nelle motivazioni con le quali la terza sezione penale della Corte d'Appello di Firenze ha condannato il 19 ottobre scorso i tre carabinieri imputati per la morte di Riccardo Magherini, ex calciatore delle giovanili della Fiorentina, avvenuta durante un fermo nella notte del 2 marzo 2014. Due di loro furono condannati a 7 mesi, uno a 8 di reclusione. Le motivazioni della sentenza di appello - che quindi in parte ribaltano quelle della sentenza di 1° grado - pongono invece l'accento sulle modalità di interventoe di fermo prolungato, a pancia in giù, da parte dei militari, anche dopo che Magherini si era calmato. “Il mantenimento e l'immobilizzazione di Magherini nella posizione prona che gli impedì l'apporto di ossigenoche gli era necessario fu per lui letale, e in tale condotta si ravvisa la colpa dei carabinieri: nell'aver trascurato di considerare che il placarsi delle sue grida e l'affievolimento della voce, e l'assenza di movimento del corpo, significavano o potevano significare una grave sofferenza asfittica”, scrivono i giudici. Il collegio, presieduto da Luisa Romagnoli, aggiunge che “non avrebbe condotto al decesso una persona sana e senza alcuna alterazione delle proprie funzioni, la sola posizione prona coatta”. Ma Magherini in quel momento non era in tali condizioni fisiche, ma “alterato gravemente e soprattutto palesemente”. Proprio per questo “la posizione prona che gli impedì l'apporto di ossigeno che gli era necessario, fu per lui letale”. I giudici riconoscono che ci fossero inizialmente i presupposti per fermarlo, ammanettarlo e metterlo in posizione prona (cioè a pancia in giù) ma in un secondo momento “considerato il progressivo attenuarsi della sua agitazione fino alle parole 'sto morendo' e poi al silenzio, i carabinieri avrebbero dovuto porlo seduto o quanto meno supino”, non essendoci più elementi che “giustificavano il mantenimento nella posizione prona”. Se messo in altra posizione, concludono i giudici, “si sarebbe potuto prevenire l'arresto cardiaco”. Nella sentenza dell'ottobre scorso veniva invece confermata l'assoluzione per le volontarie della Croce Rossa intervenute quella sera.

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Firenze. Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.

Milano. Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto. Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti, intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.

Frosinone. In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006. I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.

Monza. Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.

Napoli. Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.

Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana. Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale. Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi. Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi. Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità. Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più. E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.

Magherini come Aldovrandi?  Si chiede Silvia Mari su “Altre notizie”. “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre. I fatti di quella notte, 3 marzo scorso, sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine. Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole. L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento. Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi. La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare,  preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare. Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”, che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini. E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime. Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti. Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.

Caso Magherini, "omicidio colposo in concorso: indagati anche gli operatori del 118. Altri due sanitari nei guai. E ora le persone coinvolte sono undici, scrive  di Gigi Paoli su “La Nazione”. E siamo ad undici. Tante sono le persone che il sostituto procuratore Luigi Bocciolini ha iscritto nel registro degli indagati per l’ancora misteriosa morte di Riccardo Magherini, il quarantenne colpito da un malore fatale dopo aver avuto una colluttazione con i carabinieri che lo stavano arrestando nella notte fra il 2 e il 3 marzo scorso in San Frediano. E’ infatti notizia di ieri che gli inquirenti hanno deciso di procedere anche nei confronti dei due centralinisti della centrale operativa del 118 che materialmente ricevettero le telefonate di richiesta di intervento: uno è colui che parlò con i carabinieri, l’altro è colui che smistò le ambulanze per dirigerle, prima una con tre volontari e poi l’altra con medico e infermiere, in borgo San Frediano. Per entrambi l’accusa è omicidio colposo in concorso ed è la stessa che viene avanzata nei confronti dei cinque sanitari intervenuti sul posto. Una ben più grave contestazione di omicidio preterintenzionale colpisce invece i quattro carabinieri che fisicamente bloccarono Magherini, in evidente stato di alterazione psico-fisica, fino a spingerlo a terra ammanettato pancia a terra. In questa posizione rimase bloccato fino a quando non ci si accorse che l’uomo non respirava più. Al centro dell’inchiesta c’è sia il presunto eccesso di violenza dei militari al momento del fermo sia il modo in cui lo stesso Magherini venne immobilizzato: secondo l’esposto presentato dai familiari dell’uomo, il quarantenne «risulta essere stato immobilizzato con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto». E ancora: «Nel lungo arco temporale iniziato ‘qualche minuto prima’ che arrivasse la prima ambulanza fino a quando è arrivata la seconda ambulanza con l’avvio delle manovre di soccorso (almeno 15 minuti), Riccardo era già divenuto totalmente silenzioso e immobile». Nonostante questo «i quattro militari intervenuti hanno invece deciso di continuare a tenere Riccardo immobilizzato nella medesima posizione, continuando a esercitare pressione sul dorso».

Magherini, le chiamate di quella notte, scrive “La Nazione”. Le telefonate dei testimoni e quelle tra polizia, 118 e carabinieri nella notte del 2 marzo quando in Borgo San Frediano, a Firenze, è morto Riccardo Magherini, l'ex calciatore della Fiorentina durante un concitato arresto da parte dei carabinieri. Sono le una del mattino, quando alla centrale del 112 arriva la prima richiesta di intervento: “ci siamo svegliati, si sentiva urlare delle persone che chiedevano aiuto”, racconta un residente. Nel giro di pochi minuti da Borgo San Frediano partono altre chiamate dello stesso tenore. Poco dopo l'arresto, la centrale dei carabinieri avverte i colleghi della questura: “l'abbiamo trovato, è uno ubriaco, a petto nudo, che spaccava macchine”. Un particolare poi smentito da tutti i testimoni, secondo i quali Magherini quella notte non appariva né violento o pericoloso, ma solo terrorizzato. La prima chiamata al 118 parte alle 1,21. Arrivati sul posto, gli operatori della prima ambulanza chiedono l'intervento di un medico. “dicono che ha tirato le manette in testa a un carabiniere adesso ne ha due sopra per tenerlo fermo e fino a quando non arriva il medico non lo lasciano più”. All'inizio gli operatori della centrale non capiscono la gravita della situazione e ci scherzano su: “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E' il medico intervenuto con la seconda ambulanza che fa partire l'allarme, annunciando il trasferimento di urgenza all'ospedale di Santa Maria Nuova: “paziente trovato immobilizzato in asistolia, sto massaggiando”. Quando l'operatore del 118 chiede se il ragazzo ha preso droga, il medico risponde con la voce spezzata dalla tensione: “Per ora digli così, poi ne riparliamo”.

Le telefonate tra carabinieri e 118 con tono tranquillo: "C'è uno a petto nudo in mezzo alla strada", poi la situazione che precipita, fino alla telefonata del medico del 118 che comunica alla centrale che "il ragazzo è in acr (arresto cardio respiratorio, ndr)". E' tutta in una decina di telefonate la vicenda di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato bloccato dai carabinieri in Borgo San Frediano a Firenze in seguito a una crisi di panico che lo aveva portato alla perdita del controllo. Telefonate tra il 118 e i carabinieri e tra il 118 e l'equipaggio dell'ambulanza chiamata a soccorrere l'uomo. Una vicenda che ha fatto dibattere l'opinione pubblica e che ora rivive in quelle telefonate. La prima, intorno alle 1.20, è proprio dei carabinieri, che segnalano al 118 che "c'è un uomo completamente di fuori, a petto nudo. Ci sono già due mie autoradio che stanno cercando di calmarlo". I carabinieri dunque si rivolgono direttamente al 118 e chiedono di intervenire. Le telefonate continuano. L'ambulanza inviata sul posto all'inizio sembra, da quello che si capisce dalle telefonate, non riuscire a trovare il luogo dove i carabinieri hanno immobilizzato Magherini. "La mia pattuglia - dice un carabiniere - riferisce che l'ambulanza gli passa vicino ma non si ferma". Il disguido viene risolto e l'ambulanza arriva. In altre telefonate il 118 chiede all'equipaggio dell'ambulanza "quanti maschietti ci sono?", sottolineando che la persona da soccorrere, Magherini appunto, è in forte stato di agitazione. "E' mezzo nudo e ha tirato le manette in faccia a un carabiniere". I colloqui sono quasi scherzosi in alcuni punti. Sono tutte telefonate che avvengono tra le 1.20 e le 2. E la situazione sembra comune a tante altre che riguardano ubriachi o persone fuori controllo nel centro storico. Il tono delle telefonate cambia completamente dopo le due. Quando il medico del 118 inviato sul posto avverte la centrale. "Sto massaggiando, il ragazzo è in acr, sono per la strada", dice il medico con voce molto preoccupata.  "Io direi che lo metto sopra (ovvero nell'ambulanza, ndr) e avvisi Santa Maria Nuova (l'ospedale) che sto arrivando massaggiando". La centrale del 118 avvisa a quel punto l'ospedale. Riccardo Magherini non riaprirà mai più gli occhi. 

Le ultime grida di Magherini arrestato: ''Aiuto, sto morendo''. "Aiuto aiuto, sto morendo". Sono le ultime, strazianti parole di Riccardo Magherini, 40 anni, l’ex giocatore delle giovanili viola morto la notte tra il 2 e il 3 marzo in Borgo San Frediano, a Firenze, durante l'arresto dei carabinieri. La richiesta di aiuto è stata registrata con un telefonino da un residente affacciato alla finestra. Pochi minuti prima Magherini era stato bloccato mentre vagava in stato confusionale: "Aiuto, vogliono uccidermi", gridava. Arrivati sul posto i carabinieri lo immobilizzano al termine di un parapiglia, davanti a decine di persone affacciate alle finestre e a un gruppo di passanti. Sono le 1,25: un residente si affaccia alla finestra e gira il video, mentre Riccardo si trova ammanettato a terra in posizione prona, con quattro carabinieri che lo tengono fermo sull'asfalto. Nelle immagini non si vede niente, ma si sentono le invocazioni di aiuto: "Mi sparano","ho un figlio", "sto morendo". Poi, all’improvviso, Riccardo smette di urlare e di dimenarsi. Per chiarire le cause della tragedia la magistratura ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. L'autopsia ha escluso che la morte sia stata provocata da percosse. Sono in corso gli esami istologici e tossicologici che dovrebbero indicare la causa della morte e chiarire se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. Chi l'ha visto ricostruisce la cronologia delle telefonate tra residenti e soccorsi. Chiamate di soccorso ancora sotto accusa, quella dell'opinione pubblica. Così potrebbero essere riassunte le telefonate di quella tragica notte fiorentina che ha visto Riccardo Magherini in San Frediano scappare da una presunta minaccia di morte, entrare e uscire dai locali, rompere alcune vetrine e finire la sua corsa tra le braccia dei carabinieri. La trasmissione di Rai 3 ha riproposto le conversazioni tra residenti allarmati e forze dell'ordine. Ma anche le chiamate avvenute tra gli stessi addetti ai lavori e proprio queste hanno suscitato imbarazzo e polemiche anche e soprattutto a Firenze. Al centralino qualcuno prende le notizie con leggerezza, altri se la ridono. "Un uomo a torso nudo… rompe delle auto in sosta" non è una bella immagine quella che arriva attraverso l'etere a chi deve intervenire e non ha modo di valutare personalmente la scena. I cittadini sono preoccupati per le urla che provengono dalla strada, sollecitano l'intervento dei soccorsi. Quando l'ambulanza non trova le pattuglie dei carabinieri accade l'incredibile: "I carabinieri dicono che state passando ma non vi vedono" è la segnalazione del centralino alle ambulanze. Tra gli indagati ci sono i carabinieri, a causa del modus operandi sul fermo, ma anche alcuni dei soccorritori per presunte irregolarità commesse nel corso dell'intervento. Il quadro che ne esce non mette in buona luce gli operatori, rischia anzi di compromettere il rapporto di fiducia tra soccorso pubblico e cittadinanza.

Magherini, la difesa dei volontari:"Le manette ostacolarono l'intervento". "Quel video, quelle urla: quanto dolore...": parla il padre di Riccardo Magherini. Guido Magherini, padre di Riccardo, racconta la sua battaglia cominciata il 3 marzo dopo il fermo e la morte del figlio: "Ricky chiedeva aiuto, non aveva aggredito nessuno, scrive Selene Cilluffo su “Today”. Riccardo Magherini era un ex calciatore della primavera della Fiorentina. Nella notte tra 2 e il 3 marzo subisce un fermo da parte di alcuni carabinieri. Poco dopo è morto. Sul caso ancora tante le ombre. Ma ciò che è sicuro è l'impegno della sua famiglia per chiedere verità e giustizia. Per questo abbiamo parlato con suo padre, Guido Magherini.

Lei e Andrea, fratello di Riccardo, avete spesso sottolineato che il nonno della famiglia faceva parte dell'Arma dei carabinieri. Ha mai ricevuto solidarietà da parte di qualcuno dell'Arma dei carabinieri? Personale o pubblica?

"No, assolutamente, mai. A parte il primo giorno dove ci hanno mostrato vicinanza perché sono amico di alcuni di loro. Ma da quella volta lì, basta, nulla più".

Pochi giorni fa centinaia di persone hanno partecipato al Flash Mob per Ricky. Quanto è importante per Lei sentire la vicinanza di questa gente che vuole come la sua famiglia verità e giustizia?

"Un affetto così non pensavamo neppure di averlo. Abbiamo avuto la conferma che Riccardo era amato da tutti in un modo davvero bello, pulito. Le porto un esempio: siamo stati a "Chi l'ha visto" e Andrea ha detto che volevamo rispetto anche dall'avvocato che difende i carabinieri, che è pagato con soldi pubblici, come i suoi assisti. Poco dopo sulla pagina facebook gli amici del Maghero è arrivato un messaggio di una ragazza che lanciava l'idea di raccogliere fondi per le nostre spese legali. Noi l'abbiamo ringraziata, ma non vogliamo niente. Quello che abbiamo capito però è quello che stava dietro a questa proposta: un affetto davvero immenso".

Avete reso pubbliche immagini, video e molto materiale sul caso. Perché è importante che la storia della morte di Riccardo si conosca?

"E' importantissimo: la gente deve capire che la Ricky ha subito un'ingiustizia. Io all'inizio neppure volevo sentirle le urla di Riccardo e non volevo vedere il video. Sono stati l'avvocato Fabio Anselmo e il senatore Luigi Manconi a convincermi. Quando ho sentito quella voce mi si è aperto e sanguinato il cuore. Continua a chiedere aiuto ma lo fa in maniera educata e lo ha fatto fino all'ultimo respiro. Se fosse successo a me gli avrei detto di tutto ai carabinieri e lui mentre veniva torturato non lo ha fatto. Noi non ce l'abbiamo con l'arma anzi vorremmo che chi fa bene il proprio lavoro prendesse le distanze da chi quella divisa non la merita".

Quindi anche Lei come Patrizia Moretti, Lucia Uva e Ilaria Cucchi pensa che chi porta una divisa e sbaglia deve togliersela?

"Quella divisa ha un senso di onore e chi si comporta male non deve indossarla. Ricky chiedeva aiuto, in più non aveva aggredito nessuno. I testimoni lo hanno smentito. Pensi che pure io all'inizio credevo a quello che mi era stato detto nonostante sia stato io a chiamare il brigadiere dei carabinieri per sapere cosa era successo a Riccardo. Lui mi rispose che era morto per infarto, che aveva fatto il pazzo, che aveva aggredito una donna. Poi c'è stato un momento in cui ho capito che qualcosa non andava. Fino a che noi non abbiamo denunciato i militari e i paramedici l'unico indagato era Riccardo, mentre lui era una brava persona, onesta, leale ed educata. Adesso sappiamo la verità e andremo fino in fondo".

Patrizia Moretti è ancora impegnata dopo più di otto anni nella battaglia per chiedere verità e giustizia per Federico. La sua battaglia è appena cominciata. Fino a quando durerà?

"Ho 63 anni, sono in buona salute e posso andare avanti fino a che non vivo. Quando morirò io c'è Andrea, suo fratello. Poi ci sono i nostri nipoti Duccio e Brando. Fino a quando non avremo giustizia non ci fermeremo. Riccardo era una brava persona, hanno voluto farlo sembrare un delinquente. Noi siamo dalla parte della ragione, siamo noi la verità".

I legali dei soccorritori della Croce Rossa indagati: "Massaggio cardiaco mentre era ancora ammanettato", scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. “Riferendo i militari di una situazione altamente pericolosa, non è stato possibile prestare soccorso. Le reiterate richieste di togliere le manette o cambiare posizione al paziente, provenienti dai volontari della Croce Rossa, sono rimaste tutte vane. Il giovane è stato liberato dalle manette solo a massaggio cardiaco già iniziato”. E' la difesa dei legali dei tre volontari della Croce Rossa indagati per il caso Riccardo Magherini, morto la notte del 2 marzo in Borgo San Frediano durante un fermo dei carabinieri. I volontari sono indagati per omicidio colposo insieme a due operatori del 118 che coordinarono le operazioni di soccorso e al medico e all'infermiere che tentarono di rianimare Riccardo. Sul registro degli indagati anche i 4 militari intervenuti sul posto accusati di omicidio preterintenzionale. Sono le 1,32 quando l'ambulanza con i tre volontari arriva in Borgo San Frediano. “Mentre i volontari cercavano di avvicinarsi alla persona immobilizzata- dicono gli avvocati Massimiliano Manzo e Andrea Marsili Libelli- un carabiniere è andato loro incontro chiedendo in maniera vistosamente agitata, quasi aggressiva, se fra di loro vi fosse un medico, in quanto la persona era pericolosa, violenta e necessitava di essere sedata. Diversi militari si alternavano nel tenere le mani ammanettate e dietro al schiena del soggetto: chi a cavalcioni, chi con un ginocchio, chi con le mani. Una delle volontarie chiedeva al caposquadra di informare la centrale operativa del 118 circa il fatto che i carabinieri impedivano qualsivoglia valutazione del paziente”. Tempo pochi minuti e sul posto arriva anche il medico chiamato per sedare Riccardo. “Il medico chiedeva di togliere immediatamente le manette, giacché, diversamente, qualsiasi manovra di soccorsa sarebbe stata del tutto inefficace, se non impossibile- spiegano ancora. Tuttavia i militari riferivano di non trovare le chiavi delle manette, per cui i primi soccorsi (finalmente autorizzati dai militari) sono stati posti in essere con Magherini ancora ammanettato”. Chiusura, infine, sulle dichiarazioni dei tre volontari rese poche ore la tragedia davanti agli stessi carabinieri. Una testimonianza che sarebbe stata viziata da un pesante condizionamento psicologico: “Alle tre di notte due militari già presenti in Borgo San Frediano hanno sentito a sommarie informazioni uno dei volontari, nella stessa stanza con il corpo di Magherini, con comprensibile sgomento della stessa. Ed in un simile contesto, la volontaria, ancora tremante per la morte del giovane avrebbe potuto dichiarare qualunque cosa, decidendo lo stesso militare come e cosa inserire nel verbale. Tali accertamenti - concludono gli avvocati - sono viziati da assoluta nullità, del tutto inutilizzabili”. La Replica. "Leggo, oserei dire, con stupore il comunicato stampa dei difensori dei volontari della Croce Rossa che contiene la segnalazione di svariati profili di indagini tuttora in corso di accertamento". Lo dice in una nota l'avvocato Francesco Maresca, difensore dei quattro carabinieri indagati con l'accusa di omicidio preterintenzionale. "Nello stigmatizzare ancora una volta la scelta di utilizzare i giornali per presentare le proprie valutazioni processuali - continua Maresca - sono costretto a ricordare che i carabinieri intervenuti, come risulta agli atti, hanno reiteratamente richiesto e sollecitato l'intervento del 118, e quindi che gli stessi abbiano poi ostacolato gli accertamenti dei sanitari appare oggettivamente incomprensibile". E questo "sia in riferimento al caso specifico ma, ancor più, in riferimento in generale a tutti gli interventi svolti dagli operatori dell'Arma dei carabinieri" aggiunge. "Peraltro, le sommarie informazioni assunte da una dei volontari della Cri risultavano, evidentemente, prassi di indagine nell'immediatezza del decesso di una persona, così come sempre vengono svolte dagli operatori di polizia giudiziaria in seguito a un episodio del genere" prosegue la nota dell'avvocato. "Dichiarazioni poi confermate nel loro tenore dalla stessa operatrice successivamente davanti alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero e riscontrate nel contenuto circa lo svolgimento dei fatti anche da quelle degli altri volontari anch'essi sentiti nell'immediatezza e successivamente. Quale difensore dei carabinieri indagati, resto in attesa della conclusione delle indagini preliminari, ritenendo che l'intervento degli stessi è stato realizzato secondo protocollo". "Aumentano le persone da querelare per il collega Francesco Maresca". Lo dice l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino morto in strada nella notte tra il 2 e il 3 marzo, dopo l'arresto, commentando il comunicato stampa dei difensori dei tre volontari della Cri, indagati insieme ai carabinieri, a 2 sanitari e a 2 operatori del 118 nell'inchiesta sulla morte dell'uomo. "Prendo atto di quanto accadde durante l'intervento - conclude l'avvocato Anselmo riferendosi alla ricostruzione dei legali dei volontari dell'ambulanza intervenuti sul posto -: presto decideremo cosa fare con la famiglia Magherini".

Morte di Magherini, la Procura: «Processate militari e soccorritori». Si tratta di quattro carabinieri e tre volontari accusati di omicidio colposo. Il fratello della vittima: «Non finirà come il caso Cucchi, qui ci sono stati testimoni», scrive Antonella Mollica su “Il Corriere della Sera”. La Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone per la morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore di 39 anni morto durante l’arresto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorso mentre era in preda a una crisi di panico scatenata dalla cocaina. Nella richiesta inviata al gip il pm Luigi Bocciolini e il procuratore capo Giuseppe Creazzo contestano in reato di omicidio colposo per quattro carabinieri e tre volontari che quella notte intervennero in Borgo San Frediano con l’ambulanza del 118 dopo che Magherini era stato fermato. A uno dei militari viene anche contestato il reato di percosse per alcuni calci che sarebbero stati sferrati mentre Magherini era a terra, già immobilizzato e ammanettato. Magherini, secondo la ricostruzione dei consulenti medico legali della Procura, morì per la excited delirium syndrome causata dalla cocaina e dall’asfissia determinata dalla posizione in cui venne tenuto quella notte: per oltre 20 minuti in posizione prona, con le braccia ammanettate dietro la schiena. La famiglia: nostro avversario è la prescrizione. «Le richieste di rinvio a giudizio sono una bella notizia. E ciò che differenzia la vicenda di Riccardo dalle altre, penso a quella di Cucchi, è che è successo tutto in una strada, con testimoni alle finestre», commenta Andrea, fratello di Riccardo Magherini. «Il nostro avversario è la prescrizione - ha aggiunto il padre Guido - Siamo contenti di andare a processo, è già un ottimo risultato, visto anche come vanno a finire altre vicende, come quella di Stefano Cucchi».

Secondo quanto dichiarato dall'Asl di Firenze alle 1.23 del 4 marzo 2014 il 118 di Firenze riceveva la chiamata dei carabinieri per un uomo in forte stato di agitazione. Alle 1.33 il personale paramedico è intervenuto sul posto trovando però l'uomo in un fortissimo stato di agitazione e hanno chiesto l'intervento di un medico per la sedazione arrivato alle 1.44. Secondo quanto comunicato dall'azienda all'arrivo del medico l'uomo si sarebbe già trovato in arresto cardiaco. Dopo vari tentativi di rianimazione è stato deciso il trasporto alle 2.12 verso l'ospedale di Santa Maria Nuova dove l'ambulanza è giunta alle 2.25. Alle 2.45 è stato dichiarato il decesso.

Riccardo Magherini, nuova vittima della malapolizia? Si chiede “Articolo 3”. Lo conoscevano, nel capoluogo toscano. Era stato una giovane promessa del calcio fiorentino e, proprio con la Primavera viola, vinse il torneo di Viareggio del '92, vetrina per giovani campioni. Il suo nome tra i "big" sembrava già scritto, se non che, proprio in quell'occasione, un infortunio gli costò la rottura dei legamenti e la distruzione di un sogno. Riccardo Magherini: si chiamava così, quel giovane campione che vide le sue ambizioni spazzate via, 22 anni fa. Tentò ancora fortuna nel calcio australiano, ma inutilmente. Tornato in Italia poco tempo dopo, disse semplicemente addio al mondo nel pallone, per ricominciare una vita nuova, lasciando che la sua passione restasse un ricordo, il suo nome ricordato dai più fedeli appassionati. Certo non poteva immaginare che il suo stesso nome sarebbe finito sulle pagine dei giornali, nella cronaca nera, per una morte tanto controversa quanto misteriosa. Perché Magherini è deceduto così: inspiegabilmente, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, mentre i carabinieri tentavano di arrestarlo. Il suo cuore ha smesso di battere, probabilmente per infarto, e le ricostruzioni di quei momenti sono contrastanti, poco chiare. Magherini si trovava a Firenze, in pizzeria, ieri sera. Era con un gruppo di amici, una serata in compagnia forse organizzata per sollevargli il morale: da pochi giorni si era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto anche una figlia, ora di due anni, ed era tornato a vivere con la madre, a quarant'anni. Una pausa, quella cena, anche dal suo lavoro, che alcuni hanno definito stressante: curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi in Toscana. Durante la cena era parso iperattivo, ma non aveva dato alcun segno di una crisi imminente. Quella che, invece, lo ha colpito nel momento in cui i suoi amici l'hanno lasciato solo. "Qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa", riferiscono fonti del comando provinciale dei carabinieri, riportate da Repubblica. Ha iniziato ad agitarsi: ha tentato di sfondare alcune vetrine e ha sottratto un cellulare ad un cameriere del locale "Borgo la pizza". "Mi vogliono sparare", aveva denunciato, "fammi chiamare la polizia". E poi la frenesia: in strada si è messo a correre e urlare, svegliando tutti. Ha rincorso addirittura un'automobile, per poi introdursi nell'abitacolo. "Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola", ha spiegato la proprietaria, interpellata sempre da Repubblica. A quel punto sono giunti i carabinieri, allertati dalla cittadinanza. In due. Con le mani alzate, si sono avvicinati all'ex campione che, però, ha reagito con violenza: spintoni e pugni. Immediatamente, sono giunti i rinforzi: altri due uomini in divisa hanno raggiunto Magherini e l'hanno bloccato. Immobilizzato in terra dai quattro militari, sull'asfalto di Borgo San Frediano, l'uomo è morto. Era da poco passata l'1 di notte, la chiamata al 118 è partita infatti all'1.23. Alle 2.45, Magherini è stato dichiarato deceduto, stroncato dall'arresto cardiaco. Ma i dubbi sono tanti. Chi era in strada, ieri sera, offre versioni discordanti. C'è chi parla di un intervento legittimo e regolare, chi, invece, getta ombre pesanti sul modo di operare dei 4 militari. Magherini "era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia", ha raccontato una giovane al quotidiano di De Benedetti. "Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere." Il pm Luigi Bocciolini ha disposto l'autopsia: si vuole chiarire se le denunce di violenza possano essere attendibili. "Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto", ha chiosato il padre, Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, intervistato da La Nazione. "Per me, è morto dalla paura. L’ho visto, Riccardo: ha il viso pieno di ematomi." A dimostrarlo, ci sarebbero delle fotografie, scattate dal fratello della vittima. Il volto, in effetti, presenta alcune escoriazioni, che potrebbero, però, essere state causate dall'attrito con l'asfalto. Resta da chiarire anche cosa possa aver scatenato la crisi. Secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un violento attacco di panico, dovuto all'assunzione di farmaci antidepressivi e alcool.

Riccardo Magherini: la strana morte durante l’arresto dei carabinieri, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva gridato. Ha perso la vita, stroncato da un infarto sull'asfalto di San Frediano, a Firenze, immobilizzato per terra mentre cercavano di arrestarlo. Contrastanti le ricostruzioni: alcuni testimoni hanno denunciato presunte violenze. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva denunciato Riccardo Magherini, ex giovane promessa della Fiorentina. Poi, dopo aver sfondato delle vetrine e rubato un cellulare, ha perso la vita. Stroncato da un infarto, mentre veniva immobilizzato per terra da quattro carabinieri che cercavano di arrestarlo. Non mancano le perplessità sulla controversa morte dell’ex calciatore, oggi 40enne, deceduto sull’asfalto di una strada di Borgo San Frediano, a Firenze. Tra i testimoni c’è chi ha denunciato di aver visto gli agenti colpire l’uomo con calci all’addome. E chi, al contrario, ha spiegato come tutto sia avvenuto in modo regolare. Attesi per oggi i risultati dell’autopsia, che potranno svelare maggiori dettagli sulla vicenda. Nonostante le discordanze, in base al racconto di alcuni testimoni si è tentato di ricostruire il caso. Repubblica ha riportato la versione del comando provinciale dei carabinieri: «L’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Correva per strada, Riccardo Magherini. Chiedendo aiuto, urlando, in forte stato confusionale. «Mi vogliono sparare», gridava, denunciando di essere inseguito e di voler chiamare la polizia. Forse vittima di un violento attacco di panico, aveva sfondato alcune vetrine e rubato un telefonino a un lavoratore del locale «Borgo la Pizza». Per poi cominciare a rincorrere un’automobile, riuscendo a entrare nella vettura. «Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola», ha raccontato a Repubblica la proprietaria. All’arrivo degli agenti, avrebbe reagito con urla e spintoni. In quattro l’hanno immobilizzato. L’uomo ha cercato di resistere, poi ha smesso di dimenarsi, vittima di un infarto. Inutili sono stati i tentativi di rianimarlo. Ma sulla strana fine non mancano i dubbi: non sono ancora emerse responsabilità dei carabinieri intervenuti, ma è stato il pm Luigi Bocciolini a disporre per oggi l’autopsia, nel tentativo di verificare se le denunce di presunte violenze siano attendibili.  Sposato e padre di una bambina di 2 anni, era andato a vivere dalla madre, dopo la separazione dalla moglie, soltanto pochi giorni fa. Il padre Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, ha spiegato alla Nazione di voler aspettare l’autopsia per capire come comportarsi: «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi», ha denunciato. Il fratello di Riccardo ha fotografato il corpo. Secondo un primo esame esterno, il volto presenta alcune escoriazioni. Come spiega il quotidiano del gruppo QN, il familiare ha tentato di ripercorrere le ultime ore del figlio.  «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici», ha spiegato. Giovane promessa del calcio fiorentino, Riccardo Magherini aveva anche vinto con la Primavera viola allenata da Mimmo Caso il torneo di Viareggio del 1992. Ma un grave infortunio – nella semifinale di quel torneo – gli costò la rottura dei legamenti, contribuendo a spezzare le sue ambizioni. Aveva tentato anche fortuna nel calcio australiano, per poi tornare in Italia e abbandonare il mondo del calcio. Per il 40enne il calcio era ormai il passato: dopo aver passato diversi anni a Palermo, era tornato a Firenze, dove curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi, così come ha riportato il Corriere fiorentino. Forse è stato proprio il nuovo lavoro a procurargli dello stress. Avrebbe preso una tachipirina, dopo aver bevuto, secondo il racconto di alcuni amici. Un mix che potrebbe avergli causato un violento attacco di panico. Poi, la fuga per strada, le urla, la vetrina sfondata. E, dopo l’arrivo degli agenti e la colluttazione, l’infarto e la morte sull’asfalto di San Frediano.  Tutto in attesa dell’autopsia attesa dai familiari.

La scomparsa di Riccardo Magherini, il padre Guido: "E' morto dalla paura...". "È morto d'infarto in circostanze da chiarire", ha concluso il padre, che non sa trovare una spiegazione a quanto accaduto. "Abbiamo già preso contatto con un medico legale che prenderà parte all'autopsia. Solo dopo decideremo se presentare una denuncia", scrive Stefano Brogioni su La Nazione.

La Nazione (Stefano Brogioni) ha raccolto il dolore di Guido Magherini, padre di Riccardo, scomparso prematuramente l'altra notte sui cui le dinamiche devono ancora essere chiarite... Alla Famiglia Magherini le più sentite condoglianze dalla redazione di Fiorentina.it e dai tifosi viola per la scomparsa di Riccardo. «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici». Ma Guido Magherini, ex calciatore di Rondinella, Milan, Lazio e Palermo, vuole vederci chiaro sulle cause dell’infarto che avrebbe stroncato la vita, ad appena quarant’anni, di suo figlio Riccardo. All’autopsia, disposta oggi dal pm Luigi Bocciolini, parteciperà anche un perito nominato dalla famiglia. «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi». Assieme a Massimiliano Papucci, l’attuale allenatore della Rondinella e amico di vecchia data della famiglia, Guido ha ripercorso le tappe dell’ultima sera di Riccardo. Ha parlato con chi l’ha visto arrivare, delirante, confuso, e con chi ha tentato di aiutarlo prima che fosse troppo tardi. Ma gli interrogativi sono tanti. Troppi, davanti alla morte di uno sportivo amato e benvoluto. Il calcio, però, era ormai il passato di Magherini. Adesso, era concentrato — forse persino in ansia — per il suo nuovo lavoro: era diventato l’art designer di un ricchissimo arabo. In questo periodo, questa persona era venuta ad affrontare un’operazione chirurgica a Firenze. Riccardo stava curando questa sua trasferta nei minimi dettagli. «Questo gli aveva procurato dello stress», ammettono gli amici. Domenica sera, Magherini ha cenato in borgo San Frediano con il fratello dell’arabo, poi è rientrato in un hotel di Borgognissanti, dove aveva alloggiato anche lui per stare vicino al gruppo. «Riccardo non si era sentito bene, aveva preso una tachipirina. Ma ha anche bevuto», hanno ricostruito. Un mix che gli avrebbe scatenato una crisi. Quando si è ritrovato da solo, prima di andare a letto, avrebbe avuto un attacco di panico, forse addirittura delle allucinazioni. Smarrito, anzichè salire in camera, ha cominciato a vagare, senza il telefono che i carabinieri stanno ancora cercando. Ha attraversato il ponte, è arrivato in San Frediano. Casa sua. «Urlava ’aiuto, aiuto, mi vogliono ammazzare’», riferisce il padre, dopo aver parlato con i titolari dei locali visitati da Riccardo nel delirio. Infine, la colluttazione con i carabinieri. «Ne ha ferito uno quando aveva già il bracciale delle manette a un polso, colpendolo in fronte». E poi? «Quando è arrivata l’ambulanza, mio figlio era già morto». Per le risposte, quelle ufficiali, parola dunque all’indagine della procura. Riccardo, sanfredianino doc, dopo il calcio aveva gestito un negozio di abbigliamento nel suo rione. Non aveva problemi economici, nemmeno di droga, e, dice chi gli è stato vicino, anche la separazione dalla moglie «era una pausa di riflessione». Su Facebook, la bacheca dell’ex calciatore è intasata dagli addii di chi gli voleva bene. «Era un trascinatore, un leader, nel calcio e nella vita», dice Massimiliano Papucci. E scende una lacrima. Quella che hanno versato i tanti amici del Maghero.

E’ morto in circostanze strane l’ex biancazzurro Riccardo Magherini. Un pensiero di commozione affidato a Facebook dall’amministratore delegato dell’Ac Prato, Paolo Toccafondi che lo ricorda come un “imperdonabile splendido diverso”, scrive Pasquale Petrella su “Il Tirreno”. «Ciao Riky...ti voglio ricordare così...un imperdonabile splendido diverso...!!!» Sono queste le parole di commiato affidate a Facebook da Paolo Toccafondi, amministratore delegato dell’Ac Prato - società di calcio che milita in Prima Divisione - per Riccardo Magherini, giocatore biancazzurro nella stagione 1998/99, morto in circostanze alquanto strane il 3 marzo a Firenze all’età di 40 anni. "Era un bravissimo ragazzo, estroso, un pò naif - così Paolo Toccafondi - L'ultima volta che l'ho visto è stato circa un anno fa. So che faceva l'arredatore e che aveva fra i suoi clienti soprattutto dei facoltosi arabi. Ma il mio ricordo di Riccardo è legato soprattutto al periodo in cui abbiamo giocato insieme nel Prato nel 1998-99. Era la prima stagione da allenatore di Ciccio Esposito e abbiamo raggiunto anche la finale playoff. E ancora prima, quando sono stato una stagione a Foggia, abbiamo condiviso una parte del ritiro". "Sono estremamente dispiaciuto per lui e per la sua famiglia. Il Maghero, come lo chiamavamo, era un buono, fuori dagli schemi del calciatore tradizionale. Era di una grande semplicità. Era capace di dormire in una cantina come in un Grand Hotel con la stessa disinvoltura".

È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo aver creato non pochi problemi in un paio di pizzerie e ad un’automobilista costretta a scappare dalla propria auto, i carabinieri lo hanno immobilizzato e chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l'intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l'uomo in arresto cardiaco. Un'ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione.

4 marzo 2014, muore Riccardo Magherini: ecco le versioni date dai giornalisti.

Magherini jr, tragica fine, scrive “Sportal". Nel 1992, neanche diciottenne, era una promessa della Fiorentina di Mimmo Caso, tanto da vincere un Torneo di Viareggio. Nel 2014, a quarant'anni, ha trovato la morte dopo essere stato arrestato. E' tragica la storia di Riccardo Magherini, figlio dell'ex attaccante di Milan e Lazio Guido Magherini. Secondo quanto riferito da 'Il Tirreno', il 40enne era stato fermato in località Borgo San Frediano in stato confusionale mentre vagava seminudo. Dopo averlo immobilizzato, i carabinieri hanno chiamato il 118. I volontari della Croce Rossa hanno trovato l'uomo in stato di agitazione, tanto da richiedere l'intervento di un nuovo medico che però, accorso sul luogo dieci minuti dopo, ha trovato Magherini già in arresto cardiaco. Inutili i tentativi di rianimazione, l'ex promessa si è spenta in ospedale un'ora dopo. Secondo la ricostruzione de 'Il Tirreno', Magherini prima dell'intervento dei militari aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata e portato via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. In seguito era salito sul sedile posteriore di un'auto, spaventando la donna che si trovava al volante, che ha abbandonato la vettura. La scena si è ripetuta in seguito in un'altra pizzeria. All'arrivo dei carabinieri Magherini si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiamare un'altra pattuglia.

Muore in strada mentre lo arrestano. La Procura di Firenze apre un’inchiesta. Al momento del fermo il 40enne vagava in evidente stato confusionale.  Si pensa a un attacco cardiaco. Pochi giorni fa la separazione dalla moglie, scrive “La Stampa”. È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, 40 anni, fiorentino, ieri vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo averlo immobilizzato, i militari hanno chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l’intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione. Il pm Luigi Bocciolini ha aperto un’inchiesta, affidando gli accertamenti a un pool di carabinieri e poliziotti e disponendo l’autopsia, che sarà eseguita domani. Non ci sono indagati. Stamani i familiari del quarantenne sono stati all’istituto di medicina legale per vedere la salma. Sposato, fino a poco tempo fa titolare di un negozio nel centro di Firenze, da alcuni giorni Magherini si era separato dalla moglie ed era andato a vivere con la madre. Il padre, Guido Magherini, è stato un calciatore di serie A.  La scorsa notte, prima dell’arrivo dei militari, Magherini aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata, portando via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto, dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi era salito sul sedile posteriore di un’auto: al volante c’era una donna, che era fuggita impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, era entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri, si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari erano riusciti a immobilizzarlo a terra e ad ammanettarlo.  

Muore in strada mentre i carabinieri lo arrestano. Testimonianze contrastanti: “Preso a calci”, “Lo tenevano solo a terra”, scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. E’ morto sull’asfalto di Borgo San Frediano, circondato dai carabinieri e dai volontari del 118 che avevano invano cercato di rianimarlo. Riccardo Magherini aveva 40 anni, una moglie e un figlio piccolo di due anni. Nella notte tra domenica e lunedì ha perso la vita dopo essere stato arrestato: completamente fuori di sé, forse per un violento attacco di panico, ha sfondato la vetrina di una pizzeria e strappato il cellulare ad un dipendente: «Mi vogliono sparare, devo chiamare la polizia», ha detto. I carabinieri l’hanno bloccato in strada dopo un lungo parapiglia (4 militari sono stati curati con ferite guaribili tra i 2 e i 10 giorni), sotto gli occhi di decine di persone affacciate alle finestre e di alcuni passanti. Poi, mentre si trovava bloccato a terra, ha smesso di dimenarsi e di urlare. Stroncato da un infarto. La vicenda ha fatto scattare gli accertamenti da parte della procura, con il pm Luigi Bocciolini che ha disposto l’autopsia per chiarire con esattezza le cause della morte. Al momento non sono emerse responsabilità da parte dei carabinieri intervenuti, tanto che l’esame autoptico è stato fissato senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati. Sei persone hanno dichiarato che l’intervento è stato regolare, ma altri testimoni parlano di violenze. Secondo la ricostruzione del comando provinciale dei carabinieri, l’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Fatto sta che ha cominciato a vagare nel quartiere di San Frediano in stato confusionale, con urla così forti da essere sentite a centinaia di metri di distanza: «Si è presentato con l’aria sconvolta — racconta un lavoratore della pizzeria Borgo la Pizza — diceva che qualcuno voleva sparargli. Gli ho detto di calmarsi e che avrei chiamato la polizia, ma lui ha tirato una spallata alla vetrina, mi ha strappato il cellulare di mano ed è corso fuori». Pochi secondi e poi ha cominciato a rincorrere un’auto: «Ho visto che cercava di affiancarsi, ho accelerato ma è riuscito ad aprire la portiera e a salire in corsa — racconta la donna al volante — lo conoscevo di vista, non sembrava pericoloso ma era fuori di sé. Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola». L’arrivo delle gazzelle pochi istanti più tardi, dopo che l’uomo era entrato e uscito da un’altra pizzeria della zona (da Gherardo). I primi due carabinieri si sarebbero fatti avanti con le mani alzate nel tentativo di tranquillizzarlo, ma Riccardo avrebbe reagito con urla e spintoni. Sono arrivati i rinforzi e in quattro l’hanno immobilizzato dopo un lungo parapiglia. I primi soccorsi sono stati quelli dei volontari della Croce Rossa (la chiamata al 118 è delle 1.23), che hanno trovato l’uomo in gravi condizioni tanto da richiedere l’intervento di un medico. Poi le disperate operazioni di rianimazione, terminate alle 2.45 a Santa Maria Nuova con la constatazione di morte. Bianca Ruta, una studentessa di 26 anni che ha assistito alla scena dalla finestra, chiama in causa l’operato dei militari: «La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti». Un altro testimone dà una versione opposta: «Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani».

Riccardo Magherini è morto la notte tra 3 e 4 marzo 2014 per una crisi cardiaca che lo ha colpito durante l’arresto a Firenze, scrive “Blitz Quotidiano”. Magherini, 40 anni, era in forte stato confusionale e di agitazione dopo aver rubato un cellulare e distrutto alcune vetrine. “Mi vogliono uccidere, aiutatemi”, gridava ai negozianti e alle auto di passaggio. All’arrivo dei carabinieri di Borgo San Frediano l’uomo li ha aggrediti: è stato immobilizzato a terra e ammanettato, poi ha accusato il malore. Secondo alcuni testimoni però gli agenti non si sarebbero limitati ad immobilizzarlo, ma lo avrebbero picchiato mentre era giàò a terra. Per determinare le cause della morte il pm Luigi Bocciolini ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo. Secondo una prima ricostruzione, all’1 di notte del 4 marzo Magherini si aggirava a torso nudo in borgo San Frediano gridando in evidente stato di agitazione, dicendo che volevano ucciderlo e chiedendo aiuto. Prima dell’arrivo dei militari, in base alle testimonianze raccolte dagli investigatori, avrebbe sfondato la porta di una pizzeria facendo saltare la serratura con una spallata e ha chiesto aiuto al pizzaiolo, il solo rimasto all’interno, dicendo che era inseguito e che qualcuno voleva ucciderlo, quindi è uscito portandogli via il cellulare. Poi è salito sul sedile posteriore di un’auto in transito: la conducente, una ragazza, è scesa impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, è entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto, e ne uscito subito dopo urtando violentemente contro una porta a vetri e danneggiandola. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri si è scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari intervenuti sono riusciti a immobilizzarlo a terra e poi ad ammanettarlo. A chiamare il 118 proprio i carabinieri, ma all’arrivo dei sanitari circa 10 minuti dopo la chiamata hanno trovato Magherini in arresto cardiaco e dopo 40 minuti di tentativi di rianimazione l’uomo è stato dichiarato morto.  Non escluso, sempre secondo quanto spiegato dai carabinieri, che l’uomo avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. Sposato, padre di una bimba di 2 anni, da alcuni giorni si era separato dalla moglie e era andato a vivere con la madre. In base a quanto accertato dai carabinieri, fino a poco tempo fa era titolare di un negozio nel centro di Firenze. Ora il pm ha disposto l’autopsia sul corpo di Magherini, soprattutto dopo la dichiarazione di Bianca Ruta, studentessa di 26 anni, ha dichiarato a Repubblica di aver visto i militari picchiare l’uomo già a terra: “«La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti. Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani»”.

Polizia violenta?

Buffon accusa "Picchiato dalla polizia". Il portiere della Nazionale: "Sono stato aggredito da agenti in divisa dopo la partita di Firenze. Mi hanno tirato giù dall'auto. Poi le botte. Nessuno mi ha dato una spiegazione". A sentirlo raccontare, viene quasi da non crederci, ma Gigi Buffon non ha l'aria di chi ha voglia di scherzare, scrive il 14 giugno 2001 “La Repubblica”. Il portiere del Parma e della Nazionale spiega quello che gli è accaduto mercoledì sera dopo la finale di Coppa Italia e sembra incredulo pure lui: "Dopo la sconfitta con la Fiorentina mi è stato consigliato di incolonnarmi con la mia auto dietro i pullman che riportavano in Emilia i tifosi gialloblu. Giunti al piazzale del casello di Firenze Sud li ho superati ma sono stato fermato da una decina di poliziotti. Dopo essere stato tirato giù dalla macchina ho passato quindici secondi veramente infernali, nei quali ho preso anche dei calci e degli schiaffi. Non mi spiego il motivo per il quale sia successo tutto ciò e, d'altro canto, nessuno dei militari mi ha dato una spiegazione". Parla tutto d'un fiato, poi aggiunge: "Ho cercato di difendermi, poi ho sentito uno di loro che gridava, ma questo è Buffon, altri hanno però continuato a picchiarmi". Il portiere ripete che non riesce a spiegarsi cosa possa essere successo: "Mi hanno scambiato per un ultras all'inseguimento del pullman del Parma? Un ultras in Porsche? Davvero non capisco". Sin qui lo sfogo, poi Buffon però si ferma. Controlla gli aggettivi e dal suo vocabolario tira fuori il termine che gli sembra più appropriato: "E' stata una vaccata, anche loro se ne sono accorti. Fondamentalmente credo sia stato un po' eccessivo, anche se nulla di grave. Però credo che se avessi parlato subito dopo, i miei toni sarebbero stati diversi". Farà denunce? "No, dopo tanti casini che ho avuto, ho voglia di stare tranquillo". Il riferimento è alle polemiche sulla scritta "Boia chi molla" stampigliata sulla sua maglia, sulla scelta del numero 88, poi sostituito dal 77 dopo le proteste di esponenti della comunità ebraica (in entrambi i casi il portiere ha detto di essere stato all'oscuro dei significati politici delle due questioni) e al diploma di maturità falso che lo hanno portato al centro della cronaca non sportiva: "Ho avuto tanti casini che poi, addirittura quando non c' entro, mi buttano dentro. Questa volta credo di no". La chiusura è con battuta per sdrammatizzare: "Tutti tifosi giallorossi? Ma se erano quindici...mica potevano essere tutti della Roma....".

IL CASO DI GIUSEPPE UVA.

Milano, processo Uva: assolti in appello tutti gli imputati. Confermata la sentenza di primo grado del tribunale di Varese: i 2 carabinieri e i 6 poliziotti assolti "perché il fatto non sussiste", scrive il 31 maggio 2018 "La Repubblica". Assolti perché "il fatto non sussiste". La Corte d'Assise e d'Appello di Milano, chiamata a decidere sul caso dell'operaio di Varese morto la mattina del 14 giugno 2008 in ospedale, dopo aver trascorso la notte nella caserma dei carabinieri, ha confermato la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Varese. A processo a vario titolo per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona i due carabinieri intervenuti quella notte, Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco, e i poliziotti Vito Capuano, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Gioacchino Rubino. Giuseppe Uva fu fermato dieci anni fa, nel giugno del 2008, da due carabinieri mentre stava spostando delle transenne dal centro di Varese. Fu poi portato in caserma e infine trasportato con trattamento sanitario obbligatorio all'ospedale di Circolo di Varese, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco. Secondo il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo, che ha chiesto di condannare a 13 anni i due carabinieri e a 10 anni e mezzo i sei agenti, per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, la morte dell'operaio fu una conseguenza, insieme ad altre cause, tra cui una sua pregressa patologia cardiaca, delle "condotte illecite" degli imputati. I due carabinieri secondo l'accusa decisero di "dare una lezione" al 43enne, che si sarebbe vantato di una presunta relazione sentimentale con la moglie di uno dei due. Diversa la tesi dei difensori degli imputati: non vi fu quella sera "nessuna macelleria e nessuna azione di violenza". L'accusa "è stata gonfiata" per effetto "di un aspetto mediatico e televisivo che ha spettacolarizzato la vicenda. La corte d'Assise e d'Appello di Milano ha dato loro ragione. "La legge non è uguale per tutti. Sono anni che infangate il nome di mia madre e di mio zio e non avete mai avuto rispetto della nostra famiglia". É stato questo lo sfogo di Angela, nipote di Giuseppe Uva, dopo la lettura della sentenza. "Quella sera abbiamo fatto soltanto il nostro dovere", ha dichiarato Paolo Righetto, uno dei due carabinieri assolti.

Caso Giuseppe Uva, carabinieri e agenti di polizia assolti anche in appello. La sentenza della Corte d'assise d'Appello conferma quanto stabilito dai giudici in primo grado. Su quella notte dell'agosto 2008 a Varese non ci sarà altra luce. Da dieci anni la sorella e la famiglia chiedono verità e giustizia. Cronaca di un iter giudiziario doloroso, scrive Francesca Sironi il 31 maggio 2018 su "L'Espresso". Giuseppe Uva, morto il 15 giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte in caserma a Varese Giuseppe Uva è morto mentre era nelle mani dello Stato. È seguendo quest'unica certezza, quest'unica insindacabile realtà di dolore in una nebbia di perizie, di opposizioni e silenzi, che la famiglia ha lottato per 10 anni, nella volontà di avere giustizia. Ma soprattutto di sapere la verità su quanto accaduto la notte fra il 14 e il 15 giugno 2008 quando Giuseppe, 43 anni, venne portato prima alla caserma dei carabinieri di Varese e da lì in ospedale per un Trattamento sanitario obbligatorio. La mattina dopo era morto. Il calvario di Lucia Uva, la sorella, inizia allora. Non solo per la sofferenza del lutto. Ma soprattutto, per gli ostacoli al fare luce sulle responsabilità di quanto accaduto quella notte. Oggi è arrivata la sentenza d'appello. Che confermando quanto stabilito dai giudici in primo grado, assolve i due carabinieri e i sei agenti di polizia per i quali il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo aveva chiesto condanne a oltre 10 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Assolti i due carabinieri e i sei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta a Varese circa dieci anni fa. È la sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano: i giudici hanno in sostanza confermato il verdetto di primo grado. Le accuse erano di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. H24, immagini Iacopo Altobelli, montaggio Valerio Argenio. Giuseppe Uva non sarebbe stato ucciso. Luce sulle sue ultime ore, non ci sarà. Per comprendere la complessità degli aspetti giudiziari di questa realtà però bisogna tornare indietro. Al 2013. Quando il ministro alla Giustizia Anna Maria Cancellieri decide di mandare degli ispettori per chiarire quanto sta accadendo a Varese su quella che definisce in Parlamento «una vicenda particolarmente dolorosa, tuttora con punti oscuri che devono essere chiariti, e rispetto ai quali non si è ancora pervenuti a una risposta giudiziaria convincente». Alla base del suo intervento c'è la decisione del Giudice per le indagini preliminari di rigettare la richiesta di archiviazione con cui il procuratore allora titolare del procedimento, Agostino Abate, chiudeva le indagini sulla morte di Uva. L'ex senatore Pd Luigi Manconi, all'epoca presidente della commissione Diritti umani del Senato, sostenendo la lotta della sorella disse: «non esagerava nel denunciare, quasi da sola le responsabilità di chi non aveva nemmeno voluto ascoltare un testimone oculare». Il Gip scrive che «Giuseppe Uva è stato percosso da uno o più presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali». Con cinque anni di ritardo quel testimone, Alberto Biggiogero, viene ascoltato. Il confronto dura più di quattro ore. Biggioggiero era con lui la sera in cui vennero fermati, ubriachi, dai carabinieri mentre spostavano transenne nel centro di Varese. E ai magistrati dice di averlo sentito urlare e chiedere aiuto una volta in caserma. Nel febbraio del 2017, Biggioggiero verrà arrestato per aver ucciso suo padre dopo una lite. Nel frattempo l'iter giudiziario sul caso Uva era ricominciato. Al centro ci sono gli agenti, carabinieri e forze di polizia, che avevano in custodia Uva nella prima parte degli eventi di quella notte. I medici responsabili del successivo Trattamento sanitario obbligatorio in ospedale vengono infatti assolti in altro processo. Gli avvocati della famiglia continuano quindi a sostenere che Giuseppe abbia subito violenze in caserma. Il primo procuratore aveva escluso qualsiasi abuso di potere. Il secondo arriva alle stesse conclusioni. E di nuovo è un giudice, in questo caso il Gup, a imporre il rinvio a giudizio degli agenti per abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità. Si celebra così un processo alla Corte d'assise di Varese. Siamo nel gennaio 2016, il procuratore incaricato chiede che gli agenti vengano prosciolti. «I carabinieri, quella sera, non hanno fatto altro che il loro dovere», dice: «I testimoni che hanno riferito di percosse o hanno ritrattato o sono stati smentiti dai fatti». La famiglia continua a sostenere il suo bisogno di giustizia. Non chiede risarcimenti, se non simbolici: un euro a capo d'imputazione. La sorella, Lucia, combatte solo per la verità. Lo fa anche con toni aspri, con i toni di chi si sente solo di fronte alle istituzioni a cui chiede spiegazioni; finisce denunciata anche lei, e poi assolta per un video su Facebook. Si arriva quindi alla sentenza di primo grado. Ad aprile del 2016 la Corte d'assise di Varese assolve tutti gli imputati. A luglio le 162 pagine della motivazione della sentenza spiegano perché la Corte ha stabilito che l'omicidio non sussiste. Le perizie, scrivono i giudici: «consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva». La sentenza viene impugnata dalla Procura generale di Milano. Per la prima volta, è il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo a chiedere la condanna degli imputati, perché la contenzione fisica a cui sarebbe stato sottoposto il 43enne, spiegava, per «violenta e ingiusta durata» doveva ritenersi «causativa del grave stato di stress che innestandosi in una preesistente patologia cardiaca ha determinato l'evento aritmico terminale e il decesso di Giuseppe Uva». Per questo aveva chiesto condanne per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, a 13 anni di carcere per i due carabinieri e a dieci anni e sei mesi per i sei poliziotti. Oggi, la sentenza della Corte d'assise d'appello. Che assolve in secondo grado tutti gli imputati.

«Giuseppe Uva morì per lo stress causato dai carabinieri». Il pg Massimo Gaballo ha chiesto condanne fino a tredici anni per tutti gli imputati che erano stati assolti in primo grado, scrive Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Tredici anni di carcere per due carabinieri e 10 anni e sei mesi per sei poliziotti. Questa è la richiesta da parte del pg di Milano Massimo Gaballo nei confronti degli imputati nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello per la morte di Giuseppe Uva, deceduto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese. Nella requisitoria, il pg di Milano, Massimo Gaballo, ha sottolineato che Giuseppe Uva morì "a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma, anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo". A ucciderlo, secondo il rappresentante dell’accusa, furono la "tempesta emotiva" e lo "stress" originati dal suo trasferimento in caserma illegittimo, non motivato dalla commissione di alcun reato e nemmeno da ragioni di identificazione dal momento che i carabinieri sapevano bene chi fosse per i suoi precedenti. Inoltre, il pg ha spiegato che è stata chiesta una condanna più lieve per i poliziotti perché a loro viene addebitata una condotta ‘ omissiva’. I reati contestati son omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale. Il processo in corso è scaturito dall’impugnazione da parte della procura di Milano della sentenza di primo grado del 2016 che aveva assolto i due carabinieri e sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva. Ma cosa accade a Uva? Tutto iniziò il 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini – compreso il processo con l’assoluzione poi impugnato non hanno chiarito cosa sia effettivamente successo durante le due ore in caserma. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, sempre a Varese. L’accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula piena nell’aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell’ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate divenne protagonista dell’incredibile interrogatorio all’unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accadde è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltanto “informata dei fatti” e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: “Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga”. Un’aria pensante, tanto che se ne occupò anche il Csm su questa vicenda dell’interrogatorio. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo, Giuseppe Uva era agitato, quasi incontenibile nella sua furia: “Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?”, si domandò la sorella Lucia. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell’uomo smetterà di battere per sempre. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia.

Caso Uva, il pg su poliziotti assolti: "Sentenza superficiale, durante il fermo patì stress mortale". "Fu omicidio": la Procura generale Milano ricorre contro assoluzione di sei agenti e due carabinieri per la morte dell'operaio deceduto dopo una notte in caserma, scrive il 4 ottobre 2016 "La Repubblica". Giuseppe Uva "Stress derivante dalla costrizione e privazione della libertà personale". E' quanto sostiene la Procura generale di Milano, a proposito della morte di Giuseppe Uva, nell'impugnazione in appello della sentenza con cui i giudici della Corte d'assise di Varese avevano assolto due carabinieri e sei poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. L'operaio morì in ospedale a Varese dopo essere stato portato in caserma, nel giugno del 2008. Il provvedimento, a firma del sostituto pg Massimo Gallo, definisce la sentenza di assoluzione, che aveva rilevato "l'insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere" dei componenti delle forze dell'ordine, "motivata in modo estremamente sommario". Il sostituto pg ritiene che sia configurabile il reato di omicidio preterintenzionale e del sequestro di persona di Uva in capo a tutti e otto gli assolti che accusa di aver sottoposto a "stress" mortale Uva, affetto da patologia cardiaca e, al momento del fermo in strada a Varese (come documentato dalle perizie mediche emerse durante il processo) da intossicazione etilica acuta e da farmaci. L'operaio gruista - definito in aula dalla difesa delle forze dell'ordine "un clochard sporco e puzzolente che viveva di espedienti" - era stato portato in caserma perché con un amico, entrambi ubriachi, stavano spostando delle transenne per strada. Nel ricorso è scritto che "gli odierni imputati, oltre a dover rispondere del delitto di sequestro di persona, aggravato dalla qualità di pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni, devono essere dichiarati responsabili anche del delitto di omicidio preterintenzionale". Avrebbero "posto in essere dolosamente condotte di costrizione fisica, dirette a commettere il delitto di lesioni personali e illegittima privazione della libertà personale che, per la loro condotta violenta e ingiusta e durata, devono ritenersi causative del grave stato di stress che, innestandosi in una preesistente patologia cardiaca, ha determinato l'evento aritmico terminale e il decesso di Giuseppe Uva". Il sostituto pg Gallo ritiene inoltre che la Corte d'Assise di Varese non abbia tenuto conto di alcune testimonianze chiave, quale quella di Alberto Bigioggero (che era con Uva la notte del giugno 2008 e raccontò delle urla dell'amico), e che non abbia eseguito sufficienti accertamenti sulle "presunte e pregresse motivazioni di inimicizia tra uno degli imputati e Giuseppe Uva riguardo a una presunta relazione extraconiugale dell'operaio con la moglie di un militare e una lite tra i due riferita, anche se per sentito dire, da alcuni testimoni. Per l'avvocato Piero Porciani, difensore di alcuni degli agenti di polizia assolti, "la politica deve restare avulsa dalle aule di Tribunale, ma purtroppo ancora una volta non lo è stata. Siamo stupiti ma non troppo di questa impugnazione - ha aggiunto - riteniamo che le pressioni mediatiche e politiche in questa vicenda siano state più che eccessive".

Caso Uva, la procura di Milano impugna la sentenza d'assoluzione, scrive Damiano Aliprandi il 30 settembre 2016 su "Il Dubbio". La procura di Milano ha impugnato la sentenza della Corte d'Assise di Varese che aveva assolto i due carabinieri e sei poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva, l'operaio deceduto la mattina del 15 giugno del 2008 dopo essere stato nella caserma dei carabinieri di Varese. I giudici, assolvendo i componenti delle forze dell'ordine avevano escluso il reato per «l'insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere». Al momento dell'assoluzione, dure furono le critiche da parte della sorella Lucia Uva. Ma non solo. Molto dura e articolata la fu la critica espressa dal presidente della commissione bicamerale per i Diritti umani e senatore Pd Luigi Manconi. «Un processo - aveva detto - condizionato da un'indagine condotta in maniera pedestre dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com'era fatale che si concludesse». Secondo il parlamentare «Abate ha dominato l'intera vicenda giudiziaria con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all'assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quest'ultimo comportamento Abate è stato infine trasferito. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l'altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. Con queste premesse, - aveva continuato Manconi - con una conduzione dell'indagine oscillante tra improntitudine e negligenza gravissima, tra abusi e illegalità, la sorte del processo era in qualche misura segnata. Resta il fatto, incancellabile, che della morte di Giuseppe Uva, di cui è certa l'illegalità del fermo e del trattenimento per ore in una caserma dei carabinieri, non conosciamo una plausibile ricostruzione». Tutto iniziò il 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini - compreso il processo con l'assoluzione - non hanno chiarito cosa sia effettivamente successo durante le due ore in caserma. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, sempre a Varese. L'accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula piena nell'aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell'ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate, insieme alla sua collega Sara Arduini, un anno e mezzo fa, divenne protagonista dell'incredibile interrogatorio all'unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accaduto è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltanto "informata dei fatti" e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: «Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga». Un'aria pensante, tanto che se ne occupò anche il Csm. Alberto Biggiogero era e rimane il testimone chiave di tutta la vicenda. Si trovava in un'altra stanza rispetto a quella in cui c'erano Uva e gli agenti. Alberto sentiva il suo amico lamentarsi e gridare «Basta!». Non sapendo cosa fare, chiamò il 118, la conversazione che ne seguì - tutta agli atti - ha del surreale: «Sì, buonasera, sono Biggiogero, posso avere un'autolettiga qui alla caserma di via Saffi, all'Arma dei Carabinieri?». «Sì, cosa succede?». «Eh, praticamente, stanno massacrando un ragazzo». «Ma in caserma?». «Eh, sì?». «Ah, ho capito, va bè, adesso la mando, eh?». «Grazie». Pochi minuti dopo è il 118 a chiamare la caserma per chiedere spiegazioni, e i carabinieri spiegano di essere soltanto in presenza di due ubriachi, ai quali verrà tolto il cellulare. Passano altri minuti e i ruoli si ribaltano: i carabinieri chiamano il 118 per chiedere un Tso. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo, Giuseppe Uva era agitato, quasi incontenibile nella sua furia: «Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?», si domanda la sorella Lucia. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell'uomo smetterà di battere per sempre. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all'uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. La notizia dell'impugnazione ha comunque riaperto il caso.

Varese, il caso di Giuseppe Uva "Massacrato di botte in caserma".

L'uomo fu picchiato per ore da poliziotti e carabinieri e morì: la denuncia di Manconi. Era stato fermato ubriaco alle tre del mattino del 14 giugno 2008.

Un altro dramma inquietante dopo quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Un ragazzo che chiama il 118 per chiedere un'ambulanza mentre sente le urla del suo amico nella stanza accanto, all'interno della caserma dei carabinieri di Varese. "Lo stanno massacrando" dice a bassa voce. Una "anomala presenza di carabinieri e poliziotti in quella caserma di via Saffi, dove per tre ore il fermato subisce violenze sistematiche e ininterrotte". Gli indumenti sporchi di sangue, le ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, le macchie rosse tra pube e ano. Il ricovero in ospedale alle 5 del mattino con la "somministrazione di medicinali incompatibili con lo stato di ubriachezza dell'uomo".

Dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto" ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, "resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all'interno della caserma di via Saffi". Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un'ambulanza. "Stanno massacrando un ragazzo" sussurra all'operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l'autoambulanza. "No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui - risponde un militare - ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi".

Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.

"Un caso limpido di diritti violati nell'indifferenza più totale - denuncia ora Luigi Manconi - . Infatti, per quanto accaduto all'interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti". "Al di là dei primi interrogatori nei giorni successivi di poliziotti e carabinieri, non è stato più sentito nessuno" denuncia l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha squarciato il velo di omertà nelle istituzioni su altri casi di violenze di appartenenti alle forze dell'ordine, come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Anche nella storia di Giuseppe Uva e nella sua ultima notte di vita, c'è ancora molto da chiarire. Gli interrogativi dei suoi parenti sono ancora tanti: perché in una caserma si riuniscono carabinieri e poliziotti? Come si spiegano le ferite e i lividi sul volto, il sangue sui vestiti, la macchia rossa tra pube e regione anale? Perché l'autopsia non ha previsto esami radiologici per evidenziare eventuali fratture? "Sono passati quasi due anni e non abbiamo avuto ancora giustizia - dice in lacrime Lucia Uva, sorella di Giuseppe - . Non sappiamo ancora perché nostro fratello è morto: se per le botte o per i farmaci somministrati in ospedale. Aspettiamo che un giorno qualcuno dica la verità".

Caso Uva: sanzionati i pm che coordinarono l'inchiesta. Per Agostino Abate le conseguenze più gravi: perdita di anzianità di due mesi e trasferimento a Como, dove era già stato spostato nell'ambito di un altro procedimento, scrive “Il Giorno” il 7 giugno 2016. Agostino Abate e Sara Arduini, i magistrati titolari del fascicolo sulla morte di Giuseppe Uva, deceduto all'ospedale di Circolo di Varese il 14 giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma di via Saffi, sono stati sanzionati dalla sezione disciplinare del Csm. Il tribunale delle toghe ha emesso la sanzione della censura, la meno grave, per Sara Arduini, tuttora pm a Varese, mentre per Agostino Abate la sanzione è la perdita di anzianità di due mesi e il trasferimento con la funzione di giudice a Como, dove era già stato trasferito lo scorso novembre nell'ambito di un altro procedimento. La decisione è stata presa dopo circa 3 ore di camera di consiglio. Arduini e Abate erano entrambi accusati di aver violato "i doveri di diligenza, laboriosità e correttezza, omettendo o ritardando il componenti di atti". E in particolare di aver trascurato la denuncia di Alberto Bigioggero, l'uomo portato assieme ad Uva in caserma, che aveva parlato di lesioni e percosse, e - dopo l'assoluzione dei sanitari e la trasmissione degli atti da parte del Tribunale - di aver ritardato per alcuni mesi l'iscrizione nel registro degli indagati di sette appartenenti alle forze dell'ordine. Secondo il sostituto pg della Cassazione Giulio Romano è stata "una notizia di reato finita in un limbo". Nella requisitoria, tenuta nell'udienza di ieri, il pg ha sottolineato che "non si tratta di valutare l'ambito decisionale del pm ma la correttezza delle procedure, che ad avviso dell'ufficio non c'è stata", con la conseguenza che "le forze dell'ordine sono state esposte ad una accusa dalla quale non si potevano difendere compiutamente, mentre altri hanno sospettato che questi ritardi, questa renitenza, nascondessero chissà che cosa". Il 15 aprile la Corte d'Assise di Varese aveva assolto carabinieri e poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale.

Sanzionati dal Csm i pm Abate e Arduini. Entrambi i pm, che indagarono sulla morte di Uva, si sono difesi da soli e hanno respinto le accuse. Ora hanno quindici giorni per il ricorso, scrive Simona Carnaghi l’8 giugno su “La Provincia di Varese”. Perdita di due mesi di anzianità e trasferimento a Como. È questa la sanzione comminata dal Consiglio Superiore della Magistratura al pm Agostino Abate, il primo magistrato che indagò sulla morte di Giuseppe Uva, avvenuta il 14 giugno del 2008, l’artigiano che fu fermato con l’amico Alberto Biggiogero in via Dandolo mentre, ubriaco, spostava delle transenne in mezzo alla strada. Uva fu portato nella caserma carabinieri di via Saffi dove rimase, lo ha stabilito il processo, circa 15 minuti, e morì alcune ore dopo all’ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Anche il pubblico ministero, Sara Arduini, è stata sanzionata dal Csm per il modo in cui ha condotto quell’inchiesta, e per lei è infatti arrivata una censura. I due pubblici ministeri indagarono insieme su quella morte mandando a giudizio i medici che ebbero in cura Uva. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha sostanzialmente accolto la richiesta avanzata dal sostituto procuratore generale della Cassazione Giulio Romano, davanti alla disciplinare del Csm, presieduta dal consigliere Antonio Leone. Il pg ha chiesto la sanzione della censura per il pm Arduini mentre per Abate, che al momento svolge funzioni di giudice a Como, la perdita di anzianità di 6 mesi e il trasferimento ad altro ufficio. I due magistrati - che davanti al tribunale delle toghe hanno deciso di difendersi da soli, e hanno respinto ogni accusa - sono finiti sotto processo disciplinare per essere «venuti meno ai doveri di diligenza, laboriosità e correttezza - si legge nell’atto di incolpazione formulato dalla Procura generale della Cassazione - omettendo e ritardando il compimento di atti relativi all’esercizio delle loro funzioni». Nell’ambito del processo penale sul caso Uva, la Corte d’assise di Varese aveva assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale sei poliziotti e due carabinieri «perché il fatto non sussiste». «Non si tratta di entrare nel merito delle valutazioni discrezionali del pm - ha detto il pg Romano - non ci interessano gli esiti processuali, ma a nostro parere non vi è stata correttezza nel seguire le norme procedurali». Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha da sempre sostenuto che il fratello fu picchiato a morte da poliziotti e carabinieri. Dal processo non è emerso nulla che facesse ipotizzare un simile scenario. Uva, tra l’altro, non presentava lesioni. Nulla che potesse indicare che fosse stato picchiato morte. Sul banco dei testimoni sono sfilati medici, infermieri, personale del 118: tutti hanno spiegato come Uva non presentasse segni di pestaggio, descrivendolo come estremamente agitato. Tre anni fa il procuratore facente funzione di Varese, Felice Isnardi, ripercorse l’intera inchiesta facendo nuove indagini e ascoltando nuovi testimoni. Quindi, come Arduini e Abate prima di lui, chiese l’archiviazione per i sei poliziotti e i due carabinieri sotto inchiesta. Il procuratore, Daniela Borgonovo, chiese, in sede di requisitoria processuale, l’assoluzione con formula piena per gli imputati. I pm Agostino Abate e Sara Arduini hanno 15 giorni per il ricorso in Cassazione. La Massima Corte avrà quindi un anno di tempo per decidere se accogliere o rigettare il ricorso. Allo stato attuale il pm Abate resterà a Como dove è stato trasferito qualche mese fa.

Caso Uva, invece di indagare sequestrano documentari, scrive Elisabetta Reguitti l'8 giugno 2013. “Appare pertanto opportuno che venga disposto, con assoluta urgenza, unitamente al sequestro probatorio del corpo del reato, anche di quello preventivo, su tutto il territorio nazionale, del predetto filmato…” Il corpo del reato in questione è il film-documentario ‘Nei secoli fedele – il caso Giuseppe Uva‘ proiettato a Roma al centro sociale Auroemarco di Spinaceto forse per l’ultima volta, se la notifica e la richiesta di sequestro pervenute in questi giorni agli autori verranno accolte. Gli esposti per la verità sono diversi a cominciare dalla denuncia per diffamazione nei confronti della sorella di Giuseppe per le dichiarazioni rilasciate alla trasmissione Le Iene. Ma ora sotto accusa sono finiti anche Adriano Chiarelli e Francesco Menghini che, secondo i querelanti, con la loro opera avrebbero leso il “prestigio e la reputazione” dei carabinieri autori dell’arresto di Giuseppe Uva avvenuto a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Come un brutto déjà vu torna alla memoria la richiesta di sequestro di un altro documentario, quello su Federico Aldrovandi 18enne massacrato da poliziotti a Ferrara. Il torto è sempre lo stesso: aver ricostruito sulla base degli atti processuali una brutta storia ancora tutta da scrivere. “Usano la parola allusione come se il nostro film fosse di per sé un processo. Noi ci siamo invece limitati a tradurre in immagini le parole e le descrizioni riportate nel processo. Compresi i nomi e le diverse testimonianze a cominciare  da Lucia Uva e l’amico Alberto Biggioggero che condivise l’ultima notte dentro la caserma di Varese dove furono condotti per schiamazzi” commenta Chiarelli autore, tra l’altro, del saggio-inchiesta Malapolizia edito da Newton Compton anche questo oggetto di una querela per diffamazione aggravata presentata giusto un anno fa alla Procura di Varese, testo citato anche  in questo ultimo atto giudiziario sul film in cui si legge: “Risulta travalicato, da parte dell’autore e del regista del documentario, il legittimo esercizio del diritto di cronaca, con conseguenti effetti diffamatori in danno ai querelanti”. Per il senatore Pd Luigi Manconi dell’associazione A buon diritto il fatto inquietante è che un fascicolo che porta la scritta “atti relativi alla morte di Giuseppe Uva si traduca in un’azione giudiziaria solo per diffamazione aggravata contro la sorella della vittima e giornalisti e scrittori che hanno voluto dare voce alla richiesta di giustizia e verità”.  Rimane da stabilire di cosa sia morto Giuseppe. Non certo a causa dell’intervento (o errore) sanitario, come peraltro stabilito dalla sentenza dell’aprile di un anno fa in cui il dottor Fraticelli è stato prosciolto dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”. Il giudice in quella stessa sede aveva poi imposto di restituire gli atti alla Procura di Varese obbligandola ad indagare su quanto avvenuto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, nel lasso di tempo intercorso tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo all’interno della caserma. Ma tutto si è fermato alla diffamazione e al sequestro di un film.

Caso Uva; Polizia e Carabinieri contro il film “Nei secoli fedeli”, ne chiedono il sequestro, scrive il 7 giugno 2013 “Articolo 21”. “Meglio non sapere, meglio girarsi dall’altra parte, meglio che tutti si girino dall’altra parte. Dopo la querela agli autori, arriva anche la richiesta di sequestro per il documentario “Nei secoli fedele” di Adriano Chiarelli e Francesco Menghini sulla storia di Giuseppe Uva, morto a Varese nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo aver passato tre misteriose ore in caserma con militari dell’arma e agenti di polizia”. A scriverlo è Mario Di Vito su “Il Manifesto”, di oggi. Notizia ripresa poi dal sito dei Radicali italiani. “Le querele arrivate in procura, a Varese, sono tre” – prosegue l’articolo: “la prima risale al 18 dicembre 2012, sporta dai carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco; la seconda è datata 18 aprile, e firmata dai poliziotti Gioacchino Rubino, Pierfrancesco Colucci e Luigi Empirio; la terza è del 3maggio, a nome di Francesco Focarelli Barone, agente di polizia anche lui. Tutti in servizio nella cittadina lombarda. Tutti, quella notte d’inizio estate, ebbero a che fare con Giuseppe, tutti assistiti dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl in Lombardia, tra l’altro. I tre documenti sono uguali tra loro: “Nel filmato – si legge – sono arbitrariamente ricostruiti, alla luce della documentazione acquisita dagli autori del documentario e di talune deposizioni testimoniali, le fasi della vicenda riguardante l’arresto di Uva, la sua immediata traduzione nella caserma dei carabinieri di Varese per gli accertamenti di rito, il successivo Tso disposto dal sindaco di Varese, il trasferimento dello stesso presso l’ospedale di Circolo per le necessarie cure sanitarie, seguito da morte intervenuta per cause ancora in corso di accertamenti”. “Cause che – prosegue l’articolo – stando alla sentenza dell’aprile di un anno fa, non sono da attribuire a un errore medico. Il giudice Orazio Muscato, infatti, ha assolto il dottor Fraticelli dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”, con tanto di atti rimandati in procura per fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, cioè tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo dentro la caserma di via Saffi. Momenti durante i quali un testimone, Alberto Biggiogero, sentì urla e lamenti provenienti dalla stanza vicina e decise di chiamare il 118: “Stanno massacrando un ragazzo”, disse all’operatore con voce di terrore. Il caso, adesso, corre a gran velocità verso la prescrizione e così, salvo clamorose svolte, la morte di Giuseppe Uva rimarrà un mistero insoluto, almeno agli occhi della giustizia. “A me – dice la sorella, Lucia – basta sapere che lui non è morto di farmaci. E questo è un fatto”. Adesso, però, non è in gioco la verità giudiziaria, ma un lavoro d’inchiesta giornalistica, un documentario nel quale tutta la vicenda viene ricostruita attraverso documenti, perizie e interviste alle persone coinvolte. “È una cosa vergognosa – attacca Lucia Uva -, questi signori vogliono decidere cosa far vedere e cosa no. Fosse dipeso da loro, di questa storia non si sarebbe saputo niente: se riusciamo a parlarne è solo grazie alla nostra, come dire, prepotenza nel coinvolgere tutti e spiegare come stanno le cose. Adesso vogliono impedirci di fare pure questo”. La sorella di Giuseppe Uva, però, non si dà per vinta, anche se l’inchiesta della procura è incanalata in un binario morto: “Non importa, davvero. Io continuo per la mia strada, a lottare insieme alle altre madri e sorelle di vittime dello Stato. Lo abbiamo visto ieri (mercoledì, ndr) al processo per Stefano Cucchi: c’è un muro di omertà enorme, ma dobbiamo andare avanti e continuare a farci sentire, ogni goccia di verità in più sarà una goccia di giustizia per Giuseppe, Stefano e tutti gli altri”. Adriano Chiarelli, autore oltre che del documentario anche del saggio Malapolizia che raccoglie tutti i casi di chi, dal G8 di Genova in poi, ha trovato la morte dopo essersi imbattuto in una divisa, non si scompone troppo: “Se i querelanti hanno ravvisato delle allusioni ai loro comportamenti in un’opera documentaristica che si limita a ricostruire la storia in base agli atti prodotti durante il processo, il problema rimane esclusivamente loro, non certo nostro”. La risposta, comunque, non si ferma qui: il centro sociale Auroemarco di Roma ha organizzato per questa sera una proiezione proprio di Nei secoli fedele”.

Un documentario per raccontare il caso di Giuseppe Uva, scrive “Articolo 21” il 13 settembre 2012. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008, a Varese, i carabinieri fermano e arrestano Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero. Uva morirà in ospedale la mattina seguente al suo arresto. Che cosa è accaduto quella drammatica notte? Il documentario Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva, che verrà proiettato domani in anteprima a Roma presso il Cinema Aquila… racconta le vicende legate alla tragica morte del quarantaduenne in seguito al suo arresto. Una rigorosa indagine su un decesso ancora inspiegabile e inspiegato, realizzata attraverso un’accurata raccolta di testimonianze e documenti inediti. Dopo aver trascorso tre ore in una caserma dell’Arma di Varese, sotto la custodia di otto tra poliziotti e carabinieri, Giuseppe Uva viene trasportato in ospedale in condizioni critiche. Nel volgere della notte l’uomo troverà la morte. Le cause del decesso restano ad oggi tutte da chiarire. L’unico processo celebrato finora, ha riguardato l’ipotesi di morte per colpe mediche, ma è stato dimostrato – con sentenza di primo grado – che i medici che hanno tenuto in cura Uva dopo l’arresto, non hanno alcuna colpa. Dopo un supplemento di perizia, sempre disposto dal giudice, è stato scientificamente provato che le cause del decesso coincidono con un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni. La domanda torna a ripetersi: cosa è accaduto in quelle ore? Allo stato attuale nessun nuovo processo è in corso, ma il giudice estensore della sentenza ha disposto ulteriori indagini sull’arco di tempo che la vittima ha trascorso in caserma e sulle reali cause di morte. In quelle ore è racchiusa la verità. La stampa si occupò del caso, poco noto all’opinione pubblica se non fosse stato per un servizio del programma “Le Iene” che costò al giornalista e alla sorella Lucia Uva, una querela per diffamazione da parte degli agenti coinvolti, sollevando diversi interrogativi. Il lavoro di ricostruzione di Adriano Chiarelli su quanto accaduto, vuole far luce sull’ennesimo caso di “Vittime di Stato” come li hanno definiti i familiari di Cucchi, Aldrovandi e altri che come Uva hanno visto morire i loro cari in circostanze non troppo diverse. “Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito”. Sono state le parole della sorella Lucia dopo aver visto il corpo straziato del fratello. La donna continua a battersi per la verità, convinta, come dichiara nelle interviste raccolte nel documentario, di poter restituire a suo fratello almeno la sua dignità. «Nei secoli fedele – IL CASO DI GIUSEPPE UVA, un’operazione di verità per portare a galla una storia scomoda per quanto assurda, una di quelle vicende in cui la banalità del male si mischia con la nebbia dei tribunali senza soluzione di continuità.»  Mario Di Vito – Contropiano

Giuseppe Uva, assolta la sorella accusata di diffamazione: rischiava 14 mesi di carcere, scrive Sandro De Riccardis il 18 aprile 2016 su "La Repubblica". A processo contro i sei poliziotti e i due carabinieri scagionati per la morte dell'uomo, deceduto dopo il fermo in caserma. La donna doveva rispondere delle dichiarazioni rilasciate sui fatti di quella notte. Lucia Uva è stata assolta dall'accusa di diffamazione verso i due carabinieri e i sei poliziotti che avevano trattenuto il fratello, Giuseppe Uva, in caserma a Varese, la notte del 14 giugno del 2008, poi morto in ospedale. I giudici del tribunale di Varese non hanno accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Giulia Troina, che aveva chiesto la condanna a un anno e due mesi di carcere e una multa di 458 euro. La sorella era imputata per le accuse mandate in onda nell'ottobre 2011 nel corso del programma tv Le Iene, per alcune frasi scritte su Fb e per un'intervista inserita nel documentario "Nei secoli fedele". Lucia Uva, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm aveva sottolineato che l'ipotesi di uno stupro è "frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo" contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all'epoca dell'intervista. Venerdì scorso gli uomini delle forze dell'ordine imputati nel processo sono stati assolti dall'accusa di omicidio preterintenzionale, sequestro e abuso di autorità per la morte dell'operaio, 43 anni, che quella sera girava ubriaco in centro a Varese col suo amico Alberto Biggioggero, unico testimone in caserma, interrogato per la prima volta soltanto dopo cinque anni dalla tragedia. "Le dichiarazioni di Lucia Uva erano giustificate da quanto emerso nella perizia - ha commentato l'avvocato Fabio Ambrosetti, che assiste la sorella di Giuseppe Uva - per le dichiarazioni nel film, Lucia ha tutto il diritto di pensare che suo fratello è stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità".

Lucia Uva assolta dall’accusa di diffamazione: “Chiedo scusa alla divisa, non agli agenti”. Era accusata per alcune dichiarazioni e frasi su Facebook contro i poliziotti e i carabinieri assolti nel processo sulla morte del fratello, scrive "la Stampa" il 18/04/2016. Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva, l’uomo morto nel giugno del 2008 all’ospedale di Varese dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri, è stata assolta dall’accusa di diffamazione aggravata «perché il fatto non costituisce reato». Al centro del processo alcune dichiarazioni mandate in onda nell’ottobre 2011 nel programma televisivo Le Iene, frasi scritte su Facebook e un’intervista del documentario «Nei secoli fedele». Il pm di Varese aveva chiesto un anno e due mesi di carcere.  «Chiedo scusa alle divise, che ho sempre rispettato, non agli uomini», sono state le prime parole dell’imputata dopo l’assoluzione. «So di avere sbagliato, di avere detto delle cose troppo forti in un momento di sconforto, ma non sono felice per questa assoluzione - ha proseguito - dopo otto anni lo Stato non mi ha ancora detto perché Giuseppe è morto e continuerò a chiedere la verità». Il processo è scaturito da una querela presentata in passato dai due carabinieri e dai sei poliziotti che venerdì scorso sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte di Giuseppe Uva. Nel documentario «Nei secoli fedele - Il caso Giuseppe Uva» la sorella dell’uomo, secondo le accuse, ha affermato «con le dichiarazioni contenute nel video in più passaggi che i querelanti avevano ripetutamente colpito con violenza Giuseppe Uva cagionandogli lesioni». Su Facebook aveva inoltre definito «delinquenti» e «assassini» i carabinieri e i poliziotti che intervennero quella notte. Inoltre, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1 nell’ottobre 2011, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm stamani, nel corso della sua requisitoria, aveva sottolineato che l’ipotesi di uno stupro è «frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo» contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all’epoca dell’intervista. Inoltre, secondo il pm, «non vi era alcun elemento per consentire all’imputata di affermare con certezza la sussistenza di botte o violenze perpetrate nella caserma» che, anche in questo caso, erano una «mera congettura». Nelle interviste e su Facebook, quindi, «sono stati affermati come veri fatti non desumibili da dati processuali per additare poliziotti e carabinieri, a distanza di anni, come stupratori e barbari picchiatori di persone indifese». I legali di carabinieri e poliziotti, parti civili nel processo, stamani avevano chiesto un risarcimento di alcune migliaia di euro. «Prendiamo atto della decisione del giudice - ha spiegato uno dei legali, l’avvocato Fabio Schembri - ci auguriamo che in futuro, dopo l’assoluzione di carabinieri e poliziotti, vengano moderati i toni. Non tollereremo più che vengano reiterati gli attacchi e le offese infamanti». 

Caso Uva, assolti carabinieri e poliziotti. Sorella: Processo farsa. Deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale di Varese, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. La Corte d'Assise di Varese ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti responsabili dell'arresto di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale del capoluogo lariano, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. Lo ha confermato a LaPresse il 15 aprile 2016 l'avvocato Fabio Ambrosetti, difensore della sorella della vittima, Lucia Uva e dei familiari. "L'arresto illegale è stato riqualificato in sequestro di persona - ha spiegato il legale - e carabinieri e poliziotti sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Possiamo ipotizzare che i giudici abbiano ritenuto carente l'elemento soggettivo, ma capiremo meglio il perché della loro decisione tra 90 giorni, quando leggeremo le motivazioni". Affranta e indignata la sorella della vittima, Lucia Uva: "Me l'aspettavo che sarebbero stati assolti. Questo processo è stato fin dall'inizio una farsa. Invece che farlo agli imputati, si è fatto un processo a sorella, ai testimoni, alla famiglia ma non ai presunti colpevoli". "Abbiamo un governo vergognoso, una giustizia vergognosa", dice Lucia Uva. La sorella aggiunge: "Io mi chiedo, se non sono stati poliziotti e carabinieri o i medici, come è morto mio fratello? Aspetto motivazioni, ma questa giustizia deve cambiare. La sentenza è stata anticipata perché non volevano ci fossero tutte le famiglie delle vittime. Dovevano esserci i familiari di Aldrovani, Cucchi, Buldroni, Ferrulli... Ma, assicuro, continuerò la mia battaglia per una verità".

Testi inattendibili, perizie e bugie. Il gran pasticcio del caso Uva. Chiesta l'assoluzione per gli agenti finiti nei guai. La sorella: "Ora so che Giuseppe è morto di freddo", scrive Silvia Mancinelli il 17 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Il 4 gennaio scorso Lucia Uva pubblicò sulla propria pagina Facebook la foto di Luigi Empirio, uno dei poliziotti coinvolti nell’inchiesta sulla morte del fratello Giuseppe. Undici giorni dopo per quel poliziotto e per gli altri sette imputati nel processo, è arrivata la richiesta di assoluzione da tutte le accuse. Una decisione non certo in controtendenza, quella presa dal procuratore capo di Varese, Daniela Borgonovo, e comunque in linea con l’archiviazione e il non luogo a procedere già sollecitati dai colleghi nelle fasi precedenti. Soddisfazione è stata espressa da parte del sindacato di Polizia Sap: «Il caso Uva - commenta il segretario generale, Gianni Tonelli - passerà alla storia come una delle più grosse patacche italiane. E lo dimostrerò». In attesa della sentenza di primo grado, prevista per il prossimo 29 gennaio, ecco tutti i «pasticci» del caso Uva. «Almeno ora so, grazie al pm Daniela Borgonovo, che Giuseppe è morto di freddo», ha scritto sulla propria bacheca Lucia Uva in merito alla richiesta di assoluzione. Una richiesta avanzata anche per il poliziotto imputato insieme a cinque colleghi e a due carabinieri, del quale la donna pubblicò una foto a petto nudo: «Questo si chiama Luigi Empirio, era presente in caserma», scriveva il 4 gennaio scorso a corredo dell’immagine. «Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello? Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...». Una battaglia graffiante, forte, tenace, quella di Lucia Uva, combattuta grazie al social network per ribadire la tesi degli abusi da lei sempre sostenuta. Era stata la sorella di Stefano, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini durante la custodia cautelare, a pubblicare il giorno prima la foto di uno dei carabinieri indagati nell’inchiesta bis della procura di Roma sul pestaggio del fratello. «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene», aveva scritto la donna, rivolgendosi allo stesso militare. L’avvocato di Davide Tedesco, «presentato» all’opinione pubblica pure lui in costume e sorridente, ha denunciato Ilaria Cucchi per diffamazione. Sarebbero alla base del processo-pasticcio, secondo i legali della difesa. I sei agenti e i due carabinieri sono passati attraverso una prima richiesta di archiviazione da parte dei pm Abate e Arduini, un’altra di non luogo a procedere avanzata dal procuratore della Repubblica Isnardi facente funzioni, quindi per quella di assoluzione del pm Borgonovo. Gli avvocati parlano di un’insistenza nonostante ci fossero già tutti gli elementi per appurare le mancate responsabilità. L’istruttoria dibattimentale viene definita monumentale, «sono stati sentiti tutti coloro che avevano qualcosa da dire». L’accusa di calunnia potrebbe ribaltare l’esito di un processo orientato verso un finale obbligato, sebbene già tre pubblici ministeri si siano pronunciati in modo identico e in netta opposizione rispetto alle accuse avanzate dai familiari della vittima. «È stata disposta dal gip l’imputazione coatta – dice Tonelli - Sono stati forzatamente rinviati a giudizio gli otto tra poliziotti e carabinieri, nonostante agli atti non ci fosse nulla e anzi la relazione dell’autopsia controfirmata dal perito di parte abbia rilevato l’assenza di lesioni. La famiglia ha cambiato tre esperti, perché tutti incapaci di sovvertire i fatti. Le macchie ipostatiche presenti sul corpo dell’uomo sono conseguenti al decesso e non possono essere trasformate in ematomi. Le ipotesi presentate dagli stessi periti di famiglia parlano di una malformazione cardiaca, di forte assunzione di alcol, di grosso stress e dell'interazione dei farmaci somministrati per il trattamento sanitario obbligatorio (tesi quest’ultima poi accantonata) come cause della morte. Perfino l’avvocato Anselmo, ben consapevole che non c’era trippa per gatti, abbandonò la difesa. Non ha seguito il campo e il processo è stato celebrato con altri legali». È lo stesso segretario generale del Sap, con il quale sia la sorella di Uva che quella di Cucchi hanno avuto un recente confronto televisivo, a parlare di spettacolarizzazione della vicenda. «Gli atti sono secretati e si continuano a sparare baggianate a raffica – insiste Tonelli - I familiari delle vittime raccontano ogni giorno attraverso il circuito mediatico la loro personalissima versione, mentre ai nostri uomini non viene data la possibilità di difendersi per motivi professionali agli occhi degli spettatori che, in questo modo, sentono una sola campana. Ci siamo trovati ad assistere a una gogna mediatica, nonostante nessuno sia giudicabile colpevole fino a prova contraria, e oggi se provassimo a fare un test tra la gente, la maggior parte sosterrebbe con convinzione l’ipotesi dell’abuso da parte degli operatori della sicurezza. Tra l’altro il dipartimento della Polizia di Stato ha espresso vicinanza agli agenti imputati solo dopo la richiesta di assoluzione, mentre prima nessuno si era fatto vivo. In ogni fase del processo è stato presente un ufficiale dei carabinieri, mai uno dei nostri. Cerchiamo la verità, non diffamiamo sui social network uomini che potrebbero essere prosciolti da ogni accusa». Al vaglio degli inquirenti anche le testimonianze di personale ospedaliero e della Polizia Penitenziaria sulla freddezza e le chiamate rispedite al mittente da parte dei familiari di Giuseppe Uva. «Un uomo già abbandonato – dice Tonelli – nei suoi frequenti ricoveri in ospedale per le percosse ricevute, frequentando tossicodipendenti. E oggi pianto da tutti».

GIUSEPPE UVA, CARABINIERI E POLIZIOTTI ASSOLTI: “IL FATTO NON SUSSISTE”. Tutti assolti perché il “fatto non sussiste”. Questo ha deciso ieri la Corte d’assise di Varese in merito alla morte di Giuseppe Uva, morto nel 2008 presso l’ospedale di Varese. 2 carabinieri e 6 poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, possono tirare un sospiro di sollievo, scrive il Blog Uomini e Donne il 16 aprile 2016. Nel giugno 2008, Giuseppe Uva venne arrestato dai carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero. I due trascorsero diverse ore in caserma, dove verosimilmente vennero picchiati dai militari, quelli che nelle ultime ore sono stati assolti; poi furono trasportati in ospedale. Giuseppe Uva spirò proprio nel nosocomio di Varese. Una vittima dello Stato? No, per i giudici carabinieri e poliziotti non sono responsabili della morte di Uva, e neanche i medici dell’ospedale di Varese, accusati di aver somministrato una dose di farmaci errata. Allora chi è l’artefice del decesso di Giuseppe Uva? Alla fine diranno che l’uomo si è suicidato? Mah. Ieri, dopo la lettura della sentenza, gli imputati hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono abbracciati. Tanta amarezza, invece, hanno provato i parenti di Giuseppe: una nipote è uscita dall’Aula urlando “Maledetti”. Il caso Uva ricorda molto il caso Cucchi; anche il geometra romano venne portato in caserma e, successivamente, fece tappa in ospedale per le numerose ferite provocate dagli abusi dei militari. Tornando al caso Uva, dobbiamo sottolineare che già diversi mesi fa il procuratore di Varese, Daniela Borgonovo, aveva reclamato l’assoluzione per poliziotti e carabinieri, che per molti aggredirono brutalmente Uva, finito poi nel reparto psichiatrico del nosocomio di Varese. Nessuno sa, come realmente, andarono le cose. Quello che sappiamo è che la testimonianza dell’amico di Uva non venne presa in considerazione dalla magistratura perché l’uomo era ubriaco. Ieri, la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, è entrata in Aula con una maglietta su cui campeggiava la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Lucia non demorde e promette che continuerà a combattere in nome di suo fratello. Il carabiniere Stefano Del Bosco, imputato insieme al militare Paolo Righetto e ai poliziotti Luigi Empirio, Gioacchino Rubino, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario, Pierfrancesco Colucci e Vito Capuano, ha detto dopo l’assoluzione: “Finalmente è stata fatta giustizia. Eravamo tranquilli perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente”. Piero Porciani, uno dei legali degli imputati, tutti felici per l’assoluzione dei loro assistiti, ha asserito: “Ora carabinieri e poliziotti possono tornare a casa e guardare i figli negli occhi e possono continuare a fare il loro dovere”. Biggiogero ha raccontato che, quella maledetta notte del 2008, dopo aver visto una partita della Nazionale assieme a Uva, fu avvicinato da alcuni carabinieri. C’è da dire che, mentre rincasavano, i due avevano spostato alcune transenne, ostacolando il traffico. Un carabiniere, allora, si rivolse a Giuseppe con queste parole: “Non te la faccio passare liscia, stavolta te la faccio pagare”. Quel carabiniere conosceva bene Giuseppe Uva perché sembra che quest’ultimo avesse avuto una storia con la moglie. L’amico di Uva ha riferito che, dopo il fermo, vennero trasportati in caserma e divisi: sentiva Giuseppe urlare in una stanza e chiedere aiuto. I carabinieri e alcuni poliziotti, evidentemente, stavano pestando l’uomo. I familiari di Giuseppe Uva sono certi che il loro caro venne massacrato dai carabinieri e poliziotti; i giudici, invece, la pensano diversamente.

Caso Uva, per i giudici non ci furono percosse da parte di forze dell’ordine. Gli imputati - sei poliziotti e due carabinieri assolti dall’accusa di omicidio nei confronti dell’operaio, morto dopo una notte in caserma - non avevano coscienza né volontà di percuotere Uva, scrive il 14 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. I giudici della Corte d’assise di Varese hanno ritenuto «l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere» Giuseppe Uva da parte delle forze dell’ordine. È un passaggio delle motivazioni, in possesso dell’agenzia Ansa, della sentenza con la quale sei poliziotti e due carabinieri sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nei confronti dell’operaio, morto nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in caserma a Varese. «La perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti - scrivono i giudici in relazione all’accusa di omicidio preterintenzionale - consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva». Per i giudici, «il fattore stressogeno, da taluni dei consulenti ritenuto causale o concausale di uno stress psicofisico, non può essere attribuito alla condotta degli imputati», che «non avevano la coscienza e la volontà di percuotere o di ledere Giuseppe Uva». In riferimento al reato di abbandono di incapace, i giudici spiegano che «non risulta sufficientemente provata la sussistenza del delitto» perché «l’abbandono della persona incapace deve determinare uno stato di pericolo sia pure potenziale per l’incolumità del soggetto» mentre «Giuseppe Uva non versava in un pregresso stato di incapacità di provvedere a se stesso per malattia di mente o di corpo (tale non potendosi considerare lo stato di ubriachezza)» e «non è ravvisabile una posizione di garanzia degli imputati (non avevano questi ultimi obblighi di cura o di custodia) nel confronti di Giuseppe Uva». Riguardo l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, gli imputati vanno assolti perché «ai fini dell’integrazione del delitto è necessario che le restrizioni abusive vengano adottate quali modalità della custodia, cagionando così una lesione ulteriore della libertà intesa in senso stretto», mentre Giuseppe Uva non si trovava in stato di arresto, di fermo o di detenzione e, conseguentemente, non si ravvisano gli elementi oggettivo e soggettivo del delitto contestato». Ad aprile Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, è stata assolta dall’accusa di diffamazione contro poliziotti e carabinieri. La Uva, nel 2011, aveva affermato durante una trasmissione dello show «Le Iene» che il fratello Giuseppe era stato violentato dalle forze dell’ordine. Inoltre aveva scritto su Facebook una serie di commenti accusatori, sempre nei confronti degli 8 indagati per la morte del fratello. La vicenda si trascina da qualche anno, ma è giunta a sentenza lunedì 18 aprile, a tre giorni di distanza dall’assoluzione degli 8 agenti sancita dalla Corte d’Assise di Varese, che ha stabilito l’innocenza delle forze dell’ordine riguardo al presunto pestaggio.

POLIZIOTTI E CARABINIERI ASSOLTI AL PROCESSO DUE VERSIONI OPPOSTE PER LA MORTE DI GIUSEPPE UVA, scrive Rai News il 15 aprile 2016. Arrestato la notte del 14 giugno 2008, ubriaco, dopo diverse ore passate nella caserma dei carabinieri morirà al mattino nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese   Tweet Morto in un reparto di psichiatria a Varese, dopo aver passato la notte in caserma in stato di fermo. Giuseppe Uva, 43 anni, è ubriaco la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008, quando una pattuglia dei Carabinieri lo ferma mentre con un amico rovescia in strada cassonetti dell'immondizia. I due vengono portati in caserma, in via Saffi, e cosa succede da quel momento è affidato alle carte e alle testimonianze raccolte in un processo durato quasi 8 anni.   Due sono le versioni: il pestaggio di Uva da parte dei carabinieri, sostenuto dalla famiglia e dall'amico, Alberto Biggiogero, e atti di autolesionismo dell'uomo che secondo i carabinieri era ubriaco e fuori controllo. Biggiogero sostiene di aver sentito grida di aiuto provenire dalla stanza in cui era stato chiuso Uva e quella notte chiama il 118 per chiedere aiuto. All'alba del 14 giugno i militari dispongono il ricovero di Uva nel reparto psichiatrico dell'ospedale con un Tso (trattamento sanitario obbligatorio). Uva morirà alle 11 di mattina.   In una prima fase del processo, l'accusa sostiene che i medici avrebbero somministrato a Uva farmaci incompatibili con il suo stato etilico. Ma i tre imputati usciranno assolti con formula piena. Il dibattimento riprende in Corte d'assise il 20 ottobre 2014 e si conclude oggi con l'assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti a processo con l'accusa a vario titolo di abuso d'autorità su un arrestato, abbandono d'incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale. 

Processo Uva, morto dopo il fermo in caserma: assolti poliziotti e carabinieri. L'operaio di 43 anni morto nel 2008. Gli imputati si abbracciano in aula, la famiglia dell'uomo grida "maledetti". La sorella con il volto del fratello sulle due t-shirt che indossa per la sentenza: "Continueremo la nostra battaglia", scrive Sandro De Riccardis il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. Sono stati assolti i sei poliziotti e i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni, l'uomo morto nell'ospedale di Circolo di Varese nel giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Era stato lo stesso titolare dell'accusa, il procuratore capo di Varese Daniela Borgonovo a chiedere l'assoluzione per tutti. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, mentre una parente dell'uomo è uscita dall'aula gridando "maledetti".  "Continueremo la nostra battaglia", ha promesso la sorella di Uva, Lucia. In tribunale si è presentata con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta 'Giuseppe Uva-aspetto giustizia'. Dopo la sentenza, ha indossato un'altra t-shirt con la scritta 'assolti perché il fatto non sussiste'. Come a dire, se l'aspettava. Sollevati invece gli assolti. "Finalmente è stata fatta giustizia", è stato il commento di Stefano Dal Bosco, uno dei due carabinieri. "Eravamo tranquilli - ha spiegato - perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente". Con lui sono stati assolti il collega Paolo Righetto, e sei poliziotti: Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano). Secondo l'accusa, nonostante le gravi lacune dell'indagine - di cui era titolare il pm Agostino Abate, poi trasferito a Como dal Csm - gli indizi a sostegno della tesi del pestaggio in caserma erano fragili. "Non ci sono prove di comportamenti illegali", aveva detto il pm nella scorsa udienza. E l'unico testimone di quella notte, Alberto Biggiogero, l'amico portato in caserma insieme a Uva quella notte, è stato considerato dalla stessa accusa inattendibile. Tesi fatta propria dai giudici della Corte d'Assise di Varese che hanno assolto tutti i sei appartenenti alle forze dell'ordine. Giuseppe Uva era stato fermato ubriaco per strada. "Un clochard sporco e puzzolente" che "viveva di espedienti" lo aveva descritto l'avvocato Luciano Di Pardo, del collegio difensivo delle divise nel corso della sua arringa, scatenando l'indignazione della sorella. La donna, nelle scorse settimane aveva imitato Ilaria Cucchi con cui è da tempo in contatto, e aveva pubblicato su Facebook una foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. In più, insieme agli altri familiari dell'uomo, aveva chiesto un risarcimento simbolico di 4 euro, uno per ogni capo d'accusa (omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità). "Non ci interessano i risarcimenti - aveva spiegato - ma capire che cosa è successo quella notte". La famiglia è convinta che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all'uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Ma lo stesso procuratore aveva definito "assolutamente legittima la condotta di carabinieri e poliziotti intervenuti nel tentativo di contenere Uva che, insieme all'amico stava dando in escandescenze". Secondo la rappresentante della pubblica accusa, le forze dell'ordine, quella sera, "non hanno fatto altro che il loro dovere", si sono comportati in modo "proporzionato" alla situazione e soprattutto "conforme alla legge". Diverse le reazioni politiche. Il segretario della Lega Matteo Salvini si è detto felice per l'assoluzione, "troppo fango su chi indossa una divisa". Concetto ribadito dal senatore di Fi Maurizio Gasparri: "Basta criminalizzazioni". Ma il senatore del Pd Luigi Manconi parla di "processo condizionato da un'indagine condotta in maniera pedestre, fino all'altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com'era fatale che si concludesse". "Abate - ha spiegato Manconi sottolineando "la certezza dell'illegalità del fermo e del trattenimento per ore in una caserma" - ha dominato l'intera vicenda giudiziaria dal 2008 ad oggi con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all'assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l'altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. "Ora - è la sua conclusione - la verità si fa ancora più lontana".

Caso Uva, cronaca di un’assoluzione annunciata, scrive il 15 aprile 2016 Checchino Antonini su “Popoffquotidiano”. Colpo di spugna sulla verità a Varese. Tutti assolti i due carabinieri e i e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva. La corte d’assise di Varese ha appena assolto i due carabinieri e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva, deceduto all’ospedale di circolo di Varese nel giugno 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei Carabinieri. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, esultando, mentre una parente dell’uomo è uscita dall’aula gridando. Assolti perfino dall’accusa di arresto illegale, nel frattempo riqualificata in sequestro di persona, e piuttosto semplice da dimostrare. «Hanno cercato e ottenuto l’assoluzione piena e più ampia possibile», commenta a caldo Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva al termine di una giornata di attesa tesissima. Fra novanta giorni le motivazioni e subito dopo il deposito dell’appello da parte della famiglia Uva. «Un’assoluzione largamente annunciata – commentano a caldo gli attivisti di Acad che da tempo seguono il caso- continueremo a sostenere la lotta di Lucia per verità e giustizia». Infatti, Il pubblico ministero, non aveva tenuto conto, nella sua requisitoria delle dichiarazioni della dottoressa Finazzi. A lei, prima di morire in ospedale, Giuseppe Uva ha confidato che uno dei carabinieri, quella sera, al momento del fermo, disse: «Uva, era proprio te che cercavo». Proprio come ha sempre sostenuto Alberto Biggiogero. Il pm, secondo la parte civile, non ha voluto distinguere tra le macchie ipostatiche e i segni delle lesioni, certificati dall’autopsia e dalla Tac eseguite dopo la riesumazione del cadavere. Giuseppe Uva non è morto di botte, secondo la parte civile, è morto per una serie di concause, tra cui le percosse che ha ricevuto in caserma quella notte. E che hanno contribuito a scatenare la tempesta emotiva che gli ha fatto fermare il cuore. Il pm ha perfino messo in dubbio che i pantaloni consegnati da Lucia Uva dopo la morte di Giuseppe fossero quelli effettivamente indossati dal fratello la notte in cui è stato portato in caserma. All’altezza del cavallo, su quei pantaloni, c’è una grossa macchia di sangue, composta da cellule di origine anale. Com’è possibile ipotizzare che non fossero quelli indossati da Giuseppe nella sua ultima notte di vita? «Continueremo la nostra battaglia», dice Lucia, scossa dalla sentenza. Si è presentata in aula con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Dopo la sentenza ne ha indossato un’altra: "assolti perché il fatto non sussiste". Secondo i familiari, parti civili nel processo, Uva avrebbe subito violenze da parte delle forze dell’ordine, dopo essere stato fermato assieme all’amico Alberto Biggiogero mentre, in stato d’ebrezza, spostava alcune transenne nel centro di Varese. La Procura di Varese non ha riscontrato comportamenti scorretti da parte delle forze dell’ordine e, nelle scorse udienze, il procuratore Daniela Borgonovo aveva chiesto l’assoluzione. Un’istanza analoga è stata avanzata dalle difese. Tutto ciò a quasi otto anni dai fatti e dopo una faticosissima battaglia legale per smontare la prima versione ufficiale della morte per malasanità sostenuta con ostinazione dal pm Abate, poi rimosso dall’incarico e visibilmente ostile alla famiglia Uva. In aula, con la sorella di Giuseppe, Lucia Uva c’erano la madre di Stefano Gugliotta, pestato dalla polizia a Roma senza alcun motivo e Domenica Ferrulli, figlia di Michele, ucciso durante le concitate fasi di un violentissimo arresto. Il processo d’appello è in corso a Milano.

Omicidio Uva: il Csm indaga sul pm che non indaga, scrive Checchino Antonini su “Osservatorio Repressione”. Un'azione disciplinare pende sul magistrato che non vuole interrogare il teste di quella notte ed è ostile a familiari e legali. Un'azione disciplinare del Csm pende sul pm del caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ad Agostino Abate è contestato tra l'altro il comportamento ostile, in aula e fuori, nei confronti della sorella dell'uomo ucciso, Lucia, fatta allontanare durante un'udienza. La notizia proviene proprio dal Consiglio superiore della magistratura dove viene spiegato che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda e che dunque non c'è stata nessuna inerzia del Consiglio. Era stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e dunque compagna di sventura di Lucia Uva, a lamentare il silenzio del Csm sugli esposti presentati dalla sorella di Uva e da Luigi Manconi. Di qui la decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli di avviare una ricognizione sulla sorte di queste denunce, su richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm dura da tempo soprattutto per il fatto che Abate ha sempre voluto interpretare quella morte come un "banale" caso di malasanità senza mai voler interrogare l'amico di Uva, Alberto Biggioggero, arrestato con lui quella notte e testimone delle urla di Uva nella caserma della polizia in cui avrebbe trascorso alcune ore in balìa delle forze dell'ordine. Un giudice, assolvendo in primo grado il medico portato alla sbarra da Abate, aveva ordinato - invano - la riapertura dell'inchiesta con l'accusa da parte del pm di essere lui stesso succube del clima mediatico. Il contrasto era culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d'ufficio. Da parte sua Abate s'era scagliato più volte contro la sorella del ragazzo ucciso, contro il suo legale Fabio Anselmo (lo stesso dei casi Aldrovandi, Ferrulli e Cucchi) e contro i giornalisti che osavano riprendere la vicenda come un caso di malapolizia. I famigliari di Uva (Lucia è stata perfino accusata di aver manipolato il cadavere di suo fratello) contestano la chiusura dell'inchiesta: secondo il pm non ci sono responsabilità delle forze dell'ordine nella morte dell'uomo, mentre per i parenti Uva avrebbe subito percosse in caserma. La Procura Generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta di togliere a quel pm l'indagine ed affidarla ad un altro magistrato. «Era l'ultima speranza che si indagasse in caserma, e invece no - scrive Lucia - nonostante l'abbia chiesto anche il Giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. Quindi ora siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione. (Non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado, e comunque il pm Abate non cambierà idea certo ora). Non sapremo mai la verità su ciò che accadde quella notte. Mai».

Invece Articolo 21zione disciplinare nei confronti del pubblico ministero del processo sul caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Nel procedimento al magistrato Agostino Abate è contestato tra l’altro il comportamento tenuto in aula nei confronti della sorella dell’uomo, Lucia, fatta allontanare durante un’udienza. La notizia si è appresa al Csm, dove spiegano che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda che chiedevano di trasferire ad altro magistrato l’indagine su quanto accaduto quella notte nella caserma dei carabinieri. La decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli è partita dalla richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm. dura da tempo ed è culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco e il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio.” Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. La vicenda: Alle 10.30 di mattina del 14 giugno 2008, all’ospedale Circolo di Varese, muore. Giuseppe Uva. Giuseppe Uva, prima di essere ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, è stato dalle 3 di notte alle 6 nella locale caserma dei carabinieri con i militari e con sei poliziotti, tutto l’equipaggio di pattugliamento notturno della cittadina. Giuseppe era stato fermato in compagnia dell’amico Alberto Biggiogero in stato di ebbrezza alcolica mentre spostava delle transenne al centro della strada. Nessun verbale di arresto viene compilato quella notte, proprio perché non hanno commesso alcun reato. Nonostante questo, i due rimangono in caserma per tre ore. Biggiogero viene liberato, mentre Uva nelle primissime ore della mattina viene trasferito in ospedale, dove muore poco dopo. Aveva il naso fratturato, le scarpe consumate e il cavallo dei pantaloni imbrattato di sangue. Da quel 14 giugno la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, chiede con tutte le sue forze che venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. Sono passati quasi 5 anni, e a oggi l’unico processo celebrato è stato contro un medico, accusato di aver somministrato un farmaco sbagliato e di avere quindi causato la morte. Il medico è stato assolto e, perizia dopo perizia, si è arrivati a stabilire la correttezza di quella prescrizione. Se non sono stati i farmaci, a uccidere Giuseppe, cosa è stato? All’interno della procura di Varese esiste un fascicolo, il 5509, che dovrebbe contenere le indagini svolte per accertare responsabilità precedenti all’ingresso di Giuseppe in ospedale. Lucia Uva, che è stata recentemente querelata dai carabinieri per diffamazione, ha ritirato il fascicolo 5509, perché la sua querela è stata inserita in quegli atti. Al suo interno ci sono solo doppioni di atti già acquisiti nel processo contro i medici. Delle ore passate da suo fratello in caserma, neanche l’ombra di un’indagine o di avvisi di garanzia.

Giuseppe Uva, la giustizia rovesciata, scrive Paolo Favarin. Indagine bis su carabinieri e polizia senza risultati. La procura di Varese indaga la sorella Lucia e querela per diffamazione gli autori del documentario “Nei secoli fedele”. Per la procura la colpa è sempre dei medici: Giuseppe Uva morto per un caso di malasanità. Dopo l’assoluzione di Carlo Fraticelli, adesso altri due dottori rischiano il rinvio a giudizio, mentre l’indagine bis su carabinieri e polizia – che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 trattennero Giuseppe e il suo amico Alberto Bigiogero per una notte intera – si è conclusa con un clamoroso nulla di fatto: nessun addebito agli uomini in divisa, tra le quattro mura della caserma di Varese non è successo nulla, le urla e il rumore delle botte non vogliono dire niente, assolutamente niente. Un mare di fango che schizza, con il pm Agostino Abate che ha iscritto nel registro degli indagati Lucia Uva e un giornalista delle Iene, Mauro Casciari, “colpevoli” di aver diffamato l’Arma e la polizia. Decisione presa in seguito a una denuncia sporta dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl. Ma non basta. Le indagini non sono finite e nel mirino adesso ci sono finiti pure gli autori del documentario “Nei secoli fedele”, che ricostruisce tutto il caso con interviste e materiale giudiziario: Adriano Chiarelli – scrittore, documentarista e collaboratore di Contropiano – e il regista Francesco Menghini. «La notizia non ci sorprende – dice adesso Chiarelli -, vista la piega che stanno prendendo gli eventi. A finire sul banco degli imputati, ancora una volta, saranno coloro che si battono in difesa della giustizia e della legalità, e non i diretti interessati. È accaduto con Patrizia Moretti, sta accadendo con Lucia Uva e di conseguenza con noi». La tremenda sensazione di giustizia mancata si somma ora al rammarico per un rovesciamento totale della vicenda: chi cercava la verità diventa colpevole e chi ha fatto di tutto per insabbiare la vicenda è una vittima. La colpa – se esiste – diventa dell’ospedale, che avrebbe sbagliato la somministrazione di alcuni medicinali a Giuseppe Uva, ma «io ho visto tanto sangue. Mille perizie dimostrano che i dottori non c’entrano», dice la sorella Lucia. A nulla è servita la sentenza del giudice Orazio Muscato, che chiedeva alla procura di indagare meglio sui fatti avvenuti in caserma. Per il pm Agostino Abate carabinieri e polizia hanno semplicemente fatto il proprio dovere. E allora è tutta colpa di Lucia e dei suoi “compari”, trattati malissimo e derisi dall’accusa per tutto il processo di primo grado a Fraticelli, tanto che nella sentenza di assoluzione, il giudice non può non sottolineare che «L’esame del pm è stato nel complesso effettivamente condotto con toni e modalità tali da indurre l’esaminato (nel caso, i periti) in stato di soggezione, con ripetuti interventi del Tribunale tesi a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte delle lamentazioni avanzate dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi dal pm».Una lotta senza quartiere ormai per arrivare a una verità che ormai sfugge solo alla procura di Varese. «Se i rappresentanti della giustizia intendono perseguire coloro che chiedono la verità – l’amarissima conclusione di Chiarelli -, facciano pure. Siamo disponibili fin da subito a essere interrogati e a mettere a disposizione tutto ciò di cui siamo venuti a conoscenza durante la permanenza a Varese». La polemica infinita e, a tratti, pretestuosa, portata avanti da chi dovrebbe lavorare per la giustizia rischia di far scivolare l’intera vicenda verso l’oblio della prescrizione: la vicenda si trascina da quasi cinque anni e, nei tribunali, il tempo ha il potere di spazzare via ogni cosa. Rimangono alcuni particolari: i vestiti di Giuseppe sporchi di sangue, le fotografie che mostrano un uomo massacrato, pieno di lividi. Torturato. E una telefonata, quella fatta da Bigiogero al 118, nella notte più lunga della sua vita, l’ultima del suo amico Pino. «118…» «Posso avere un’auto-lettiga qui alla caserma di via Saffi?…» «Sì, cosa succede?» «Praticamente stanno massacrando un ragazzo…» «In caserma?» «Eh, sì…» «Ho capito… Va bene… Adesso la mando».

Varese, Lucia Uva come Ilaria Cucchi: su Fb la foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. La foto pubblicata da Lucia Uva sul suo profilo, scrive il 4 gennaio 2016 “la Repubblica”. Lucia Uva come Ilaria Cucchi. Anche la sorella di Giuseppe -  l'uomo morto il 14 giugno 2008 all'ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato fermato ubriaco per strada e portato in caserma - ha deciso di pubblicare sul suo profilo Facebook la foto di uno degli uomini delle forze dell'ordine coinvolti nell'inchiesta sulla morte del fratello. Cucchi lo ha fatto nelle scorse ore ed è stata denunciata dal carabiniere in questione. Uva ha deciso di imitare l'azione perché, spiega su Fb, "noi vittime dello Stato vogliamo solo la verità e non ci fermeremo fin quando i colpevoli non verranno tutti fuori". "Questo - scrive allora Uva sotto la foto dell'uomo, un autoscatto fatto a torso nudo in palestra - era il poliziotto che la notte del 14/6/2008 era presente nella caserma quando hanno preso Giuseppe". Poi, continua il post: "Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello. Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...". L'uomo nella foto è uno dei poliziotti che, insieme ad alcuni colleghi e a un carabiniere, condusse l'intervento e che sono stati rinviati a giudizio nel corso di una lunga e complicatissima vicenda giudiziaria. Di nuovo seguendo lo schema di Ilaria Cucchi, Lucia Uva invita le persone che visitano la sua pagina a non lasciarsi andare a "offese come loro hanno fatto coi nostri cari, niente guerra. Solo i vostri commenti di quello che pensate.... noi vogliamo solo la verità e giustizia per tutti, nessuno escluso. Noi siamo e saremo una famiglia e saremo sempre uniti!!!".

Di seguito le contrapposizioni di chi sta dalla parte dei carnefici e di chi sta dalla parte delle vittime.

Il coraggio di «assolvere» gli agenti, scrive Paolo Granzotto Martedì 10/06/2014 su "Il Giornale". Difficilmente la richiesta del procuratore Felice Isnardi - che ha chiesto il proscioglimento del carabiniere e dei sei poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale e altri reati ai danni di Giuseppe Uva - sarà giudicata «esemplare» dalla stampa e società civile in assetto di vigilanza democratica. Per loro «esemplare» è, quasi per luogo comune, ogni atto giudiziario o sentenza che punisca l'operato delle forze dell'ordine. Così come il martellante «fare chiarezza» o «volere giustizia», in simili circostanze equivale, matematicamente, a chiedere la condanna degli agenti in divisa. Una forma di emiplegia giustizialista non sorda all'eco di quel «dàgli allo sbirro» che ritmò gli anni Sessanta e Settanta, gli stessi (...)(...) definiti formidabili da Capanna e così tuttora sentiti dai vigilanti dei quali abbiamo detto. Per costoro non sarà dunque esemplare, la richiesta di Isnardi. Però dell'esemplarità ha il sigillo. Fu lo stesso procuratore, infatti, che dopo il rifiuto del Gip di archiviare, come avevano chiesto i pm Abati e Arduini, la pratica dei carabinieri e gli agenti implicati nel caso Uva, avocò a sé il fascicolo. Nessun dubbio, quindi, che il procuratore intendesse «fare chiarezza». Nessun dubbio che intendesse «fare giustizia». E l'ha fatta, sorprendendo e scandalizzando coloro i quali sia la chiarezza sia la giustizia l'intendono - quando ci sono di mezzo polizia e carabinieri - a senso unico: prima in manette e poi in galera. Un buon punto non a favore della giustizia, che ovviamente non comporta punteggi se non per gli aedi della vigilanza democratica, ma per le forze dell'ordine. Alle quali stringiamo la mano.

Il gip assunto dal deputato che lo sosteneva. Il giudice che non voleva chiudere il caso Uva è diventato consulente dell'onorevole Pd Bratti, scrive Stefano Zurlo Lunedì 21/12/2015 su “Il Giornale”. Sinergie. Affinità culturali. Politica giudiziaria. Due nomi eccellenti che s'intrecciano su un caso delicato, quello di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 a Varese dopo essere stato fermato dalle forze dell'ordine. Alessandro Bratti e Giuseppe Battarino, storia di un'intesa costruita sul palcoscenico di un difficile procedimento giudiziario: Bratti è deputato del Pd ed è in prima linea nel tenere vivo un caso per cui la Procura di Varese aveva chiesto e richiesto l'archiviazione. Battarino è il coordinatore dei gip nella stessa città e si trova ad affrontare la spinosa vicenda, seguita con grande clamore dall'opinione pubblica: decide dunque di non mandare in soffitta l'inchiesta e anzi ordina nuovi accertamenti. Ora, dopo aver seguito, da punti di vista diversi, lo stesso dramma i due si ritrovano insieme: Bratti è il presidente della Commissione ecomafie, Battarino ne è diventato consulente a tempo pieno, lasciando la Lombardia per Roma. Succede tutto con la sincronia di un metronomo: per il pm Agostino Abate poliziotti e carabinieri non hanno alcuna responsabilità nella morte di Uva e vorrebbe chiudere il caso.Ma molti la pensano diversamente: il nome di Uva, con quelli di Cucchi e Aldrovandi, diventa sinonimo dell'abuso della forza da parte dello Stato. No, l'indagine non può finire così, su un binario morto. E così, fra appelli, mobilitazioni e articoli dei grandi giornali, la tragedia diventa una sorta di battaglia per la civiltà. Il 28 maggio 2013 Bratti e il suo collega di partito Walter Verini presentano un'interrogazione al ministro Anna Maria Cancellieri chiedendo «quali provvedimenti intenda adottare al fine di evitare che la prossima scadenze dei termini di prescrizione impedisca di accertare le cause e gli autori della morte di Giuseppe Uva». La pratica finisce sul tavolo di Battarino: il pm è convinto che il lavoro di scavo non abbia portato da nessuna parte, ma il gip tiene vivo il fascicolo e dispone altri accertamenti. Alla fine, un altro giudice spedisce a processo gli agenti, capovolgendo ancora una volta la linea dell'accusa che non vedeva la possibilità di andare avanti. E ora il dibattimento è in pieno svolgimento fra le perplessità degli avvocati: «Mi chiedo - spiega al Giornale Pietro Porciani, difensore di due poliziotti - come si possano discutere capi d'imputazione così deboli». Di fatto Battarino dà impulso ad un'inchiesta agonizzante e Bratti porta il nome di Uva fin dentro il Palazzo, calamitando energie per fare saltare il tappo delle presunte omissioni, reticenze e silenzi. I due evidentemente si stimano e dall'incontro sulla controversa vicenda sboccia un vero amore: a settembre dell'anno scorso Bratti diventa il presidente della Commissione ecomafie, pochi giorni dopo Battarino diventa suo consulente - uno dei tre nominati - e lascia Varese per Roma. La politica e la giustizia vanno a braccetto. Ciascuno, sia chiaro, fa la sua parte, ma quando più soggetti, da sponde diverse, giocano per lo stesso risultato il successo alla fine arriva. Su quel confine sottile, a volte evanescente, fra l'aula del tribunale e la piazza che chiede giustizia. E carriere diverse, apparentemente lontane, si ricongiungono.

Abbiamo un problema con i Carabinieri? Si chiede Luigi Manconi. Luigi Manconi chiede al ministro Roberta Pinotti di richiamare l'arma al rispetto dei diritti delle persone fermate, dopo i casi Cucchi, Uva e Magherini, "Cara senatrice Roberta Pinotti, mi rivolgo a te in quanto, per il tuo ruolo di ministro della Difesa, sei titolare della responsabilità politica per l’attività dell’Arma dei Carabinieri. Poche ore fa, con riferimento alla vicenda della morte di Stefano Cucchi, il comandante generale della stessa Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato: “È inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”. E ancora: “Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri”. Il generale Del Sette ha ragione: e posso aggiungere che la responsabilità penale è personale. Un principio fondamentale quest’ultimo al quale sento il dovere di attenermi sempre. Dunque – come suggerisce il comandante generale – non si deve fare di tutta l’erba un fascio. In altre parole, il corpo dei Carabinieri è in gran parte sano e le colpe sono da attribuirsi a “poche mele marce”. Ma è sulle implicazioni di tutto ciò che devo esprimere un profondo dissenso. Temo infatti che il ragionamento di Del Sette si risolva in una conclusione fallace e consolatoria. Sia perché, per rimanere nell’universo linguistico dell’ortofrutta, “le poche mele marce” se raccolte in un cestino sono capaci in men che non si dica di contagiare le altre; sia perché i rari elementi infetti possono rivelare una patologia assai più diffusa. Insomma, quanto venuto alla luce in questi giorni a proposito della morte di Stefano Cucchi può inquietare particolarmente chi, come me, a quella e altre vicende simili dedica attenzione da molti anni. E allora è certo che si tratta di una perversa coincidenza, e che ciascun episodio fa storia a sé e si è verificato in luoghi e con protagonisti differenti, ma è altrettanto innegabile che – come si vedrà – vi compaiano sempre militari dell’Arma dei Carabinieri. Non solo: queste storie diverse e distanti – ecco l’insidiosa combinazione – si dipanano e si avviluppano nell’arco di alcuni giorni. Venerdì scorso, le confessioni relative al “violentissimo pestaggio subito da Cucchi” (parole del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, al quale si deve essere tutti grati); ieri, lunedì 14 dicembre, sono cadute in prescrizione – grazie alla scellerata gestione da parte del procuratore Agostino Abate, infine sanzionato dal Csm – gran parte delle accuse perla morte di Giuseppe Uva, trattenuto illegalmente per ore nella caserma dei carabinieri di Varese; e sempre ieri si è tenuta un’udienza per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta a Firenze il 3 marzo del 2014 nel corso di un fermo a opera di quattro carabinieri. Nel corso dell’udienza un testimone ha così dichiarato: “Uno dei carabinieri colpì Riccardo Magherini con dei calci all’addome, almeno cinque o sei volte”, poi “vidi due calci alla testa. Cioè vidi un paio di calci all’altezza della testa, non saprei dire dove colpirono”. Ripeto, so bene che parliamo di tre vicende diverse avvenute in tempi diversi e in luoghi diversi. Ma è forte la sensazione che qualcosa li tenga insieme. E che l’accertamento dell’accaduto, l’individuazione dei responsabili e la loro sanzione, nel caso di provata colpevolezza, costituisca un’impresa davvero ardua. Per molte, comprensibili quanto ingiustificabili ragioni, il conseguimento della verità sulle cause di morte di persone custodite sotto la responsabilità delle forze dell’ordine e di istituzioni dello Stato è sempre complicato. Ma, tra queste, spiccano le inchieste che vedono coinvolte l’Arma dei Carabinieri, sue articolazioni territoriali, suoi singoli esponenti. E così ci sono voluti ben sei anni per trovare riscontri all’ipotesi che la tragedia di Stefano Cucchi si fosse consumata nella stazione dei Carabinieri “Appia” di Roma. E analoghe deficienze investigative si sono verificate, come detto, nel caso della morte di Giuseppe Uva a Varese. E mi auguro di cuore che nulla del genere possa ripetersi a Firenze. In proposito, va ricordato che nel gennaio del 2014 il comando generale dei carabinieri inviò a tutte le caserme d’Italia una circolare nella quale si raccomandava di non ricorrere più proprio a quella modalità di fermo che, due mesi dopo, avrebbe provocato la morte di Magherini. La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con le manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche tre-quattro, gravano sulla sua schiena per impedire qualsiasi movimento. Si determina qualcosa definibile come “compressione toracica” e che può portare all’infarto o all’asfissia. Quella circolare, che metteva in guardia contro una simile metodica, viene affissa in tutte le bacheche di tutte le caserme: e, dunque, anche in quella da cui parte la gazzella che incrocerà Magherini. Certo, quella direttiva è stata impartita con decenni di ritardo e tuttavia, se fosse stata letta e conosciuta e messa in pratica da quei quattro carabinieri, un giovane uomo probabilmente si sarebbe salvato. Cara senatrice Pinotti, come ho già detto, le responsabilità penali sono personali e quelle politiche non valgono certo per il pregresso, ma se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti. Sapendo che, per come ti conosco, condividi queste mie considerazioni, attendo una tua presa di posizione su avvenimenti che colpiscono profondamente l’opinione pubblica. Luigi Manconi è senatore del PD, sociologo e attivista per i diritti umani.

Il caso Uva squassa ancora la magistratura, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. L’11 marzo 2014 era già sembrato un colpo di scena che il giudice Giuseppe Battarino, nel respingere la richiesta di archiviazione di due carabinieri e sei agenti di polizia proposta dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, li avesse obbligati invece a chiedere il processo ai rappresentanti delle forze dell’ordine per la morte nel giugno 2008 del 43enne Giuseppe Uva in ospedale dopo una parte della notte trascorsa nella caserma dei carabinieri. E il 20 marzo 2014 i pm, come in questi casi impone la legge, avevano ovviamente ottemperato all’obbligo, formalizzando l’incriminazione di carabinieri e poliziotti richiesta dal gip Battarino per le ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità e abbandono di minore. Solo che - si scopre adesso - ad avviso del loro procuratore capo facente funzioni Felice Isnardi (inviato 20 giorni fa dalla Procura generale di Milano a reggere la scoperta Procura di Varese), i due pm l’avrebbero sì fatto, ma in un modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e al quale solo il gip li ha obbligati. Per questo - con una decisione clamorosa perché arriva dopo sei precedenti «no» della Procura generale milanese ad altrettante richieste avocazioni, e ancor più perché viene adottata proprio ora che l’imputazione coatta sembrava aver per adesso chiuso la fase più travagliata dell’inchiesta - il procuratore reggente Isnardi ha tolto il fascicolo ai pm Abate e Arduini, e se lo è autoassegnato per la prosecuzione dell’udienza. Nel provvedimento datato 21 marzo 2014, il procuratore reggente di Varese esprime infatti la convinzione che il capo d’imputazione formulato dai pm Abate e Arduini «non abbia rispettato le prescrizioni imposte dall’ordinanza del gip» e che «manifesti profili di illogicità e contraddittorietà rispetto al titolo dei reati ipotizzati». Per Isnardi non è solo un problema di forma: la debolezza delle modalità di imputazione farebbe diventare «elevata» la «probabilità che il giudice della futura udienza preliminare solleciti il pm» a integrare l’accusa e, «in mancanza, possa disporre la restituzione degli atti, con l’ovvia conseguenza della regressione del procedimento». Per scongiurare questa eventualità, che allungherebbe ancora i tempi, il procuratore reggente inviato a Varese dalla Procura Generale milanese decide di revocare ai pm Abate e Arduini l’assegnazione del fascicolo, e di individuare in se stesso «il diverso pm» designato «per l’esercizio sia dell’attività di udienza, sia di tutte quelle altre attività che potranno eventualmente rendersi necessarie». Nell’assenza di commenti da parte dei diretti interessati, si può solo attendere il termine previsto dalla legge per eventuali controdeduzioni che i due pm potrebbero inviare al Csm nel caso in cui volessero contestare i presupposti del provvedimento che ha tolto loro l’inchiesta. Nel frattempo il legale degli indagati, Luca Marsico, chiede alla Cassazione di annullare l’ordinanza del gip Battarino perché questi vi avrebbe aggiunto un reato (l’omicidio preterintenzionale) non prospettato quando aveva ordinato ai pm un supplemento di indagini. Il gup dell’udienza preliminare dovrà decidere se disporre o no quel processo a carico di carabinieri e poliziotti invocato dai familiari di Uva: con gli avvocati Fabio Anselmo e Fabio Ambrosetti, i parenti da sempre sostengono che Uva, fermato ubriaco per strada insieme a un amico, avrebbe subito violenze in caserma prima di essere ricoverato in ospedale con trattamento sanitario obbligatorio.

Uva, il giorno più lungo della procura. I pm sono andati per la loro strada e non hanno voluto recepire in toto le conclusioni del gip, ma ora si pone un altro problema: c'è un altro processo che nasce dal caso Uva, chi lo condurrà?  Si chiede Roberto Rotondo su “Varese News”. L’aria che tira a Varese è quella di una procura spaccata. Da una parte ci sono i pm Agostino Abate e Sara Arduini, che si sono visti togliere il fascicolo del caso Uva e dall’altra c’è il procuratore Felice Isnardi, un capo provvisorio, facente funzione, distaccato dalla procura generale di Milano, che a maggio tornerà nei suoi uffici quando il csm nominerà il nuovo procuratore di Varese. Fino a quando la procura è stata retta dal magistrato Maurizio Grigo, oggi procuratore generale a Campobasso, il ruolo di questi pm non era mai stato messa in discussione. Abate e Arduini, ora, possono fare delle osservazioni al csm contro la decisione di Isnardi, ma l’organo superiore della magistratura non può revocare il provvedimento del capo dell’ufficio che tuttavia deve essere motivato. Ci saranno probabilmente degli strascichi ma tutti interni alla magistratura. Isnardi terrà il fascicolo fino all’udienza preliminare, ma dopo nessuno sa con precisione che cosa accadrà. Potrebbe essere assegnato a un nuovo pm o in linea teorica anche restare allo stesso Isnardi. Qualcosa è cambiato. La procura generale aveva respinto per 6 volte le richieste di avocazione contro Abate e Arduini e anche i due procedimenti disciplinari contro i pm finiti al CSM, non sono per ora avanzati. Il fascicolo invece è stato tolto ai due pm perché avrebbero scritto un documento illogico: i due magistrati hanno obbedito alle richieste del gip ma senza rinnegare quanto avevano precedentemente affermato nelle loro conclusioni all’inchiesta, quando avevano disposto la richiesta di archiviazione. Secondo alcuni si può persino concludere che i pm abbiano in fondo sostenuto una loro coerenza fino in fondo: non credendo a quanto prospettato dal gip, hanno cioè riscritto gli stessi elementi della loro inchiesta. Ma va ricordato che i principali avversari di questi pm sono Lucia Uva, gli avvocati di parte civile Fabio Ambrosetti e Fabio Anselmo e il senatore del Pd Luigi Manconi, quest'ultimo alfiere di una campagna per la riapertura del caso che ha coinvolto stampa e tv nazionali. E’ un paradosso, in fondo, ma di cose strane in questa vicenda non ne mancano. Ad esempio, vi sarà anche un secondo processo derivante da questa indagine, e vedrà Lucia Uva e altri imputati per diffamazione contro i carabinieri, per aver sostenuto in tv che Giuseppe Uva era stato violentato. I pm di questo processo dovrebbero essere proprio Abate e Arduini: sarà loro revocato anche questo? Le parti civili delle sorelle Uva hanno sempre tifato per le indagini contro i carabinieri e hanno festeggiato quando furono assolti i medici che pure avevano avuto 4 avvisi di garanzia per la morte del fratello perchè somministrarono sedativi e calmanti a un soggetto ubriaco e debilitato tre ore dopo il passaggio in caserma. Infine, l’ordinanza del gip Battarino ha prospettato un reato, omicidio preterintenzionale, che in precedenza non era stato suggerito alla procura e per questo Luca Marsico, avvocato degli 8 indagati, ha fatto ricorso in cassazione. Comunque sia, la vicenda processuale non è affatto decisa. Un episodio simile a quello del caso Uva è accaduto a febbraio con gli stessi protagonisti. Il pm Abate ha indagato per 3 anni sulla vicenda di un uomo che, uscito dal dentista, ha avuto un incidente stradale ed è morto. Il gip Battarino ha chiesto l'imputazione coatta del dentista perchè gli avrebbe somministrato un farmaco che induce sonnolenza senza avvisare il paziente. In quel caso, il pm ha obbedito ma il gup Giorgetti alla fine ha archiviato.

L’intervista esclusiva di Andrea Spinelli su Crimeblog: caso Giuseppe Uva, intervista a Lucia Uva, "Ora via la toga". Lucia Uva, battagliera sorella di Giuseppe, da sei lunghi anni dedica la propria esistenza per fare luce sull’omicidio del fratello, avvenuto per mano di uomini in divisa: una battaglia in solitaria, almeno così è stato fino ad oggi nelle stanze della procura di Varese, che oggi sembra prendere la direzione di verità e giustizia tanto agognata. Lucia Uva ci dice di non essersi mai arresa, nemmeno di fronte alle continue violazioni della sua dignità, di quella della sua famiglia e, sopratutto, della continua lesione della memoria del fratello Giuseppe. Un’esperienza drammatica che tuttavia ha permesso a Lucia di sentire accanto a se un mondo di solidarietà e vicinanza che non si sarebbe aspettata mai. La storia di Giuseppe Uva ha dell’incredibile: tradotto in caserma in via Saffi a Varese perchè “molesto”, assieme all’amico Alberto Biggiogero nella notte del 14 giugno 2008 (i due avevano bevuto ed erano intenti a spostare alcune transenne nel centro di Varese), Giuseppe muore in ospedale poco dopo l’alba. La colpa ricade, come spesso avviene, sui medici (è così anche nel caso Cucchi), ma la verità è un’altra: incrociando le telefonate al 118 (la prima dello stesso Biggiogero, che non ha assistito direttamente, ma ha ascoltato il pestaggio mortale all’amico, avvenuto in caserma), le intercettazioni agli aguzzini di Uva, le evidenze probatorie, il quadro drammatico che sembra inequivocabile è quello di un morto ammazzato da uomini in divisa. Un dramma inconfessabile per le stesse divise, che trovano una sponda amica nella procura di Varese, che avvia le indagini ma si concentra su altre responsabilità: il Tso, i medici, l’ospedale. Poi, lentamente, si incrina il muro di omertà e prima si indaga “contro ignoti” della caserma e poi, ancor più lentamente, escono i nomi. Ma i pm Abete e Arduini costruiscono imputazioni deboli per “illogicità e contraddittorietà” a carico dei responsabili in divisa, scrive il procuratore capo di Varese Isnardi, con il rischio che il processo finisca tutto in una bolla di sapone per le tempistiche bibiliche della giustizia italiana. E, nel frattempo, i video che ritraggono gli interrogatori del pm Abete mostrano non quella terzietà che ad un magistrato è dovuta, anzi evidenti pregiudiziali sui fatti del 14 giugno 2008.

Come ha preso la decisione del procuratore Isnardi?

“Sono un po’ felice e un po’ amareggiata, un po’ di tutto. E’ una buona notizia, si potrebbe anche dire una vittoria, però è anche una sconfitta: in questi sei anni questo pm mi ha proprio torturata, come ha torturato Giuseppe; è stata una battaglia lottata.”

Che cosa vi aspettate succeda adesso?

“Ci aspettiamo che adesso parta il vero processo perchè Giuseppe è come se lo avessero ucciso ieri ed oggi si cominciano le ricerche sul perchè sia morto. Questa è la verità. Noi chiediamo che venga fatta luce e i reati che resteranno in piedi vengano pagati tutti per intero (per via del rischio prescrizione, nda).”

Oltre al dolore per la perdita di Giuseppe, cosa altro ha vissuto in questi ultimi sei anni?

“Io personalmente ho dovuto mettere completamente da parte la mia vita, la mia famiglia; i miei figli, il mio lavoro, tutto accantonato per rincorrere dietro ad una verità per la quale bastava solo che il pm facesse il suo lavoro, che non ha fatto. Ho perduto tanto: ho perduto sei anni della mia vita.”

Come mai Abate, secondo lei, si è comportato in questo modo? Quale tesi voleva fermamente sostenere?

“Io non so interpretare il suo comportamento, non lo so. Mi vengono in mente però delle parole dette da un avvocato ieri davanti al tribunale, un avvocato dei medici al centro di una mia battaglia di sei anni affinchè venissero prosciolti dall’accusa di essere loro i responsabili della morte di mio fratello. Mi ha detto: vede signora, con Abate è dura farcela perchè lei sta cercando la verità mentre Abate vuole nasconderla perchè è amico dei Carabinieri. […] Per me lui ha nascosto la verità, io non so il perchè.”

E ora che farete?

“Abate si deve togliere la toga. A lui chiederò anche un risarcimento per questi sei anni di processo vuoto, ne ho già parlato con i miei legali.”

Ha sentito la vicinanza dello Stato, in questi sei anni?

“Non posso proprio dire di essere stata abbandonata: sono stata ricevuta dal ministro Cancellieri e da altre componenti dello Stato; la procura generale di Roma, il procuratore di Milano, tutti mi dicevano la stessa cosa: Aspettiamo perchè dobbiamo fare verifiche. Insomma, non mi sono sentita abbandonata. Forse però mi sono sentita tale da parte delle forze dell’ordine, che dovevano tutelare mio fratello e non l’hanno tutelato, e da questo pm che doveva fare le nostre indagini e non ha mai voluto farlo. Sinceramente, mi sono un po’ sentita sola all’inizio, quando tutti pensavano che io fossi una pazza ma io volevo solo la verità.”

Lucia ci tiene poi a ringraziare in particolare alcune persone che l’hanno sostenuta in questi anni, facendole sentire la vicinanza di un mondo che sarebbe potuto sembrare sordo, all’inizio, ma che poi ha fatto suo il dramma della morte di Giuseppe Uva, fino a mutarlo in una grande lotta per la verità e la giustizia e contro gli abusi in divisa.

“Io devo ringraziare il professor Manconi (Luigi Manconi, senatore del PD, nda) e il mio avvocato Fabio Anselmo (penalista ferrarese che segue anche altri casi di abusi in divisa, nda): ho lottato con loro al mio fianco, anche con l’associazione A Buon Diritto del professor Manconi.”

Oltre a “Via la divisa”, il motto che unisce tutte le vittime degli abusi di polizia in Italia, recentemente lanciato da Ilaria Cucchi, Patrizia Aldrovandi, Domenica Ferrulli e da Lucia Uva, la stessa Lucia chiede di aggiungere anche un “via la toga”, riferendosi al pm Abate che negli ultimi sei anni, a quanto scrive il procuratore di Varese (suo capo) ha prodotto atti lacunosi, illogici e contraddittori, atti che rischiavano di far saltare tutto il processo. La registrazione degli interrogatori avvenuti in procura, con il trattamento riservato all’unico testimone civile del massacro a Uva, il suo amico Alberto Biggiogero, sono un altro elemento che provocano scarsa indulgenza verso il pm Abate. Che, fino a prova contraria, non ha agito nell’interesse della verità.

24 marzo 2014. I pm di Varese hanno depositato la richiesta di fissazione dell'udienza preliminare per 2 carabinieri e 6 poliziotti, accusati di aver maltrattato Giuseppe Uva, 43 anni, nella caserma dei carabinieri di Varese, la notte del 14 giugno 2008, scrive “Il Corriere della Sera”. Entro due giorni sarà fissata la data dell'udienza stessa che, secondo indiscrezioni, potrebbe essere presieduta dal presidente del tribunale di Varese, il giudice Vito Piglionica. Esce di scena invece il gip Giuseppe Battarino che ha già firmato l'ordinanza che ha riaperto di fatto il caso ed è quindi incompatibile. I pm che hanno depositato la richiesta sono gli stessi che, da 6 anni, gestiscono il caso, Agostino Abate e Sara Arduini. I sostituti varesini sono stati molto contestati dalla sorella della vittima, perché hanno indagato in prima battuta su 4 medici dell'ospedale cittadino che somministrarono a Uva dei sedativi (tutti assolti) e solo successivamente, nella seconda inchiesta, hanno investigato sulle forze dell'ordine, salvo chiederne per ben due volte l'archiviazione. Nella loro richiesta di archiviazione «innocentista», i pm hanno concluso che i carabinieri fermarono Uva perché li insultava e si ostinava a voler compiere dei vandalismi in strada, a Varese; inoltre lo portarono in caserma solo per formalizzare gli atti della denuncia, circostanza che gli provocò uno scatto d'ira poiché era ubriaco e temeva di perdere la sessione di esame per riacquistare la patente, prevista nei giorni successivi. Il gip Battarino invece ha ribaltato questa ricostruzione e ha concluso che i carabinieri e i poliziotti fermarono illegalmente Giuseppe Uva, e che sono credibili le affermazioni del testimone Alberto Biggiogero: l'amico di Uva era presente in caserma e ha affermato di aver sentito le urla del pestaggio provenire da una stanza attigua del comando provinciale. Come assicurato nei giorni scorsi dal procuratore Felice Isnardi, i reati indicati dai pm sono gli stessi citati dal gip, ovvero omicidio preterintenzionale, violenza privata, abbandono di incapace, arresto illegale. Il legale degli imputati ha presentato ricorso in Cassazione contro l'imputazione coatta.

A quasi sei anni dall'episodio, gli agenti di polizia e i carabinieri che il 14 giugno 2008 fermarono Giuseppe Uva, morto in ospedale dopo aver trascorso parte della notte in caserma a Varese, dovranno rispondere davanti al gup delle accuse di omicidio preterintenzionale e arresto illegale, scrive “La Repubblica”. I pm Agostino Abate e Sara Arduini hanno depositato la richiesta di fissazione dell'udienza preliminare e di rinvio a giudizio per due carabinieri e sei poliziotti che intervennero a supporto dei colleghi. "Sono anni che chiediamo giustizia - fa sapere la sorella di Giuseppe Uva, Lucia - Finalmente ora potrà aprirsi un processo per fare chiarezza sulla morte di mio fratello e sulle responsabilità delle forze dell'ordine". Il passaggio segue l'ordinanza del gip Giuseppe Battarino, che lo scorso 11 marzo 2014 aveva respinto la richiesta di archiviazione del pm disponendo l'imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e altri reati dei carabinieri che portarono in caserma l'operaio 43enne Giuseppe Uva e l'amico Alberto Biggiogero, dopo averli fermati ubriachi per strada, e per gli agenti di polizia, tutti ancora in servizio. Nei prossimi giorni verrà fissata la data dell'udienza preliminare. Secondo i familiari, assistiti dagli avvocati Fabio Anselmo e Fabio Ambrosetti, Uva avrebbe subito violenze in caserma prima di essere ricoverato in ospedale con trattamento sanitario obbligatorio. Un'ipotesi esclusa dagli accertamenti condotti dal pm Agostino Abate, il quale aveva chiesto l'archiviazione per carabinieri e poliziotti indagati per lesioni colpose sostenendo che le ferite furono provocate da atti di autolesionismo. Il gip, nell'ordinanza che ha respinto la richiesta di archiviazione disponendo l'imputazione coatta, rimarca invece che "Giuseppe Uva è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali". Ordinanza contro la quale il legale di carabinieri e poliziotti, Luca Marsico, ha presentato ricorso in Cassazione. L'iter processuale sulla vicenda, con il proscioglimento dei tre medici dell'ospedale di Circolo di Varese accusati di omicidio colposo, ha portato per ora a un unico punto fermo: Uva non morì a causa di un errore del personale sanitario nel somministrargli i farmaci dopo il ricovero.

L’avvocato Luca Marsico, difensore dei due carabinieri e dei sei poliziotti coinvolti nel caso Uva, ha presentato un ricorso alla Corte di Cassazione con il quale chiede l’annullamento dell’ordinanza del gip Giuseppe Battarino dello scorso 11 marzo, ordinanza con cui il giudice ha ordinato alla Procura di chiedere il rinvio a giudizio degli agenti in relazione alla morte del quarantatreenne Giuseppe Uva, avvenuta nel giugno del 2008 in ospedale dopo un "passaggio" notturno nella caserma dell’Arma, scrive “La Prealpina”. ll legale ritiene l’ordinanza "affetta da abnormità", in particolare là dove disegna il "perimetro" delle accuse da muovere a poliziotti e carabinieri inserendo anche l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale. Semplificando un po’, l’avvocato Marsico rileva che in una precedente ordinanza Battarino all’omicidio preterintenzionale non aveva fatto cenno e su questa possibilità la Procura non ha svolto quindi indagini suppletive, anche interrogando gli agenti (con "lesione" delle loro garanzie difensive). Per quanto riguarda l’omicidio preterintenzionale, nella seconda ordinanza si è passati, secondo il legale, da una morte come conseguenza di arresto illegale o di abbandono d'incapace a una morte come "conseguenza di atti diretti a volontariamente ledere o percuotere". E questo avrebbe richiesto una nuova iscrizione degli indagati che non c’è stata. Per ora il ricorso non avrà effetti e forse sarà sottoposto al gup, in attesa che la Suprema Corte si pronunci: l’accoglimento sarebbe un terremoto. L'ennesimo.

Caso Uva, gli avvocati in procura: "Sostituite i pm". Fabio Ambrosetti si è recato dal procuratore reggente Isnardi e ha avuto assicurazione che il capo dell'ufficio sta valutando tutte le ipotesi. L'Avvocato Anselmo: "C'è anche il rischio prescrizione", scrive “Varese News”. «Bisogna normalizzare questa vicenda processuale, e l’unico modo per farlo è sostituire i pm». E’ con questa frase, lapidaria, che gli avvocati Fabio Ambrosetti di Varese, e Fabio Anselmo di Ferrara (foto), chiosano e mettono un punto esclamativo sulla loro conferenza stampa. Il team legale che sostiene il caso Uva (gli avvocati patrocinano le sorelle di Giuseppe, morto il 14 giugno del 2008 dopo un fermo in caserma) ha chiesto oggi al procuratore capo reggente Felice Isnardi la rimozione dei pm Agostino Abate e Sara Arduini dalle indagini. Il capo dell’ufficio, per legge, è il dominus dell’azione penale, e in qualunque momento può togliere un fascicolo a un suo sostituto ed affidarlo a un altro, ma certo ci devono essere delle motivazioni. Per gli avvocati, una di queste motivazioni starebbe nella eccessiva personalizzazione che il pm Abate avrebbe dato alle indagini, «mentre l’azione penale deve essere impersonata in maniera impersonale dell’ufficio competente» osserva l’avvocato Anselmo. E’ stato l’avvocato Ambrosetti a recarsi nell’ufficio del procuratore capo: «Mi ha assicurato che il provvedimento di esercizio dell’azione penale sarà fatto nei tempi di legge e per tutti i reati indicati dal gip. Mi ha dato espressa assicurazione che sarà così, indipendentemente da chi lo firmerà. Il procuratore ha anche detto – continua Ambrosetti – che insieme alla Procura generale di Milano stanno valutando l’ipotesi della sostituzione dei pubblici ministeri». Secondo Fabio Anselmo, tra questi pm e i giudici che finora hanno esaminato il caso «c’è un conflitto anomalo». Ma c’è un altro problema. «Per tutti i reati ipotizzati dal gip tranne l’omicidio preterintenzionale, a giugno, scatterà l’archiviazione. Quindi occorre fare in fretta».

Caso Uva, l'appello di Manconi: "Non può essere quel pm a sostenere l'accusa in aula". Il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani dopo l'imputazione coatta decisa dal gip di Varese a conclusione dell'inchiesta sul decesso del giovane. Trattenuto in caserma per stato di ubriachezza la notte del 14 giugno 2008, morì in ospedale qualche ora dopo, scrive “La Repubblica”. "Si deve evitare che il fascicolo resti ancora nelle mani del pubblico ministero Agostino Abate che per sei anni non ha voluto condurre un'inchiesta". All'indomani della decisione del Gip di Varese Giuseppe Battarino di ordinare l'imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto carabinieri e agenti di polizia indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani, il senatore del Pd Luigi Manconi, esprime tutta la sua preoccupazione per il proseguo del processo chiamato ad accertare le cause della morte del giovane trattenuto per circa due ore la notte del 14 giugno 2008 nella caserma dei carabinieri di Varese. Il giudice Battarino nel corso dell'udienza ha respinto la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate, ma se il fascicolo non viene assegnato ad un altro sostituto o se la Procura generale di Milano negasse ancora una volta (la sesta) la domanda di avocazione (presentata questa volta dallo stesso Manconi), il rischio è che a rappresentare l'accusa in occasione dell'udienza preliminare sia comunque un pubblico ministero già al centro di diversi episodi controversi e più volte censurato dagli organismi disciplinari della magistratura. Agostino Abate, si legge ad esempio nell'atto di azione disciplinare del Procuratore capo della Corte di Cassazione nei confronti del pm, "è venuto meno agli obblighi generali di imparzialità, di correttezza e di diligenza" e "ha pregiudizialmente eluso una puntuale disposizione del Tribunale e ha violato le norme del procedimento che impongono al pubblico ministero di svolgere le indagini necessarie per l'accertamento dei fatti (...) in particolare in caso di morte di una persona". "Obblighi procedurali - ricorda ancora il documento - che nella interpretazione che ne è data dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, sono rafforzati ed impongono alle autorità nazionali che le indagini siano effettive, tempestive e diligenti (...) in tutti i casi in cui la morte di una persona possa essere correlata all'intervento o all'uso della forza da parte di agenti delle forze dell'ordine". Manconi ricorda poi che "analoghe accuse, dette incolpazioni sono state mosse nei confronti di Abate da una parallela e autonoma inchiesta disciplinare condotta dal ministero della Giustizia. E ancor prima, nel corso degli anni, ben tre giudici, in altrettante sentenze, hanno intimato ad Abate di svolgere indagini complete e accurate sul trattenimento di Uva in caserma sotto la custodia dei due carabinieri e dei sei poliziotti. Ma niente è successo, fino alla imputazione coatta dei giorni scorsi". Come detto, oltre alla possibile scelta da parte del sostituto temporaneo del procuratore capo di Varese Felice Isnardi di affidare il fascicolo ad un collega, esiste secondo il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani un'ulteriore possibilità. "Sarebbe - spiega Manconi - il potere di avocazione in capo alla Procura generale di Milano". La quale, però, ha già per cinque volte rigettato le istanze di avocazione presentate dalla famiglia e non si è ancora pronunciata in merito all'ultima istanza di avocazione, presentata il 4 marzo scorso dallo stesso senatore del Pd. "Possiamo davvero consentire - conclude Manconi - che l'unica opportunità rimasta ai congiunti di Giuseppe Uva di conoscere la verità sulla sua morte sia nuovamente demandata a chi, per sei lunghi anni, ha ostinatamente e incredibilmente fatto tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto fare?"

Caso Uva, i giudici che cercano la verità. E quelli che la nascondono. Così scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Un pubblico ministero è votato alla ricerca della verità. Rappresenta lo Stato, non qualcuna delle parti in causa nel processo. Non è un avvocato al soldo di qualcuno. Sembra incredibile doverlo ricordare. Ad Agostino Abate, pm nel procedimento per la morte di Giuseppe Uva, della verità non sembrava importare molto. Giuseppe Uva, morto a Varese nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in una caserma del carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero che dalla stanza accanto lo sentiva gridare e lamentarsi, l’unica giustizia che aveva ottenuto era quella di un magistrato che non troppo aveva voluto indagare sulle colpe dei sei poliziotti e dei due carabinieri presenti quella sera nella caserma. Biggiogero, senza dubbi il principale testimone, era stato interrogato con incredibili anni di ritardo. L’interrogatorio era stato condotto come se fosse stato lui l’accusato, anteponendo all’ascolto la spavalderia e l’intimidazione. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, per aver detto che il fratello era stato percosso dai carabinieri è stata indagata per diffamazione. Oggi a dirlo è il giudice per le indagini preliminari di Varese, Giuseppe Battarino. Giuseppe Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. Vorranno indagare per diffamazione anche lui? Meno male che c’è un giudice a Berlino… Già l’ex ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pm Abate, così come aveva fatto la Procura generale presso la Cassazione. Oggi il dottor Battarino respinge la richiesta di archiviazione che Abate ha presentato in relazione alla morte di un uomo in custodia delle forze dell’ordine che urlava e chiedeva aiuto mentre all’amico veniva sequestrato il telefono con il quale – da solo – aveva chiamato il 118. Lucia Uva, che in questi anni ha portato avanti una battaglia che dovrebbe essere di tutti i cittadini, è stata trattata come fosse lei la colpevole. E la stessa cosa è accaduta a Ilaria Cucchi e a Patrizia Moretti. Se la saranno cercata, è il pensiero che si sente volare in quelle aule di giustizia. Se sono finiti in caserma, o sono stati fermati dalla polizia lungo un marciapiede, e se sono stati massacrati, un motivo ci sarà pure. Come per quelle donne che vengono violentate perché non stavano chiuse in casa invece di farsi vedere in giro. Meno di un mese fa a Bari un altro giudice per le indagini preliminari, Giovanni Anglana, ha respinto un’altra richiesta di archiviazione per un’altra morte in carcere. Carlo Saturno, 23 anni al momento del presunto suicidio nel marzo 2011, era stato pestato da ragazzino nel carcere minorile di Lecce. Come quasi mai accade a chi è in detenzione e dunque in mano altrui, aveva denunciato i fatti. Si attendeva la sua deposizione quando è stato trovato impiccato, dopo una lite con alcuni poliziotti, ormai nel carcere per adulti a Bari. Antigone ha chiesto tante volte al Ministero se gli agenti coinvolti nel processo fossero stati adeguatamente allontanati da lui, ma non ha mai avuto risposta. La scorsa settimana il Senato ha finalmente votato il testo di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano, in questo tragicamente carente. Si sbrighi adesso la Camera. E, una volta approvata la legge, ci pensino i giudici a utilizzarla. Il dottor Anglana impone al pm indagini che non ha effettuato su Carlo Saturno. Il dottor Battarino fa lo stesso per Giuseppe Uva. C’è più di un giudice a Berlino.

"Il vero processo comincia ora perché in questi sei anni nessuno ha mai voluto sapere come è morto Giuseppe" questa la prima reazione di Lucia Uva, sorella dell'operaio di Varese morto il 14 giugno 2008 dopo un fermo della polizia, scrive “Today”. Lunga e difficile è stata la vicenda giudiziaria per iniziare le indagini su carabinieri e poliziotti che la notte prima della morte di Giuseppe lo hanno portato nella caserma dove, come sostenuto da sua sorella e dai suoi avvocati, avrebbe subito diverse violenze prima di essere trasportato in ospedale. Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina. Il dottor Carlo Fraticelli, che aveva in cura Giuseppe, era stato indagato per omidicio ma anche scagionato da ogni accusa. Adesso rimane da ricostruire cosa è successo prima: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Domande scritte nel report redatto dal poliziotto in servizio nell'ospedale dove Giuseppe era stato trasportato e a cui cercherà di rispondere la nuova inchiesta. "La sentenza del gip è il vero processo, vanno a processo i veri responsabili. Abbiamo lottato e ora si è aperta una luce - continua a spiegarci Lucia - E' cominciato un momento nuovo e adesso ho fiducia e per me è una grande soddisfazione, anche se devo ammettere che ho avuto paura che arrivasse l'archiviazione". Agostino Abate, il primo pm a cui erano state affidate le indagini, che aveva anche accusato il medico dell'ospedale di omicidio, aveva chiesto l'archiviazione. Se fosse stata accolta la sua richiesta gli otto tra agenti e carabinieri non sarebbero andati a processo. Invece il gip Giuseppe Battarino ha accolto la richiesta di Lucia e del suo avvocato Fabio Alselmo. Come nel caso di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi anche Lucia vuole che chi ha ucciso suo fratello, se porta una divisa dovrà togliersela: "Nel caso venissero ritenuti colpevoli io continuerò la mia battaglia perché smettano di lavorare. Devono togliersi la divisa e così anche tutti gli altri che hanno ucciso. Non è giusto neppure nei confronti di chi questo lavoro lo fa onestamente. Nel mio caso poi Abate deve togliersi il fascicolo di Giuseppe. Lui non deve essere a processo con me in quell'aula. Adesso lo abbiamo smascherato ma allo stesso modo i magistrati che sbagliano non meritano di continuare e devono togliersi la toga. Lo Stato siamo noi e non possiamo essere sempre noi a pagare i loro errori" conclude Lucia.

Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.

Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”. 

Caso Uva, pm Abate a processo, scrive “TGcom 24”, non indagò su pestaggio dell'operaio. Si era rifiutato di indagare sulla morte di Giuseppe Uva, giovane operaio gruista deceduto al pronto soccorso di Varese per le percosse probabilmente subite durante un pestaggio nella caserma dei carabinieri, subito dopo l'arresto per ubriachezza. Ora il pm Agostino Abate finirà sotto processo, dopo che il ministro della Giustizia Cancellieri ha avviato un’azione disciplinare nei suo confronto. Il Csm lo accusa di ignoranza e negligenza. Sul pm Abate pesa più di un'ombra, circa il modo con cui ha condotto le indagini. Non ha mai ascoltato Alberto Bigioggero, amico di Uva e presente in caserma, anche se in un'altra stanza, al momento del presunto fatale pestaggio. Non ha mai ascoltato le denunce della sorella della vittima, Lucia Uva, addirittura indagandola per diffamazione aggravata. E' accusato, dopo che il medico portato in giudizio era stato assolto (Abate ha sempre sostenuto che Giuseppe Uva fosse morto per negligenza del personale sanitario dell'ospedale), di non aver condotto ulteriori indagini per chiarire la dinamica dei fatti, discolpando sempre le forze dell'ordine arrivando, secondo quanto riferito al Csm, a intimidire il collegio dei periti durante il processo a carico dei sanitari. Infine, il gip di Varese ha imposto nuove indagini ad Abate, rifiutando le sue richieste di archiviazione. Indagini ostinatamente mai condotte. Ora l'epilogo, con il processo al pm.

Caso Uva, alta tensione fra testimone e pm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare, Alberto Biggiogero. Questo video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere se stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione, come denuncia il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto'.

Caso Uva, il pm è sotto inchiesta: "Aggressivo con l'unico testimone", scrive “La Repubblica”. L'operaio di Varese morì in ospedale dopo essere stato trattenuto per ore in caserma. A più di cinque anni di distanza il magistrato sente l'unico testimone. E il senatore Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto' lo accusa: "Ha avuto un atteggiamento intimidatorio". Ora la vicenda è al vaglio del Csm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare: Alberto Biggiogero. Il video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste. Il confronto tra Abate e Biggiogero è durato più di quattro ore, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere sé stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione. La convocazione di Biggiogero in Procura, lo scorso 26 novembre 2013, arriva proprio dopo che i due autonomi procedimenti. Il tribunale di Varese, nella sentenza con cui aveva assolto il medico del pronto soccorso dall'accusa di omicidio colposo, aveva chiesto di indagare su quanto accaduto in caserma "perché - scriveva - tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri". Indagini che secondo la Procura generale della Cassazione non sono state mai compiute dal pm Abate, che nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione per otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali in relazione alla morte di Uva. Ciò nonostante il gip varesino Giuseppe Battarino aveva configurato come sussistenti i reati di arresto abusivo e lesioni dolose in capo agli agenti, chiedendo al pm se c'erano anche altri reati. "Questo interrogatorio è stato fatto solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto', anche lui convocato in Procura per rendere conto delle sue dichiarazioni sui media in cui accusava il pm di indagini lacunose e parziali. Adesso il Csm si occuperà nuovamente del caso Uva. L'assemblea dovrà pronunciarsi su un altro esposto nei confronti del pm Abate. La denuncia riguarda l'iniziativa del pm che ha messo sotto indagine l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, per "poter acquisire informazioni sull'attività difensiva di quest'ultimo in favore dei propri assistiti". A presentarla sono state Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara nel 2005 durante un controllo di polizia, e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato per droga e morto una settimana dopo in ospedale. La prima commissione del Csm aveva chiesto al plenum, come al solito, di archiviare l'esposto con la motivazione che non ci sono provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto che si tratta di "censure ad attività giurisdizionale". Ma grazie a un intervento di Giovanna Di Rosa, togata di Unicost, la proposta è stata stralciata e messa all'ordine del giorno del plenum.

Venerdì 12 aprile 2013 alle ore 23.00 su Italia 1, nuovo appuntamento in seconda serata con "Le Iene". Conducono Ilary Blasi, Teo Mammucari e la Gialappa's. Tra i servizi di questa puntata: nei giorni prima la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Per far luce sulla vicenda, Casciari intervista nuovamente Lucia Uva e ripercorre la storia del fratello, quarantenne morto in circostanze poco chiare il 14 giugno del 2008 a Varese. L'uomo, quella notte, viene portato con un amico in centrale per accertamenti da una pattuglia di Carabinieri. È proprio l'amico a raccontare di aver contattato il 118 mentre si trovava in sala d'attesa, sentendo dei lamenti di Uva provenire da un'altra stanza; richiesta fatta poi rientrare durante una chiamata di conferma del 118 alla caserma. Solo poche ore dopo, una guardia medica chiederà l'intervento di un'ambulanza per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio); è sempre stato sostenuto, infatti, che Giuseppe Uva si sia reso protagonista di atti di autolesionismo. Ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Varese, l'uomo verrà dichiarato morto poco tempo dopo. Secondo quanto accertato inizialmente dalle indagini, sembra gli siano stati somministrati medicinali incompatibili con l'assunzione di alcool.  Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decide per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata; da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta”; “a misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte". La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso. A quattro anni dalla morte dell'uomo, però, non si ha ancora un colpevole, per questo la sorella di Giuseppe Uva chiede che vengano fatte delle indagini per capire cosa sia successo nel lasso di tempo tra il fermo e il ricovero in ospedale. A questo punto il servizio parla della richiesta di avocazione delle indagini, per inerzia del Pubblico Ministero Abate, avanzata da Lucia Uva presso la procura Generale della Corte d’Appello di Milano, adducendo il fatto che nessuna indagine è stata fatta per trovare il responsabile della morte del fratello Giuseppe. L’istanza viene rigettata e sia Lucia Uva e sia Mauro Casciari spiegano che ha indurre al diniego è stata proprio la querela per diffamazione presentata contro di loro. Quindi, non è stata accolta la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere l'indagine al pm Abate. La Procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate l’indagine ed affidarla ad un altro magistrato. Lo si riferisce nella pagina ufficiale su Facebook dedicata al 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Cucchi e Aldrovandi. Già pochi giorni fa Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, aveva deciso di presentare una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva spiegato De Milato. La procura sulla morte di Uva ha indagato e mandato a processo per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – e non i carabinieri, che, come sostiene la famiglia picchiarono Uva. Lucia Uva aveva chiesto di verificare l’ipotesi del pestaggio, ma quel fascicolo è stato chiuso dalla procura. Non è mancata la beffa: l’unica ad essere stata denunciata è stata la stessa Lucia Uva, per aver accusato in un’intervista con Le Iene i carabinieri e la polizia per l’omicidio del fratello. Non è mai stato ascoltato dai pm il testimone principale, Alberto Biggioggero, l’amico che aveva condiviso con Giuseppe quella che si rivelerà l’ultima notte della sua vita. Anche dentro il commissariato, dove erano stati portati perché ritenuti ubriachi. Allo stesso modo, non erano state messe agli atti le conversazioni telefoniche registrate tra carabinieri e il 118. La bocciatura della richiesta, per i familiari di Uva, è – come si legge su Fb - lo stop all’ultima speranza affinché si indagasse in caserma. Nonostante “l’abbia chiesto anche il giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado”, in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. “Adesso siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione, dato che non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado. E comunque Abate non cambierà idea certo ora”. Così sembra che non si saprà mai la verità su quello che accadde realmente la notte in cui morì Uva.

La stessa notizia con il titolo “Caso Uva: un altro passo indietro” è stata scritta da Elisabetta Reguitti l’11 aprile 2013 su “Il Fatto Quotidiano”.  La procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate di Varese l’indagine per affidarla ad un altro magistrato. All’indomani della richiesta presentata da Fabio Anselmo legale della famiglia, Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, ha però presentato anche una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva scritto la giovane donna nipote del 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. La procura sulla morte di Uva fino ad oggi ha indagato per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Lucia Uva chiede però che venga sentito il testimone di quella notte e vengano messe a verbale alcune registrazioni telefoniche partite dalla caserma dei carabinieri verso il 118; tutto al fine di verificare l’ipotesi del pestaggio. Al momento l’unica denunciata è Lucia Uva per i suoi commenti scritti su Fb. Parole disperate dopo aver visto suo fratello morto all’obitorio il cui corpo presentava ferite sospette. Ora dopo la bocciatura della richiesta di trasferimento, il processo è a rischio di prescrizione. Sarà una corsa contro il tempo per riuscire a scoprire cosa sia davvero accaduto quella notte in cui è morto.

Omicidio Uva: il Csm indaga sul pm che non indaga, scrive Checchino Antonini su “Osservatorio Repressione”. Un'azione disciplinare pende sul magistrato che non vuole interrogare il teste di quella notte ed è ostile a familiari e legali. Un'azione disciplinare del Csm pende sul pm del caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ad Agostino Abate è contestato tra l'altro il comportamento ostile, in aula e fuori, nei confronti della sorella dell'uomo ucciso, Lucia, fatta allontanare durante un'udienza. La notizia proviene proprio dal Consiglio superiore della magistratura dove viene spiegato che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda e che dunque non c'è stata nessuna inerzia del Consiglio. Era stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e dunque compagna di sventura di Lucia Uva, a lamentare il silenzio del Csm sugli esposti presentati dalla sorella di Uva e da Luigi Manconi. Di qui la decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli di avviare una ricognizione sulla sorte di queste denunce, su richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm dura da tempo soprattutto per il fatto che Abate ha sempre voluto interpretare quella morte come un "banale" caso di malasanità senza mai voler interrogare l'amico di Uva, Alberto Biggioggero, arrestato con lui quella notte e testimone delle urla di Uva nella caserma della polizia in cui avrebbe trascorso alcune ore in balìa delle forze dell'ordine. Un giudice, assolvendo in primo grado il medico portato alla sbarra da Abate, aveva ordinato - invano - la riapertura dell'inchiesta con l'accusa da parte del pm di essere lui stesso succube del clima mediatico. Il contrasto era culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d'ufficio. Da parte sua Abate s'era scagliato più volte contro la sorella del ragazzo ucciso, contro il suo legale Fabio Anselmo (lo stesso dei casi Aldrovandi, Ferrulli e Cucchi) e contro i giornalisti che osavano riprendere la vicenda come un caso di malapolizia. I famigliari di Uva (Lucia è stata perfino accusata di aver manipolato il cadavere di suo fratello) contestano la chiusura dell'inchiesta: secondo il pm non ci sono responsabilità delle forze dell'ordine nella morte dell'uomo, mentre per i parenti Uva avrebbe subito percosse in caserma. La Procura Generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta di togliere a quel pm l'indagine ed affidarla ad un altro magistrato. «Era l'ultima speranza che si indagasse in caserma, e invece no - scrive Lucia - nonostante l'abbia chiesto anche il Giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. Quindi ora siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione. (Non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado, e comunque il pm Abate non cambierà idea certo ora). Non sapremo mai la verità su ciò che accadde quella notte. Mai».

Invece Vendemmiati su “Articolo 21” parla dell’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero del processo sul caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Nel procedimento al magistrato Agostino Abate è contestato tra l’altro il comportamento tenuto in aula nei confronti della sorella dell’uomo, Lucia, fatta allontanare durante un’udienza. La notizia si è appresa al Csm, dove spiegano che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda che chiedevano di trasferire ad altro magistrato l’indagine su quanto accaduto quella notte nella caserma dei carabinieri. La decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli è partita dalla richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm. dura da tempo ed è culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco e il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio.” Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. La vicenda: Alle 10.30 di mattina del 14 giugno 2008, all’ospedale Circolo di Varese, muore. Giuseppe Uva. Giuseppe Uva, prima di essere ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, è stato dalle 3 di notte alle 6 nella locale caserma dei carabinieri con i militari e con sei poliziotti, tutto l’equipaggio di pattugliamento notturno della cittadina. Giuseppe era stato fermato in compagnia dell’amico Alberto Biggiogero in stato di ebbrezza alcolica mentre spostava delle transenne al centro della strada. Nessun verbale di arresto viene compilato quella notte, proprio perché non hanno commesso alcun reato. Nonostante questo, i due rimangono in caserma per tre ore. Biggiogero viene liberato, mentre Uva nelle primissime ore della mattina viene trasferito in ospedale, dove muore poco dopo. Aveva il naso fratturato, le scarpe consumate e il cavallo dei pantaloni imbrattato di sangue. Da quel 14 giugno la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, chiede con tutte le sue forze che venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. Sono passati quasi 5 anni, e a oggi l’unico processo celebrato è stato contro un medico, accusato di aver somministrato un farmaco sbagliato e di avere quindi causato la morte. Il medico è stato assolto e, perizia dopo perizia, si è arrivati a stabilire la correttezza di quella prescrizione. Se non sono stati i farmaci, a uccidere Giuseppe, cosa è stato? All’interno della procura di Varese esiste un fascicolo, il 5509, che dovrebbe contenere le indagini svolte per accertare responsabilità precedenti all’ingresso di Giuseppe in ospedale. Lucia Uva, che è stata recentemente querelata dai carabinieri per diffamazione, ha ritirato il fascicolo 5509, perché la sua querela è stata inserita in quegli atti. Al suo interno ci sono solo doppioni di atti già acquisiti nel processo contro i medici. Delle ore passate da suo fratello in caserma, neanche l’ombra di un’indagine o di avvisi di garanzia.

Giuseppe Uva, la giustizia rovesciata, scrive Paolo Favarin. Indagine bis su carabinieri e polizia senza risultati. La procura di Varese indaga la sorella Lucia e querela per diffamazione gli autori del documentario “Nei secoli fedele”. Per la procura la colpa è sempre dei medici: Giuseppe Uva morto per un caso di malasanità. Dopo l’assoluzione di Carlo Fraticelli, adesso altri due dottori rischiano il rinvio a giudizio, mentre l’indagine bis su carabinieri e polizia – che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 trattennero Giuseppe e il suo amico Alberto Bigiogero per una notte intera – si è conclusa con un clamoroso nulla di fatto: nessun addebito agli uomini in divisa, tra le quattro mura della caserma di Varese non è successo nulla, le urla e il rumore delle botte non vogliono dire niente, assolutamente niente. Un mare di fango che schizza, con il pm Agostino Abate che ha iscritto nel registro degli indagati Lucia Uva e un giornalista delle Iene, Mauro Casciari, “colpevoli” di aver diffamato l’Arma e la polizia. Decisione presa in seguito a una denuncia sporta dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl. Ma non basta. Le indagini non sono finite e nel mirino adesso ci sono finiti pure gli autori del documentario “Nei secoli fedele”, che ricostruisce tutto il caso con interviste e materiale giudiziario: Adriano Chiarelli – scrittore, documentarista e collaboratore di Contropiano – e il regista Francesco Menghini. «La notizia non ci sorprende – dice adesso Chiarelli -, vista la piega che stanno prendendo gli eventi. A finire sul banco degli imputati, ancora una volta, saranno coloro che si battono in difesa della giustizia e della legalità, e non i diretti interessati. È accaduto con Patrizia Moretti, sta accadendo con Lucia Uva e di conseguenza con noi». La tremenda sensazione di giustizia mancata si somma ora al rammarico per un rovesciamento totale della vicenda: chi cercava la verità diventa colpevole e chi ha fatto di tutto per insabbiare la vicenda è una vittima. La colpa – se esiste – diventa dell’ospedale, che avrebbe sbagliato la somministrazione di alcuni medicinali a Giuseppe Uva, ma «io ho visto tanto sangue. Mille perizie dimostrano che i dottori non c’entrano», dice la sorella Lucia. A nulla è servita la sentenza del giudice Orazio Muscato, che chiedeva alla procura di indagare meglio sui fatti avvenuti in caserma. Per il pm Agostino Abate carabinieri e polizia hanno semplicemente fatto il proprio dovere. E allora è tutta colpa di Lucia e dei suoi “compari”, trattati malissimo e derisi dall’accusa per tutto il processo di primo grado a Fraticelli, tanto che nella sentenza di assoluzione, il giudice non può non sottolineare che «L’esame del pm è stato nel complesso effettivamente condotto con toni e modalità tali da indurre l’esaminato (nel caso, i periti) in stato di soggezione, con ripetuti interventi del Tribunale tesi a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte delle lamentazioni avanzate dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi dal pm».Una lotta senza quartiere ormai per arrivare a una verità che ormai sfugge solo alla procura di Varese. «Se i rappresentanti della giustizia intendono perseguire coloro che chiedono la verità – l’amarissima conclusione di Chiarelli -, facciano pure. Siamo disponibili fin da subito a essere interrogati e a mettere a disposizione tutto ciò di cui siamo venuti a conoscenza durante la permanenza a Varese». La polemica infinita e, a tratti, pretestuosa, portata avanti da chi dovrebbe lavorare per la giustizia rischia di far scivolare l’intera vicenda verso l’oblio della prescrizione: la vicenda si trascina da quasi cinque anni e, nei tribunali, il tempo ha il potere di spazzare via ogni cosa. Rimangono alcuni particolari: i vestiti di Giuseppe sporchi di sangue, le fotografie che mostrano un uomo massacrato, pieno di lividi. Torturato. E una telefonata, quella fatta da Bigiogero al 118, nella notte più lunga della sua vita, l’ultima del suo amico Pino. «118…» «Posso avere un’auto-lettiga qui alla caserma di via Saffi?…» «Sì, cosa succede?» «Praticamente stanno massacrando un ragazzo…» «In caserma?» «Eh, sì…» «Ho capito… Va bene… Adesso la mando».

Varese, il caso di Giuseppe Uva "Massacrato di botte in caserma".

L'uomo fu picchiato per ore da poliziotti e carabinieri e morì: la denuncia di Manconi. Era stato fermato ubriaco alle tre del mattino del 14 giugno 2008.

Un altro dramma inquietante dopo quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Un ragazzo che chiama il 118 per chiedere un'ambulanza mentre sente le urla del suo amico nella stanza accanto, all'interno della caserma dei carabinieri di Varese. "Lo stanno massacrando" dice a bassa voce. Una "anomala presenza di carabinieri e poliziotti in quella caserma di via Saffi, dove per tre ore il fermato subisce violenze sistematiche e ininterrotte". Gli indumenti sporchi di sangue, le ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, le macchie rosse tra pube e ano. Il ricovero in ospedale alle 5 del mattino con la "somministrazione di medicinali incompatibili con lo stato di ubriachezza dell'uomo".

Dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto" ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, "resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all'interno della caserma di via Saffi". Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un'ambulanza. "Stanno massacrando un ragazzo" sussurra all'operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l'autoambulanza. "No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui - risponde un militare - ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi".

Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.

"Un caso limpido di diritti violati nell'indifferenza più totale - denuncia ora Luigi Manconi - . Infatti, per quanto accaduto all'interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti". "Al di là dei primi interrogatori nei giorni successivi di poliziotti e carabinieri, non è stato più sentito nessuno" denuncia l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha squarciato il velo di omertà nelle istituzioni su altri casi di violenze di appartenenti alle forze dell'ordine, come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Anche nella storia di Giuseppe Uva e nella sua ultima notte di vita, c'è ancora molto da chiarire. Gli interrogativi dei suoi parenti sono ancora tanti: perché in una caserma si riuniscono carabinieri e poliziotti? Come si spiegano le ferite e i lividi sul volto, il sangue sui vestiti, la macchia rossa tra pube e regione anale? Perché l'autopsia non ha previsto esami radiologici per evidenziare eventuali fratture? "Sono passati quasi due anni e non abbiamo avuto ancora giustizia - dice in lacrime Lucia Uva, sorella di Giuseppe -. Non sappiamo ancora perché nostro fratello è morto: se per le botte o per i farmaci somministrati in ospedale. Aspettiamo che un giorno qualcuno dica la verità".

IL CASO DI ALDO BIANZINO.

L'arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname “morto di carcere” a Perugia in circostanze misteriose nell'autunno 2007, quando Aldo Bianzino fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato “strappato”, come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c'era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza.

La prima volta però la richiesta di archiviazione – è l'ottobre del 2008 – viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. La famiglia di Aldo (la sua compagna Roberta è mancata qualche mese fa) non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi. I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia “minore” non registrò l'attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull'oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano.

Tutti i media hanno parlato della terribile vicenda accorsa a Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti e deceduto dopo una settimana in circostanze non ancora chiarite. Altrettanto scalpore hanno destato le immagini - diffuse dai mezzi d'informazione - del suo corpo e del suo volto, in cui erano ben visibili lesioni e traumi di grave entità. Mauro Casciari delle “Iene” di Italia 1 decide di occuparsi di un caso di cronaca analogo, quello di Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora sconosciute. Due giorni prima del decesso, Aldo e la compagna Roberta, residenti a Capanne - nell'Appennino umbro marchigiano - vengono arrestati e portati presso il carcere di Capanne perché, in seguito ad una perquisizione, vengono trovate nella loro tenuta alcune piante di marijuana. La mattina del 14 ottobre Roberta viene scarcerata e solo in quel momento apprende della morte del marito. Tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere il certificato medico dimostra che entrambi godevano di perfette condizioni di salute. Il medico legale nominato dalla famiglia assiste alla prima autopsia dichiarando che il corpo dell'uomo presentava lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Dell'argomento si era già interessato Michele Pietrelli, un collaboratore attivo sul blog di Beppe Grillo il quale aveva raccolto la testimonianza della moglie della vittima, scomparsa nel 2009, di cui le Iene mostrano il filmato. Un servizio di denuncia ma non solo; la coppia aveva un figlio che, dopo la morte della madre, vive con lo zio, tornato dalla Germania apposta per accudire il nipote e che, per questo, ha perso il suo posto di lavoro.

«In limine vitae» è scritto nella relazione finale dei due medici legali Luca Lalli e Anna Aprile. Le «evidenti lesioni viscerali di indubbia natura traumatica» che Aldo Bianzino riportava la mattina del 14 ottobre 2007, il giorno del suo oscuro decesso nel carcere di Capanne a Perugia, erano da collocarsi «in limine vitae». Letteralmente sulla soglia della vita, l’attimo tra la vita e la morte. Quelle lesioni, cioè il completo distacco del fegato, per la perizia ordinata dalla procura di Perugia sarebbero frutto di un disperato tentativo di rianimare Aldo in seguito a un aneurisma cerebrale. Per la famiglia la prova evidente di un pestaggio mortale. Nel limbo del «limine vitae» Aldo, che aveva quarantaquattro anni, pesava non più di 50 chili e faceva il falegname, è rimasto 22 minuti. Suo figlio Rudra, invece, due anni interi. Passati a combattere la morte che si è portata via, oltre al padre, anche la madre e la nonna, e a cercare la vita, la verità su Aldo.

Quando scende dall’autobus che lo riporta a casa, Rudra, per gli induisti «colui che allontana i dolori», ha una felpa bianca, un giaccone nero al braccio e due occhi che riflettono il colore del cielo. A Pietralunga sono otto gradi e piove leggero. Il paese è adagiato sopra il fianco di una collina. Dietro l’Appennino e le Marche, davanti l’Alta valle del Tevere e, sessanta chilometri più giù, Perugia. Lontana. Rudra ha sedici anni, frequenta con profitto il liceo scientifico di Umbertide ed è magro come un chiodo. Possiede un Ape 50 con il quale da casa raggiunge il paese e poi con l’autobus, dopo un’ora, la scuola. «Quel giorno ce l’ho scolpito nella mia testa» ricorda. Quel giorno, il 12 ottobre del 2007, un venerdì, arrivarono in cinque a casa dei Bianzino, un rudere ristrutturato in mezzo al nulla. Quattro poliziotti (tre uomini e una donna), un finanziere e un cane anti droga. Bussarono alle porta alle 6,30 del mattino. Cercavano 100 piante di marijuana che Aldo coltivava non distante dall’abitazione. Tra una fitta vegetazione andarono a colpo sicuro. «Mio padre si accusò subito». La polizia se lo portò via, assieme alla compagna Roberta Radici, la mamma di Rudra. Lui restò solo per tre giorni con la nonna novantenne. «La domenica sera mia madre tornò». Senza il compagno. Aldo era già morto, la mattina. Lo trovarono agonizzante nella sua cella di isolamento solo con una t-shirt bianca addosso. Colpito da un aneurisma due, forse nove, ore prima. «In verità quando lo soccorsero era già deceduto» dice l’avvocato Massimo Zaganelli, «il tentativo di rianimazione è una farsa».

Al cimitero di Pagialla, tra le querce dell’Appennino, Aldo è sepolto vicino a Roberta. L’uno di fianco all’altra, a terra, in fila. Sopra la tomba di Aldo una croce di legno, su quella di Roberta dei fiori gialli. Nonostante la venerazione per Sai Baba e l’India entrambi hanno avuto il rito cristiano per la sepoltura. «Mia madre è morta a giugno» dice Rudra. Di epatite «C». Era in lista per un trapianto. «Se non avessero ammazzato mio padre sarebbe ancora viva, di questo sono sicuro». È lei che si rivolse per la prima volta a Zaganelli, uno degli avvocati più in vista di Città di Castello, e quest’ultimo al professore Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale all’Università di Bologna. Il quale eseguì, dopo molti giorni dalla morte, una perizia sul corpo di Aldo. Non l’unica per la verità. Aldo venne anche visionato, oltre che da Lalli e dalla Aprile, anche dal medico legale Walter Patumi incaricato dalla prima moglie Gioia Toniolo. Fu Patumi a parlare per primo di un pestaggio esperto. La perizia di Fortuni, famoso per aver seguito il caso Pantani, evidenziò un distacco totale del fegato in seguito a «pressione violenta». Dovuto a che cosa? Ai 22 minuti di massaggio cardiaco, decretò il rapporto ufficiale. Talmente violento da strappare il fegato, ma non abbastanza forte da incrinare neanche una costola. In 30mila autopsie, spiegò Fortuni, «mai visto un fegato devastato così da un massaggio cardiaco, sebbene la letteratura medica citi qualche caso». Rarissimo, tra l'altro, e riferito a persone ancora in vita.

Ma Aldo era vivo? Secondo il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, lo stesso che firmò gli atti di custodia cautelare proprio per Aldo e Roberta, era «in limine vitae». Tra la vita e la morte. Per questo ha avanzato ben due richieste di archiviazione. La prima è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini nel febbraio del 2008, la seconda l’11 dicembre 2009 davanti al gip Massimo Ricciarelli. Rudra ora abita nel rudere in mezzo al nulla con lo zio materno Ernesto tornato dalla Germania. Ernesto è in cerca di un lavoro e sta per prendere la patente. «Del civile non mi importa nulla» dice Rudra, «anche se ho bisogno di soldi» (Beppe Grillo ha raccolto 68mila euro vincolati in un conto corrente). «Però mi devono spiegare perché mio padre era nudo, perché hanno coperto le altre celle per non farlo vedere al momento del suo passaggio, perché non è stata fatta una perizia all'interno della sua cella. Lo Stato mi deve dire come ha fatto mio padre a morire». E farlo finalmente uscire dal suo limbo, dal suo «limine vitae».

Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.

“Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.

Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria poi indagata. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre, non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml. al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).

Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle «forze dell’ordine», lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.

Ma i veri assassini sono coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle «droghe» come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera (con le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti, non succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere «clandestino», pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria." In fede Giuseppe Bianzino 

IL CASO DI FEDERICO ALDROVANDI.

Mai dimenticare la saggezza dei proverbi! Come quello che dice «scherza coi fanti ma lascia stare i santi» e che dovrebbe mettere in guardia dalla difficoltà di raccontare (e rappresentare) adeguatamente la verità storica sui fatti di cronaca che diventeranno storia. Da piccolo mia madre mi ripeteva spesso questa massima popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” e come tutte le massime anche questa contiene una filosofia spicciola, ma vitale; ciò che è “Santo” deve essere rispettato.

Vuoi fare satira sul Presidente del Consiglio o sui parlamentari o sui politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Vuoi offendere a piacimento il Presidente del Consiglio ed i parlamentari o i politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Puoi criticare l'operato del magistrato, che palesa pecche ed illogicità, foriero di errori giudiziari, ingiuste detenzioni, omessa giustizia e comunque evidente ingiustizia, esercitato nella veste di funzionario pubblico che ha vinto un concorso all'italiana? No. E' lesa maestà!!

Per questo chi santifica i magistrati e pende dalle loro labbra o dalle loro veline, vigendo l’impunità per loro riguardo la violazione del segreto di ufficio, è immune da qualsivoglia ritorsione.

Non è così per chi, invece, decide di raccontare i fatti al di là della verità giudiziaria e della cultura ideologica imperante. Esercitare in Italia il diritto di critica e di cronaca è pericoloso.

Antonio Giangrande, scrittore ed autore della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” è subissato di denunce per diffamazione a mezzo stampa e qualcuna, anche, per calunnia da parte di quei magistrati un po’ permalosi e megalomani che si sentono lesi nella loro maestà. Diffamazione attribuita al Giangrande per articoli scritti da altri e pubblicati autonomamente anche da giornali esteri (fino in Sud Africa) riferiti all'orinaria malagiustizia italiana o a risibili motivazioni di archiviazioni di denunce penali. Molti di questi magistrati sono gli stessi che hanno insabbiato le denunce di Giangrande contro i loro colleghi magistrati che insabbiano in terra di mafia. Peccato però che nessuna condanna sia conseguita, in quanto i medesimi denuncianti mai si sono presentati in udienza, causando il naturale proscioglimento.

Ma questo non è un fatto isolato e riferibile esclusivamente a chi è emarginato per il sol fatto che racconta ciò che vede e per questo accusato di mitomania o pazzia.

In giro ci sono altri mitomani o pazzi.

Dal “La Stampa”: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile.

Ma ora, il gup del tribunale di Mantova ha deciso di processare la madre di Federico per diffamazione a mezzo stampa. Insieme a lei sono stati rinviati a giudizio due giornalisti e il direttore del quotidiano La Nuova Ferrara. E così, con una capriola che ha il sapore del paradosso giudiziario la donna che era riuscita a ottenere giustizia per suo figlio ora si ritrova lei a subire un processo. La frase che le è costata l’incriminazione, pronunciata nel gennaio 2006 quattro mesi dopo la morte di Federico, quando le indagini ancora languivano, è questa: «È un fascicolo ancora vuoto». Patrizia Moretti si prepara a una nuova battaglia in tribunale: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata per aver criticato chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo e noi lo faremo, e così come lo avevano fatto a Ferrara a Federico ora lo faremo noi al magistrato che mi ha denunciata». Si chiama Maria Emanuela Guerra la pm che condusse la prima parte dell’inchiesta prima di rinunciare all’incarico e che ha ritenuto lesive quelle dichiarazioni. La Moretti da parte sua non si aspettava né che il magistrato andasse a fondo nella querela né, tantomeno, che ieri il gup decidesse per il rinvio a giudizio: «Abbiamo prodotto documenti che dimostrano che le mie parole sono state dette in tribunale, durante due dei processi per l’omicidio di Federico, e che sono sancite in due sentenze. Eppure il Gup ha disposto il rinvio a giudizio». E’ addolorata ma non ha perde la sua determinazione: «Non mi tiro indietro. Io della dottoressa Guerra non volevo più sentir parlare, ma se mi tira per i capelli ci sarò, e allora dovrà dire lei perché ha aperto il fascicolo solo il 16 gennaio, perché non è andata sul posto e perché non ha sequestrato i manganelli». Il legale della Moretti, Fabio Anselmo, aggiunge che la pm «sarà il nostro principale teste a discarico” e ricorda come, stranamente, il docufilm del giornalista Rai Filippo Vendemmiati – «E’ stato morto un ragazzo», che a maggio sarà anche premiato dal presidente Napolitano -, pur riportando le stesse parole non sia stato oggetto di alcuna denuncia. «Tutto ciò è pazzesco ma a questo punto non vedo l’ora di andare a processo, così verrà fuori tutto quanto – aggiunge la madre di Federico – La cosa che mi dispiace è che l’udienza è stata fissata per il 1˚ marzo 2012…».

Aldrovandi, stampa alla sbarra. Ricordate il ragazzo di 18 anni ucciso da tre poliziotti a Ferrara nel 2005? Il giornale della città aveva sostenuto quella che poi è emersa come la verità, criticando il giudice che aveva fatto le prime, inconcludenti, indagini. E ora il suo direttore è sotto processo. Ecco che cosa scrive al “L’Espresso”.

Dal direttore del quotidiano “La Nuova Ferrara” riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore, è sempre bello tornare nella propria città. Non sarà così, però, il primo marzo: in Tribunale a Mantova, con alcuni colleghi, sono imputato in un processo per diffamazione. Dove sta la notizia? Il fatto è che siamo alla sbarra per aver dato voce a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. Una donna coraggiosa che, grazie al suo blog, ha fatto emergere la verità sulla morte del figlio di 18 anni: non per un'overdose, ma per le conseguenze di un fermo di polizia. Quattro poliziotti sono stati condannati in primo e secondo grado. Ma questa è una guerra che non finisce mai, perché dall'altra parte della barricata c'è una pm, Maria Emanuela Guerra, che ci ha mitragliato di querele ogni volta che la Moretti parlava dell'inchiesta e dei suoi lati oscuri. Ne ho collezionato un pacco, che conservo sulla scrivania. Alla Guerra, prima titolare delle indagini, è stato rimproverato da più parti di non essere andata sul luogo in cui morì Federico il 25 settembre 2005 fidandosi della versione dei poliziotti. Poi abbandonò l'inchiesta, che in mano ad un altro pm, Nicola Proto, subì un'accelerazione decisiva. Nella motivazione della sentenza d'appello di Bologna, il giudice Luca Ghedini scrive tra l'altro: «...Le indagini preliminari? Iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo pm (la Guerra)». Ma gli aspetti oscuri sono tanti. Tanti giornali e televisioni hanno raccolto le stesse testimonianze, sul caso Aldrovandi è uscito un documentario ("E' stato morto un ragazzo", di Filippo Vendemmiati) che ha vinto il David di Donatello. Ma la Guerra ha querelato sempre e solo noi. Inoltre, in vista dell'udienza penale del primo marzo a Mantova, si è costituita parte civile chiedendo al nostro giornale almeno 300 mila euro per i gravi danni al suo onore e al suo prestigio. Somma che si aggiunge al milione e mezzo di euro che chiede nel processo civile in calendario il 21 marzo al Tribunale di Ancona. Non manca la beffa: oltre al sottoscritto sono imputati il collega Daniele Predieri e un nostro ex collaboratore, Marco Zavagli, che non è l'autore dell'articolo contestato, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura. Un grossolano errore che abbiamo fatto notare nell'udienza preliminare a Mantova, senza successo. Per la Procura è uno pseudonimo. Ma nel mio giornale nessuno ne fa uso, semplicemente hanno scambiato gli autori di due articoli. Il legale della Guerra ha chiesto un rinvio dell'udienza: il primo marzo l'avvocato Flora ha una lezione all'Università di Firenze. Non sappiamo ancora se sarà accolta. Mi chiedo cosa succederebbe in caso di condanna: quello che per due Tribunali (Ferrara e Bologna) è verità, per un altro (Mantova) sarebbe diffamazione. Per la giustizia e la libertà d'espressione sarebbe la fine. Paolo Boldrini, direttore della 'Nuova Ferrara'.

DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SIAMO IN ITALIA, TERRA DI POETI, NAVIGATORI E TIRANNI!!

Omicidi di Stato: Caso Aldrovandi. La mamma: «Io imputata dopo la morte di mio figlio».

Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore.

Questa è la storia che scrive Andrea Scanzi su “La Stampa”.

Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.

Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.

Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.

Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione.

E' dunque oltremodo consigliabile "Zona del silenzio", di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito per Minimum Fax. Racconta l'omicidio di Federico Aldrovandi. E' tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E' un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.

"Zona del silenzio" era il cartello in Via dell'Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte.

Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni. 

Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l'esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E' un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. E' vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, considerando che l'eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo. La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po'. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.

Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato. La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C'è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono. La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L'abbiamo bastonato di brutto".

Il Giudice di Ferrara ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c'è l'indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti.

In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l'eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio. Da lì tutto è nato. Altri blog, l'interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l'ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio. E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato. E un senso crescente di democrazia sospesa.

E' una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. “Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull'asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata).

I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l'auto. Il testicolo squarciato? E' saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja.

La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l'autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l'ennesimo colpo ricevuto.

E' una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell'ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.

E' una storia che fa molto Italia. Ma non è tutto. Patrizia Moretti sarà processata dal 1 marzo 2012 con l’accusa di diffamazione verso la pm Mariaemanuela Guerra per le critiche che fece alle prime indagini condotte dal magistrato sulla morte del figlio. A giudizio anche giornalisti e direttore della “Nuova Ferrara”, così come è riportato dallo stesso quotidiano.

Il dolore ce l'ha dentro, e se lo tiene stretto. La rabbia invece la getta fuori con le lacrime che si asciuga, uscendo dal tribunale, e con parole misurate che non vuol più tenere a freno: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata dopo la morte di mio figlio».

«Ma come hanno voluto fare il processo a Federico indagando su di lui solo sulla droga, ora lo faremo al magistrato che mi ha denunciato, la dottoressa Guerra». A 6 anni dalla morte del figlio, dopo processi, sentenze e veleni come vittima di una delle tragedie umane e giudiziarie più impensabili, Patrizia Moretti da ieri è imputata di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del pm Mariaemanuela Guerra. E' stato il gup Villani del tribunale di Mantova a decidere, con una udienza lampo, che lei, il direttore della Nuova Ferrara e due giornalisti (uno di loro a processo nonostante non abbia scritto nessuno degli articoli incriminati e chiamato in causa dalla procura perchè comunque avrebbe collaborato alla stesura o il suo nome potrebbe essere uno pseudonimo) dovranno presentarsi in tribunale il 1 marzo 2012.

«Sono da oggi imputata - ha spiegato la Moretti - per aver criticato il modo con cui vennero fatte le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo, lo faremo, andando fino in fondo, senza scorciatoie e nemmeno remissioni di querele». All'udienza velocissima, il pm Fabrizio Celenza aveva rinnovato la richiesta di rinvio a giudizio, nonostante le difese della Moretti e del giornale avessero prodotto copiosa documentazione su tutte le sentenze del caso Aldrovandi, Aldrovandi bis che contengono le dichiarazioni di altri magistrati ferraresi che si sono occupati di questi casi e di atti del Csm che aveva valutato l'operato della pm Guerra sul mancato sopralluogo il giorno della morte di Federico in via Ippodromo, il 25 settembre 2005. «Il processo non ci spaventa, sarà la stessa dottoressa Guerra il nostro principale teste a discarico» ha detto l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della Moretti.

Il legale nella sua arringa ha fatto anche un accostamento singolare: le stesse affermazioni critiche sulle indagini della pm Guerra per cui ora è a processo la Moretti - ha riferito - sono le stesse, e più dirette, riproposte nel docu-film sul caso Aldrovandi di Filippo Vendemmiati, giornalista pluri-premiato in tutta Italia e che l'8 maggio prossimo sarà premiato dal presidente della Repubblica Napolitano, per la sua opera di denuncia. «Un filmato che non è stato querelato», ha spiegato al giudice il legale: «Perchè allora la Nuova Ferrara sì e altri no?».

Il difensore della Nuova Ferrara, Arrigo Gianolio ha sottolineato al giudice «che un magistrato dovrebbe avere sempre equilibrio e che in questa vicenda purtroppo mi pare sia mancato».

«E' assurdo tutto questo - ha commentato Patrizia Moretti -. A pensarci bene non ho ancora capito per quale motivo debba sostenere un processo come imputata. Solo per aver criticato come mio diritto l'operato del magistrato che si occupò della prima parte dell'inchiesta sulla morte di mio figlio: si è trattato di critiche che ho potuto fare solo dopo aver appreso nuovi fatti da inchieste e processi condotti da altri magistrati a Ferrara». «Voglio ricordare - conclude - che questa inchiesta era stata condotta da un altro magistrato, il pm Nicola Proto che ha portato a processo e fatto condannare i quattro poliziotti per la morte di mio figlio».

IL CASO DI RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

Le vittime dell'omicidio Simonetta Cesaroni.

Raniero Busco è innocente. Oggi, venerdì 27 aprile 2012, la prima Corte d’assise d’appello di Roma lo ha assolto dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, la sua ex fidanzata. Lacrime in aula. Applausi fuori dal tribunale. È stata così ribaltata la sentenza di corte d’assise che soltanto il 26 gennaio 2011 aveva condannato l’imputato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. Questa è la giustizia italiana: aspetta 22 anni (il delitto di via Poma risale al 7 agosto 1990) per accusare e condannare un presunto colpevole, ma poi è capace di assolverlo appena 13 mesi dopo. E meno male!! Merito dei media e degli avvocati di chiara fama e elevata stima giudiziaria. Oneri ed onori che però non valgono per tutti. In mezzo, il sospettato ha trascorso oltre 8 mila giorni d’inferno, spesso alla gogna. E ora si vedrà se ci sarà un terzo grado di giudizio, e a che cosa mai potrà portare.

Questa incoerenza è una caratteristica purtroppo sempre più frequente della cronaca nera italiana. Perché, insieme a quella di Simonetta Cesaroni, troppe altre vicende giudiziarie restano senza un colpevole certificato. Per media e magistratura basta trovare un colpevole, non il colpevole. Fa niente se sono persone, quelle da triturare, e non semplici fascicoli giudiziaria. Troppi omicidi restano senza nemmeno un indagato. Il caso di Yara Gambirasio è aperto dal 26 novembre 2010, quando la ragazza è scomparsa per poi essere ritrovata cadavere in un campo, e da allora lo stillicidio di notizie spesso contraddittorie è insopportabile: ora si sarebbe scoperto (?) del liquido seminale sugli slip della povera ragazza. Chissà. Ma restano senza alcuna giustizia anche Chiara Poggi e, in parte, Meredith Kercher. Colpa di inquirenti inadeguati? E di chi, sennò?

La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia. L’intervista a Raniero Busco rilasciata il 29 aprile 2012 a Maurizio Gallo e pubblicata su “Il Tempo” di Roma: l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni racconta la tortura di un innocente.

C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato.

Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...».

Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento».

Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiacchierare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori».

Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli».

Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodio gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro».

Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?».

Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi addosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...». 

Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.

La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.

Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.

All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.

Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.

Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

IL CASO DI LUIGI MARINELLI.

La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.

IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.

"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.

''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.

''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.

Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.

Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.

"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell'autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l'assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l'esito dell'autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell'uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell'autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un'emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."

Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.

LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.

Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.

Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.

NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.

Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.

Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.

Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.

A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.

A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.

Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.

Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.

Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.

A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.

SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA, E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.

Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.

Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.

Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.

Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»

La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.

IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.

"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.

''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.

''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.

Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.

Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.

"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell'autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l'assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l'esito dell'autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell'uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell'autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un'emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."

Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.

LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.

Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.

Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.

NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.

Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.

Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.

Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.

A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.

A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.

Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.

Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.

Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.

A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.

SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA, E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.

Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.

Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.

Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.

Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»

IL CASO DI MICHELE FERRULLI.

Ferrulli, morto durante l’arresto: «Non ci fu violenza gratuita». Le motivazioni della sentenza che ha assolto i quattro agenti che ammanettarono l’uomo il 30 giugno 2011, scrive “Il Corriere della Sera”. «Non vi fu alcuna gratuita violenza ai danni di Michele Ferrulli», io manovale morto il 30 giugno 2011 a Milano mentre gli agenti lo stavano ammanettando. Lo scrivono i giudici della Prima Corte d’Assise di Milano nelle motivazioni alla sentenza con la quale il 3 luglio scorso hanno assolto i quattro poliziotti Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva, Sebastiano Cannizzo e Francesco Ercoli dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Secondo i giudici, i poliziotti agirono in modo legittimo colpendo Ferrulli solo per vincerne la resistenza durante l’ammanettamento: «La condotta di colluttazione - spiega il giudice Guido Piffer, che ha scritto le motivazioni - è tipica solo se interpretata come condotta di percosse (...). In realtà non fu usato alcun corpo contundente, la condotta di percosse consistette nei soli tre colpi e sette colpi (dati in modo non particolarmente violento); tale condotta fu giustificata dalla necessità di vincere la resistenza di Ferrulli a farsi ammanettare; si mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione». I quattro agenti, che erano accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati assolti perché «il fatto non sussiste» lo scorso 3 luglio dalla Corte d’Assise di Milano, mentre la Procura per loro aveva chiesto 7 anni di carcere. La Corte ha stabilito che quella sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante Monforte Bis, che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell’ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza. Stando alla perizia medica, l’uomo, che quella sera si trovava vicino ad un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell’arresto, da una «tempesta emotiva» che provocò l’arresto cardiaco. Michele Ferrulli gridava «aiuto, aiuto» mentre gli agenti lo ammanettavano forse perché voleva evitare l’arresto. È uno dei passaggi in cui i giudici della Prima Corte d’Assise motivano la sentenza di assoluzione dei 4 poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte dell’uomo. «L’invocazione di aiuto - scrivono i giudici - non può di per sé fondare un giudizio di prevedibilità dell’evento lesivo derivante da un effettivo malore, ben potendo essere espressione di una simulazione volta a impedire l’arresto, come ben spiegato nel dibattimento dal teste Sola». I giudici sostengono, inoltre, che non sarebbe stato usato nessun manganello dai poliziotti, come era sembrato in un primo momento osservando un filmato agli atti. Un filmato in cui si vede «una strisciolina nera» che, «ad un’analisi più approfondita», non sarebbe uno sfollagente. La Corte di sofferma anche su un altro dei punti controversi emersi in dibattimento, il presunto schiaffo di un poliziotti a Ferrulli. «La sola visione del filmato - è l’interpretazione messa nero su bianco dal giudice Piffer - non permette di stabilire con certezza se il gesto di Ercoli (uno dei poliziotti imputati, ndr) sia stato un vero e proprio schiaffo o se sia stato solo il gesto di sollevare l’avambraccio verso Ferrulli per accompagnare una frase rivolta allo stesso». Domenica Ferrulli, la figlia di Michele morto nel giugno del 2011 mentre alcuni agenti lo stavano ammanettando, avrebbe messo in atto un «condizionamento negativo» di alcuni testimoni nel processo con al centro il caso della morte del padre. I giudici nelle oltre 200 pagine di motivazioni parlano anche dell’«atteggiamento con il quale Domenica Ferrulli si era «determinata a registrare» alcuni «colloqui» con dei testimoni perché aveva «un giudizio profondamente negativo (tutt’altro che fondato) sullo svolgimento delle indagini». E per la Corte «mentre alcuni testimoni (aventi una personalità più forte ed una maggiore consapevolezza del proprio ruolo) non hanno subito un’influenza negativa dai contatti con» la figlia di Ferrulli, «altri hanno subito invece un inevitabile condizionamento negativo». Nelle motivazioni, appena depositate, i giudici spiegano che il dibattimento «ha dimostrato l’infondatezza della contestazione del reato», perché gli agenti hanno tenuto una condotta di «contenimento», che era «giustificata dalla legittimità dell’arresto». La «piena legittimità» di tale condotta, secondo i giudici, «ne esclude dunque l’antigiuridicità». «Non mi aspettavo nulla di diverso di quel che leggo. I filmati sono sotto gli occhi di tutti: mio padre è morto chiedendo aiuto, supplicando i poliziotti di smetterla. D’altronde durante la camera di consiglio durata soltanto un’ora tutti abbiamo visto alcuni giudici popolari nei corridoi fumare e prendere il caffè». Questo il commento di Domenica Ferrulli la figlia di Michele. «Rispetto le sentenze dei giudici ma sento come gratuite e offensive alcune considerazioni sul mio conto. Sono serena, ma vado a testa alta perche ho fiducia nella giustizia. Ride bene chi ride ultimo».

Morì durante l'arresto. I giudici che assolsero i 4 poliziotti: "I colpi a Ferrulli erano necessari". Le motivazioni della Corte d'assise di Milano sulla vicenda del manovale morto per arresto cardiaco. Giudici durissimi con la Procura: è stata seguita "la vox populi evocata espressamente dal pm", scrive “La Repubblica”. "Non vi fu alcuna gratuita violenza ai danni di Michele Ferrulli", il manovale morto per arresto cardiaco nel 2011 mentre gli agenti lo stavano ammanettando a terra. Così la Corte d'assise di Milano (presidente del collegio Guido Piffer) ha motivato l'assoluzione di quattro poliziotti decisa il 3 luglio 2014 scorso. I "colpi" degli agenti, secondo la Corte, erano necessari per "vincere la resistenza". La Procura di Milano, scrivono i giudici, ha finito "nella sostanza per recepire le voci diffusesi dopo il fatto tra le persone accorse sul posto". E cioè che "egli fosse stato ammazzato di botte". La Procura avrebbe seguito la "vox populi che è stata espressamente evocata dal pm", Gaetano Ruta, "anche in sede di discussione finale". Ma "come è ben noto la vox populi è un dato assai pericoloso, perché il suo acritico recepimento nelle aule di giustizia può essere all'origine delle peggiori degenerazioni della giustizia". Secondo i giudici, Ferrulli "dopo aver proferito reiterate ingiurie e minacce all'indirizzo dei poliziotti, dopo essersi rifiutato di fornire i documenti e dopo aver addirittura aggredito uno dei poliziotti, poteva essere legittimamente ammanettato". E Domenica Ferrulli, figlia di Michele, avrebbe messo in atto un "condizionamento negativo" di alcuni testimoni nel processo. I quattro agenti, che erano accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati assolti perché "il fatto non sussiste", mentre la Procura per loro aveva chiesto sette anni di carcere. La Corte ha stabilito che la sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante Monforte bis, che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell'ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza. Stando alla perizia medica l'uomo, che quella sera si trovava vicino a un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell'arresto, da una "tempesta emotiva" che provocò l'arresto cardiaco. Nelle motivazioni, appena depositate, i giudici spiegano che il dibattimento "ha dimostrato l'infondatezza della contestazione del reato" perché gli agenti hanno tenuto una condotta di "contenimento" che era "giustificata dalla legittimità dell'arresto". Secondo i giudici, a differenza di quanto contestato dalla Procura, i poliziotti non usarono "alcun corpo contundente" e la loro "condotta di percosse consistette nei soli tre colpi e sette colpi" dati "in modo non particolarmente violento". Una condotta, secondo la Corte, "giustificata dalla necessità di vincere la resistenza del Ferrulli a farsi ammanettare" e che si "mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione". La "piena legittimità" di tale condotta, secondo i giudici, "ne esclude dunque l'antigiuridicità". "Rispetto le sentenze dei giudici, ma sento come gratuite e offensive alcune considerazioni sul mio conto", ha commentato Domenica Ferrulli. "Non mi aspettavo nulla di diverso da quel che leggo nelle motivazioni. I filmati sono sotto gli occhi di tutti, mio padre è morto chiedendo aiuto e supplicando i poliziotti di smetterla. D'altronde - aggiunge - durante la camera di consiglio, durata soltanto un'ora, tutti abbiamo visto alcuni giudici popolari nei corridoi fumare e prendere il caffè".

Testimonianza shock al processo per l'omicidio Ferrulli: cambiate le regole sulle manovre di ammanettamento. Manconi: «Dove sta scritto?». Si può percuotere una persona durante la manovra di ammanettamento a terra? Dopo l'ultima udienza del processo Ferrulli, è stata presentata un'interrogazione al Guardasigilli da Luigi Manconi, del Pd, per chiedere se corrispondono al vero le dichiarazioni di uno dei testi. Dopo l'omicidio Aldrovandi, le scuole di polizia insegnerebbero proprio questo, ossia come intervenire con un maggiore impatto fisico sulla persona del fermato, ed un uso della forza superiore rispetto alle direttive riconosciute come vigenti all'epoca della morte di Federico Aldrovandi e recepite dalla sentenza di primo grado, oggi passata in giudicato. Su quelle carte si legge che «la persona deve essere immobilizzata ma non deve essere colpita od offesa, tanto meno devono essere prodotte lesioni strumentali all'immobilizzazione. L'idea di ferire, colpire, ledere come passaggio necessario all'immobilizzazione è non solo rifiutata nei protocolli operativi imposti agli operatori di polizia ma non è neppure necessaria o inevitabile neppure in situazioni eccezionali».

Poliziotti indagati: Sconfitta l'omertà. Il caso Aldrovandi di Milano si chiama Michele Ferrulli, morto durante un controllo di polizia il 30 giugno 2011. La figlia di Ferrulli a Simone Bianchini su “La Repubblica”: “Non mi sono mai arresa, mio papà avrà giustizia”.

Michele è stato ammazzato, racconta “MilanoX” in quel quadrilatero di case popolari a ridosso dell’Ortomercato di Milano, tra via del Turchino e via Varsavia. “Hanno paura della polizia” ci aveva detto la figlia di Michele, Domenica Ferrulli. E infatti da quel giorno il quartiere piombò nella più totale omertà, quando non addirittura ostilità nei confronti di Domenica. “Gente che prima dell’uccisione di mio padre mi salutava, dopo si girava dall’altra parte facendo finta di non conoscermi” aveva raccontato Domenica. Il pm della Procura Gaetano Ruta, nella chiusura delle indagini, ha usato parole impietose: Michele Ferrulli venne percosso “ripetutamente” anche “con l’uso di corpi contundenti” quando era già “immobilizzato a terra, non era in grado di reagire e invocava aiuto”. Gli agenti indagati sono quattro, due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli: Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. E’ stato un anno di indagini difficili, rese ancor più complicate da Prefettura e Questura che hanno fino all’ultimo cercato di coprire gli agenti, gettando fango su Michele (le solite cose, era ubriaco, aggressivo, aveva precedenti penali…). Non solo, questa è anche una vicenda di indagati non intercettati e testimoni chiave spariti.

Indagati non intercettati e un testimone chiave sparito dice "E-Il Mensile". Domenica Ferrulli ha potuto leggere nei fascicoli d’indagine sulla morte di suo padre Michele soltanto le parole che lei stessa ha pronunciato al telefono, oltre quelle dei due testimoni rumeni, dei quali, tra l’altro, uno ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun accenno, dunque, a quello che si sono detti i quattro agenti intervenuti la sera del 30 giugno scorso in via Varsavia, a Milano, quando il 51enne è morto davanti agli uomini in divisa. Niente di niente. Cosa insolita: di solito le intercettazioni telefoniche e ambientali degli indagati abbondano nei fascicoli d’inchiesta dei casi di omicidio. Basti pensare alle principali storie di cronaca nera degli ultimi anni: giornali, televisioni, radio e siti internet hanno pubblicato e ripubblicato le frasi dei vari coinvolti, spesso buttando via inchiostro per conversazioni che nulla hanno a che fare con le varie vicende. Questa volta non è andata così, le parole dei poliziotti sono ormai disperse nell’etere. Oltre all’assenza di intercettazioni tra le divise, però, c’è un altro particolare che getta un – inquietante – alone di mistero sulla vicenda: la scomparsa di un amico rumeno di Ferrulli, presente anche lui in via Varsavia quella maledetta serata di fine giugno. “Lo hanno picchiato in tanti, e alla fine Michele è caduto a terra…”, con queste parole Emilan Nicolae, 45 anni, anche lui testimone dei fatti, ha descritto gli eventi al pm, aggiungendo di aver sentito il suo amico gridare aiuto. La testimonianza, però, non arrivò immediatamente, ci volle qualche giorno perché l’uomo si recasse in procura per parlare di quello che aveva visto. Perché non lo disse subito? “Mi sentivo confuso”, così rispose agli investigatori l’amico della vittima. L’altro testimone, però, ha fatto perdere le sue tracce. Pare sia tornato in Romania, non vuole sapere più nulla di questa storia. Ma le sue parole potrebbero rivelarsi fondamentali per risolvere il mistero. Al momento, né il pm né la famiglia Ferrulli (le cui istanze sono portate avanti dall’avvocato Fabio Anselmo) hanno sue notizie. Ad ogni modo, i fascicoli dell’indagine aiutano a ricostruire la vicenda, grazie alla combinazione delle immagini fornite da un telefonino e da una telecamera di sorveglianza della farmacia. Sono le 22 e 07 quando in via Varsavia arriva una volante: un residente della zona aveva chiamato il 113, lamentandosi per alcuni rumori molesti. Ferrulli è lì, “si pone davanti al poliziotto”, l’agente sembra non scomporsi e “si allontana dalla zona di contatto, Ferrulli lo segue e una volta fermato si mette davanti a lui”. Si avvicina un altro uomo in divisa e colpisce l’uomo con uno schiaffo. A questo punto arriva una seconda volante. Alle 23 e 30, Ferrulli è immobilizzato a terra, chiede aiuto. I poliziotti, però, non sembrano preoccupati: lo colpiscono “ripetutamente” infatti, mentre lui non aveva più alcuna possibilità di opporre resistenza. Non ci sarà più nulla da fare, l’uomo cede, inutili i tentativi di rianimazione. Quel 30 giugno, Michele Ferrulli era uscito con gli amici, ha bevuto qualche birra, ha incontrato la polizia ed è morto. L’indagine – al solito complicatissima, quando ci si imbatte in casi del genere – è condotta dal pm Gaetano Ruta che ha indagato quattro agenti (due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli); Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo, per omicidio colposo e falso ideologico, per aver artefatto il rapporto su quanto accaduto. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero ecceduto “i limiti del legittimo intervento”. Ma non sono solo i filmati a puntare il dito contro i poliziotti, c’è anche una perizia – eseguita da Gaetano Thiene dell’Università di Padova – che parla di un decesso improvviso, avvenuto “durante un’azione di contenimento e accompagnato da percosse di agenti della polizia”. A causare la morte, per Thiene, è stato “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”. Ferrulli era alto un metro e ottanta, pesava 147 chili e aveva un cuore piccolo per la sua mole, appena 700 grammi. Particolari che hanno concorso ad ucciderlo.

«Per me è un grande giorno, le indagini sulla morte di mio papà sono terminate e ci sono quattro agenti di polizia indagati per omicidio colposo e falsità ideologica». La linea del pm Gaetano Ruta premia la volontà della figlia di Michele Ferrulli - Domenica, 26 anni, un marito e 2 figli - che dalla sera del 30 giugno dell'anno scorso, quando è morto suo padre, ha cominciato e portato avanti, caparbiamente con speranza e fiducia, una lotta serrata perché si stabilisca e si accerti la verità di quanto avvenuto quella sera. Il pm ha comunicato la chiusura delle indagini formalizzando le accuse ai quattro agenti. «Un passo davvero grande che arriva al termine di un percorso lungo e difficile - racconta Domenica - se io mi fossi arresa non saremmo arrivati a questo. Mi sono scontrata con l'omertà, la paura delle persone. Tanto silenzio, c' erano dei testimoni oculari che sono scappati, erano persone che pensavamo fossero nostri amici e che quella sera ci avevano sostenuto». Invece poi è successo qualcosa: «Hanno minacciato me e la mia famiglia dicendoci che loro non volevano essere interrogati, non volevano dire la verità, avevano paura della polizia e mi chiesero di tenerli fuori da questa vicenda. Io non mi sono fermata, ho raccontato al pm tutto quello che loro mi avevano raccontato. E poi sono arrivate le minacce a mio fratello: gli stessi testimoni, forse a loro volta minacciati da qualcuno, gli dicevano di riferirmi che col tempo l'avrei pagata e che non avrei dovuto dire nulla». I familiari di Ferrulli non si sono fermati, sono andati avanti, Domenica ha trovato l'aiuto della mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e della sorella di Giuseppe Uva, Lucia. Parenti di supposte vittime delle forze dell'ordine: «Mie compagne di battaglia. A loro, che devono combattere anche contro i pm, va un grazie speciale perché mi hanno indirizzato verso la strada giusta». «Fondamentale» l'arrivo dell'avvocato Fabio Anselmo, già difensore proprio dei parenti di Cucchi e Uva: «Ci era stato detto, dalla procura, che stavamo andando incontro ad una archiviazione sicura del caso - spiega Domenica Ferrulli - . Il rischio era che non si parlasse più di mio padre, che tutto venisse sepolto con lui. Ma dentro di me gli avevo fatto una promessa, ancora accesa: che avrei fatto luce su quel che gli è successo. Era un padre, un marito e un grandissimo nonno che mi manca moltissimo». Le indagini difensive hanno portato alla luce nuove prove: «Le testimonianze, i video, tutto quello che siamo riusciti a raccogliere ha convinto il pubblico ministero a non archiviare ma a studiare i fatti. Così è stata rintracciata e interrogata l'autrice del video girato quella sera in via Varsavia, in cui si vedono i poliziotti che picchiano mio padre a terra, ammanettato e mentre chiede aiuto. Facendo questo ne hanno provocato la morte: io sono convinta che se loro non lo avessero picchiato, mio padre quella sera sarebbe tornato a casa. Non sarebbe morto». Per l'avvocato Anselmo, «indagare gli agenti è una decisione molto importante. Significa riuscire a portare il caso in un processo e rendere giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza dagli agenti». Quello che resta, nel cuore di Domenica e di sua mamma Caterina, è un altro dispiacere: «Il fango su mio papà. Dissero che mio padre era un pregiudicato aggressivo, un delinquente. Bugie e cattiverie, adesso avrà giustizia».

Alle 9.30 del 20 luglio 2012 - scrive Claudia su “Abuso di Polizia” - si è tenuta l'udienza preliminare per il processo di Michele Ferrulli. Di fronte al tribunale di Milano in via Manara erano presenti la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, il fratello Francesco e la Signora Ferrulli; nei loro volti era assolutamente palpabile la tensione, occhi lucidi, ma con il cuore fermo e deciso a volere e gridare giustizia. Al loro fianco, come una vera grande famiglia allargata Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva pestato a morte in caserma; Massimo Uccheddu, figlio di Carrus Maria Rosanna, Luigi Vittorino Morneghini l'uomo di 63 anni aggredito il 20 maggio 2011 nella periferia di Milano da due poliziotti in borghese e Luciano isidro Diaz, massacrato di botte da degli agenti di polizia. A pochi metri di distanza dal tribunale un presidio di persone ha manifestato per chiedere giustizia per Michele, un vero atto di solidarietà civile da parte dei vicini di Michele, gli amici, ma anche gente normale, sensibile alla vicenda, scesa in piazza perchè sdegnata dall'ingiustizia subita da Michele Ferrulli; molte persone hanno parlato, ricordando che oggi è anche l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso dall'agente di polizia Mario Placanica nei tragici giorni del G8 di Genova nel 2001. Prima di entrare in aula riusciamo a cogliere una battuta carica di speranza dell'avvocato della famiglia Ferrulli, Fabio Anselmo, noto per aver assistito altri familiari di vittime dello stato come Aldrovandi e Cucchi; l'avvocato ha dichiarato "oggi è un giorno importante", e lo è stato. Gli avvocati dell'accusa e della difesa hanno parlato davanti ai microfoni del tribunale di Milano. L'accusa ha chiesto e ottenuto dal Gip il rinvio a giudizio dei i quattro agenti per "omicidio colposo" e "falso ideologico". E' stato anche presentato il video che mostra con sconcertante evidenza il pestaggio dell'uomo, che subisce almeno nove manganellate sul corpo, ormai riverso a terra; il video è stato rielaborato dalla procura di Milano rendendolo ancora più chiaro e nitido rispetto alla versione originale, anche se pure in quella era comunque cristallino l'abuso realizzato dagli agenti e perpetrato nei confronti di Michele Ferrulli. La difesa di tutta risposta controbatte che il video in realtà non mostra niente di assolutamente evidente, che i familiari della vittima si sono lasciati suggestionare dalle immagini, vedendo cose che non in realtà non c'erano. Il video parla chiaro: "Hai visto il cazzotto in bocca che gli danno?", dice la voce fuori campo, mentre a pochi metri Michelle Ferrulli giace sotto i colpi delle forze dell'ordine. Il video era noto, ora si conosce anche il proprietario. La figlia di Michele, Domenica Ferrulli, ha fatto tradurre le parole dei testimoni rom.

Ed alla fine la caparbietà ed il coraggio delle vittime ha trovato riscontro e ristoro, quindi corrispondenza, nel buon cuore ed illibata coscienza di un magistrato fuori dal coro. “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica” raccontano che Il gup milanese Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano, quando era già "immobilizzato a terra". I poliziotti sono Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la Procura, quando l'uomo "si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato e invocava aiuto", i quattro lo avrebbero colpito "ripetutamente anche con l'uso di corpi contundenti". L'uomo, un facchino, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla Corte d'assise. Il processo per loro inizierà il prossimo 4 dicembre 2012. "E' un ottimo inizio", ha commentato Domenica Ferrulli, figlia di Michele. "Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno". Già però il PM ha tentato di affibbiare un reato meno grave di quello che in effetti il GUP ha disposto. Magagne giudiziarie per rendere l’impunità? A richiedere il processo per gli agenti era stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un'iniziale ipotesi di omicidio preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con l'ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l'accusa, gli agenti avrebbero "ecceduto i limiti del legittimo intervento", concorrendo "a determinare il decesso" dell'uomo, dovuto fra le altre cose "alle percosse". Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L'uomo, con precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, "aggressivo e ostile". I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito "con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell'ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a colpirlo anche attraverso l'uso di corpi contundenti".

Il gup di Milano Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i 4 poliziotti che avrebbero percosso «ripetutamente» nel corso di un arresto a Milano il 30 giugno 2011 Michele Ferrulli, quando era già «immobilizzato a terra». L'uomo, manovale, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo ad omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla corte d'assise. Il processo per loro inizierà il 4 dicembre 2012. «È un ottimo inizio. Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno».

Così Domenica Ferrulli, la figlia del 51enne morto durante un controllo di polizia in via Ferraro, ha commentato la decisione del giudice per l’udienza preliminare non solo di rinviare a giudizio i 4 poliziotti accusati di aver pestato a morte Michele Ferrulli, ma di riqualificare l’imputazione da «cooperazione in omicidio colposo per eccesso colposo dell’adempimento del dovere» nella più grave di «omicidio preterintenzionale». Luigi Manconi, presidente dell'associazione A Buon Diritto, giudica «estremamente importante» la notizia della riqualificazione del reato: «Più volte abbiamo denunciato la scarsa corrispondenza tra un atto di fermo che avviene con modalità evidentemente abnormi, tali da non escludere conseguenze mortali, e un titolo di reato palesemente inadeguato. La verità è che, anche di recente, tra Milano e Roma, si sono verificati numerosi casi di "omicidio preterintenzionale" nel corso di fermi. Nella maggior parte di queste vicende - conclude Manconi - il nesso di causalità tra violenza dell'azione di fermo e morte del fermato è stato ignorato. Questa volta, grazie alla tenacia di Domenica Ferrulli, figlia della vittima, e dell'avvocato Fabio Anselmo, si è aperto uno spiraglio di verità».

Michele il gigante e quegli scontri per le cosa occupate, scrive Gianni Santucci su "Il Corriere della Sera". Lotte e denunce per aggressione. La rabbia. La scritta Ferrulli "un mese fa aveva aggredito il prete di zona per strada accusandolo di aiutare solo gli extracomunitari". Aveva occupato un appartamento vent'anni prima. Ora lì resta una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». «Ci hanno chiamato dal bar e siamo scesi di corsa, è proprio dietro casa». Domenica Ferrulli parla dall'ospedale, è la mezzanotte di giovedì, ha seguito l'ambulanza che dopo l'arresto ha portato il padre Michele al pronto soccorso, l'uomo è già morto. La ragazza, 25 anni, dice che farà «denuncia». È scossa, la voce rotta, passa il cellulare a un familiare che racconta: «Ci siamo avvicinati e Michele era a terra. Abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. I poliziotti ci hanno detto che aveva cercato di aggredirli e avevano dovuto immobilizzarlo». Continua la ragazza: «Ma non è andata così, l'hanno picchiato. Una donna è uscita dal bar e ha urlato "raccontate la verità"». E ancora: «Ci sono i testimoni e il video. Mio padre ha segni sui polsi a causa delle manette e altri lividi dietro l'orecchio» (nei referti dell'ospedale di San Donato, di questi segni vicino alla testa non c'è traccia). Inizia così, con questa telefonata al Corriere, la storia di una serata balorda fuori da un bar alla periferia sud-est di Milano, di fronte ai mercati generali della città. È qui che Michele Ferrulli aveva occupato un appartamento, vent'anni fa. Sul caseggiato ora campeggia una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». Lo striscione, lassù all'ingresso, l'aveva appeso lui. È firmato: «Comitato Turchino». Turchino è la via, e il comitato è uno tra i più attivi, in difesa degli abusivi storici delle case popolari milanesi. Di quel gruppo Ferrulli era un pezzo storico, un sostenitore. «Era un figlio del popolo», dicono qui. E una sorta di avvocato difensore un po' per tutti, in questo quartiere complicato. Aggiungono due particolari, i conoscenti, che sono forse utili per capire cosa è accaduto l'altra notte durante l'arresto. «Appena c'era una discussione, lui si metteva comunque in mezzo. Per aiutare, per difendere». La domanda è: difendere da chi? Da una pattuglia che sta facendo un controllo? Per qualcuno, in queste strade, il poliziotto o il carabiniere sono sempre e comunque intrusi, «rompiballe», anche se a chiamare il 113 per schiamazzi è un altro abitante. Qui molti ragazzotti dicono sbirro, e lo fanno con disprezzo. L'uomo morto dopo l'arresto di mercoledì sera era una montagna, molti chili di troppo accumulati negli ultimi anni, gli occhi chiari, origini pugliesi. Aveva avuto una piccola impresa di idraulica e riparazioni di caldaie, chiusa l'anno scorso. Teneva però ancora il furgone, con cui si arrangiava per piccoli lavoretti, edilizia e traslochi. Ma chi voleva «difendere» Ferrulli l'altra sera? E soprattutto, da cosa? In realtà gli agenti della Volante, chiamati per schiamazzi, stavano solo identificando i due uomini romeni che erano in strada vicino a lui, con la birra in mano e la musica dell'autoradio troppo alta. Di certo, non c'era niente da cui «difendersi». Era un controllo di routine, una cosa da niente, un intervento che di solito si risolve con quattro parole e nessuna conseguenza. Un controllo che però, adesso, qualcosa rivela: con uno dei due romeni, Ferrulli era stato controllato nell'ottobre dell'anno prima. Erano insieme in un bar, non volevano pagare, erano molesti e la titolare chiamò la polizia. Non è il solo precedente che aveva, negli archivi delle forze dell'ordine ce ne sono per lesioni, danneggiamento, «insolvenza fraudolenta». L'ultimo episodio è del 18 maggio: un parroco della zona ha chiamato i carabinieri denunciando di essere stato aggredito. Ai militari del Nucleo radiomobile il sacerdote ha raccontato che, mentre camminava per strada, ha incrociato Ferrulli che passava col furgone e l'ha salutato. Lui però si è fermato e, ha denunciato il parroco, «mi si è avvicinato e mi ha tirato uno schiaffo, poi mi ha detto una frase del tipo "voi preti siete delle merde, aiutate solo gli extracomunitari", alla fine mi ha colpito altre due volte». L'uomo e la sua famiglia erano entrati da anni in una sorta di spirale abbastanza comune nelle case popolari di Milano: una vecchia occupazione (auto)giustificata «per necessità»; la denuncia che pregiudica una successiva assegnazione regolare; una sorta di limbo per cui si rimane nell'appartamento anche per decenni, ma sempre col rischio di uno sgombero. In quella casa di via del Turchino, Ferrulli era entrato nel 1991 con la moglie e la figlia piccola, poi era arrivato un altro figlio, infine cinque anni fa anche un nipote. Aveva ristrutturato l'appartamento e pagava una sorta di «indennità d'occupazione».

Nel 2007 aveva resistito a uno sgombero. Si era rivolto al Comitato inquilini «Molise-Calvairate-Ponti», storica associazione di cittadini che da decenni aiuta questa parte dolente di città, spesso dimenticata dalle istituzioni. Prima e dopo quello sgombero, Ferrulli aveva però difeso tante altre famiglie, come la sua «occupanti per necessità». L'aveva fatto con le manifestazioni e le mobilitazioni.

Quella era la sua «battaglia giusta».

Ferrulli, chiesti 7 anni e 8 mesi per gli agenti: quella sera “non doveva essere arrestato”. Dure le parole del sostituto procuratore Tiziano Masini: fu un arresto "illegale e arbitrario". E durante quell'arresto Michele Ferrulli morì. In primo grado gli agenti erano tutti stati assolti, scrive Carmine Ranieri Guarino su "Milano Today" il 10 marzo 2016. Ferrulli morì il 30 giugno 2011.  Le manette attorno ai suoi polsi non sarebbero mai dovute scattare. Quel suo corpo un po’ troppo grande e per nulla agile non sarebbe mai dovuto finire sull’asfalto. Perché, nonostante in quella tragica sera fosse “alticcio e arrogante”, lui - Michele Ferrulli, il manovale cinquantunenne morto il 30 giugno 2011 per un infarto durante un arresto in via Varsavia - non doveva essere arrestato. A riscrivere la storia, dopo un processo di primo grado che ha assolto tutti e quattro gli agenti imputati, è il sostituto procuratore generale di Milano, Tiziano Masini, che giovedì, durante il processo d’Appello, ha chiesto sette anni e otto mesi per due poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale e diciotto e sedici mesi per altri due agenti, la cui ipotesi di reato è stata derubricata da omicidio colposo a eccesso colposo. Per Francesco Ercoli e Michele Lucchetti il pg ha mantenuto l’accusa di omicidio preterintenzionale, la stessa dalla quale erano stati accolti in primo grado. Mentre, per Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo il reato ipotizzato è “solo” di eccesso colposo nell’uso dei mezzi di coazione fisica, perché arrivati “in soccorso” solo in un secondo momento. Il problema, secondo il pg, è che quella sera non ci sarebbe dovuto essere né un primo, né un secondo momento. “L’arresto di Michele Ferrulli fu un atto illegale e arbitrario - la tesi del procuratore - perché ad un oltraggio a pubblico ufficiale, per cui non è previsto il provvedimento, non possono seguire addirittura violenze da parte delle forze dell’ordine”. Per il pg, Ferrulli quella sera “certamente alticcio e arrogante doveva essere solo denunciato per oltraggio e tutto sarebbe finito lì”. Invece a finire lì quella sera è stata la vita di Ferrulli. A dare il là al dramma erano stati alcuni schiamazzi di cui la stessa vittima e due suoi amici, entrambi romeni, si erano resi responsabili in strada. Ma, sempre per la tesi del pg, gli agenti in quel caso non avrebbero avuto nemmeno “la necessità di identificare i presenti” perché il gruppo aveva subito spento la musica. L’unico reato che avrebbe commesso successivamente il manovale sarebbe stato quello di oltraggio a pubblico ufficiale e non di resistenza - per cui è previsto l’arresto - perché - parole del pg Masini - “vi è la prova che Ferrulli gesticolò soltanto e insultò gli agenti, ma non li minacciò né usò violenza contro di loro”. Anzi, ad alzare le mani per primi sarebbero stati proprio gli agenti, con “Ferrulli - secondo la ricostruzione del pg - che subì uno schiaffo da Ercoli e reagì con una spallata, a cui seguì un arresto illegale” con la presa a terra e le richieste di aiuto urlate dalla vittima. Proprio durante quell’arresto Ferrulli si spense. A ucciderlo, almeno secondo i risultati dell’ultima perizia medico legale, non sarebbero state quelle lesioni ritrovate sul suo corpo, “lievi” e causate più dall’impatto con l’asfalto che non dalle manganellate. A ucciderlo, questa la verità a cui si è finora arrivati, è stato un arresto cardiaco. Una "tempesta emotiva" arrivata durante un arresto che - secondo il pg - non sarebbe mai dovuto esistere. 

IL CASO DI FEDERICO PERNA.

Un’altra madre, un’altra famiglia impotente di fronte a una vicenda carceraria che si conclude con il peggiore degli epiloghi: la morte di un uomo che, varcato il cancello che separa i liberi dai reclusi, smette di essere trattato come tale, scrive Michele Marangon su “Il Corriere della Sera”. Quel confine, troppo spesso in Italia, si sta trasformando in un punto di non ritorno. La vicenda di Federico Perna, 34enne originario di Latina deceduto l’8 novembre scorso mentre era ristretto a Poggioreale, ha ora la voce della madre Nobila Scafuro, decisa a tutto pur di far emergere la verità sul calvario patito dal figlio, malato, tossicodipendente, palesemente non in grado di sopportare il regime detentivo. Eppure tenuto in cella, sbattuto di carcere in carcere, sino a quando il suo corpo non ha detto basta. Per giorni nessuno, dall’alto, è intervenuto per uno così: senza santi al ministero, con una famiglia né ricca né influente. Fino a venerdì, quando il guardasigilli Annamaria Cancellieri ha disposto una «rigorosa indagine amministrativa interna» parallela all’inchiesta della procura della Repubblica. Ogni storia è a sé, ma questa di Federico - tossicodipendente con precedenti per furto, rapina, lesioni personali, evasione - per certi versi non può che rimandare a quella del romano Stefano Cucchi, che si è conclusa allo stesso modo. La prima cosa che viene da chiedersi è se lui si mai stato picchiato, ma la signora Nobila, tono fermo seppur stremato da questi giorni di dolore, rincara la dose: «Le dico di più -dice raggiunta telefonicamente da Corriere.it -secondo me è stato torturato. Siamo di fronte a un vero e proprio omicidio di Stato. Io ho tantissimi interrogativi a cui avere risposta…mica uno solo». Si legge, nella risposta del ministero datata giovedì 28 novembre, a seguito di una interrogazione in commissione Giustizia, di come Federico abbia rifiutato il ricovero in ospedale, ma Nobila è di altro avviso. «Mi pare che si stiano dando la zappa sui piedi: a Viterbo, come riporta un referto medico, mio figlio non era in grado di stare in piedi, non era lucido. È evidente come sia stato sedato, imbottito di psicofarmaci». Da alcune lettere, infatti, si evince quanto Federico sognasse il ricovero in ospedale perché lì «non ci sono celle e si possono fare colloqui». E sempre da Viterbo, però, non smettono le parole di disperazione: «Mamma mi stanno uccidendo. Portami a casa». La donna, insieme ai legali di Latina Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo, ha intenzione di non far spegnere i riflettori sulla vicenda, a partire da quella autopsia sul corpo di Federico effettuata a sei giorni di distanza dalla morte, così, a detta di Nobila da non poter far trovare tracce di lesioni che potrebbero dar sostegno alla tesi del maltrattamento, del pestaggio o delle torture vere e proprie come sostiene la donna. Spiegano gli avvocati: «La signora Scafuro aveva visto il figlio pochissimi giorni prima della morte. Lui mostrava segni di maltrattamenti (lividi…) e lamentava uno stato di malessere generale, psichico e fisico, dovuto e aggravato dalla vita carceraria, certamente non facile ma che, a dire di Perna, troppo spesso diventava intollerabile a causa dei soprusi e delle violenze subite da parte del personale carcerario. Tale circostanza - spiegano - dovrà essere verificata in sede di deposito della perizia autoptica. Numerose sono le lettere in possesso della madre nelle quali Federico si definiva “pungiball” o dichiarava che “con me ci giocano a ping pong”, riferendosi al fatto che ogni qualvolta chiedesse il ricovero o maggiore cura del proprio stato di salute, veniva trasferito ad altro istituto carcerario». Federico avrebbe dovuto terminare la pena il 13 aprile 2018. Una data lontanissima per qualsiasi carcerato e ancor più per lui, che aveva iniziato a scontare i suoi anni a Regina Coeli il 20 settembre 2010, passando poi a Velletri e Cassino e nel 2012 a Viterbo per motivi sanitari. Già qui viene ritenuto incompatibile con lo stato di detenzione a causa di una grave compromissione epatica con tendenza cirrotica. Seguono diversi gesti di autolesionismo, visite psichiatriche, sino a che, come ricostruisce il ministero ,«il magistrato di sorveglianza, con provvedimento del 16 luglio 2012, non aveva accolto la richiesta di scarcerazione per incompatibilità, sia in relazione alla pericolosità sociale connessa allo stato psicologico in cui versava il Perna, sia in considerazione del fatto che quest’ultimo aveva più volte rifiutato il ricovero in luogo di cura e che si era fatto dimettere – contro il parere dei sanitari – dall’ospedale Belcolle». Sempre secondo la ricostruzione ufficiale resa in commissione Giustizia il 28 novembre, «a Secondigliano il Perna aveva rifiutato il ricovero suggerito dai sanitari a seguito di un’ustione riportata nel gennaio 2013 ed aveva posto in essere gesti autolesionistici». A Poggioreale, dove esiste un centro clinico penitenziario, Federico ci arriva a luglio 2013, e qui sembra accadere il miracolo: «Nel corso dell’ultima visita psichiatrica, avvenuta a Poggioreale alla fine di settembre 2013, il Perna si era manifestato, al colloquio con lo specialista, calmo, lucido e orientato, e non aveva evidenziato disturbi percettivi». Si parla sempre del suo stato psichico nelle ricostruzioni ufficiali, mai del suo stato fisico, di cui solo la madre denuncia: «Sputava sangue dalla bocca e aveva chiesto di essere ricoverato il 5 novembre, ma l’8 è morto», ricorda Nobila. Ma per lo Stato, almeno fino a giovedì 28, è andato tutto bene, come si legge nella relazione del ministero della Giustizia: «All’esame del diario clinico e della cartella di osservazione del detenuto – documentazione contenuta nel suo fascicolo personale – risulta che nel corso della detenzione il Perna è stato seguito con costanza e regolarità sia dal personale sanitario e del Servizio Tossicodipendenze che dal personale penitenziario. In particolare, appare evidente che le autorità penitenziarie ne hanno costantemente monitorato le condizioni di salute e hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri in ospedale in ragione delle sue condizioni di salute, senza purtroppo riuscirvi». Con rabbia e dolore, una famiglia cerca la verità, mentre vengono i brividi, oggi, a guardare le foto scioccanti dell’autopsia e allo stesso tempo leggendo le lettere di Federico alla madre. Le parole di un ragazzo che sogna da dietro le sbarre un’assoluta normalità: la lasagna, il giorno del colloquio e pochi euro per le piccole spese. «Appena esco vengo da te, che sarò l’uomo più felice del mondo. Ora sono un uomo, basta con l’eroina, è solo distruzione. Un lavoretto e una vita serena. Adesso voglio il Federico vero, quello che non è mai uscito…».

Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l'8 novembre. "Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato", scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano”. Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro – Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano – ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze – come dicono le autorità in questi casi – ancora da chiarire. Mi hanno dato tante versioni diverse – racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano –: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini – terribili – di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati – “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” – ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”. “Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci e tranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana – spiega l’avvocato Autieri – e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio – prosegue la signora Scafuro – e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare. Negli ultimi giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda Cucchi. La madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Intanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione – anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari –, anche se il Fatto ha più volte cercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande – conclude la madre –: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna.

 Il ministro della Giustizia Cancellieri dispone una indagine interna sulle dinamiche che hanno portato alla morte del giovane. La madre Nobila al Fatto: "Mio figlio non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perché non accada a nessun altro", scrive Silvia D’Onghia e Lorenzo Galeazzi su il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2013. “Qui c’è il dirigente che vuole ricoverarmi per farmi prendere l’incompatibilità carceraria, io voglio venire con te a casa, le cartelle ci sono di aggravamento. Mamma, mi stanno uccidendo, portami a casa, voglio stare con te”. Questo scriveva Federico Perna a sua madre Nobila il 19 giugno 2012. Ed è stata lei, ieri, durante un’intervista con la web tv del fattoquotidiano.it, che ha deciso di rendere note le parole di suo figlio. Federico non c’è più, è morto – forse a causa di un ictus, ma i risultati dell’autopsia non sono ancora stati depositati – alle 16,58 dell’8 novembre scorso nel pronto soccorso del carcere napoletano di Poggioreale. Aveva 34 anni e sognava di uscire per tornare a casa a mangiare le lasagne. Come abbiamo scritto ieri, Perna dal martedì precedente sputava sangue e aveva chiesto di essere ricoverato. Inutilmente. Nella sua ormai triennale storia carceraria, Federico spesso non era lucido, ma si rendeva perfettamente conto che in cella le sue condizioni di salute peggioravano a vista d’occhio. Sempre dal carcere di Viterbo aveva scritto un’altra lettera alla mamma: “Scusa se ero un po’ assente (al colloquio, ndr), ma qua mi hanno esaurito, mi sono aggravato di salute, il prossimo colloquio se ci sarà, sarà diverso e positivo. Avevo voglia di abbracciarti ma ero come ipnotizzato”. Federico è malato, gravemente. Soffre di cirrosi epatica cronica e di epatite C, ha una personalità definita borderline, è sottoposto a una massiccia terapia di ansiolitici e tranquillanti. In cella c’è finito per il maledetto vizio dell’eroina, perché i soldi – anche quelli di una famiglia benestante – non bastano mai: e allora vai con i furti, con le rapine, con le lesioni. Un cumulo di condanne che gli costa un brutto responso: fine pena 13 aprile 2018. Ma Federico è un soggetto ad alto rischio, e questo l’istituzione carcere lo sa bene. In data 28 giugno 2012, pochi giorni dopo la prima lettera, il responsabile dell’area sanitaria della casa circondariale di Viterbo, Franco Lepri, scrive alla Direzione della struttura e al magistrato di sorveglianza: “Il carcere al momento non è compatibile con lo stato di salute del detenuto e quindi è peggiorativo per la sua salute, i contatti con le strutture sanitarie esterne sono possibili in ogni momento. Si richiede rapido trasferimento in un Cdt (Centro di Detenzione Terapeutica, ndr)”. Federico rifiuta il ricovero nei reparti di medicina protetta, ma non lo fa perché non vuole essere curato. Lui vuole essere messo ai domiciliari. Non ne può più di essere trasferito da un carcere all’altro: Velletri, Cassino, Viterbo, Secondigliano, Benevento, Napoli. “Sono esaurito – scrive in una terza lettera alla madre –, infatti sono stato ricoverato, mamma mi stanno rovinando, sono due anni che giro carceri, non ce la faccio più. Lo so che questa non è una scusa perché il reato l’ho fatto e devo scontarlo, ma devo scontare il carcere e non una pena umana”. C’è un altro medico che certifica, il 18 settembre 2012, l’incompatibilità di Federico col carcere, è il medico di reparto del presidio sanitario di Secondigliano: “Si ribadisce l’inadeguatezza all’allocazione in una sezione detentiva comune e si invita l’autorità preposta a prendere provvedimenti anche coercitivi ai fini di un’adeguata assistenza del paziente che in una sezione di detenzione comune non può essere garantita”. Provvedimenti coercitivi: se Federico rifiuta il ricovero lo si deve obbligare. E invece nessuna “autorità” si prende questa briga. Ma c’è un referto che più di tutti dà il senso delle condizioni del ragazzo. Il giorno dopo la prima dichiarazione di incompatibilità, il 29 giugno dello scorso anno, un medico di reparto scrive: “Ho visitato il detenuto in cella: la sua cella è tutta sottosopra, lo troviamo privo di vestiti, non riesce ad alzarsi in piedi, a sostenere il capo, a mantenere la posizione seduta e a comunicare con noi. È obnubilato, non orientato nel tempo e nello spazio”. Il deputato M5S Salvatore Micillo mercoledì ha presentato un’interrogazione in commissione Giustizia; gli ha risposto il sottosegretario Giuseppe Berretta, che, prima ancora di sapere come è morto il ragazzo, ha difeso l’operato di medici e personale penitenziario: “Seguito con costanza e regolarità”, “hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri, senza purtroppo riuscirvi”. Il ministro Cancellieri, sollecitata dalla signora Nobila, ieri ha preso carta e penna e le ha invitato “le sue condoglianze e la sua personale vicinanza”. Il guardasigilli ha anche disposto “rigorosa indagine amministrativa interna”. Ma a Nobila non basta: “Federico non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perchè quello che è successo a mio figlio non accada a nessuno altro. Non devono più toccare un ragazzo lì dentro”.

Federico Perna, un nome che rischia di diventare una nuova icona delle tragedie che, quotidianamente, vivono i detenuti reclusi nelle carceri italiane. La storia di Federico è una storia drammatica, finita nel peggiore dei modi per un ragazzo di 34 anni morto di carcere. A raccontarci la sua vicendA è stata sua madre, Nobila Scafuro, scrive Fabrizio Ferrante su “L’Espressonline”. Federico, 34 anni originario di Latina, era un ragazzo di buona famiglia con i suoi parenti che annoverano rapporti di amicizia e di collaborazione professionale con magistrati e uomini pubblici a un certo livello. Il giovane, finito tre anni fa in carcere a seguito di piccoli reati connessi alla droga, doveva scontare 9 anni di reclusione per varie condanne accumulatesi nel tempo, fino all'ultimo arresto avvenuto appunto tre anni fa. Da quel momento, Federico ha smesso di essere considerato un essere umano ed è diventato un pacco postale, sballottato qua e là per le carceri del centro-sud. Da Velletri a Viterbo, da Secondigliano a Poggioreale ed è qui che termina la vicenda terrena di questo 34enne.

"Mio figlio è morto venerdì 8 novembre alle 17:17 - ci ha spiegato Nobila Scafuro - ma già da martedì sapevamo che stava molto male, in quanto mi aveva telefonato. Era ammalato, soffriva di epatite C e mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Circostanza confermatami anche da un suo compagno di cella con cui ci siamo sentiti telefonicamente. Mio figlio si trovava nel padiglione Avellino stanza 6, in una cella che conteneva undici persone. Durante il suo periodo di permanenza a Poggioreale le cose si sono aggravate, era stato dichiarato incompatibile con la detenzione ma nonostante ciò fosse stato messo nero su bianco da due rapporti clinici stilati a Viterbo e a Napoli, un magistrato viterbese ha pensato bene di spedirlo a Poggioreale. Almeno poteva mandarlo in un carcere del Lazio, più vicino a casa, visto che per noi non era sempre possibile venirlo a trovare a Napoli. Il reato era risibile, mio figlio era uno dei tanti giovani che per divertirsi con gli amici faceva uso di qualche spinello, e pensi che la prima volta fu col figlio di un magistrato. Una volta sembra che Federico abbia dato una spinta a qualcuno, venendo accusato e condannato per questo".

Come è morto suo figlio?

"Bella domanda, è quello che vogliamo sapere tutti in famiglia ed è per questo che attendiamo i risultati dell'autopsia. Intanto posso dirle che non lo curavano, era imbottito di Valium, Rivotril e di farmaci passati dal Sert. Federico dormiva sempre e, quando non dormiva, spesso veniva picchiato. Questo non solo a Poggioreale, dove confermo che esiste la cella zero, ma anche in altre carceri dove ha soggiornato. Ovunque avvengono questi pestaggi, anche per futili motivi. A mio figlio capitò perché chiedeva aiuto in quanto non si sentiva bene, oppure perché voleva che gli aprissero l'acqua nel bagno della cella. In quell'occasione fu pestato proprio lì, nel bagno. Lo vedevo sempre pieno di lividi. In ogni caso, dopo averci chiamato martedì, Federico non ha più dato sue notizie. Abbiamo appreso della sua morte da un suo compagno di cella, che aveva molto legato con lui, il quale chiamò mia suocera – anziana e malata – dicendo che: 'Federico ormai è fuori, aprite gli occhi' lasciandoci intendere che fosse morto. Il fatto è che non sappiamo dove sia morto, non l'abbiamo ancora potuto vedere e il personale del carcere di Poggioreale non ci agevola dandoci le necessarie informazioni. Quindi non sappiamo neanche dov'è".

Quindi lei sta dicendo che non sa come è morto Federico, né dove, né tanto meno dove sia adesso?

"Esatto. Le versioni sono diverse: dicono che è morto nell'infermeria del carcere di Poggioreale, di attacco cardiaco e senza la possibilità di essere salvato con il defibrillatore. Poi dicono che è morto in ambulanza, poi che è morto prima di essere caricato in ambulanza o addirittura in ospedale, e anche su questo mi hanno nominato più di una struttura possibile. Insomma non so né come sia morto, né dove sia e tutto questo mi sta devastando. Quello che penso è che sia morto prima di essere portato in ambulanza e questo lo credo perché sempre secondo il suo compagno di cella, Fede era già morto prima che i soccorsi arrivassero. Ma non doveva trovarsi lì, doveva essere ricoverato in ospedale da molto tempo, essendo malato di epatite C. Mio figlio, che chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni per fortissimi bruciori di stomaco, sputava sangue e aveva bisogno di un trapianto di fegato. E' stato torturato e ammazzato dallo Stato così come gli altri morti di carcere a Poggioreale. Ma lei sa che negli ultimi giorni ci sono stati tre suicidi? Uno si è impiccato, l'altro si è ammazzato con un mix letale di farmaci e un terzo si è infilato la testa in un sacchetto mentre inalava il gas del fornelletto da campo. Ma non ci sono solo suicidi a Poggioreale e ricordo che un uomo di 43 anni è recentemente morto in cella perché malato di cuore. Gli è venuto un infarto e sa come lo curavano? Col Buscopan".

Federico Perna, evitiamo che a morti seguano altri morti, scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Terribili e già visti gli ingredienti della vita e della morte di Federico Perna nel carcere napoletano di Poggioreale, proprio il carcere visitato da Giorgio Napolitano prima che annunciasse il messaggio alle Camere dell’8 di ottobre scorso. Poggioreale, un carcere simbolo della tragedia italiana, dove i detenuti sono ammassati, costretti a una vita degradante, resi numeri dal sovraffollamento. Un carcere dove i detenuti non hanno spazio vitale e la dignità umana è oggettivamente calpestata. La madre chiede giustizia e giustizia va assicurata. Ancora una volta, per sperare di avere giustizia, una mamma deve farsi violenza e pubblicare sui media la foto di un corpo martoriato. Il ministro della Giustizia ha disposto un’indagine interna all’Amministrazione penitenziaria. Nel frattempo si spera che scorra l’indagine penale e che l’autopsia sia fatta coscienziosamente e restituisca chiarezza sulle cause della morte. Federico Perna muore a 34 anni. La sua è una storia carceraria abbastanza comune, là dove ciò che è comune coincide oggi con ciò che è tragico. Ha problemi di tossicodipendenza. È malato di epatite C, appunto come tanti detenuti, purtroppo. Sta molto male, come tanti detenuti. Chiede aiuto, ne riceve poco. I magistrati non lo ritengono incompatibile con il carcere nonostante valutazioni difformi, pare, dei medici che invece propendevano per la non compatibilità con la detenzione.

La vicenda di Federico Perna ci impone una riflessione sul caso in questione e una di carattere più generale. Sul caso in questione, va rivendicata un’indagine condotta con determinazione, la quale chiarisca se c’è stata violenza e se c’è stata negligenza medica. Intorno alle questioni di carattere più generale, la vicenda carceraria va affrontata e decisa subito per evitare che morti seguano a morti. Bisogna intervenire su più piani: modificare in modo radicale la legge sulle droghe, liberticida e proibizionista; bisogna assicurare diritti a chi non ne ha istituendo un garante nazionale delle persone private della libertà, come ci impongono le Nazioni Unite; va introdotto il delitto di tortura nel codice penale italiano, che ridarebbe dignità a un sistema giuridico oggi in crisi di identità democratica.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

Morì in carcere a 29 anni, chiesta l'archiviazione per 3 medici. L’indagine tris sul decesso di Marcello Lonzi è partita da un esposto della madre: è stato picchiato, altro che malore. Il giudice si è riservato, scrive Federico Lazzotti su “Il Tirreno”. Marcellino Lonzi aveva 29 anni quando venne trovato morto nella sua cella del carcere di Livorno, era l’11 luglio 2003. A distanza di quasi 11 anni, dopo due inchieste già archiviate, mercoledì mattina è andato in scena l’ennesimo capitolo della battaglia della madre del ragazzo, Maria Ciuffi, di convincere la giustizia a prendere in considerazione un’ipotesi diversa da quella del malore per spiegare il decesso del figlio. Davanti al giudice Beatrice Dani è andata in scena l’udienza nella quale il legale della donna, l’avvocato Erminia Donnarumma, ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero Antonio Di Pugno in seguito all’esposto firmato dalla madre della vittima nell’ottobre 2013. Al centro della denuncia compaiono i due medici del carcere che tentarono invano di rianimare Lonzi, Enrico Martellini e Gaspare Orlando, e il medico legale Alessandro Bassi Luciani che ha effettuato l’autopsia sul corpo del detenuto. L’accusa nei confronti dei tre, per i quali è stato ipotizzato il concorso in omicidio colposo, è quello di non avere «svolto bene il loro dovere». Alla querela contro l'anatomopatologo e i medici in servizio all'epoca dei fatti presso l'infermeria del carcere, erano stata allegati ampi stralci della relazione medico legale eseguita dal consulente nominato dalla procura, quando fu riesumata la salma del giovane per effettuare una nuova autopsia, nella quale si evidenziavano «condotte non idonee». Si rileva inoltre, nella denuncia, la presenza nella parte addominale del cadavere di numerose fratture non evidenziate prima, «l'infossamento corticale dell'osso di 2 millimetri in corrispondenza di una ferita lacero contusa all'arcata sopracciliare non compatibile con morte naturale». Un quadro che non ha però convinto il pubblico ministero Antonio Di Bugno a chiedere il rinvio a giudizio nei confronti dei tre indagati. «L’ipotesi del concorso in omicidio colposo - spiega fuori dall’aula l’avvocato Alberto Uccelli, che difende Bassi Luciani - non è assolutamente plausibile». Dopo aver ascoltato tutte le parti, il giudice al termine dell’udienza si è riservato e la decisione è attesa nei prossimi giorni. Se anche questa inchiesta dovesse essere archiviata sarebbe molto probabilmente la fine del caso Lonzi. «Basta vedere queste foto - spiega la madre del ragazzo sfogliando il raccoglitore che porta con sé - per capire che mio figlio non è stato ucciso da un infarto ma è stato picchiato e lasciato morire».

Auguri amore, oggi ricorre il giorno del tuo compleanno, ti voglio un mondo di bene mi manchi tanto. Mamma, scrive sul suo blog Maria Ciuffi. Come è morto Marcello? Marcello Lonzi, il ragazzo di 29 anni morto nel carcere di Livorno l'11 luglio del 2003, oggi decorre il nono anniversario, in circostanze tutt'altro che chiare, soprattutto alla madre del ragazzo che ha avuto il malaugurato destino di aver dovuto seppellire il proprio figlio, e quando ha chiesto il perchè le è stato risposto che Marcello era morto di "infarto, un malore. Un male inevitabile dovuto da un mix da fattori fisici e pregressi "che hanno portato il suo cuore a dire basta. Eppure le foto oggettivamente mostrano" oltre ogni ragionevole dubbio un corpo che ha perso molto sangue ed ha subito diversi colpi riportando ecchimosi sulla schiena, ferite sul volto, sulla testa e in particolare una profonda fino all'osso.

"Mi chiedo quanto dovrò ancora chiedere, urlare che voglio giustizia per mio figlio. Possibile che nessun giudice veda, guardi e legga non ci credo. Solo che non vogliono mettersi uno contro altro. Ma le foto parlano da sole, non è infarto.................non si muore cosi con 2 buchi in testa ed in uno ce la vernice attaccata a osso, con un polso rotto, 8 costole rotte, 2 denti rotti 3 ferite aperte in viso e tutti i lividi dietro la schiena. A distanza di 3 anni da esumazione sono state trovate impronte di scarpe.............facile tanti contro uno, in più con le mani legate. Che Dio vi perdoni, perchè io non lo farò mai". Raccontare una storia come quella di Marcello Lonzi, pone qualsiasi cronista nella condizione di riflettere in punta di piedi sull'assurdità della morte di un ragazzo di soli 29 in custodia dello Stato. Uno Stato che avrebbe dovuto "custodirlo" e fargli scontare una pena per il reato commesso, e non riconsegnarlo alla madre chiuso in una bara. Ho deciso di raccontare la storia di Marcello, per ravvivare la mia stima per tutti coloro che indossando una uniforme/divisa, fanno ogni giorno il loro lavoro (spesso sottopagato) con umanità e dedizione, prendendo viceversa le distanze da tutti coloro che abusano della loro condizione di superiorità occasionale, commettendo abusi e angherie. Marcello Lonzi entra nel carcere "Le sughere" di Livorno il 3 gennaio 2003; deve scontare una pena per il reato di tentato furto, ma, dal carcere uscirà solo da morto. Ufficialmente la causa della morte è "infarto": stride però l'immagine del corpo senza vita di Marcello con la presunta causa di morte. Non si è mai visto infatti il cadavere di un soggetto infartuato con: otto costole rotte, due denti spezzati, due buchi assestati in testa, mandibola rotta, polso e sterno fratturati. La madre, Maria Ciuffi, da anni ormai si batte perché venga ripristinata una verità oggettiva e logica di ciò che accadde quel giorno in carcere, perché Marcello era suo figlio e la Signora ha il sacrosanto diritto di sapere perché e come sia morto.

11.07.2003 - Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel carcere di Livorno. Il corpo di Marcello è riverso sul pavimento tra la cella numero 21, sezione sesta, padiglione "D" delle Sughere e il corridoio. La sua testa ostruisce la chiusura della porta. Tutto intorno sangue, sotto il cadavere e anche fuori dalla porta. In gocce o in strisciate circolari dai contorni netti. La procura archivia il caso un anno dopo il fatto: Lonzi è stato stroncato da un infarto, morto «per cause naturali. Aritmia cardiaca».

Morto in carcere, la madre: "Mio figlio ucciso a botte, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni", dice Maria Ciuffi intervistata da Cecilia Pierami su TGCOM 24.

Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell'11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di "morte naturale", ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede "la verità" e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia.

"Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c'erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: "Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto". E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi". Così Maria Ciuffi racconta a Tgcom24 la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno.

Marcello Lonzi si trovava nel carcere "Le Sughere" di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l'11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, "cause naturali", ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell'uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni.

"Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell'infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni".

La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio...

"Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un'autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno".

Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire?

"Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un'impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio".

Perché pensa che le indagini siano state insabbiate?

"Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l'orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l'orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull'ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. "Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?" gli chiedevano".

A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore?

"Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell'autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella..."

Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello?

"Agli atti c'è questa dichiarazione: "Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto". Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno "pagare". Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità".

E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente?

"Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare".

Cosa sarebbe successo secondo lei?

"Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero".

Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze?

"Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c'era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna... E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un'infermiera che lavora a "Le sughere" e le avrebbe detto: "Corri corri mi è morto fra le mani". Naturalmente di questa testimonianza non c'è traccia negli atti. L'infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione".

E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un'idea di cosa sia successo?

"C'è poco da dire, mi hanno detto: "Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch'io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no". Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte".

Cosa farà adesso?

"Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. E' troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada".

"Adesso spero che l'appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L'ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà".

L'appello: riapriamo il caso Lonzi, scrive Ilaria Lonigro su “L’Espresso”. Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003. Ufficialmente per 'infarto'. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell'uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l'11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell'uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto". Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. "Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani" fanno sapere all'Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. "Con nuove prove c'è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l'autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini". Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l'11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l'infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c'entri con i fatti di Lonzi? C'è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l'ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: "non fratture". E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, "la violenza è normale" secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica RadioCarcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall'isolamento "spaccati in faccia". Lui stesso sarebbe stato pestato da "6 o 7 guardie". Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l'argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell'Onu, segnalò all'Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All'interno del suo "rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti", metteva in evidenza il "volto gravemente contuso" e il "corpo coperto di sangue" del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, "ritrae un'immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose". Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall'ong Franciscans International, consulente ufficiale dell'Onu in tema di diritti. Che denuncia "un'apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace".

IL CASO ISIDRO DIAZ.

IL CASO: Lecco, denuncia contro i Carabinieri. "Mi hanno preso a calci e torturato".

Isidro Diaz, di origini argentine ma da 23 anni in Italia: timpani perforati e distacco della retina. Viene difeso dagli stessi legali delle famiglie Cucchi e Aldrovandi, scrive Caterina Pasolini su "La Repubblica".

"Vengo dall'Argentina dove la mia generazione è stata massacrata. Qui pensavo di vivere in un paese civile. Invece mi sono ritrovato ammanettato, preso a calci e pugni in testa dai carabinieri, trascinato sull'asfalto, torturato e sbattuto contro i muri della caserma senza poter vedere un medico. Insultato, con i militari che mi puntavano la pistola addosso. E ancora non so perché".

Isidro Luciano Diaz ha 41 anni, dei quali 23 vissuti in Italia dove, nel lecchese, gestisce l'allevamento di cavalli "Dal Gaucho". Da quando il 5 aprile del 2009 è stato fermato dai carabinieri vicino a Voghera, è stato operato agli occhi 6 volte per distacco della retina e ha i timpani perforati. Ferite "compatibili" col suo racconto da incubo, scrive il medico legale nella relazione che riporta alla memoria le vicende di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi.

Di giovani morti dopo essere stati malmenati da uomini in divisa, entrati vivi in caserma o in carcere e mai usciti, tragedie di cui si è occupato lo stesso studio legale, Anselmo di Ferrara, che ora difende Diaz.

"Una storia assurda. Qualunque sia l'imputazione uno deve avere tutte le garanzie, pena la rinuncia dello Stato ad essere uno stato di diritto, perché la legittimità giuridica e morale dello stato è affidata alla capacità di garantire l'incolumità delle persone affidategli", dice sociologo Luigi Manconi che con il suo lavoro come sottosegretario alla Giustizia e poi come presidente dell'associazione a “Buon Diritto” ha avuto una parte importante nel far emergere tutte queste vicende.

Una storia inquietante, quella raccontata da Diaz, che rischia di finire nel nulla perché la sua denuncia contro i carabinieri è a pochi passi dall'archiviazione nonostante agli atti ci sia il riconoscimento fotografico da parte dell'argentino dei militari che l'hanno aggredito. Il giudice dovrà decidere in questi giorni. Diaz, infatti, condannato a un anno poi commutato in due di libertà controllata per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni (8 giorni di prognosi ai militari), solo dopo aver patteggiato la pena ha presentato la denuncia per percosse, allegando le immagini del suo volto stravolto dalle botte, della schiena martoriata.

Ma andiamo con ordine. Il 5 aprile 2009 di ritorno da una gara di monta di vitelli mentre è alla guida della sua Mercedes, un suv nero, Diaz viene fermato dai carabinieri sulla Torino-Piacenza. Al termine di un lungo inseguimento a folle velocità, scrivono i militari. Senza motivo, ribatte l'argentino. "Vedo che hanno le pistole in pugno, ho in macchina il coltello che mi serve per i cavalli glielo mostro per consegnarglielo. Mi sono addosso, mi ammanettano e poi calci e pugni in testa, mi trascinano sull'asfalto". Portato in caserma continua il pestaggio, "mi trattavano come un pallone, buttandomi contro il muro. Mi dicevano: devi morire. Provo a chiamare un amico, mi strappano il cellulare. Alla fine ho firmato qualsiasi carta anche perché non mi chiamavano un medico".

IL CASO DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI.

Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”.

La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M. nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi, per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione. L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio, venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur" (noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente" allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni, nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83 ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa sosteneva in ferie.

Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa. In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo. Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!) un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009. La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E' da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti, definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio preterintenzionale.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.

"87 ore", il film sulla morte di Mastrogiovanni. L'Espresso aveva denunciato l'orrore della assurda fine del maestro, legato a un letto di ospedale per quattro giorni. Fino alla morte. Il racconto di questa tragica vicenda ora è diventato un film. L'intervista di Giovanni Tizian e una nota della regista, scrive "L'Espresso" il 15 dicembre 2015. Un insegnante elementare di 58 anni viene prelevato dalla spiaggia di un campeggio del Cilento dai vigili, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio e costretto in un letto d'ospedale. Dove viene legato mani e piedi senza motivo. E tenuto sedato, per quasi quattro giorni, senza mangiare, senza bere. Finché muore. 'L'Espresso', con il consenso attivo dei familiari aveva denunciatoquell'orrore trasmettendo in streaming l'interminabile e omicida costrizione a cui l'uomo era stato sottoposto. Ora la regista Costanza Quatriglio, da quelle immagini delle videocamere di sorveglianza dell'ospedale, ha dato vita a un film forte e terribile, "87 ore", che dopo la proiezione al Senato è stato messo online sul nostro sito, disponibile per un mese  per i nostri abbonati Espresso+ e mandato in onda su Rai Tre. "87 ore" è un racconto che comincia il 31 luglio e finisce il 4 agosto 2009, gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni. Un documentario che attraverso le immagini di nove videocamere ripercorre i giorni e le notti all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, cercando altrove appigli di speranza, nel tentativo di trovare una verità a cui solo il corpo di Francesco può dare risposta. La difficoltà di raccontare una storia terribile come quella del maestro morto dopo quattro giorni di contenzione nell'ospedale psichiatrico di Vallo Della Lucania. L'intervista di Giovanni Tizian a Costanza Quatriglio. NOTA DI REGIA di Costanza Quatriglio. Difficile è stato trovare la chiave per utilizzare le immagini delle videocamere di sorveglianza che hanno filmato ininterrottamente gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni. Non solo per ciò che quelle immagini restituiscono, ma anche perché quel modo di filmare - quello sguardo -, esprime il punto di vista di un sistema a circuito chiuso che allontana chiunque venga ripreso, deprivandolo di ogni possibilità di relazione. E non è tutto: quelle immagini hanno, per loro natura, la pretesa di certificare i fatti, sembrano cioè non avere alcuna potenzialità narrativa, intesa come la capacità che hanno le immagini di evocare, di disvelare, di sottintendere. I 99 Posse sono gli autori delle musiche del film di Costanza Quatriglio, “87 ore – gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni”. Il documentario, online sul sito dell'Espresso, cerca di far luce sul caso dell'insegnante elementare di Castelnuovo Cilento sottoposto a TSO il 31 luglio e rinchiuso nel reparto psichiatrico del Vallo della Lucania, dichiarato morto il 4 agosto. Per questo, a un certo punto, mi è stato chiaro che la narrazione non doveva avere per oggetto il disvelamento dei fatti, ma la portata di quei fatti. Il corpo di Francesco Mastrogiovanni richiedeva una narrazione diversa che avesse una funzione rivelatrice perché potesse - attraverso lo sguardo meccanico della videosorveglianza - farci conoscere la violenza strutturale del meccanismo che ha portato alla sua morte. Francesco Mastrogiovanni era, come tutti noi, una persona. Il sistema di videosorveglianza ci restituisce una figura bidimensionale priva di ogni soggettività, frutto di quel processo di reificazione originato da un occhio meccanico che disumanizza l’umano. L’atto del guardare ci chiama in causa; man mano che il racconto procede, infatti, comprendiamo che è proprio quello sguardo a isolare l’uomo, come se l’inquadratura e quei legacci a polsi e caviglie fossero la stessa cosa. 87 ore, la morte di Mastrogiovanni e lo sguardo del disegnatore. È l’apocalisse dello sguardo, l’intermittenza dell’umano, quello spegnersi e accendersi della luce e quel passare dal giorno alla notte e dalla notte al giorno apparentemente sempre uguale, ma mai identico a se stesso, nello scorrere del tempo. Nella comprensione e nell’elaborazione di quei giorni, infatti, si compie la narrazione: i cinque atti che scandiscono il racconto corrispondono ai cinque giorni di ricovero. Il primo giorno ciascuno di noi è chiamato a osservare Mastrogiovanni attraverso quell’occhio robotico; il secondo giorno facciamo esperienza di quanto quel massimo di visibilità produca il massimo dell’invisibilità, fino a quando, nel quinto e ultimo atto ci accorgiamo che quel corpo non si muove più e l’unica cosa che sappiamo è che non ce ne siamo accorti, persi in quello sguardo che tutto uniforma e cancella. Fuori dal circuito chiuso, è il medico legale a vedere le lesioni inferte dalle cinghie di contenzione e a capire che quel corpo, nonostante tutto, può ancora parlare. Nel circuito chiuso, invece, l’epilogo naturale è la rimozione: la stanza viene ripulita e tutto torna come prima. È la procedura, il letto sarà pronto per l’accettazione di un nuovo paziente. Il film si ferma qui, sulla rete di un letto ormai spoglio di qualsiasi traccia d’umano. Tutto il resto è compito nostro, di noi che, guardando quella morte, guardiamo anche noi stessi, i nostri limiti, le nostre paure più segrete e ci scopriamo piccoli, infinitamente piccoli, nascosti tra un fotogramma e l’altro di un’immagine poco definita quanto ogni nostra convinzione o certezza.

Mastrogiovanni, ecco le condanne. Arriva il verdetto di primo grado per la morte di Franco Mastrogiovanni, il maestro elementare ricoverato all'ospedale di Vallo della Lucania e deceduto nel reparto psichiatrico del San Luca dopo 4 giorni di Tso in contenzione ininterrotta. L'Espresso aveva trasmesso il video integrale dell'agonia. Condannati tutti i medici, assolti dalle accuse gli infermieri, scrive Ermanno Forte il 30 ottobre 2012 su "L'Espresso". Medici condannati, infermieri assolti. Il processo di primo grado a Vallo della Lucania si è concluso nel tardo pomeriggio di ieri con la pronuncia della sentenza letta dal giudice Elisabetta Garzo, dopo oltre quattro ore di camera di consiglio. Cinque dei sei medici del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in servizio durante il trattamento sanitario subito da Franco Mastrogiovanni nell'estate del 2009, sono stati condannati per sequestro di persona, morte come conseguenza di altro delitto (il sequestro stesso) e falso in atto pubblico. L'altro, Michele Della Pepa, è stato riconosciuto colpevole solo per il sequestro e per il falso. I dodici infermieri sono stati invece assolti da tutte le accuse. Il giudice ha in sostanza confermato l'impianto accusatorio imbastito dal pubblico ministero Francesco Rotondo, magistrato poi trasferito, che aveva portato alla celebrazione del processo con la formula del giudizio immediato; sconfessata invece la linea portata avanti da Renato Martuscelli, il pubblico ministero che ha sostenuto l'accusa nella fase del dibattimento e che nella sua requisitoria aveva chiesto condanne, per omicidio colposo, per i soli medici e infermieri in servizio durante l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano, oltre che per il falso in atto pubblico (contestato a tutti gli imputati), relativo alla mancata registrazione in cartella clinica della contenzione prolungata. Riconosciute le attenuanti generiche per tutti i medici. Michele Di Genio, il primario del reparto all'epoca dei fatti, è stato condannato a tre anni e sei mesi di reclusione, poichè ritenuto colpevole anche per il falso della cartella clinica di Giuseppe Mancoletti, un altro paziente legato ad un letto del reparto di psichiatria, compagno di stanza di Mastrogiovanni.  Quattro anni è invece la pena inflitta a Raffaele Basso e Rocco Barone, condannati anche per il falso in cartella clinica e per il sequestro di persona di Mancoletti.  Tre anni di carcere per Americo Mazza e Anna Ruberto e due anni per Michele Della Pepa. Per i medici del reparto psichiatrico del San Luca - eccezion fatta per Della Pepa - è stata inoltre decretata l'interdizione dall'esercizio della professione per cinque anni, oltre alla condanna al risarcimento del danno alle parti civili e al pagamento delle spese processuali. "E' una grande vittoria. Dedichiamo idealmente questa sentenza a Franco, ma anche a tutti quelli che hanno subito gravi abusi nei reparti di psichiatria e che non hanno mai avuto giustizia" commenta commosso Vincenzo Serra, cognato di Mastrogiovanni e uno dei fondatori del comitato 'Verità e giustizia per Franco' "da oggi chi lega al letto i pazienti senza motivo sa che corre il rischio di essere condannato per sequestro di persona, è un passo in avanti importantissimo". "Siamo soddisfatti, ma non totalmente. A nostro avviso sono evidenti anche le responsabilità degli infermieri" dice Michele Capano, legale dell'associazione Avvocati senza frontiere, costituitasi parte civile "chiederemo alla Procura di ricorrere in appello su questo punto". Si dice invece 'molto soddisfatta' per la sentenza Caterina Mastrogiovanni, cugina del maestro cilentano e avvocato dei familiari al processo: "Una pronuncia molto positiva, direi storica. Le pene non sono altissime ma la cosa importante è il principio affermato: la contenzione, usata in quel modo, non è un atto terapeutico ma un grave illecito". Dall'altra parte, alcuni degli avvocati difensori degli imputati hanno già fatto sapere che appelleranno questa sentenza. E il processo di secondo grado si celebrerà davanti alla Corte d'Appello di Salerno.

Restituita la dignità a mio zio. Grazia Serra, nipote del maestro elementare morto in ospedale dopo quattro giorni di contenzione e abbandono commenta la sentenza di condanna dei medici. "La pronuncia del tribunale rappresenta un precedente importante. Forse i medici, sapendo di correre il rischio di essere accusati di sequestro di persona, da domani ci penseranno bene prima di legare al letto, senza motivo, un paziente", scrive Ermanno Forte il 31 ottobre 2012 su "L'Espresso". E' il tre agosto del 2009. Nel tardo pomeriggio Grazia Serra raggiunge l'ospedale di Vallo della Lucania per vedere come sta suo zio, Franco Mastrogiovanni, ricoverato da tre giorni, per un trattamento sanitario obbligatorio, nel reparto di psichiatria. I medici le dicono che lo zio sta riposando, che sta bene, che sta ricevendo tutte le cure del caso e che non è opportuno che veda i familiari, perché ciò potrebbe turbarlo. Di lì a poche ore Mastogiovanni muore. Dopo un'interminabile agonia, fatta di contenzione e abbandono. Da allora Grazia è sempre stata in prima linea per chiedere "verità e giustizia per Franco", che è pure il nome del comitato formato da parenti e amici subito dopo i fatti di tre anni fa. Ora c'è una sentenza di primo grado che dice che i medici di quel reparto sono i responsabili della morte di Francesco Mastrogiovanni. 

Giustizia è fatta, dunque?

«Sì, direi di sì. Perché un tribunale della repubblica italiana ha riconosciuto che mio zio, in un ospedale pubblico, è stato sequestrato. Che utilizzare la contenzione in quella maniera assurda che abbiamo visto tutti, grazie al video, è una cosa illegale. Questa sentenza ha ridato a mio zio un po' di quella dignità umana che era stata calpestata e umiliata dai sanitari del San Luca».

Per come è andato il processo, si aspettava una sentenza di questo tipo?

«Speravo che andasse a finire così, ma razionalmente ho pensato: tutto è possibile. E' stato un processo lungo e complicato. Ed è innegabile che il pm Martuscelli, che nella sua requisitoria non aveva ritenuto sussistente il reato di sequestro, ci ha spiazzato e ha mischiato ulteriormente le carte. Non sapevo davvero cosa aspettarmi. E' arrivata una sentenza importante, che ci soddisfa».

Gli infermieri, però, sono stati assolti...

«Non ho capito bene per quale motivo, ma aspetto le motivazioni della sentenza per esprimere un giudizio in merito».

C'è qualcosa che ha sentito durante il dibattimento e che le ha dato particolarmente fastidio?

«Sì, tante. Come ad esempio sentir dire dagli avvocati degli imputati che avremmo mostrato ai media solo alcune parti del video, in modo da distorcere la realtà a nostro uso e consumo. Oppure sentire dire che legare mio mio è stato un dovere medico, esercitato per proteggerlo. Che il trattamento sanitario obbligatorio consiste essenzialmente nella contenzione, e che questa è una terapia, come ha dichiarato il direttore sanitario dell'ospedale di Vallo della Lucania. Che assurdità». 

Uno dei motti del comitato verità per Franco è stato "affinchè non accada mai più". Servirà a qualcosa, in questo senso, la sentenza? 

«Credo proprio di sì. Prima di tutto perché l'opinione pubblica comincia a rendersi conto di quello che può accadere in un reparto psichiatrico. E poi perché la pronuncia del tribunale di Vallo può rappresentare un precedente importante. Forse i medici, sapendo di correre il rischio di essere accusati di sequestro di persona, da domani ci penseranno bene prima di legare al letto, senza motivo, un paziente».

Lei da diversi mesi è impegnata nel progetto "slegami", una sorta di osservatorio sulla contenzione, insieme all'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi. Vi arrivano molte segnalazioni di abusi?

«Sì, ci hanno contattato diverse persone, in relazione a casi di contenzione prolungata avvenuti nei reparti psichiatrici. Spesso, però, chi subisce queste violenze non ha il coraggio di raccontare. Perché si sente umiliato, si vergogna. Si deve parlare molto di più di questo fenomeno, grave, molto diffuso e spesso quasi sconosciuto. Che riguarda anche le strutture che ospitano gli anziani». 

Continuerà ad occuparsi di abusi psichiatrici anche dopo che la vicenda giudiziaria che riguarda suo zio sarà chiusa?

«Certo. Ormai è un impegno che occupa uno spazio molto importante della mia vita. Non è possibile che persone che dovrebbero essere tutelate e curate vengano di fatto torturate. All'interno di un ospedale pubblico. Non possiamo accettarlo».

Un insegnante elementare di 58 anni. Che una mattina d'estate, in provincia di Salerno, viene fermato dai vigili e costretto in un letto d'ospedale. Dove lo legano mani e piedi senza motivo. E dove viene tenuto per 82 ore senza essere neppure idratato. Finché muore. Così scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi. Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre 2012, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de "l'Espresso", in collaborazione con l'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi e con l'accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all'ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da "Mi manda RaiTre" quando il processo era appena iniziato. Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta».Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato. A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l'assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula. Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un'altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente. Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l'esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. E' questo il cardine dell'accusa, secondo l'impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. E' vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l'omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell'autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un'addetta alle pulizie. L'avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell'Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella". Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura. Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l'omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l'imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all'obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto. Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

Il racconto di Laura Cuppini su il "Il Corriere della Sera". Legato a un letto, polsi e caviglie. Così sarebbe morto Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di Castelnuovo Cilento. Aveva 58 anni. Il 31 luglio era entrato nell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania: sul suo capo pendeva un'ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio. Quattro giorni dopo, la mattina del 4 agosto, gli infermieri l'hanno trovato morto. Per edema polmonare, secondo il medico legale che ha effettuato l'autopsia. Forse Francesco Mastrogiovanni era legato su quel letto da troppe ore, forse addirittura da giorni. «Nella cartella clinica non viene menzionata la contenzione fisica, ma dall'autopsia è risultato che aveva segni su polsi e caviglie compatibili con lacci di un materiale rigido» spiega Vincenzo Serra, cognato della vittima. Il Tso è un atto medico e giuridico regolamentato da una legge: viene deciso dal sindaco su proposta di un medico e, qualora preveda un ricovero ospedaliero, richiede la convalida di un secondo medico. Della procedura deve essere informato anche il Giudice Tutelare di competenza. Insomma, uno strumento su cui esistono vari livelli di controllo e soprattutto, come impone la legge, «esclusivamente finalizzato alla tutela della salute».

SETTE INDAGATI - La storia del maestro che, come dicono parenti e mici, «non passava inosservato» (anche per i quasi 2 metri di altezza), ha molti punti oscuri. Troppi. Tanto che la Procura di Vallo della Lucania ha aperto un'inchiesta, affidata al pm Francesco Rotondo, e iscritto nel registro degli indagati i sette medici del reparto di psichiatria (compreso il primario, Michele Di Genio) che hanno avuto in cura Mastrogiovanni. La famiglia ha istituito il comitato «Giustizia per Franco» (è il diminutivo con cui veniva chiamato usualmente), che ha una pagina online per il momento in costruzione (www.giustiziaperfranco.it). Anche l'associazione EveryOne (che si occupa anche di lotta agli abusi psichiatrici) ha preso a cuore il caso. «Abbiamo depositato un'interrogazione parlamentare, insieme ai deputati radicali, rivolta ai ministro degli Interni e della Salute proprio sulla morte di Mastrogiovanni e abbiamo presentato una denuncia in sede europea perché sia finalmente approvata una regolamentazione internazionale contro gli abusi psichiatrici» spiega il co-presidente Roberto Malini. «Il trattamento riservato al signor Mastrogiovanni è altamente lesivo dei suoi diritti e della sua dignità di essere umano - si legge nell'interrogazione messa a punto dai tre co-presidenti di EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau -. Il Tso rappresenta un uso consolidato in molte città italiane e il suo fine coercitivo è dimostrato da molti casi».

MISTERI - Ma cosa è successo il 31 luglio? Francesco Mastrogiovanni era a San Mauro Cilento, stava trascorrendo dei giorni di vacanza in un campeggio di proprietà di una sua conoscente. I carabinieri sono andati a prenderlo, hanno circondato il bungalow dove viveva. Lui è scappato verso la spiaggia, spaventato. Lì ha fumato una sigaretta, ha preso un caffè. Forse voleva immaginare che fosse una giornata come le altre. Ma era circondato - a terra i carabinieri, in mare la guardia costiera - e alla fine ha ceduto. Un grosso spiegamento di forze dell'ordine per un uomo solo. I militari lo hanno portato in macchina e quindi all'ospedale di Vallo della Lucania per il ricovero coatto: lì risulta positivo alla cannabis, non all'alcol né ad altri tipi di droghe. A questo punto c'è un mistero. «Il Tso è stato chiesto dal sindaco di un altro Comune, ovvero Pollica Acciaroli - spiega il cognato di Mastrogiovanni -, e non da quello di San Mauro Cilento dove Mastrogiovanni è stato fermato dai carabinieri». Buio anche sulle cause che hanno portato amministratori, medici e forze dell'ordine a optare per un provvedimento urgente ed estremo come il Trattamento sanitario obbligatorio. È trapelata la notizia di un incidente in cui l'uomo, guidando contromano, avrebbe tamponato quattro auto parcheggiate. Episodio di cui non esiste, secondo i familiari della vittima, alcuna prova, denuncia o verbale. «L'ultima versione che circola è quella della guida contromano - spiega Peppino Galzerano, editore e amico di Mastrogiovanni -, prima ne erano state diffuse altre». Ma le spiegazioni di questa morte vanno cercate anche nel passato del protagonista, e nell'immagine di "anarchico" che si era costruita, forse suo malgrado.

LA CONDANNA - Mastrogiovanni insegnava alle elementari da una ventina d'anni. Per un lungo periodo aveva vissuto nel Nord Italia per lavoro, poi era tornato nella provincia di Salerno, e aveva trovato un posto nella scuola della sua città, Castelnuovo Cilento. Non era un uomo tranquillo: la sua vita era stata segnata da una serie di eventi traumatici che hanno acuito la sua sensibilità, rafforzando in lui delle paure violente. «Alla fine degli anni '90 aveva rotto una lunga relazione con una ragazza bergamasca, poi è morto suo padre - racconta il cognato -. Dunque ha deciso di tornare nella sua terra madre. Nel '99 a Salerno il primo "incontro" con i carabinieri, per una causa futile: viene portato in caserma, processato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, condannato in primo grado a tre anni. Nella requisitoria il pm lo definisce "noto anarchico". Sconta un mese di carcere e cinque di arresti domiciliari, ma intanto c'è il ricorso in Appello: in secondo grado viene pienamente assolto per non aver commesso il fatto e persino risarcito per ingiusta detenzione». Mastrogiovanni sviluppa negli anni un terrore profondo verso le forse dell'ordine, in un paio di occasioni scappa alla semplice vista di una divisa. Viene considerato un soggetto patologico, ma spesso si rifiuta di assumere i farmaci che gli vengono prescritti. Ha paura anche di quelli. Fobie che accrescono la sua fama di "anarchico", di insofferente alla società, al sistema.

IL CASO FALVELLA - C'è un'altra vicenda, che risale a molti anni prima e che ha profondamente segnato il maestro: l’omicidio di Carlo Falvella, vicepresidente del Fronte universitario d’unione nazionale di Salerno, nel '72. Mastrogiovanni era con Giovanni Marini e altri "compagni". «Marini stava raccogliendo notizie per far luce sull’omicidio di cinque anarchici calabresi morti in quello che dicono essere stato un incidente stradale nei pressi di Ferentino (Frosinone) dove i ragazzi si stavano recando per consegnare i risultati di un’inchiesta condotta sulle stragi fasciste del tempo» spiega Peppino Galzerano, amico del maestro. C'è uno scontro tra militanti di destra e sinistra: Falvella muore. Nel processo Matrogiovanni è assolto, mentre Marini è condannato a nove anni.

PASSIONE PER I LIBRI - «Attorno alla sua figura si è costruita un'immagine di persona violenta, ma non era assolutamente pericoloso per la società - dice il cognato Vincenzo Serra -. Nella cartella clinica c'è scritto che era "aggressivo verbalmente": spesso si arrabbiava, parlando di politica, ma non passava mai alle vie di fatto. Era sempre dedito alla lettura, collezionava libri, non era un "bombarolo". Diceva semplicemente che non si fidava di nessuno, solo di se stesso. Negli anni 2002-2003 è stato sottoposto ad altri due Tso, poi negli ultimi quattro anni è stato tranquillo». I familiari non si aspettavano dunque un epilogo così tragico e fitto di elementi inquietanti. L'amico Peppino Galzerano non riesce a farsi una ragione di quanto accaduto: «È un'offesa alla dignità umana, non è possibile che un uomo muoia inaccettabile, in ospedale, cioè proprio nel luogo dove dovrebbe essere curato».

CARTELLA CLINICA - Uno, fondamentale, riguarda la cartella clinica. Il medico legale che ha effettuato l'autopsia, Adamo Maiese, ha riscontrato segni evidenti di lacci su polsi e caviglie della salma. «Nella cartella clinica non è stata annotata la contenzione né la motivazione di essa, come invece prevede la legge - afferma Caterina Mastrogiovanni, cugina della vittima e legale della famiglia -. Dunque bisogna capire se la contenzione c'è stata e quanto è durata. Nella cartella clinica c'è poi un vuoto dalle 21 del 3 agosto alle 7 del 4 agosto: in questo lasso di tempo non è stato fatto nulla. Infine, nelle ultime due sere - quelle del 2 e 3 agosto - non gli sarebbero stati somministrati medicinali perché il paziente dormiva. Ma se Mastrogiovanni dormiva che bisogno c'era di tenerlo legato?».

DETERMINANTI I FILMATI - All’autopsia effettuata il 12 agosto, poche ore prima dei funerali, hanno assistito i legali della famiglia, Caterina Mastrogiovanni e Loreto D’Aiuto. L’ipotesi di reato cui devono rispondere i sanitari è al momento omicidio colposo, ma saranno determinanti per le indagini le riprese girate nella camera durante il trattamento e subito dopo la sua morte dell'uomo. I legali dei medici indagati parlano di «falsità»: «Contestiamo quanto finora pubblicizzato a mezzo stampa perché destituito di qualsiasi fondamento - ha detto Antonio Fasolino, insieme a Francesca Di Genio legale del primario Michele Di Genio -. Il professor Mastrogiovanni è giunto in ospedale a seguito dell'emanazione di un'ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio da parte del comune di Pollica. I sanitari dell'ospedale di Vallo della Lucania hanno seguito il protocollo previsto per casi come questo».

IL CASO DI ANDREA SOLDI.

Morì dopo il Tso, nuova chiusura delle indagini per il caso Andrea Soldi. Il provvedimento è in corso di notifica agli avvocati dei quattro indagati, un medico psichiatra e tre agenti di polizia municipale, scrive il 19 aprile 2016 “Torino Today”. Novità in corso sul caso Tso di piazza Umbria. La Procura di Torino ha rifatto la chiusura indagini per il caso della morte di Andrea Soldi, il 45enne malato di schizofrenia morto lo scorso agosto durante un ricovero forzato. Secondo quanto si apprende da ambienti vicini alla procura, il provvedimento è in corso di notifica agli avvocati dei quattro indagati, un medico psichiatra e tre agenti di polizia municipale. Il pm Lisa Bergamasco contesta nei loro confronti l'omicidio colposo. La nuova chiusura indagini si è resa necessaria, sempre secondo quanto appreso, in seguito agli interrogatori degli stessi indagati, dai quali nei mesi scorsi sarebbero emersi nuovi elementi. Gli indagati, difesi dagli avvocati Anna Ronfani e Stefano Castrale, potranno ora produrre ulteriori memorie prima dell'eventuale richiesta di rinvio a giudizio.

Trattamento Sanitario Obbligatorio: la storia di Andrea Soldi, scrive “La Cronaca vera” il 13 gennaio 2016. Dal 7 agosto 2015 la panchina di piazzale Umbria a Torino è piena di fiori e di biglietti. Sono i tanti messaggi lasciati in memoria di Andrea Soldi, 45enne malato di schizofrenia morto durante un trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Trascorreva spesso lì il suo tempo. Gli abitanti del quartiere lo conoscevano molto bene e hanno raccontato più volte di non aver mai avuto problemi con quell’omone di 120 chili, che faceva giocare e ridere i bambini con il verso del lupo. Quel giorno però qualcosa non è andato nel verso giusto. Il 45enne in preda a una crisi nervosa sembrava un altro e a chiedere l’intervento medico sono stati proprio i suoi familiari. Non era la prima volta che ricorrevano al Tso e secondo le perizie mediche è stata usata troppa forza nei confronti di Andrea, tanto da portarlo alla morte. Era disteso a terra, scuro in volto e con lividi attorno al collo, almeno così lo ha trovato la sorella Maria Cristina quando ha saputo della notizia. Ogni tanto smetteva di prendere i farmaci e bisognava costringerlo a ricominciare. Quel caldo giorno di agosto sono intervenuti lo psichiatra, un infermiere e tre agenti di polizia municipale. Dovevano solo portarlo in ospedale ma vedendo quel ragazzone opporsi, hanno portato una lettiga lo hanno trascinato di peso e tenuto a faccia in giù con le mani legate dietro la schiena. La manovra di immobilizzazione, secondo il perito della procura, avrebbe interrotto l’afflusso di sangue al cervello e avviato un processo di soffocamento. Il Pm Raffaele Guariniello ha chiuso l’indagine, l’ultima prima di andare in pensione, con il rinvio a giudizio di quattro imputati, i tre agenti della polizia municipale e lo psichiatra curante di Andrea Soldi che aveva predisposto il tso, l’ipotesi di reato è omicidio colposo. Il trattamento sanitario obbligatorio è una pratica medica alla quale viene sottoposta una persona contro la sua volontà. A parte eccezioni si pratica per malati psichiatrici attraverso il ricovero forzato negli ospedali pubblici. Il Tso viene praticato quando una persona è pericolosa per sé o per gli altri, in soggetti che manifestano tendenze suicide, che non prendono i medicinali o rifiutano cibo e acqua. In questo caso sono i familiari che richiedono il Tso, che viene disposto con provvedimento dal sindaco del comune di residenza o del comune dove la persona si trova momentaneamente, che emana l’ordinanza solo una volta ricevute le certificazioni mediche che prevedono il ricovero forzato.

Casi di Tso descritti dalle cronache e finiti male:

Franco Mastrogiovanni era un insegnante di 58 anni morto nel 2009 dopo essere stato ricoverato presso il Centro di salute mentale dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania (Salerno) per un trattamento sanitario obbligatorio. La storia di Franco Mastrogiovanni ha suscitato scalpore dopo le immagini pubblicate dal settimanale L’Espresso. Dal 31 luglio al 4 agosto 2009 si perdono le tracce del professore, in Cilento per una vacanza. Viene lasciato legato al letto senza cibo né acqua e viene vietata la visita dei familiari. Il 4 agosto viene dichiarato morto, ritrovato dagli infermieri esanime. Mastrogiovanni insegnava alle elementari da una ventina d'anni. Per un lungo periodo aveva vissuto nel Nord Italia per lavoro, poi era tornato nella provincia di Salerno per insegnare in una scuola del suo paese a Castelnuovo Cilento. Non era un uomo tranquillo: la sua vita era stata segnata da una serie di eventi traumatici che hanno acuito la sua sensibilità, rafforzando in lui delle paure violente, tanto da essere definito un anarchico. 

Giuseppe Uva è stata un’altra vittima del Tso. Sono state scritte pagine e pagine di cronache su di lui. La sua storia la conosciamo soprattutto grazie alla sorella Lucia. Giuseppe era un artigiano di 43 anni, morto la mattina del 14 giugno 2008 nell’Ospedale Di Circolo di Varese. Una reazione fatale tra lo stato di ubriachezza e i tranquillanti somministratagli in ospedale hanno portato al decesso. Arresto cardiaco.

La malattia mentale è forse la più brutta. È difficile da comprendere e impossibile da tenere sotto controllo. È la legge del più forte e i matti sono i deboli. Andrebbero protetti e difesi, ma spesso non succede. Proviamo per un attimo a pensare cosa si scatena nella mente di un malato psichiatrico. I meccanismi che uniscono quel fragile e delicato insieme sono molto vulnerabili e quando vengono scossi possono anche dar vita a meccanismi di autodifesa e autolesionismo. Perché bisogna sempre piangere un morto per farsi qualche domanda? Ai posteri l’ardua sentenza.

Torino, morì durante il Tso. L’autopsia: «strangolamento atipico». Lo ha stabilito la consulenza del medico legale: indagati tre vigili e uno psichiatra, scrive Elisa Sola il 12 novembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Andrea Soldi è morto strozzato. Soffocato dal braccio di un vigile che lo ha stretto al collo con troppa forza, tanto da provocare un «violenta asfissia da compressione». E’ l’esito della consulenza autoptica depositata dal medico legale Valter Declame al procuratore Raffaele Guariniello sulla morte del 45enne torinese malato di schizofrenia e soprannominato dai vicini di casa «il gigante buono». Era il 5 agosto e Andrea stava seduto in piazza Umbria sulla sua panchina preferita. Una panca di legno verde da cui si vedono le aiuole, i passanti che attraversano la piazza e l’ingresso dell’Ari’s bar, dove Andrea andava a comprare l’acqua naturale e dove a chi gli era più affezionato ogni tanto chiedeva una sigaretta. All’improvviso era arrivata un’ambulanza. Lo psichiatra di Soldi e tre vigili urbani si erano avvicinati a lui e lo avevano invitato a salirvi sopra. Destinazione, ospedale, per un Tso. Andrea, che pesava oltre cento chili, si era rifiutato. Si era aggrappato alla panca. Rifiutava quel trattamento forzato concordato dalla famiglia con il medico il giorno prima. Due vigili si erano piazzati di fianco a lui, uno per lato, immobilizzandolo e un terzo da dietro gli aveva messo un braccio contro il collo, stringendo. Secondo il medico legale dell’accusa, quella stretta fu fatale. «In considerazione dell’anamnesi e dai rilievi dell’esame autoptico», scrive il medico, la causa della morte «è una violenta asfissia da compressione», con una «ostruzione delle alte vie aeree e dissociazione elettromeccanica del miocardio». Lo «strozzamento atipico» avrebbe prodotto «una compressione delle strutture profonde vascolonervose del collo» e poi il mancato passaggio di ossigeno. Dopo la presa, Andrea aveva perso conoscenza e si era accasciato al suolo. Più di un testimone aveva assistito a questa scena. Privo di sensi, era stato ammanettato e caricato sull’ambulanza a pancia in giù. Una posizione che non consentiva la ripresa della respirazione né la possibilità di rianimarlo o anche solo di mettergli davanti alla bocca la mascherina dell’ossigeno. Andrea da allora non aveva mai ripreso conoscenza. Arrivato in ospedale, le manovre salva vitanon avevano più avuto alcun effetto. Un dei volontari che guidava l’ambulanza del 118 che aveva assistito al tutto, sconvolto da quanto stava osservando, aveva chiamato la centrale confidando alla dottoressa che aveva risposto: «Lo hanno preso al collo... lo hanno fatto un po’ soffocare…Mi hanno detto di caricarlo, ma siccome aveva le manette ed era a pancia in giù non volevo farlo e ho detto di no. Ma loro me l’hanno ordinato e io l’ho lasciato così, a pancia in giù». Se Andrea fosse stato soccorso a dovere durante il viaggio, forse sarebbe ancora vivo. Per questo la procura contesta una «morte asfittica da strangolamento atipico aggravata dalla modalità di trasporto». In realtà c’è anche chi sostiene di avere visto morire Soldi già ai giardinetti. Un anziano frequentatore del bar aveva dichiarato al Corriere.it: «Appena lo hanno messo sulla barella ha tremato forte. Per due o tre volte le gambe, che non controllava più, hanno sbattuto contro il lettino. Tac, tac, tac. Poi è stato immobile. Di colpo. Sono sicuro, è morto in quel momento. Lo hanno ammazzato». Secondo il cugino nonché legale della famiglia, l’avvocato Giovanni Maria Soldi, «questa prima relazione autoptica conferma la brutalità dell’intervento e la manovra e il modo impropri in cui è stato trattato. Nonché la mancanza di un soccorso corretto e opportuno, quando, cosa ancora più grave, il soggetto era già in condizioni gravissime». La procura adesso lavora proprio su questo fronte: i vigili che hanno bloccato Andrea erano preparati per trattare con pazienti come Andrea? Chi e come li ha addestrati a praticare certe mosse? Che non si possa ammanettare un uomo quando è riverso a terra svenuto è un principio di buon senso universalmente conosciuto.

Inchiesta Tso, Soldi ammanettato anche durante la rianimazione. Chiusa l’indagine per i quattro indagati di omicidio colposo. Le testimonianze raccolte dagli investigatori tra i medici del Maria Vittoria, scrive Jacopo Ricca il 2 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Andrea Soldi Ammanettato anche al pronto soccorso, mentre i medici dell’ospedale Maria Vittoria tentavano l’ultima, disperata, rianimazione. Andrea Soldi, il paziente psichiatrico, morto il 5 agosto durante un Tso a Torino non solo è arrivato coricato a pancia in giù e ammanettato, ma anche al pronto soccorso gli agenti della polizia municipale, indagati dalla procura di Torino per omicidio colposo assieme allo psichiatra che ha richiesto l’intervento, si rifiutarono di togliere le manette all’uomo. Nei giorni scorsi, il pm Raffaele Guariniello, come uno degli ultimi atti prima della pensione, ha chiuso l’indagine per i quattro indagati e ora dalle testimonianze raccolte dagli investigatori tra i medici del Maria Vittoria emerge un comportamento quanto meno strano da parte dei tre agenti del “nucleo mirati” dei vigili urbani: per più di un minuto i “civich” si rifiutarono di togliere le manette a soldi e anche se i dottori chiesero due volte che fosse liberato questi tergiversarono, nella versione fornita dagli agenti perché non si trovava la chiave, e solo quando un medico alzò la voce finalmente tolsero a Soldi le manette. L’uomo però era già in arresto cardiaco, secondo le consulenze raccolte dalla procura a causa della manovra con cui fu prima immobilizzato e poi caricato sull’ambulanza, e le operazioni di rianimazione dei sanitari si rivelarono vane. La catena di errori, che parte, secondo l’accusa, dalla scelta dello psichiatra di richiedere un trattamento sanitario obbligatorio senza autorizzazione del sindaco nei confronti di un paziente che non si mostrava violento, è continuata sia durante l’intervento in piazza Umbria che all’ospedale e la responsabilità per gli investigatori ricadrebbe sia su chi l’ha fisicamente ammanettato che su chi “guidava” le operazioni.

Andrea Soldi morì dopo Tso: condannati lo psichiatra e 3 vigili. Il verdetto a Torino: il paziente affetto da schizofrenia era deceduto il 5 agosto 2015, all’età di 45 anni, durante un tragico ricovero forzato, scrive Giovanni Falconieri il 30 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Quattro condanne per la morte di Andrea Soldi, il 45enne paziente schizofrenico deceduto nell’agosto del 2015 durante un tragico tentativo di Trattamento sanitario obbligatorio. Il Tribunale di Torino ha ritenuto colpevoli i tre agenti di polizia municipale (Manuel Vair, Stefano Del Monaco ed Enri Botturi) che materialmente eseguirono il Tso e il medico psichiatra Pier Carlo Della Porta che aveva in cura Andrea, condannandoli alla pena di 1 anno e 8 mesi di reclusione. Il pubblico ministero Lisa Bergamasco aveva chiesto per tutti e quattro gli imputati una pena di un anno e sei mesi di carcere. Il giudice Federica Florio ha inoltre stabilito che il risarcimento del danno dovrà essere definito in sede civile, ma ha comunque disposto una provvisionale immediatamente esecutiva di 220 mila euro a favore del padre di Andrea, Renato, e di 75 mila a favore della sorella, Maria Cristina. Alla lettura della sentenza tutti gli imputati (accusati di omicidio colposo) erano presenti in aula. Tra 60 giorni il deposito delle motivazioni della sentenza. «Faremo ricorso in appello», ha affermato subito dopo la lettura in aula del dispositivo l’avvocato Stefano Castrale, difensore dei tre vigili urbani condannati. «E siamo certi che la valutazione degli atti processuali da parte dei nuovi giudici porterà alla assoluzione dei nostri assistiti». «Non era una questione di mesi o di anni di carcere. Era una questione di giustizia. Giustizia per la morte di mio fratello e per tutte le sofferenze che patì quel giorno», ha invece commentato Maria Cristina Soldi, sorella di Andrea, auspicando che dopo questo processo «cambi finalmente qualcosa nella disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori e nel sostegno alle famiglie». Maria Cristina si è anche detta del parere che adesso i tre agenti della polizia municipale condannati debbano essere sospesi dal servizio.

Torino, tso tragico: quattro condanne a un anno e otto mesi per la morte di Andrea Soldi. Tre agenti della polizia municipale e uno psichiatra ritenuti responsabili del decesso del giovane schizofrenico. Il padre: "L’arroganza di questi vigili andava punita", scrive Ottavia Giustetti il 30 maggio 2018 su "La Repubblica". Un anno e otto mesi di carcere con la sospensione condizionale della pena e una provvisionale da 295 mila euro per il padre Renato e la sorella Maria Cristina. È stata pronunciata questa mattina la sentenza per la morte di Andrea Soldi una sentenza di poco più severa di quella che era stata chiesta dal pm Lisa Bergamasco per i tre vigili urbani e lo psichiatra accusati di omicidio colposo. Andrea Soldi, 45 anni, malato di schizofrenia paranoide, è morto in seguito al tentativo di tso, il pomeriggio del 5 agosto 2015. Gli imputati condannati sono lo psichiatra Pier Carlo Della Porta, con i tre vigili Enri Botturi, Stefano Del Monaco e Manuel Vair. "Era una persona malata non avrebbe fatto male a nessuno dovevano solo aspettare e Andrea sarebbe ancora lì seduto sulla panchina" è il primo commento della sorella Cristina Soldi. "Per noi questa è una condanna morale. Perché quel che è successo ad Andrea a non succeda mai più - aggiunge - mi auguro che qualcuno adesso si metta intorno a un tavolo e ragioni su questa malattia e intraprenda un cammino per i malati e per le loro famiglie". "Meno male che c'è stata questa sentenza l'arroganza di questi vigili andava punita" è invece il solo commento del padre di Andrea, Renato.

Torino, morto per Tso: condannati tre agenti della municipale e uno psichiatra. I quattro erano accusati di omicidio colposo. “La condanna c’è stata, ma non basta perché Andrea non tornerà più - ha affermato Cristina, sorella della vittima -. Questa deve essere una condanna morale affinché fatti così non avvengano più. I malati devono essere trattati con dignità”, scrive Andrea Giambartolomei il 30 maggio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Sono stati condannati a un anno e otto mesi di carcere, una pena più alta di quella chiesta dalla procura, i tre agenti della polizia municipale di Torino e il medico psichiatra a processo per la morte di Andrea Soldi, malato psichiatrico di 45 anni deceduto a Torino il 5 agosto 2015 nel corso di un trattamento sanitario obbligatorio. I quattro erano accusati di omicidio colposo. Nei loro confronti il sostituto procuratore Lisa Bergamasco aveva chiesto una pena di un anno e mezzo, ma il giudice Federica Florio ha deciso di dar loro due mesi in più. “La condanna c’è stata, ma non basta perché Andrea non tornerà più – ha affermato Cristina, sorella della vittima -. Questa deve essere una condanna morale affinché fatti così non avvengano più. I malati devono essere trattati con dignità”. Quel 5 agosto Soldi era seduto su una panchina, la “sua” panchina, in piazza Umbria. Da mesi rifiutava di prendere i farmaci per tenere sotto controllo il suo disturbo, la schizofrenia paranoide. Per questo era stato richiesto da tempo un trattamento sanitario obbligatorio per fargli ricominciare le cure. Lui, però, non collaborava, forse in preda a una crisi paranoica. Così la procedura, secondo i testimoni che hanno assistito alla scena e secondo l’accusa, è stata forzata (ascolta l’audio): il 45enne è stato preso con un’eccessiva forza dai tre agenti, uno dei quali lo ha stretto al petto. Poi Soldi è stato ammanettato con le mani dietro la schiena e caricato su una barella a pancia in giù. Durante il trasporto in ospedale Soldi, che era anche sovrappeso, non riusciva a respirare bene per la posizione in cui stava e il medico, che aveva Soldi in cura da tre anni, e gli agenti non avrebbero fatto nulla per risolvere la situazione.  “Per tre volte l’infermiera aveva chiesto di togliergli le manette – ha ricorda Cristina Soldi -. Quel Tso non era urgente e poteva essere rimandato”. Il medico si è sempre detto infinitamente dispiaciuto e rattristato per quanto successo, mentre la famiglia di Soldi non ha mai ricevuto le scuse da parte dei tre agenti: “Sono stati degli arroganti sempre e comunque, prima e durante il processo”, ha detto Renato Soldi, padre di Andrea. Nei confronti dei quattro imputati la pena è sospesa e il giudice ha stabilito anche che non dovrà essere citata nel casellario. Dovranno però pagare una provvisionale immediatamente esecutiva di 220mila euro al padre e 75mila alla sorella, assistiti dall’avvocato Giovanni Maria Soldi, cugino della vittima. Gli avvocati Stefano Castrale, Gian Maria Nicastro, Gino Obert e Anna Ronfani meditano al ricorso in appello.

Morte Andrea Soldi, il legale: “Emerso risentimento vigili nei confronti dei superiori.” Scrive TAG24 il 30 maggio 2018. Giovanni Maria Soldi, legale rappresentante della famiglia di Andrea Soldi, è intervenuto ai microfoni di Radio Cusano Campus nel programma Legge o Giustizia. Andrea soldi è morto il 5 agosto del 2015 a Torino in seguito ad un TSO e per questo sono stati condannati tre vigili urbani ed il medico psichiatra. “Era una persona buona, che tutti conoscevano. Con una maggiore pazienza nei confronti di un soggetto che non era da arrestare ma da curare si sarebbe evitato tutto questo – ha spiegato l’avvocato Soldi – il processo è stato lungo e difficile. È emerso che rispetto a questo tema, ovvero al TSO, c’è una grande confusione. Le Istituzioni che dovrebbero coordinarsi tra loro brancolano, non è chiaro chi abbia la prevalenza rispetto all’altra o come si debba intervenire. La formazione del personale emersa in dibattimento è stata “sul campo”. Il Comune di Torino ha certamente predisposto dei corsi ma non per le tematiche specifiche del TSO ma per casi di bloccaggio di persone o per fermare soggetti in stato di escandescenza”. Un anno e 8 mesi con sospensione della pena per gli imputati accusati di omicidio colposo. In galera, insomma, non ci andranno. “Mi sembra giusto perché è stato veramente un omicidio colposo. Non mi compiaccio mai di una condanna. Mi soddisfa il fatto che sia stato un primo grado di accertamento di verità. Questo ragazzo è stato maltrattato. Ciò che a noi interessa è che questa sentenza possa rappresentare uno spunto per ulteriori ragionamenti. Lo psichiatra poteva preparare la terapia sedativa prima del TSO. Poteva interromperlo oppure rianimare Andrea quando era in stato di incoscienza. Il medico psichiatra ha avuto un ruolo preminente anche se è stato l’unico a scusarsi col padre di Andrea Soldi: umanamente lo ho apprezzato. Questo non è avvenuto dalla città di Torino o dal Corpo dei Vigili”. Mesi fa si venne a sapere che i Vigili coinvolti erano stati promossi: “Questi vigili vennero trasferiti ad un nucleo meno operativo, quindi hanno dei ruoli più amministrativi: non ho competenze per dire se sia una promozione o meno. Quello che è certo è che non hanno subito nulla di rilevante dal punto di vista disciplinare”. Il Corpo ha preso questa scelta perché gli imputati avrebbero potuto prendere provvedimenti loro nei confronti del Corpo stesso? “Certo. In dibattimento è emerso che il comandante all’epoca del nucleo del progetto Servizi Mirati che aveva stimolato una discussione sul tema del TSO è stato rimosso ed assegnato ad altri incarichi. Stimolata dal sottoscritto alla domanda in dibattimento, l’imputata disse che forse questa persona aveva toccato argomenti che non andavano toccati. Questo risentimento degli imputati dei vigili urbani è emerso in modo chiaro rispetto ai loro superiori gerarchici”.

Adesso basta morti per Tso. Il 5 agosto del 2015 Andrea Soldi era seduto su una panchina di Torino. Venne preso con la forza per un Trattamento sanitario obbligatorio. Ora è arrivata la condanna in primo grado ai tre agenti e allo psichiatra per omicidio colposo. E la sorella chiede: mai più, scrive Francesca Sironi il 30 maggio 2018 su "L'Espresso". C'erano le testimonianze di chi era presente in piazza quel giorno, a raccontare di quell'uomo ucciso in modo ingiusto. C'erano, e restano, il dolore della famiglia, il vuoto degli amici. Ora, è anche una sentenza di condanna in primo grado a confermarlo. I tre agenti della Polizia Municipale che il 5 agosto del 2015 presero Andrea Soldi con la forza per eseguire un Trattamento sanitario obbligatorio, così come lo psichiatra che lo ebbe in carico in ospedale, sono stati condannati a un anno e otto mesi per omicidio colposo dal tribunale di Torino. «La morte di mio fratello deve avere un senso, deve iniziare un percorso», ha detto in lacrime, riporta l'Ansa, Maria Cristina Soldi, la sorella del 45enne ucciso, dopo la lettura della sentenza: «Mi auguro che qualcuno si metta intorno un tavolo e ragioni sui Tso, perché le cose cambino. Mi auguro soprattutto che il cammino sia fatto per aiutare le famiglie». La condanna arriva nel mese dell'anniversario della Legge Basaglia, la legge che nel 1978 ha chiuso i manicomi in Italia e imposto che i “matti” vengano considerati persone, e siano quindi ascoltati. È quello che chiede Maria Cristina: «i malati vanno ascoltati», dice. Nel caso di Andrea, invece, di suo fratello, quel “gigante gentile” che affrontava da tempo la schizofrenia, su quella panchina d'agosto non è stato usato l'ascolto. Ma solo la forza. Ne è morto. Nelle mani dello Stato. «Noi non abbiamo mai pensato a giorni, mesi, anni. Abbiamo pensato sempre a una condanna morale per il fatto, per chi ha fatto e per chi non ha fatto quel 5 agosto 2015», ha continuato la sorella: «Per noi erano tutti da dover condannare moralmente allo stesso modo, per la sofferenza causata a mio fratello, che era cosciente e ha subito umiliazioni. Quello che è successo a mio fratello non deve succedere mai più a nessuno. Adesso è il momento che quei vigili vengano sospesi». Si tratta di Manuel Vair, Stefano Del Monaco ed Enri Botturi. Il loro avvocato, Stefano Castale, ha detto che faranno ricorso in appello. Dove, dice, «siamo certi che la valutazione degli atti processuali porterà all'assoluzione dei nostri assistiti». «È una sentenza nei confronti della quale nutriamo il massimo rispetto, così come abbiamo apprezzato come è stato condotto il dibattimento», ha dichiarato invece Anna Ronfani, avvocato dello psichiatra accusato di omicidio colposo e anche lui condannato in prima grado: «Però la consideriamo un segmento di questa vicenda processuale, un passaggio che apre la strada a ulteriori fasi di giudizio perché certamente è una sentenza che sarà appellata». L'Espresso - che ha raccolto nel tempo molte denunce di casi di Tso gestiti con ingiustificabile violenza - nell'agosto del 2015 aveva steso una cronistoria di quanto accaduto ad Andrea Soldi. Eccola.

Andrea Soldi, cronaca di una morte psichiatrica. Dal 5 agosto a oggi. Quello che è emerso sulla morte di Andrea Soldi, 45 anni. Strappato dalla panchina, dove stava seduto, per essere ricoverato in ospedale. Contro la sua volontà. Come prevede ogni Trattamento sanitario obbligatorio. Solo che lui ne è morto, scrive Francesca Sironi il 14 agosto 2015 su "L'Espresso".

5 agosto 2015 - la morte. Un nome. Andrea Soldi. Anni, 45. Peso: 115 chili. Ammazzato mentre era nelle mani dello Stato per un Tso, un Trattamento sanitario obbligatorio, previsto per i pazienti in escandescenza che stiano rischiando di diventare un pericolo per sé e per gli altri. Andrea, dicono i testimoni, era tranquillo in quel momento. Ma non prendeva le sue medicine da troppo tempo. «La procura di Torino ha aperto un'inchiesta sulla morte di Andrea Soldi deceduto all'ospedale Maria Vittoria dopo un Tso», scrive l'Ansa. Si inizia a spiegare che è stato il padre a chiedere l'intervento, preoccupato perché da mesi il figlio non seguiva le cure. L'Asl To2 precisa il giorno stesso in una nota «che il paziente è giunto già in arresto respiratorio presso il pronto soccorso, dove è stato immediatamente preso in carico dal rianimatore, che lo ha sottoposto a rianimazione cardiopolmonare prolungata, purtroppo invano. Per comprendere le cause, lo stesso ospedale ha richiesto l'autopsia, che verrà eseguita già domani».

6 agosto - le testimonianze. Non è solo, in piazza, Andrea Soldi, quando gli agenti della polizia municipale cercano di portarlo via. Ci sono persone al bar di fronte a lui, che da subito rilasciano testimonianze. Portano in procura cellulari dentro cui sono conservato foto che mostrerebbero quello che è successo. Loro raccontano di Andrea stretto al collo da un vigile, col viso cianotico. Ma soprattutto parlano, ripetono di quel braccio intorno al collo che gli avrebbe messo un agente, facendolo soffocare. Spiegano l'accaduto ai giornalisti ma non solo. Fanno la coda, per portare la loro testimonianza in tribunale, al pm Raffaele Guariniello che ha preso in carico l'indagine. Dalla proprietaria cinese del bar all'angolo a un ex carabiniere in pensione, dai rumeni che lì passavano del tempo ai vicini, tutti vanno a raccontare quello che sanno del "gigante buono" ucciso da un Tso. Anche la polizia municipale manda una sua relazione in procura, dalla quale, dice l'amministrazione comunale: «Non emergono fatti di particolare rilevanza nel comportamento degli operatori». Iniziano così a farsi largo due versioni discordanti. Gli operatori coinvolti (gli agenti di polizia, e lo psichiatra arrivato sul posto) e alcuni testimoni presenti.

7 AGOSTO - Il dolore. «Mio fratello era malato. Soffriva di schizofrenia sin dal 1990. Ma era un buono, non aveva mai fatto del male a nessuno. Era già stato sottoposto a trattamenti sanitari e non aveva mai dato problemi. Non doveva essere ammanettato. Non doveva essere preso per il collo. Non doveva finire così». Parla la sorella di Andrea, Cristina Soldi: «Non accuso nessuno», dice: «Chiedo solo che venga fatta chiarezza. Che non venga insabbiato nulla». Sulla panchina dove Andrea stava seduto quel giorno si affollano cartoline, fiori, foto, messaggi di commozione. «Da quanto mi è parso di capire», interviene l'avvocato di famiglia, Giovanni Maria Soldi: «ci sono versioni discordanti. Ma io ho fiducia in Guariniello». Il sindaco di Torino, Piero Fassino, lo chiama per esprimere cordoglio e vicinanza a nome della città: «Sin da subito», scrive il municipio in una nota: «le autorità comunali, dopo aver segnalato per prime l'episodio alla magistratura, si sono messe a disposizione degli inquirenti fornendo la più completa e fattiva collaborazione». La polizia municipale avrebbe avviato un'indagine interna e i tre vigili sarebbero stati trasferiti "in via prudenziale" ad altri incarichi.

8 AGOSTO - Le indagini. I tre vigili urbani e lo psichiatra che ha eseguito il Tso vengono iscritti nel registro degli indagati. Vengono interrogati i testimoni. Molti parlano di «maniere troppo forti». Si aspetta l'autopsia.

9 AGOSTO - Lo psichiatra. «Sono addolorato, ma non ho nessuna colpa», dice lo psichiatra indagato attraverso il suo avvocato, Anna Ronfani, che specifica: «Dal punto di vista clinico, il mio assistito è convinto di avere fatto tutto quanto necessario e opportuno. Ha seguito il protocollo alla lettera e ha grandissima amarezza per un risultato totalmente fuori dalla sua previsione e dalla sua volontà, anche perché era un paziente che conosceva da tempo».

10 AGOSTO - L'autopsia. Se ci si aspettava risposte dall'autopsia, la risposta non c'è. Almeno, non è univoca. L'autopsia apre subito spazio a ulteriori interpretazioni. Secondo l'esame autoptico infatti Andrea non sarebbe stato strangolato. Niente braccio intorno al collo, come raccontano i testimoni? I medici sembrano escludere "l'asfissia meccanica". Ma. Ma evidenziano «segni di compressione toracica». Che secondo i consulenti della famiglia Soldi sarebbero legati alla morte dell'uomo. Mentre per l'avvocato dello psichiatra «è il momento di astenersi da qualsiasi giudizio». Andrea sarebbe comunque arrivato in ospedale in arresto cardiaco e sarebbe morto poco dopo.

11 AGOSTO - l'ambulanza. Emerge un altro pezzetto di verità. Una verità forse ancora più preoccupante di quanto si intuiva. Andrea sarebbe stato bloccato. Ammanettato. E caricato in ambulanza a faccia in giù. A faccia in giù. Così che agli operatori sanitari finisse per essere impossibile rianimarlo. Lasciarlo respirare. Con quel collo stretto troppo a lungo in precedenza che avrebbe ridotto la circolazione del sangue, il respiro, la coscienza. Il medico legale, Valter Declame, parla infatti di «choc da compressione latero-laterale al collo». Un tipo di presa che secondo Declame non può durare più di 15 secondi, altrimenti causa quanto sopra. I consulenti dello psichiatra ovviamente contestano "aspramente" questa versione: «La causa del decesso non può essere quella», dicono: «Se strangoli qualcuno, la morte è immediata. Altro che venti o trenta minuti». L'11 agosto è anche il giorno della camera ardente. Della sorella Maria Cristina che chiede che le «cose cambino. Il Tso va eseguito solo quando non c'è altro da fare. Le persone devono essere preparate. E le famiglie dei malati non possono essere lasciate sole. Andrea doveva fare un'iniezione ogni mese, ma era da sette mesi che non le faceva». Lei è posata. Seria. Cerca già di dare a quel lutto così doloroso - la perdita del fratello - un significato e un orizzonte per gli altri. Ma non tutti hanno la stessa sensibilità. Il giorno stesso infatti arriva la polemica del sindacato di polizia Coisp: «Prima ci chiamano, poi ci lapidano», è quel che riesce a scrivere: «Gli operatori eseguono gli ordini e poi vengono criminalizzati».

12 AGOSTO - Il funerale. «Nel nostro cuore c'è tantissimo dolore, ma non c'è rancore», dice don Primo Soldi, zio della vittima, al suo funerale nella chiesa delle Stimmate di San Francesco d'Assisi. Fra i presenti il vicesindaco e il comandante della polizia municipale. Ci sono anche i dirigenti di una squadra di calcio cittadina, il Victoria Ivest, dove Andrea, prima della malattia, allenava nelle giovanili.

13 AGOSTO - la telefonata. Emerge un altro pezzo di verità. Una telefonata fra l'equipaggio dell'ambulanza e la centrale del 118. Uno degli elementi raccolti dai carabinieri del Nas che indagano sulla morte di Andrea Soldi. In cui il soccorritore avrebbe detto che Andrea «è stato preso al collo» e «un po' soffocato». Parlerebbe poi di un «intervento un po’ invasivo» e dell’ordine ricevuto di caricare Andrea ammanettato dietro la schiena e «a faccia in giù».

MORIRE PER UN TSO.

La rivoluzione Basaglia, quando l'Italia diventò civile. Quarant’anni fa la legge 180 che cancellò i manicomi.  Ma molto resta ancora da fare, scrive Luigi Manconi il 26 aprile 2018 su "L'Espresso". Prima, bisogna conoscere il prima. In caso contrario, non si può discutere seriamente del dopo: ovvero i quattro decenni trascorsi da quando, nel 1978, il Parlamento approvò la legge 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. E il prima era fatto di quella condizione di spoliazione e annichilimento che - come scrisse Primo Levi a proposito di altre e più lontane situazioni - rende l’individuo «materia umana». Lo riduce, cioè, alla sua sofferenza fisica e alla sua corporeità dolente. Così erano gli esseri umani - uomini e donne di tutte le età - rinchiusi nei manicomi e nei loro dispositivi di prigionia: sbarre, camicie di forza, cinghie e legacci, letti di contenzione. E, ancora, sporcizia, escrementi, bave e sudori. Se qualcuno non ricorda, o non vuole ricordare, ci sono le foto di Gianni Berengo Gardin e di Carla Cerati e di Raymond Depardon, il documentario “Matti da slegare” di Bellocchio, Agosti, Petraglia e Rulli, e i reperti dell’archeologia psichiatrico-giudiziaria, tutt’ora rintracciabili in molte città italiane. Il manicomio come il carcere sono stati, nelle società democratiche, i principali luoghi non solo della “cosizzazione” delle persone e del loro spossessamento, ma anche quelli della deprivazione sensoriale e psichica. In questo scenario, la “legge Basaglia” ha rappresentato una fondamentale riforma, pressoché unica nel mondo, che ha promosso una nuova concezione della salute e della dignità della persona malata di mente. Nello stesso anno, altre due leggi, quella sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e quella istitutiva del servizio sanitario nazionale che ha affermato il diritto universale alla salute, riconoscono nuovi spazi di autodeterminazione della persona. Ne discende una concezione innovativa della salute, quale stato di benessere fisico, mentale e sociale, che si raggiunge quando gli individui sviluppano e valorizzano le proprie risorse (molte o poche o residuali che siano) e la propria capacità di indipendenza. Come ha scritto Stefano Rodotà, una concezione della salute che si fonda sul «diritto che più caratterizza il rapporto tra libertà e dignità». Sono riforme, quelle del 1978, che nascono dalla mobilitazione culturale, professionale e sociale, e che vedono coinvolti medici, infermieri, associazioni di familiari e intellettuali. Da quella elaborazione non discende affatto che «la malattia mentale non esiste», frase mai pronunciata da Franco Basaglia (come conferma lo psichiatra Peppe Dell’Acqua) e che tanti - in buona o cattiva fede - gli hanno voluto attribuire. Si è tentato, così, di ridurre a grossolana caricatura un pensiero che era e resta estremamente sofisticato. E, come accade per tutti i processi di emancipazione, anche questo ha comportato fatica e dolore, arretramenti e sconfitte. E la capacità innovativa di quella legge ha incontrato sulla sua strada grandi ostacoli. Solo nel 1994 si è definito il piano che delineava le strutture da attivare a livello nazionale; e che dava l’avvio ad una riorganizzazione sistematica dei servizi preposti all’assistenza psichiatrica. Chiudere i manicomi, realizzare una rete di servizi pubblici ispirati alla psichiatria di comunità, integrati nel sistema del Servizio Sanitario Nazionale non è stato facile e non si tratta, certo, di un percorso compiuto. Tutt’altro. Sono ancora troppe le disparità territoriali e in tante realtà sono state aperte case di cura che ricordano gli ospedali psichiatrici (l’80 per cento contano più di 30 posti e non sono inserite in contesti urbani), dove, troppo spesso, i farmaci sono l’unica forma di trattamento terapeutico della malattia mentale. Infine, una questione cruciale e particolarmente dolorosa, quella relativa al difficile percorso delle famiglie e delle associazioni per uscire dall’isolamento e costruire relazioni. Famiglie e associazioni che, consapevolmente, chiedono sostegno e cure, trovandosi spesso senza conforto e senza assistenza. E ciò a causa dei ritardi nella costruzione di servizi territoriali adeguati, nell’attuazione di progetti di supporto al recupero e all’autonomia del paziente e in conseguenza dei tagli apportati al servizio sanitario nazionale e al sistema di welfare. E, poi, fortissime resistenze al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e una vischiosa persistenza della coercizione fisica (letto di contenzione) nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Piuttosto sarebbe necessario, e quanto mai urgente, investire sulla ricerca e sulla sperimentazione nel campo della prevenzione, negli ambienti di vita e di lavoro, affrontando le cause che minacciano l’equilibrio e la salute mentale. Ma buone pratiche e situazioni di eccellenza si sono affermate, a dimostrazione che altre forme di cura della malattia mentale e di presa in carico delle persone che ne soffrono sono possibili. Tutto ciò deve molto, moltissimo all’attività e al pensiero di Franco Basaglia. Un pensiero tanto radicale quanto fondato scientificamente, e clinicamente verificato. Capace, cioè, di andare alle radici psichiche della malattia e a quelle epistemologiche della sua cura. Per questo motivo, anche un’altra falsa attribuzione, a ben vedere, non gli è affatto estranea. Quella frase («Da vicino nessuno è normale») è stata scritta in realtà da Caetano Veloso ed è postuma alla morte di Basaglia, avvenuta nel 1980. Ma per la sua potenza poetica potrebbe pienamente appartenergli.  

Un diario dalla sofferenza. La malattia mentale non smorza la percezione del dolore e non annulla l’inclinazione allo studio, alla ricerca, alla lettura di testi anche complessi. Lo racconta Alberto Fragomeni nel suo libro "Dettagli inutili". Un lucido resoconto di esperienze possibili grazie riforma della psichiatria italiana. Per superare i pregiudizi, scrive Eugenio Borgna il 25 ottobre 2017 su "L'Espresso". La legge 180 ha radicalmente cambiata, nel 1978, la ragione d’essere pratica, e anche teorica, della psichiatria italiana, cancellandone le intollerabili modalità di realizzazione, e rendendola la migliore delle psichiatrie possibili; ma ancora oggi non sempre, e non in ogni regione, le modalità concrete di fare psichiatria corrispondono ai grandi ideali scientifici, etici e umani, che animano la legge di riforma, e questo in particolare nel contesto dei servizi ospedalieri di psichiatria. Ci sono servizi nei quali le porte sono chiuse, e nei quali la dilagante somministrazione psicofarmacologica non si accompagna a strategie psicoterapeutiche e socioterapeutiche; e ci sono servizi nei quali la contenzione, questa violenza che ogni psichiatria degna di questo nome rifiuta, continua a essere attuata. Sono nondimeno comportamenti, questi, che non mancano, e sono forse frequenti, anche in quelle strutture che si possono chiamare, almeno indiziariamente, comunitarie. Come si correlano con queste mie considerazioni generali le esperienze di Alberto Fragomeni, l’autore di “Dettagli inutili”, che è il doloroso splendido diario della sua sofferenza psichica rivissuta nel corso degli anni con coraggio, e con passione? Sono esperienze vissute in un dialogo senza fine con il dolore, con la depressione, con il male di vivere, con il male oscuro, con la maniacalità, e con una cura non sempre capace di ascolto e di comprensione; e sono esperienze descritte con un linguaggio di una bellezza e di una ricchezza emozionale, di una chiarezza e di una leggerezza, semplicemente straordinarie. Sono esperienze che noi leggiamo con stupore nel cuore: affascinati dall’intensità e dalla profondità delle riflessioni, e delle risonanze interiori, e dalla resistenza ferma e ardente alle influenze dolorose della malattia, e delle modalità di comportamento talora fredde e impazienti da parte di medici e di infermieri. Sono esperienze che testimoniano della sensibilità e della dimensione umana della sofferenza, anche quando questa è acuta e profonda, straziante talora e alienante, e che dimostrano la grande radicale importanza della relazione, dell’essere in dialogo, nell’articolazione della cura in psichiatria. Sono esperienze che solo chi ne abbia a soffrire conosce fino in fondo, e riesce a descrivere nella sua palpitante verità psicologica e umana; consentendo alla psichiatria di avvicinarsi al cuore della sofferenza: altrimenti irraggiungibile. Sono esperienze espresse con un linguaggio di grande chiarezza, e di non comune pregnanza emozionale, che consente ad Alberto Fragomeni di farci conoscere i suoi pensieri e le sue emozioni, i suoi modi di rivivere la sofferenza e le sue doti di intuizione e di riflessione, la sua capacità di de-limitare l’influenza della malattia e di mantenere in ogni momento la coscienza acuta del suo malessere. La malattia, le accensioni brucianti della malattia, non spengono mai la percezione acuta del senso della sofferenza, e non lacerano, e nemmeno incrinano, la inclinazione allo studio e alla ricerca, alla lettura e alla rilettura di grandi e complessi testi di filosofia. Leggiamo stupefatti che egli si avvicina a libri fra i più complessi della filosofia moderna, come sono quelli di Karl Jaspers e di Martin Heidegger, con passione e con entusiasmo; e questo nonostante che da molti anni ormai la sua vita si svolga in un appartamento protetto: così è chiamata la struttura comunitaria in cui vive. La storia della sua vita si svolge senza che mai si manifestino comportamenti incrinati da aggressività, e invece sempre sigillati da una rara gentilezza. Nemmeno mai vengono meno la comprensione e l’accoglienza del modo di vivere delle pazienti e dei pazienti con cui Alberto Fragomeni si incontra. Sono esperienze le sue, che solo la legge di riforma della psichiatria italiana ha reso possibili nel contesto di quella che è stata la chiusura dei manicomi nei quali, come si sa, la dignità della sofferenza psichica veniva radicalmente negata, e lacerata. Questo libro, sulla scia di straordinarie capacità espressive, testimonia della ricchezza umana e della gentilezza d’animo che si accompagnano alla malattia in psichiatria, e della rivoluzione alla quale è giunta in essa la cura non più irrigidita, e pietrificata, nei soli binari della farmacoterapia, ma allargata a modelli psicoterapeutici e socioterapeutici. Sono cose che tutti conosciamo, e cerchiamo di fare, ma che Alberto Fragomeni dimostra essere necessarie in questo bellissimo libro, che tutti dovrebbero leggere, non solo psichiatri e psicologi, e che ha in sé un grande valore formativo e, anche, educativo, perché ci confronta con l’aspetto interiore della malattia e della sofferenza in psichiatria, e ci aiuta a non perdere la speranza nemmeno quando non si possa giungere alla completa risoluzione della condizione di malattia. Un libro che si comincia a leggere, e non si riesce a interrompere: affascinati dalla sua originalità, e dalla sua umanità, dalla sua tenerezza, e dalla sua sensibilità. Un libro che ci invita a riguardare e a superare il groviglio dei pregiudizi che non consentono ancora oggi di riconoscere la dimensione psicologica e umana della sofferenza psichica, della malattia in psichiatria, ricondotta abitualmente alla sua reificazione, alla sua riduzione a esperienza senza significato, e senza valore. Sono pochi i libri che, come questo, possano essere utilmente letti e illustrati nelle scuole, anche nella scuola primaria, al fine di ridare alla malattia in psichiatria, e alla grande sofferenza che l’accompagna, la loro irrevocabile dignità, e la loro nobiltà. Seguendo modelli formativi, come questo, ci si potrebbe attendere che, sulla scia della straordinaria rivoluzione che ha portato in Italia alla restaurazione della libertà nel deserto agghiacciante dei manicomi, la follia sia considerata come una dimensione della vita alla quale ciascuno di noi possa andare incontro. Il grande respiro etico del pensiero e dell’azione di Franco Basaglia non si limiterebbe allora alla realizzazione di una psichiatria umana e gentile, ma entrerebbe a fare parte della vita delle giovani generazioni, al di là di una opinione pubblica indifferente, e non di rado ostile, alla accoglienza di ogni forma di sofferenza psichica.

Malattia mentale, l'esperienza di Trieste e Gorizia dove i 'matti' sono persone. E' l'isola che c'è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata», scrive Marco Pacini il 26 aprile 2018 su "L'Espresso". Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia (1969). Foto di Berengo GardinSe uno volesse “vedere” la rivoluzione di Franco Basaglia a 40 anni dalla legge che porta il suo nome potrebbe salire fin qui, sulla schiena di Trieste, zona Ponziana-San Giacomo. Zona disagio, lontana più di quanto dica una mappa dal salotto dell’impero che l’orgoglio patrio ribattezzò piazza Unità d’Italia, dal lungomare di Barcola, da quello che resta dei caffè letterari, dalla libreria di Saba, dalle vie della belle époque in abito asburgico. In via del Molino a vento 123 c’è una palazzina di mattoni rossi di inizio ’900, ristrutturata nel 2008, dove il viavai dei mattiscandisce le ore che non si contano più. Non serve: le porte sono aperte giorno e notte. Una sala accoglienza, un tavolo con le tazza da tè, niente liste d’attesa. Un giardino dove si fermano a parlare e a fumare pazienti, infermieri, assistenti sociali. Al piano di sopra sei camere con bagno per i “ricoveri”, al momento vuote. Sono tutti fuori i matti. Valentina, una giovane donna con «disturbi seri», occupava uno di quei letti fino a qualche giorno fa. Poi se ne è andata e nessuno l’ha trattenuta. Adesso sta parlando con lo psichiatra che dirige il centro, Matteo Impagnatiello. «Vuole stare ancora un po’ qui, mi ha chiesto di tornare, il posto c’è. Le persone qui ci devono stare volontariamente», dice il medico dopo averla congedata.

Le persone. Non è frequente sentir pronunciare la parola pazienti, men che meno malati, dai medici e dagli operatori della salute mentale, a Trieste. E ti sembra un eccesso di politicamente corretto finché, dopo qualche ora trascorsa tra le stanze dei Centri di salute mentale (oltre a questo ci sono altri tre presidi territoriali a Trieste) o lungo le vie del parco di San Giovanni, tra le palazzine di fine 800 che costituivano la cittadella-manicomio chiusa da Basaglia, ti accorgi che è spesso difficile riuscire riconoscere in un crocchio di persone i matti dai normali. All’ultimo piano della palazzina rossa c’è un’ampia mansarda con stanze comuni usate anche dalle associazioni del quartiere. «Ci sono venuti anche i bambini del rione per qualche attività», racconta lo psicologo del “Csm distretto 2” Oscar Dionis, che si occupa soprattutto di disagio degli adolescenti e tiene i contatti con la neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Burlo-Garofalo, poco distante. «È attraverso questi luoghi - aggiunge Impagnatiello - queste stanze usate da tutti, che si rompe lo stigma». Come? La parola è “negoziazione”, spiega lo psichiatra. Con i pazienti in primo luogo, «ma anche con la gente del quartiere, i negozianti, i residenti del complesso di edilizia popolare qui di fronte. Tutti quelli che vivono attorno a questo luogo». Dal piano di sotto sale la voce di una sofferenza. Forte, rivendicativa. E nei volti di chi va e viene la sofferenza la leggi anche senza sentirla. I matti non scompaiono. Vivono. Quattro medici, due psicologi, diciotto infermieri, un assistente sociale, otto operatori. Le persone che bussano al Csm in cerca di aiuto o solo di una parola, sono 120/150 al giorno, il 7 per cento stranieri. I numeri di via del Molino a vento sono analoghi a quelli di quasi tutti i Csm del Friuli Venezia Giulia, dove la “180”, con qualche resistenza residua e non senza difficoltà nei quattro decenni trascorsi dalla sua approvazione, ha dimostrato che tutto quello che era stato pensato nella lunga gestazione della rivoluzione è “praticamente vero”, secondo l’espressione forse più cara (e più ripetuta) a Franco Basaglia. Prima di dirigerci verso l’ex manicomio, dove la psichiatria triestina ha il suo quartier generale, è necessario cercare chi naviga in direzione contraria, o almeno nutre dei dubbi sul “praticamente vero”. Un buon candidato potrebbe essere il sindaco Roberto Dipiazza, che sta armando i vigili urbani con le pistole e guida una giunta con tratti marcatamente di destra securitaria. Il sindaco di una città che va giustamente fiera della sua regata velica (tanto che arrivando dalla costiera o dal Carso ti accoglie il cartello “Città della Barcolana”, non di Svevo, Saba... o Basaglia), ma che del quarantesimo anniversario della rivoluzione basagliana, dell’«unica vera riforma fatta in Italia» (Norberto Bobbio, 1985), si è completamente dimenticata. «Ah sì... Già, quarant’anni... quando?», sono infatti le prime parole di Dipiazza. Il prossimo 13 maggio, sindaco...Ma se si cerca in Dipiazza un nemico della “180”, pronto a sommergerti con una serie di numeri che traducono in pericolosità tutta quella libertà dei matti, no, non lo si trova. E non solo perché quei numeri non esistono. Soprattutto perché qui la rivoluzione è patrimonio largamente condiviso, quasi intoccabile. «Sì, è vero, all’inizio qualche problema c’è stato... ricordo quel ragazzo uscito dal manicomio che uccise i genitori tanto tempo fa. Ma la legge Basaglia è stata una conquista di civiltà da cui non si può tornare indietro». Nelle parole del sindaco di Trieste c’è anche l’impronta indelebile di ricordi personali. «Da ragazzino abitavo in via Verga, che confina con l’ex manicomio. Con alcuni amici avevamo fatto un buco dove c’era la rete. Volevamo andare oltre quel muro che separava il parco dalla città. Siamo entrati più volte, sbirciavamo nascosti da una siepe. E quello che vedevamo e sentivamo era la fine del mondo. Persone che urlavano, che venivano lavate tutte insieme dentro le gabbie...». Già, il manicomio. «Forse non si può dire lager, ma insomma...». Nel gennaio del 1977, in uno dei vecchi edifici di questo manicomio, città nella città che sale sulle pendici del Carso, Franco Basaglia annunciò la fine del percorso iniziato a Gorizia nel ’61, proseguito a Parma, e finalmente realizzato a Trieste dopo quei due tentativi naufragati sui pregiudizi, sulla psichiatria tradizionale, farmacologica e contenitiva, ancorata al dogma messo nero su bianco dalla legge del 1904: il matto è pericoloso. «Chiuderemo il manicomio di Trieste entro un anno», scandì lo psichiatra veneziano davanti ai giornalisti e ai politici increduli. Lo smantellamento del manicomio iniziò in realtà nel 1980. Ma un anno dopo lo strappo di Basaglia fu varata la “sua” legge, anche se negli archivi parlamentari porta un altro nome. Il relatore era Bruno Orsini, democristiano. Come il giovane presidente della Provincia di Trieste di allora, Michele Zanetti. Fu lui ad aprire le porte di Trieste a Franco Basaglia, l’eretico, il radicale, il “filosofo”, per la maggior parte dei suoi colleghi. Ci ha scritto un libro Zanetti. Ne sta scrivendo un altro, autobiografico, «perché è la cosa più importante che ho fatto nella mia vita». Nessuna enfasi però. Oggi, la risposta alla domanda “perché lo fece?” suona più burocratica, che orgogliosa o compiaciuta. «Perché Basaglia era il migliore, abbiamo fatto un concorso e abbiamo preso il migliore. Tutto qui». In consiglio provinciale il Pci votò contro l’arrivo del “filosofo” dei matti. Poi capì, «e dall’opposizione votava tutte le delibere che adottavamo per favorire il lavoro di Basaglia», ricorda Zanetti. Eccolo il parco di San Giovanni, l’ex manicomio. Ci si arriva dall’alto imboccando via Edoardo Weiss, lo psicoanalista ebreo triestino che portò il pensiero di Freud in Italia e sfuggì all’Olocausto. Su uno degli edifici del vecchio manicomio la scritta è ancora leggibile: “La libertà è terapeutica”, il più basagliano degli slogan, coniato in realtà da Ugo Guarino. Lungo i vialetti vanno e vengono persone indaffarate, furgoncini carichi di piante e attrezzi da giardinaggio. Si sta preparando “Horti tergestini”, la rassegna di piante, fiori e cose naturali che ogni anno richiama qui migliaia di persone. E migliaia, in questi quarant’anni, sono stati anche gli psichiatri, gli operatori, i politici, venuti da tutto il mondo a studiare il modello Trieste, l’utopia realizzata. Dell’ultima delegazione, oltre agli psichiatri e agli operatori del mental health, facevano parte anche un giudice e uno sceriffo. Sono venuti da Los Angeles. Poi il Senato californiano ha incontrato via Skype il direttore del Dipartimento di salute mentale, Roberto Mezzina, e la sua équipe. E il progetto sta partendo: esportare Trieste in California. «Nella delegazione c’era anche Allen Frances, padre del Dsm 4 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale ndr) e uno dei padri della psichiatria biologica. Insomma non certo un sostenitore del nostro lavoro... Ha avuto una folgorazione», racconta Mezzina, «e una volta tornato in California ha scritto sull’Huffington post che “se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore”». Alessandro Norbedo e Roberto Colapietro, coordinatore e infermiere psichiatrico, entrano nell’ufficio di Mezzina. Sono da poco tornati dall’Honduras, che ha bussato a Trieste per cercare un aiuto nella gestione dei moltissimi detenuti con disturbi mentali in uno dei paesi più violenti del mondo. «Sempre di più... I contatti con chi viene qui per capire come lavoriamo e chi ci chiede di mandare operatori nelle loro strutture si sono quadruplicati negli ultimi 15 anni», spiega il direttore del Dipartimento, «ormai abbiamo rapporti con 40 paesi». Nella palazzina della direzione, di fronte alla quale campeggia la scultura di Marco Cavallo, icona della rivoluzione basagliana, si discute, si preparano gli incontri di “Articolo 32”, il gruppo di protagonismo che con quel nome sottolinea ancora una volta il legame strettissimo della rivoluzione con la Costituzione. Izabel Marin, brasiliana arrivata a Trieste sull’onda dell’eredità che Basaglia ha lasciato in quel paese, Pietro Degrassi e Adriano Germek, spiegano l’attività di “Articolo 32” di cui sono animatori. Adriano è il matto dei tre: a San Giovanni non c’è un gruppo, un’associazione, una cooperativa, che non veda protagoniste le persone, al di là dello steccato salute/malattia. Forse perché “impazzire si può”, come si intitola il ciclo di convegni che da sei anni il gruppo organizza. Oltre al corso di “tecniche di supporto tra i Pari”. Dove i Pari sì, sono i pazienti. Anche con disturbi gravi. Come la storica Silvia Bon, che il suo contributo di supporto dapari lo offre da tempo anche al di fuori di San Giovanni. Ti guarda e ti anticipa la professoressa. Come se leggesse nello sguardo la curiosità del visitatore “normale”, che si aggira nell’isola che non c’era e ora c’è, “praticamente vera”. «Sento le voci...», dice la storica con il suo ultimo libro sull’esodo degli istriani e dalmati in mano. Lo dice guardandoti dritto negli occhi. «Schizofrenia... Sa, parlare di schizofrenia non è mai stato facile. Lo era molto meno negli anni Ottanta, quando è iniziata questa lunga esperienza di sofferenza e passavo da diversi approcci terapeutici, basati sui farmaci. Poi nel ’92 sono stata presa in carico dal Csm di Barcola, ho cominciato a sentirmi meglio, una persona. Non si tratta solo di sintomi, quelli si possono ripetere, e si ripetono. Prendo ancora i farmaci, ma sono cambiata. Ho visto persone come me travolte dalla sofferenza riaprirsi al sorriso, ecco. Faccio parte del gruppo “Uditori di voci”... parlare di schizofrenia non è facile, ma quando lo puoi condividere lo è un po’ di più». La «presa in carico» di cui parla Silvia Bon è il primo passo della 180 “applicata” che con l’aiuto di Roberto Mezzina si può riassumere così: 1) ingresso a bassa soglia: c’è sempre un Csm non lontano da casa, facile da contattare, aperto 24 ore sue 24, in grado di fornire una risposta rapida; 2) si parte dalla persona più che dalla malattia, viene attivato un processo personalizzato che si può articolare con altre risorse, non solo chimiche, un progetto di vita; 3) il progetto ha anche un contenuto economico, coinvolgendo cooperative per esempio, e riguarda la casa, il lavoro, la socialità. Non solo clinica. Effetto collaterale: il Fvg spende meno della media nazionale per la salute mentale in rapporto alla spesa sanitaria complessiva. «Se tu non spendi per il privato e la residenzialità psichiatrica passiva questo è il risultato», conclude il direttore del dipartimento sfogliando gli ultimi bilanci. Ma cosa è rimasto del vecchio manicomio? «Nulla. Per le emergenze ci sono i reparti di diagnosi e cura psichiatrica all’interno degli ospedali. Da noi ci sono 6 posti letto, per lo più vuoti», risponde Mezzina. E di questo manicomio? Sorridono gli psichiatri e gli operatori del basaglismo realizzato. Qui il manicomio era un lontano ricordo anche quando alcune casette di San Giovanni erano abitate dagli ultimi ex internati che non avevano ancora trovato una sistemazione fuori. Gli ultimi tre hanno lasciato la casetta due anni fa e ora abitano al piano terra di una palazzina a Opicina, il pezzo di Trieste a maggioranza slovena che sta sull’altopiano. Uno dei tre è l’ultima lobotomizzata in Italia ancora in vita. Testimone quasi muta di un orrore non lontano che si chiamava psichiatria. Nel breve viaggio a ritroso alla ricerca delle radici di una rivoluzione nel suo quarantennale, l’ultima tappa è Gorizia, dove tutto iniziò nel 1961 attirando l’attenzione della cultura europea che “covava” il ’68. E si chiuse drammaticamente proprio nel ’68 con l’«incidente»: il paziente in permesso giornaliero che tornò a casa e uccise la moglie. Se il Comune di Trieste si è distratto sull’anniversario, a Gorizia non si trova nemmeno un cartello che indichi la strada per il “Parco Basaglia”, l’area verde tra l’attuale ospedale e l’ex manicomio, dove nel ’61 lo psichiatra veneziano trovò 600 pazienti che vivevano come in un lager. Compresi gli alcolisti e gli epilettici. Qui non sembra esserci la stessa condivisione, lo stesso orgoglio per l’utopia realizzata che anima la quasi totalità degli operatori triestini. O almeno non è questo il primo impatto varcando la soglia del Dsm nel cuore dell’ex manicomio, a qualche metro dal confine con la Slovenia, il “muretto di Gorizia” ai tempi di Basaglia. Marco Cernic è l’infermiere psichiatrico con maggiore anzianità. «Sono qui dal ’77». Basaglia? «Troppo Basaglia, non abbiamo sentito parlare d’altro che di Basaglia in tutti questi anni, secondo me c’è molta politica», scandisce nell’atrio, accanto alla figura in cartone a grandezza quasi naturale dello psichiatra della “180”. Ma dev’essere un’eccezione, perché il funzionamento della psichiatria goriziana diretta da Marco Bertoli, la sua filosofia, non hanno nulla di diverso da quella triestina. Molto da quella di gran parte del resto d’Italia, dove la contenzione per esempio, come ricorda Roberto Mezzina «è ancora praticata in modo massiccio». E come conferma Peppe Dell’Acqua, che ha preceduto Mezzina nella direzione della psichiatria triestina ed è una figura di riferimento non solo nazionale della rivoluzione. Una rivoluzione ancora incompiuta al di fuori dell’Isola che c’è. «Perché le Regioni hanno proceduto con modalità e velocità diverse», spiega Dell’Acqua. «Non esiste omogeneità, purtroppo. Ci sono aree in cui sono nate esperienze straordinarie grazie ad associazioni e coop sociali. Ma in molte Regioni la psichiatria non si è trasformata. Dalla Lombardia alla Sicilia, le forme organizzative sono spesso tali per cui le persone non accedono a tutto ciò che la legge consente. Negli ospedali ci sono ancora reparti di Diagnosi e cura a porte chiuse, dove si applica la contenzione. Solo in due o tre casi su dieci la contenzione non si fa più». Ma non è solo una questione di modello organizzativo; si tratta piuttosto dell’assunzione di un pensiero, questo manca. E non è poco, «visto che quel pensiero, quel modello teorico», conclude Dell’Acqua, «non è altro che l’ingresso nel diritto di tutti i cittadini italiani». Questo piccolo, parziale, viaggio nella “180 realizzata” non ha una fine. Ma ha avuto un inizio prima di salire in via del Molino a vento. In un caffè-libreria di Trieste dietro Ponterosso, il rettangolo di mare che si infila in città. Franco Rotelli arrivò a Trieste da Parma insieme a Basaglia, nel 1971. Ne raccolse l’eredità nel 1979, quando il padre della “180” fu chiamato a Roma, un anno prima della morte. Il resto della storia è noto: il basaglismo realizzato a Trieste è gran parte opera sua, soprattutto nei primi, difficili, anni della riforma. «Eravamo una piccola minoranza all’interno di un clima culturale particolare», ricorda Rotelli sorseggiando un’acqua tonica. Ma anche in Europa si respirava lo stesso clima, soprattutto in Francia... Deleuze-Guattari, Foucault, Sartre... «Già, e in Francia ci sono ancora 30-40 mila persone nei manicomi...». Appunto: perché in Italia no? «Per la peculiarità del pensiero basagliano: azione e determinazione». E lo chiamavano “il filosofo”... «Era un uomo di pensiero. Ma con la forza di immaginare il cambiamento delle istituzioni. È stata una rivoluzione politica, non solo intellettuale, culturale. Nel suo testo più noto, l’“Istituzione negata”, Basaglia mette al centro il funzionamento delle istituzioni». Avvertivate i potenziali pericoli? «Ne eravamo consapevoli. Ma ridurre la pericolosità nei confronti dei matti riduceva la loro, riduceva la violenza complessiva». Rotelli torna quasi ogni giorno a San Giovanni, nell’ex manicomio che ha chiuso. Ci andrà anche oggi. Sorseggia, si ferma. C’è un’ultima cosa che vuole dire, fare. «Un’inchiesta, vorrei fare un’inchiesta. Andare in giro e chiedere alla gente: capisco che la “180” sia considerata una delle più grandi conquiste culturali del ’900 per noi psichiatri, ma per voi...?». Forse perché “impazzire si può”, azzardiamo. «Sì, forse perché il rischio della sofferenza, di diventare matti, c’è in tutti noi. E vorremmo restare persone, nella sofferenza».

Disagio mentale, se scrivere diventa la cura. Il racconto di un uomo da molti anni in cura, che affronta il tabù della malattia psichiatrica e il suo intrecciarsi con i piccoli aspetti della vita quotidiana. È "dettagli inutili" di Alberto Fragomeni, scrive Sabina Minardi il 25 ottobre 2017 su "L'Espresso".  I farmaci. Il desiderio di una sigaretta. Le relazioni timide con i medici e con gli altri pazienti. I piccoli gesti. Sembrano dettagli inutili: sono la quotidianità. Frazionata, vivisezionata, nello sforzo di aggiungere un tassello in più nel cammino verso la normalità. Si intitola proprio “Dettagli inutili” (pp. 148, euro 12) il libro che Alberto Fragomeni, da una decina d’anni in cura per disturbi mentali a Bergamo, ha scritto e che le Edizioni Alphabeta Verlag hanno pubblicato nella Collana “180”: un archivio, con 17 titoli in catalogo, del mondo della salute mentale. Con la prefazione di Massimo Cirri, l’autore racconta i disturbi psichiatrici con ironia, distacco e con un’intelligenza disarmante. Confermando ciò che la medicina sa: che la scrittura è via di guarigione. Terapia per conoscere se stessi, per esplorare i propri limiti, e per averne cura, persino. Parola per dissacrare, per esaltare, per informare. E per liberare da molti tabù.

 “La libertà sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le morti invisibili". "Potrebbe succedere a chiunque nel nostro Paese: attraversi in macchina l'isola pedonale, contravvenendo al codice della strada, e invece di essere multato vieni inseguito e arrestato da vigili urbani, carabinieri e guardia costiera sulla spiaggia. Poi, con il TSO, sei rinchiuso nel reparto di psichiatria dell'ospedale della tua zona, sedato, legato, non ti viene dato né da bere, né da mangiare, ai familiari è impedito di visitarti"... Così scrive Giuseppe Galzerano nel suo intervento in questo libro. Galzerano descrive l'esperienza di un suo amico, Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto dopo più di quattro giorni di letto di contenzione cui era stato costretto per un TSO. Il processo contro i responsabili della "reclusione" è in corso.

La libertà sospesa. TSO, psicologia, psichiatria, diritti è il nuovo titolo di Fefè Editore dedicato al Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, a cura di Renato Foschi (Università Sapienza di Roma). Un argomento di estrema attualità: è recente la condanna in primo grado di alcuni medici giudicati responsabili della morte del maestro Francesco Mastrogiovanni, deceduto in regime di TSO dopo cinque giorni di letto di contenzione, senza acqua né cibo. Il TSO rappresenta una “eccezione” al diritto costituzionale per cui, poste certe condizioni (urgenza, mancanza di presidi extra-ospedalieri e rifiuto delle cure), al cittadino – con un provvedimento del sindaco – sono sospesi, per sette fino a quindici giorni, alcuni diritti elementari. Secondo i dati ISTAT, in Italia, nell’ultimo decennio si sono effettuati ogni anno oltre 10.000 trattamenti psichiatrici “obbligatori”. Sono, inoltre, in discussione progetti di legge finalizzati ad estendere le possibilità di applicazione del TSO. Parlare del TSO vuol dire aprire scenari drammatici, a volte veri e propri orrori umani e familiari, che rimangono sotterranei e riescono a raggiungere l’opinione pubblica solo in casi estremi come quello di Mastrogiovanni. Scenari che meriterebbero l’attenzione quotidiana dei cittadini più accorti e sensibili, e delle “pubbliche autorità” (giudici, medici, sindaci, ecc.) da cui l’applicazione del TSO dipende. In questo libro a più voci di Fefè Editore, curato da Renato Foschi, ne scrivono oltre allo stesso Foschi, psicologi, psichiatri, giuristi e giornalisti: Giuseppe Allegri, Giorgio Antonucci, Ines Ciolli, Gioacchino Di Palma, Giuseppe Galzerano, Nicola Viceconte, Philip G. Zimbardo. Con la chiusura di Ascanio Celestini.

La Libertà Sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Psicologia, Psichiatria, Diritti. Fefè editore ha, da poco, pubblicato un volume da me curato sul Trattamento Sanitario Obbligatorio in psichiatria. Pochi conoscono l’argomento. Il progetto è partito dalla conoscenza della morte di Francesco Mastrogiovanni, che ha scoperchiato un Vaso di Pandora fatto di coercizioni e morti durante un trattamento sanitario che vorrebbe essere invece aiutare il paziente (i morti durante i TSO non sono un numero irrilevante). Il TSO è un dispositivo contenuto nella L. 180/78 (cosiddetta Legge Basaglia) e poi nella 833/78 (Legge di istituzione del SSN) che consente la sospensione della libertà individuale e il ricovero coatto sulla base di una ordinanza del sindaco e due certificati medici che sanciscano l’urgenza del caso. Le condizioni per attuare un TSO sono, quindi, (1) l’urgenza, (2) la mancanza di possibilità di cura extra-ospedaliera, e (3) il rifiuto di cure da parte del paziente. Il TSO dura sette giorni ed è ripetibile una volta in sequenza e più volte nel corso della vita. Il libro fa luce su alcuni aspetti giuridici, psicologici e psichiatrici legati al TSO su cui ritengo sia bene riflettano sia gli operatori (medici, infermieri, psicologi), sia i pazienti. A mio parere, il problema principale della epistemologia della medicina è la difficoltà a fare i conti con la ragionevolezza di certe “malattie”, continuando a “ristrutturarle” sulla base di nuove cure e terapie…le malattie psichiatriche, sotto questo aspetto, sono prototipiche. Certo se poi qualcun altro che non sia il malato, ci guadagna, sarà difficile andare oltre la retorica. Ad. es. quanto costa un TSO al giorno? Quanto costa la somministrazione di un nuovo farmaco antipsicotico? Una giornata di ricovero in Italia varia dai 600 ai 900 euro e ci sono neurolettici che possono arrivare a costare molto. I reparti psichiatrici italiani sulla base di circa 10000 TSO all’anno (dati ISTAT) riescono ad avere quindi dei rimborsi milionari. Inoltre a prescindere dalla bontà dei sistemi di cura e di diagnosi psichiatrica – che sono costantemente messi sotto accusa da un numero crescente di studiosi ed expazienti-, le cure coercitive partono dall’idea che ci siano casi in cui sia necessario sospendere la libertà individuale come se il paziente potesse sempre essere potenzialmente un pericoloso criminale. Come generalmente si temono i criminali, così si si può temere il malato di mente; si crea, quindi, un sistema di controllo valido per entrambi. La preoccupazione dei fautori del TSO per il malato (e ci sono alcuni progetti di legge che vogliono che diventi una pratica più lunga) potrebbe, dunque, in primo luogo mascherare preoccupazioni di altro genere. Sul versante positivo, dobbiamo affermare anche che negli ultimi 150 anni non c’è stata solo una psicopatologia psichiatrica controllante e coercitiva, ma c’è stata anche una storia diversa creata da persone che si sono autonomizzate dal proprio contesto e che  sono state in grado di vedere le cose dall’alto…Freud, Janet, Montessori, Basaglia, Foucault…e con queste ci sono state moltissime altre personalità, meno note, forse più discrete, che però hanno grandemente contribuito  alla lunga e mitologica saga che contrappone le persone libere da quelle che vivono nella preoccupazione.  Sono lieto soprattutto perché alcune di queste persone libere (e qualcuno degli autori ha già lasciato dei tagli nella storia della psicologia e della psichiatria) hanno contribuito alla scrittura del volume da me curato.

Andrea Soldi: 25 anni, ucciso su una panchina a Torino. Bloccato e ammanettato da due vigili urbani per un Trattamento sanitario obbligatorio, il ricovero coatto nei reparti di Psichiatria previsto in casi eccezionali di pericolo. È l'ultima di una serie di vittime. C'è Mauro Guerra, 33 anni, che fuggiva da un arresto per Tso solo pochi giorni fa, nei campi della bassa padovana. È stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Ci sono poi i casi di Franco Mastrogiovanni Giuseppe Casu, morti invece mentre erano nelle mani dei medici dentro gli ospedali. Ecco le loro storie. Per non dimenticare, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.

Morto durante il Tso, trasferiti i tre vigili della pattuglia. La sorella della vittima: "Non insabbiate nulla". Cordoglio del sindaco per la tragedia di piazzale Umbria, polizia municipale sotto accusa: i tre agenti sono stati "assegnati a servizi non operativi". Fassino: "Massima severità se emergeranno responsabilità personali". I parenti della vittima in procura dal pm Guariniello che ha aperto un'inchiesta, scrive Gabriele Guccione su “La Repubblica”. Il sindaco Piero Fassino ha telefonato questa mattina ai familiari di Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto mercoledì pomeriggio del 5 agosto 2015 durante un ricovero forzato eseguito da una pattuglia dei vigili urbani, dal Centro di salute mentale dell’Asl 2 e dagli infermieri del 118 ai giardinetti di piazzale Umbria. Un intervento che, è l'accusa dei testimoni e degli amici della vittima, sarebbe stato messo in atto con violenza immotivata: "Andrea era tranquillo, i vigili in borghese lo hanno preso per il collo, alle spalle. Mentre lo stringevano aveva la lingua fuori e non respirava più. Lo hanno caricato in ambulanza a faccia in giù, ammanettato". I tre vigili si sono difesi dicendo che l'uomo aveva dato in escandescenze ma questa circostanza non ha per ora trovato conferma tra i testimoni. L'ospedale Maria Vittoria ha riferito che Soldi, all'arrivo al pronto soccorso, era "già in arresto respiratorio" e che le manovre rianimatorie "non hanno purtroppo avuto successo". tre vigili della pattuglia, annuncia il Comune, sono stati intanto trasferiti: "Il comandante della Polizia municipale, Alberto Gregnanini - dice una nota - allo scopo di raccogliere ogni elemento di verità utile ai primi atti disposti dalla Procura, ha promosso un approfondimento sulle modalità dettagliate dell'intervento di mercoledì e ha disposto, in via prudenziale, l'assegnazione dei tre agenti coinvolti a servizi non operativi". Il sindaco Piero Fassino ha aggiunto che "se verranno rilevate delle responsabilità personali, queste dovranno essere perseguite con rigore e con la massima severità". “Intendo manifestarvi il cordoglio della città intera per questo grave lutto che vi ha colpito”, si sono sentiti dire, da Fassino, il padre Renato (che dopo aver parlato con i testimoni in piazza ha dichiarato "Mio figlio è stato ammazzato con cattiveria"), la sorella Cristina e il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi, che si sta occupando del caso. “Da parte nostra – ha aggiunto il primo cittadino – assumeremo tutte le misure e svolgeremo tutti gli accertamenti del caso per fare luce su questo tragico episodio”. "Chiedo che venga fatta luce sulla morte di mio fratello. E che non venga insabbiato nulla". Lo ha detto la sorella della vittima, che stamattina ha accompagnato in procura il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi per un incontro con il pm Raffaele Guariniello che sta indagando sull'episodio. "Mio fratello - ha raccontato Cristina - era malato. Soffriva di schizofrenia dal 1990. Ma era già stato soggetto a trattamenti sanitari e non c'era stato alcun problema. Era un buono e non aveva mai fatto del male a nessuno. Mezz'ora prima rideva e scherzava: non doveva essere ammanettato, non doveva essere trattato in quel modo. Non doveva finire così". L'avvocato Soldi ha detto di essere stato chiamato dal sindaco, Piero Fassino: " Ha espresso la sua vicinanza e il cordoglio della Città, e ha affermato che, per quanto possibile, stanno acquisendo ogni informazione utile. Quanto all'inchiesta, per quello che mi pare di capire ci sono versioni discordanti. Bisognerà trovare la quadra. Ma ho fiducia in Guariniello". La famiglia Soldi, questa mattina, prima di andare dal pm, ha fatto un sopralluogo in piazzale Umbria alla ricerca di testimoni. In mattinate è andato in procura anche il comandante dei vigili urbani Alberto Gregnanini.

In nove foto la verità sulla morte di Andrea. L’inchiesta della procura torinese sulla tragedia del Tso. Raffica di interrogatori in piazza Umbria: i militari del Nas sequestrano un telefonino, scrive Massimiliano Peggio su “La Stampa”. «Sono due giorni che non dormo. Una cosa del genere non mia era mai capitata. La vicenda ha avuto una dinamica complessa. Mi sento vicino ai familiari e rispetto il loro dolore». Così diceva ieri pomeriggio l’infermiere dell’Asl To 2 uscendo provato dopo un lungo interrogatorio in Procura, di fronte alla polizia giudiziaria del pm Raffaele Guariniello. L’infermiere è stato il primo dei sanitari interrogati, collaboratore del dottor Pier Carlo Della Porta, lo psichiatra del servizio territoriale che da tempo seguiva Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto durante un Tso, malgrado il ricovero al Maria Vittoria. Lui e il medico, con altro personale di un’ambulanza, erano presenti in piazzale Umbria per eseguire il ricovero forzato concordato con i familiari di Andrea, per il quale era stato chiesto l’intervento della pattuglia dei vigili urbani. Sempre ieri sono stati sentiti la sorella della vittima, Cristina e il papà Renato, accompagnati dal loro legale, Giovanni Maria Soldi. Per ora non ci sono iscrizioni formali nei confronti dei vigili urbani o di altro personale. Si attende il risultato dell’autopsia che sarà eseguita dal responsabile della medicina legale dell’ospedale di Alessandria, Valter Declame. Ma di fatto gli investigatori stanno raccogliendo gli elementi d’indagine ipotizzando profili di reato di omicidio colposo o lesioni colpose gravi, che hanno portato alla morte. Stando infatti ai primi accertamenti sul corpo di Andrea, le tracce riscontrate dai sanitari sarebbero compatibili con quelle di un’asfissia. E su questo solco hanno lavorato ieri i carabinieri del Nas di Torino, cui il pm ha affidato l’incarico di raccogliere le testimonianze delle persone che hanno assistito al Tso, mercoledì scorso, in piazzale Umbria. Il primo passo è stato sequestrare il telefonino del pensionato, ex carabiniere in pensione, che dalla sua finestra di casa ha fotografato l’ultima fase dell’intervento dei vigili, ritraendo Andrea a terra, con le mani ammanettate dietro la schiena, immobile, a faccia in giù. Il suo telefonino contiene 9 foto che saranno raccolte in un cd e inviate già in giornata al pm con una prima informativa, con i verbali delle testimonianze. Una decina in tutto. Quella dello stesso pensionato che ha assistito a tutta la scena e quella di Maria Ifrim, romena, che si trovava con il figlioletto nei pressi del bar Ari’s, con altri connazionali. Preziosa, inoltre, la testimonianza di un impiegato delle poste che era seduto sulla panchina accanto a quella occupata da Andrea. Ha visto il suo volto scurirsi e diventare cianotico, fino agli spasmi. Lo ha visto caricare sull’ambulanza ammanettato, a pancia in giù, proprio lui che era un omone di 150 chili. Anche la direzione sanitaria dell’Asl To 2 ha avviato «accertamenti interni», richiedendo una relazione sull’accaduto al servizio psichiatrico. Anche Giuseppe Uva venne ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il TSO".

Padova. Rifiuta il Tso, aggredisce i carabinieri che gli sparano: ucciso. Mauro Guerra, 30 anni, aggredisce un carabiniere e scappa: freddato dal collega. La tragedia nei campi di Carmignano di Sant'Urbano. E la famiglia chiede chiarezza. Il carabiniere che ha sparato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo, scrive “Il Mattino di Padova" il 30 luglio 2015. E' stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo il carabiniere che ha sparato e ucciso Mauro Guerra, il giovane che era scappato dopo aver rifiutato il trattamento sanitario obbligatorio. Un gesto dovuto da parte della procura di Rovigo (competente nel territorio della Bassa) anche per permettere al militare di nominare un difensore che potrà essere presente alle prove balistiche e alle ricostruzioni dell'accaduto. Intanto è stato dimesso il carabiniere che era stato aggredito da Guerra. Fatto che ha portato il collega militare a sparare e uccidere il giovane. Il carabinieri ferito è stato dimesso con una prognosi di 30 giorni per le 6 costole fratturate e i colpi alla testa ricevuti da Guerra. Hanno ucciso un uomo nudo e disarmato. L’hanno freddato i carabinieri in mezzo alla campagna. Mauro Guerra, 33 anni, laureato in Economia aziendale, dipendente di uno studio di commercialista di Monselice, buttafuori per arrotondare in un locale di lap dance, pittore e designer per passione, è morto dissanguato dopo che un colpo di pistola gli ha oltrepassato il fianco destro. È successo ieri a Carmignano di Sant’Urbano, un paese dove tutti conoscono i carabinieri per nome. Lì la gente li conosce uno per uno perché loro sono la Legge. Solo che quella stessa Legge, ieri, ha tolto la vita a un uomo disarmato. Violento ma disarmato. Gli ha sparato il comandante di stazione, il maresciallo Marco Pegoraro, insediato appena tre mesi fa nel comando che copre una vasta zona rurale tra l’estremo lembo della provincia di Padova e l’inizio di quella di Rovigo. Due colpi in aria e uno al fianco (anche se alcuni testimoni dicono di aver sentito quattro botti) con la sua Beretta calibro 9 di ordinanza. Voleva salvare un collega. Voleva fermare il trentatreenne per togliergli dalle grinfie Stefano Sarto, 47 anni, brigadiere del nucleo Radiomobile di Este, l’unico a rincorrere Mauro Guerra mentre questo, scalzo e in mutande, provava a fuggire attraverso i campi. Il militare l’ha raggiunto dopo una corsa sfiancante sotto il sole cocente. Seppur stremato è riuscito a stringergli una manetta al polso. Sembrava tutto finito. La trattativa estenuante iniziata poco prima delle 13 per un trattamento sanitario obbligatorio pareva essere giunta a conclusione. Ma dopo un accenno di remissione Guerra ha reagito in modo brutale. È riuscito a liberarsi dalla stretta e ha iniziato a colpire il brigadiere alla testa con le manette. Il militare è finito a terra e lui, cento chili per un metro e ottanta, ha continuato a infierire. Il comandante di stazione ha visto la scena da lontano. Ha intimato l’alt. Ha sparato due colpi in aria ma la brutale aggressione continuava. Così ha mirato e ha fatto fuoco ancora, stavolta puntando la canna dell’arma sul corpo nudo che copriva il collega a terra. Il colpo ha trafitto il giovane al fianco, gli ha tolto in un attimo forze e respiro. La rabbia della sorella Elena, che ha cercato inutilmente di avvicinarsi alla salma. I familiari: «Ci nascondono qualcosa». E c’è chi ha pensato al caso Aldrovandi. Medici e infermieri presenti per ultimare il trattamento sanitario obbligatorio sono accorsi per tamponare la ferita. Cinquanta minuti di massaggio sul posto. L’elisoccorso che parte da Treviso. Le pattuglie dei carabinieri che si moltiplicano. Operai che escono dalle fabbriche. Residenti che accorrono in strada. Sembrava potesse farcela ma alla fine il suo cuore si è fermato. Mauro Guerra è morto poco prima delle 16. «Nemmeno un cane si uccide in questo modo», gridava la sorella Elena trovando la solidarietà di tutti i compaesani. Una personalità complessa quella di questo ragazzo cresciuto con i genitori nell’abitazione di via Roma 36. Costituzione robusta e animo sensibile. Passione per la cultura fisica ma propensione per l’arte. Ci metteva poco a venire alle mani, Mauro Guerra. Con la stessa facilità, poi, ti poteva parlare dell’amore e della fede in Dio. Aveva fatto il militare in uno dei reparti più duri: i carabinieri paracadutisti. Poi la sorte l’aveva allontanato dalle forze armate e aveva scelto di proseguire con gli studi. Il suo era un caso noto. In questi ultimi anni aveva perso i punti cardinali e, a volte, esagerava con le reazioni. Lo sapevano i medici del paese, lo sapeva il sindaco e lo sapevano anche i carabinieri. Il suo atteggiamento era facilmente fraintendibile. A tratti molesto. In genere mandava messaggi via Facebook ma qualche giorno fa si è spinto oltre. Ha inviato un mazzo di fiori a casa di una ragazza del posto, una ventenne che evidentemente gli piaceva. Lei che lo conosceva è corsa dai carabinieri a raccontare tutto e in quel momento si è attivato tutto l’apparato previsto per legge quando si annusano casi di possibile stalking commessi da persone potenzialmente border line. Probabilmente, in quel momento, le autorità hanno deciso di agire. Ieri verso mezzogiorno sono stati i familiari a segnalare il precario equilibrio umorale di Mauro Guerra. Quando la pattuglia del nucleo Radiomobile si è presentata davanti a casa, il trentatreenne è uscito in cortile nudo. Indossava solo le mutande. Sudava e parlava a sproposito. Sosteneva di voler parlare con un certo “Vito”, militare in forze alla stazione di Carmignano che evidentemente lui conosceva bene. Ma i protocolli previsti in questi casi sono rigidi e chi deve essere preso in consegna dall’autorità sanitaria non può scegliersi questo o quel carabiniere. Così gli animi si sono scaldati in un attimo. Mauro entrava e usciva di casa. I militari gli parlavano e lui non li ascoltava. Si innervosiva sempre di più e non dava retta a nessuno, nemmeno ai genitori. Medici e infermieri dell’ambulanza, partiti dal pronto soccorso dell’ospedale di Schiavonia per un “codice verde”, sono stati avvisati strada facendo che la situazione si stava complicando. E dalla prospettiva di un semplice ricovero in Psichiatria, si sono trovati a dover praticare la tracheotomia a un giovane dissanguato. Ora i compaesani piangono per Mauro Guerra. Piangono per la morte di un ragazzo che hanno visto nascere. Piangono perché stavolta a sparare è stata la Legge.

Legato, sedato ed infine ucciso. L'assurda morte di Giuseppe Casu per Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra. La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia: «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d'astinenza. «Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelamente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo». «Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".

Franco Mastrogiovanni, per il maestro morto di Tso giustizia a metà. Il caso del maestro lasciato morire sul un letto d’ospedale in Trattamento sanitario obbligatorio a Vallo della Lucania. In appello sono stati condannati medici e infermieri, sospese le interdittive. I Radicali ora chiedono una “Legge Mastrogiovanni” per la riforma del Tso, scrive Lidia Baratta su “Linkiesta” il 16 Novembre 2016. Il maestro Francesco Mastrogiovanni, Franco per gli amici e i parenti, è morto a 58 anni durante un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio, con le caviglie e i polsi legati al letto. Dopo 87 ore di inferno. Il 15 novembre la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Salerno ha condannato i sei i medici e gli undici infermieri in servizio nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove Franco era ricoverato. Anche gli infermieri, assolti in primo grado, sono stati condannati per sequestro di persona e conseguente decesso. Con la pena, però, sospesa. Ai medici già condannati sono state riconosciute invece le attenuanti generiche ed è stata revocata l’interdizione dai pubblici uffici. Per loro l’accusa è di falso in atto pubblico. «Simbolicamente è una sentenza importante perché dice che tutti sono responsabili. Siamo rimasti un po’ delusi per la revoca dell’interdizione dai pubblici uffici e l’abbassamento delle condanne dei medici», dice Grazia Serra, nipote del maestro e membro del comitato Verità e giustizia per Franco Mastrogiovanni, che nei giorni scorsi ha lanciato la campagna #diamovoceafranco. Per non far calare il silenzio su una storia di abusi e torture, anche se il termine nel nostro ordinamento non è ancora riconosciuto. Simbolicamente è una sentenza importante perché dice che tutti sono responsabili. Siamo rimasti un po’ delusi per la revoca dell’interdizione dai pubblici uffici e l’abbassamento delle condanne dei medici. Ottantasette ore. È la mattina del 31 luglio del 2009 quando Mastrogiovanni, «il maestro più alto del mondo», come lo chiamano i suoi alunni per via del suo metro e novanta di altezza, finisce in Tso al centro di salute mentale dell’ospedale di Vallo della Lucania. Ottantasette ore dopo, viene dichiarato morto. Durante il ricovero, mentre dorme, viene legato mani e piedi al letto, mangia una sola volta e assorbe poco più di un litro di liquidi solo tramite flebo. Quello che assume per tre giorni e mezzo è un cocktail di calmanti e sonniferi. Sedato, anche se non aveva mostrato aggressività all’ingresso in ospedale. Come si vede dai video delle telecamere dell’ospedale, il maestro dal suo letto chiede di bere, urla, tenta di liberarsi. Nel reparto c’è un caldo infernale. Suda. Viene lasciato nudo per ore sul letto in preda alla disperazione. Nessun medico si avvicina a lui. E alla fine arriva il silenzio: muore intorno alle 2 di notte del 4 agosto 2009, ma il personale sanitario se ne accorge dopo più di cinque ore. In quei giorni la nipote Grazia presenta alla porta dell’ospedale. «Mi hanno detto che era meglio non parlarci per non farlo agitare», racconta. «Poi mi hanno assicurato che stava bene e che stava seguendo le terapie». Il giorno dopo arriva la notizia della morte di Franco Mastrogiovanni per edema polmonare. La sera prima del ricovero il maestro si sarebbe trovato a Pollica, il comune amministrato da un sindaco che di lì a poco salirà tristemente agli onori della cronaca, Angelo Vassallo, ucciso nel 2010. Percorre in macchina l’isola pedonale e i vigili lo segnalano al sindaco, che ordina il Tso. La mattina dopo Mastrogiovanni è di nuovo in auto, viene seguito da vigili e carabinieri fino al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze, a San Mauro Cilento. Qui rifiuta di consegnarsi e cantando versi anarchici si butta senza vestiti in mare, dove rimane per due ore accerchiato dagli agenti. Da riva, i medici dell’Asl confermano la necessità del Tso. Anche se il maestro è calmo e lucido. Prima di salire sull’ambulanza con le sue gambe, va a farsi una doccia e beve un bicchiere d’acqua al bar. E così, calmo e collaborativo, appare nei video dei primi momenti del ricovero. Dà la mano agli infermieri che entrano nella sua stanza e mangia (per l’ultima volta) da solo. Poi comincia l’inferno. «Mi hanno detto che era meglio non parlarci per non farlo agitare», racconta la nipote. «Poi mi hanno assicurato che stava bene e che stava seguendo le terapie». Il giorno dopo arriva la notizia della morte. Franco Mastrogiovanni era già conosciuto dalle forze dell’ordine come “noto anarchico”. Da ventenne era stato vicino al movimento anarchico. E aveva pure subito due processi con annesse incarcerazioni dalle quali era uscito con la fedina penale pulita. Nel 1973 finisce dentro dopo essersi beccato una coltellata nel gluteo nello scontro che si conclude con la morte di di Carlo Favella, segretario locale degli studenti missini. Nel 1999 contesta una multa, viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, ma a sua volta accusa gli agenti di arresto illegale e i giudici gli danno ragione. Di tanto in tanto Mastrogiovanni soffriva di crisi depressive e nutriva un certo timore delle divise. Ma aveva sempre condotto una vita normale. Tant’è che continuava a insegnare. Negli anni Ottanta ottiene una cattedra a Sarnico, sul lago d’Iseo. Poi torna in Campania. Dove nel 2002 e nel 2005 subisce due Tso. Quello del 2009 è il terzo. Franco conosce bene i reparti di psichiatria del territorio. Quando gli agenti lo trascinano via dal mare, lui dice: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». Il video della telecamere dell’ospedale mostra come Mastrogiovanni nelle 87 ore di contenzione sia stato abbandonato e lasciato morire nel suo letto. Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza, è stato il testimone chiave del processo. Anche lui senza cibo né acqua per giorni. A questa storia Costanza Quatriglio ha dedicato il documentario 87 ore, costruito proprio sulle immagini delle telecamere interne dell’ospedale. Il 30 ottobre 2012 in primo grado cinque dei sei medici del reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in servizio durante il Tso di Franco Mastrogiovanni, erano stati condannati per sequestro di persona, morte come conseguenza di altro delitto (il sequestro) e falso pubblico. Il sesto medico era stato riconosciuto colpevole solo per il sequestro e il falso. Gli infermieri invece erano stati assolti da tutte le accuse per aver solo obbedito agli ordini. Ora, dopo la sentenza di secondo grado, sono stati tutti ritenuti colpevoli. Ma potranno tutti tornare a lavorare nelle corsie d’ospedale. L’ultimo caso di morte durante un Trattamento sanitario obbligatorio risale all’inizio di novembre. Fabio Boaretto, 60 anni, ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Madre Teresa di Calcutta nel comune di Este, Padova, muore a meno di 24 ore dal ricovero. Il pm di Padova ora ha aperto un’inchiesta e ha deciso di far eseguire l’autopsia sul corpo del paziente. Andrea Soldi, invece, 45enne torinese, al lettino dell’ospedale non ci è arrivato neanche. Il 5 agosto del 2015 viene fermato mentre è seduto su una panchina. Ammanettato e a pancia in giù, muore soffocato durante il tragitto verso il Tso. Ora il gup di Torino ha accolto la richiesta dei familiari di citare in giudizio il Comune di Torino e la Asl To2. Poco prima della morte di Soldi, Mauro Guerra era morto in provincia di Padova dopo essere stato colpito dal proiettile di un carabiniere per essersi rifiutato di sottoporsi al Tso. Massimiliano Malzone, invece, è morto mentre si trovava in Tso accasciandosi improvvisamente sul pavimento dell’ospedale di Polla, nel salernitano. Prima di lui era toccato a Giuseppe Casu, morto dopo sette giorni di Tso a Cagliari nel 2006. E a Francesco Mastrogiovanni, «il maestro più alto del mondo». Ora i Radicali chiedono una “Legge Mastrogiovanni” con un progetto di riforma del Tso che «preveda un’assistenza legale obbligatoria per i malati che si trovino in queste situazioni e la massima trasparenza delle condizioni di cura all’interno dei reparti». Perché «non ci siano mai più casi come quello del maestro di Vallo della Lucania».

Così hanno ucciso Mastrogiovanni. Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre 2012, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de "l'Espresso", in collaborazione con l'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi e con l'accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all'ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da "Mi manda RaiTre" quando il processo era appena iniziato. Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato. A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l'assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula. Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un'altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente. Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l'esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell'accusa, secondo l'impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l'omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell'autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un'addetta alle pulizie. L'avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell'Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella". Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura. Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l'omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l'imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all'obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto. Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

Muore in ambulanza durante un Tso, la procura apre un’inchiesta. Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, 49 anni aveva impedito ai sanitari chiamati dalla sorella di entrare nella stanza, poi ha accusato il malore fatale: domani l’autopsia, scrive “Il Resto del Carlino” il 12 luglio 2015. La Procura della Repubblica di Macerata ha aperto un fascicolo per la morte dell’imprenditore di Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, di 49 anni, deceduto in ambulanza mentre veniva sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). L’uomo, disoccupato, viveva con i genitori e la sorella e da tempo aveva manifestato problemi psichici e depressione. Sabato sera, la sorella si è accorta che non stava bene e ha chiamato il medico curante al quale però il quarantanovenne avrebbe vietato di entrare in camera. Il sanitario ha allora chiesto l’intervento dei carabinieri e del 118 per sottoporre il suo paziente al Tso. Ma Testarmata ha cercato di impedire anche l’ingresso del personale medico. Ha accusato un malore, si è cercato di rianimarlo ed è stato trasferito nell’autoambulanza, dove è deceduto forse per collasso cardiocircolatorio. Per chiarire la vicenda e le cause esatte della morte il pm Luigi Ortenzi ha avviato le indagini contro ignoti per omicidio colposo. Domani sarà effettuata l’autopsia.

Malzone, un cilentano di Agnone, morto a Polla dopo un tso, scrive “Unico Settimanale” il 26 giugno 2015. È morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non hanno mai potuto vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, viveva in un piccolo paese del Cilento, Agnone. Il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. «Durante il suo penultimo ricovero mio fratello chiamava due, ma, anche tre volte al giorno. Quest’ultima volta no. I medici, quando chiamavo in reparto – racconta Adele, sorella di Massimiliano – mi dicevano che mio fratello stava benino, ma che aveva un atteggiamento aggressivo». Questa, secondo la signora Adele, è stata la motivazione utilizzata dai sanitari per vietare ai familiari di entrare in reparto. «Io ho chiamato sempre in ospedale per sapere come stava Massimiliano, aspettando che me lo facessero vedere. Ci vogliono due ore di macchina per arrivare a Polla e aspettavamo che ci dicessero che potevamo entrare in reparto», aggiunge Adele. Massimiliano, durante il suo ultimo ricovero, ha contattato la famiglia una sola volta. Poche ore prima del decesso. Lo ha fatto, intorno alle 12.45 di lunedì 8 giugno, utilizzando un cellulare che gli avrebbe prestato forse una paziente. Il ragazzo voleva contattare un legale. «Deve dargli il numero dell’avvocato, vogliono farci passare per pazzi qua dentro», avrebbe detto la compagna di stanza di Massimiliano alla sorella del ragazzo. Adele ricorda che la telefonata fu interrotta bruscamente. Alle 17, secondo quanto affermato dai medici in reparto, il ragazzo stava bene. Dopo meno di 3 ore la noti­zia del decesso. «Com’è possibile? – si chiede Adele — Com’è successo?». Massimiliano, secondo i medici, sarebbe morto per arresto cardiaco. La procura di Lagonegro ha avviato un’indagine per accertare le cause del decesso. Bisognerà attendere 60 giorni per i risultati dell’autopsia. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Entrambi cilentani, entrambi morti durante un Trattamento sanitario obbligatorio. Entrambi, durante il ricovero, tenuti lontani dai propri cari. In comune anche un medico. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si svolgeranno le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre. Nel caso del maestro di Castelnuovo Cilento, la verità è emersa grazie alla presenza, nel reparto, di un sistema di video­sorveglianza, sequestrato dalla polizia giudiziaria durante le indagini della magistratura. Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania è attualmente chiuso e una parte dei medici e degli infermieri sono stati trasferiti nell’ospedale di Polla. Nel reparto psichiatrico di Polla non ci sono le telecamere. Le immagini di Mastrogiovanni sono ancora impresse nella mente di chi le ha viste. Immagini mute che urlano giustizia, e ora giustizia dev’essere fatta anche per Massimo. È necessario sciogliere ogni dubbio. È doveroso nei confronti della famiglia e della giovane vittima.

Morte di Riccardo Magherini, tutte le indagini di quella notte. Tutte svolte dai carabinieri (e dagli indagati), scrive Riccardo Magherini viene dichiarato morto alle 3.00 del 3 marzo 2014, giunto ormai cadavere da Borgo San Frediano al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo aver chiesto "inginocchiato a mani giunte, aiuto". Apparentemente per i carabinieri quell'uomo a “d'orso nudo” (errore grammaticale presente nel verbale, ndr), “quell'energumeno”, “in un elevato stato di agitazione psicomotoria”, aveva “prima procurato dei danneggiamenti al vetro di una pizzeria, aveva rapinato un passante di un cellulare e aveva rotto il vetro di un auto” e “dopo che un medico gli aveva somministrato un medicinale che lo portava alla calma” proprio mentre i carabinieri, come scrivono loro stessi nei loro verbali, appuravano queste informazioni “il soggetto andava in arresto cardio respiratorio quindi i sanitari presenti sul posto iniziavano le manovre di rianimazione” e poi Magherini “decedeva durante il trasporto in ospedale”. Questa è l'informativa, che si conclude con una nota, per segnalare agli ufficiali in servizio i fatti. La ricostruzione è incredibilmente falsa. Non lo dice chi scrive, lo dicono i fatti e le testimonianze che la smentiscono con facilità. Ma per i carabinieri, quella sera, in fin dei conti Riccardo Magherini è un uomo che è morto per un arresto cardiaco. Come può succedere. Non c'entrebbero niente i calci ricevuti da Magherini e tutte le azioni di compressione che ha subito da quei quattro carabinieri il 40enne fiorentino e riferite da decine di testimoni. Solo un infarto. E allora perchè quel giorno il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Firenze svolge ventidue attività d'indagine di cui almeno diciassette nella notte? Perchè c'è l'esigenza di far dire alla volontaria della Croce Rossa, interrogata accanto al cadavere di Riccardo Magherini, che all'arrivo della prima ambulanza il 40enne fiorentino respirava ancora ed era vivo? Perchè quella notte maggiori e capitani dell'Arma passano ore ad interrogare persone e a cercare prove contro il morto Riccardo Magherini? Perchè di questo si tratta, in quelle ore i carabinieri cercano le prove contro un morto. Lo fanno per alleggerire le loro responsabilità nonostante sia soltanto morto d'infarto. Eppure qualcuno al comando di Borgognissanti sa che non è andata in questo modo. Lo sa esattamente dal minuto in cui gli appuntati Corni e Dalla Porta chiamano il maresciallo Castellano e riferiscono la morte di Magherini. Probabilmente c'è panico nei comandi del nucleo investigativo dei Carabinieri. Perchè quell'infarto sanno tutti perfettamente che non può reggere. Troppi calci da spiegare. Troppi testimoni di quello che è successo. E allora inizierà una serrata attività d'indagine svolta soltanto dai carabinieri, dagli stessi colleghi di chi intervenne in Borgo San Frediano ed è stato protagonista della morte di Magherini. Indagini finalizzate a far emergere l'aspetto peggiore della vita dell'ex promessa della Fiorentina. Per “metterlo” male. Per far passare quell' “energumeno” per un tossicodipendente, violento, che quella sera sarebbe stato anche un delinquente. Riccardo Magherini, incensurato, verrà denunciato da morto per furto e danneggiamenti. Su quel foglio trasmesso alla Procura di Firenze accanto al suo nome c'è una croce nera. Rimarrà unico indagato per la sua stessa morte fino al giorno della denuncia della famiglia contro tutti gli intervenuti sul luogo. I quattro carabinieri si faranno refertare al pronto soccorso con prognosi da due a dieci giorni. Lo faranno dopo aver svolto attività di indagine e soltanto dopo la morte di Magherini. L'appuntato Della Porta rimarrà all'interno del pronto soccorso per soli 8 minuti. Il maresciallo Castellano per 7. L'appuntato Corni sulla sua diagnosi vedrà anche scritta la descrizione di "un soggetto violento e agitato". Ma quell'uomo anche chi referta i carabinieri lo vedrà soltanto cadavere. E allora perchè scrivere in una diagnosi queste cose? Riccardo Magherini, come già detto, viene dichiarato morto alle 3.00 al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dove arriverà in asistolia. Una morte sopraggiunta in Borgo San Frediano. A nulla sono servite le manovre rianimatorie eseguite all'arrivo della seconda ambulanza. Con le manette ai polsi, per “almeno un minuto perchè i militari non trovavano le chiavi”. Magherini era morto lì ed invece è stato trasportato in ospedale. Giusto per essere chiari, se Riccardo Magherini fosse stato dichiarato morto sulla strada sarebbe dovuto arrivare sul posto il pm di turno per disporre la rimozione della salma e sarebbe iniziata una procedura diversa da quella attuata in questo caso.

Appena comunicato il decesso iniziano le indagini.

Alle 3.05 gli appuntati Corni e Della Porta, per cui la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo (a Corni vengono contestate anche le percosse) visti i fatti di Borgo San Frediano, interrogano una delle volontarie della Croce Rossa intervenute sul posto. Anche a lei verrà contestato l'omicidio colposo. Questo interrogatorio si svolge accanto al corpo di Riccardo Magherini appena morto. “Le verrà fatto dire – sostiene l'avvocato Massimiliano Manzo, legale dei volontari della Croce Rossa – che con la mano avrebbe sentito il respiro di Magherini”. Esattamente questo. Quella volontaria avrebbe messo la mano, con il guanto di lattice, alla bocca del 40enne e avrebbe sentito il suo respiro. Purtroppo non sarà così, e quelle affermazioni verbalizzate accanto al cadavere di Magherini sono totalmente cambiate in sede di Polizia Giudiziaria tanto da fare dire al legale della donna che quell'interrogatorio " si è svolto in condizioni allucinanti”. “I carabinieri hanno negato ai miei assistiti la possibilità di assistere quell'uomo” dirà con forza il legale. E questa testimonianza sarà fondamentale per mantenere Magherini in vita all'arrivo della prima ambulanza. Influirà su tutta la condotta dei soccorsi da parte dei volontari. Non collegherebbe infatti l'infarto, motivo della morte di Magherini secondo i carabinieri, ai calci sferrati e alla pressione esercitata dai militari sul corpo a terra dell'uomo durante e dopo le fasi di fermo.

Contemporaneamente alle 3.10 appresa la notizia della morte, il maresciallo Castellano (anche lui a giudizio per omicidio colposo), interroga nella caserma di Borgo Ognissanti, insieme ad uno dei due ufficiali (un capitano, ndr) che vengono informati dalla nota di cui sopra, il pizzaiolo della prima pizzeria visitata da Magherini ed a cui il 40enne fiorentino avrebbe rubato il cellulare, comunque immediatamente restituito e causa poi dell'esigenza dell'arresto in flagranza che i carabinieri stavano operando su Riccardo. Anche in quel verbale c'è un sottile elogio all'operato dei militari “che tentavano di bloccarlo cercando di vincere la resistenza opposta dallo stesso che sbracciava e urlava le solite frasi senza senso. Posso dire, per quanto da me osservato direttamente, che i militari presenti sul posto, componenti di due pattuglie, non hanno assolutamente usato violenza nei confronti del soggetto da loro fermato, cioè non l'hanno picchiato ma cercavano solo di bloccarlo fisicamente, nè tantomeno hanno fatto uso di armi, limitandosi al suo contenimento. Ho tuttavia visto un carabiniere che sanguinava vistosamente dalla testa”. Questo dice quell'uomo. E l'opera di contenimento così limitata descritta da questo testimone è ampiamente smentita da altre decine di testimonianze.

Alle 3.30 poi è il maggiore Carmine Rosciano, comandante del Nucleo investigativo dell'Arma, ad incaricare due marescialli in servizio al reparto scientifico di andare a Borgo San Frediano sui “luoghi di interesse alle indagini”. Lì quegli stessi fotograferanno i danni alle due vetrine delle pizzerie, quelli all'auto (che da quelle foto non riporta vetri rotti), e l'iPhone con il vetro infranto che avrebbe rubato Magherini. C'è tutto tranne il luogo dove il 40enne verrà immobilizzato e morirà. Magari poteva esserci una macchia di sangue. Un segno. No, niente.

Alle 4.00 viene ricevuta la denuncia querela per danneggiamenti del proprietario della seconda pizzeria visitata da Riccardo Magherini. Al comando di Borgo Ognissanti, l'uomo dirà “di essere informato da un passante che Magherini aveva aggredito un carabiniere” e che durante tutte le lunghe operazioni di arresto e dei soccorsi rimarrà sempre all'interno della sua pizzeria, a circa dieci metri dal luogo della morte di Riccardo Magherini.

Alle 5.20, al comando di Borgo Ognissanti, veniva interrogato da un sottoufficiale dell'Arma (un maresciallo, ndr) uno dei due testimoni che avrebbero seguito tutto l'esito delle azioni di Magherini in San Frediano.

Il giovane riferiva che mentre camminava per Borgo San Frediano veniva avvisato dal pizzaiolo, di cui sopra, del furto del suo cellulare quasi contemporaneamente all'arrivo della prima macchina dei carabinieri. Magherini viene individuato. E' a terra in ginocchio e chiede aiuto. Poi però dopo aver consegnato il cellulare “spontaneamente”, “l'uomo cercava di scappare, ma veniva immediatamente bloccato da tutti e quattro i carabinieri presenti, che nonostante numericamente superiori facevano fatica a tenerlo fermo. Tant'è che nel tentativo di immobilizzarlo, l'uomo riusciva a strappare dalle mani di un carabiniere le manette, con le quali lo colpiva in fronte, mentre un altro carabiniere veniva raggiunto da diversi schiaffi. Dopo un’ azione piuttosto concitata, l'uomo viene finalmente ammanettato sulla schiena ed appoggiato a terra. Ma anche così non dava segno di calmarsi, infatti alcuni dei carabinieri presenti dovevano ancora comunque tenerlo fermo con le mani. Solo dopo circa cinque minuti, l'uomo finalmente accennava a calmarsi”. L'accenno era probabilmente il sopraggiungere dell'arresto cardiaco. Queste scene, così descritte, appartengono soltanto a questa testimonianza. Le manette “strappate” e i “diversi schiaffi” non compaiono in nessuna delle altre decine di testimonianze. Simili soltanto a quelle dell'amico che con lui assiste alla scena insieme però alle stesse altre decine di persone. Proprio in quegli stessi minuti all'ospedale di Santa Maria Nuova, gli appuntati Corni e Della Porta relazionavano sugli oggetti personali ritrovati negli abiti di Magherini. La carta d'identità, che solo in ospedale i carabinieri visioneranno, un mazzo di chiavi, due bustine di miele, una di nimesulide, dei soldi in contanti, un accendino, la carta della Conad. Non c'è droga. Non ci sono armi.

Sono frangenti importanti e frenetici, alle 5.30 un ufficiale dell'Arma (un capitano, ndr), accompagnato da due sottoufficiali, fa visita alla moglie di Riccardo Magherini. In quel momento è nella sua abitazione con il figlio Brando. Viene svegliata nel cuore della notte e le viene immediatamente chiesto se il marito si drogava. Se usava medicinali. Non le viene subito comunicato che Riccardo è morto in quella tragica circostanza. Le verrà detto quando i militari lasceranno la casa. Non prima che la donna firmi un verbale in cui dice proprio che il marito faceva uso di droghe. Ma quella frase sarà smentita (con una sottolinenautura in neretto, ndr) nelle dichiarazioni rese alla Pg con la specifica di “non aver mai pronunciato quelle frasi”. In quei minuti Guido Magherini, padre di Riccardo, telefona commosso e frastornato alla Polizia. “Mi hanno detto che è successa una disgrazia a mio figlio”. La Polizia passerà all'uomo i carabinieri, ma della prosecuzione di quella chiamata al centralino non c'è più traccia dal momento in cui l'uomo parla con i carabinieri. Stesso discorso per un amico che chiama pochi istanti dopo. “Fine registrazione” si legge sulle trascrizioni dei Ctu.

Alle 5.45 viene sentito, da un sotto ufficiale al comando dei Cc di Borgo Ognissanti, il secondo dei due testimoni che vedrebbe gli ultimi frangenti di Riccardo Magherini a San Frediano. Dichiara di “offrirsi di rincorrere l'uomo” appena saputo che aveva rubato un cellulare. E così fa. “Rincorrevo l'uomo” si legge nella sua testimonianza. Poi l'arrivo dell'auto dei carabinieri. La prima. E poi il racconto, molto simile a quello dell'amico. Saranno solo loro due a vedere queste scene. In certi casi però ritrattate in altre deposizioni. “A quel punto i quattro Carabinieri intervenuti intimavano all'individuo di stare fermo ma lo stesso tentava di allontanarsi; e quindi dopo numerosi inviti i carabinieri tentavano di bloccarlo ma l'individuo si divincolava dalla loro presa, infatti ha tolto le manette ad uno dei Carabinieri e sferrava con le stesse dei colpi al viso di uno dei carabinieri, ha dato tre-quattro schiaffi ad un altro Carabiniere. I carabinieri tentavano di bloccalo per renderlo inoffensivo ma lo sconosciuto ha opposto resistenza e profferiva ricordo ad alta voce frasi del tipo ""... aiuto,... chiamate la polizia, mi stanno sparando... ". "Finalmente i Carabinieri riuscivano ad ammanettarlo e sebbene immobilizzato lo sconosciuto ha sferrato dei calci ad uno dei Carabinieri e ha tentato sempre di opporsi ai carabinieri. Dopo alcuni minuti lo sconosciuto si calmava. Ho deciso di ritornare alla pizzeria per restituire il cellulare al pizzaiolo e dopo sono ritornato dove i trovava lo sconosciuto e in quel momento era sopraggiunta un'ambulanza”. Quindi sulla scena di Magherini appare anche questa figura che fa le veci dei carabinieri restituendo corpi di reato e offrendosi in una caccia all'uomo.

Sono circa le 5,40 (il verbale inizierà alle 6.00) quando un'altra testimone, la proprietaria del Fiat Doblò, viene chiamata a casa da un maresciallo dell'Arma che la inviterà a recarsi al comando di Borgo Ognissanti “per deporre una testimonianza in vista del processo per direttissima” per i danneggiamenti fatti in Borgo San Frediano qualche ora prima da un uomo a lei sconosciuto. Lei chiede di poter andare la mattina dopo aver accompagnato i figli a scuola. Ma quella testimonianza, le dicono i carabinieri, è urgente e serve al processo della mattina seguente. Ma quale processo? Le fanno anche intendere che Magherini ha ricevuto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Quella donna testimonierà i fatti di fronte ad un capitano dell'Arma. Ma sarà costretta a dover scrivere all'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Magherini, per dire che quei carabinieri non scrivevano sul verbale quando lei parlava dei calci a Riccardo. E racconterà le ragioni della chiamata. Ma soprattutto quella donna saprà della morte di Magherini soltanto il giorno dopo leggendo un quotidiano online. Perchè inventarsi la storia del processo per direttissima? Riccardo Magherini è morto da ore ormai. Perchè raccontare queste falsità? In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, il maresciallo Stefano Castellano con gli appuntati Vincenzo Corni, Davide Ascenzi e Agostino Della Porta, su cui tutti pende una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo, redigevano l'annotazione di servizio. Hanno scritto che la forza esercitata per i quattro militari è stata assolutamente contenuta e misurata alla violenza esercitata da Magherini. Annotazione di servizio che chiama in causa quei due testimoni di prima. Escludendo invece i molti altri che hanno assistito alla scena. E' sempre delle ore 6.00 la relazione degli agenti della terza 'gazzella' intervenuta in Borgo San Frediano. Non vedono praticamente niente di quello che accade, anche perchè arrivano dopo l'ammanettamento di Magherini. Vedono solo il loro collega ferito, che accompagnano in ospedale, e dopo qualche minuto dall'arrivo della seconda ambulanza si rendono conto che l'uomo ormai non “rispondeva alle sollecitazioni mediche”.

Alle 6,10 sarà interrogato al comando di Borgo Ognissanti il medico giunto a San Frediano sulla seconda ambulanza. Dirà di essere arrivato aver rilevato l'arresto cardiaco per poi aver iniziato a praticare le manovre rianimatorie. Non dirà di averle iniziate con le manette inserite. Non dirà, come farà poi, che dai volontari è stato riferito che l'intervento della prima ambulanza è stato negato dai Cc. E purtroppo si renderà anche protagonista di una telefonata al 118, agli atti, e tutta da approfondire. Rispondendo alla domanda ma ha preso roba?, diceva “Ora ti dico di sì, poi ti spiego..”. Una chiamata che appare strana. Molto.

In quei minuti, alle 6,25 un capitano dell'Arma interroga un volontario della Croce Rossa intervenuto sulla prima ambulanza. L'uomo dirà di arrivare e “trovare una persona a terra. Faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Tenuto bloccato da un agente. Mi si è fatto incontro un altro agente che mi chiedeva se a bordo c'era un medico per poter sedare la persona immobilizzata”. La risposta che conseguirà, cioè il “no, non c'è il medico”, non consentirà ai volontari della Croce Rossa di poter effettuare alcuna operazione di assistenza sanitaria a Magherini proprio perchè i militari avrebbero consentito solo ad un medico di assistere Riccardo. Perchè andava sedato. Ma non c'è scritto su quel verbale. Anche per questo volontario la procura chiederà il rinvio a giudizio per omicidio colposo.

Toccherà poi alle 6,50, al comando di Borgo Ognissanti, all'infermiere giunto in San Frediano sulla seconda ambulanza. Ad interrogarlo è il comandante del Nucleo investigativo in persona. Descriverà le operazioni di rianimazione. Non verrà però citata la scena delle manette, poi ricordata in successivi verbali.

Alle 7.00 a Borgo Ognissanti tocca ad un'altra volontaria della Croce Rossa arrivata sulla prima ambulanza, anche per lei la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Riferirà che i carabinieri hanno rappresentato “l'uomo come una persona aggressiva” e che quindi “non potevano intervenire”. Ricorda la scena della collega che mette la mano alla bocca per verificare la respirazione già citata nel verbale delle 3,05 ma firmerà successivamente una dichiarazione in cui spiegava le condizioni in cui si sono svolti gli interrogatori smentendo proprio le affermazioni dei verbali svolti nelle prime ore.

Le indagini proseguono frenetiche e alle 8.10 Guido Magherini viene sentito circa le abitudini del figlio dal comandande della caserma dei carabinieri di Piazza Pitti. Nel frattempo il maggiore Rosciano ha disposto la trascrizione dei colloqui tra 'gazzelle' e 112. Poi una macchina parte da Borgo Ognissanti pe ritirare la cartella di intervento del 118 e intorno alle 9 arriva la comunicazione del Pm Bocciolini che incarica le aliquote di Polizia giudiziaria di Polizia e Carabinieri di effettuare indagini, al momento contro ignoti, e sentire testimoni per fare chiarezza sulla morte di Riccardo Magherini in vista anche dell'autopsia. E nel giorno della morte di Riccardo Magherini saranno solo i carabinieri a svolgere le indagini. Per poi trasmettere il fascicolo alla pg che comincerà dal 5 marzo le proprie indagini, sempre affiancata da polizia e carabinieri.

Infatti dopo la comunicazione del pm alle 12.30 un ufficiale, (un capitano, ndr) e due sotto ufficiali dell'Arma, svolgono la perquisizione nella stanza dove aveva alloggiato Magherini all'hotel St. Regis. Esito 'negativo'. Non viene trovata droga. Questo è quello che cercano in quei momenti i carabinieri. Non la troveranno neanche in una macchina descritta comunque con oggettivo disgusto per il disordine.

Dopo l'auto, alle 14.00 i carabinieri visitano casa di Riccardo Magherini in via delle Campore. Trovano un “elevato quantitativo di medicinali”. E tra i farmaci descritti fotografano anche il Fluifort aperto, la Tachipirina ed il Malox. Tratteggiando nel verbale il ritratto di un abituale consumatore di farmaci. Un ipocondriaco. Se poi ai farmaci si associa la cocaina si crea mix perfetto per una morte come quella sopraggiunta quella notte. In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, viene ascoltato il medico personale di Riccardo con domande specifiche su abusi di droga o disturbi di salute che potevano affliggere Magherini. Ma le risposte del medico non daranno spunti in tal senso. Nemmeno quelle del cameriere del ristorante Neromo, le cui immagini delle telecamere sono state prese alle 5 la mattina, e che riferisce di un Riccardo Magherini “tranquillo e sereno”. Ne descrive la cena la sera prima. Una serata tranquilla. Niente di utile per quelle indagini. E questo è quello che accade nelle 12 ore successive alla morte di Riccardo Magherini. Indagini serrate dei carabinieri. Per la morte di un uomo che loro stessi attribuiscono fin da subito ad un infarto. Un normale infarto. Normalità che durerà poco. In quelle ore i carabinieri non possono sapere che a Riccardo Magherini verranno riscontrate lesioni su tutto il corpo e che la droga a cui volevano attribuire la morte invece non la causerà. Al contrario dei calci e dela compressione toracica, non compresi nel protocollo di arresto violato dai quattro militari, e a cui è stato sottoposto l'uomo.

Questo è realmente accaduto. Queste indagini sono realmente avvenute. Sembra incredibile che sui carabinieri abbiano indagato i carabinieri. Ma è vero. Sembra incredibile che in quei minuti nessun ufficiale dell'Arma abbia sentito il bisogno morale, il dovere civile ed il solo semplice buon senso, che appartiene alle persone comuni, di passare le indagini alla Polizia. Di astenersi almeno dal svolgerle. Anche solo per il rispetto verso un uomo morto sotto la loro divisa sporcata dal sangue di Riccardo Magherini. Ma il rispetto, ad oggi, non c'è mai Stato. In attesa dell'udienza preliminare prevista per l'8 gennaio 2015.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza:  l’inchiesta giornalistica,  quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,  da omissioni complicità..  Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni  inadempienti  nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante  un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,  costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa  ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare  ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento  fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.

Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’ I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".

Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.

Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure.  Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.

E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte“, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:

Carlo Giuliani, 2001.  Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.

Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.

Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.

Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.

Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.

Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara : “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.

Magherini come Aldovrandi?  Si chiede Silvia Mari su “Altre notizie”. “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre. I fatti di quella notte, 3 marzo scorso,  sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine. Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole. L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento. Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi. La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare,  preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare. Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”,  che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini. E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime. Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti. Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.

Caso Magherini, "omicidio colposo in concorso: indagati anche gli operatori del 118. Altri due sanitari nei guai. e ora le persone coinvolte sono undici, scrive  di Gigi Paoli su “La Nazione”. E siamo ad undici. Tante sono le persone che il sostituto procuratore Luigi Bocciolini ha iscritto nel registro degli indagati per l’ancora misteriosa morte di Riccardo Magherini, il quarantenne colpito da un malore fatale dopo aver avuto una colluttazione con i carabinieri che lo stavano arrestando nella notte fra il 2 e il 3 marzo scorso in San Frediano. E’ infatti notizia di ieri che gli inquirenti hanno deciso di procedere anche nei confronti dei due centralinisti della centrale operativa del 118 che materialmente ricevettero le telefonate di richiesta di intervento: uno è colui che parlò con i carabinieri, l’altro è colui che smistò le ambulanze per dirigerle, prima una con tre volontari e poi l’altra con medico e infermiere, in borgo San Frediano. Per entrambi l’accusa è omicidio colposo in concorso ed è la stessa che viene avanzata nei confronti dei cinque sanitari intervenuti sul posto. Una ben più grave contestazione di omicidio preterintenzionale colpisce invece i quattro carabinieri che fisicamente bloccarono Magherini, in evidente stato di alterazione psico-fisica, fino a spingerlo a terra ammanettato pancia a terra. In questa posizione rimase bloccato fino a quando non ci si accorse che l’uomo non respirava più. Al centro dell’inchiesta c’è sia il presunto eccesso di violenza dei militari al momento del fermo sia il modo in cui lo stesso Magherini venne immobilizzato: secondo l’esposto presentato dai familiari dell’uomo, il quarantenne «risulta essere stato immobilizzato con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto». E ancora: «Nel lungo arco temporale iniziato ‘qualche minuto prima’ che arrivasse la prima ambulanza fino a quando è arrivata la seconda ambulanza con l’avvio delle manovre di soccorso (almeno 15 minuti), Riccardo era già divenuto totalmente silenzioso e immobile». Nonostante questo «i quattro militari intervenuti hanno invece deciso di continuare a tenere Riccardo immobilizzato nella medesima posizione, continuando a esercitare pressione sul dorso».

Magherini, le chiamate di quella notte, scrive “La Nazione”. Le telefonate dei testimoni e quelle tra polizia, 118 e  carabinieri nella notte del 2 marzo quando in Borgo San Frediano, a Firenze, è morto Riccardo Magherini, l'ex calciatore della Fiorentina durante un concitato arresto da parte dei carabinieri. Sono le una del mattino, quando alla centrale del 112 arriva la prima richiesta di intervento: “ci siamo svegliati, si sentiva urlare delle persone che chiedevano aiuto”, racconta un residente. Nel giro di pochi minuti da Borgo San Frediano partono altre chiamate dello stesso tenore. Poco dopo l'arresto, la centrale dei carabinieri avverte i colleghi della questura: “l'abbiamo trovato, è uno ubriaco, a petto nudo, che spaccava macchine”. Un particolare poi smentito da tutti i testimoni, secondo i quali Magherini quella notte non appariva né violento o pericoloso, ma solo terrorizzato. La prima chiamata al 118 parte alle 1,21. Arrivati sul posto, gli operatori della prima ambulanza chiedono l'intervento di un medico. “dicono che ha tirato le manette in testa a un carabiniere adesso ne ha due sopra per tenerlo fermo e fino a quando non arriva il medico non lo lasciano più”. All'inizio gli operatori della centrale non capiscono la gravita della situazione e ci scherzano su: “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E' il medico intervenuto con la seconda ambulanza che fa partire l'allarme, annunciando il trasferimento di urgenza all'ospedale di Santa Maria Nuova: “paziente trovato immobilizzato in asistolia, sto massaggiando”. Quando l'operatore del 118 chiede se il ragazzo ha preso droga, il medico risponde con la voce spezzata dalla tensione: “Per ora digli così, poi ne riparliamo”.

Le telefonate tra carabinieri e 118 con tono tranquillo: "C'è uno a petto nudo in mezzo alla strada", poi la situazione che precipita, fino alla telefonata del medico del 118 che comunica alla centrale che "il ragazzo è in acr (arresto cardio respiratorio, ndr)". E' tutta in una decina di telefonate la vicenda di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato bloccato dai carabinieri in Borgo San Frediano a Firenze in seguito a una crisi di panico che lo aveva portato alla perdita del controllo. Telefonate tra il 118 e i carabinieri e tra il 118 e l'equipaggio dell'ambulanza chiamata a soccorrere l'uomo. Una vicenda che ha fatto dibattere l'opinione pubblica e che ora rivive in quelle telefonate. La prima, intorno alle 1.20, è proprio dei carabinieri, che segnalano al 118 che "c'è un uomo completamente di fuori, a petto nudo. Ci sono già due mie autoradio che stanno cercando di calmarlo". I carabinieri dunque si rivolgono direttamente al 118 e chiedono di intervenire. Le telefonate continuano. L'ambulanza inviata sul posto all'inizio sembra, da quello che si capisce dalle telefonate, non riuscire a trovare il luogo dove i carabinieri hanno immobilizzato Magherini. "La mia pattuglia - dice un carabiniere - riferisce che l'ambulanza gli passa vicino ma non si ferma". Il disguido viene risolto e l'ambulanza arriva. In altre telefonate il 118 chiede all'equipaggio dell'ambulanza "quanti maschietti ci sono?", sottolineando che la persona da soccorrere, Magherini appunto, è in forte stato di agitazione. "E' mezzo nudo e ha tirato le manette in faccia a un carabiniere". I colloqui sono quasi scherzosi in alcuni punti. Sono tutte telefonate che avvengono tra le 1.20 e le 2. E la situazione sembra comune a tante altre che riguardano ubriachi o persone fuori controllo nel centro storico. Il tono delle telefonate cambia completamente dopo le due. Quando il medico del 118 inviato sul posto avverte la centrale. "Sto massaggiando, il ragazzo è in acr, sono per la strada", dice il medico con voce molto preoccupata.  "Io direi che lo metto sopra (ovvero nell'ambulanza, ndr) e avvisi Santa Maria Nuova (l'ospedale) che sto arrivando massaggiando". La centrale del 118 avvisa a quel punto l'ospedale. Riccardo Magherini non riaprirà mai più gli occhi. 

Le ultime grida di Magherini arrestato: ''Aiuto, sto morendo''. "Aiuto aiuto, sto morendo". Sono le ultime, strazianti parole di Riccardo Magherini, 40 anni, l’ex giocatore delle giovanili viola morto la notte tra il 2 e il 3 marzo in Borgo San Frediano, a Firenze, durante l'arresto dei carabinieri. La richiesta di aiuto è stata registrata con un telefonino da un residente affacciato alla finestra. Pochi minuti prima Magherini era stato bloccato mentre vagava in stato confusionale: "Aiuto, vogliono uccidermi", gridava. Arrivati sul posto i carabinieri lo immobilizzano al termine di un parapiglia, davanti a decine di persone affacciate alle finestre e a un gruppo di passanti. Sono le 1,25: un residente si affaccia alla finestra e gira il video, mentre Riccardo si trova ammanettato a terra in posizione prona, con quattro carabinieri che lo tengono fermo sull'asfalto. Nelle immagini non si vede niente, ma si sentono le invocazioni di aiuto: "Mi sparano","ho un figlio", "sto morendo". Poi, all’improvviso, Riccardo smette di urlare e di dimenarsi. Per chiarire le cause della tragedia la magistratura ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. L'autopsia ha escluso che la morte sia stata provocata da percosse. Sono in corso gli esami istologici e tossicologici che dovrebbero indicare la causa della morte e chiarire se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. Chi l'ha visto ricostruisce la cronologia delle telefonate tra residenti e soccorsi. Chiamate di soccorso ancora sotto accusa, quella dell'opinione pubblica. Così potrebbero essere riassunte le telefonate di quella tragica notte fiorentina che ha visto Riccardo Magherini in San Frediano scappare da una presunta minaccia di morte, entrare e uscire dai locali, rompere alcune vetrine e finire la sua corsa tra le braccia dei carabinieri. La trasmissione di Rai 3 ha riproposto le conversazioni tra residenti allarmati e forze dell'ordine. Ma anche le chiamate avvenute tra gli stessi addetti ai lavori e proprio queste hanno suscitato imbarazzo e polemiche anche e soprattutto a Firenze. Al centralino qualcuno prende le notizie con leggerezza, altri se la ridono. "Un uomo a torso nudo.. rompe delle auto in sosta" non è una bella immagine quella che arriva attraverso l'etere a chi deve intervenire e non ha modo di valutare personalmente la scena. I cittadini sono preoccupati per le urla che provengono dalla strada, sollecitano l'intervento dei soccorsi. Quando l'ambulanza non trova le pattuglie dei carabinieri accade l'incredibile: "I carabinieri dicono che state passando ma non vi vedono" è la segnalazione del centralino alle ambulanze. Tra gli indagati ci sono i carabinieri, a causa del modus operandi sul fermo, ma anche alcuni dei soccorritori per presunte irregolarità commesse nel corso dell'intervento. Il quadro che ne esce non mette in buona luce gli operatori, rischia anzi di compromettere il rapporto di fiducia tra soccorso pubblico e cittadinanza.

Magherini, la difesa dei volontari:"Le manette ostacolarono l'intervento". "Quel video, quelle urla: quanto dolore...": parla il padre di Riccardo Magherini. Guido Magherini, padre di Riccardo, racconta la sua battaglia cominciata il 3 marzo dopo il fermo e la morte del figlio: "Ricky chiedeva aiuto, non aveva aggredito nessuno, scrive Selene Cilluffo su “Today”. Riccardo Magherini era un ex calciatore della primavera della Fiorentina. Nella notte tra 2 e il 3 marzo subisce un fermo da parte di alcuni carabinieri. Poco dopo è morto. Sul caso ancora tante le ombre. Ma ciò che è sicuro è l'impegno della sua famiglia per chiedere verità e giustizia. Per questo abbiamo parlato con suo padre, Guido Magherini.

Lei e Andrea, fratello di Riccardo, avete spesso sottolineato che il nonno della famiglia faceva parte dell'Arma dei carabinieri. Ha mai ricevuto solidarietà da parte di qualcuno dell'Arma dei carabinieri? Personale o pubblica?

"No, assolutamente, mai. A parte il primo giorno dove ci hanno mostrato vicinanza perché sono amico di alcuni di loro. Ma da quella volta lì, basta, nulla più".

Pochi giorni fa centinaia di persone hanno partecipato al Flash Mob per Ricky. Quanto è importante per Lei sentire la vicinanza di questa gente che vuole come la sua famiglia verità e giustizia?

"Un affetto così non pensavamo neppure di averlo. Abbiamo avuto la conferma che Riccardo era amato da tutti in un modo davvero bello, pulito. Le porto un esempio: siamo stati a "Chi l'ha visto" e Andrea ha detto che volevamo rispetto anche dall'avvocato che difende i carabinieri, che è pagato con soldi pubblici, come i suoi assisti. Poco dopo sulla pagina facebook gli amici del Maghero è arrivato un messaggio di una ragazza che lanciava l'idea di raccogliere fondi per le nostre spese legali. Noi l'abbiamo ringraziata, ma non vogliamo niente. Quello che abbiamo capito però è quello che stava dietro a questa proposta: un affetto davvero immenso".

Avete reso pubbliche immagini, video e molto materiale sul caso. Perché è importante che la storia della morte di Riccardo si conosca?

"E' importantissimo: la gente deve capire che la Ricky ha subito un'ingiustizia. Io all'inizio neppure volevo sentirle le urla di Riccardo e non volevo vedere il video. Sono stati l'avvocato Fabio Anselmo e il senatore Luigi Manconi a convincermi. Quando ho sentito quella voce mi si è aperto e sanguinato il cuore. Continua a chiedere aiuto ma lo fa in maniera educata e lo ha fatto fino all'ultimo respiro. Se fosse successo a me gli avrei detto di tutto ai carabinieri e lui mentre veniva torturato non lo ha fatto. Noi non ce l'abbiamo con l'arma anzi vorremmo che chi fa bene il proprio lavoro prendesse le distanze da chi quella divisa non la merita".

Quindi anche Lei come Patrizia Moretti, Lucia Uva e Ilaria Cucchi pensa che chi porta una divisa e sbaglia deve togliersela?

"Quella divisa ha un senso di onore e chi si comporta male non deve indossarla. Ricky chiedeva aiuto, in più non aveva aggredito nessuno. I testimoni lo hanno smentito. Pensi che pure io all'inizio credevo a quello che mi era stato detto nonostante sia stato io a chiamare il brigadiere dei carabinieri per sapere cosa era successo a Riccardo. Lui mi rispose che era morto per infarto, che aveva fatto il pazzo, che aveva aggredito una donna. Poi c'è stato un momento in cui ho capito che qualcosa non andava. Fino a che noi non abbiamo denunciato i militari e i paramedici l'unico indagato era Riccardo, mentre lui era una brava persona, onesta, leale ed educata. Adesso sappiamo la verità e andremo fino in fondo".

Patrizia Moretti è ancora impegnata dopo più di otto anni nella battaglia per chiedere verità e giustizia per Federico. La sua battaglia è appena cominciata. Fino a quando durerà?

"Ho 63 anni, sono in buona salute e posso andare avanti fino a che non vivo. Quando morirò io c'è Andrea, suo fratello. Poi ci sono i nostri nipoti Duccio e Brando. Fino a quando non avremo giustizia non ci fermeremo. Riccardo era una brava persona, hanno voluto farlo sembrare un delinquente. Noi siamo dalla parte della ragione, siamo noi la verità".

I legali dei soccorritori della Croce Rossa indagati: "Massaggio cardiaco mentre era ancora ammanettato", scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. “Riferendo i militari di una situazione altamente pericolosa, non è stato possibile prestare soccorso. Le reiterate richieste di togliere le manette o cambiare posizione al paziente, provenienti dai volontari della Croce Rossa, sono rimaste tutte vane. Il giovane è stato liberato dalle manette solo a massaggio cardiaco già iniziato”. E' la difesa dei legali dei tre volontari della Croce Rossa indagati per il caso Riccardo Magherini, morto la notte del 2 marzo in Borgo San Frediano durante un fermo dei carabinieri. I volontari sono indagati per omicidio colposo insieme a due operatori del 118 che coordinarono le operazioni di soccorso e al medico e all'infermiere che tentarono di rianimare Riccardo. Sul registro degli indagati anche i 4 militari intervenuti sul posto accusati di omicidio preterintenzionale. Sono le 1,32 quando l'ambulanza con i tre volontari arriva in Borgo San Frediano. “Mentre i volontari cercavano di avvicinarsi alla persona immobilizzata- dicono gli avvocati Massimiliano Manzo e Andrea Marsili Libelli- un carabiniere è andato loro incontro chiedendo in maniera vistosamente agitata, quasi aggressiva, se fra di loro vi fosse un medico, in quanto la persona era pericolosa, violenta e necessitava di essere sedata. Diversi militari si alternavano nel tenere le mani ammanettate e dietro al schiena del soggetto: chi a cavalcioni, chi con un ginocchio, chi con le mani. Una delle volontarie chiedeva al caposquadra di informare la centrale operativa del 118 circa il fatto che i carabinieri impedivano qualsivoglia valutazione del paziente”. Tempo pochi minuti e sul posto arriva anche il medico chiamato per sedare Riccardo. “Il medico chiedeva di togliere immediatamente le manette, giacché, diversamente, qualsiasi manovra di soccorsa sarebbe stata del tutto inefficace, se non impossibile- spiegano ancora. Tuttavia i militari riferivano di non trovare le chiavi delle manette, per cui i primi soccorsi (finalmente autorizzati dai militari) sono stati posti in essere con Magherini ancora ammanettato”. Chiusura, infine, sulle dichiarazioni dei tre volontari rese poche ore la tragedia davanti agli stessi carabinieri. Una testimonianza che sarebbe stata viziata da un pesante condizionamento psicologico: “Alle tre di notte due militari già presenti in Borgo San Frediano hanno sentito a sommarie informazioni uno dei volontari, nella stessa stanza con il corpo di Magherini, con comprensibile sgomento della stessa. Ed in un simile contesto, la volontaria, ancora tremante per la morte del giovane avrebbe potuto dichiarare qualunque cosa, decidendo lo stesso militare come e cosa inserire nel verbale. Tali accertamenti - concludono gli avvocati - sono viziati da assoluta nullità, del tutto inutilizzabili”. La Replica. "Leggo, oserei dire, con stupore il comunicato stampa dei difensori dei volontari della Croce Rossa che contiene la segnalazione di svariati profili di indagini tuttora in corso di accertamento". Lo dice in una nota l'avvocato Francesco Maresca, difensore dei quattro carabinieri indagati con l'accusa di omicidio preterintenzionale. "Nello stigmatizzare ancora una volta la scelta di utilizzare i giornali per presentare le proprie valutazioni processuali - continua Maresca - sono costretto a ricordare che i carabinieri intervenuti, come risulta agli atti, hanno reiteratamente richiesto e sollecitato l'intervento del 118, e quindi che gli stessi abbiano poi ostacolato gli accertamenti dei sanitari appare oggettivamente incomprensibile". E questo "sia in riferimento al caso specifico ma, ancor più, in riferimento in generale a tutti gli interventi svolti dagli operatori dell'Arma dei carabinieri" aggiunge. "Peraltro, le sommarie informazioni assunte da una dei volontari della Cri risultavano, evidentemente, prassi di indagine nell'immediatezza del decesso di una persona, così come sempre vengono svolte dagli operatori di polizia giudiziaria in seguito a un episodio del genere" prosegue la nota dell'avvocato. "Dichiarazioni poi confermate nel loro tenore dalla stessa operatrice successivamente davanti alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero e riscontrate nel contenuto circa lo svolgimento dei fatti anche da quelle degli altri volontari anch'essi sentiti nell'immediatezza e successivamente. Quale difensore dei carabinieri indagati, resto in attesa della conclusione delle indagini preliminari, ritenendo che l'intervento degli stessi è stato realizzato secondo protocollo". "Aumentano le persone da querelare per il collega Francesco Maresca". Lo dice l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino morto in strada nella notte tra il 2 e il 3 marzo, dopo l'arresto, commentando il comunicato stampa dei difensori dei tre volontari della Cri, indagati insieme ai carabinieri, a 2 sanitari e a 2 operatori del 118 nell'inchiesta sulla morte dell'uomo. "Prendo atto di quanto accadde durante l'intervento - conclude l'avvocato Anselmo riferendosi alla ricostruzione dei legali dei volontari dell'ambulanza intervenuti sul posto -: presto decideremo cosa fare con la famiglia Magherini".

RICCARDO MAGHERINI, DOV’E’ LA VERITA’ TRA LE TANTE VERITA'? NUOVA VITTIMA DI MALAPOLIZIA?

Morte di Magherini, la Procura: «Processate militari e soccorritori». Si tratta di quattro carabinieri e tre volontari accusati di omicidio colposo. Il fratello della vittima: «Non finirà come il caso Cucchi, qui ci sono stati testimoni», scrive Antonella Mollica su  “Il Corriere della Sera”. La Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone per la morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore di 39 anni morto durante l’arresto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorso mentre era in preda a una crisi di panico scatenata dalla cocaina. Nella richiesta inviata al gip il pm Luigi Bocciolini e il procuratore capo Giuseppe Creazzo contestano in reato di omicidio colposo per quattro carabinieri e tre volontari che quella notte intervennero in Borgo San Frediano con l’ambulanza del 118 dopo che Magherini era stato fermato. A uno dei militari viene anche contestato il reato di percosse per alcuni calci che sarebbero stati sferrati mentre Magherini era a terra, già immobilizzato e ammanettato. Magherini, secondo la ricostruzione dei consulenti medico legali della Procura, morì per la excited delirium syndrome causata dalla cocaina e dall’asfissia determinata dalla posizione in cui venne tenuto quella notte: per oltre 20 minuti in posizione prona, con le braccia ammanettate dietro la schiena. La famiglia: nostro avversario è la prescrizione. «Le richieste di rinvio a giudizio sono una bella notizia. E ciò che differenzia la vicenda di Riccardo dalle altre, penso a quella di Cucchi, è che è successo tutto in una strada, con testimoni alle finestre», commenta Andrea, fratello di Riccardo Magherini. «Il nostro avversario è la prescrizione - ha aggiunto il padre Guido - Siamo contenti di andare a processo, è già un ottimo risultato, visto anche come vanno a finire altre vicende, come quella di Stefano Cucchi».

Secondo quanto dichiarato dall'Asl di Firenze alle 1.23 del 4 marzo 2014 il 118 di Firenze riceveva la chiamata dei carabinieri per un uomo in forte stato di agitazione. Alle 1.33 il personale paramedico è intervenuto sul posto trovando però l'uomo in un fortissimo stato di agitazione e hanno chiesto l'intervento di un medico per la sedazione arrivato alle 1.44. Secondo quanto comunicato dall'azienda all'arrivo del medico l'uomo si sarebbe già trovato in arresto cardiaco. Dopo vari tentativi di rianimazione è stato deciso il trasporto alle 2.12 verso l'ospedale di Santa Maria Nuova dove l'ambulanza è giunta alle 2.25. Alle 2.45 è stato dichiarato il decesso.

Riccardo Magherini, nuova vittima della malapolizia? Si chiede “Articolo 3”. Lo conoscevano, nel capoluogo toscano. Era stato una giovane promessa del calcio fiorentino e, proprio con la Primavera viola, vinse il torneo di Viareggio del '92, vetrina per giovani campioni. Il suo nome tra i "big" sembrava già scritto, se non che, proprio in quell'occasione, un infortunio gli costò la rottura dei legamenti e la distruzione di un sogno. Riccardo Magherini: si chiamava così, quel giovane campione che vide le sue ambizioni spazzate via, 22 anni fa. Tentò ancora fortuna nel calcio australiano, ma inutilmente. Tornato in Italia poco tempo dopo, disse semplicemente addio al mondo nel pallone, per ricominciare una vita nuova, lasciando che la sua passione restasse un ricordo, il suo nome ricordato dai più fedeli appassionati. Certo non poteva immaginare che il suo stesso nome sarebbe finito sulle pagine dei giornali, nella cronaca nera, per una morte tanto controversa quanto misteriosa. Perché Magherini è deceduto così: inspiegabilmente, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, mentre i carabinieri tentavano di arrestarlo. Il suo cuore ha smesso di battere, probabilmente per infarto, e le ricostruzioni di quei momenti sono contrastanti, poco chiare. Magherini si trovava a Firenze, in pizzeria, ieri sera. Era con un gruppo di amici, una serata in compagnia forse organizzata per sollevargli il morale: da pochi giorni si era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto anche una figlia, ora di due anni, ed era tornato a vivere con la madre, a quarant'anni. Una pausa, quella cena, anche dal suo lavoro, che alcuni hanno definito stressante: curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi in Toscana. Durante la cena era parso iperattivo, ma non aveva dato alcun segno di una crisi imminente. Quella che, invece, lo ha colpito nel momento in cui i suoi amici l'hanno lasciato solo. "Qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa", riferiscono fonti del comando provinciale dei carabinieri, riportate da Repubblica. Ha iniziato ad agitarsi: ha tentato di sfondare alcune vetrine e ha sottratto un cellulare ad un cameriere del locale "Borgo la pizza". "Mi vogliono sparare", aveva denunciato, "fammi chiamare la polizia". E poi la frenesia: in strada si è messo a correre e urlare, svegliando tutti. Ha rincorso addirittura un'automobile, per poi introdursi nell'abitacolo. "Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola", ha spiegato la proprietaria, interpellata sempre da Repubblica. A quel punto sono giunti i carabinieri, allertati dalla cittadinanza. In due. Con le mani alzate, si sono avvicinati all'ex campione che, però, ha reagito con violenza: spintoni e pugni. Immediatamente, sono giunti i rinforzi: altri due uomini in divisa hanno raggiunto Magherini e l'hanno bloccato. Immobilizzato in terra dai quattro militari, sull'asfalto di Borgo San Frediano, l'uomo è morto. Era da poco passata l'1 di notte, la chiamata al 118 è partita infatti all'1.23. Alle 2.45, Magherini è stato dichiarato deceduto, stroncato dall'arresto cardiaco. Ma i dubbi sono tanti. Chi era in strada, ieri sera, offre versioni discordanti. C'è chi parla di un intervento legittimo e regolare, chi, invece, getta ombre pesanti sul modo di operare dei 4 militari. Magherini "era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia", ha raccontato una giovane al quotidiano di De Benedetti. "Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere." Il pm Luigi Bocciolini ha disposto l'autopsia: si vuole chiarire se le denunce di violenza possano essere attendibili. "Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto", ha chiosato il padre, Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, intervistato da La Nazione. "Per me, è morto dalla paura. L’ho visto, Riccardo: ha il viso pieno di ematomi." A dimostrarlo, ci sarebbero delle fotografie, scattate dal fratello della vittima. Il volto, in effetti, presenta alcune escoriazioni, che potrebbero, però, essere state causate dall'attrito con l'asfalto. Resta da chiarire anche cosa possa aver scatenato la crisi. Secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un violento attacco di panico, dovuto all'assunzione di farmaci antidepressivi e alcool.

Riccardo Magherini: la strana morte durante l’arresto dei carabinieri, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva gridato. Ha perso la vita, stroncato da un infarto sull'asfalto di San Frediano, a Firenze, immobilizzato per terra mentre cercavano di arrestarlo. Contrastanti le ricostruzioni: alcuni testimoni hanno denunciato presunte violenze. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva denunciato Riccardo Magherini, ex giovane promessa della Fiorentina. Poi, dopo aver sfondato delle vetrine e rubato un cellulare, ha perso la vita. Stroncato da un infarto, mentre veniva immobilizzato per terra da quattro carabinieri che cercavano di arrestarlo. Non mancano le perplessità sulla controversa morte dell’ex calciatore, oggi 40enne, deceduto sull’asfalto di una strada di Borgo San Frediano, a Firenze. Tra i testimoni c’è chi ha denunciato di aver visto gli agenti colpire l’uomo con calci all’addome. E chi, al contrario, ha spiegato come tutto sia avvenuto in modo regolare. Attesi per oggi i risultati dell’autopsia, che potranno svelare maggiori dettagli sulla vicenda. Nonostante le discordanze, in base al racconto di alcuni testimoni si è tentato di ricostruire il caso. Repubblica ha riportato la versione del comando provinciale dei carabinieri:  «L’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Correva per strada, Riccardo Magherini. Chiedendo aiuto, urlando, in forte stato confusionale. «Mi vogliono sparare», gridava, denunciando di essere inseguito e di voler chiamare la polizia. Forse vittima di un violento attacco di panico, aveva sfondato alcune vetrine e rubato un telefonino a un lavoratore del locale «Borgo la Pizza». Per poi cominciare a rincorrere un’automobile, riuscendo a entrare nella vettura. «Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola», ha raccontato a Repubblica la proprietaria. All’arrivo degli agenti, avrebbe reagito con urla e spintoni. In quattro l’hanno immobilizzato. L’uomo ha cercato di resistere, poi ha smesso di dimenarsi, vittima di un infarto. Inutili sono stati i tentativi di rianimarlo. Ma sulla strana fine non mancano i dubbi: non sono ancora emerse responsabilità dei carabinieri intervenuti, ma è stato il pm Luigi Bocciolini a disporre per oggi l’autopsia, nel tentativo di verificare se le denunce di presunte violenze siano attendibili.  Sposato e padre di una bambina di 2 anni, era andato a vivere dalla madre, dopo la separazione dalla moglie, soltanto pochi giorni fa. Il padre Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, ha spiegato alla Nazione di voler aspettare l’autopsia per capire come comportarsi: «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi», ha denunciato. Il fratello di Riccardo ha fotografato il corpo. Secondo un primo esame esterno, il volto presenta alcune escoriazioni. Come spiega il quotidiano del gruppo QN, il familiare ha tentato di ripercorrere le ultime ore del figlio.  «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici», ha spiegato. Giovane promessa del calcio fiorentino, Riccardo Magherini aveva anche vinto con la Primavera viola allenata da Mimmo Caso il torneo di Viareggio del 1992. Ma un grave infortunio – nella semifinale di quel torneo – gli costò la rottura dei legamenti, contribuendo a spezzare le sue ambizioni. Aveva tentato anche fortuna nel calcio australiano, per poi tornare in Italia e abbandonare il mondo del calcio. Per il 40enne il calcio era ormai il passato: dopo aver passato diversi anni a Palermo, era tornato a Firenze, dove curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi, così come ha riportato il Corriere fiorentino. Forse è stato proprio il nuovo lavoro a procurargli dello stress. Avrebbe preso una tachipirina, dopo aver bevuto,  secondo il racconto di alcuni amici. Un mix che potrebbe avergli causato un violento attacco di panico. Poi, la fuga per strada, le urla, la vetrina sfondata. E, dopo l’arrivo degli agenti e la colluttazione, l’infarto e la morte sull’asfalto di San Frediano.  Tutto in attesa dell’autopsia attesa dai familiari.

La scomparsa di Riccardo Magherini, il padre Guido: "E' morto dalla paura...". "È morto d'infarto in circostanze da chiarire", ha concluso il padre, che non sa trovare una spiegazione a quanto accaduto. "Abbiamo già preso contatto con un medico legale che prenderà parte all'autopsia. Solo dopo decideremo se presentare una denuncia", scrive Stefano Brogioni su La Nazione.

La Nazione (Stefano Brogioni) ha raccolto il dolore di Guido Magherini, padre di Riccardo, scomparso prematuramente l'altra notte sui cui le dinamiche devono ancora essere chiarite... Alla Famiglia Magherini le più sentite condoglianze dalla redazione di Fiorentina.it e dai tifosi viola per la scomparsa di Riccardo. «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici». Ma Guido Magherini, ex calciatore di Rondinella, Milan, Lazio e Palermo, vuole vederci chiaro sulle cause dell’infarto che avrebbe stroncato la vita, ad appena quarant’anni, di suo figlio Riccardo. All’autopsia, disposta oggi dal pm Luigi Bocciolini, parteciperà anche un perito nominato dalla famiglia. «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi». Assieme a Massimiliano Papucci, l’attuale allenatore della Rondinella e amico di vecchia data della famiglia, Guido ha ripercorso le tappe dell’ultima sera di Riccardo. Ha parlato con chi l’ha visto arrivare, delirante, confuso, e con chi ha tentato di aiutarlo prima che fosse troppo tardi. Ma gli interrogativi sono tanti. Troppi, davanti alla morte di uno sportivo amato e benvoluto. Il calcio, però, era ormai il passato di Magherini. Adesso, era concentrato — forse persino in ansia — per il suo nuovo lavoro: era diventato l’art designer di un ricchissimo arabo. In questo periodo, questa persona era venuta ad affrontare un’operazione chirurgica a Firenze. Riccardo stava curando questa sua trasferta nei minimi dettagli. «Questo gli aveva procurato dello stress», ammettono gli amici. Domenica sera, Magherini ha cenato in borgo San Frediano con il fratello dell’arabo, poi è rientrato in un hotel di Borgognissanti, dove aveva alloggiato anche lui per stare vicino al gruppo. «Riccardo non si era sentito bene, aveva preso una tachipirina. Ma ha anche bevuto», hanno ricostruito. Un mix che gli avrebbe scatenato una crisi. Quando si è ritrovato da solo, prima di andare a letto, avrebbe avuto un attacco di panico, forse addirittura delle allucinazioni. Smarrito, anzichè salire in camera, ha cominciato a vagare, senza il telefono che i carabinieri stanno ancora cercando. Ha attraversato il ponte, è arrivato in San Frediano. Casa sua. «Urlava ’aiuto, aiuto, mi vogliono ammazzare’», riferisce il padre, dopo aver parlato con i titolari dei locali visitati da Riccardo nel delirio. Infine, la colluttazione con i carabinieri. «Ne ha ferito uno quando aveva già il bracciale delle manette a un polso, colpendolo in fronte». E poi? «Quando è arrivata l’ambulanza, mio figlio era già morto». Per le risposte, quelle ufficiali, parola dunque all’indagine della procura. Riccardo, sanfredianino doc, dopo il calcio aveva gestito un negozio di abbigliamento nel suo rione. Non aveva problemi economici, nemmeno di droga, e, dice chi gli è stato vicino, anche la separazione dalla moglie «era una pausa di riflessione». Su Facebook, la bacheca dell’ex calciatore è intasata dagli addii di chi gli voleva bene. «Era un trascinatore, un leader, nel calcio e nella vita», dice Massimiliano Papucci. E scende una lacrima. Quella che hanno versato i tanti amici del Maghero.

E’ morto in circostanze strane l’ex biancazzurro Riccardo Magherini. Un pensiero di commozione affidato a Facebook dall’amministratore delegato dell’Ac Prato, Paolo Toccafondi che lo ricorda come un “imperdonabile splendido diverso”, scrive Pasquale Petrella su “Il Tirreno”. «Ciao Riky.....ti voglio ricordare così....un imperdonabile splendido diverso....!!!» Sono queste le parole di commiato affidate a Facebook da Paolo Toccafondi, amministratore delegato dell’Ac Prato - società di calcio che milita in Prima Divisione - per Riccardo Magherini, giocatore biancazzurro nella stagione 1998/99, morto in circostanze alquanto strane il 3 marzo a Firenze all’età di 40 anni. "Era un bravissimo ragazzo, estroso, un pò naif - così Paolo Toccafondi - L'ultima volta che l'ho visto è stato circa un anno fa. So che faceva l'arredatore e che aveva fra i suoi clienti soprattutto dei facoltosi arabi. Ma il mio ricordo di Riccardo è legato soprattutto al periodo in cui abbiamo giocato insieme nel Prato nel 1998-99. Era la prima stagione da allenatore di Ciccio Esposito e abbiamo raggiunto anche la finale playoff. E ancora prima, quando sono stato una stagione a Foggia, abbiamo condiviso una parte del ritiro". "Sono estremamente dispiaciuto per lui e per la sua famiglia. Il Maghero, come lo chiamavamo, era un buono, fuori dagli schemi del calciatore tradizionale. Era di una grande semplicità. Era capace di dormire in una cantina come in un Grand Hotel con la stessa disinvoltura".

È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo aver creato non pochi problemi in un paio di pizzerie e ad un’automobilista costretta a scappare dalla propria auto, i carabinieri lo hanno immobilizzato e chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l'intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l'uomo in arresto cardiaco. Un'ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione.

4 marzo 2014, muore Riccardo Magherini: ecco le versioni date dai giornalisti.

Magherini jr, tragica fine, scrive “Sportal". Nel 1992, neanche diciottenne, era una promessa della Fiorentina di Mimmo Caso, tanto da vincere un Torneo di Viareggio. Nel 2014, a quarant'anni, ha trovato la morte dopo essere stato arrestato. E' tragica la storia di Riccardo Magherini, figlio dell'ex attaccante di Milan e Lazio Guido Magherini. Secondo quanto riferito da 'Il Tirreno', il 40enne era stato fermato in località Borgo San Frediano in stato confusionale mentre vagava seminudo. Dopo averlo immobilizzato, i carabinieri hanno chiamato il 118. I volontari della Croce Rossa hanno trovato l'uomo in stato di agitazione, tanto da richiedere l'intervento di un nuovo medico che però, accorso sul luogo dieci minuti dopo, ha trovato Magherini già in arresto cardiaco. Inutili i tentativi di rianimazione, l'ex promessa si è spenta in ospedale un'ora dopo. Secondo la ricostruzione de 'Il Tirreno', Magherini prima dell'intervento dei militari aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata e portato via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. In seguito era salito sul sedile posteriore di un'auto, spaventando la donna che si trovava al volante, che ha abbandonato la vettura. La scena si è ripetuta in seguito in un'altra pizzeria. All'arrivo dei carabinieri Magherini si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiamare un'altra pattuglia.

Muore in strada mentre lo arrestano. La Procura di Firenze apre un’inchiesta. Al momento del fermo il 40enne vagava in evidente stato confusionale.  Si pensa a un attacco cardiaco. Pochi giorni fa la separazione dalla moglie, scrive “La Stampa”. È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, 40 anni, fiorentino, ieri vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo averlo immobilizzato, i militari hanno chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l’intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione. Il pm Luigi Bocciolini ha aperto un’inchiesta, affidando gli accertamenti a un pool di carabinieri e poliziotti e disponendo l’autopsia, che sarà eseguita domani. Non ci sono indagati. Stamani i familiari del quarantenne sono stati all’istituto di medicina legale per vedere la salma. Sposato, fino a poco tempo fa titolare di un negozio nel centro di Firenze, da alcuni giorni Magherini si era separato dalla moglie ed era andato a vivere con la madre. Il padre, Guido Magherini, è stato un calciatore di serie A.  La scorsa notte, prima dell’arrivo dei militari, Magherini aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata, portando via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto, dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi era salito sul sedile posteriore di un’auto: al volante c’era una donna, che era fuggita impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, era entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri, si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari erano riusciti a immobilizzarlo a terra e ad ammanettarlo.  

Muore in strada mentre i carabinieri lo arrestano. Testimonianze contrastanti: “Preso a calci”, “Lo tenevano solo a terra”, scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. E’ morto sull’asfalto di Borgo San Frediano, circondato dai carabinieri e dai volontari del 118 che avevano invano cercato di rianimarlo. Riccardo Magherini aveva 40 anni, una moglie e un figlio piccolo di due anni. Nella notte tra domenica e lunedì ha perso la vita dopo essere stato arrestato: completamente fuori di sé, forse per un violento attacco di panico, ha sfondato la vetrina di una pizzeria e strappato il cellulare ad un dipendente: «Mi vogliono sparare, devo chiamare la polizia», ha detto. I carabinieri l’hanno bloccato in strada dopo un lungo parapiglia (4 militari sono stati curati con ferite guaribili tra i 2 e i 10 giorni), sotto gli occhi di decine di persone affacciate alle finestre e di alcuni passanti. Poi, mentre si trovava bloccato a terra, ha smesso di dimenarsi e di urlare. Stroncato da un infarto. La vicenda ha fatto scattare gli accertamenti da parte della procura, con il pm Luigi Bocciolini che ha disposto l’autopsia per chiarire con esattezza le cause della morte. Al momento non sono emerse responsabilità da parte dei carabinieri intervenuti, tanto che l’esame autoptico è stato fissato senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati. Sei persone hanno dichiarato che l’intervento è stato regolare, ma altri testimoni parlano di violenze. Secondo la ricostruzione del comando provinciale dei carabinieri, l’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Fatto sta che ha cominciato a vagare nel quartiere di San Frediano in stato confusionale, con urla così forti da essere sentite a centinaia di metri di distanza: «Si è presentato con l’aria sconvolta — racconta un lavoratore della pizzeria Borgo la Pizza — diceva che qualcuno voleva sparargli. Gli ho detto di calmarsi e che avrei chiamato la polizia, ma lui ha tirato una spallata alla vetrina, mi ha strappato il cellulare di mano ed è corso fuori». Pochi secondi e poi ha cominciato a rincorrere un’auto: «Ho visto che cercava di affiancarsi, ho accelerato ma è riuscito ad aprire la portiera e a salire in corsa — racconta la donna al volante — lo conoscevo di vista, non sembrava pericoloso ma era fuori di sé. Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola». L’arrivo delle gazzelle pochi istanti più tardi, dopo che l’uomo era entrato e uscito da un’altra pizzeria della zona (da Gherardo). I primi due carabinieri si sarebbero fatti avanti con le mani alzate nel tentativo di tranquillizzarlo, ma Riccardo avrebbe reagito con urla e spintoni. Sono arrivati i rinforzi e in quattro l’hanno immobilizzato dopo un lungo parapiglia. I primi soccorsi sono stati quelli dei volontari della Croce Rossa (la chiamata al 118 è delle 1.23), che hanno trovato l’uomo in gravi condizioni tanto da richiedere l’intervento di un medico. Poi le disperate operazioni di rianimazione, terminate alle 2.45 a Santa Maria Nuova con la constatazione di morte. Bianca Ruta, una studentessa di 26 anni che ha assistito alla scena dalla finestra, chiama in causa l’operato dei militari: «La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti». Un altro testimone dà una versione opposta: «Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani».

Riccardo Magherini è morto la notte tra 3 e 4 marzo 2014 per una crisi cardiaca che lo ha colpito durante l’arresto a Firenze, scrive “Blitz Quotidiano”. Magherini, 40 anni, era in forte stato confusionale e di agitazione dopo aver rubato un cellulare e distrutto alcune vetrine. “Mi vogliono uccidere, aiutatemi”, gridava ai negozianti e alle auto di passaggio. All’arrivo dei carabinieri di Borgo San Frediano l’uomo li ha aggrediti: è stato immobilizzato a terra e ammanettato, poi ha accusato il malore. Secondo alcuni testimoni però gli agenti non si sarebbero limitati ad immobilizzarlo, ma lo avrebbero picchiato mentre era giàò a terra. Per determinare le cause della morte il pm Luigi Bocciolini ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo. Secondo una prima ricostruzione, all’1 di notte del 4 marzo Magherini si aggirava a torso nudo in borgo San Frediano gridando in evidente stato di agitazione, dicendo che volevano ucciderlo e chiedendo aiuto. Prima dell’arrivo dei militari, in base alle testimonianze raccolte dagli investigatori, avrebbe sfondato la porta di una pizzeria facendo saltare la serratura con una spallata e ha chiesto aiuto al pizzaiolo, il solo rimasto all’interno, dicendo che era inseguito e che qualcuno voleva ucciderlo, quindi è uscito portandogli via il cellulare. Poi è salito sul sedile posteriore di un’auto in transito: la conducente, una ragazza, è scesa impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, è entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto, e ne uscito subito dopo urtando violentemente contro una porta a vetri e danneggiandola. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri si è scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari intervenuti sono riusciti a immobilizzarlo a terra e poi ad ammanettarlo. A chiamare il 118 proprio i carabinieri, ma all’arrivo dei sanitari circa 10 minuti dopo la chiamata hanno trovato Magherini in arresto cardiaco e dopo 40 minuti di tentativi di rianimazione l’uomo è stato dichiarato morto.  Non escluso, sempre secondo quanto spiegato dai carabinieri, che l’uomo avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. Sposato, padre di una bimba di 2 anni, da alcuni giorni si era separato dalla moglie e era andato a vivere con la madre. In base a quanto accertato dai carabinieri, fino a poco tempo fa era titolare di un negozio nel centro di Firenze. Ora il pm ha disposto l’autopsia sul corpo di Magherini, soprattutto dopo la dichiarazione di Bianca Ruta, studentessa di 26 anni, ha dichiarato a Repubblica di aver visto i militari picchiare l’uomo già a terra: “«La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti. Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani»”.

Polizia violenta?

Buffon accusa "Picchiato dalla polizia". Il portiere della Nazionale: "Sono stato aggredito da agenti in divisa dopo la partita di Firenze. Mi hanno tirato giù dall'auto. Poi le botte. Nessuno mi ha dato una spiegazione". A sentirlo raccontare, viene quasi da non crederci, ma Gigi Buffon non ha l'aria di chi ha voglia di scherzare, scrive il 14 giugno 2001 “La Repubblica”. Il portiere del Parma e della Nazionale spiega quello che gli è accaduto mercoledì sera dopo la finale di Coppa Italia e sembra incredulo pure lui: "Dopo la sconfitta con la Fiorentina mi è stato consigliato di incolonnarmi con la mia auto dietro i pullman che riportavano in Emilia i tifosi gialloblu. Giunti al piazzale del casello di Firenze Sud li ho superati ma sono stato fermato da una decina di poliziotti. Dopo essere stato tirato giù dalla macchina ho passato quindici secondi veramente infernali, nei quali ho preso anche dei calci e degli schiaffi. Non mi spiego il motivo per il quale sia successo tutto ciò e, d'altro canto, nessuno dei militari mi ha dato una spiegazione". Parla tutto d'un fiato, poi aggiunge: "Ho cercato di difendermi, poi ho sentito uno di loro che gridava, ma questo è Buffon, altri hanno però continuato a picchiarmi". Il portiere ripete che non riesce a spiegarsi cosa possa essere successo: "Mi hanno scambiato per un ultras all'inseguimento del pullman del Parma? Un ultras in Porsche? Davvero non capisco". Sin qui lo sfogo, poi Buffon però si ferma. Controlla gli aggettivi e dal suo vocabolario tira fuori il termine che gli sembra più appropriato: "E' stata una vaccata, anche loro se ne sono accorti. Fondamentalmente credo sia stato un po' eccessivo, anche se nulla di grave. Però credo che se avessi parlato subito dopo, i miei toni sarebbero stati diversi". Farà denunce? "No, dopo tanti casini che ho avuto, ho voglia di stare tranquillo". Il riferimento è alle polemiche sulla scritta "Boia chi molla" stampigliata sulla sua maglia, sulla scelta del numero 88, poi sostituito dal 77 dopo le proteste di esponenti della comunità ebraica (in entrambi i casi il portiere ha detto di essere stato all'oscuro dei significati politici delle due questioni) e al diploma di maturità falso che lo hanno portato al centro della cronaca non sportiva: "Ho avuto tanti casini che poi, addirittura quando non c' entro, mi buttano dentro. Questa volta credo di no". La chiusura è con battuta per sdrammatizzare: "Tutti tifosi giallorossi? Ma se erano quindici...mica potevano essere tutti della Roma....".

Il caso di Magherini mi ricorda tanto altri casi analoghi.

La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.

IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.

"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.

''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.

''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.

Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.

Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.

"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."

Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.

LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.

Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.

Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.

NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.

Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.

Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.

Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.

A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.

A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.

Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.

Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.

Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.

A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.

SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA, E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.

Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.

Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.

Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.

Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»