Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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I DELITTI DI STATO
STEFANO CUCCHI
& COMPANY
DI ANTONIO GIANGRANDE
LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA.
QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
SOMMARIO
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
LA DISUGUAGLIANZA DELLA GIUSTIZIA.
DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.
TORTURA DI STATO.
TORTURA, TORTURATI E TORTURATORI.
PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.
IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.
IL CASO DI STEFANO CUCCHI.
IL CASO DI RICCARDO MAGHERINI.
IL CASO DI GIUSEPPE UVA.
IL CASO DI ALDO BIANZINO.
IL CASO DI FEDERICO ALDROVANDI.
IL CASO DI RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.
IL CASO DI LUIGI MARINELLI.
IL CASO DI MICHELE FERRULLI.
IL CASO DI FEDERICO PERNA.
IL CASO DI MARCELLO LONZI.
IL CASO ISIDRO DIAZ.
IL CASO DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI.
IL CASO DI ANDREA SOLDI.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
Sarah Scazzi, avvocato di Cosima rivela: “Innocente, è preoccupata per sua figlia Sabrina”, “Urban Post” il 7 marzo 2016. Le dichiarazioni di Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, in merito alla condanna della sua assistita e della figlia Sabrina: “In carcere da innocenti, Cosima è preoccupata per la figlia”. A otto mesi dalla sentenza con la quale i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Taranto avevano confermato in secondo grado la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ritenute colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi, rispettivamente nipote e cugina delle due donne, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010, il loro avvocato rompe il silenzio. Francesco De Jaco, il legale che rappresenta Cosima Serrano, è intervenuto in merito al ricorso in Cassazione, in attesa che il prossimo giugno inizi il processo. “L’ambiente in cui i due primi processi si sono svolti erano inidonei ad essere teatro di questa tristissima vicenda, lo ha detto anche il procuratore generale della Corte di Cassazione. Lui stesso aveva sostenuto la tesi dell’incompatibilità ambientale del processo”, così De Jaco nel suo intervento alla trasmissione “Legge o giustizia”, su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. L’avvocato ha dunque evidenziato i gravi ritardi nelle procedure, e un presunto vizio di fondo che avrebbe irrimediabilmente intaccato il corretto svolgimento dei procedimenti a carico delle due donne: “A tutt’oggi le motivazioni del processo di secondo grado non sono ancora state depositate. I 90 giorni che la Corte d’Assise si era assegnata sono stati ampiamente superati, anche quelli della successiva proroga. Avrebbero dovuto essere notificate un mese e mezzo fa. Noi invece avremo tassativamente 45 giorni per ricorrere in Cassazione, replicando alle motivazioni della Corte d’Assise. Già questo dimostra che questo processo non si doveva svolgere a Taranto”. A fronte di queste esternazioni, l’avvocato De Jaco ha poi auspicato che il processo in Cassazione possa finalmente svolgersi senza alcun condizionamento: “Noi ci auguriamo che finalmente un giudice terzo possa valutare con più serenità ed equilibrio quello che è successo […] Cosima è abbattuta, è preoccupata per la figlia più che per se stessa. Lei è angustiata perché afferma che per lei la vita è finita, mentre per la figlia non è finita e quindi è un’assurdità che Sabrina sia in carcere nonostante sia innocente. Queste due donne sono in carcere per un processo che i giudici descrivono come d’istinto, un processo basato su un omicidio d’impeto e un omicidio d’impeto non può essere stato commesso da due persone. Cosima e Sabrina non sono molto legate, Sabrina era molto più legata al padre. Cosima aveva una funzione educativa nella famiglia, che era una famiglia matriarcale”.
Sarah Scazzi, intervista esclusiva all’avvocato di Cosima Serrano: “Processo costruito sul nulla”. Intervista esclusiva di Michela Becciu su UrbanPost del 6 aprile 2016 a Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, condannata all’ergastolo insieme alla figlia, Sabrina Misseri, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Ecco le parole del legale in vista del ricorso in Cassazione. Presto inizieranno due nuovi processi per il caso Sarah Scazzi: uno avrà come imputate una serie di persone coinvolte nelle vicenda e accusate di falsa testimonianza – tra cui Ivano Russo e Michele Misseri – l’altro vedrà i difensori di Sabrina Misseri e Cosima Serrano fare ricorso in Cassazione contro la conferma dell’ergastolo in Appello nei confronti delle due donne, ritenute responsabili dell’omicidio della piccola Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010. Le motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’Appello di Taranto il 27 luglio 2015 confermò la condanna all’ergastolo per le due donne non sono state ancora depositate. Perché? Cosa si cela dietro questo madornale ritardo? E ancora, esistono prove ‘schiaccianti’ della colpevolezza di Cosima e Sabrina? Perché le perizie tecniche sulle celle telefoniche che avrebbero scagionato la signora Serrano, disposte del Tribunale nel processo d’Appello, non hanno di fatto portato alla assoluzione della zia e della cugina di Sarah Scazzi? Queste ed altre domande UrbanPost le ha rivolte direttamente a lui, Francesco De Jaco, legale difensore della signora Cosima Serrano. Ecco come ci ha risposto:
Una sentenza di condanna all’ergastolo per la sua assistita confermata in Appello dalla Corte d’Assise di Taranto, e un notevole ritardo nella deposizione delle motivazioni della stessa. Come se lo spiega, avvocato?
“Un ritardo abnorme, nel senso che sia nel primo grado che in questo le due Corti si sono spese con molto ritardo relativamente al periodo assegnato per presentare le motivazioni. Io me lo spiego molto semplicemente, perché questo è un processo costruito sul nulla e per poterlo motivare in qualche modo ovviamente ci vuole tempo; è chiaro che hanno difficoltà: se fosse una cosa semplice, le avrebbero già depositate le motivazioni. Siccome hanno difficoltà nel costruire ‘una’ verità, è chiaro che i tempi si allungano. Il problema però non è solo questo. Il problema è che alla data del deposito delle motivazioni poi partiranno termini per 45 giorni per depositare il nostro appello, e questa non è certamente parità di diritti tra accusa e difesa”.
Quindi secondo lei la verità processuale in questo caso non c’è, nei due gradi di giudizio non è stata accertata?
“La verità processuale non c’è nella misura in cui non si intende riconoscere al Misseri la sua funzione di omicida, purtroppo costruendo una verità diversa e che non trova nessun riscontro nelle vicende processuali e dibattimentali è chiaro che c’è complessità nel dover redigere delle motivazioni”.
Anche se il tempo che avrete a disposizione sarà poco, lei ha già idea di come affrontare il nuovo processo in Cassazione e di quale strategia difensiva adottare, o attende prima di conoscere queste motivazioni? Chiederete nuovi accertamenti?
“Beh, certo, le motivazioni sono fondamentali per come poi costruire il ricorso in Cassazione, sta di fatto però che alcune delle decisioni già indicate attraverso la sentenza di secondo grado ci favoriscono nel costruire un’ipotesi di difesa, cioè – per essere molto più semplici e diretti – l’assoluzione dal reato di falsa testimonianza di due persone che erano nel processo e che avevano dichiarato che il Buccolieri (il fioraio Giovanni Buccolieri, che dichiarò di avere assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, per poi ritrattare tutto dicendo che il suo era stato solo un sogno ndr) – che sarebbe ‘il sognatore’ – aveva sempre affermato che era un sogno quello che aveva raccontato. Il che significa che quello che hanno detto è vero, e se è vero quello che hanno detto, è vero che quello del Buccolieri – che pure non è mai stato ascoltato né nel primo né nel secondo grado perché si è avvalso della facoltà di non rispondere – è stato un sogno, e questa è una posizione. L’altra posizione è stata evidenziata proprio dalla Corte, nel momento in cui ha affidato a dei super tecnici la valutazione della prima indagine fatta dai Ros sui cellulari, che hanno stabilito che quel rilevamento anzitutto non poteva essere ripetuto e quindi non poteva entrare nel processo come atto ripetibile, e secondariamente non si poteva dare per scontato assolutamente il fatto che fosse un accertamento, come dire, valido”.
Nel processo d’Appello si era infatti parlato della possibilità che queste perizie tecniche scagionassero la sua assistita, però alla luce dei fatti sembra non abbiano sortito l’effetto sperato, visto che la condanna all’ergastolo per la signora Cosima Serrano è stata confermata.
“L’hanno scagionata infatti … purtroppo il processo come tutti sanno si è svolto a Taranto, ma come pochi sanno il procuratore generale della Corte di Cassazione per la prima volta durante la vicende giudiziarie italiane ha sostenuto, sposando le tesi nostre, quindi difensive, che l’ambiente tarantino non fosse idoneo a svolgere il ruolo di equa valutazione in un giudizio di questo genere e quindi era necessario spostare il processo. La Corte di Cassazione – che è sempre prudente in queste circostanze – ha ritenuto di non accogliere la richiesta del procuratore generale né quella della difesa e ha lasciato il processo a Taranto con, ovviamente, lo sviluppo che già ci aspettavamo … Il problema è che Taranto era condizionato dall’evento stesso e dalla forza mediatica che ormai aveva sposato una tesi che era quella della Procura (perché probabilmente fa maggiore auditel) e quindi era chiaro che poi si arrivasse, purtroppo, ad un risultato assolutamente fuori dal senso che dovrebbe avere la giustizia e ci ritroviamo adesso di fronte a delle persone (Cosima Serrano e Sabrina Misseri ndr) che noi riteniamo assolutamente estranee ed innocenti in carcere, con un colpevole riconosciuto e riconosciutosi assolutamente libero”.
Michele Misseri è stato rinviato a giudizio con l’accusa di autocalunnia, infatti.
“Certo, perché ha detto che è stato lui ad uccidere, ma siccome non gli hanno creduto gli hanno appioppato la denuncia per autocalunnia; il problema è, come dire, che l’ipotesi accusatoria che si è costruita la procura e che è stata sposata per difendere la stessa procura dai tribunali e dalla Corte d’Assise di Taranto portano a questa soluzione assolutamente iniqua, poi vedremo che cosa succederà in Cassazione … noi cercheremo di utilizzare tutte le armi che ci mette a disposizione il Codice per riportare nei giusti binari una vicenda così drammatica”.
Lei crede che potranno emergere nuovi elementi a favore della sua assistita, durante il processo in Cassazione?
“Posso dirle che tutti gli elementi emersi finora nel processo sono a favore della mia assistita, t-u-t-t-i. Per cui non si comprende come si possa arrivare ad una conferma di condanna. Devo dire, anche valutando in modo assolutamente obiettivo ed estraneo le circostanze e gli eventi dibattimentali, io non riesco a trovare nulla che possa portare ad una affermazione di responsabilità, poi si vedrà, non sono depositario della verità e se troverò anche in Cassazione chi mi smentisce, ne prenderò atto, insomma”.
La signora Cosima Serrano ha taciuto per anni, mai una parola sulla vicenda. Perché d’improvviso, solo al processo d’Appello, quando forse ormai era troppo tardi, ha deciso di rilasciare dichiarazioni spontanee?
“No, no. Il problema era legato anzitutto ad una strategia difensiva. Sia chiaro a tutti: quando si è imputati mai ci si deve sottoporre né a interrogatorio né alle dichiarazioni spontanee, per un semplice motivo, perché tutto quello che viene detto a proprio favore non viene preso in considerazione, ma basta una sfumatura che in qualche modo possa essere a sostegno dell’accusa, che viene presa come elemento fondamentale. Noi abbiamo deciso di non far parlare la signora Serrano, quando lei al dibattimento in Corte d’Assise ha chiesto di fare delle dichiarazioni spontanee, non abbiamo potuto far altro che accogliere la sua richiesta. Lei avrebbe sempre voluto dire la sua, siamo stati noi difensori che abbiamo ritenuto non fosse necessario”.
Michele Misseri si infuria con l'inviata di "Pomeriggio Cinque". L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto alle domande poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata, scrive Claudio Torre, Martedì 03/05/2016, su “Il Giornale”. Sabrina Misseri ai domiciliari in un convento? A fare chiarezza sul futuro della ragazza che, insieme alla madre Cosima Serrano, è stata condannata all'ergastolo in secondo grado per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi è Pomeriggio 5. Il programma condotto da Barbara d'Urso ha interpellato a riguardo don Aldo del convento di Fabriano: "Non sappiamo di richieste di trasferimento in convento, ma quella di Sabrina e della mamma è una richiesta di essere accolte ai domiciliari in una nostra struttura. Non si tratta di conventi ma di vivere in comunità in case-famiglia, ma la richiesta è stata respinta". La domanda è stata presentata però dalla stessa Sabrina. A riguardo le inviate del programma hanno provato a sentire un commento da parte del padre di Sabrina, Michele. L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata mentre replicava: "Devo chiamare i carabinieri? Qui c'è un divieto...". "Abbiamo incontrato qui Michele Misseri e da lui avremmo voluto sapere cosa ne pensa di questa richiesta della figlia ma per tutta risposa ha aggredito la nostra troupe con una secchiata d'acqua come potete vedere dalle immagini e come potete vedere da questa pozzanghera d'acqua", con queste parole si chiude il servizio. Dopo averla cacciata via a secchiate davanti casa, in via Deledda ad Avetrana, Michele Misseri ha inaspettatamente deciso di rilasciare una intervista alla inviata di Pomeriggio 5, che gli ha posto delle domande inerenti al processo sulla inchiesta Scazzi bis che inizierà il prossimo 1° giugno e lo vedrà tra i 13 imputati (tra cui Ivano Russo), accusato del reato di autocalunnia. Il contadino di Avetrana rompe dunque un silenzio che oramai durava da anni e, intercettato dalla giornalista durante il lavoro nelle sue campagne, ha parlato dell’omicidio della nipote 15enne Sarah Scazzi, di cui si autoaccusa pur non essendo ritenuto credibile dai magistrati. “Sono stato io ad ucciderla, Sabrina e Cosima sono innocenti” – ha detto in lacrime il tristemente noto ‘zio Michele’ – “Vivo ogni giorno con il rimorso, ogni volta che scendo in garage penso a Sarah … Io l’ho uccisa ma tanto nessuno mi crede. La verità la sappiamo solo io e Gesù che sta sopra di noi…”. “Sabrina sta in carcere da innocente. Le chiedo perdono per quello che le ho fatto (accusarla dell’omicidio per poi ritrattare ed assumersi la responsabilità ndr)”; A Sabrina il padre augura di fare ritorno a casa "perché è brutto stare in carcere" e le chiede perdono: "Tutti i giorni devo vivere sempre con questo rimorso. Io Sabrina sono già sei anni che non la vedo più. L'ho vista le ultime volte al processo" ma "comunque - conclude - le scrivo sempre". “Mi devo mettere in ginocchio davanti a loro a chiedere perdono per quello che ho fatto – prosegue Misseri – Io non vedo Sabrina da sei anni, l’ho vista nell’ultimo processo, le scrivo sempre, ho visto nei suoi occhi tanta tristezza. E’ dimagrita tanto. A lei chiedo solo perdono e di tornare a casa”. Michele Misseri ha inoltre parlato di Ivano Russo, anche lui tra gli imputati del processo che sta per iniziare, accusato di false attestazioni ai magistrati e sospettato di essere stato in casa Misseri poco prima che Sabrina e Cosima uccidessero la povera Sarah: “No, Ivano non c’era in casa in quel momento. No è stato mai presente in casa quel giorno”, ha assicurato il contadino.
Sabrina Misseri, nuovo ricorso: «Concedetemi di essere utile agli altri», scrive Lino Campicelli su "Il Quotidiano di Puglia” il 4 maggio 2016. Un atto d’appello e una memoria difensiva per appellarsi ai giudici, in sintesi, affinchè non siano «impietosi con una persona che mostra desiderio di socializzazione e aiuto verso il prossimo». L’atto d’appello è quello discusso ieri dall’avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo (con sentenza confermata in secondo grado) insieme con la madre Cosima Serrano per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi. In tutti gli atti, sia quelli depositati all’esame del Tribunale sia quelli di cui è stata proposta sinossi in fase di discussione orale, l’avvocato Marseglia non ha pronunciato mai il termine “responsabile” nè quello “colpevole”. In sostanza, ha evidenziato la difesa, la posizione di Sabrina Misseri, sul punto, è quella di un imputato su cui ancora non grava una sentenza definitiva passata in giudicato. Ergo, Sabrina Misseri è ancora da ritenere garantita dal principio della “presunzione di non colpevolezza” che è a fondamento dell’ordinamento giuridico nel nostro Paese. Tradotto in soldoni, il ricorso proposto dall’avvocato Marseglia, che ha impugnato il “no” con cui la Corte d’assise d’appello ha respinto la richiesta di concedere a Sabrina i domiciliari in una struttura gestita da religiosi, convento o casa-famiglia che dir si voglia, ha fatto leva sulle sentenze della Corte di Cassazione in riferimento alla disciplina delle misure cautelari personali, ma anche sulle ragioni umanitarie che imporrebbero una diversa considerazione della posizione dell’imputata. Per di più, dopo una sintetica ricostruzione delle motivazioni che hanno indotto l’Assise di secondo grado a respingere l’istanza e a ritenere congrua la misura della detenzione in carcere per Sabrina, l’avvocato Marseglia ha polemicamente rilevato come «non v’è chi non veda come la permanenza in carcere di Sabrina Misseri sia, allo stato, determinata esclusivamente dalla severa condanna riportata; circostanza che, invece di esaurire la sua inequivoca valenza cautelare sul piano della gravità indiziaria, viene sistematicamente opposta anche a sostegno della inalterata permanenza delle esigenze cautelari, apparentemente integrata da motivazioni specifiche, ma invero più tautologiche ed euristicamente ispirate». Sabrina Misseri, secondo la prospettazione difensiva, non può essere definita eternamente «socialmente pericolosa», in assenza di fatti che la “dipingano” come fonte permanente di pericolo per gli altri, nè può patire la sussistenza di esigenze cautelari da preservare in assenza di circostanze che impongano la necessità di tutelarle. In pratica, secondo l’avvocato Marseglia, la detenzione in carcere di Sabrina è da considerare “forzata”.
Niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano, scrive Maria Sirsi il 9 aprile 2016 su “Ciak Social”. La Corte d’assise d’appello di Taranto ha respinto le istanze di scarcerazione presentate dalla difesa delle due imputate, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, le due avetranesi condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In alternativa, chiedevano di poter essere ristrette ai domiciliari in due strutture religiose dell’Italia centro-settentrionale. Invece, rimarranno in carcere…niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano. Le due donne hanno sperato per lunghi giorni in questa possibile “riconversione” dello stato detentivo, ma l’ufficialità al “no” è giunta ieri attraverso l’ordinanza firmata dalla Corte che nell’estate dell’anno scorso, ha confermato il carcere a vita inflitto in primo grado per il sequestro e l’uccisione della piccola Sarah, avvenuto nell’agosto del 2010. Secondo gli avvocati Nicola Marseglia, Franco Coppi, Luigi Rella e Francesco De Jaco, sarebbero diversi i motivi per i quali l’istanza si sarebbe dovuta accogliere. La lunga detenzione già sofferta e l’assenza del deposito della motivazione della sentenza di secondo grado (è prevista entro il mese). Sempre dal punto di vista dei legali delle due donne, non vi sarebbe possibilità alcuna che le imputate possano inquinare le prove, fuggire o reiterare il medesimo reato, motivo per cui non esiste il principio che impone come categorica la sola misura del carcere. Altro motivo che aveva indotto la difesa a chiedere la sostituzione della misura detentiva, è il desiderio di Sabrina e di Cosima Serrano, di rendersi utili agli altri. A tale proposito, i legali avevano anche individuato tra conventi e casa-famiglia, strutture disponibili ad accogliere le due imputate. Però secondo la pubblica accusa, l’unica misura è e resta quella della detenzione in carcere.
L'ipotesi del legale di Michele Misseri. DELITTO AVETRANA, GLI IMPUTATI POTREBBERO ARRIVARE LIBERI IN CASSAZIONE, scrive il 15 aprile 2016 di Daniel Moretti. L’Avvocato Luca La Tanza, legale di Michele Misseri, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia” condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Gli sviluppi del processo. “Io mi sono ritrovato a difendere Michele Misseri quando già si autoaccusava dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi –ha spiegato La Tanza-. Al termine del procedimento di primo grado, Misseri è stato condannato a 8 anni per soppressione di cadavere. Io ho garantito a Misseri la difesa strettamente tecnica, nel senso che non faccio nulla per andare contro la sua tesi ma non posso ovviamente neanche dire che è stato lui a commettere l’omicidio. Quindi io lo difendo dall’accusa di soppressione di cadavere. La mia linea difensiva mira a cercare di trasformare il reato da soppressione ad occultamento, che prevede una pena massima di 3 anni, mentre la soppressione di 10 anni”. Le motivazioni della sentenza di appello non sono ancora state depositate. “Dal 1 febbraio –ha spiegato La Tanza- sono ripresi a decorrere i termini per la decadenza delle misure cautelari per tutti gli imputati, da Cosima e Sabrina fino a Michele, che scadranno ad ottobre prossimo. Una volta che verranno depositate le motivazioni della sentenza di appello, bisognerà fare le notifiche a tutte le parti. Una volta che tutti avranno le notifiche ci saranno 45 giorni per presentare ricorso in Cassazione. Di conseguenza i ricorsi dovranno essere inviati a Roma e Roma dovrà fare le notifiche per la fissazione per l’udienza. Se si riesce ad avere l’udienza di Cassazione entro ottobre c’è la possibilità di avere la parola fine, ma se non si riesce tutti gli imputati al processo in Cassazione arriveranno liberi”. Resta in carcere Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in primo e secondo grado (con la madre Cosima Serrano), per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Il Tribunale del Riesame (presidente De Tomasi) il 5 maggio 2016 ha respinto l’atto di appello presentato dalla difesa di Sabrina Misseri contro la decisione della Corte d’assise d’Appello del 4 aprile scorso che aveva respinto la richiesta di concessione degli arresti domiciliari in una comunità diocesana di Fabriano. L'impugnativa era stata accompagnata da una memoria difensiva degli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia. La Corte d’Assise d’appello aveva scritto nel provvedimento di rigetto che «la richiesta misura degli arresti domiciliari non risulta adeguata a contenere i prevedibili impulsi aggressivi della Misseri».
Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Un Giorno in Pretura e lo scandalo delle motivazioni. Una giustizia senza vergogna. Comunque la si pensi sulle responsabilità è giustappunto scandaloso permettere tutto ciò. La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video. Roberta Petrelluzzi è la ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura”. Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere in diretta tutte le fasi del dibattimento sul processo del delitto di Sarah Scazzi. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini agli altri media. Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado, non essendo parte nel processo. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se pronunciate da chi, con il suo lavoro, di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Il 25 giugno 2016, al momento dei saluti per l’ultima puntata del ciclo di stagione della trasmissione televisiva “Un giorno in pretura”, Roberta Petrelluzzi, conduttrice del programma, ha speso delle splendide parole per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Voglio richiamare la vostra attenzione su una vicenda che mi ha molto coinvolta e che mi sta molto a cuore: la storia di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi sono in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. È stata questa la ragione che una giovane ragazza e sua madre, che si dichiarano disperatamente innocenti, sono da cinque anni in carcere. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio, dando al termine “mediatico” tutta la valenza negativa che alcune volte merita.» Ciononostante qualche direttore di giornale, interpellatomi per l’oggetto della nota stampa, mi rinfacciava il fatto che la sentenza era complessa e le motivazioni, quindi, dispendiose. Trasparendo la loro indole colpevolista e filo magistrati, io replicavo che questo succedeva solo a Taranto ed in questo caso, facendo notare, a fil di diritto, che l’ordinamento prevede, appunto, la complessità delle motivazione, di fatto prevedendo i termini di 90 giorni, rinnovabili, se del caso. Ma non all’infinito, dio toga piacendo. Mettiamoci in testa che a Taranto, come nel resto d’Italia, deve valere la forza della legge e mai la legge del più forte. In questo caso delle toghe, spalleggiate dai media, che speculano su queste disgrazie.
Appello mamma di Sarah: «Giudici fate presto», scrive Mimmo Mazza il 29 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È passato quasi un anno dalla lettura del dispositivo con il quale la corte d’assise d’appello il 25 luglio del 2015 scorso confermò l’ergastolo per Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio e del sequestro di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana scomparsa il 26 agosto del 2010. Oltre undici mesi sono trascorsi senza però che siano state depositate le motivazioni alla base di quella decisione, un ritardo che va oltre i 90 giorni previsti dal terzo comma dell’articolo 544 del codice di procedura penale quando - come in questo caso - la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni. Se entro il prossimo 15 ottobre non sarà stata emessa sentenza definitiva da parte della Cassazione, Sabrina Misseri tornerà in libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare, essendo stata arrestata il 15 ottobre del 2010 e per la legge italiana non si può essere sottoposti a custodia cautelare per più di sei anni in assenza di sentenza definitiva. Per la madre Cosima, invece, la decorrenza dei termini è fissata per il 26 maggio del 2017, a sei anni dal suo arresto. A scrutare con attenzione a quanto accade nella sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non sono solo i principali imputati ma anche Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, che ha voluto affidare alla Gazzetta il suo pensiero. «Sto vivendo da quasi sei anni un momento terribile che sembra non avere mai fine. Ho vissuto - spiega la signora Concetta - con intensa partecipazione, ma altrettanta angoscia, i primi due processi. Sto vivendo con angoscia l’attesa di vedere finalmente la fine di questo percorso giudiziario. Un percorso che, al momento (e salvo conferma definitiva), ha dato un volto ed un nome agli assassini di mia figlia. E questo grazie al senso di responsabilità, impegno e professionalità di tutti coloro che hanno portato avanti un lavoro faticoso e meticoloso, mettendoci l’anima e la loro sensibilità, nel rispetto di una persona che non c’è più e che ancora attende giustizia definitiva». Senza toni polemici e anzi con il rispetto che ha sempre portato alle forze dell’ordine e alla magistratura, la mamma di Sarah affronta il caso del mancato deposito delle motivazioni con tutto quello che il relativo ritardo può comportare. «Mi auguro, per quel che posso comprendere in termini giuridici, che tutto questo lavoro - dice Concetta alla Gazzetta - possa trovare un attento ma sollecito completamento, pur nel rispetto di tutte le parti processuali. E dico questo con sincera gratitudine e riconoscenza per quel che è stato fatto, ma con l’auspicio profondo di vedere finalmente chiusa la vicenda processuale di mia figlia. Perché, per il resto, nulla potrà rimarginare una ferita troppo profonda e sempre aperta».
Dalla sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non giungono anticipazioni, né previsioni riguardo la data di deposito delle motivazioni, data dalla quale decorrerà poi il termine per lo scontato ricorso in Cassazione. Eppure il verdetto di secondo grado, almeno nel dispositivo, è quasi del tutto simile a quello del primo, giunto il 20 aprile del 2013 e poi motivato con 1631 pagine depositate il 12 marzo del 2014, quindi anche in quel caso a quasi un anno dalla lettura del verdetto in aula.
Processo Scazzi, Giangrande contro la “giustizia lumaca”. Scrive Carmine Alboretti l'1 Luglio 2016 su “La Discussione”. “Undici mesi per scrivere le motivazioni di una sentenza di condanna sono obiettivamente un’aberrazione del diritto”. Ad affermarlo è l’avvocato Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie che si è occupato fin dall’inizio dell’omicidio di Sarah Scazzi.
Avvocato lei è di Avetrana?
«Sì, sono un concittadino della povera vittima e delle imputate considerate colpevoli di quel delitto, ma non le conoscevo personalmente. Mi sono occupato del loro caso da giurista e come sociologo, scrivendo anche diversi volumi in merito».
Libri nei quali ha spiegato il suo punto di vista?
«Niente affatto. Mi sono limitato a raccontare cosa avveniva giorno per giorno sia sul versante giudiziario che su quello mediatico. Tutto qui».
Lei denuncia la lunghezza dei tempi di deposito delle motivazioni: perché?
Non è una valutazione solo mia. Anche Roberta Petrelluzzi ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura” ha segnalato questa anomalia».
In che senso?
«Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere tutte le fasi del dibattimento. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini anche agli altri media».
E allora?
«Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se si considera che di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Nell’ultima puntata del programma, al momento dei saluti, ha rivolto un pensiero a Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, segnalando che le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio».
«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc. Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.
«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali. Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede a Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale...e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato…un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso, vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende. Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.
«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»
Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro. Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti, o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo, Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c…”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…, e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice che ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?
«Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri. Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione –, nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»
Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.
Toghe innominabili, scrive Filippo Facci il 12 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Piercamillo Davigo non è più lui. Da presidente dell'Anm è stato investito da così tante bufere che ogni sua uscita pubblica ora suona imbarocchita da distinguo e premesse: sabato ha parlato a un convegno dei Cattolici democratici (sarà questo: era pieno di democristiani) e ogni volta premetteva che «non penso che tutti i politici rubano, rubano in molti... Non credo siano tutti mascalzoni, ma...». Ce l'hanno rovinato. Fortuna che non manca di che obiettargli. Ha parlato di «politici che non si vergognano più» e verrebbe da chiedergli quando mai si siano vergognati i magistrati colti in castagna: anche perché fare i loro nomi è proibito. Già. Dovete sapere che la sezione disciplinare del Csm ogni anno sanziona blandamente con ammonimenti, censure e perdite di anzianità una serie di magistrati che, per esempio, non hanno pagato il conto al ristorante, hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, o semplicemente non lavorano, o sono mezzi pazzi (uno l'hanno visto chiedere l'elemosina per strada, un altro ha spalmato l'ufficio di nutella, un altro ha urlato «ti spacco il culo» a un avvocato) e però i loro nomi non sono divulgabili. Il Csm ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali, come d'obbligo solo per i minori e le vittime di violenze sessuali: eppure parliamo di gente che giudica della vita altrui. Ecco, dottor Davigo: secondo lei è giusto?
Subisci e taci ti intima il sistema gognatico medio-giudiziario.
Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.
Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.
Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.
Per dire: una norma scomoda inapplicata.
Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.
Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.
L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.
Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.
Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?
E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.
La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.
Come si dice..."Cane non mangia cane!". Toga non tocca toga e alla fine perdono sempre i cittadini. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno, scrive Alessandro Sallusti (la destra politica), Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". A riprova che i magistrati non sono esseri superiori, esenti dai limiti e vizi di noi comuni mortali, un importante pubblico ministero di Roma, Francesco Scavo, titolare dell'inchiesta sui marò e di quella sull'omicidio di Luca Varani, è stato processato dal Csm per molestie sessuali nei confronti di alcune avvocatesse: apprezzamenti imbarazzanti a sfondo sessuale, avance e «repentini palpeggiamenti». Dopo aver accertato i fatti, che sanzione ha deliberato il Csm? Censura e trasferimento d'ufficio, come giudice, al tribunale di Viterbo. Ora, qui non parliamo di un manager sporcaccione o di un impiegato esuberante, ma di un magistrato. Cioè di un professionista che avendo in mano le vite e i destini di altri uomini dovrebbe dimostrare doti di equilibrio al di sopra di ogni sospetto. Doti evidentemente incompatibili con il profilo psicologico di un molestatore seriale. Che continuerà invece ad operare, non più come accusatore ma, peggio mi sento, come giudice. Non voglio ironizzare in base a quali giudizi Francesco Scavo emetterà le sue sentenze a carico di imputati magari difesi da giovani avvocatesse. Ma dico che è come se un pilota trovato positivo al test antidroga, invece che messo a terra venisse spostato a pilotare un aereo solo un po' più piccolo. Come se un chirurgo alcolizzato fosse trasferito dal grande ospedale a uno di provincia. Volereste su quell'aereo? Vi fareste curare in quell'ospedale? Penso di no. E allora mi chiedo perché i cittadini di Viterbo debbano finire nelle mani di un giudice poco equilibrato. E la risposta è una sola: la magistratura italiana usa due pesi e due misure, a seconda che si tratti di noi o di loro, e chissà quante volte accade perché il caso Scavo non è certo una eccezione. Se Piercamillo Davigo, neo presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di dare dei ladri a tutti i politici e di considerare imprenditori e cittadini colpevoli fino a prova contraria, facesse un bel po' di pulizia in casa sua, il Paese ne avrebbe certamente maggiori benefici. Ma è come chiedere al tacchino di anticipare il Natale. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno.
Storia di magistrati, di malagiustizia e del popolo che paga sempre…Come un magistrato viene beccato dalla polizia nei cessi di un cinema che fa un pompino a un ragazzino ed esce dalla vicenda con una promozione che farà lievitare anche gli stipendi dei suoi colleghi. Un costo da 70 milioni di euro all’anno…Il “pompino” più caro della storia, scrive Stefano Livadiotti (la sinistra politica), giornalista del settimanale L’ ESPRESSO (tratto dal libro “MAGISTRATI L’ULTRACASTA”). Un magistrato viene sorpreso in un cinema di periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. E il Consiglio superiore della magistratura lo riabilita. Con una sentenza grottesca che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi. Ecco i verbali segreti di tutta la storia. Sono le 18 di un freddo pomeriggio di dicembre quando L.V., rispettabile magistrato di corte d’appello con funzioni di giudice del Tribunale di Milano, fa il suo ingresso nella sala dell’Ariel, un piccolo cinema all’estrema periferia occidentale di Roma. Sullo schermo proiettano il film western La stella di latta. Ma ad attirare Vostro Onore nel locale non sono certo le gesta di John Wayne nei panni dello sceriffo burbero. No, a L.V., che ha ormai 41 anni suonati, dei cow-boy non frega proprio un fico secco. Se si è spinto tanto fuori mano è perché è in cerca di tutt’altro. Così, dopo aver scrutato a lungo nel buio della platea, individua il suo obiettivo. E, quatto quatto, scivola sulla poltroncina accanto a quella occupata dal quattordicenne I.M. Quello che succede in seguito lo ricostruisce il verbale della pattuglia del commissariato di Polizia di Monteverde che alle 19.15 raggiunge il locale su richiesta della direzione. “Sul posto c’era l’appuntato di polizia G.P., in libera uscita e perciò casualmente spettatore nel cinema, che consegnava ai colleghi sopravvenuti due persone, un adulto e un minore, e indicava in una terza persona colui che aveva trovato i due in una toilette del cinema. L’adulto veniva poi identificato per il dottor L.V. e il minorenne per tale I.M. Il teste denunciante era tale F.Z”. “L’appuntato G.P. riferiva che verso le 19, mentre assisteva in sala alla proiezione del film, aveva sentito gridare dalla zona toilette: “zozzone, zozzone, entra in direzione!”. Accorso, aveva trovato il teste Z. che, indicandogli i due, affermava di averli poco prima sorpresi all’interno di uno dei box dei gabinetti, intenti in atti di libidine. Precisava, poi, lo Z. che, entrato nel vestibolo della toilette, aveva scorto i due che si infilavano nel box assieme, richiudendovisi. Aveva allora bussato ripetutamente, invitandoli a uscire, ma senza esito. Soltanto alla minaccia di far intervenire la Polizia l’uomo aveva aperto, tentando di nascondere il ragazzo dietro la porta.” “Il minorenne, a sua volta, raccontava che verso le 18 era seduto nella platea del cinema intento a seguire il film quando un individuo si era collocato sulla sedia vicina: poco dopo questi aveva allungato un mano toccandogli dall’esterno i genitali. Egli aveva immediatamente allontanato quella mano e l’uomo se n’era andato. Ma dopo dieci minuti era ritornato, rinnovando la sua manovra. Questa volta egli aveva lasciato fare e allora l’uomo gli aveva sussurrato all’orecchio la proposta di recarsi con lui alla toilette, promettendogli del denaro. Egli s’era alzato senz’altro, dirigendosi alla toilette, seguito dall’uomo. Entrati nel box, l’uomo gli aveva sbottonato i calzoni, ed estratto il pene lo aveva preso in bocca.” Adescare un ragazzino in un cinema è un fatto che si commenta da solo. Che a farlo sia poi un uomo di legge, o che tale dovrebbe essere, appare inqualificabile. Ma non è solo questo il punto. Se i fatti si fermassero qui, non potrebbero essere materia di questo libro. Invece, come vedremo, la storia che comincia nella sala dell’Ariel giovedì 13 dicembre del 1973, per concludersi ingloriosamente 8 anni dopo, va ben oltre lo squallido episodio di cronaca. Per diventare emblematica della logica imperante almeno in una parte del mondo della magistratura ordinaria (di cui esclusivamente ci occuperemo, senza prendere in considerazione quelle contabile, amministrativa e militare). Cioè, in una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola. Quel giorno, e non potrebbe essere altrimenti, V. viene dunque arrestato. Vostro Onore cerca disperatamente di negare l’evidenza. S’arrampica sugli specchi, raccontando di aver pensato che il ragazzino si sentisse male e di averlo quindi seguito nel bagno proprio per assisterlo. Ma non c’è niente da fare: l’istruttoria conferma la versione della polizia. Così, il Tribunale di Grosseto rinvia a giudizio V. per “atti osceni e corruzione di minore”. E, il 28 dicembre del 1973, si muove anche la sezione disciplinare del Csm, l’organo di governo della magistratura, che lo sospende dalle funzioni. V. sembra davvero un uomo finito. Ma non è così. Il 21 gennaio del 1976, il verdetto offre la prima sorpresa. Con il loro collega, i giudici toscani si dimostrano più che comprensivi. Il tribunale della ridente cittadina dell’alta Maremma ritiene infatti che, “atteso lo stato del costume”, l’atto compiuto da V. nella sala del cinema vada considerato soltanto come contrario alla pubblica decenza. Come, “atteso lo stato del costume”? Cosa succedeva all’epoca nei cinema di Grosseto: erano un luogo di perdizione e nessuno lo sapeva? Boh. Andiamo avanti: “Conseguentemente, mutata la rubrica nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’articolo 726 del codice penale, lo condanna alla pena di un mese di arresto […] Per quanto poi riguarda la seconda parte dell’episodio, esclusa la procedibilità ex officio, essendo ormai il fatto connesso con una contravvenzione, proscioglie il V. per mancanza di querela dal delitto di corruzione”. Ma il procuratore generale non è d’accordo, e questa è una buona notizia per tutto il paese. E V., che pure dovrebbe fregarsi le mani, neanche. Entrambi presentano ricorso. Si arriva così all’8 marzo del 1977, quando a pronunciarsi è la corte d’appello di Firenze, che ribalta il precedente giudizio. Ma lo fa a modo suo. Per i giudici di secondo grado, quelli di V. sono atti osceni. Evviva. Però, siccome il primo approccio con il ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto, il fatto non costituisce reato. V. se la cava quindi con una condanna a 4 mesi, con la condizionale, per la sola corruzione di minori. E di nuovo, non contento, ricorre, con ciò stesso dimostrando la sua incrollabile fiducia nella giustizia. Assolutamente ben riposta, come dimostra il terzo atto della vicenda, che va in scena due anni dopo, il 30 marzo del 1979: “La corte suprema, infine […] annulla senza rinvio limitatamente al delitto di corruzione di minorenne, a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia”. Amen. V. era definitivamente sputtanato davanti a tutti i colleghi. Ma senza più conti in sospeso con la legge. E tanto bastava al Consiglio superiore della magistratura (d’ora in avanti Csm), che il successivo 29 giugno revocava la sua sospensione, rigettando una richiesta in senso contrario del procuratore generale della cassazione, perché “le circostanze non giustificavano l’ulteriore mantenimento […] di una sospensione durata cinque anni e mezzo”. A V. restava da superare solo un ultimo scoglio: il verdetto della sezione disciplinare. Ed è proprio in quella sede che la storia assumerà i toni più grotteschi. La sceneggiata finale, come racconta nel dettaglio la sentenza finora inedita, scritta a macchina e lunga 12 pagine, si svolge il 15 maggio del 1981, quando si riunirono i magnifici 9 della giuria che deve esaminare il dossier n. 294. Molti di loro faranno una carriera coi fiocchi. C’è l’allora vicepresidente del Csm, che è addirittura Giovanni Conso, futuro numero uno della consulta e ministro della giustizia, prima con Amato e poi con Ciampi. C’è Ettore Gallo, che all’inizio degli anni novanta s’accomoderà anche lui sul seggiolone di presidente della corte costituzionale. C’è Giacomo Caliendo, che siederà poi nel governo di Silvio Berlusconi, con l’incarico di sottosegretario alla giustizia. C’è Michele Coiro, che sarà procuratore generale del Tribunale di Roma e poi direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ancora: i togati Luigi Di Oreste, Guido Cucco, Francesco Marzachì e Francesco Pintor, e il laico Vincenzo Summa. Chi pensa che in un simile consesso le parole siano misurate con il bilancino è completamente fuori strada. Vista dall’esterno, la sede del Csm ha perfino un che di lugubre, ma quando si riunisce la sezione disciplinare l’atmosfera è più quella del Bagaglino. La sentenza offre un campionario di spunti dalla comicità irresistibile. Come quello offerto dal medico di V., che lascia subito intendere quale incredibile piega potrà prendere la vicenda. “Veniva anche sentito il medico curante, dottor G., che testimoniò di aver sottoposto il V. a intense terapie nell’anno 1970 a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave metallico di una bassa porta. Si trattava di ferita trasversale da taglio all’alta regione frontale, che il medico suturò previa disinfezione. “ Vostro Onore, insomma, aveva dato una craniata. E allora? “Benché fosse rimasto per dieci giorni nell’assoluto prescritto riposo, il paziente accusò per vari mesi preoccupanti disturbi, quali cefalee intense, sindromi vertiginose, instabilità dell’umore, turbe mnemoniche. Le ulteriori terapie praticate diedero temporaneo sollievo, ma vi furono frequenti ricadute, soprattutto di carattere depressivo, che si protrassero fino al 1972 […] È emerso che la madre dell’incolpato è stata ricoverata per 25 anni in clinica neurologica a causa di gravi disturbi.” Che c’entra?”, direte voi. Tempo al tempo. Dopo quella del luminare, la seconda chicca è la testimonianza dell’amico notaio. “All’odierno dibattimento sono stati escussi sette testimoni, dai quali è rimasta confermata l’irreprensibilità della vita dell’incolpato, prima e dopo il grave episodio, e soprattutto la serietà dei suoi studi e del suo impegno professionale. In particolare, il notaio dottor M. ha ricordato il fidanzamento del dottor V.con la sorella, assolutamente ineccepibile sul piano morale per i quattro-cinque anni durante i quali egli ha frequentato la famiglia. Il matrimonio non è seguito per ragioni diverse dai rapporti tra i fidanzati, che sono anzi rimasti buoni amici.” Par di capire, tra le righe, che V. non molestasse sessualmente la fidanzata. La credibilità della qual cosa, alla luce della sua successiva performance con il ragazzino, appare, questa sì, davvero solida. Nonostante le strampalate deposizioni, gli illustri giurati sembrano decisi a fare sul serio. E subito escludono in maniera categorica di poter credere alla versione che il collega V., a dispetto di tutto, si ostina a sostenere. “I fatti,” tagliano corto, “vanno assunti così come ritenuti dai magistrati di merito dei due gradi del giudizio penale”. Poi, però, cominciano a tessere la loro tela. “E tuttavia ciò che colpisce e stupisce, in tutta la dolorosa e squallida vicenda, è la constatazione che l’episodio si staglia assolutamente isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intera esistenza, fatta di disciplina morale, di studi severi e di impegno professionale.” Come diavolo abbiano fatto a stabilire che “l’episodio si staglia assolutamente isolato”, i giurati lo sanno davvero solo loro. Ma andiamo avanti. La prosa è zoppicante, però vale la fatica: “Tutto questo non può essere senza significato e non può essere spiegato se non avanzando due diverse ipotesi. O l’episodio ha avuto carattere di improvvisa e anormale insorgenza, quasi di raptus, la cui eziologia va ricercata e messa in luce; oppure se, al di sotto delle apparenze, sussiste effettivamente una natura sessuale deviata o almeno ambigua, è doveroso stabilire perché mai essa si sia rivelata soltanto e unicamente in quell’occasione, durante tutto il corso di un’intera esistenza”. L’alto consesso propende, ça va sans dire, per la prima delle due ipotesi. “Già […] i giudici penali avevano adombrato suggestivamente, in presenza dei referti clinici, della deposizione del curante e di quella del maresciallo S. che eseguì l’arresto, che la capacità di intendere e di volere del V., al momento del fatto, doveva essere scemata a tal punto da doversi ritenere ‘ridotta in misura rilevante’, e ciò – secondo i giudici – “per una sorta di psicastenia, di una forma di malattia propria, tale da alterare specialmente l’efficienza dei suoi freni inibitori contro i suoi aberranti impulsi erotici’“. Poste le premesse, i giudici dei giudici preparano il gran finale, citando il parere pro veritate di due professori, scelti naturalmente dalla difesa di V. “Secondo gli psichiatri […] l’episodio in esame, non soltanto costituisce l’unico del genere, ma esso, anzi, ponendosi in netto contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici che, iniziatisi nel 1970, si trovavano in piena produttività nel 1973, all’epoca del fatto. Durante il quale, pur conservandosi sufficientemente la consapevolezza dell’agire, restò invece completamente sconvolta la ‘coscienza riflettente’, cioè la rappresentazione preliminare degli aspetti etico-giuridici della condotta da tenere e delle sue conseguenze. Il che ha reso inerte la volontà di inibire quelle spinte pulsionali su cui il soggetto non riusciva più a esprimere un giudizio di valore.” Tutta colpa, dunque, della “coscienza riflettente”, che era andata in tilt. Ma come mai? Chiaro: “Su tutta questa complessa situazione il trauma riportato nel 1970 ha svolto un ruolo – secondo i clinici – di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità, fino all’organizzazione della sindrome esplosa nell’episodio de quo”. Vostro Onore, dunque, dopo la zuccata è diventato scemo? Neanche per sogno. Lo è stato, ma solo per un po’. “D’altra parte, poi, proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi a seguito del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti, hanno favorito il completo recupero della personalità all’ambito della norma, come è testimoniato dai successivi otto anni di rinnovata irreprensibilità.” Adesso insomma Vostro Onore è guarito e può senz’altro rimettersi la toga. “Il che comporta essersi trattato di un episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza tuttavia lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità.” Conclusione, in nome del popolo italiano: “Il proscioglimento, pertanto, si impone”. Addirittura. “La sezione assolve il dottor V. perché non punibile avendo agito in istato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto”. Il procuratore se n’è fatta una ragione e non propone l’impugnazione. Il futuro ministro non ha nulla da eccepire. Il collega che siederà sullo scranno di presidente della consulta se ne sta muto come un pesce. E, diligentemente, i giurati mettono la firma sotto una simile sentenza. Dove si racconta la storiella di uno che ha sbattuto la testa e tre anni dopo è diventato scemo e ora però non lo è più. A parte il fatto che una zuccata prima o poi l’abbiamo presa tutti, magari pure Conso e Gallo, e qualcuno di noi da piccolo è perfino caduto dalla bicicletta: ma non è che poi ci siamo messi proprio tutti a dare la caccia ai ragazzini nei cinema di periferia. Il fatto che la sezione disciplinare del Csm non sia esattamente un tribunale islamico non è certo una notizia. Nel capitolo 3, intitolato Gli impuniti, ne racconteremo davvero di tutti i colori. Ma il caso di V.è al di là di ogni limite. Anche perché la sua storia non è rimasta sotto traccia come molte altre. Al contrario, nel mondo della magistratura è diventata molto, ma proprio molto popolare. Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice. Il libro lo ha infatti scritto quando aveva appena lasciato il Csm, di cui era consigliere: “A conclusione della vicenda V. non solo aveva ripreso servizio, ma era stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di cassazione, conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni. E, avendo cumulato nel frattempo molti scatti di anzianità sul suo stipendio di consigliere d’appello, si trovò per il principio del trascinamento a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, allora, grazie all’istituto del galleggiamento, ottennero un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal nostro magistrato”. Come consigliere, Mellini aveva modo di accedere agli archivi segreti del Csm. E così si era tolto la curiosità di fare due conti. “Pare che tale marchingegno abbia comportato per lo stato un onere di oltre 70 miliardi.” Tanto è costato ai cittadini italiani il caldo pomeriggio del pedofilo in toga. Trasformato d’un colpo da reprobo a benefattore dell’intera categoria. La domanda è inevitabile. Quando hanno deciso di prosciogliere il collega, Lor Signori del Csm non avevano a portata di mano un pallottoliere per fare due conti? O, al contrario, hanno prosciolto V. proprio perché i conti li avevano fatti, eccome? La risposta è arrivata nel 1993: il 29 settembre V. si è visto negare l’ultimo passaggio di carriera, quello alle funzioni direttive superiori della Cassazione. Eppure, i fatti sulla base dei quali è stato giudicato erano gli stessi di prima. Sarà perché nel frattempo era stato abolito il galleggiamento? E quindi nessuno avrebbe beneficiato di una sua ulteriore promozione?
«Le botte in cella una lezione di vita» Parola di giudice, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 26 luglio 2016, su "Il Dubbio". Assarag incise quello che accadeva nel carcere di Parma. Tre mesi di registrazioni choc, con le voci di poliziotti che raccontavano episodi di botte ai detenuti. Il Gip di Parma ha scritto la parola fine sulla vicenda Rachid Assarag, il quarantenne marocchino che aveva accusato gli agenti penitenziari del carcere emiliano di averlo picchiato sistematicamente per mesi. Nel 2010, grazie all'aiuto della moglie Emanuela che riuscì a fargli avere un registratore, Assarag incise quotidianamente quello che accadeva nel carcere di Parma. Tre mesi di registrazioni choc, con le voci di agenti che raccontavano senza remore episodi di aggressioni e botte ai detenuti. La vicenda balzò agli onori della cronaca solamente a settembre del 2014, quando il settimanale L'Espresso pubblicò un articolo dal titolo «Galera, botte e omertà». Nel pezzo, oltre a raccontare i pestaggi subiti da Assarag, era anche descritto il clima all'interno del carcere di Parma, dove i medici e gli operatori penitenziari, pur conoscendo quanto accadeva, non denunciavano per paura di subire ritorsioni. Le denunce, però, le aveva presentate Assarag. Quattro denunce per le violenze subite di cui, dal 2010, si erano perse le tracce. Solamente grazie al clamore mediatico suscitato dall'articolo di stampa, il pubblico ministero di Parma decise di verificare «quali procedimenti penali fossero allo stato pendenti». Se non fosse stato per l'articolo, infatti, «si sarebbe proceduto all'archiviazione, attesa la contradditorietà del quadro probatorio e l'impossibilità di svolgere ulteriori indagini per scadenza dei termini». L'avvocato di Assarag, Fabio Anselmo, depositò allora le trascrizioni delle registrazioni. Iniziò, quindi, una attività d'indagine per falso e calunnia nei confronti degli agenti della polizia penitenziari. La Squadra Mobile della Questura di Parma ascoltò decine di persone fra guardie, medici e operatori in servizio al carcere di Parma. A dicembre del 2015, terminata l'istruttoria, il pm decise per l'archiviazione di tutte le posizioni. Le registrazioni, infatti, sono «rese note solo quattro anni dopo i fatti, una tempistica che rende estremamente ardua la ricostruzione dei fatti». Alcuni dei dialoghi sono molto "crudi". In una conversazione con Assarag, una guardia dichiara che dentro il carcere comandano loro e non esistono né avvocati né giudici. Al riguardo, il pm, premesso che l'affermazione è «inquietante», dato però «che la guardia non ha mai usato violenza nei confronti di Assarag, tali affermazioni paiono essere più delle lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto, che delle minacce o delle affermazioni di supremazia e di negazione dei diritti». L'archiviazione suscitò polemiche. L'avvocato Anselmo parlò di «reality della vita carceraria». Il Pm di Parma, duramente criticato, venne difeso dalla locale sezione dell'Anm che, anzi, evidenziò lo scrupolo con cui erano state condotte le indagini. La vicenda venne riproposta a marzo di quest'anno al grande pubblico, grazie ad un servizio della trasmissione televisiva Le Iene, dal titolo "Lezioni di vita carceraria", dove, oltre a ripercorre l'iter processuale, venivano anche riproposti gli audio incriminati. La parola fine, dunque, il 21 luglio scorso, quando il Gip di Parma, rigettando la richiesta di opposizione, ha stroncato ogni aspettativa di Assarag confermando l'archiviazione. Le registrazioni «non consentono di collocare nel tempo gli episodi e, di conseguenza, non possono essere riferite con certezza agli episodi denunciati. Le registrazioni - prosegue il Gip - sono di non facile e sicura interpretazione essendo estrapolate da dialoghi intervenuti tra il detenuto e persone non individuate (agenti, medici, psicologi). Inoltre, le dichiarazione di Assarg presentano incongruenze tali da compromettere l'attendibilità della sua ricostruzione». Sentita dal Dubbio, la moglie di Assarag, ha dichiarato: «Che paese civile, quello che ti obbliga a fare casino, per ottenere qualcosa. E nel nostro caso abbiamo ottenuto un'archiviazione. La procura di Parma - prosegue - di fronte al mondo della giustizia è una goccia nell'oceano. La storia è tutt'altro che chiusa. La richiesta di archiviazione del Pm, confermata dal Gip, non intacca il contenuto delle conversazioni registrate in carcere. Al contrario, l'ostinazione a voler insabbiare tutto, mi fa capire quanto quelle tracce possano aprire scenari difficili da gestire, per cui preferiscono perdere tempo, per poi chiudere tutto con una prescrizione. Quanta libertà intellettuale e coscienza c'è, in una sentenza simile?» Assarag dal 2009 sta scontando una condanna a nove anni e quattro mesi di carcere per stupro. In questi anni è stato trasferito in undici carceri diverse (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella) attualmente è recluso a Bollate. A breve il Tribunale di Sorveglianza di Milano dovrà esprimersi sulla sua richiesta dei domiciliari.
Ma in carcere, spesso ci vanno gli innocenti.
Luttazzi, la vita distrutta per una telefonata sbagliata, scrive Valter Vecellio il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". È un caldo giorno di giugno di quarantasei anni fa; un poliedrico artista di successo, attore, cantante, direttore di orchestra, musicista, regista, scrittore, showman, conduttore televisivo e radiofonico senza sapere neppure perché si trova ammanettato e gettato in galera. Quell’artista si chiama Lelio Luttazzi; viene arrestato assieme a un altro attore all’apice del suo successo, Walter Chiari. Le accuse parlano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Poi si saprà che tutto si regge su un qualcosa di incredibile: un giorno, non si ricorda neppure quando, si è limitato a “girare” a uno sconosciuto, che poi si scopre essere uno spacciatore, un messaggio che gli ha affidato l’amico Walter Chiari. Non ha fatto altro: qualcosa tipo: «Walter dice che…». Per quel “messaggio” trascorre trentatré giorni in carcere; poi, finalmente lo rilasciano: la sua posizione chiarita. Si rendono conto che è innocente, colpevole di nulla, estraneo a tutto. Insomma, un clamoroso errore giudiziario; nel frattempo qualcosa “dentro” si rompe, nulla più è come prima. Luttazzi si ritira: quello che patisce non si sana, è irrisarcibile, quello che si è incrinato, è incrinato per sempre. Ne deve passare del tempo, prima che riesca a trovare la forza e la voglia per apparire in qualche rara trasmissione televisiva, di incidere qualche cd con musiche come l’amato swing. Perché ricordare questa vicenda? Intanto perché è sempre serbarne la memoria, il nostro è un paese dal facile crucifige, dove spesso colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, poi si rivelano innocenti. Quei trentatré giorni di prigione, quel macroscopico errore giudiziario, per concludere che le accuse sono senza fondamento per Luttazzi sono una ferita irrimarginabile, la vita cambia e nulla è più come prima. «Pesa. Ci faccio i conti in continuazione», racconta. Parte di quel trauma è raccontato in un libro, Operazione Montecristo (Mursia editore). Lo definisce «uno sfogo e un modo per sopravvivere. Stavo in galera, chiuso in una celletta d’isolamento piccolissima, bugliolo, secchio. Come le bestie. Avevo ottenuto dei quaderni e delle matite. Uno sfogo e un passatempo». Uno sfogo e un passatempo… Il tempo, si dice, placa e attutisce. Luttazzi conferma e insieme smentisce: «Il rancore si è stemperato negli anni. Però per l’ingiustizia subita ho ancora parecchio fastidio. Proprio io che sono sempre stato contrario alle droghe, mai una prova che l’avessi presa perché non l’ho mai presa in vita mia. E poi, Walter. Tutti lo dicevano, ma io lo difendevo, non l’ho mai visto fare queste cose. E stavamo sempre insieme. Certo era sfrenato, sempre sopra le righe anche in casa, avrei dovuto capire…». Il pensiero poi corre a Enzo Tortora: «Poveraccio, l’hanno assassinato. Andai a trovarlo in ospedale, e ho pianto. Ecco se con qualcuno devo ancora avercela, è con i giudici che neanche nel caso Tortora capirono…». Capirono… Più propriamente non vollero capire: perché capire si poteva e doveva subito; e in particolare avrebbero dovuto e potuto capire proprio i magistrati. Una vita cambiata, stravolta: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il Pubblico Ministero che mi aveva interrogato, e non mi aveva creduto». Luttazzi non viene creduto. Irrilevante ci siano o no delle prove, lo si sbatte in carcere perché, “semplicemente”, non viene creduto…Uscito dal carcere. Luttazzi si ritira. La tempra del tenace triestino gli consente di resistere, in qualche modo aiuta; e infatti, ogni tanto, lo si ritrova: una serie di concerti jazz di cui è grande appassionato; uno, al Teatro all’aperto a Villa Margherita, è memorabile, gli viene conferito il premio “Una vita per il Jazz”. Dopo un lungo silenzio, nel 2005 esce il cd “Lelio Luttazzi and Rai Orchestra 1954”: sono le registrazioni storiche della radio degli anni ‘50, trasmesse dalla radio appunto nel 1954; sono brani suoi, ma anche interpretazioni di Parlami d’amore Mariù, di Vittorio De Sica, un omaggio a Cole Porter, e un duetto con Gorni Kramer. Poi, eccolo ospite d’onore, nell’ottobre 2006, di Fiorello Viva Radio2, che in quell’occasione va in onda contemporaneamente alla radio e in televisione. Due anni dopo va da Fabio Fazio, a Che tempo che fa; e il 19 febbraio del 2009 partecipa al Festival di Sanremo condotto da Paolo Bonolis; in quell’occasione accompagna al pianoforte Arisa, che canta Sincerità. Da un anno è tornato a vivere, definitivamente, a Trieste assieme alla moglie Rossana. Per l’occasione Pupi Avati gira un film-documentario, Rai5 lo manda in onda il 30 ottobre 2011. Luttazzi, “El can de Trieste”, è già morto. Una lunga malattia, l’8 luglio 2010, lo stronca. Ha 87 anni. Stile impeccabile, colto, elegante e scanzonato conduttore di una storica trasmissione radio, Hit Parade, ma anche tantissime altre cose… Per dire: è lui che scrive le colonne sonore di alcuni film che sono “classici”, come Totò, Peppino e la Malafemmina; e forse non tutti sanno che ha avuto anche esperienze di attore. Per esempio ne L’Ombrellone di Dino Risi; ma anche L’avventura di Michelangelo Antonioni; Oggi, domani, dopodomani di Marco Ferreri, Luciano Salce, Eduardo De Filippo; L’illazione che anche dirige.
E l’impegno politico? C’è stato anche questo. Rigorosamente laico con venature anticlericali, gli si accredita una fama di craxiano. «Tutto cominciò - spiega - perché portavo un garofano all’occhiello come Cole Porter, e allora mi avvicinai a quel partito». Certo non di destra, “senza fanatismi”; e diffidente d’istinto quando sente parlare di “patria”: «Io mi sono fatto tutto il fascismo, con quella parola usata come scusa per uccidere la libertà». Si iscrive anche al Partito Radicale. Marco Pannella lancia la campagna: “Diecimila iscritti entro il 31 dicembre del 1986”, pena lo scioglimento. In quell’occasione, per restare ai soli personaggi dello spettacolo, si iscrivono, “perché il Partito Radicale viva”, Dario Argento e Liliana Cavani, Damiano Damiani e Giorgio Albertazzi; Pino Caruso e Carlo Giuffré, Enrico Maria Salerno e Mario Scaccia, Ugo Tognazzi Roberto Herlitza, Domenico Modugno, Claudio Villa, Rita Pavone e Teddy Reno… e tra loro, appunto, Luttazzi.
Un nuovo caso Tortora. Il dramma di un militare incarcerato per errore. L'accusatore del conduttore guidava la procura che mise in cella il soldato Raiola. Poi prosciolto, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 28/07/2016, su "Il Giornale". Un errore clamoroso, la vittima sacrificale per eccellenza che torna sull'altare della giustizia italiana. Francesco Raiola come Enzo Tortora. Un militare tutto d'un pezzo come il celebre giornalista, quasi trent'anni dopo, nella stessa terra e con un copione sconcertante che colpisce per la facilità con cui ancora oggi si finisce in carcere. Allora, negli anni Ottanta, l'inventore di Portobello fu ammanettato sulla base di alcune grossolane calunnie, fabbricate in serie da una squadra di pentiti. Ora, o meglio il 21 settembre 2011, Raiola viene catturato come trafficante di droga per via di alcune intercettazioni lette con la lente del pregiudizio dai pm di Torre Annunziata. «Io - racconta il militare che è stato in Afghanistan e Kosovo - parlavo di mozzarelle, due chili, ma loro si erano convinti che si trattasse di una partita di stupefacenti. E quando con un collega discutevo della Tv con ingresso Mediaset per le partite, non utilizzavo un linguaggio criptato come loro pensavano, ma effettivamente di un apparecchio da comprare in un centro commerciale». Uno scivolone investigativo all'interno dell'inchiesta Alieno che il giovane, sposato e con due figli, paga a caro prezzo: quattro giorni di isolamento, ventuno in cella a Santa Maria Capua Vetere, più cinque mesi ai domiciliari e la fine della carriera in divisa. Un disastro cui per fortuna pone rimedio, almeno sul piano giudiziario, il gip di Nocera Inferiore che ha ereditato per competenza il fascicolo da Torre Annunziata: il giudice si accorge che le accuse non stanno in piedi e proscioglie Raiola in udienza preliminare, senza nemmeno spedirlo a processo. Ma a rendere ancora più incandescente il caso ci sono quelle suggestioni, quei rimandi, quegli incroci con il caso Tortora. Diego Marmo, il pm che nel 1985 definì il presentatore «un cinico mercante di morte» è nel 2011 il procuratore capo di Torre Annunziata, anche se l'indagine che porta a 73 arresti non è farina del suo sacco. E Mary Tagliazucchi, la reporter che ha scoperto la vicenda e l'ha raccontata sul sito ofcsreport, accosta Raiola a Tortora in un colloquio con Francesca Scopelliti, la compagna del presentatore, suscitando il suo sgomento. «Mi ricordo ancora oggi le sue bretelle rosse - dice Scopelliti a proposito di Marmo - i suoi toni esacerbati ed esasperati tanto da avere la bava alla bocca». E, ascoltata la via crucis di Raiola, afferma durissima: «Per quanto mi riguarda Diego Marmo dovrebbe solo ritirarsi a vita privata». Marmo oggi è in pensione: le sue scuse, arrivate trent'anni anni dopo, sono state respinte senza esitazione al mittente. Lui continua a ripetere che una carriera ricca di soddisfazioni e risultati non può essere impiccata su quell'unico pur dolorosissimo errore, dovuto alla «troppa foga». E invece Marmo si porta dietro il fantasma di Tortora e ad ogni suo passo pubblico, ad esempio la nomina nel 2014 ad assessore alla legalità nel comune di Pompei, puntuali riesplodono le polemiche. Anche perché il sistema giustizia funziona male e produce ancora errori inammissibili. Come quello del soldato che ora vorrebbe rientrare nell'esercito che invece l'ha bandito. La giustizia dovrebbe essere riformata ma tutti i progetti si sono arenati e l'opinione pubblica considera ormai le toghe una casta nella casta: troppi magistrati non sono stati puniti dopo aver sbagliato. Anzi hanno fatto carriera sui loro errori.
Processi show e pentiti a tempo. Dopo Tortora nulla è cambiato. La fiction rai sul conduttore arrestato ingiustamente per droga e camorra dimostra solo che i guai dei nostri tribunali sono gli stessi di trent'anni fa, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 02/10/2012, su "Il Giornale". «Dove eravamo rimasti?». Con queste parole Enzo Tortora tornava in televisione nel febbraio 1987 dopo essere stato vittima della più sconvolgente vicenda di malagiustizia all'italiana. E proprio Il caso Enzo Tortora - Dove eravamo rimasti? si intitolava la miniserie andata in onda con successo su Raiuno ieri e l'altro ieri. Una ricostruzione forse modesta dal punto di vista artistico, come molti hanno fatto notare. Ma in fondo cosa importa se Ricky Tognazzi non sembra a suo agio nei panni del protagonista? Nulla. Conta aver raccontato una storia che illumina non solo il passato ma anche il presente. Infatti lo sceneggiato, che si apre con l'arresto del conduttore di Portobello, avvenuto alle quattro di mattina del 17 giugno 1983, potrebbe anche riferirsi a fatti avvenuti ieri. Turba scoprire come i momenti salienti della storia non siano lontani dalla cronaca recente e propongano al pubblico temi di stretta attualità. Tortora fu dato in pasto alle telecamere: prima di essere accompagnato fuori dalla questura, con le manette in vista, fu trattenuto sei o sette ore al fine di attendere la luce migliore per le riprese televisive. Ed ecco la giustizia spettacolo. Prima e dopo questo episodio, vediamo i pentiti, Pasquale Barra in particolare, ma anche Giovanni Pandico e Gianni Melluso, incastrare Tortora, rovesciandogli addosso accuse assurde: essere affiliato alla Nuova Camorra Organizzata e spacciare cocaina. Mancano però riscontri oggettivi, fino a quando non sbuca una agendina appartenuta a un camorrista, contenente nome e numero di telefono di Tortora. Un granchio colossale. Perché, come si appurerà, sulla agendina c'è scritto «Tortona» e l'utenza non appartiene allo showman. L'elenco dei delatori si allunga. Confessando, si ottengono migliori condizioni di detenzione, come scrivevano i giornali dell'epoca, e magari una riduzione della pena. Ed ecco i pentiti a orologeria. A proposito di giornali. Spesso, nella fiction, irrompono le prime pagine di quotidiani e settimanali. In effetti, le notizie uscivano a getto continuo. Ed ecco la violazione del segreto istruttorio. Quando Tortora entra a Regina Coeli, a Roma, il pubblico assiste a scene di degrado. Igiene inesistente, affollamento delle celle, detenuti in precarie condizioni di salute. È la situazione cronica di molte prigioni italiane, come ha appena ricordato il presidente Giorgio Napolitano. Ed ecco la questione carceraria. Nel cortile, durante l'ora d'aria, Tortora viene preso a male parole da un detenuto, il quale gli rinfaccia di avere importanti avvocati alle spalle. Non verrà dunque dimenticato in galera mentre altri rimangono per anni in attesa di giudizio. Ed ecco le lentezze intollerabili dei tribunali. Tortora fu condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. La Corte d'Appello di Napoli, nel 1986, lo assolse con formula piena. Il conduttore morì a 59 anni, il 18 maggio 1988. Nel 1987, proprio sull'onda del «caso Tortora», fu votato un referendum per estendere la responsabilità civile ai giudici. Passò con l'80 per cento dei suffragi. Il problema si trascina da allora, e se ne parla in continuazione, l'ultima volta questa estate, ma nulla di concreto è stato fatto. Che fine fecero i magistrati di quel processo? Avanzarono in carriera. Ecco cosa scrive Vittorio Pezzuto in Applausi e sputi (Sperling & Kupfer, 2008), la biografia di Tortora che ha ispirato la fiction: «Felice Di Persia? Membro del Csm e procuratore capo della Repubblica di Nocera Inferiore; Lucio Di Pietro? Procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e procuratore generale della Repubblica di Salerno; Diego Marmo? Procuratore generale presso il tribunale di Torre Annunziata; Luigi Sansone? Presidente della VI sezione penale della Corte di Cassazione; Orazio Dente Gattola? Presidente di sezione del tribunale di Torre Annunziata nonché apprezzato giurista». L'Italia può ancora specchiarsi nella vicenda Tortora. Dove siamo rimasti? A trent'anni fa.
E poi ci sono i "Fine pena, mai".
«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano», scrive Damiano Aliprandi il 22 luglio 2016, su "Il Dubbio". La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila. Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”. La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”. Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile? Alla trasmissione Radio carcere, condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale - in sintonia con quello della Bernardini - che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia? Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre?”, ha risposto “è in cella!”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti?” Nel carcere di L’Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile. Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate. Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza. Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata. Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato "fine pena mai" e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.
LA DISUGUAGLIANZA DELLA GIUSTIZIA.
Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?
Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.
Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.
La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.
E poi...
Non solo Meloni con Almirante, le strade intitolate che hanno fatto polemica. Stefano Cucchi, Oriana Fallaci, Bettino Craxi. Non sono pochi i personaggi "divisivi", per lo più politici, che hanno fatto nascere battaglie toponomastiche in tutta Italia. Dopo la proposta della candidato sindaco a Roma che vuole dedicare una strada all'ex repubblichino, ecco gli altri casi celebri, scrive Maurizio Di Fazio il 23 maggio 2016 su “L’Espresso”. “Se diventerò primo cittadino, intitolerò una strada a Giorgio Almirante” esclama Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e candidata alla carica di sindaco di Roma. Fioccano le proteste e le polemiche: è tuttora troppo controverso il ricordo del fu padre-padrone del Movimento sociale italiano, a 28 anni dalla sua scomparsa. Quantomeno per intestargli una via di una grande città: il nome dell’ex repubblichino ricorre già (sotto forma di strade, giardini e circonvallazioni) nelle mappe urbane e nel google maps di numerosi piccoli centri del centro-sud, nonché di capoluoghi di provincia come Foggia e Viterbo. Nel 2014 la Provincia di Latina (città fondata col nome di Littoria durante il fascismo) decise di dedicargli una rotonda a Borgo Sabotino, e il Premio Strega Antonio Pennacchi commentò: “Questa vicenda dimostra che il problema non sono i fasci, ma gli stupidi. Una classe politica deficitaria su tutto pensa di rincuorare il proprio popolo agitando la bandiera della provocazione”. Ogni anno i Comuni italiani sono invasi da una pletora di richieste di intitolare corsi, viuzze, slarghi, rondò, piazze, monumenti e parchi a personaggi della storia recente o recentissima che non hanno ancora fatto pace con la Storia condivisa della nostra nazione, e forse non la faranno mai. Per lo più politici, ma anche vittime di abusi di polizia, giornalisti, intellettuali e artisti “divisivi” in vita e dopo la morte, specie se avvenuta da poco. La legge che presiede alle denominazioni toponomastiche è invece vecchissima: risale al 1927, e stabilisce che di norma non si possono intitolare carreggiate e piazze a persone decedute da meno di dieci anni, salvo deroghe e delibere di giunta degli Enti locali. Senza dimenticare che in Italia solo il 4 per cento della strade possiede un’identità femminile: per il resto, è il Risorgimento a dettare tuttora la linea. A intervalli regolari ci si contorce sulle intitolazioni viarie della discordia. A marzo il Comune siciliano di Acireale ha approvato l’intestazione della Cittadella dello sport a Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia negli anni ottanta, “esempio di una caparbia intelligenza che ha illuminato la sua città riservandole un posto di rilievo nel panorama nazionale” sostengono i pro: “reo confesso di Tangentopoli” rammentano gli altri. Un anno e mezzo fa la Giunta di Roma ha licenziato a larga maggioranza una mozione destinata ad assegnare a Stefano Cucchi una via o una piazza della capitale. Assumendo la sua odissea a "simbolo della necessità di riformare il sistema di procedura penale e penitenziale in senso garantista", sarà questo il testo della targa commemorativa: "Stefano Cucchi, ragazzo". Contrarissimo il solito Carlo Giovanardi. Un mese fa la commissione toponomastica di Cremona ha cassato la petizione presentata da un gruppo di cittadini per intitolare una strada alla giornalista e scrittrice toscana venuta a mancare il 15 settembre del 2006: “Oriana Fallaci è un personaggio che divide, un simbolo dello scontro di civiltà” ha annotato uno dei membri della commissione. Una vexata quaestio, questa relativa al rapporto tra l’autrice di “Un uomo” e “La rabbia e l’orgoglio” e le edizioni di Tuttocittà stampate dopo la sua morte: e se il sindaco di Firenze Dario Nardella ha ormai aperto ufficialmente a una prossima via o vicolo o piazzetta Fallaci, e a Milano le è stata “consacrata” un mese fa una sala del Pirellone, il Campidoglio ha respinto invece nel 2014 ogni possibilità. A meno che non diventi nelle prossime ore il cavallo di battaglia di uno degli aspiranti sindaci romani, in chiave anti-Meloni/Almirante. Analoga sorte maledetta è toccata a Bettino Craxi. La prima a pensare all’ex segretario socialista in chiave toponomastica fu, a dieci anni esatti dal suo trapasso, l’allora primo cittadino di Milano Letizia Moratti. I suoi successori però cambiarono subito discorso, e del nome dell’ex potentissimo segretario socialista non c’è traccia oggi nemmeno in qualche sottopasso della periferia milanese. Anche qui per trovare una via Craxi bisogna spostarsi in provincia, a Ragusa per esempio, o direttamente in qualche paesino dell’Italia profonda. E se è vero che la musica è una metafora perfetta della più dura lotta politica e di pensiero che sopravvive (anche a lungo) ai suoi artefici, due mesi fa il Comune di Napoli si è impegnato a intitolare tre rotatorie, nel quartiere Vomero, a mostri sacri come Roberto Murolo, Renato Carosone e Sergio Bruni. Meglio di niente, anche se i cultori della canzone napoletana desidererebbero magari un boulevard “Tu vuò fa l’americano”. Quantomeno sul solco di Capo D’Orlando, in provincia di Messina, dove nel 2002 è stato inaugurato il "Lungomare Luciano Ligabue, artista contemporaneo".
La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere, scrive Angelo Mincuzzi il 19 giugno 2016 su L’urlo del “Il Sole 24ore”. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate? “Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) non è stato ancora tradotto in italiano ma meriterebbe di esserlo se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia. Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto? Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello. Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco». Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata. È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre. Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista”. Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo. All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo. La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia. Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori. E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica. La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P”, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto. Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.
La diseguaglianza della giustizia, scrive Michele Ainis il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". La Giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l'analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all'altro del nostro territorio. E alle deficienze s'accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d'ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l'"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov'è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell'utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l'istituto dell'accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d'accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l'eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l'essenziale, l'informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c'è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l'essenziale. Un esempio? La giustizia, per l'appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s'addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l'usuale prospettiva. L'eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mo' di corollario, che l'applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell'accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l'universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extragiuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d'ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l'udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d'un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un'ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un po' distratti, meglio controllare. Con un'indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c'è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l'indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l'immagine d'un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d'udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d'arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c'è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c'era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d'un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l'arretrato.
I giudici arroccati nelle loro “garanzie” rendono la legge diseguale per tutti. Orlando sulla prescrizione e un libro della politologa Piana, scrive Marco Valerio Lo Prete il 28 Giugno 2016 su "Il Foglio”. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in visita ad alcuni uffici giudiziari siciliani, ha detto che “non esiste un nord e un sud nell’ambito della giustizia”. E quella che a una prima lettura potrebbe apparire come una carezza buonista a tutto il sistema, contiene in realtà un messaggio critico che gli addetti ai lavori hanno carpito. “Dalle performance legate alle prescrizioni, emerge che nello stesso paese, con le stesse leggi e spesso anche con le stesse condizioni materiali, ci sono uffici che hanno, rispetto ai procedimenti sottoposti, il 30-40 per cento di prescrizioni e altri che stanno sotto il 2 o l’1 per cento. E anche in questo caso non sono le solite Trento e Bolzano, che vengono sempre citate come realtà virtuose: sono spesso, invece, uffici del Mezzogiorno, uffici di frontiera che però sono in grado di dare una risposta perché nel corso del tempo hanno prodotto elementi di innovazione organizzativa”, ha detto Orlando. In altre parole: cari magistrati, rimboccatevi le maniche, perché tante delle attuali disfunzioni del pianeta giustizia non sono colpa del governo ladro ma dipendono da voi. E’ questa una delle riflessioni al centro dell’ultimo libro della politologa Daniela Piana, pubblicato dal Mulino e intitolato “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”. Con linguaggio scientifico, quasi asettico, la studiosa dell’Università di Bologna mette in dubbio che l’uguaglianza di fronte alla legge sia oggi garantita a tutto tondo nel nostro paese. Con indagini sul campo e dati alla mano, l’autrice sottolinea infatti che “il diritto garantisce” ma “la funzione rende reale ed effettiva tale garanzia. Fra il diritto e la funzione (rendere giustizia) intervengono diversi fattori”, che a loro volta influenzano “quelle variabili che rendono diseguale o potenzialmente diseguale l’accesso alla giustizia resa al cittadino e alla collettività”. Un procedimento di diritto del lavoro viene definito nel distretto di Milano in 280 giorni in media (meno di 10 mesi), contro i 1.371 giorni di media (quasi quattro anni) nel distretto di Bari; allo stesso tempo, all’interno del distretto di Milano, una causa di diritto della famiglia si chiude in 142 giorni a Busto Arsizio e 258 giorni a Milano, poi – nel distretto di Bari – in 447 giorni a Foggia e in 536 giorni a Trani. Per la politologa Piana “non trova riscontro nella realtà dei fatti” l’ipotesi che “maggiore è il numero dei magistrati che lavorano in un tribunale, maggiore la performance e minore il numero di giorni per definire i procedimenti”. Infatti “ad Ancona la scopertura dell’organico togato è del 17 per cento, mentre a Belluno del 18 per cento. I tempi medi del primo ufficio sono di 224 giorni, mentre nel secondo 326. Palermo ha una scopertura dell’organico togato dell’11 per cento, mentre Milano del 16 per cento. I tempi medi di Palermo sono 436, quelli di Milano 229”. Piuttosto sembra incidere di più, secondo Piana, il personale amministrativo presente nei tribunali. Anche qui, però, non è questione di “quantità”: “Il rapporto Cepej (del Consiglio d’Europa, ndr) pubblicato nel 2014 rileva che solo il 2,5 per cento del personale non togato (cioè del personale non appartenente al corpo dei magistrati) è specializzato in management”. Nel resto d’Europa va diversamente: il tentativo di offrire una risposta in termini di professionalità ed efficienza ha spinto gli uffici giudiziari di altri paesi, come l’Olanda, ad avvalersi sistematicamente di figure professionali specializzate in management e accounting. D’altronde mentre il budget allocato complessivamente per il comparto nel nostro paese è in linea con gli standard europei – l’1,5 per cento del pil, come in Germania, il doppio del Belgio (0,7), poco meno di Francia (1,9) e Paesi Bassi (2) –, noi ci caratterizziamo per una ripartizione delle stesse risorse particolarmente generosa verso il solo sistema giudiziario (i tribunali) e sparagnina invece nei confronti degli utenti (vedi per esempio il patrocinio a spese dello stato). “I dati del Cepej mostrano che nel 2008 l’Italia spende 1,9 euro per cittadino per l’accesso alla giustizia contro una media europea di 7,2”. Così non c’è da meravigliarsi se sui media hanno trovato eco negli ultimi anni le proteste per l’eliminazione di tutte le sezioni distaccate dei tribunali, come anche la cancellazione di 31 tribunali e di 31 procure, avviate dal governo Monti, mentre è passato quasi sotto silenzio il fatto che “le recenti analisi dell’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia istituito dal ministro della Giustizia Orlando (…) hanno mostrato che la revisione della geografia giudiziaria ha comportato un miglioramento generale dei tempi con cui vengono definiti i procedimenti”. E’ l’organizzazione, bellezza! La politologa Piana lo ripete e lo dimostra, senza addossare croci in maniera preconcetta, rilevando che anche la politica preferisce annunciare il cambiamento senza poi seguire da vicino “il governo del cambiamento”. La sorte della riforma Mastella docet: solo nel 2015, a otto anni dall’entrata in vigore di quella legge, il Consiglio superiore della magistratura ha stilato incentivi e meccanismi di valutazione previsti dal testo per gli incarichi diretti e semidirettivi. Ecco spiegato perché “l’Italia è un paese che si è lungamente qualificato per un alto grado di garanzie ordinamentali e processuali e al contempo per un basso rendimento nella risposta resa al cittadino”. Siamo il paese con le norme e le garanzie per i giudici “più belle del mondo” ma allo stesso tempo il paese più condannato dalle corti europee per la lunghezza dei processi e quello in cui sono peggiori gli indicatori oggettivi e soggettivi sullo stato di diritto.
Una giustizia giusta, fino a prova contraria, scrive Silvia Dalpane il 20 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Significativa la testimonianza dell'infermiera di Piombino, vittima di un vero e proprio processo mediatico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: «Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia». Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l'infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l'ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l'accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l'indagine della procura di Livorno: «Sono qui perchè spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all'amara constatazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali». Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L'Italia infatti è soltanto l'ottavo paese dell'Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: «Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti». Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: «Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l'intervento dell'inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato». L'ex presidente del consiglio indica negli Usa l'esempio da seguire: «Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l'appello è più lungo del primo grado: un'inciviltà difficile da comprendere e accettare». Dall'ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all'attualità: «Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all'interno di alcune categorie c'è ancora oggi dell'omertà». Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: «Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo». Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l'Italia è chiamata a ispirarsi: «Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all'Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l'anno». Non è mancato un riferimento all'indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: «Alcuni dirigenti di Standard & Poor's sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti». Per l'ex ministro della Giustizia Paola Severino l'Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: «La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell'asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l'avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l'applicazione delle regole vengono prima della repressione». Il presidente dell'Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: «Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d'innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L'opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino nè come vadano affrontate». Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all'università di Palermo: «Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull'attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo». Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. «Rappresentano un'esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all'ambito penale», ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all'impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: «Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L'Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese». Smentiti tanti luoghi comuni: «Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D'altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi...».
Chirico: «Il mio corpo è uno strumento di lotta...» Intervista di Errico Novi del 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Marco è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite». Bisogna essere sfacciati per mettersi a parlare di giustizia dalla parte degli indagati, per sfidare il mainstream forcaiolo. E ad Annalisa Chirico il coraggio non manca, l’entusiasmo neppure né una splendida indole pannelliana che «mi porta a considerare il mio corpo uno strumento di lotta: l’ho imparato da quel gigante che è Marco Pannella, certo». E adesso questa giornalista che con un’intervista a un togato del Csm è capace di far scoppiare un caso istituzionale da restare nella storia di Palazzo dei Marescialli, presiede un movimento che «intende promuovere una vera riforma del sistema giudiziario italiano». Si chiama “Fino a prova contraria”, è una specie di bandiera con su impresso l’articolo 27 della Costituzione e ha in programma un incontro per martedì prossimo a Palazzo Wedekind intitolato “Cambiamo la giustizia per cambiare l’Italia”, con il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il professor Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, oltre ai giuristi, imprenditori e magistrati che Annalisa ha coinvolto nella sua associazione.
Di questi tempi si rischia, a mettersi contro il mainstream giustizialista.
«Be’ ci sono polemiche persino per il fatto che alla presentazione interverrà Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che i pm continuano a inseguire armati di manette fino in Cassazione, e l’ex ergastolano Giuseppe Gulotta che si è fatto 22 anni di carcere prima di vedersi dichiarato innocente. Noi comunque non ci proponiamo come un’associazione di vittime della giustizia ma per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia del processo mediatico, un caso tutto italiano che si regge sulla commistione incestuosa tra giornalisti e magistrati».
Andate controvento.
«Sono contenta del riscontro che abbiamo trovato già dal giorno del battesimo a Villa Taverna con l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, mi pare che siamo già riusciti a conquistare una certa autorevolezza. Già ci riconoscono come movimento che si batte per una giustizia più efficiente in funzione di un Paese più competitivo. Sono soprattutto gli stranieri che hanno bisogno di essere rassicurati sul funzionamento del processo, in Italia. Gli americani sono rimasti choccati dal caso Amanda Knox. La grandissima parte dell’opinione pubblica Usa è rimasta incredula nello scoprire che con il sistema processuale italiano si può essere dichiarati innocenti dopo quattro anni di carcere. Ci sono altre vicende in cui il collegamento con il sistema economico è ancora più netto».
Ad esempio?
«Il caso Ilva, in cui un polo siderurgico di livello mondiale è già stato oggetto di sequestri di beni alle persone nonostante, dopo diversi anni, si sia ancora alle battute iniziali del processo».
Fai esempi che difficilmente possono intenerire l’opinione pubblica assetata di condanne.
«E invece io credo che già ora qualcosa tenda a cambiare. Ci sono episodi che segnano un passaggio, lo fu il cosiddetto referendum Tortora che raccolse un consenso fortissimo. Credo che oggi la battaglia in difesa delle garanzie per le persone indagate, degli imputati, possa far breccia nell’opinione pubblica. Anche grazie al fatto che il re, cioè la magistratura, è nudo».
A cosa ti riferisci.
«Agli episodi che hanno spezzato l’incantesimo del magistrato infallibile: penso a quando si è scoperto il valore degli immobili di Di Pietro, al capitombolo elettorale di Ingroia, alla giudice Silvana Saguto coinvolta nello scandalo di Palermo sui beni confiscati, a un caso come quello di Morosini che racconta in un’intervista come la corrente Md intenda impegnarsi contro il governo sul referendum costituzionale».
Quell’intervista c’è stata o no?
«Mi attengo alla prima smentita di Morosini, in cui parlò di colloquio informale che lui riteneva non avrebbe dovuto essere inteso come intervista».
Tu perché l’hai inteso come intervista?
«Perché a un certo punto ho cominciato a prendere appunti sul taccuino, e davo per scontato che lui avesse compreso la mia intenzione di riportare le sue parole. D’altronde mi era parso che lui potesse essere interessato a rendere pubbliche quelle considerazioni per giochi interni alla sua corrente».
E invece?
«E invece lui pensava che prendessi appunti chissà perché. Dopo il comunicato dell’Anm e l’intervento del guardasigilli ha pronunciato una smentita completa, per mettersi in salvo. Io a quel punto, per la simpatia che ho nei suoi confronti, sono rimasta silente».
Vi siete più sentiti?
«Come no. Siamo rimasti in buoni rapporti».
Davvero? Non ti ha sbranato al telefono?
«No. Sa che non ho infierito, né lo ha fatto il mio giornale, il Foglio».
I togati del Csm sono impreparati all’esposizione mediatica?
«I magistrati in generale usano la comunicazione benissimo. E ci riescono grazie al fatto che quasi tutti, a cominciare dai giornaloni, ben si guardano dal far loro le pulci come fanno con i politici».
Sei stata provocatoria con il libro Siamo tutte puttane, continui a esporti in modo temerario: esagero se dico che in questo sei un po’ pannelliana?
«Io mi considero pannelliana, considero il mio corpo uno strumento di lotta, l’ho imparato dai radicali, anche grazie al lavoro fatto all’Strasburgo quando Marco era deputato europeo. Lui è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite. Le cose che scrivo e che porto avanti costituiscono un unico habitat umano con il modo in cui vivo e le persone che conosco».
Ecco, ma prima o poi il Fatto ti toglierà la pelle di dosso.
«Il Fatto si è già occupato di me e dei miei fidanzati veri o presunti in varie occasioni. Ho molta simpatia per Marco Travaglio, un uomo eccentrico e incline allo spettacolo».
A proposito di simpatie: con Chicco Testa vi siete lasciati così male?
«Lasciati? Ma che dici?»
Lo hai scritto tu sul Giornale di Sallusti.
«Macché. È qui vicino a me mentre parlo al telefono. Quell’articolo aveva un tono letterario, parla di Becoming, il memoir della Williams su come si risorge dopo una separazione».
E se d’improvviso sparissi e ti limitassi a scrivere senza apparire mai?
«Non potrei mai scrivere semplicemente degli articoli. Porto avanti delle battaglie proprio perché scrivo quello che Annalisa pensa».
DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.
Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.
Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.
O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).
O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.
Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.
Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.
Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.
Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.
E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.
PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.
Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità… Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione… Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.
Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.
Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.
Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.
Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.
La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.
Morì d’infarto durante l’arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.
L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette...non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.
Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.
Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".
Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure. Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.
E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte”, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:
Carlo Giuliani, 2001. Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.
Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.
Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.
Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.
Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.
Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara: “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”. Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.
TORTURA DI STATO.
Firenze. Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.
Milano. Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto. Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti, intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.
Frosinone. In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006. I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.
Monza. Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.
Napoli. Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.
Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana. Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale. Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi. Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi. Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità. Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più. E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.
Detenuto suicida a Terni: la procura apre un’inchiesta, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de il Garantista. Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella di aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013. Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi «che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico». A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che «un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina». Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che «lo toglievano anche dal lavoro di barbiere». A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che si sarebbe impiccato se lo avessero chiuso; ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che «se non si impiccava, lo uccidevano loro». Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – i due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta «ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella». Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno «si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo». Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore «che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto». Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione. Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria, confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luce su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario- giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato “perfetto”.
E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo». Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri su “Il Garantista”. «Carissimi/e compagni/e, Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito! Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.»
Torture alla Diaz. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia, scrive Patrizio Gonella su “L’Espresso”. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia. A quattordici anni dalle brutalità della Diaz è arrivata la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Come già aveva scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in Italia non si può punire per tortura in quanto manca il crimine. Così i giudici di Strasburgo ci hanno condannato per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante ma anche perché a causa dell’assenza del delitto nel nostro codice in Italia vi è l’impunità per torturatori. Nei prossimi giorni la Camera discuterà la proposta di legge approvata oramai molti mesi fa al Senato. Non è il migliore dei testi. E’ incoerente rispetto al dettato Onu, eppure bastava tradurre dieci righe dall’inglese in italiano. Alla scuola Diaz e al carcere illegale di Bolzaneto si è ritenuto che si potesse instaurare uno stato di eccezione. Il film Diaz di Daniele Vicari ha il merito di avere fatto conoscere a molti giovani di oggi, che nel 2001 erano poco più che bambini, cosa accadde a Genova in quei giorni. Una vergogna nazionale. Uno Stato che non si è costituito parte civile nei procedimenti penali a Genova nei casi Diaz e Bolzaneto, ad Asti per le violenze in carcere, a Roma nel caso della morte di Stefano Cucchi, a Ferrara nel caso Aldrovandi, a Lecce nel caso Saturno etc. etc.. Non solo. Gli imputati in questi procedimenti penali hanno spesso fatto passi in avanti nella carriera nel corso del processo, o quanto meno non hanno subito alcuna sanzione disciplinare. Il messaggio è in questi casi devastante. E’ un messaggio inequivocabile di legittimazione e incentivazione alla perpetrazione di pratiche illegali di tortura. Un messaggio che serve a segnare la forza del potere punitivo incontenibile rispetto a ogni anelito illusorio e ingenuo di legalità democratica. Se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia una questione di mele marce. La tortura non è mai una questione di mele marce salvo non venga incrinato quello spirito di corpo che dal basso arriva sino all’alto e che si propaga dal singolo poliziotto sino alle più alte cariche istituzionali. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione di squadre e corpi speciali. Il crimine, anche quello più spietato, lo si deve sconfiggere nella legalità e con gli strumenti ordinari del diritto.
Morti di botte, il filo rosso. Da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli interrogatori, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”. Luigi Manconi insegna sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. È stato senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. È presidente dell'associazione 'A Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di isolamento del carcere di Perugia.
Cucchi, Uva, Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non chiarite. Ci sono novità?
«Ce ne sono, di positive e di negative, in tutti e tre i casi».
Da dove cominciamo?
«Cominciamo da una notizia positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».
Perché questa è una novità positiva?
«Il pubblico ministero aveva accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico: il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella morte vengano cercate altrove».
Dove, precisamente?
«Nella caserma dei carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».
Necessità di ulteriori approfondimenti, insomma.
«Assolutamente sì. Del resto secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai stato sentito in quattro anni».
Mai?
«Neanche una volta. Si tratta quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».
Con quale caso andiamo avanti?
«Con quello di Stefano Cucchi, per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».
Per stabilire cosa?
«Per rispondere all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».
La richiesta di nuova perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.
«Sì, ma ce n'è anche un'altra di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto in appello perché il fatto non sussiste».
E questo cosa significa?
«Significa che a vari livelli viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».
Uno scenario agghiacciante…
«Che si protrae anche nelle ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel momento lei riteneva ancora viva».
E sulla vicenda di Aldo Bianzino?
«Solo novità negative, purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».
Ad esempio?
«In una delle ultime udienze un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».
Sembra incredibile.
«Eppure è documentato in modo incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede si giudicava solo l'omissione di soccorso».
Facendo un passo indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che caratterizzano ognuna di esse?
«Certamente il fatto che uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».
Uno per tutti?
«La vicenda di Luciano Isidoro Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».
Anche in questo caso le violenza sarebbero avvenute in caserma?
«Sia in caserma che fuori. Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa».
Un percorso difficile?
«Sì, perché c'è sempre una spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli. Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».
Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “Licenza di tortura”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia: la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni, il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette...non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “colluttazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.
Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.
Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di scomunicare “solo” i mafiosi. "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l'ostia", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo». Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità" del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell'assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l'assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c'è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all'assessore: «Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia annuisce e prende appunti con un'assistente: «Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi». Nella sala c'è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c'è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell'inchino... (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all'abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr)». A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi?», si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: «Ci vogliono punire», dice. «Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male». Nella "sala della socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c'è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all'incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all'assessore le attività dell'istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un'ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l'ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».
Morto in carcere “per infarto” ma la famiglia: «Era pieno di lividi». Il trentottenne moldavo era detenuto a Terni, scrive Damiano Aliprandi il 18 Settembre 2018 su "Il Dubbio". È stato ritrovato senza vita nel carcere di Terni, ma i familiari non credono che si sia trattato di un infarto. Grazie ad alcuni dettagli pubblicati da Il Giornale, emergerebbero due fatti gravissimi: la denuncia di maltrattamenti e le cure mediche. Secondo quanto affermato dal quotidiano, il corpo dell’uomo sarebbe stato pieno di lividi e per questo la famiglia vuole vederci chiaro. Secondo i familiari, arrivati dalla Moldavia, la situazione era tranquilla quando sono andati a trovarlo in carcere. Il moldavo, 38enne, era stato arrestato a Milano, appena sceso dall’aereo che arrivava dal suo paese. «Aveva commesso un piccolo furto – ha detto un amico al quotidiano – e per questo era finito sotto processo. Lui non si presentò in aula e lasciò l’Italia e per questo fu condannato a un anno e otto mesi». A Terni era arrivato dopo due mesi di carcere a Milano e lì sarebbero cominciati i problemi: fino ad essere trovato cadavere nella sua cella il mattino del 14 settembre 2018. Da sei mesi, da quando era in carcere a Terni, aveva cominciato a lamentare dei dolori alla pancia. Era stato visitato, ma i medici non avrebbero riscontrato nulla e gli avrebbero somministrato un farmaco che, almeno a detta dell’amico, gli avrebbe provocato maggior dolore. L’uomo si è sempre lamentato delle pessime condizioni carcerarie: diceva alla sorella che le galere italiane erano peggio di quelle africane. I soldi che chiedeva alla sorella, che vive a Londra, a lui non sarebbero mai arrivati. Ancora ignote, invece, le cause del decesso. La famiglia ha chiesto di vedere il corpo e «all’inizio non volevano neanche farlo vedere ai genitori. Poi hanno cambiato idea. Era tutto pieno di lividi, con il sangue che usciva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie. Non può essere stato un infarto», dice sempre l’amico. Sul caso interviene pubblicamente anche la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini. «È stato pestato? Da chi? Oppure non ha ricevuto cure sanitarie? Chiederò al garante dei detenuti di approfondire e riferire alla Regione, intanto la Asl sta approfondendo la parte di sua competenza», ha scritto su Facebook. Se ci siano stati maltrattamenti è ancora tutto da verificare e presto si saprà di più, ma rimane l’allarme dal punto di vista sanitario. Il diritto alla salute sembra passare in secondo piano di fronte al sistema punitivo. Un altro caso, oltre a quello del carcere di Terni, riguarda Ciro Rigotti. Il detenuto sta morendo nel suo letto del reparto rianimazione all’ospedale Cardarelli: ha un tumore alla faccia e al cervello, che gli lascia poco tempo ancora da vivere. La malattia avrebbe presentato i primi sintomi quattro mesi fa, quando il 62enne, nella sua cella del carcere di Poggioreale (dove deve scontare nove anni per droga) ha avvertito i primi dolori all’orecchio, con conseguenti perdite di sangue dal naso. Secondo Nunzia, sua figlia, non ci sono dubbi: gli avrebbero somministrato antidolorifici e tamponato la perdita con dell’ovatta. Ma il dimagrimento sempre più forte del padre ha portato la famiglia a chiedere una visita specialistica, che ha riscontrato un polipo nel naso a metà luglio. Purtroppo, però, la tac richiesta è stata fatta solo una settimana fa ed ora è troppo tardi. Al fianco dei familiari, anche Pietro Ioia, presidente dell’associazione degli ex detenuti, che racconta come nel carcere di Poggioreale «quando scorre sangue a qualche detenuto», questo viene curato con «antidolorifici o la cosiddetta pillola di Padre Pio». E tutto ciò perché nel penitenziario napoletano «non ci sono medici specialistici per interventi celeri». La famiglia di Rigotti ha presentato un esposto alla Procura, che potrebbe aprire a breve un fascicolo per accertare eventuali responsabilità. Nel frattempo però Ciro Rigotti è ufficialmente detenuto e quindi, anche se è un malato terminale, non può ritornare a casa dove passare gli ultimi mesi circondato dall’affetto dei suoi cari. Di fatto è un detenuto, quindi i familiari possono vederlo solo di giovedì, così come accade in carcere per i colloqui.
Trento, si è suicidato in cella. Il perito: era idoneo alla reclusione. Arrestato per aver appiccato un incendio, aveva una precaria situazione psicofisica. Il Garante dei Detenuti, dopo una visita nella casa circondariale, ha denunciato alla Procura la situazione di alcune stanze della sezione di isolamento, segnalata da alcuni reclusi, scrive Damiano Aliprandi il 20 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Era stato portato al carcere trentino di Spini di Gardolo e messo nella cella dell’infermeria insieme a un altro detenuto. Tre giorni dopo il suo ingresso nella casa circondariale, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita impiccandosi al cancello della cella. La tragedia è accaduta nella notte di venerdì scorso e nel momento del suicidio, non solo c’era un unico agente per coprire quattro posti di servizio, ma soprattutto non c’era alcun medico o infermiere. Quando l’agente ha fatto visita alla cella, ha trovato l’uomo impiccato: per lui non c’era purtroppo nulla da fare. Eppure non doveva neppure starci in carcere visto il suo stato psicofisico mentale precario. Si chiamava Luca Soricelli e aveva trentacinque anni. Era stato arrestato lunedì notte dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto folle. Quando i carabinieri lo avevano fermato era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso di carburante le pompe del distributore e aveva appiccato il fuoco. L’intervento di uno dei gestori prima e quello dei vigili del fuoco poi aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono stati comunque ingenti. Dal momento dell’arresto non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità a essere rinchiuso in una cella. È stato processato per direttissima. Luca era risultato idoneo per il carcere. Talmente idoneo che si è poi impiccato con un lenzuolo intorno al collo. Eppure la storia di Luca, segnata dal disagio sociale che intaccato la sua capacità psichica, era cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. Eppure, prima della sentenza, è stato condotto preventivamente in carcere. Tre sono i motivi per giustificare la custodia cautelare: il pericolo di reiterazione del reato, il pericolo di fuga o l’inquinamento delle prove. Per una persona con problemi psichiatrici come Luca Soricelli, c’è solo il primo pericolo. Ma nei casi compiuti da persone con disturbi psichici esiste il trattamento sanitario obbligatorio. I detenuti a Trento, stando agli ultimi dati del Dap, sono 337. Secondo il Sappe l’organico è di 214 agenti, ma gli effettivi sono di fatto sono solo 108 e di questi molti vengono impiegati per i piantonamenti altasca l’ospedale. La notte della tragedia doveva esserci qualcuno a sorvegliare il trentacinquenne, ma l’agente incaricato doveva coprire quattro posti contemporaneamente. Pochi minuti di assenza e c’è stata l’impiccagione. Nel carcere di Trento, da quando è stato inaugurato, a fine gennaio 2011, sono avvenuti quattro suicidi. Ma c’è un altro problema che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha denunciato alla Procura. Nel suo rapporto racconta di aver visitato la sezione di isolamento. All’ingresso ci sono due stanze: una, a destra, utilizzata come magazzino, mentre un’altra, a sinistra (indicata come stanza 2706) trovata vuota, arredata solo con un armadio di metallo, che presentava sulla parete segni di colpi da cui partivano striature nere e sotto delle piccole macchie a forma di schizzi di colore bruno che potevano essere indicativi di sangue. Il comandante di reparto, presente al momento della visita, ha ipotizzato che il sangue, qualora accertato, potesse essere dovuto ad atti di autolesionismo. A questa stanza, la delegazione del garante, era arrivata su segnalazione di diversi detenuti: sia di alcuni ospitati a Trento nel giorno della visita, sia di altri non più detenuti a Trento e incontrati in altri Istituti, che avevano fornito convergenti indicazioni. La stanza era stata indicata come luogo in cui alcuni di essi avevano subito percosse da parte di personale della Polizia penitenziaria. Mauro Palma ha quindi chiesto che si faccia luce sulla natura e sull’origine delle macchie sul muro e di sapere quale sia ufficialmente l’uso della stanza 2706. Qualora si accerti che all’origine vi siano atti di autolesionismo, il Garante chiede di sapere perché persone a rischio siano state messe in una stanza non detentiva priva di qualsiasi arredo tipico di una stanza di pernottamento e non in infermeria o in una stanza dove sia possibile una continua osservazione. Qualora invece tale ipotesi non venisse confermata e le macchie risultassero di sangue, chiede che ne venga trasmessa informazione alla Procura della Repubblica, anche in considerazione delle altre denunce che questo stesso Garante ha ricevuto nonché di quanto apparso sulla stampa dopo una specifica audizione del responsabile sanitario da parte della Prima commissione del Consiglio della Provincia di Trento. La Procura, in seguito all’esposto, aveva aperto un’indagine. Recentemente però ha chiesto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo le accuse infondate. Ma il garante ha presentato opposizione. Ora si attende l’udienza davanti al gip.
Detenuto registra frasi shock: "Le botte ti saranno utili, la Costituzione non vale in questo carcere". Le parole degli agenti penitenziari: "Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima", scrive Maria Novella De Luca il 04 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c'è bisogno che ti picchio anch'io". Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, "ci vogliono il bastone e la carota". Un giorno di pugni e l'altro no, "così si ottengono risultati ottimi". E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto "il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima", e, dice ancora il brigadiere, "non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia. La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall'avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto. Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall'inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per "scassarlo" di botte, o il sovrintendente ammette: "questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Agente con accento napoletano: "Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto". Rachid: "Perché mi volevate picchiare". "Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù". Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama "brigadiere". Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria. Rachid registra e registra. Incalza anche: "Voi qui non applicate la Costituzione". La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva "fermati" all'agente che lo stava picchiando) è incredibile: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent'anni. In questo carcere la Costituzione non c'entra niente...". Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l'associazione "A buon diritto" di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti "si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l'istituzione carcere che non funziona". Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: "Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un'impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative". Rachid: "Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna". E il "superiore" invece di smentirlo difende l'uso della violenza come metodo rieducativo. "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi". Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi. Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, "disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti". Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l'associazione "A buon diritto": "Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata".
A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". La guardia carceraria si lascia andare: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da “l’Espresso”. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Neppure il medico è disposto a intervenire: «Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita». Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che «a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo “alla politica” di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni», dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. «La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare». Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio.
La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», ammetteva un poliziotto. Ecco gli audio in esclusiva acquisiti dalla magistratura, scrive ancora Giovanni Tizian su "L'Espresso". Un'inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l'anno scorso da “l'Espresso”, sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all'abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all'interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da “l'Espresso”, e acquisiti dai magistrati su richiesta dell'avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l'indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. «Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall'ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella». Nell'album fotografico mostrato ad Assarag durante l'interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall'ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c'è l'abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all'interno delle celle esistesse un'unica legge, non scritta: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». Assarag è assistito dall'avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Il legale, in una memoria, scrive: «A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani.
C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso". Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento. Il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul “Giornale” scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è “L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti”. Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): «Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo il Giornale, Anselmo «il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica». Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia». Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati “mediatici” avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla “Nuova Ferrara”, Anselmo dice: «senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi» e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce “morti di Stato”, persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio.
CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.
La condizione di “Condannati preventivi”. Le manette facili di uno stato fuorilegge.
Quando in uno Stato, che si definisce “Culla del Diritto”, la metà dei suoi detenuti in carcere sono innocenti e nessuno dei ben pensanti liberi e criminali impuniti se ne “fotte”, allora è uno Stato che non merita rispetto. Non meritano rispetto nemmeno la massa che lo abita e che si accapiglia solo sui soldi e non sui valori civili e sulla la dignità umana.
“Parlar con il popolino non conviene, questo sa più della laurea che tieni. Su questi argomenti è sempre negazione, perché?!? Perché l’ha detto la televisione!!!” (parte di una poesia di Antonio Giangrande). Si scrive per i posteri affinchè si ridia onore a chi oggi onore non ha.
E SE UN DOMANI IL DANNATO FOSSI TU !!!
Quasi un detenuto su due è recluso nelle galere italiane in regime di custodia cautelare. In altre parole, carcere preventivo. La detenzione dietro le sbarre in assenza di una sentenza di condanna ha assunto dimensioni abnormi, che sono valse al nostro Paese la maglia nera in Europa. Se oggi in Italia è più facile andare in carcere in assenza che non a seguito di una condanna; se i processi hanno una durata elefantiaca e spesso un’estinzione quasi certa; se quintali di carcere preventivo in celle dove può succedere di tutto, e di tutto infatti vi succede, vengono dispensati senza che vi sia un meccanismo efficace per ottenere riparazione in caso di ingiusta detenzione; se oggi un magistrato può spedirti dietro le sbarre con una formuletta di rito senza che tu abbia alcun mezzo per difenderti (anzi spesso la detenzione ostacola l’articolazione di una vera difesa); se tutto questo è vero, allora esiste un problema.
Esiste un Caso Italia. Le manette strette ai polsi di presunti colpevoli ci paiono la norma. Ma di normale non c’è nulla.
“ConDANNATI preventivi”: Se il carcere preventivo è abuso.
Questo è libro di Annalisa Chirico.
Adriana è la badante romena accusata dell’omicidio di un’anziana: 3 anni di carcere e poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste, la vecchia è morta d’infarto. Elizabeth è considerata la referente italiana di un cartello internazionale di droghe: quattro anni di galera seguiti da altri sei con obbligo di dimora, poi l’assoluzione e il ricongiungimento con la figlia salutata dieci anni prima in Colombia.
Sono alcune delle storie che racconto in “ConDANNATI preventivi”, che non è un libro sul carcere ma sulla giustizia in Italia. Attraverso casi più o meno noti (da Alfonso Papa a Raffaele Sollecito, da Lele Mora a Silvio Scaglia) si accende una luce sui nodi irrisolti della giustizia italiana, un vero manicomio dove è più facile finire in galera prima della condanna e poi uscire una volta condannati. Da strumento di cautela processuale la custodia cautelare dietro le sbarre è diventata anticipazione della pena e mezzo per estorcere confessioni. E’ l’antidoto alla irragionevole durata dei processi. Il 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, la metà di questi sarà dichiarata innocente. Nel 2011 lo Stato italiano ha versato 46 milioni di euro per ingiusta detenzione, 235 euro è il prezzo di un giorno di libertà negato. Dal 1988, anno dell’entrata in vigore della legge Vassalli, ad oggi le condanne irrogate nei confronti di magistrati per dolo o colpa grave sono state quattro in tutto. Avete capito bene. “Condannati preventivi – Le manette facili di uno Stato fuorilegge” di Annalisa Chirico è un pamphlet di denuncia, scritto con linguaggio battagliero e polemico, spesso esuberante, scrive Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali”. L’autrice, del comitato nazionale di Radicali Italiani, scrive su “Panorama” e “Il Giornale”; ha affidato la prefazione del suo lavoro a Vittorio Feltri e la postfazione di Giorgio Mulè, attuale direttore di “Panorama”. Nella sue due paginette, Feltri si pronuncia per l’amnistia come condizione per rientrare nella legalità, definisce le carceri un “museo degli orrori” ed elogia i Radicali. Anche Annalisa Chirico utilizza l’intero armamentario lessicale tipicamente pannelliano: tortura legalizzata, Stato criminale, Corte costituzionale come “suprema cupola della mafiosità partitocratica” e via dicendo; cita di continuo Pannella, D’Elia, Bernardini, Arena, “Radio Carcere” e “Radio Radicale”. La prima parte del libro è sicuramente la più interessante e istruttiva: 70 pagine in cui scorrono molti protagonisti, noti e meno noti, delle cronache e degli orrori giudiziari italiani. Si comincia con il deputato Alfonso Papa, che sottolinea le “scorrettezze” sia del Parlamento, sia dei magistrati (a partire dagli interrogatori) per finire con le condizioni di vita nell’inferno di Poggioreale. Poi via via tutti gli altri, ognuno dei quali descrive un aspetto particolarmente scandaloso e tragico. Lele Mora che perde 35 chili e fa 400 giorni di carcere preventivo per bancarotta. I giornali si chiedono: “Quanto c’è di vero nella sua conversione morale?” invece di interrogarsi sul trattamento cui è stato sottoposto. Poi si parla di “Giancarlo” accusato di una scalata alla Lazio che non ha mai tentato, e di Silvio Scaglia, uno degli italiani più ricchi, che dalle Antille affitta un aereo privato per attraversare l’Atlantico e presentarsi al giudice e viene incarcerato per il “pericolo di fuga e inquinamento delle prove”. Si racconta di una sconosciuta Elisabeth accusata di narcotraffico, incontrata da Sergio D’Elia e difesa dagli avvocati radicali Caiazza e Rossodivita, completamente scagionata dopo 9 processi nel corso di 13 anni. Quando le dicono “Lei è libera” si chiede: “E adesso cosa faccio? Dove vado?”. Amanda Knox e Salvatore Sollecito (delitto Meredith, Perugia) totalizzano 1450 giorni di carcere in due, per poi essere assolti con grande ira popolare. Amanda accusa Patrice Lumumba (che per sua fortuna ha un alibi di ferro) ma ritratta subito: ha fatto il suo nome solo perché distrutta da un interrogatorio/tortura. In attesa di giudizio le vengono negati i domiciliari con la motivazione che non avrebbe dimostrato “rimorso” (!?!?). Adriana, badante rumena, viene accusata di avere ucciso la vecchia che assisteva: tre anni dentro, per poi scoprire che già l’autopsia aveva dimostrato la morte per infarto: il fatto non sussiste. Massimiliano Clerico si fa il carcere per calunnia (?!?!?!) mentre le lettere anonime calunniose le aveva mandate un altro: è assolto ma la sua ditta intanto fallisce. Renato Raimondi fa un giorno di carcere, il Gip non convalida l’arresto: rimborso minimo 235,82 euro. Lo Stato gliene versa 200 poi Equitalia gli chiede 136,05 euro di tassa per la registrazione della sentenza in Cassazione. Dopo l’assoluzione definitiva riceverà un rimborso di 3.000 euro. Daniela, prostituta sieropositiva, viene accusata di “tentate lesioni volontarie gravissime” per avere avuto rapporti non protetti. Ma negligenza e imprudenza non possono essere “tentate”, il reato può essere solo doloso e non colposo.
Assolta, chiede l’indennizzo ma le viene negato: la sua condotta è comunque “riprovevole”, il giudizio morale prevale sul diritto. P.O. viene arrestato per droga, è pluri-pregiudicato ma questa volta non c’entra. Viene assolto, lo Stato è condannato a rimborsare entro 120 giorni ma inizia una guerra di carte bollate, riceve i soldi solo 6 anni e mezzo dopo. Salvatore Ferraro è un caso notissimo (delitto Marta Russo, Sapienza Roma). Chirico racconta l’interrogatorio scandaloso della testimone Alletto (tutta l’Italia lo ha visto nella videocassetta di Panorama) che dice: “Io in quell’aula non c’ero, mi prenderanno per pazza”, e il pm: “No, la prenderemo per omicida.
Lei entra in carcere e non esce più”. Così la Alletto accusa Scattone e Ferraro. Il Tribunale del riesame respinge l’istanza di scarcerazione scrivendo che “il movente sta nell’assenza di movente”. Anche Liparota, altro testimone, prima conferma la (estorta) testimonianza della Alletto, poi ritratta dicendo di essere stato costretto dalle eccessive pressioni. Ferraro sta in carcere fino alla condanna, poi appena condannato... esce: una giustizia folle, alla rovescia. Se avesse confessato il falso, accusando Scattone, sarebbe uscito subito. Dulcis in fundo, a Ferraro viene chiesto dall’Università un milione di euro di risarcimento danni. In realtà deve pagarli Scattone ma il giudice... si è sbagliato, ha confuso i due. Eh già, il giudice si è sbagliato, sorride amaro Ferraro. Aldo Scardella si impicca a 24 anni nel carcere di Cagliari nel 1986. Lo avevano sbattuto dentro perché sospettato di una rapina ma non c’entrava nulla, i veri colpevoli saranno trovati e condannati molti anni dopo. Il suo suicidio è un omicidio di Stato. Procuratore capo, giudice istruttore e Pm si rimpallano le responsabilità per la decisione dell’isolamento. Emergono i pessimi rapporti interni al Tribunale, le polemiche, le rivalità personali. A Scardella è intestata una piazza cittadina. Infine Giuliano Naria, il cui caso è notissimo, la più lunga custodia cautelare della storia d’Italia, morto di cancro a 50 anni.
La seconda parte del libro è meno interessante, più ripetitiva.
L’autrice ricorda Enzo Tortora, ma anche Clementina Forleo che nel ’94 assolve Melluso dalla querela per diffamazione perché, al di là di quanto stabilito dal processo, “i fatti potrebbero essere andati diversamente”. Si descrivono le carceri come “discarica sociale”, “fabbrica di mostri”, luoghi di pena corporale eccetera. Ci si dilunga sulle motivazioni che dovrebbero giustificare la carcerazione preventiva – gravi indizi di colpevolezza, pericolo di fuga, reiterazione e inquinamento delle prove – per dimostrarne il mancato rispetto e l’intima incongruenza con il dettato costituzionale. Si denuncia la non terzietà del giudice e la mancata separazione delle carriere, le ripetute condanne in sede europea. Si ricorda la vicenda giudiziaria di Corrado Carnevale, accusato di complicità con la mafia e poi assolto da tutto. Si denuncia la giustizia per campagne emergenziali: prima il terrorismo, poi la mafia, poi ancora la corruzione politica. Tangentopoli viene descritta come un golpe moralizzatore a opera del “partito dei magistrati” (Mellini) Un magistrato, Marcello Maddalena, parla di “momento magico” dopo l’arresto, quando “l’arrestato si preoccupa meno della solidarietà nei confronti dei correi e più della rapida conclusione della sua disavventura”.
Le ultime pagine parlano del reato di stupro e di una magistratura che opera con il fiato sul collo degli umori popolari, montati dalla televisione. Un paragrafo è dedicato al braccialetto elettronico, misura mai decollata nonostante le ingenti somme investite (100 milioni spesi, 10 braccialetti sperimentati in tutto) mentre in altri paesi funziona perfettamente: 100.000 in Usa, 60.000 nel Regno Unito. Nelle conclusioni, Chirico cita ancora Pannella: l’amnistia contro la “flagranza criminale”, le prescrizioni come amnistia strisciante e di classe. Secondo l’autrice, la carcerazione preventiva va impedita tout court, completamente e per tutti, le carriere separate, l’obbligatorietà dell’azione penale abolita, le leggi ex-Cirielli e Fini-Giovanardi abrogate (37% di detenuti in Italia per reati connessi alla droga, contro una media europea del 15%). Per contro, la legge Vassalli sulla responsabilità non è mai stata veramente applicata: dal 1988, 406 cause avviate, 34 dichiarate ammissibili e solo 4 concluse con una condanna. L’autrice propone l’istituto della sospensione della pena e messa in prova del detenuto e l’introduzione delle liste d’attesa per le carceri (come in Norvegia) con arresto domiciliare. Sicuramente l’attitudine della giovane autrice (classe 1986) di parlare in prima persona e di rivolgersi direttamente ai lettori (“Tendono le mani attraverso le sbarre, a te si aggrappano e tu ti senti così piccola, così impotente”; “Non prendetelo come un invito all’eversione ma come un monito: qui ci stanno fregando, ora lo sapete”; “Dovrebbe preoccuparci tutti. Io sono preoccupata, non so voi”) non contribuisce ad accrescerne l’autorevolezza. Piccoli peccati di presunzione che Annalisa Chirico saprà presto lasciarsi alle spalle, nel corso della brillante carriera giornalistica e politica che sicuramente l’aspetta.
«Il carcere preventivo? Una vergogna italiana», scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”.
«Lo Stato italiano sottrae pezzi di vita più o meno ampi a cittadini innocenti». Alfonso Papa, magistrato e deputato del Pdl, dopo essersi fatto nel 2011 ben 157 giorni di reclusione, 101 dei quali in carcere, per un presunto coinvolgimento nell'inchiesta sulla P4, si occupa a tempo pieno della condizione carceraria. E ha idee molto chiare su come la carcerazione preventiva rappresenti nel nostro Paese uno strumento di tortura.
Papa, davvero la carcerazione preventiva è una stortura tutta italiana?
«Guardi, in nessun Paese democratico vi si fa ricorso in modo così massiccio. Le statistiche ci dicono che il 43 per cento dei detenuti sono soggetti in attesa di giudizio e per cui vale quindi la presunzione di innocenza. E che di questi il 50 per cento è poi riconosciuto non colpevole già nel giudizio di primo grado. Per questo sostengo che lo Stato rubi pezzi di vita». Pezzi di vita trascorsi peraltro in condizioni disastrose. I detenuti italiani hanno a disposizione meno di 3 metri quadri l'uno, collocandosi a metà strada tra quanto la legge stabilisce per le salme (1 mq) e i maiali di allevamento (3 mq). Non a caso nelle carceri italiane c'è un morto ogni cinque giorni, quasi tutti suicidi. L'Italia ripudia la pena di morte ma non nelle proprie galere. Inoltre per chi subisce la carcerazione preventiva la tortura è doppia: difficilmente infatti esce di prigione migliore di quanto era prima».
La responsabilità di tutto ciò è soltanto della magistratura?
«Certo fa riflettere il modo in cui la magistratura metta in atto alcuni meccanismi di autodifesa. Ma anche la classe politica deve vergognarsi un po', Pdl compreso. Anche se la carcerazione preventiva può essere uno di quei temi di civiltà con il quale il Pdl potrebbe riempire un momento di vuoto politico. Sono convinto che non siano i Fiorito a uccidere la politica italiana, ma la mancanza di battaglie per gli ideali».
Lei ha costituito il comitato per la prepotente urgenza. Che cos'è?
«Intanto il nome: fu il Presidente della Repubblica a parlare un anno e mezzo fa di prepotente urgenza a proposito della situazione carceraria, salvo poi occuparsi di tutto in quest'ultimo anno e mezzo, compreso sostituire un governo scelto dal popolo con uno non eletto, tranne che di questa prepotente urgenza. Riuniamo diverse associazioni che vogliono costituire una fondazione per l'applicazione dell'articolo 27 della Costituzione. Con noi collaborano persone come Lele Mora. Personalmente ho presentato un progetto di legge contro l'abuso della carcerazione preventiva e visito un carcere all'incirca ogni dieci giorni. E sono sicuro che col tempo le coscienze si smuoveranno».
Anche il nostro (ex) direttore Alessandro Sallusti rischia di finire in galera.
«Il caso Sallusti è la punta dell'iceberg di questo gulag che è diventato l'Italia. In nessun Paese esiste il carcere per un reato intellettuale, di opinione, per di più non commesso personalmente ma in base al principio della responsabilità oggettiva. Lascia sbigottiti la volontà di emanare una condanna esemplare che va a colpire chissà perché Sallusti prevedendone niente di meno che la pericolosità sociale. Questa è una vicenda importante, che ci fa riflettere sull'assoluta mancanza di democrazia nel nostro Paese. E che soprattutto ci mostra in quale modo lugubre e medievale il carcere, la gattabuia, venga evocata come vera risposta per tutti quei comportamenti non condivisi. Anche se poi il problema vero non sono i Papa o i Sallusti, ma le migliaia di persone senza volto, senza dignità, che sono la vera carne al macero del sistema carcerario italiano».
Tortura. Al parlamento Ue con il dossier sul «caso Italia», scrive Giuliano Santoro il 12.03.2016 su il “Manifesto”. Sono i familiari delle vittime di abusi polizieschi. Le istituzioni dovrebbero chiedere loro scusa. Ma per avere udienza, dovranno oltrepassare i confini nazionali e arrivare fino a Bruxelles. Lo faranno il 15 marzo prossimo, quando – in occasione della Giornata internazionale contro la violenza poliziesca – una nutrita delegazione porterà al Parlamento europeo le storie di mala polizia. Le ha raccolte in un dossier Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che organizza la missione belga assieme all’eurodeputata della Sinistra unitaria europea Eleonora Forenza. Ci saranno i volti e le storie tragiche dei parenti delle vittime, che hanno dovuto sfidare il silenzio per rivendicare giustizia: Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Lucia Uva (sorella di Giuseppe), Claudia Budroni (sorella di Dino), Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni), Domenica Ferrulli (figlia di Michele), Andrea Magherini (fratello di Riccardo) e Osvaldo Casalnuovo (padre di Massimo). «Vogliamo portare in Europa quella che chiamiamo l’anomalia italiana – spiega Luca Blasi di Acad – fatta di torture, alimentata da un sistema penale sbilanciato, coltivata dalle emergenze permanenti. I casi che in questi anni abbiamo seguito non sono opera di qualche mela marcia ma sintomo di un deficit strutturale nei corpi di polizia e nella macchina delle giustizia. Chi calpesta i diritti gode di appoggi mediatici, coperture giuridiche e sostegno politico. Prova ne è la mancanza di una legge sul reato di tortura». Impossibile non menzionare gli abusi commessi nei giorni del G8 di Genova. Eleonora Forenza quindici anni fa era in quelle strade, da giovanissima manifestante. Presentando l’iniziativa dell’audizione, ci tiene a sottolineare come la repressione colpisca in tutta l’Europa. Basti pensare ai casi delle leggi contro i movimenti in Spagna, alla violazione dei diritti dei migranti e alle deroghe al diritto dello stato d’emergenza in Francia. «Tutto ciò – dice la parlamentare europea – è anche l’altra faccia dell’austerità. È in questo contesto che si dipana il ‘caso Italia’ con le sue specificità». Ilaria Cucchi ammette che in passato aveva osservato queste faccende con un certo distacco. «Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me, di perdere un fratello e di dover sfidare la rete di omertà e i muri di gomma degli apparati di sicurezza». Adesso i parenti in cerca di giustizia si conoscono e si sostengono a vicenda. Molti casi giudiziari vengono seguiti dall’avvocato Fabio Anselmo, che confessa che la missione di Bruxelles è al tempo stesso «un atto di fiducia e anche una mossa di disperazione». Anselmo ha sperimentato in questi anni l’importanza della comunicazione e del rapporto con l’opinione pubblica. Se n’è accorto quando prese in mano le carte del primo caso d’abuso. Riccardo Rasman, trentaquattrenne con problemi psichici, venne ucciso a Trieste da tre poliziotti nell’ottobre del 2006. «Il caso stava per essere archiviato – rievoca Anselmo – Ma grazie ad un’interpellanza parlamentare finì sulle pagine dei giornali locali e il corso degli eventi mutò. Per la prima volta in vita mia assistetti alla revoca di un’archiviazione e poi alla condanna, seppure lieve, degli agenti coinvolti». A distanza di dieci anni, con in mezzo le tante facce della Spoon River carceraria e repressiva, ecco l’ultima storia di violenza in divisa seguita da Anselmo. La vittima si chiama Rachid Assarag. È un detenuto che ha denunciato pestaggi nelle carceri di Parma, Prato e Firenze. Per di più, Assarag è riuscito a registrare le voci di agenti, medici, operatori e psicologi all’interno del carcere: gli dicono che è inutile denunciare e in qualche caso lo minacciano spiegandogli che in carcere non valgono le garanzie minime. Proprio ieri, il tribunale di Parma ha riconosciuto come rilevanti le registrazioni avventurosamente raccolte dall’uomo, disponendo una perizia che cerchi di associare a quelle parole inquietanti dei volti e delle responsabilità. Assarag si è presentato dal giudice in sedia a rotelle, coi segni di un nuovo, ennesimo pestaggio compiuto alla vigilia dell’apparizione in tribunale. Del suo caso e di tanti, troppi altri, si parlerà la settimana prossima a Bruxelles.
L’8 Marzo 2016, Festa della Donna, è andato in onda un servizio di “Le Iene” realizzato da Matteo Viviani in cui si parla di un problema sempre di grande attualità: le torture nelle carceri italiane. Come mai queste cose succedono nelle carceri? Perché lì non esistono leggi dice l’intervistato. Matteo Viviani per realizzare questo servizio di “Le Iene” ha intervistato un ex Agente di Polizia Penitenziaria e un ex detenuto del carcere di Asti i quali hanno raccontato all’inviato Mediaset quello che accade all’interno delle mura della prigione in questione (ma molto probabilmente in tutte), lontano dalle telecamere di sorveglianza, da qualsiasi forma di testimonianza e soprattutto dalla legge, dato che il nostro codice penale non prevede il reato di tortura. Punizioni e torture, tra cazzotti e bastonate e angherie di altro tipo nei racconti di Andrea Franciulli, ex guardia carceraria, e Andrea Cirino, ex detenuto carcerario. I racconti trascendono nella terribile storia di un giovane ragazzo di circa 30 anni lasciato morire di fame in carcere e successivamente proclamato innocente dalla magistratura.
Servizio shock di Viviani a Le Iene; lontano dalle telecamere di sorveglianza il racconto di atrocità commesse in carcere, scrive Roberto Accurso. Un servizio che non ha tardato nel fare discutere molto quello di Viviani a Le Iene, che racconta la cruda realtà delle carceri italiane. Un ex Agente e un ex detenuto del carcere di Asti raccontano infatti all’inviato del programma d’inchiesta di Italia 1 quello che accade all’interno delle mura della prigione, lontano dalle telecamere di sorveglianza, e da qualsiasi vincolo legislativo. Il codice penale non prevede assolutamente infatti il reato di tortura ma ciò che spesso succede è che si oltrepassino i limiti e che non siano più garantiti alcuni diritti fondamentali ai detenuti. Il racconto ha scatenato subito un grande tam tam sui social network, facendo interrogare in molti sulla gravità dell’accaduto. Se infatti il servizio mostra la testimonianza di ciò che è accaduto nel carcere di Asti, con molta probabilità si avvicina alla situazione tragica di molti altri istituti di detenzione.
Cucchi, Uva, Magherini: “Autonomia dei magistrati non sia impunità". Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: "Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare?", scrive la Redazione di “Blitz Quotidiano”. Sul tema della responsabilità dei magistrati, Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva, i cui cognomi corrispondono ai casi di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini hanno scritto una lettera aperta a Rodolfo Sabelli, presidente della Associazione Nazionale Magistrati (ANM), che è stata pubblicata dal Fatto nella sua edizione di domenica 15 giugno col titolo: “Da Cucchi a Uva: anche i pm devono pagare”. Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: “Caro dottor Rodolfo Sabelli, scriviamo per conto dei nostri cari Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini. Vogliamo mettere in chiaro che, nonostante lo Stato ci abbia riconsegnato i nostri cari affidati alla sua custodia come cadaveri, noi non abbiamo in alcun modo perso la fiducia nelle Sue istituzioni e, tantomeno, la nostra fede democratica. Noi riteniamo che l’indipendenza della magistratura sia un valore essenziale per il suo buon funzionamento e irrinunciabile per un Paese civile e democratico. Ci consenta però di dirle che noi guardiamo l’associazione che lei rappresenta da una prospettiva privilegiata. Privilegiata dalle tragedie che le nostre famiglie si sono trovate a dover affrontare. Noi crediamo di poter serenamente dire che dietro questi sacrosanti principi di autonomia e indipendenza si celano fenomeni di totale deresponsabilizzazione, quando non addirittura impunità. Noi ammiriamo quei pm che quotidianamente e in silenzio rendono con onestà e professionalità un servizio indispensabile al civile vivere insieme. Che mettono a repentaglio la loro vita. Che sono innamorati della Giustizia. Sono tanti. Tutti o quasi tutti. Ecco noi dobbiamo esprimerle, nel nostro piccolo, tutte le nostre perplessità su quanto succede, o meglio non succede, quando si verifica quel quasi. Se per esempio a Varese un pm paralizza un’indagine per 5 anni con comportamenti sistematicamente censurati da tutti i giudici di volta in volta interpellati. Se questo pm trasforma la sua funzione in un esercizio di potere fine a se stesso arrivando a umiliare e offendere i familiari della vittima fino a esser sottoposto a procedimento disciplinare. Se a Firenze un altro pm, in occasione di una morte sospetta di un ragazzo di 40 anni in mano ai carabinieri, si dimentica di andare sul posto per effettuare le prime indagini delegandole agli stessi carabinieri. Sa a Roma un pm e un giudice, nonostante abbiano di fronte un ragazzo ferito a botte e palesemente sofferente – tanto che morì sei giorni dopo – non se ne accorgono e nemmeno lo guardano in faccia sbattendolo in galera come un albanese senza fissa dimora, quando invece è cittadino italiano con regolare residenza. Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare? Le anomalie della Procura di Varese sono note a tutti. Che a Firenze sia stato necessario che la famiglia di Riccardo Magherini tenesse per scelta la salma del proprio caro in una cella frigorifera per oltre tre mesi, per consentire al pm di svegliarsi, sequestrarla, iscrivere i protagonisti del suo scellerato fermo sul registro degli indagati e procedere poi alle operazioni post autoptiche, è ormai arcinoto. Che a Roma, a causa di quella “collettiva distrazione” sia iniziato il calvario del povero Stefano, terminato con la sua morte nelle terribili condizioni che sappiamo, è ancora arcinoto. Ma a quei pm nulla ma proprio nulla è accaduto. La prova? Venga a Varese il 30 giugno prossimo. Venga con noi. E si preoccupi perché proprio l’impunità di quei comportamenti può costituire il maggior pericolo per l’autonomia e indipendenza che tanto a cuore sta a noi tutti”.
Ma la gente sa cosa succede nei tribunali?
Una sentenza che brucia forte, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ieri la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il reato di tortura condotta dallo Stato. Il riferimento è ai fatti di Genova del 2001, ma la condanna è molto più vasta. Dice che abbiamo leggi medievali, che vanno cambiate ma nessuno si decide a cambiarle, ed è sulla base di quelle leggi che non è stato possibile punire i responsabili del massacro di Genova, e -sempre sulla base di quelle leggi – la polizia ha la possibilità di tornare a torturare, e in effetti ci sono stati dopo Genova – Cucchi, Aldovrandi, Bianzino, Uva, Bifolco… – molti casi noti di tortura e chissà quanti restati segreti. La sentenza della Corte Europea getta un ombra di vergogna sul nostro paese. E soprattutto sui giorni infernali del luglio 2001 a Genova. La polizia e i carabinieri si scatenarono, uccisero un ragazzo, ne ferirono centinaia, la maggior parte giovanissimi, inermi, pacifici. La città per tre giorni fu in mano a un terrore poliziesco che fu definito (da un poliziotto pentito) “macelleria messicana”, e dal moderato leader dei ds, massimo D’Alema “notte cilena”. Sembrava di stare in America latina. Nessuna istituzione reagiva, nessun partito, nessuno cercava di fermare la furia di Stato. E’ stata la pagina più nera scritta dal governo Berlusconi nei circa dieci anni nei quali è stato al potere (alternandosi con Prodi). La sinistra non glielo ha mai rinfacciato, perché non gli sembrava così grave. La sinistra, in questi vent’anni, si è occupata molto di più delle avventure amorose di Berlusconi. E, in buona fede, ha creduto che a rovinare l’immagine dell’Italia sia stata Ruby, e non la ferocia dei poliziotti della mattanza di Genova. Del resto la sinistra – il partito dei Ds, più precisamente – si schierò contro il movimento no-global in quelle giornate, e addirittura, dopo l’uccisione da parte dei carabinieri di Carlo Giuliani – 23 anni, abbattuto a revolverate – ritirò l’adesione al corteo del giorno dopo. Fu un corteo oceanico: giovani, sindacalisti della Fiom, moltissimi cattolici, preti suore: ma la Cgil e i Ds non c’erano e il segretario dei Ds (che era Fassino) se la prendeva coi black block, non con la polizia. E neppure se la prendeva col vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, ex- fascista, che in quei giorni ebbe un rigurgito della sua vecchia ideologia e si piazzò in caserma, a Genova, a guidare personalmente la polizia scatenata. Non è stato mai chiaro del tutto chi e perché volle quella vergogna poliziesca. La polizia stessa, i carabinieri, gli ex-fascisti di Fini, Berlusconi in persona, l’America che partecipava al G8 col suo presidente Bush? Mistero. Certo è che i tempi erano molto aspri in Italia. Qualche mese prima, in marzo, quando il governo Berlusconi ancora non c’era e al governo c’era l’Ulivo di Prodi e il ministero dell’Interno era Enzo Bianco, della Margherita, a Napoli era successo qualcosa di molto simile a quello che poi successe a Genova. I no-global furono chiusi in piazza Plebiscito, fu resa loro impossibile la fuga, e poi furono bastonati per ore. Molti furono portati poi in caserma e bastonati ancora, torturati come a Genova. Genova provocò un sussulto, in Italia, che durò più o meno un mese. In Parlamento la sinistra si arrabbiò un po’. Poi finì tutto: il movimento no- global, che era un movimento politico, di alternativa, fu sostituito dai Girotondi, un movimento molto vasto, in mano alla magistratura e ai giornali (soprattutto Repubblica). Il movimento dei girotondi spazzò via i temi politici posti dai no-global e concentrò l’attenzione dell’opposizione sulle questioni giudiziarie di Berlusconi. Nessuno chiese le dimissioni di Berlusconi per la mattanza di Genova – né tantomeno di Fini – ma per il Lodo Alfano…La Corte Europea, con una quindicina d’anni di ritardo, si è pronunciata. E lo ha fatto sulla base di un ricorso presentato da un singolo cittadino, Arnaldo Cestaro, che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Cestaro, quella notte del 22 luglio, stava dormendo tranquillo all’interno della scuola Diaz – chiusa per le vacanze estive – che era stata concessa all’organizzazione del contro-G8 per ospitare i “forestieri”. Il contro-G8 era stato convocato da un gran numero di movimenti no global, pacifisti, sindacali e cattolici, per contestare la riunione del G8 (cioè dei capi di Stato delle grandi potenze) che si teneva, appunto a Genova, e che doveva stabilire come i giganti del mercato privato avrebbero dovuto guidare e incanalare la “globalizzazione”. Il contro-G8 durò una settimana, ma raggiunse il suo momento più forte negli ultimi tre giorni, quando tenne tre grandi manifestazioni. Cestaro – dicevamo – quella sera dormiva tranquillo, anche perché ormai le manifestazioni erano finite, erano state oceaniche, e nonostante le defezioni dei partiti di sinistra e le provocazioni della polizia, avevano avuto un clamoroso successo anche internazionale. Tutti i giornali del mondo ne parlavano. La mattina dopo era prevista la smobilitazione. Ma Cestaro, nel cuore della notte, venne svegliato all’improvviso dai rumori di gente che cercava di sfondare la porta. Lui pensò ai black block che rompevano le palle. Invece la porta venne giù ed entrarono centinaia di poliziotti scatenati, e armati fino ai denti, che iniziarono a massacrare a bastonate chiunque trovavano nelle aule. A lui gli ruppero subito un braccio, poi una gamba, poi lo colpirono in testa, e lui sentiva le urla dei ragazzini, affogati dal sangue, che chiamavano la mamma, in italiano, in inglese, in danese… Durò almeno un ’ora e mezzo. A nessuno da fuori fu permesso di intervenire. Poi trascinarono i prigionieri per strada, chi in ambulanza chi sul cellulare. E chi era in grado di camminare fu portato in questura o a Bolzaneto. Alla caserma degli orrori. E li le torture proseguirono, furono atroci, lunghissime, aiutate anche da medici vigliacchi. Fu l’orgia del sadismo di stato. Quasi nessuno ha pagato. Le vittime, invece, non sono mai riuscite a liberarsi da quell’incubo, hanno avuto, quasi tutte, danni permanenti, fisici o psichici. La sentenza della Corte Europea adesso ci impone di approvare la legge che istituisce il reato di tortura. Però, oltre alle forze di polizia, ci sono parecchie altre forze, anche in Parlamento, che sono contrarie. Il reato di tortura, tra le migliaia di reati che ogni giorno politici e magistrati riescono a inventarsi, è uno dei pochissimi che limita il potere dello Stato e non i diritti dei cittadini. Dve essere questo il motivo per il quale sarà molto difficile farlo approvare. P.S. Cestaro ha ottenuto un risarcimento di 45 mila euro Non è un granché: gli hanno rovinato la vecchiaia e lo pagano con una cifra modesta. Ora però è possibile che centinaia di altre vittime delle torture di Genova presentino il ricorso. E sicuramente vinceranno. Speriamo. Chi non è stato a Genova in quei giorni non può nemmeno immaginarsi cosa successe. Chi c’è stato non si è mai dimenticato di quel clima di follia. A ripensarci viene in mente che magari non è vero che le cose, in Italia, vadano sempre peggio. Oggi, probabilmente, una mostruosità come Genova non si potrebbe più ripetere. La polizia di oggi non è quella di quel luglio. Meno male, no?
Franco Califano, morto a Roma il 30 marzo 2013 a 74 anni. Personaggio “contro”, finisce due volte in prigione: una volta nel 1970, per possesso di stupefacenti (in cui fu coinvolto anche Walter Chiari, assolto poi con formula piena) e, una seconda volta, nel 1983 ancora per droga, con l’aggravante del porto abusivo di armi (stavolta è coinvolto Enzo Tortora, anche lui assolto). L’esperienza della prigione segnerà la vita di Franco Califano, che inciderà un album per esorcizzare in qualche modo il dolore: “Impronte digitali”. «Io sono stato assolto “perché il fatto non sussiste” e non per non avere commesso il fatto, dopo tre anni e mezzo di carcere, senza mai una lacrima o una lamentela, senza sbraitare, senza dire nulla. E all’epoca non c’era il risarcimento dei danni». In quanti pensano a Califano come una vittima sacrificale della giustizia? Eppure lo sono stati Walter Chiari, Lelio Luttazzi ed Enzo Tortora, finiti «al gabbio» proprio come Califano, per le stesse indagini, poi riabilitati come simboli dell’ingiusto martirio. Riusciva a scherzarci: « Sono finito nel processo con Walter Chiari e Lelio Luttazzi, poi con Tortora, mai un processo tutto per me». Tre anni e mezzo dentro poi l’assoluzione, tutte e due le volte, perchè il fatto non sussiste «senza una scusa, ma non mi piango addosso. L’ho presa come una esperienza in più. Una brutta cosa, però io ho la forza di pensare ad altro». Superficiale quanto basta, o forse solo abituato al peggio. Finì in cella la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, poi assolto con formula piena, nella vicenda giudiziaria vergognosa che coinvolse anche Walter Chiari, stroncandone la carriera. Da quella esperienza carceraria Califano trovò spunto per far nascere un album, “Impronte digitali”. Califano finì nuovamente in carcere per lo stesso motivo e più il porto abusivo di armi nel 1983, volta insieme al conduttore televisivo Enzo Tortora in un'altra vicenda emblematica di mala giustizia. In entrambi i processi Califano fu assolto “perché il fatto non sussiste”. Subito dopo la sua morte il primo a ricordare quelle ingiuste vicissitudini giudiziarie, via twitter, è Vittorio Feltri: “È morto Califano. Fu incarcerato due volte – scrive -. Innocente. Nessun risarcimento. Quante ne ho viste di storie così. Quante ingiustizie. Dolore”. Dopo questa seconda esperienza chiese aiuto e sostegno all'allora leader del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi. Ne ottenne una risposta e poi questo rapporto si tramutò in amicizia. Successivamente il Califfo (1992) prima che la tempesta di Tangentopoli travolgesse tutto l'arco socialista in Italia decise di candidarsi, nelle fila del Psdi, il Partito Socialdemocratico italiano, senza però essere eletto. Successivamente venne sempre “bollato” come cantante vicino alla destra anche se diceva di sé: “Io sono liberale, anticomunista”. Forse, scrive “Il Foglio”, sono proprio la catena d’oro al collo ed i braccialetti la cause dell’ostracismo schifiltoso contro “il trucido” cui l’ha dannato un certo ambiente, anche prima della sua doppia avventura giudiziaria risoltasi con quelle che chiama “le assoluzioni strapiene”, una volta nel 1970, ai tempi del processo Walter Chiari, e una volta nel 1983, ai tempi del processo Tortora, solo che Califano viene citato un po’ meno di Walter Chiari ed Enzo Tortora, come tragico esempio di errore giudiziario. Ascolta volentieri Radio Radicale, il Califfo, e però si sente un reietto della memoria garantista: gli altri “giustamente esaltati” come vittime di malagiustizia, lui “ingiustamente dimenticato” come vittima di malagiustizia, gli altri “presi nel mucchio” perché famosi, lui preso nel mucchio “per riempire un buco dopo la scarcerazione di Walter Chiari” e poi perché, “nel paese del fango”, aveva il curriculum giusto (“amicizie losche, vizi esibiti, look malavitoso, modo di esprimermi volgare e anticonformista, un passato truce, nessuna protezione politica”, scrive in “Senza manette”). Un tipo adatto ai reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico internazionale di stupefacenti (il cui uso Califano aveva sempre ammesso per uso personale), sfruttamento della prostituzione, anche allora reato perfetto per prove imperfette. Ancora oggi il Califfo non si capacita del perché “soltanto Bettino Craxi” (altra foto su un comodino del salotto) si interessò alla sua sorte di “innocente dietro le sbarre”, disperato come nel primo collegio da cui era “evaso scalzo” da bambino, idolo dei detenuti (“com’è a letto quell’attrice?”, gli chiedevano i carcerati stanchi dei giornaletti porno) e impaurito a morte dall’apatia che aveva preso il compagno di cella Pietro Valpreda. (“Chi mi vuole prigioniero non lo sa, che non c’è muro che mi stacchi dalla mia libertà”, dice, non a caso, la strofa di una delle sue canzoni più celebri, “La mia libertà”). Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. E Califano serviva, eccome: il suo passato, il suo non aver mai nascosto amicizie “pericolose”, l’uso ammesso della cocaina, serviva evidentemente per legittimare i precedenti arresti, in omaggio a teoremi che cominciavano a scricchiolare. Solo che anche Califano era innocente, con la camorra e i suoi traffici non aveva nulla a che fare; e da quelle accuse, alla fine, venne assolto. Ricordare quell’arresto, quella pagina che il buon gusto impedisce di qualificare come si vorrebbe, significava ricordare e rievocare tutta quella vicenda. Meglio ignorare tutto, confidare sul tempo trascorso, e sulla memoria che si scolora… Fummo davvero in pochi, in quei giorni, a osservare che anche per quel che riguardava Califano i conti non tornavano. Ci si cominciò a interessare alla sua vicenda in seguito all'accorato appello al presidente della Repubblica di allora lanciato da Gino Paoli. Califano, detenuto da mesi, si mise in contatto con noi: «Sono frastornato e distrutto, perchè un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile... Ho in testa brutte cose... venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così...». Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava il buon senso – meglio: il “senso buono” - di Jules Maigret. Scienza, buon senso e senso buono, con tutta evidenza assenti, e limitiamoci a questo. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare.
Questa è la sorte che tocca ai presunti carnefici ed alle vittime cosa è riservato?
Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.
Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;
Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;
Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;
Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;
Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;
Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;
Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;
Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;
Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;
Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;
Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;
Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;
Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;
Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;
Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;
Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti
(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015
Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015)
Non li uccise la morte ma due guardie bigotte. Aldrovandi, Bianzino, Sandri, Uva, Cucchi...scrive di Davide Falcioni venerdì 22 giugno 2012. "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". Fabrizio De André - Un Blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971). Per cercare l'anima a Federico Aldrovandi ci si misero in 4. Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto. Quattro poliziotti. C'era chi teneva e chi picchiava. Chi picchiava lo fece talmente forte che due manganelli si spezzarono sul corpo di Federico, che ostinatamente resisteva a quelle sferzate e tentava di ribellarsi, finché non venne immobilizzato. Morì verso l'alba per asfissia da posizione, con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Successivamente i quattro poliziotti descrissero Federico come un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Da ieri quello che per anni è stato chiamato "Caso Aldrovandi" potrà essere chiamato "omicidio Aldrovandi". La Corte di Cassazione di Roma ha confermato le condanne a 3 anni e 6 mesi di reclusione a Pollastri, Pontani, Forlani e Segatto, responsabili di omicidio colposo per aver ecceduto nell'uso della forza. La vita di un ragazzo di 18 anni vale 3 anni e 6 mesi di reclusione. Comprensibilmente in molti hanno giudicato la pena troppo tenera, ma va considerata anche la verità storica che finalmente è stata definita. Una sentenza stabilisce che un ragazzo è stato ammazzato da alcuni poliziotti. Per un paese come l'Italia, dove queste cose vengono spesso occultate, è un fatto importante. Ma il caso di Federico Aldrovandi non è isolato. Come documentato dall'Osservatorio Repressione dal 1945 sono decine i cittadini uccisi per mano delle forze dell'ordine, che spesso hanno represso nel sangue manifestazioni di protesta. Senza considerare la repressione giudiziaria: oltre 15mila sono i denunciati dai fatti del G8 di Genova ad oggi: un tentativo, evidentemente, di trasformare lotte politiche in fatti di comune delinquenza. Per ragioni di spazio ci concentreremo sugli uomini morti a seguito di un fermo di polizia. Se siano stati uccisi, o se la morte sia sopraggiunta per altre ragioni, a noi non è dato saperlo con certezza. Nel caso di Aldrovandi possiamo, sentenza alla mano, parlare di omicidio: la stessa cosa non si può dire (almeno, non con rigore giornalistico) per altre situazioni che però destano preoccupazione, tra tentativi di depistaggio e insabbiamenti. Sempre per ragioni di sintesi, partiremo da Genova 2001, dai giorni torridi del luglio di 11 anni fa che videro la morte del giovane Carlo Giuliani. Carlo aveva 23 anni. Manifestava, insieme a migliaia di compagni, all'assemblea del G8 di Genova, in una città blindata e ferita da disordini e scontri continui. Carlo morì a Piazza Alimonda, ucciso da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava all'interno di un Land Rover di servizio. Carlo venne colpito subito dopo aver afferrato da terra un estintore. Una ricostruzione affidabile della vicenda, con immagini da punti di vista differenti, è stata effettuata da Lucarelli nella trasmissione Blu Notte. Dopo aver esploso il colpo, diretto allo zigomi di Giuliani, il mezzo dei Carabinieri passò ben due volte sul corpo del ragazzo. Il carabiniere Placanica è stato prosciolto dall'accusa di omicidio colposo: avrebbe sparato, secondo i giudici, per legittima difesa. L'11 luglio del 2003 all'interno del carcere Le Sugheri di Livorno venne ritrovato il corpo di Marcello Lonzi, 29 anni, in un lago di sangue. Secondo la giustizia italiana il ragazzo sarebbe morto per cause naturali (il caso è stato archiviato) ma le foto del carcere e all'obitorio mostrerebbero chiarissimi segni di pestaggio. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, ha condotto per anni una battaglia per la verità sulla morte del figlio. Riccardo Rasman morì il 27 ottobre del 2006 a Trieste. Nella sua casa di via Grego fecero irruzione le forze dell'ordine. Il ragazzo, affetto da sindrome schizofrenica paranoide, dovuta a episodi di nonnismo subìti durante il servizio militare, era in uno stato di particolare felicità: il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare come operatore ecologico. Ascoltava musica ad alto volume, lanciando un paio di petardi dal balcone. Qualcuno chiamò il 113 denunciando il baccano, arrivarono due volanti, gli agenti entrarono a casa dell'uomo, lo immobilizzarono e ammanettarono a seguito di una colluttazione. Come per Aldrovandi, Riccardo Rasman sarebbe morto per asfissia: benché fosse ancora ammanettato i poliziotti continuarono a schiacchiargli la schiena impedendogli la respirazione. Il 14 ottobre del 2007 fu la volta di Aldo Bianzino, falegname, in una cella del carcere di Perugia. Venne arrestato due giorni prima insieme alla compagna per coltivazione e detenzione di piantine di canapa indiana. Aldo era in buona salute: morì, ufficialmente, per cause naturali (a seguito di una malattia cardiaca). Una perizia medico legale effettuata dal dottor Lalli e richiesta dalla famiglia rivelerà, invece, la presenza di 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Ne seguì un processo conclusosi con l'archiviazione ma, grazie all'insistenza di amici e familiari e all'apertura di un blog, negli ultimi mesi si sta tentando di riaprire le indagini. Neanche un mese dopo, l'11 ottobre 2007, nell'autogrill di Badia al Pino verrà ucciso Gabriele Sandri, tifoso della Lazio. Ad ammazzarlo un colpo di pistola esploso dall'agente di polizia Luigi Spaccarotella, che in quel momento si trovava dall'altra parte della carreggiata. Il poliziotto verrà condannato in tutti e tre i gradi di giudizio per omicidio volontario. Giuseppe Uva morirà il 15 giugno del 2008. Venne fermato dai Carabinieri insieme ad un amico, che raccontò: “Avevamo bevuto. Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portarono via, li misero in due stanze diverse. L'amico sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo. La sorella Lucia disse: "Era pieno di lividi. Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”. “Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”. Venne violentato? Il 24 giugno del 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano (Firenze). Era stato arrestato a seguito di un'indagine su una società di San Marino responsabile di una truffa informatica. Venne trovato impiccato a un laccio nel bagno del carcere. Tutto avrebbe fatto pensare a un suicidio, ma la mamma di Niki non ci sta e, ancora una volta, scrive su un blog: "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona. Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento". Il 25 luglio del 2008 muore nel carcere Marassi di Genova Manuel Eliantonio, 22 anni. Era stato in discoteca e, a seguito di un controllo di Polizia, gli rilevarono tracce di alcol e stupefacenti. Per questo venne fermano, tentò la fuga ma venne acciuffato e incarcerato. Dopo sette mesi de detenzione per resistenza a pubblico ufficiale e a meno di un mese dal rilascio muore. L'autopsia parla di intossicazione da butano ma non spiega i lividi sul suo corpo. Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo del 2009, a soli 19 anni. Era stato arrestato per aver fatto il palo in una rapina. Tre giorni dopo aver varcato il portone del carcere di Piazza Lanza si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda. Così è stato scritto nella relazione di servizio e questo ha confermato anche il gip Alfredo Gari che ha già respinto una prima richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla famiglia del ragazzo. Ma la madre Grazia La Venia non ci sta: "Mio figlio non può essersi suicidato, non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi". Al suo fianco ora si schiera l’associazione Antigone, che ha denunciato: "Nel corso delle indagini preliminari non è stato disposto il sequestro della cella, né del lenzuolo con il quale Castro si sarebbe impiccato a questo, si aggiunga che non è stato sentito nessuno del personale di polizia penitenziaria intervenuto, né il detenuto che avrebbe portato il pranzo a Castro e che sarebbe l’ultima persona ad averlo visto ancora da vivo". Il 21 luglio del 2009, Stefano Frapporti, operaio di 48 anni, sta tornando da lavoro in sella alla sua bicicletta quando viene fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella. Ufficialmente morirà suicida, ma tra gli amici da anni è in vigore una battaglia per chiedere chiarezza. Il 58enne Franco Mastrogiovanni morirà il 4 agosto del 2009 dopo 4 giorni di trattamento sanitario obbligatorio e dopo essere rimasto legato più di 80 ore a un lettino, alimentato solo di flebo e sedato con farmaci antipsicotici. Il video della sua agonia fece il giro del mondo. Tutti conoscono la storia di Stefano Cucchi, geometra di 31 anni morto nel reparto carcerario dell'Ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Stefano era accusato di detenzione di stupefacenti. Morì di edema polmonare dopo 8 giorni di agonia, nei quali perse 7 chili. Sul suo corpo, le cui foto sconvolsero l'Italia, venne rilevata una vertebra fratturata, la rottura del coccige, sangue nello stomaco e altri traumi sparsi ovunque. Gli agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace. E la lista potrebbe essere ancora lunga, se contenesse anche i nomi dei detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi anni, spesso a causa delle condizioni disumane in cui versano le carceri. La soluzione del caso Aldrovandi dovrebbe indurre a far chiarezza anche su tutti gli altri. Verso i quali, come abbiamo visto, troppo spesso è prevalsa la superficialità di giudizio quando non un assurdo spirito cameratesco. Si ringrazia l'Osservatorio sulla Repressione.
Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane. Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile», scrive Carmine Gazzanni il 20 Aprile 2016 su “L’Inchiesta”. Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall'accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall'accusa di aver seviziato l'operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. «Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita». Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.
TORTURA, TORTURATI E TORTURATORI.
IL NOSTRO CUPO FUTURO, scrive Mattia Feltri de “La Stampa”, nel suo post dell’8 luglio 2017 su facebook. La sentenza della Cassazione su Bruno Contrada non dovrebbe essere un semplice atto d'accusa contro la magistratura, o contro la politica, ma un atto d'accusa sul nostro modo di ragionare e di reagire ai problemi. Gran parte della legislazione antimafia è emergenziale, e dunque uno strappo alla regola dello stato di diritto. Il 41bis, e cioè il carcere duro per i mafiosi, è un esempio. Un esempio di palese tortura, per la precisione, che abbiamo deciso di accettare, o di non vedere, in nome di una lotta d'emergenza a un problema eccezionale, la mafia. E' già abbastanza interessante che queste leggi eccezionali durino da decenni, diventando così ordinarie, e facendo dell'Italia uno stato che ha in parte rinunciato alla sua Costituzione e allo stato di diritto, e lo ha fatto stabilmente. Non vado oltre, non voglio discutere le leggi antimafia perché si passa immediatamente per fiancheggiatori ideologici della criminalità organizzata. Le leggi emergenziali furono varate, con successo, negli anni del terrorismo rosso e nero, e servirono per combatterlo e vincerlo. Da allora se ne fa uso, qua e là, oltre la mafia. L'ultima legge approvata al Senato, chiamata codice antimafia, estende il sequestro cautelativo dei beni ai casi di corruzione se ci sia associazione per delinquere. Traduco: se uno è sospettato (semplicemente sospettato) di corruzione in associazione con altri, gli si possono sequestrare i beni. Quelli della famiglia, l'azienda, tutto. Con questa legge (per fortuna non ancora definitiva) nel biennio 92-93 lo Stato avrebbe potuto sequestrare il 70-80 per cento delle grandi aziende italiane, dalla Fiat in giù, cancellando dalla faccia dell'Italia l'impresa privata. E farlo prima di una sentenza di condanna. Tutto questo ha una spiegazione e una conseguenza. La spiegazione è che, disarmati davanti alla plateale illegalità dell'intero paese (non soltanto mafia e corruzione, ma evasione fiscale, assenteismo, truffe delle e alle banche, truffe delle e alle assicurazione, noi siamo una specie di associazione per delinquere fatta di sessanta milioni di italiani) non sappiamo che reagire con una smania repressiva montante, dilagante, fatta di inasprimento delle pene e leggi emergenziali. La conseguenza è che stiamo disarticolando lo stato di diritto, attribuendo alla magistratura un potere sterminato (così che poi gli errori giudiziari diventano sempre più devastanti), ma soprattutto stiamo fornendo armi formidabili a un governo che domani, o dopodomani, ispirato da sentimenti illiberali, avrebbe gioco più facile di instaurare una dittatura. Ora, noi pensiamo che la democrazia sia incrollabile e non lo è. Già oggi l'Italia non è più psicologicamente democratica, e lo si evince dalla furia e scorrettezza del dibattito pubblico. Le dittature non sono mai arrivate annunciate, ma di colpo, e quando era troppo tardi. Non buttiamoci giù. E' sabato. C'è il sole.
La nuova Legge sulla tortura: la maschera di un reato per un convitato di pietra. Tortura. Parola grossa. Ora in Italia esiste una legge che la prevede e la punisce come reato. O, almeno, così sembra, scrive Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" l'8 Luglio 2017. La legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Forse, anche per la tortura, c’è un uomo nero che non si deve scoprire: il potere cautelare e i suoi titolari. La tortura, in linea generale ma chiara, è un abuso, commesso da chi detiene legalmente una persona, verso di essa. L’abuso è commesso con violenza, fisica o psichica: sia mettendola in atto, sia solo minacciandola. A vari fini. Ma il fine eminente è la confessione. La confessione è l’affermazione che la persona detenuta fa al torturatore, di un comportamento variamente ritenuto colpevole: proprio o, più frequentemente, anche altrui. A ciò indotto dalla promessa, esplicita o larvata, o dalla speranza, che la violenza cessi, o che la minaccia sia riposta. Il cerchio si chiude, dunque, dicendo che la tortura è l’esercizio di un dominio legalistico assoluto, di un’istituzione coercitiva, su un essere umano. Questo è: per esperienza e dottrina acquisite lungo i secoli, in Italia, e dovunque nel mondo; ma in Italia, essendo culla del diritto, siamo anche culla dei suoi profili, per così dire, meno esemplari. Facile, no? Nemmeno per sogno. Perché la legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Due parole, due: perché a fare “ermeneutica” si affaticano vanamente le meningi: e poi, non serve a granché. Andiamo alla grossa, che basta e avanza. In primo luogo, ci imbattiamo in un “Chiunque”. Ma che c’entra il “chiunque”, se siamo in un ufficio di una Forza di Pubblica Sicurezza (ma non solo, come vedremo)? Si vuole dire che è tortura anche l’atto del vicino matto, che ci chiude in garage, e ci incatena o peggio? Niente da fare: sarebbero lesioni, sequestro di persona e altro, più o meno aggravati; già previsto. Poi leggiamo che alla tortura metterebbero capo “più condotte”. Ah sì? E cos’è “condotta”, al singolare, allora? Un atto che si compie entro la sfera di dominio corporeo dell’autore? E di un atto formale, o legale, come un provvedimento apparentemente ineccepibile, che ne facciamo? E, comunque, se, nel primo caso, finisce che un bel pugno magari non basta, a configurare la tortura, proprio perché è uno; ecco che, il secondo, ci fa intravedere da cosa o da chi la nuova Legge realmente svicola, per chi cavilla. Un provvedimento, anche solo dal punto di vista corporeo, implica l’intervento di più soggetti, ciascuno dei quali è competente per una parte, ma non per le altre: sicché risulterebbe impossibile riferirgli le molteplici “condotte” che pure ci sarebbero. E peggio sarebbe se, al contrario, si volesse considerare il provvedimento in termini “funzionali”, come una unità “procedimentale”, indistinguibile dalle singole parti che la compongono: proprio perché allora sarebbe solo uno. E tanto, solo per considerare la faccenda dal punto di vista delle “più condotte”. Ma abbiamo solo intravisto l’uomo nero che non si deve scoprire. Proviamo a vedere meglio. E’ prevista l’ipotesi che “i fatti di cui al primo comma”, siano commessi da “pubblici ufficiali” (ma va’?), e ne verrebbe una circostanza aggravante; però, ecco la magia: questa “non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Eccoci.
Questo accorgimento liberatorio, che pare riferirsi solo ad un’ipotesi secondaria (una semplice circostanza aggravante), ci svela a chi si sta pensando. Perché, ponendo l’accento sulle “sofferenze” che, nell’impianto della fattispecie, costituiscono “l’evento” causato dalle “più condotte”, e presentandoci l’ipotesi che queste si diano in un certo “ambiente” (“legittime misure privative o limitative di diritti”), esso ci mostra in realtà che “tortura”, oggi, non è la fune di una carrucola, o i ferri roventi, ma l’arnese custodiale: siamo in Procura, non in un sotterraneo ammuffito. E’ parsa allora precipitosa l’affermazione del dott. Carlo Nordio, che pure è voce sempre acuta, e attenta a rilevare le miserie del nostro sistema giudiziario: “Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici.” Ma l’uso della custodia cautelare per estorcere confessioni non è una distopia normativa, come oggi dicono i colti: è una prassi rivendicata e ampiamente legittimata, dei cui alti e bassi sostenitori sono noti nomi, cognomi e soprannomi. Critiche dolenti da convegno, a parte. I sommari lineamenti “dell’istituto”, presentati all’inizio di queste righe, per ciascuno che volesse, infatti, si attagliano senza la minima forzatura proprio ai casi nostri. In questi termini, appare ancor più chiaro che la previsione principale, quella rivolta a “chiunque”, è una maschera; sotto, al primo posto, c’è chi ha realmente il potere di “cagionare” “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale”. Il quale, però, gode di quella che, di fatto, è una scriminante generale e automatica. Una volta posto al riparo dalle responsabilità per la “tortura da provvedimento”, il “pubblico ufficiale”, non avrà soverchie difficoltà a porsi al riparo anche dalla norma “principale”, per come è congegnata. Che poi, questa trama di previsioni e di sottintesi, possa riferirsi anche a soggetti appartenenti alle Forze dell’Ordine, è ovvio; dato che “le misure privative o limitative di diritti” implicano necessariamente il loro intervento materiale: ma costoro agiscono, anche quando sono Alti Ufficiali, alle dipendenze “funzionali” del Pubblico Ministero. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Ma sia chiaro: il grande demerito, per il consolidarsi del regresso istituzionale, culturale e civile in Italia, è di simili riformatori: con la loro sesquipedale, servile sciatteria. Un demerito che, ogni giorno di più, appare persino maggiore di quello acquisito dalla magistratura associata: in questi infelicissimi, ultimi venticinque anni.
Passa la legge contro la tortura, ma non piace a nessuno. Contrario il centrodestra, che parla di una norma punitiva nei confronti delle forze dell'ordine, e negativo anche il parere di Si e Mdp, che si sono astenuti dal voto finale perché considerano il testo approvato “debole”, “poco incisivo” e “inefficace”, scrive il 6 luglio 2017 "L'Espresso". La tortura in Italia ora è reato. A tre anni dall'inizio dell'iter parlamentare, l'aula della Camera ha approvato definitivamente (con i soli voti del Pd e di Ap, l'astensione di M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori e il no di Fi, Cor, Fdi e Lega) il disegno di legge che punisce con il carcere da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi o con crudeltà, cagiona a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia “sofferenze fisiche acute” o un trauma psichico verificabile. Gli anni di carcere salgono a fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale. Molte le polemiche e i distinguo all'indomani del voto, con un centrodestra compatto nel considerare le nuove norme come punitive nei confronti delle forze dell'ordine cui, sostiene Alessandro Pagano della Lega, “legherà le mani”, mentre per Giorgia Meloni la legge è addirittura “un'infamia voluta dal Pd per criminalizzare le forze dell'ordine”. Contro, compatti, anche i sindacati delle forze dell'Ordine. Per il Consap si tratta di una “legge vergogna che è solo uno spot di vendetta per i fatti del G8 di Genova” mentre il Sap la considera come “un manifesto ideologico contro poliziotti”. Per ragioni opposte, poi la legge non soddisfa nemmeno la sinistra non Pd: Si e Mdp si sono astenuti dal voto finale perché considerano il testo approvato “debole”, “poco incisivo” e “inefficace”. E il M5S, che pure dichiara di considerare la legge “giusta”, si è astenuto dichiarando di voler “migliorare le norme non appena possibile”. Il governo invece apprezza. La ministra Anna Finocchiaro parla di “un passaggio importante, per il quale il Parlamento lavora da quasi vent'anni e del quale non possiamo che essere soddisfatti”. E il Partito democratico difende la legge: “nessun intento punitivo”, chiarisce la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti che considera invece il ddl “equilibrato e giustamente severo nei riguardi di un reato odioso e grave come quello di tortura”, con il merito di colmare “a quasi 30 anni dalla ratifica della Convenzione Onu, un macroscopico vuoto normativo più volte denunciato in sede europea e internazionale”. Le pene sono pesanti: fino a 12 anni. Tuttavia, il reato richiede una pluralità di condotte (più atti di violenza o minaccia) oppure deve comportare “un trattamento inumano o degradante”. Specifiche aggravanti, peraltro, scattano in caso di lesioni o morte. Non si ha invece tortura nel caso di sofferenze risultanti unicamente da “legittime misure limitative di diritti”. Se, poi, a torturare è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri, la pena è aggravata con un extra che va da 5 a 12 anni. Rischia anche il pubblico ufficiale che istiga a commettere il delitto di tortura e non viene obbedito: la legge prevede che debba comunque andare in carcere per 3 anni. Il testo prevede poi che nessuno possa essere espulso, respinto o estradato verso paesi dove vi sia il fondato rischio, tenendo anche conto della presenza di violazioni dei diritti umani gravi e sistematiche, che sia sottoposto a tortura. Inoltre, qualsiasi dichiarazione o informazione estorta sotto tortura non è utilizzabile in un processo; tuttavia, varrà come prova contro gli imputati di tortura. Infine, nessuna immunità per cittadini stranieri imputati o condannati per tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale.
Legge sul reato di tortura: che cos'è e perché è contestata. Dopo quattro anni potrebbe finalmente essere approvata. Ma le critiche fioccano: "Con questo testo non ci sarebbero state le condanne del G8 di Genova", scrive il 5 luglio 2017 Panorama. Dopo l'ok del Senato il 17 maggio scorso, la legge che introduce nel codice penale il reato di tortura torna alla Camera dei Deputati, che probabilmente il 5 luglio l'approverà definitivamente. Un atto che finalmente risponde, secondo Amnesty International, a quanto richiesto dalla Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite, ratificata dall'Italia nel 1989. E soprattutto risponde alle nere vicende del G8 di Genova e alla violenta irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz, nella sera buissima del 12 luglio 2001. Ecco in cosa consiste la nuova legge sul reato di tortura, il suo percorso travagliato e i pareri a favore e i tanti contro (lo stesso ideatore e primo firmatario della legge, Luigi Manconi del Pd, ora se ne dissocia).
Le tappe travagliate della legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi presentò il ddl nel 2013. È da oltre tre anni che il testo sul nuovo reato di tortura viene rimpallato da una Camera all'altra. Era il 5 marzo 2014 quando il Senato - dove ha avuto inizio l'iter legislativo - lo approvò la prima volta. La Camera dei Deputati l'ha quindi modificato rispedendolo a Palazzo Madama il 9 aprile 2015. Dopo averlo tenuto nel cassetto per oltre due anni, il Senato l'ha di nuovo modificato e inviato a Montecitorio il 17 maggio 2017.
Cosa dice il ddl sul reato di tortura. La tortura diventerebbe un nuovo reato del codice penale, numero progressivo 613 bis, delineato in sei articoli. Ciò che accende la polemica si concentra soprattutto nelle prime righe. L'articolo 1 prevede che "Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minore difesa, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Se il reato è commesso da "un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da 5 a 12 anni". L'articolo 2 stabilisce che le dichiarazioni ottenute attraverso il delitto di tortura non sono utilizzabili in un processo penale.
Quali sono i punti criticati. Sotto accusa soprattutto alcuni passaggi del primo articolo della nuova legge, passaggi di dubbia interpretazione o che rendono difficile dimostrare il reato.
"Verificabile trauma psichico": come si verificherebbe tale trauma?
"Mediante più condotte": se il reato è commesso tramite una sola condotta cosa succederebbe?
"Un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona": quali sono i parametri per valutarlo?
"Abuso di poteri" e "violazione dei doveri": sarà necessario dimostrare anche che ci sono state queste condizioni, nel caso di pubblico ufficiale coinvolto.
Cosa dice chi contesta la legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi, prima firma del ddl, non si riconosce più in questa nuova legge: "Il mio testo, che presentai nel 2013 il primo giorno della legislatura, è stato stravolto", tanto che si è rifiutato di votarlo. Gli fa eco sul Foglio Matteo Orfini, presidente del Pd, che definisce la legge così scritta "inutile": "Ce l'ha detto anche l'Europa, è fatta di compromessi al ribasso. In un paese che ha avuto i casi Cucchi, Aldrovandi, Genova, ci vorrebbe maggior coraggio". La legge in Italia è attesa da più di vent'anni, ma così stilata fallisce il proprio scopo perché si allontana molto dalla Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti approvata dalla Assemblea Generale dell'Onu nel 1948, è il parere di Area democratica per la giustizia, il cartello delle correnti di sinistra nella magistratura. Che sostiene: "Apre la strada a valutazioni incerte ed è destinata a rendere ancor più complesse ricostruzioni giudiziarie già per loro natura delicate e difficoltose", "consente di considerare tortura solo i comportamenti ripetuti (si parla di violenze, minacce e condotte, al plurale); richiede che le sofferenze inflitte alla vittima siano acute, senza dare rilievo al loro protrarsi nel tempo; consente la punibilità della tortura mentale solo se il trauma psichico conseguente è verificabile; non garantisce un'efficace repressione ai trattamenti inumani o degradanti che non assurgono a livello di gravità della tortura". La bocciatura arriva anche da giuristi come Vladimiro Zagrebelsky, addirittura dalle toghe protagoniste dei processi del G8 alla Diaz e a Bolzaneto che hanno presentato un appello al presidente della Camera, spiegando che questa legge sarebbe stata inutile per punire molti degli abusi del 2001. Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani presso il Consiglio d'Europa, ha scritto ai presidenti della Camera e del Senato parlando di legge è "disallineata" rispetto alla giurisprudenza della Corte e alle raccomandazioni della Commissione europea. A Repubblica Manconi è lapidario: "Con il testo che sta per essere approvato gran parte delle violenze alla scuola Diaz non sarebbero considerate tortura". Le preoccupazioni del centrodestra sono invece opposte: il timore è che il ddl risulti "un atto ostile contro le Forze dell'ordine" e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia assicura che alla Camera "questa vergogna" verrà cancellata.
Chi difende la legge, nonostante tutto. A sorpresa, tra chi difende la nuova legge, c'è Amnesty International, l'organizzazione che difende i diritti dell'uomo. Antonio Marchesi il presidente di Amnesty International Italia, a Radio Radicale ha detto: "Il ddl non ci piace. Riteniamo che comunque rappresenti un piccolissimo passo avanti. Amnesty è un'organizzazione pragmatica, che si dà obiettivi concreti". Turandosi il naso, prende quel che viene: "Tra il niente e questa schifezza, Amnesty sceglie di avere qualcosa".
Tortura, via libera della Camera. Con 198 sì il reato è legge: fino a 12 anni di carcere. I contrari sono stati 35, gli astenuti 104. Hanno votato a favore Pd e Ap, mentre molte forze, tra cui M5S, Sinistra italiana e Mdp, non hanno votato. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge, scrive il 5 luglio 2017 "La Repubblica”. L'aula della Camera ha approvato in via definitiva il ddl che introduce il reato di tortura nell'ordinamento italiano. I sì sono stati 198 (Pd e Ap), i no 35 (Fi, Cor, Fdi e Lega), gli astenuti 104 (M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori). Le pene previste sono pesanti: la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, che salgono fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge. Quattro anni di stop, di divisioni tra le forze politiche e di tentativi di insabbiamento. L'iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato il 22 luglio del 2013, per poi essere licenziato un anno dopo, è approdato alla Camera nel 2015 per poi tornare nuovamente all'esame di palazzo Madama e, infine, essere licenziato da Montecitorio. Più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento, il testo non ha subito ulteriori modifiche durante l'ultimo esame. Si tratta di un provvedimento che ha diviso le forze politiche: voluto dal Pd e sostenuto dagli alleati di governo, gli alfaniani di Alternativa popolare, è invece stato osteggiato dalle forze di centrodestra, Lega e FdI in testa. I detrattori della legge sostengono che si tratta di un provvedimento punitivo nei confronti delle forze dell'ordine, limitandone il campo d'azione. Niente di tutto ciò, hanno sempre replicato Pd e governo, nessuna "norma vessatoria", al contrario si tratta di un provvedimento che "colma una lacuna" e fa sì che l'Italia "non sia più fanalino di coda", è stata sin dall'inizio la posizione dei sostenitori del testo.
• LE PENE. L'articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La pena sale da 5 a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.
• ARTICOLO 2 . L'articolo 2 stabilisce che "le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili" in un processo penale.
• LESIONE GRAVE. Se c'è "una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà". Se invece "dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta".
• ISTIGAZIONE. Viene anche punito da 6 mesi a 3 anni "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura".
• STOP ESPULSIONI. Sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione - sostanzialmente aderente al contenuto dell'articolo 3 della Convenzione Onu - precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.
• ESTRADIZIONE. Viene poi previsto l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.
• IMMUNITA'. Il provvedimento esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L'immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l'Italia da parte di uno Stato estero. Seguono l'articolo 5 (invarianza degli oneri) e l'articolo 6 (entrata in vigore).
• REAZIONI. "In Italia da oggi c'è il reato di tortura nel codice penale. Una legge da noi profondamente criticata per almeno tre punti: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari". Così in una nota l'Associazione Antigone. La legge approvata che incrimina la tortura non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu - denuncia Antigone -. Per noi la tortura è e resta un delitto proprio, ossia un delitto che nella storia del diritto internazionale, è un delitto tipico dei pubblici ufficiali". "Quella approvata oggi dal Parlamento, che introduce con quasi 30 di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. È carente sotto il profilo della prescrizione" dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. "A 33 anni della Convenzione Onu, l'Italia ha una legge contro la tortura. Un risultato importante, il migliore possibile oggi in Parlamento", afferma la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro. "Il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Se avessimo cambiato di nuovo questa legge non sarebbe mai nata", ha sottolineato il capogruppo dem in commissione Giustizia, Walter Verini. "Questo governo e questa maggioranza stanno riempiendo il Codice penale di norme assurde, con un diritto penale del consenso, modaiolo. Un diritto penale di consegna del Paese alle Procure, scambiando la giustizia con le indagini. Un atteggiamento gravissimo del quale pagheremo tutti le conseguenze", attacca Francesco Paolo Sisto, secondo il quale il Pd sta "trasformando il nostro Paese in uno stato di polizia". Per FdI "passa l'infamia del ddl tortura voluto dal Pd: una legge che non punisce la tortura ma serve solo a criminalizzare le Forze dell'Ordine", dice Giorgia Meloni. "Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. È un giorno amaro", è la linea pentastellata. Critiche anche le forze di sinistra: sia Mdp che Sinistra italiana si sono astenute, bollando il testo come una legge "debole, inefficace e poco incisiva".
La tortura diventa reato (tra le polemiche): pene fino a 12 anni, scrive Alessandro Di Matteo il 6 luglio 2017 su "Il Secolo XIX". Per la sinistra fuori dal Pd è troppo poco, per Fi e il centrodestra è troppo, ma il reato di tortura adesso fa parte del codice penale e chi lo commette rischia fino a 10 anni di carcere, che possono diventare 12 se il colpevole è un pubblico ufficiale. Non è stato un percorso facile, ci sono voluti quattro anni per arrivare al via libera, ma ieri la Camera ha dato l’ok definitivo con il sì del Pd e di Ap, l’astensione di M5s, Sinistra italiana e Mdp e il no di Fi, Fdi e Lega. Il crinale è stretto, da un lato si cerca di tutelare chi si trova ad essere privato della libertà, dall’altra si è voluto evitare una norma troppo limitativa per chi deve garantire la sicurezza dei cittadini. Le aggravanti sono previste se a commettere il reato è un «pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio», ma non si applicano se le sofferenze derivano unicamente «dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Una formula di compromesso, inserita alla fine dell’iter per cercare di evitare che le forze dell’ordine si trovino a dover rispondere del reato di tortura anche per le normali azioni repressive che fanno parte del loro dovere. Ma saranno considerate aggravanti anche le «lesioni personali comuni» e le «lesioni gravi», che comporteranno un aumento fino a un terzo della pena, mentre per le lesioni «gravissime» la pena aumenta della metà. Infine, in caso di morte come conseguenza della tortura la condanna sarà a 30 anni, se l’evento non era «voluto» e all’ergastolo se invece l’obiettivo era proprio l’uccisione della persona. Anna Finocchiaro, a nome del governo, parla di un «risultato importante che colma una grave mancanza nel nostro ordinamento. Il testo è il migliore possibile, nelle condizioni date. L’applicazione concreta delle nuove norme ci dirà se sarà necessario successivamente introdurre eventuali correttivi». Quasi identiche le parole di Laura Boldrini, presidente della Camera, è «un passaggio decisivo, ma come sempre potrà essere il Parlamento, sulla base della concreta applicazione delle norme, ad apportare le modifiche che si dovessero rivelare necessarie». Anche Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia, invita al pragmatismo: «Certo, il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato quello che approvammo qui alla Camera ben due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Ovviamente no». Per Amnesty international, invece, «non è una buona legge, ma è un passo avanti». A sinistra non è d’accordo Nicola Fratoianni, Si, la legge è un «pasticcio, non consentirà di perseguire in modo efficace chi si rende autore di questi orrendi atti». Tesi simile a quella di M5s: «Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. E’ un giorno amaro». Per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi, «l’Italia ha paura di una vera legge sulla tortura». Al contrario, per Gregorio Fontana di Fi la legge è uno «schiaffo alle forze dell’ordine, un provvedimento intimidatorio che rischia di compromettere l’operatività delle forze di polizia». E anche per la Lega «si legano le mani alle forze di polizia».
Approvato il reato di tortura, il Sap reagisce: la paginata su "Il Tempo" contro il ddl, scrive il 6 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". La Camera ha approvato, in via definitiva, il ddl che ha introdotto il reato di tortura nell'ordinamento italiano: 198 i sì, 35 i contrari, 104 gli astenuti (tra questi, M5s, Sinistra Italiana e Mdp). Dopo oltre quattro anni, dunque, uno dei più controversi disegni di legge è stato approvato: ora, i poliziotti, rischiano fino a 12 anni di carcere. E a criticare l'approvazione del ddl, contro il quale da tempo si battono le forze dell'ordine, su Il Tempo è apparsa una paginata pubblicitaria del Sap, il sindacato autonomo di polizia, non nuovo a queste iniziative. La pubblicità è quella che potete vedere nella foto: "Tortura per brava gente". Esplicito il pensiero del Sap: "Una legge è come una bottiglia...potrebbe contenere del buon vino...in realtà poi vi è metanolo". Secondo il Sap, "la legge sul reato di tortura è un pessimo groviglio giuridico" poiché "così come strutturato non reprime i comportamenti di tortura ma punta solo a delegittimare le Forze dell'ordine". Secondo il sindacato, che chiede "che siano puniti severamente i comportamenti di tortura", quello appena approvato è "un manifesto ideologico contro le forze di Polizia".
Chi tutela l’onore delle divise. Combattere gli abusi conviene anche alle forze dell’ordine, scrive Luigi Manconi il 13 ottobre 2016 su "L'Espresso". La mamma di Stefano Cucchi abbracciata da Luigi ManconiNegli ultimi anni, chi ha meglio tutelato l’onore delle forze di polizia? Coloro che hanno negato pervicacemente abusi documentati e illegalità inequivocabili, oppure chi ha denunciato i singoli reati commessi da singoli pubblici ufficiali? Non c’è dubbio chePatrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Domenica Ferrulli e altre ancora abbiano salvaguardato il prestigio delle forze di polizia, assai più di quanto goffamente tentato dai negazionisti (ministri dell’Interno e della Difesa, sindacati corporativi e giovanardi vari). Sono state, infatti, quelle donne intrepide e intelligenti a mostrare le violenze subite dai propri familiari (e parte della magistratura ha dato loro ragione), mettendo sotto accusa non “la polizia”, bensì quegli appartenenti a essa che si sono resi responsabili di gravi crimini. Perché questo è il punto. Un’ampia, seppur non generalizzata, omertà (culturale, cameratesca, emotiva) all’interno delle polizie e una diffusa sudditanza psicologica da parte della classe politica nei loro confronti, hanno reso l’apparato del controllo e della repressione assai simile a un blocco compatto e intangibile e, dunque, irriformabile. Nonostante lo spirito sinceramente democratico di tantissimi pubblici ufficiali, di tanta parte del sindacalismo e della buona volontà dei più recenti capi della polizia, da Manganelli a Pansa a Gabrielli.
Come rompere questa gabbia di stolidità e impotenza che nuoce tanto alle vittime degli abusi quanto alla credibilità dei corpi di polizia e della stessa funzione cui assolvono? In primo luogo occorre approvare, e rapidamente, leggi efficaci e capaci - in base al fondamentale principio che la responsabilità penale è personale - di sanzionare gli autori di trattamenti inumani e degradanti, di sevizie e torture, proprio perché manifestazione efferata di abuso di potere da parte di chi, quel potere, esercita in nome della legge e per conto dello Stato. E perché mai un codice identificativo - riconoscibile solo dalla magistratura - per gli operatori di polizia in servizio d’ordine pubblico dovrebbe rappresentare un intollerabile accanimento? L’accertamento rigoroso in un’aula di giustizia delle eventuali responsabilità individuali per illegalità commesse all’interno di una caserma o in una cella o nel corso di un arresto o in un centro di identificazione ed espulsione renderebbe chiara la distanza tra gli autori di quei delitti e le istituzioni, ivi comprese quelle disonorate dalle azioni dei loro servitori infedeli. Non siamo tentati nemmeno per un secondo da sentimenti di vendetta sociale, e tantomeno - attenzione - siamo inclini a considerare tortura qualsiasi abuso commesso da pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi: riconoscere la diversa rilevanza dei fatti è essenziale per non banalizzare la gravità di quelli che, stando alle convenzioni internazionali, configurano il reato di tortura. Ma, se possiamo calare la sofisticata discussione sul destino della nostra Costituzione nell’asprezza della vita quotidiana, quale credibilità potranno mai avere istituzioni incapaci di dare seguito all’unico obbligo di punire prescritto dalla carta fondamentale (articolo 13, comma 4)? Ovvero quello contro “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”?
Luigi Manconi: "Perché la legge sulla tortura è un'occasione mancata". Il presidente della Commissione diritti umani del Senato non è soddisfatto dall'approvazione della legge: "Della mia proposta rimane molto poco. Ha pesato la sudditanza della politica nei confronti delle forze di polizia", scrive Federico Marconi il 6 luglio 2017 su "L'Espresso". "Si poteva e si doveva fare di più". È amareggiato Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, dopo l'approvazione della legge sul reato di tortura da parte delle camere. Nel 2013 il senatore del Pd era stato il primo firmatario della proposta di legge per l'introduzione del delitto nel codice penale: un testo stravolto "di cui rimane molto poco". Le Camere sono riuscite ad approvare una legge sul reato di tortura, 29 anni dopo la prima proposta. La legge, però, sembra non convincere tutti. Il parlamento poteva e doveva fare di più. Le Camere avrebbero potuto seguire l'ispirazione e le conseguenti disposizioni previste dalla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura del 1984. A partire dalla qualificazione del delitto come reato proprio: ovvero imputabile ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio (ad esempio: i medici che hanno legato per 87 ore a un letto di contenzione Franco Mastrogiovanni, provocandone la morte). Un reato, quindi, direttamente derivato dall'abuso di potere: cioè dal ricorso alla tortura da parte di chi pur detiene legalmente in custodia un cittadino. Nel testo approvato si tratta invece di un atto di violenza tra individui, paragonabile a qualunque altra forma di lesione. Qualificare la tortura come reato proprio non significa affatto volersi accanire contro i corpi di polizia, bensì sottolineare i trattamenti inumani o degradanti all'interno di un rapporto di potere profondamente diseguale, di un uso illegittimo della forza, di un abuso di autorità.
Lei si è rifiutato di votare la legge, anche essendone stato il primo firmatario. Come risponde a chi afferma "meglio questa legge che nessuna legge"?
«Fin troppo spesso, siamo indotti a votare proprio a motivo di quella riflessione, sintetizzata nella frase: "meglio una qualsiasi legge che nessuna legge". Ma, in questo caso, votare un simile testo sarebbe andato a scapito della chiarezza su una materia davvero cruciale. Sono stato incerto fino all'ultimo, fino a quando ho deciso di non partecipare al voto (dello scorso 16 maggio al Senato, ndr). Molti tra i miei amici e tra chi mi aiuta ad assumere decisioni così importanti erano favorevoli a un voto positivo. Ma poi ho deciso di non partecipare al voto, persuaso dalle considerazioni del pubblico ministero del processo per i fatti della Diaz, dottor Zucca. Durante il dibattimento, Zucca ha spiegato esaurientemente come gli atti di violenza commessi non sarebbero stati qualificati come tortura in presenza della legge appena approvata».
Cosa rimane del ddl da lei proposto a inizio legislatura in quello approvato ieri? Sono stati fatti troppi compromessi?
«Rimane poco, pochissimo. Per non apparire un nichilista sedotto dal "tanto peggio, tanto meglio", sottolineo due punti positivi: il divieto di estradizione per gli stranieri che nel proprio paese potrebbero essere sottoposti a tortura e, poi, il significato simbolico che la legge può assumere. Un significato tenue, troppo tenue, ma che comunque può funzionare in qualche modo - me lo auguro di cuore - da monito, da deterrenza, da segnale che chiama tutti alla vigilanza».
Perché si è impiegato così tanto tempo per introdurre il reato nel nostro ordinamento?
«Ha pesato una sorta di complesso di sudditanza di quasi tutta la classe politica nei confronti delle forze di polizia, forse un senso di colpa o un sentimento di inferiorità. In ogni caso, si preferisce che i corpi di polizia restino così come sono: compatti e omogenei, gerarchicamente immobilizzati e scarsissimamente permeabili a quanto accade nella società e, di conseguenza, sempre pronti a tutelare gli interessi di quanti tra loro commettono reati, ricorrono a trattamenti inumani o degradanti, esercitano la tortura. E, invece, sarebbe interesse dello Stato democratico indurre i corpi di polizia ad autoriformarsi, a sottoporsi a un processo di verifica delle proprie convinzioni democratiche, ad acquisire consapevolezza dei rischi che quel mestiere, inevitabilmente, comporta. Ciò potrebbe anche produrre qualche crisi interna, determinare fratture ideologiche, creare confronti aspri: ma è essenziale che la stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri si differenzi dalle esigue minoranze che non rispettano le leggi, i diritti e le garanzie del cittadino e che spesso sono tentati da ideologie fascistoidi e razzistiche. Si veda quanto è accaduto nei mesi scorsi in due delle caserme dei carabinieri della bassa Lodigiana come ultimo e inquietante esempio».
Le associazioni vogliono mettersi da subito al lavoro per migliorare la legge. Crede che ci siano possibilità?
«Temo che la legge non potrà essere riformata e migliorata nel giro di poco tempo. Ma non per questo si deve rimanere con le mani in mano. È possibile esercitare una forma di controllo democratico sugli abusi del potere nella loro forma violenta; è possibile solidarizzare con i poliziotti onesti e leali affinché riconoscano che i loro veri nemici sono i colleghi che ricorrono alla violenza e quei gruppi politici che, quei colleghi, difendono ad ogni costo. È possibile, infine, sostenere quei cittadini (in particolare quelle cittadine) che, armati solo della loro intelligenza, da anni difendono l'onore dei propri cari e chiedono giustizia per la loro morte: da Lucia Uva a Ilaria Cucchi, da Grazia Serra a Domenica Ferrulli, da Elena Guerra a Claudia Budroni».
PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.
«Chiudete le celle “lisce”». Il Dap interviene su Ivrea, scrive Damiano Aliprandi l'1 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Il caso sollevato dopo gli episodi di violenza, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, denunciati da un detenuto. «Si prega di inibire l’uso della stanza detentiva denominata “cella liscia” posta al reparto isolamento». Così il capo del Dap Santi Consolo scrive nella lettera indirizzata alla direttrice del carcere di Ivrea. Ma non solo. Ordina anche la chiusura della sala d’attesa per le visite mediche che veniva utilizzata come una seconda “cella liscia”. Infatti ha disposto di «interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche fino al ripristino delle necessarie dotazioni, e di assicurare, terminati gli interventi di adeguamento, che il suo uso sia realmente limitato a brevissimi archi temporali e per le sole esigenze per le quali è stata prevista». Il provvedimento del Dap dà atto dell’esattezza del rapporto sul carcere di Ivrea del Garante nazionale dei detenuti, dopo le denunce, anticipate da Il Dubbio, degli episodi di violenza. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Questi episodi sono stati riscontrati non solo dalla delegazione del Garante nazionale, ma anche dalla visita ispettiva da parte del provveditorato regionale effettuata il 16 dicembre scorso. Sempre Santi Consolo, con riferimento del rapporto del provveditorato, scrive che «ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria, la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni detenuti coin- volti nei disordini – alcuni dei quali erano visibilmente atroci – possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria volto a contenere le resistenze durante il tragitto di accompagnamento degli stessi dalla sezione del quarto piano, ove erano collocati, al piano terra». Intanto, per ordine del Dap, le due stanze utilizzate come celle di isolamento vengono chiuse. Nel frattempo la direzione del carcere, nel caso della cella liscia chiamata dai detenuti “l’acquario”, ha assicurato di provvedere al rifacimento del bagno, eliminando la cosiddetta turca, al risanamento della finestra volta ad areare il locale, nonché alla tinteggiatura della stanza liscia e all’inserimento dei suppellettili. Quanto alla sala d’attesa dell’infermeria utilizzata come seconda “celle liscia”, la direzione del carcere ha promesso che farà riaprire il finestrotto per far circolare l’aria e ripristinerà il termosifone. Tale stanza – come ha stabilito il Dap -, una volta ristrutturata, verrà utilizzata per tempi assolutamente brevi e strettamente funzionali alle esigenze per le quali è stata prevista. Santi Consolo evidenza nella lettera indirizzata al ministero della Giustizia che «sarà cura del provveditorato regionale – che già nel mese di luglio 2016 aveva sensibilizzato le direzioni del suo distretto di competenza ad assicurare che la sanzione dell’isolamento avvenga in luoghi idonei, decorosi e non, come talvolta accade, privati di ogni minima suppellettile, fatto che pone o rischia di aggravare uno stato di reattività o peggio depressivo – programmare, con i fondi del 2017, la ristrutturazione dei locali segnalati».
Poggioreale, prime crepe nel muro della «cella zero». Giustizia. La procura di Napoli invia l’avviso di conclusione delle indagini a 22 poliziotti penitenziari e a un medico. Le violenze subite dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Tra venti giorni si deciderà l’eventuale rinvio a giudizio. E c’è il rischio di prescrizione dei reati, scrive Eleonora Martini su “Il Manifesto” il 13.08.2016. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: è ampio il ventaglio di reati ipotizzati dalla procura di Napoli nell’inchiesta sui maltrattamenti subiti da alcuni detenuti nel carcere di Poggioreale, anche nella cosiddetta «cella zero». Non tutti saranno eventualmente oggetto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, ma per intanto i magistrati hanno recapitato l’avviso di chiusura delle indagini a 22 agenti di polizia penitenziaria e a un medico. Tra venti giorni, preso atto delle controdeduzioni presentate nel frattempo dalla difesa, che conta di poter dimostrare l’«infondatezza» delle accuse, il pm Alfonso D’Avino, che coordina le indagini condotte dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. I fatti risalgono ad un arco di tempo che va dal 2012 al 2014. Fu Adriana Tocco, garante dei detenuti della Campania, a raccogliere le prime due denunce di maltrattamenti subiti nel carcere che diedero l’avvio all’attuale inchiesta giudiziaria. La prima vittima attese la fine della pena, prima di decidersi a parlare, nel gennaio 2014. «Era un uomo molto mite, sebbene avesse commesso un reato di frode finanziaria – racconta al manifesto Adriana Tocco -, mi raccontò per filo e per segno ciò che gli fece un poliziotto, senza alcun motivo». Da allora sono diventate 150 le denunce di sevizie, maltrattamenti, a volte vere e proprie torture, perpetrate negli anni. Fu così che si scoprì la presenza, a Poggioreale, – in realtà antica di oltre un ventennio, come denunciò per primo, nel 2012, Pietro Ioia, attivista per i diritti dei reclusi e presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani – della cosiddetta «cella zero», una stanza vuota posta al piano terra, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti, dove si sarebbero consumati i pestaggi. Il 28 marzo 2014, poi, una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo, dopo aver audito formalmente l’associazione Antigone, ispezionò il penitenziario napoletano. In seguito alla visita, l’allora direttrice Teresa Abate venne trasferita ad altro incarico, sostituita con l’attuale dirigente, Antonio Fullone, così come il comandante della polizia penitenziaria. «Da allora – racconta ancora Adriana Tocco – non ho più ricevuto denunce di maltrattamenti. Poche settimane fa, a fine luglio, sono stata in visita di nuovo a Poggioreale per accertarmi della veridicità di alcune lettere ricevute dal garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Ho parlato a lungo con i carcerati e ho potuto verificare che quel tipo di violenze sono terminate». «Ci auguriamo – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili». Un rischio concreto, innanzitutto perché dai primi casi di violenza sono già passati quattro anni, ma soprattutto perché, come spiega ancora Gonnella, «in mancanza del reato di tortura, al di là del fatto che possa essere effettivamente stato commesso o meno, vengono ipotizzati reati per i quali sussiste il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità». Motivo per il quale l’associazione Antigone chiede «che non si perda ulteriormente tempo e che a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura». Ma al di là dei reati eventualmente commessi da alcuni poliziotti penitenziari, rimane la questione aperta dell’isolamento, regime disciplinare dove, fa notare Antigone, «più facilmente, possono avvenire violenze» e che «rappresenta una soluzione particolarmente afflittiva che spesso induce i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi». Per questo Antigone ha presentato recentemente una proposta di legge per riformare l’applicazione del regime di isolamento, «invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato a farla loro». Rimane comunque il fatto che la cosiddetta «cella zero» non è contemplata da alcun regolamento penitenziario, e che la sua presenza, all’interno delle mura di molti penitenziari, non solo quello partenopeo, è stata negata per decine di anni.
Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino il 15 febbraio 2014 su "Il Corriere della Sera". Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Le celle zero sono in ogni carcere, scrive il 19 febbraio 2015 Davide Rosci su "Popoffquotidiano". Si vive in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano. Bisogna raccontare tutto perché il silenzio è il loro miglior alleato. La rivista Internazionale racconta la cella zero di Poggioreale. Purtroppo non si tratta di una realtà circoscritta a quel carcere. Io sono stato messo in isolamento al famigerato Mammagialla di Viterbo dove la cella era di 6 mq scarsi sotto uno scantinato buio stile film Saw (per intenderci la finestra era all’altezza della strada), l’ambiente era sudicio al massimo, lo sporco ovunque, il materasso in spugna puzzava di piscio ed era tutto rotto, il cuscino sempre in spugna mi è stato dato a metà perchè bruciato, la porta del bagno non c’era, l’acqua non era potabile e in 5 giorni non me l’hanno detto, i termosifoni non funzionavano e dalle finestre entravano gli spifferi d’aria gelata. Si stava ad una temperatura di 2 gradi. La notte ho dormito all’addiaccio con indosso tutti i vestiti che mi avevano lasciato, compreso il giubbotto, perchè le mie cose erano in un altro stanzino. Ho sofferto il freddo come non mai. Il cibo che mi veniva passato era scondito e la carne puzzava di morto. Per un mese ci hanno fornito due rotoli di carta igienica della peggiore qualità. L’acqua c’era solo in determinate ore della giornata e come detto non era potabile perchè contenente l’arsenico. Il passeggio ci veniva negato e comunque era da soli in un tugurio/corridoio di 10 mq. Le docce non avevano la luce e ci era consentito farla per poco tempo, tutto era allagato e pieno di muffa. Ricordo sui muri il sangue ovunque e le frasi di misericordia, rabbia e preghiere dei poveri cristi che come me avevano avuto la sventura di entrare lì sotto. Nella cella vicino alla mia c’erano due ragazzi che stavano scontando il 14 bis e per loro il mio cuore ancora piange. Praticamente dovevano passare 6 mesi lì sotto nelle condizioni che vi ho descritto perdipiù senza tv e possibilità di uscire e avere colloqui regolari con i propri cari. Vivevamo in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano…bisogna raccontare tutto perchè il silenzio è il loro miglior alleato.
IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.
Lavagna, sedicenne si getta dalla finestra di casa e muore durante una perquisizione, scrive Stefano Origone il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". Un mese senza calcio perché andava male a scuola. La guardia di finanza che perquisisce la sua camera alla ricerca di droga dopo che gli erano stati trovati in tasca una decina di grammi di hashish durante i controlli all'uscita dell'istituto scolastico di Lavagna che frequentava. Si è sentito perduto davanti alla mamma che piangeva e si sentiva colpevole di non aver fatto abbastanza quando ha iniziato a sospettare che il rendimento scolastico del figlio fosse calato per via della droga. Divise militari, l'auto con il lampeggiante acceso sotto casa. La gente che mormora in piazza. Il rischio di una segnalazione in prefettura come consumatore di sostanze stupefacenti. Marchi indelebili per Carlo (il nome è di fantasia per tutelare il minore e la sua famiglia) che non ha retto il peso della vergogna e di aver tradito la fiducia dei genitori. Si è tolto la vita a 16 anni, lanciandosi dalla finestra della sua abitazione di Lavagna. Tutto è iniziato in mattinata durante un controllo anti droga a scuola. Gli trovano una decina di grammi di hashish. Scatta il sequestro e i finanzieri avvisano i genitori per convocarli a casa poiché, come è previsto, deve essere eseguita una perquisizione. Il ragazzo rischiava solo una segnalazione al prefetto. In casa, la perquisizione dà esito negativo. I due finanzieri, secondo una prima ricostruzione, stavano parlando con i genitori quando il ragazzo ha aperto la finestra e si è lanciato dal terzo piano. Era ancora vivo quando è stato soccorso. Viene chiamato l’elicottero per un trasporto urgente al San Martino. La Finanza carica in auto i genitori e si dirige al pronto soccorso. Ma quando l’ambulanza arriva all’appuntamento con l’elicottero il sedicenne è già morto. "Se si poteva evitare la perquisizione? E' d'obbligo in tutti i casi e ancora di più in caso di un minore, il nostro compito è tutelarlo", interviene il tenente colonnello Emilio Fiora, comandante del Primo Gruppo della Guardia di Finanza da cui dipende la compagnia di Chiavari che ha eseguito i controlli nell'abitazione del giovane. Certo è che la morte del ragazzo, riapre il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere. "Chi glielo spiega ora, ai genitori del sedicenne di Lavagna, cui erano stati sequestrati dieci grammi di hashish, che la normativa sulle sostanze stupefacenti mira a tutelare la salute e l'integrità fisica e psichica dei giovani? Legalizzare i derivati della cannabis". Lo dichiara il senatore del Pd, Luigi Manconi.
I dieci grammi del ragazzo di Lavagna e i miliardi della mafia. Il suicidio è un gesto privato, ma le responsabilità sono pubbliche, scrive Roberto Saviano il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". Ha sedici anni e all'uscita da scuola viene perquisito dalla Guardia di Finanza. Ha addosso dieci grammi di hashish, i classici cinquanta euro di fumo che comprano i ragazzi. Avrebbe ammesso di averne ancora un po' a casa. Quindi la Guardia di Finanza perquisisce la sua cameretta ed effettivamente trova, dove lui stesso aveva indicato, altro fumo. La cronaca ci dice che il ragazzo, durante la perquisizione o mentre uno dei finanzieri stava parlando con sua madre, si alza dal divano dove era seduto, apre la finestra e si butta giù, dal terzo piano. Viene trasportato in elicottero in ospedale, ma non ce la fa. Muore. I fatti sono questi. Forse è utile localizzare l'evento per un solo dato: Lavagna è un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Genova. A Lavagna ci si conosce un po' tutti e magari il peso di ciò che la comunità pensa di te ancora si sente forte, fortissimo. Posso ipotizzare che in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino. Questi i fatti a cui non mi va di aggiungere dettagli emotivi. Inutile parlare di quelli che noi presumiamo essere i rapporti con la famiglia: questo non è un romanzo e quindi guardiamoci dall'interpretare i pensieri del ragazzo e dal riempire il vuoto di parole che crediamo siano state pronunciate ma che non hanno, ai fini della nostra valutazione, alcun peso. Concentriamoci, invece, sulle responsabilità politiche che si celano dietro un gesto privato. Concentriamoci sui motivi che portano i media a interessarsi di droga solo quando ci sono sequestri enormi, arresti eccellenti o morti tragiche come questa. Interroghiamoci su cosa uno Stato paternalista possa davvero fare per salvare vite. Concentriamoci sul fallimento della proibizione in materia di stupefacenti, in ogni luogo e in ogni tempo. E mentre scrivo ho davanti agli occhi il corpo martoriato di Stefano Cucchi e in mente i motivi che hanno condotto al suo arresto. Il 15 ottobre 2009, Cucchi viene fermato dai Carabinieri perché era stato visto cedere droga in cambio di soldi. Lo portano in caserma e addosso gli trovano 21 grammi di hashish, divisi in 12 confezioni, e tre dosi di cocaina. Durante la custodia cautelare accade quello su cui da anni si cerca di fare chiarezza. Perché ho citato Cucchi? Per un motivo preciso. Stefano muore dopo una settimana, mentre è affidato allo Stato Italiano. Stefano muore perché trattato da tossico, da spacciatore, non mancano al riguardo commenti agghiaccianti. Ricordo Giovanardi che disse che tra spacciatori e carabinieri sceglieva i carabinieri, di fatto fotografando un clima da guerra civile tanto assurdo quanto ingiustificato. E poi il "mi fai schifo" di Salvini rivolto a Ilaria Cucchi che aveva deciso, coraggiosamente, di mostrare le immagini terribili del corpo martoriato di suo fratello. Ma cosa ha raccontato, al nostro Paese, la morte di Stefano Cucchi? Che se sei uno spacciatore e un tossico meriti di morire. E che se ti trovano in possesso di droga, sei una merda e ti sei rovinato la vita. La tua e quella della tua famiglia. Non c'è appello. Non c'è possibilità di riscatto. È questo che hanno raccontato la morte di Federico Aldrovandi e poi quella di Stefano Cucchi. Ecco perché oggi, di nuovo e con urgenza, dobbiamo riflettere sulla necessità di avviare un dibattito parlamentare serio sulla legalizzazione della cannabis e lo facciamo ancora una volta sul corpo di un altro ragazzo la cui vicenda solo apparentemente non c'entra nulla con le altre che ho citato. In realtà con loro ha in comune il contesto, un contesto che condanna senza processo. Ma ci pensate mai? Solo alla presenza di un corpo morto, ci si distrae per un attimo dalla politica fatta di messaggi mandati via chat intercettati, interpretati, smentiti e per qualche ora si raccolgono idee e dichiarazioni per dirci quanto anche sulla legalizzazione delle droghe l'Italia sia in colpevole ritardo. Poi si seppellisce il corpo e tutto torna alla normalità. E intanto stupisce l'impiego di una tale solerzia militare su un sedicenne, è ovvio che si tratta di procedure, ma non ci si può esimere dal constatare la spropositata attenzione in questo caso su un dettaglio, rispetto al problema. E anche qui si tratta di valutazione politica e non militare. Di valutazioni generali che prescindono dalle responsabilità dei singoli. Che prescindono dal numero di finanzieri che hanno effettuato la perquisizione, ma hanno a che fare con una logica doppia che non può non saltare all'occhio. Da dove arriva il fumo che si spaccia a Lavagna? Da quelle piazze di spaccio a cielo aperto delle periferie romane o napoletane dove le forze dell'ordine hanno difficoltà a effettuare i seppur minimi controlli. E le scuole di mezza Italia, oggi come ieri, sono piazze di spaccio dove arriva qualunque tipo di droga. Allora mi domando: ha più senso tracciare il fumo prima che arrivi nelle mani dei sedicenni o ha più senso punire il sedicenne consumatore? E ancora: è più accettabile che un sedicenne possa acquistare fumo in un coffee shop o da spacciatori che hanno anche altro da vendere e soprattutto hanno a che fare con un sottobosco criminale dal quale sarebbe consigliabile tenersi alla larga? Il fumo che si spaccia davanti alle scuole, nelle discoteche, negli stadi e ovunque ci siano ragazzi è fornito dai cartelli criminali. Il problema sono loro o sono gli studenti che fumano? Si dirà: ma se non parti dal piccolo come arrivi al grande? Questo non è assolutamente vero, perché il rischio è che si parta dal piccolo per fare gran numero di fermi e di perquisizioni, perché arrivare alla gestione delle basi è molto complicato. Si parte dal piccolo spacciatore per rimanere al piccolo spacciatore. Per smantellare piazze di spaccio si rischia di lavorare a vuoto per mesi. E invece ci vogliono fatti concreti, bisogna fare numero, fermi, droga perquisita, grammi su grammi da comunicare nei dati che a fine anno verranno pubblicati affinché l'opinione pubblica si convinca che le forze dell'ordine fanno il loro lavoro. Quando Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi hanno avuto il coraggio di mostrare le immagini dei volti tumefatti di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, io ho sentito verso di loro enorme gratitudine. Lo hanno fatto, certo, per un figlio, per un fratello, morti in circostanze odiose, ma lo hanno fatto anche perché sapevano che i diritti si ottengono utilizzando corpi, corpi che diventano campi di battaglia. Oggi però mi assale lo sconforto nel constatare che il corpo morto, quello senza vita (che sia il corpo del piccolo Aylan trovato esanime sulla costa turca, quello di Federico o quello di Stefano) ci indigna, ci fa incazzare, rabbrividire, commuovere, ma ci restituisce anche la tristissima consapevolezza che ormai più nulla è dato fare. Che oltre la morte non c'è più niente. Che ogni nostro gesto, ogni nostra azione è ormai vana. La nostra distrazione è quindi giustificata, naturale conseguenza, quasi ovvia, scontata, dovuta. Normale. Chi si occupa di mafie questo lo sa bene: non si spiegherebbe altrimenti l'indifferenza ai morti in terra di camorra, morti giovani, minorenni, morti innocenti, morti colpevoli. E penso a Marco Pannella e all'intuizione che ha avuto, intuizione geniale, da politico di razza, sulle battaglie politiche, che andavano necessariamente condotte utilizzando il corpo vivo, il suo corpo vivo. Gli scioperi della fame per i detenuti e la distribuzione di marijuana e cannabis. Oggi prendiamo la sua eredità perché è sui corpi dei vivi che vanno combattute e vinte le battaglie. Dei corpi morti ci dimentichiamo in poco tempo. È il suo metodo che dobbiamo utilizzare, un metodo analitico che dal particolare va subito all'universale e non indugia sui turbamenti intimi dell'animo umano, ma punta dritto alle responsabilità collettive e su quello che c'è da fare. Qui, dunque, non è minimamente in discussione l'incapacità che un sedicenne ha, per inesperienza, di relativizzare ciò che gli accade, ma la necessità di porre seriamente le basi perché gli innocenti, ma anche i colpevoli, non vengano condannati a morte dalla pubblica morale. E se il decesso di Stefano Cucchi è stato procurato, il ragazzo di Lavagna ha anticipato il giudizio sociale e, in una manciata di minuti, si è autoprocessato, si è trovato colpevole, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudicarlo. Non giriamoci troppo attorno, lui è l'ennesima vittima di un sistema criminogeno, di un sistema che non funziona per calcolo, inerzia, incompetenza, comodità. E rendiamoci conto che uno Stato paternalista, che pretende di preservare i suoi figli vietando, è uno Stato destinato a fare un numero incalcolabile di vittime e che regala alle organizzazioni criminali un mercato stimato tra 4 e 9 miliardi di euro all'anno. Questo è il valore della cannabis consumata. Smettiamo, quindi, di fare regali alle mafie e legalizziamo, ora. Legalizziamo. Anzi, in realtà bisognava averlo già fatto, ieri.
IL CASO DI STEFANO CUCCHI.
Caso Cucchi, il pm: i carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia, scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Prima ancora che la procura conferisse l’incarico per l’esame medico legale sulla morte di Stefano Cucchi, i carabinieri erano già in possesso di una relazione ufficiosa e segreta, datata 30 ottobre 2009. L’ennesimo colpo di scena svelato nell’aula del processo bis dal pm Giovanni Musarò ha come conseguenza la richiesta della pubblica accusa alla corte D’Assise di revocare dalle prove di questo dibattimento le testimonianze rese dai vecchi periti. La prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi «è stata farlocca, le testimonianze di consulenti e periti dell'altro processo introdurrebbero un vizio nel processo attuale», sottolinea Musarò. «Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo», aggiunge il pm, ma la credibilità di quei testi «è irreparabilmente inficiata». Nella precedente udienza era emerso che sempre sulla base di false attestazioni mediche fornite dai carabinieri al ministro dell’Interno Angelino Alfano, il titolare del Viminale era stato indotto a dire il falso quando venne chiamato a riferire del caso in parlamento. Ora, il passo avanti ulteriore con cui la procura sostiene la sua accusa di depistaggio a carico di altri sette carabinieri, oltre ai cinque imputati per il pestaggio e i falsi. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, dice ancora il pm in aula, «erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm di allora non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell'autopsia». La relazione di cui parla l'Arma in documenti riservati del 2009, «era talmente segreta da essere negata anche alle parti», aggiunge Musarò.
Cucchi, il dossier sull’autopsia finito nelle mani dei carabinieri. Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Di udienza in udienza, al processo per la morte di Stefano Cucchi i misteri si infittiscono anziché chiarirsi. O meglio, affiora con sempre maggiore chiarezza un intrigo — legato ai depistaggi del 2009 e del 2015 denunciati dall’accusa — che i protagonisti non riescono a spiegare. O si rifiutano di spiegare avvalendosi del diritto al silenzio essendo a loro volta indagati per falso o favoreggiamento. A cominciare dal generale dei carabinieri Alessandro Casarsa e dal capitano Tiziano Testarmata, che dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò nel corso dell’inchiesta-bis sulla manipolazione delle prove, nell’aula dove vengono giudicati cinque loro colleghi imputati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso, scelgono di tacere. «Sono emerse altre circostanze inquietanti relative agli accertamenti medico-legali sul decesso di Cucchi», annuncia il pm Musarò aprendo l’udienza di ieri, per mettere in guardia: «Nell’altro processo (quello contro gli agenti penitenziari finiti assolti, ndr) è stata giocata una partita con le carte truccate; oggi ne giochiamo un’altra con un mazzo nuovo, ma vorrei evitare altri trucchi». Stavolta la novità è una relazione preliminare del medico che il 23 ottobre 2009, il giorno dopo la morte di Stefano, effettuò l’autopsia sul cadavere. Otto pagine consegnate dal consulente Dino Tancredi al magistrato che all’epoca svolgeva le indagini, Vincenzo Barba, alle 17.40 del 30 ottobre e negate agli avvocati della famiglia Cucchi. Segrete per tutti ma non per l’Arma, che già negli appunti redatti dall’allora colonnello Casarsa lo stesso 30 ottobre e dall’ex comandante provinciale Vittorio Tomasone il 1° novembre, ne davano conto. Enfatizzando conclusioni parziali e interlocutorie, redatte «con riserva di ulteriori approfondimenti». Prima ancora che a Tancredi venissero affiancati altri consulenti, i carabinieri spiegavano nel loro appunto trasmesso al comando generale (poi utilizzato per informare il governo chiamato a rispondere alle interrogazioni parlamentari) che il collegio peritale sarebbe stato ampliato per «valutare i risultati parziali dell’autopsia che sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi». In realtà Tancredi aveva ripetutamente scritto che «allo stato attuale» non emergevano elementi che collegassero le lesioni alla morte di Cucchi; e che «la definizione dei mezzi produttori della medesima necessita di ancor più approfondito esame» di tutti gli elementi a disposizione e ancora da raccogliere. Tuttavia la mancanza del famoso «nesso causale» tra le percosse e la morte di Cucchi verrà poi introdotta nelle successive consulenze e perizie che hanno condizionato il primo processo, e che oggi il pm non esita a definire «farlocche». Anche in virtù di un’altra relazione senza data, che lo stesso Tancredi non sa spiegare, in cui sparì una lesione vertebrale invece presente in quella preliminare; e delle anticipazioni elaborate dai carabinieri, sebbene non si capisca a quale titolo furono informati in tempo reale degli accertamenti medico-legali in corso. Perché avevano quella relazione segreta? E come poterono anticipare le mosse successive? Nell’udienza precedente il generale Tomasone disse di non ricordare perché nel suo appunto escluse il collegamento tra botte e decesso, essendosi limitato a trascrivere ciò che gli aveva indicato il colonnello Casarsa. Il quale nel frattempo è diventato anche lui generale e al pm — nell’istruttoria sui presunti depistaggi — aveva detto di non ricordare chi gli aveva trasmesso quelle informazioni; negando di aver dettato l’annotazione al suo sottoposto, come riferito dal colonnello Cavallo. Versioni contraddittorie, un carabiniere contro l’altro. E ieri, convocato davanti ai giudici, Casarsa ha cambiato atteggiamento: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Come il capitano Testarmata — che sulle acquisizioni di carte del 2015 aveva risposto al pm, sostenendo tesi smentite da altri — ma in aula resta zitto, se non per declinare le proprie generalità. L’unico ufficiale che deve parlare per forza in quanto testimone, il tenente colonnello Paolo Unali, ex comandante della compagnia Casilina, non sa spiegare perché negli atti redatti all’epoca non si fa mai cenno ai motivi del mancato fotosegnalamento di Cucchi la sera dell’arresto (quando avvenne il pestaggio, secondo l’accusa). «Mi avevano riferito che era stato poco collaborativo», dice. Ma allora come mai negli appunti il detenuto viene descritto come «remissivo», oltre che falsamente «anoressico e sieropositivo»? «Non lo so», risponde Unali. Quelle carte dei carabinieri sono rimaste nascoste per nove anni, e solo di recente sono state consegnate dall’Arma, inserite negli atti della nuova indagine e prodotte in aula. Ma, un po’ misteriosamente, la corte d’assise per adesso ha stabilito che non debbano entrare nel processo.
Caso Cucchi, il pm al processo: "I carabinieri avevano una relazione segreta precedente all'autopsia". E' la novità emersa nell'udienza del procedimento bis sui presunti depistaggi. Musarò: "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i militari già lo sapessero?" Scrive l'8 marzo 2019 Maria Elena Vincenzi La Repubblica. Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell'autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. E' la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d'Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell'ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musarò, veniva evidenziato che la lesività delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell'Arma veniva esclusa la possibilità di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell'autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all'avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un'insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?" ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all'autopsia di Stefano Cucchi. "I legali di Cucchi nel 2009 - ha aggiunto - avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c'erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece - ha concluso - si sosteneva che non c'era un nesso di causalità delle ferite con il decesso". "Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall'inizio delle operazioni" spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. "Per pervenire a delle conclusioni - ha aggiunto - io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perchè c'erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti. Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009". Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento "contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo perché è' poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni".
Stefano Cucchi, il pm: “I carabinieri avevano una relazione segreta sui primi risultati dell’autopsia, scrive Il Fatto Quotidiano l'8 Marzo 2019. Il 30 ottobre 2009 era stata fatta una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia di Cucchi tenuta segreta ma di cui il Comando Provinciale e il Gruppo Roma sapevano”. È quanto dichiarato dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel documento preliminare (effettuato il giorno stesso del decesso del geometra 31enne) si sottolineava che “la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte”. Parole che marcano una differenza netta rispetto a quanto sostenuto sempre nell’autopsia e nella maxi-consulenza, in cui veniva escluso un nesso fra le ferite di Stefano Cucchi e la sua morte. Si tratta infatti di risultati completamente diversi, che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari – che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi – si parlava di due fratture (e non precedenti), oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, “erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell’autopsia” ha evidenziato il pubblico ministero. La relazione di cui parla l’Arma in documenti riservati del 2009, “era talmente segreta da essere negata anche alle parti” ha aggiunto. Il documento in questione era stato firmato dal medico legale Dino Tancredi, l’unico già nominato il 30 ottobre 2009, e vi si sottolineava come servissero ulteriori approfondimenti per definire le cause del decesso. Eppure già in quei giorni l’Arma sottolineò come i medici legali avessero escluso il nesso di causalità tra la morte del giovane e le percosse subite. Musarò ha fornito anche altri dettagli: nella relazione si spiega “che c’erano due fratture non precedenti alla morte e non si faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e che Cucchi era morto per cause da accertare”. Il pm ha sottolineato che però “nei verbali dei Carabinieri già si sosteneva che non c’era nesso di causalità tra le ferite e la morte”. Infine ha ripetuto: “Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?”. Una presa di posizione, quella del pm Musarò, che segue quanto avvenuto il 27 febbraio scorso durante l’audizione in aula come testimone del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri. Tomasone ha detto di non essersi mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra 31enne, circostanza però smentita dal pm Musarò, che in aula gli ha mostrato un atto sua firma nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia, in particolare in merito a due fratture, che neanche la Procura di Roma ancora conosceva.”Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto il pm, con Tomasone che per rispondere ha chiamato in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha chiesto se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. E qui Tomasone ha replicato dicendo “questo non lo so”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia del geometra, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
Cucchi, il legale della famiglia: "Valutiamo azione risarcitoria contro lo Stato". Per l'avvocato Anselmo la presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte del geometra romano potrebbero avere costituito un danno alla famiglia, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte di Stefano Cucchi potrebbero avere non solo costituito un danno d'immagine all'amministrazione della giustizia ma sicuramente un danno alla famiglia, da sempre alla ricerca della verità. Per questo il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, starebbe valutando "un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato" ma anche un'iniziativa legale contro il Campidoglio", unico ancora costituito parte civile nei confronti dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, dove il geometra morì nel reparto protetto. "Quel processo però ora sta emergendo che si basa su atti e documenti falsi", spiega Anselmo. "Il primo processo, quello sui medici, sarebbe terminato con la prescrizione ma rimane allo stato in piedi solo per l'ormai unica parte civile, che è il Comune di Roma. Di fatto tutto ciò sta aiutando processualmente medici e carabinieri, i quali sperano di usufruire di una perizia che si basa su un processo sbagliato e sulle deposizioni di carabinieri che oggi sono imputati e coinvolti nell'inchiesta bis", precisa ancora Anselmo. Ma la questione dei presunti falsi, che sta emergendo ora con forza durante le udienze del processo nei confronti di 5 carabinieri, potrebbe indurre anche la Corte dei Conti a considerare nel fascicolo già aperto sul caso Cucchi il reato di danno all'amministrazione della giustizia. Ciò perchè i presunti atti modificati e falsificati avrebbero innescato depistaggi e di fatto impedito per anni di accertare la dinamica dei fatti che portarono alla morte di Cucchi. "Alla Corte dei Conti c'è un fascicolo aperto ma per muoversi su un eventuale danno di immagine la norma prevede il passaggio in giudicato della sentenza - spiega Massimiliano Minerva, consigliere della Corte dei Conti del Lazio, a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - stanno venendo fuori reati diversi come il falso o il cosiddetto depistaggio che potrebbero essere reati contro l'amministrazione della giustizia". L'annuncio della difesa della famiglia Cucchi arriva dopo l'udienza di ieri con l'audizione in aula del generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. Un'audizione in qualità di testimone fatta anche di molti “non ricordo” e che è arrivata dopo le parole del pm Giovanni Musarò che ha ricostruito ciò che l'accusa descrive come un depistaggio iniziato nell'ottobre del 2009. Da quel momento, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, la catena di comando dei Carabinieri mette in atto una serie di iniziative per "allontanare" la verità su quanto avvenuto. Un percorso fatto di falsi che è riuscito ad approdare perfino in Parlamento quando l'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, basò, in maniera del tutto inconsapevole, il suo intervento al question time sulla vicenda del geometra utilizzando una nota redatta dai carabinieri della stazione Appia. "In Aula il ministro riferì il falso su atti falsi", ha affermato il pm Giovanni Musarò. Ora quei falsi potrebbero portare ad un'azione risarcitoria contro lo Stato.
Caso Cucchi, i pm: ''Angelino Alfano indotto inconsapevolmente a dichiarare il falso su atti falsi'', scrive Giovanni Bianconi su Corriere della Sera, 1 marzo 2019. Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: "Qui di prassi non c'è nulla". Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel "caso Cucchi", il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d'interrogatorio degli ufficiali dell'Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d'allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell'inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell'informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all'epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: "Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l'ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo". Il procuratore commenta: "Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti". "Non è una risposta" - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell'autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: "Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...", e Pignatone lo avverte: "Questa non è una risposta. Mi scusi...". Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché "non è la prassi", e il procuratore sbotta: "Ma qua non c'è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c'è assolutamente nulla nella prassi, quindi...". Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l'ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: "Non ho capito la domanda". Il procuratore interviene: "E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l'ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c'era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità". "Cerchiamo la verità" - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: "Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false". Pignatone: "Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto "carte alla mano" queste benedette relazioni?". Sabatino: "Questo, procuratore, non lo so". Il magistrato prova a insistere: "Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?". Sabatino: "Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un'accusa che riguardava altro...". Pignatone: "Vabbè, andiamo avanti". Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver "messo mano" a quei documenti "su indicazione del colonnello Casarsa", il procuratore ricorda: "Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev'essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo". Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni "minimizzanti" sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. "Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...", prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: "Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette".
In aula ascoltato l’ex Comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone, scrive AntiMafiaDuemila il 28 Febbraio 2019. Nuovi inquietanti particolari sono venuti a galla dal processo bis sulla morte del trentenne Stefano Cucchi. Il pm Giovanni Musarò, ieri, durante l’apertura d’udienza, ha pronunciato parole al vetriolo: “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Il magistrato ha puntato il dito contro i continui depistaggi, posti in essere sulla morte di Stefano Cucchi dai vertici dell'Arma dei carabinieri, che via via sarebbero arrivati fino alle scrivanie del governo dell’epoca. In particolare a cadere nella trappola della manipolazione delle carte dell’Arma, sulla morte dell’ingegnere romano, sarebbe stato il ministro degli Interni di allora, Angelino Alfano. Questi “era stato inconsapevolmente indotto da atti falsi a riferire il falso” quando venne chiamato a rispondere davanti al Senato il 3 novembre 2009 su delle informative rinvenutegli dall’Arma. L'attività di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi ebbe inizio il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell'agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto, come invece vide il padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. - ha detto Musarò in aula- Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio”. Ed è da questa agenzia che si sarebbe mosso il meccanismo di depistaggio dei Carabinieri dal quale, grazie alle attività di indagine, sarebbero emerse due circostanze. La prima: “Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Che servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti”. Mentre il secondo scenario riguarda le conclusioni mediche eseguite prima della perizia: “Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - ha affermato il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
L’udienza di ieri ha visto come teste il Generale dei Carabinieri Vittorio Tomasone, al quale dipendevano tutti i militari che ebbero a che fare con il giallo di Stefano Cucchi (inclusi i 5 imputati al processo bis), poichè all’epoca dei fatti era Comandante provinciale di Roma. La testimonianza dell’ex comandante è stata ricca di amnesie dipinte da vari “non ricordo” e "non ho memoria dei fatti" che hanno scaturito la stizza del pm Giovanni Musarò. Secondo Tomasone “quello di Cucchi era stato un arresto normale, come tanti” e alla questione se si fosse mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra il generale ha risposto negativamente. Negazione smentita però dal pm Giovanni Musarò che in aula gli ha mostrato un atto a firma proprio del generale nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia del giovane, in particolare in merito a due fratture, di cui neanche la procura capitolina era a conoscenza. “Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto quindi il pm. Alla domanda del pm, Tomasone ha risposto chiamando in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha domandato se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. Domanda alla quale il generale ha risposto brevemente: “questo non lo so”. Il pm ha riportato allora un’annotazione dalla quale emergeva che il 23 novembre 2009 fu disposta l’autopsia di Stefano, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicò la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando Generale, scriveva dei risultati parziali dell’autopsia che ancora non era stata fatta”, perché “non erano nemmeno stati nominati i periti”. A questo il generale si è difeso asserendo di “non avere memoria sul modo con il quale è stata assunta l’informazione”. Casarsa, ascoltato dai pubblici ministeri lo scorso 28 gennaio, aveva detto a riguardo: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. In quel documento Casarsa ha affermato, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia “sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”. Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa ha detto di non essere in grado di affermare da chi ebbe “le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza”. Nella lista degli indagati è stato iscritto anche il colonnello Lorenzo Sabatino insieme a Casarsa, gli ufficiali si sono difesi sostenendo di “non essere a conoscenza” del contenuto delle note, che sarebbero emerse come modificate. “Da persona innocente mi sono trovato in una rete senza uscita ordita nei nostri confronti. Eravamo tre pecore mandate al patibolo”, ha detto l’agente della polizia penitenziaria Nicola Minichini, processato con altri due colleghi e assolti in via definitiva. La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo.
Cucchi, il ministro Alfano mentì perché ingannato dai carabinieri. Lo ha detto il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri, scrive Valentina Stella il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Lo ha detto ieri il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri. Seconda l’accusa l’attività di depistaggio sulla morte del giovane geometra sarebbe iniziata il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell’agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono che Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti invece poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “A partire dal 26 ottobre del 2009 – ha precisato il pm – iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera il 3 novembre”. Di conseguenza “il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Inoltre, il ministro Alfano disse, sulla base di quelle informative pervenutegli dalla Difesa seguendo la scala gerarchica dell’Arma, “che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato dai carabinieri. Da qui – ha sottolineato il pm – cominciò una difesa a spada tratta dell’Arma che si tradusse in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo”. A tal proposito è Nicola Minichini, uno dei tre agenti della penitenziaria accusati inizialmente del pestaggio di Cucchi, assolti nei tre gradi di giudizio e poi ora parti offese nel processo- bis in corte d’assise a sfogarsi: “Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Io non riesco ancora a capire come sia stato possibile”. E di questa rete di depistaggio farebbero parte anche le falsificazioni degli esami medico legali: secondo il pm, nelle note dell’Arma, l’anemia e l’epilessia dichiarate dal povero geometra diventarono anoressia. Inoltre “due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all’Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Tutto ciò – aggiunge il magistrato era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati”. Tutto in regola invece per il generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri per cui, come riferito ieri in qualità di testimone, quello di Cucchi “fu un arresto normale”. La sua versione dei fatti è stata caratterizzata da tante ammissione di “non ricordo” e “non ho memoria dei fatti” che hanno suscitato l’irritazione del pm Giovanni Musarò.
Caso Cucchi, nuove prove di depistaggio al processo: "Conclusioni mediche prima di perizia" . Tomasone: "Fu un arresto normale". Durissimo il pm: "Le carte acquisite a novembre 2018 dimostrano che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia". Depone come teste l'allora comandante: "Chiesi relazione sui fatti, sono convinto che non ci siano responsabilità da parte dei carabinieri", scrive Maria Elena Vincenzi il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Si è aperta alla Corte di assise di Roma, con un nuovo e ultimo deposito, l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchiche vede imputati cinque carabinieri nell'ambito del nuovo filone di inchiesta sui falsi e sui depistaggi legati alle condizioni di salute del 32enne geometra arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. Ma soprattutto è la giornata in cui è stato sentito Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. In apertura di udienza il pm Giovanni Musarò prende la parola. "È l'ultimo deposito di attività integrativa di straordinaria importanza. C'è stato depistaggio sia nel 2015 sia per il 2009 che è oggetto del procedimento. Pensiamo di essere riusciti a capire e dimostrare cosa accadde nel 2009, grazie ad acquisizione documentale resa possibile anche grazie alla leale collaborazione che ci è stata offerta dal comando provinciale dei carabinieri. "Due le circostanze - spiega il pm - la prima attiene alla ricostruzione dei fatti. Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio".
Al ministro Alfano documenti falsificati. "Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Ma a cosa servivano: non servivano per il pubblico ministero, servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti".
Conclusioni mediche prima della perizia. "Secondo aspetto - prosegue Musarò - che attiene agli esami medico legali. Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - aggiunge il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
Anemia e epilessia diventarono anoressia. "Mi sono andato a risentire l'audio di quel processo per direttissima. Stefano Cucchi disse di avere l'anemia e l'epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni sulle condizioni di salute del ragazzo, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte". Lo ha sottolineato il pm Giovanni Musarò nel processo ai cinque carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Il magistrato ha quindi spiegato che il comando provinciale dell'Arma nel gennaio del 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. "Non è vero, perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ha negato che accadde ciò - ha concluso il pm -. L'epilessia di Cucchi era da tempo in fase di rimessione, come hanno detto i medici. Eppure l'epilessia, nella relazione peritale del gip dell'ottobre del 2016, diventò la causa più probabile del decesso. Si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia, ma ormai qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema".
Tomasone: "Fu un arresto normale". Per l'allora comandante dei carabinieri, quello di Cucchi "fu un arresto normale". Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Lo ha riferito davanti alla corte d'assise il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti (2009) comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, sentito come testimone nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Una versione, quella dell'alto ufficiale dell'Arma, caratterizzata da tante ammissione di "non ricordo" e "non ho memoria dei fatti" che hanno suscitato la stizza del pm Giovanni Musarò. Tomasone ha spiegato così il significato della riunione del 30 ottobre del 2009, che il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, ha definito in udienza 'come quella degli alcolisti anonimi': "A tutti coloro che erano stati presenti nella vicenda dell'arresto di Cucchi - ha detto il generale - avevo chiesto di venire da me al Comando provinciale e, oltre a portare una relazione scritta, di dire quello che avevano fatto. All'esito di questi ulteriori accertamenti, ne deducevo il convincimento che non vi potevano essere responsabilità. Il motivo di fare venire i militari non era solo quello di cogliere il 'focus' del loro racconto ma anche, attraverso l'espressione del loro viso, capire se qualcuno stesse correggendo altri nella ricostruzione dei fatti. Sentire i militari singolarmente si sarebbe prestato a una interpretazione diversa. Mi sembrava cosa più logica guardarli negli occhi tutti assieme"...
Caso Cucchi, il pm: “Alfano disse il falso in Aula ingannato dagli atti fasulli prodotti dai carabinieri”. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm oggi nel processo per la morte del geometra romano. Durante l'udienza ha testimoniato in generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane, scrive Il Fatto Quotidiano il 27 Febbraio 2019. L’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “dichiarò il falso” di fronte al Parlamento sul caso Cucchi, sulla base di una “serie di annotazioni falsificate” da parte dei carabinieri. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Durante l’udienza odierna, ha testimoniato il generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane geometra romano, morto all’ospedale Pertini di Roma dove si trovava ricoverato dopo il fermo dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Secondo l’accusa, che indaga anche sul successivo presunto depistaggio portato avanti dai militari dell’Arma, nelle carte ci sono le prove dei “falsi e delle omissioni” dell’allora Comando provinciale dei carabinieri di Roma che hanno tratto in inganno anche l’ex ministro della Giustizia. Il 3 novembre 2009, al Senato, Alfano (sopra la foto di quel giorno, ndr) durante la sua informativa accusò implicitamente gli uomini della polizia penitenziaria, ha detto il pm spiegando come il “depistaggio” sarebbe partito subito dopo un dispaccio d’agenzia del 26 ottobre 2009 in cui il parlamentare Luigi Manconi “denunciava che i genitori del ragazzo lo avevano visto dopo l’arresto senza segni in viso mentre il giorno dopo era tumefatto”. Da quel momento, ha detto Musarò, “da parte dei carabinieri partono una serie di annotazioni falsificate” e Alfano “sulla base di atti falsi”, dichiarò “il falso in Aula, lanciando accuse alla polizia penitenziaria, quando ancora in procura non c’era nulla contro la penitenziaria”. Fino a quel giorno – ha ricordato il pm Musarò – il fascicolo dei pm Barba e Loy sulla morte di Cucchi “era a carico di ignoti e solo dopo le parole di Alfano partirà l’indagine sui poliziotti”. Per quello che il pm ha definito “un gioco del destino”, il 3 novembre 2009, “quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi”. Quella dichiarazione – ha detto il pm – “è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva”. Nel caso Cucchi, ha concluso Musarò, “si è giocata una partita truccata, con carte segnate”. Una partita “giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Durante il suo interrogatorio, il generale Tomasone ha spiegato, relativamente alla riunione convocata con molti dei carabinieri ora indagati per il depistaggio: “Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
Cucchi, l'inchiesta si allarga: indagato anche un colonnello. Avviso per favoreggiamento a Sabatino, all’epoca capo del nucleo operativo di Roma, scrive Carlo Bonini il 15 febbraio 2019 su La Repubblica. Prigionieri del vincolo di omertà con cui l’Arma dei carabinieri ha sequestrato per nove anni la verità sull’omicidio di Stefano Cucchi, cadono uno dopo l’altro. E tutti insieme. Ufficiali, sottufficiali, truppa. In una sequenza in cui i “morti” (marescialli e appuntati), abbandonati al loro destino giudiziario, si afferrano ai vivi (capitani, maggiori, colonnelli, generali), trascinandoli a fondo. E tocca ora, dunque, al colonnello Lorenzo Sabatino, ambiziosissimo ufficiale cresciuto all’ombra dell’ex Comandante generale Leonardo Gallitelli e oggi comandante provinciale dei carabinieri a Messina. Il pm Giovanni Musarò lo ha interrogato come indagato mercoledì pomeriggio, contestandogli il reato di favoreggiamento per l’attività di occultamento e manipolazione delle prove condotta nel novembre 2015 dal Reparto Operativo dell’Arma di Roma, di cui era allora comandante, che avrebbe dovuto far deragliare anche l’inchiesta bis dalla Procura sull’omicidio (quella per cui si sta celebrando il processo ai tre carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano). Al colonnello Sabatino, che in quel novembre del 2015 aveva ricevuto l’incarico di raccogliere e trasmettere alla Procura tutti gli atti interni all’Arma su Cucchi, il pm Musarò contesta infatti di non aver segnalato come in questo scartafaccio di carte che trasmise al suo ufficio fossero state “manomesse” due delle evidenze chiave in grado di ricostruire cosa fosse accaduto la notte del 16 ottobre 2009, quella dell’arresto e del pestaggio di Stefano. Si trattava delle relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, due piantoni di guardia nella caserma di Tor Sapienza, quella dove Stefano trascorse la notte dell’arresto. A entrambi – come l’indagine della Procura ha recentemente documentato – venne imposto dalla catena gerarchica dell’Arma di correggere quanto avevano inizialmente annotato per iscritto nelle loro relazioni in modo tale che scomparisse ogni riferimento alle tracce, già in quella notte dell’ottobre 2009 evidenti, del pestaggio appena subito da Stefano dai carabinieri che lo avevano arrestato. E vennero dunque confezionati due falsi. Due nuove “annotazioni di servizio” che di quelle originali avevano la medesima veste grafica e lunghezza, riportavano la stessa data, ma erano appunto purgate nei contenuti. Ebbene, Sabatino, sulla carta un fine investigatore, almeno se si sta al suo curriculum (Comando del Nucleo Investigativo e del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma, Comando di una delle sezioni del Ros, reparto di eccellenza dell’Arma, e quindi il comando a Messina), non notò quella discrepanza. Piuttosto, affastellò originali e falsi di quelle annotazioni in un unico malloppo di carte dove solo l’ostinazione del pm Musarò riuscì a scovarli, a notarne la “diversità”, e dunque a farli “parlare”. Né le omissioni dell’indagine di Sabatino si fermarono qui. A quella che, al momento, è per altro la sola contestazione formale che gli è mossa da Musarò. Per ordine dello stesso colonnello Sabatino, infatti, il capitano Testarmata (all’epoca in forza al Nucleo Investigativo e anche lui indagato per favoreggiamento), tra le carte da consegnare alla Procura, non acquisì in originale il registro “sbianchettato” del fotosegnalamento di Stefano la notte dell’arresto nella caserma Casilina (fu prodotta soltanto una fotocopia da cui il bianchetto non appariva). Né tantomeno raccolse lo scambio di mail con cui erano documentate le pressioni e le indicazioni dell’allora comandante del Gruppo Carabinieri (il colonnello Alessandro Casarsa) perché appunto le relazioni dei due piantoni della caserma di Torsapienza fossero manipolate. Il colonnello Sabatino, per quanto è stato possibile ricostruire, si è difeso durante l’interrogatorio scegliendo di indossare i panni dello sprovveduto. Ha provato infatti a scaricare la responsabilità della mancata segnalazione alla Procura delle “doppie annotazioni” prima sul povero capitano Testarmata, quindi sull’allora comandante del Nucleo Investigativo. A quanto pare senza riscuotere grande successo.
Cucchi, il registro "sbianchettato" che nessuno pensò di guardare in controluce. Processo bis. La testimonianza del maggiore Grimaldi: «L’originale non venne sequestrato, solo fotocopiato», scrive Eleonora Martini su Il Manifesto il 15.02.2019. La conferma che il nome di Stefano Cucchi venne «sbianchettato», e sostituito con un altro, dal registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, arriva dal processo bis che si celebra davanti alla I Corte d’Assise, a Roma, diventato ormai uno spaccato sul modus operandi dell’Arma dei carabinieri grazie all’attività investigativa sui tentativi di insabbiamento e depistaggio coordinata dal pm Giovanni Musarò. La riprova è arrivata dal maggiore Pantaleone Grimaldi, che di quella caserma fu comandante dal 2014 al 2016, nell’udienza di ieri, nella quale hanno testimoniato anche alcuni frequentatori della palestra dove Cucchi si allenava «regolarmente, con costanza, passione e grande intensità» malgrado fosse «magro e di bassa statura», e un agente di polizia penitenziaria che vide Stefano in una cella del tribunale, in attesa di comparire davanti al Gip, «con il volto tumefatto ed evidenti segni marrone scuro attorno agli occhi». Grimaldi ha ricordato di essere stato contattato nel novembre 2015 dall’allora Comandante del Nucleo operativo, colonnello Lorenzo Sabatino, che lo avvisava dell’imminente visita del capitano Tiziano Testarmata (ora indagato per favoreggiamento) volta ad acquisire i documenti contenuti nel fascicolo Cucchi, chiuso a chiave in un armadio della caserma. Fu Testarmata ad accorgersi dello sbianchettamento di tutti i campi relativi ad un fotosegnalamento avvenuto nello stesso giorno in cui venne arrestato Cucchi. «Questo modo di correggere un eventuale errore è vietato e comporta un procedimento disciplinare – riferisce Grimaldi – per questo suggerii a Testarmata di sequestrare il registro e acquisirne l’originale, invece delle fotocopie. Ma lui si allontanò per consultarsi con qualcuno e poi non accolse il mio invito». Davanti agli inquirenti che lo interrogarono, Grimaldi aveva riferito di essersi arrabbiato con Testarmata, ma ieri ha rettificato: «Mi fidavo completamente di lui, credevo lo avrebbe fatto in un secondo momento». Ma il pm Musarò, che è riuscito ad acquisire il documento originale senza aver mai ottenuto il nome di chi fece materialmente il fotosegnalamento di Cucchi e neppure dell’uomo arrestato il cui nome (straniero) è sovrapposto a quello di Stefano, lo incalza: «Quando in procura abbiamo visto quel foglio, abbiamo fatto la prima cosa che tutti farebbero: guardare in controluce attraverso lo sbianchettamento. Cosa che non si poteva fare con la fotocopia. Ed è apparso subito, evidente, il nome di Stefano Cucchi. Lei, o il capitano Testarmata, non avete pensato a fare subito questa verifica?». «No», è la risposta del maggiore Grimaldi. Elementare, Watson!
Caso Cucchi, un generale indagato per aver manipolato alcune relazioni. Si tratterebbe di note redatte da alcuni carabinieri sulle condizioni di salute del giovane morto dieci anni fa, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Anche un generale finisce nel mirino degli inquirenti nel caso Cucchi. Alessandro Casarsa, capo dei corazzieri al Quirinale fino a un mese fa, risulta indagato per falso in atto pubblico. Si tratterebbe di manipolazioni di relazioni di servizio sulle condizioni di salute del giovane romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Secondo il racconto del "Corriere della Sera" Casarsa, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, ha sostenuto di essere estraneo a qualsiasi manovra per ostacolare le indagini sulla verità, sia durante gli eventi sia dopo. Il generale è stato chiamato a rispondere sulle annotazioni riguardanti le condizioni di salute di Cucchi preparata dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. Tali relazioni erano state modificate, secondo il racconto del comandante Massimiliano Colombo Labriola, dopo l'intervento del maggiore Luciano Soligo che le aveva giudicate "troppo particolareggiate" e con particolari "medico-legali che non competevano ai carabinieri". La telefonata e le modifiche via mail - A Colicchio e Di Sano, dopo la morte di Cucchi, fu chiesto di raccontare quello che era accaduto la notte dell'arresto. Secondo quanto riferisce Colombo Labriola, già inquisito per questo episodio, il maggiore, al telefono con un superiore che chiamava "signor colonnello", inviò via posta elettronica le annotazioni al tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo dell'ufficio comando del Gruppo Roma, che le rimandò indietro dopo averle modificate con la postilla "meglio così". Non c'erano più i riferimenti a "forti dolori al capo e giramenti di testa", ai tremori e dolori al costato di cui Cucchi si lamentava. Di Sano firmò la relazioni dopo le modifiche, Colicchio no. Davanti ai pm, Cavallo avrebbe dichiarato di non ricordare quelle modifiche, aggiungendo che in ogni caso tutto era stato concordato con il comando del Gruppo Roma, legato a doppio filo con i comandanti di compagnia, senza quindi dover passare da lui. E avrebbe anche detto che del caso, visto il suo clamore, si era occupato anche il suo diretto superiore, Casarsa appunto. Ma il generale nega tutto - In seguito a tali elementi nel registro degli indagati è comparso anche il nome del generale. Da parte sua però l'alto ufficiale, oltre a negare ogni addebito, avrebbe detto di aver invitato tutti i carabinieri che avevano gestito il caso Cucchi a presentare ricostruzioni precise e dettagliate.
Un nuovo indagato per il caso Cucchi: è il generale Casarsa. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale, scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. C’è un generale tra gli indagati del caso Cucchi. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a qualche settimana fa comandante dei Corazzieri. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musaró, che coordinano l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano per cui sono già a processo 5 carabinieri, accusano l’alto ufficiale di falso. E l’indagine fa un salto di passo, scalando piano piano, la gerarchia dell’Arma romana dell’epoca. La vicenda è quella delle annotazioni di servizio modificate dalle quali vennero fatti sparire una serie di dettagli rispetto alle condizioni di salute di Stefano la notte del suo arresto. Una storia per la quale nei mesi scorsi erano già finiti iscritti i diretti sottoposti di Casarsa, il comandante della compagnia Montesacro e il suo vice. Casarsa nei giorni scorsi è stato interrogato e ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle modifiche delle annotazioni, ma i pm hanno il sospetto che a coordinare l’operazione sia stato lui.
Caso Cucchi, carabiniere in aula: "Nota di servizio cambiata su dettatura di Mandolini". Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo che scrisse i verbali con l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto, scrive l'8 febbraio 2019 La Repubblica. Ancora il tema delle annotazioni di servizio 'sostituite' è stato al centro dell'udienza di oggi del processo che vede cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo dei carabinieri Davide Antonio Speranza, firmatario di due annotazioni di servizioche contengono l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto. Già un problema si ha nell'indicazione del giorno della redazione: la prima annotazione datata 16 ottobre 2009, in realtà fu "redatta dopo la morte di Cucchi, mentre la datai qualche giorno prima perché pensai si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio"; la seconda datata 27 ottobre 2009 "dettata dal maresciallo Mandolini", uno degli imputati di calunnia e falso. Una circostanza, quella dell'annotazione sotto dettatura, già raccontata da Speranza ai pm che lo sentirono come persona informata sui fatti il 18 dicembre scorso. "Quando Mandolini lesse la nota disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla - ha detto Speranza - perché avremmo dovuto redigere una seconda annotazione in sostituzione. Io quella nota non la feci sparire, anche perché già protocollata. Il contenuto fu dettato da Mandolini, alla presenza di Nicolardi (altro imputato di calunnia. Ndr)". Importante il contenuto delle due annotazioni, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di Cucchi quella notte. Nella prima annotazione, infatti, si legge che "alle 5.25 la nostra Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla caserma della Stazione di Tor Sapienza in quando il sig. Cucchi era in stato di escandescenza"; nella seconda si legge che "è doveroso rappresentare che durante l'accompagnamento, il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito". Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al Pm Barba (rappresentante dell'accusa nel primo processo) né in Corte d'assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu "perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su". Prima del maresciallo Speranza c'è stata la conclusione dell'esame del dirigente della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, il quale ha continuato a parlare del contenuto di una serie di intercettazioni effettuate per la nuova inchiesta sui depistaggi che ci sarebbero stati - secondo l'impostazione accusatoria - nella compilazione degli atti. Nel corso dell'udienza Carlo Masciocchi, professore ordinario di radiologia dell'Università dell'Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica ha ribadito che sul corpo di Stefano Cucchi "sicuramente c'erano due fratture vertebrali" a livello lombo-sacrale, entrambe "recenti" e "contemporanee". Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell'avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell'odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant'è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò.
Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite». Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni», scrive Eleonora Martini l'8 febbraio 2019 su Il Manifesto. Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».
Morte Cucchi, il generale Nistri: "Verificheremo frasi su spirito di corpo". E il legale della famiglia: "Manomesse le radiografie". Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L'avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia, scrive Giuseppe Scarpa il 22 gennaio 2019 su "la Repubblica". "Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall'autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come 'spirito di corpo'. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare". Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d'armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: "Non ho mai parlato di mele marce ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato". Intanto l'appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: "Non ho nulla da dire". Le novità dell'indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell'Arma in merito alla vicenda Cucchi. "Bisogna avere spirito di corpo, se c'è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare" avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l'arresto. L'autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il fotosegnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell'intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l'autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c'è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state "manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi". In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L'analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni.
Cucchi, il carabiniere: “Il maresciallo Mandolini mi dettò la nota di servizio dicendo che la mia non andava bene”. C'è anche la storia dei documenti che sarebbero modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento sbianchettato: i militari se ne accorsero già nel 2015. La notte in cui il geometra passò alla caserma Casilina - dove per l'accusa fu pestato - in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 21 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Due annotazioni di servizio: in una c’era scritto che “Stefano Cucchi era in stato di escandescenza”. Nell’altra, che “durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. La prima per il maresciallo Roberto Mandolini “non andava bene”: chiese di scrivere la seconda. Anzi: ne dettò il contenuto al maresciallo Davide Antonio Speranza. C’è anche la storia dei documenti modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento cancellato col bianchetto: già nel 2015 i militari si accorsero che qualcosa in quel documento non andava. La notte in cui Cucchi passò alla caserma Casilina – dove per l’accusa è stato pestato – in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic. Un’anomalia evidente ma nessuno fece nulla. Adesso, però, quei documenti e i verbali dei testimoni sono stati depositati dal pm Giovanni Musarò agli atti del procedimento a cinque carabinieri: sono Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale, e poi Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, che rispondono di calunnia e falso.
La prima annotazione: “Cucchi in escandescenza” – Parallelamente al processo, la procura continua a indagare sui depistaggi che vennero messi in atto per coprire le prove sul pestaggio di Cucchi. La storia della doppia nota di servizio s’inquadra in questo scenario. A raccontarla è il maresciallo Antonio Speranza, che nel 2009 lavorava alla stazione del carabinieri del Quadraro. “Fui contattato telefonicamente dal maresciallo Mandolini, il quale fece riferimento alla morte di Stefano Cucchi (disse: “Hai sentito il telegiornale?”) e mi comunicò che avrei dovuto redigere un’annotazione. Allora io redassi l’annotazione che mi esibite, nella quale scrissi che Cucchi era in stato di escandescenza perché interpretai in tal modo quanto mi aveva riferito Vincenzo Nicolardi, il quale la notte del 16.10.2009 (cioè quando venne arrestato Cucchi ndr) era in contatto con la Centrale Operativa”, ha detto il militare, sentito dal pm il 18 dicembre scorso come persona informata.
La seconda annotazione: “Dettata Mandolini” – Solo che quella ricostruzione dei fatti venne bocciata: “Mandolini – continua Speranza – quando lesse la nota di servizio disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. Il contenuto di tale annotazione fu dettato da Mandolini e lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi, quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Dieci anni dopo la morte di Cucchi il militare ammette l’errore: “Ripensandoci a posteriori all’epoca peccai di ingenuità, perché mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e avevano più esperienza di me”. La scritta “Bravi”. “Non so perché. Cucchi era morto” – Tra gli atti depositati dalla procura c’è il verbale dell’intervento alla stazione Appia dei militari per trasferire Cucchi a Tor Sapienza: in fondo, nello spazio riservato alle note dei superiori, compare la scritta a mano Bravi! Il maresciallo Sapienza nella sua deposizione ha commentato: “Non so dirvi per quale ragione, nella parte dell’ordine di servizio dedicata alle annotazioni dei superiori è scritto ‘Bravi‘, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine e che nel momento in cui l’ordine di servizio fu redatto Cucchi era già morto”.
Il registro: “Era una prova. Presero solo una copia” – Ma non solo. Perché i pm hanno ricostruito anche come già nel 2015 gli stessi carabinieri si fossero accorti di un’anomalia nel registro del fotosegnalamento della Casilina. Per il carabiniere Tedesco, infatti, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati D’Alessandro e Di Bernardo pestarono Cucchi. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, già tre anni fa la procura aveva inviato il capitano Tiziano Testarmata a prendere quel registro: si tratta di un ufficiale del nucleo investigativo, dunque esperto d’indagini. E infatti si accorge di quelle grossolane discrepanze in quel documento ufficiale. Ad attenderlo c’era il comandante Pantaleone Grimaldi, che all’epoca guidava la caserma. “Mi fece presente che c’era qualcosa che non quadrava nel registro. Mi fece vedere che un nominativo era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Visionandolo, mi resi conto immediatamente dell’anomalia, era evidente che era stato cancellato il passaggio di qualcuno dal foto-segnalamento, fu per questo che invitai il capitano Testarmata a portare con sé il registro in originale e, a quel punto, anche tutta la documentazione, perché era palese quel registro dovesse essere analizzato con maggiore attenzione”, ha raccontato ai pm il militare il 21 novembre scorso, spiegando di avere insistito col collega. “Lo invitai ripetutamente a portare con sé l’originale. Fra l’altro, nell’occasione evidenziai al Testarmata, per convincerlo, che non poteva essere casuale il fatto che quella anomalia riguardava proprio il giorno che interessava a loro, cioè il giorno in cui Stefano Cucchi poteva essere stato foto-segnalato”. Si accorse dell’anomalia anche il capitano Carmelo Beringhelli che aiutò i colleghi del nucleo operativo nell’esame dei documenti: “Il capitano Testarmata, oltre ad essere un mio superiore, era certamente più esperto di me. Nonostante ciò, mi permisi di dirgli che quel registro doveva essere sequestrato perché mi sembrava chiaro che poteva essere la prova di quello che stavano cercando, cioè il passaggio di Cucchi dai locali della compagnia Casilina per il fotosegnalamento”.
Il fotosegnalamento rimase nascosto – Testarmata, però, era titubante. “Ascoltando le mie obiezioni, il capitano si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale, cosa che a me non fece piacere perché compresi che non stava facendo un accertamento corretto”. Ovviamente dalle copie non si può notare l’anomalia che compare sotto al nome di Zoran Misic: in controluce è evidente il bianchetto usato per coprire un altro nome. Ma perché Grimaldi non fece cenno di quel particolare nella lettera di trasmissione degli atti? “Davo per scontato che Testarmata ne avrebbe comunque dato atto in un’annotazione in cui avrebbe dato conto dell’attività compiuta. Pensandoci ora, a posteriori, mi rendo conto di aver ragionato in modo notarile, ma visto che c’era un capitano del Nucleo Investigativo che era stato delegato a compiere accertamenti anche su quel registro io diedi per scontato che tutte le criticità che erano state rilevate le avrebbe attestate lui in un atto a sua firma”. Così non è stato. Perché nel caso Cucchi c’è sempre qualcuno che agisce con ingenuità, in modo notarile, senza riflettere. E pensandoci bene solo anni e anni dopo. Andò così anche per il fotosegnalamento di Cucchi: è rimasto nascosto per anni. Insieme al suo passaggio nella stanza in cui, con tutta probabilità, venne pestato. Morì sei giorni dopo che un bianchetto eliminò ogni traccia del suo nome.
Stefano Cucchi, il carabiniere al collega testimone: “Ha detto il comandante che dobbiamo aiutare i colleghi in difficoltà”, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Gennaio 2019. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”. Questo avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica tra i due carabinieri è stata intercettata il 6 novembre scorso e la trascrizione è contenuta in una nota della squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo Cucchi. Nell’intercettazione presente nella nota della Squadra mobile di Roma si fa riferimento a due telefonate intercorse il 6 novembre tra il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, entrambi in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli. Grimaldi, nel 2009 in servizio presso la stazione Casilina, verrà sentito come testimone dal pm il 21 novembre. Nell’intercettazione Iorio riferisce al collega quanto dettogli dal colonnello Pascale: “Mi raccomando dite al Maresciallo che ha fatto servizio alla Stazione – afferma nella intercettazione Iorio riportando al maresciallo Grimaldi le parole del colonnello- lì dove è successo il fatto di Cucchi…di stare calmo e tranquillo…mi stanno rompendo, loro e Cucchi“. E ancora Iorio riferisce al collega le parole del comandante: “Mi raccomando deve avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”.
«Sul caso Cucchi ha fatto il suo dovere e ora la sta pagando». Parla la legale del carabiniere Riccardo Casamassima, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Sono un avvocato penalista. E sono orgoglioso di esserlo. Ho sempre svolto la professione forense senza mai chinare il capo, consapevole che davanti alla legge siamo tutti uguali». L’avvocato romano Serena Gasperini assiste l’appuntato Riccardo Casamassima nella sua personale “battaglia” contro il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. Casamassima è il teste chiave del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma. La sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta che, inizialmente, aveva visto sul banco degli imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che visitarono Cucchi dopo il suo arresto e gli agenti della polizia penitenziaria che lo tennero in custodia nelle celle del Tribunale di Roma il giorno del processo. Lo scorso maggio, a nove anni dai fatti, Casamassima ha raccontato davanti al pm Giovanni Musarò che Cucchi fu oggetto di un violento pestaggio all’interno della stazione carabinieri di Roma Casilina. E ha raccontato anche il successivo tentativo da parte dei colleghi di scaricare la responsabilità di quanto accaduto sugli agenti della polizia penitenziaria. Dopo le dichiarazioni di Casamassima la posizione dei cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e falso si è aggravata, coinvolgendo nell’inchiesta alcuni dei massimi vertici dell’Arma in servizio all’epoca a Roma. Per quest’ultimi l’accusa è di aver coperto i militari che avevano arrestato Cucchi, intralciando le indagini della magistratura. Depistaggi tutt’ora in corso, come emergerebbe da una telefonata intercettata il 6 novembre fra due carabinieri in servizio a Napoli, uno dei quali chiamato il mese successivo a deporre come teste. «Ci vuole spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare», gli avrebbe fatto sapere un suo superiore.
Avvocato, come mai la decisione di Casamassima di denunciare il comandante Nistri? Ricorda Davide contro Golia.
«Lo scorso 17 ottobre 2018, il ministro della difesa Elisabetta Trenta aveva incontrato il generale Nistri, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che l’assiste nel processo, al fine di confrontarsi su quanto era emerso fino a quel momento nel dibattimento. Al termine dell’incontro, Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo parlando con i giornalisti hanno riferito di uno “sproloquio” di Nistri nei confronti di Casamassima. Invece di concentrarsi su quanto era accaduto a Stefano Cucchi, il generale avrebbe detto che Casamassima era un delinquente, un bugiardo, uno spacciatore. Inoltre il generale aveva informato i presenti all’incontro che il mio assistito era anche indagato per reato di spaccio di stupefacenti, pur essendo all’epoca la notizia coperta dal segreto».
Crede che il generale Nistri volesse screditare Casamassima agli occhi del ministro Trenta?
«Mi pare evidente che le dichiarazioni di Nistri siano state alquanto scomposte».
Cosa avrebbe dovuto fare il generale?
«Se proprio non voleva chiedere scusa, forse doveva dirsi dispiaciuto per quanto accaduto. Invece è finito nel mirino Casamassima».
Dove presta servizio adesso?
«E’ stato trasferito, dopo venti anni di incarichi operativi, al cancello della Scuola allievi carabinieri di Roma. Apre e chiude la sbarra d’ingresso».
Non sembra un incarico di grande prestigio…
«Oltre ad essere stato demansionato, ogni giorno riceve una comunicazione di avvio di procedimento disciplinare».
Il motivo? Non apre bene il cancello?
«No, è accusato di raccontare su Facebook, senza autorizzazione, il trattamento di cui è oggetto da parte del Comando generale dell’Arma».
Pensa che l’Arma voglia congedarlo?
«Mi auguro di no. Casamassima ha fatto solo il suo dovere, raccontando la verità».
Il processo intanto prosegue. Ad ogni udienza emergono le coperture poste in essere dai vertici dell’epoca.
«La fortuna, se così possiamo dire, è di avere come pm il dottor Musarò. Un giovane magistrato coraggioso che non ha alcuna sudditanza psicologica nei confronti delle divise e che sta svolgendo il proprio ruolo con grande equilibrio».
Cosa crede che succederà?
«Mi auguro che la denuncia venga assegnata ad un magistrato come il dottor Musarò. Ho chiesto che tutti i presenti all’incontro di ottobre al Ministero, quindi anche Elisabetta Trenta, riferiscano su cosa disse Nistri».
Caso Cucchi, aperta una nuova indagine: chi ha coperto i responsabili della sua morte? Documenti modificati. Registrazioni sparite e poi ricomparse. Depistaggi. Testimoni ridotti al silenzio. La Procura di Roma indaga per fare luce sulle troppe zone d'ombra. Su L'Espresso in edicola 'La gerarchia della menzogna': per svelare la catena di omertà, scrive Giovanni Tizian il 18 ottobre 2018 su "L'Espresso". C'è una nuova indagine che punta a svelare la catena di omertà tra gli alti gradi dei carabinieri che ha coperto i responsabili della morte di Stefano Cucchi. Lo racconta L'Espresso nel numero in edicola domenica 21 ottobre abbinato a Repubblica. Documenti modificati. Registrazioni sparite e poi ricomparse. Depistaggi per insabbiare le indagini. Testimoni ridotti al silenzio. E militari promossi dopo i fatti. Chi ha protetto i carabinieri colpevoli delle violenze su Stefano Cucchi? Da chi è partito l’ordine di cambiare in corso d’opera le annotazioni sull’arresto del geometra romano? Interrogativi che agitano i vertici dell’Arma di allora e di oggi, nonostante il comandante generale Giovanni Nistri sostenga la linea dura nei confronti degli imputati e bolli come illazioni i sospetti sulle indebite pressioni ricevute dai testimoni chiave. Di certo chi sta provando a ricostruire la filiera di responsabilità è la procura della Repubblica di Roma. Tenterà di illuminare le zone d’ombra del caso Cucchi con una nuova inchiesta che punta sui responsabili delle manomissioni. L’indagine procede parallela al processo bis di primo grado sulla morte di Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri coinvolti a vario titolo nel fermo avvenuto la notte del 15 ottobre 2009. Per tre di loro l’accusa è omicidio preterintenzionale. Nel servizio pubblicato da L'Espresso si descrive come troppi sono ancora i nodi da sbrogliare. Per esempio la scomparsa dei cd con le registrazioni delle comunicazioni con la sala operativa effettuate la notte dell’arresto. Erano depositati sia in corte d’Appello sia in corte d’Assise. Più che un danno, alla fine, si è rivelato una beffa, perché la procura ha richiesto, ottenendole, delle nuove copie. Un’altra questione da chiarire riguarda la telefonata al 118 quando Cucchi si trovava nella cella di sicurezza a Tor Sapienza. L’appuntato sentito al processo sostiene di essere stato solo in quegli istanti. Ma dalle registrazioni delle chiamate in sottofondo si sentono altre due voci. Possibile? E perché tanto mistero rispetto all’ipotetica presenza di altri due colleghi? Insomma, in questi nove anni di inchieste e processi c’è stata la presenza costante di una mano invisibile che ha fatto di tutto per rallentare o peggio annacquare le prove. Il caso Cucchi, intorbidito dalle menzogne di chi, invece, dovrebbe battersi per garantire la sicurezza e il rispetto delle leggi.
I vertici dell'Arma depistarono il caso Cucchi, nomi eccellenti nella rete degli inquirenti. Dopo la testimonianza di Francesco Tedesco gli inquirenti vogliono capire fino a che livello i Carabinieri fossero a conoscenza del "trattamento" subito dal geometra alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 dopo l'arresto per droga, scrive Paolo Salvatore Orrù il 22 ottobre 2018 su Tiscali. La testimonianza di Francesco Tedesco, uno degli uomini in divisa imputati nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra trentunenne arrestato per droga nel 2009 e morto dieci giorni dopo per le percosse ricevute durante la detenzione, sta dando i suoi frutti. Molti altri carabinieri, anche di alto rango, sono finiti sotto la lente della procura nell’ambito degli atti falsificati sulla morte del giovane. Dal giorno successivo il colpo di scena di Tedesco al processo, gli inquirenti vogliono capire fino a che livello i vertici dell’Arma fossero a conoscenza del ‘trattamento’ subito da Cucchi alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 dopo l'arresto per droga. Per fare luce sul caso è già stato interrogato il luogotenente Massimiliano Colombo, il comandante della stazione di Tor Sapienza dove venne portato Cucchi. Colombo, indagato per falso ideologico, ha subito una perquisizione nei giorni scorsi: a chiamarlo in causa, anche se non direttamente, è stato Francesco Di Sano, il carabiniere scelto della caserma di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi e che è stato ascoltato in aula il 17 aprile scorso nel processo a cinque militari dell'Arma (accusati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia). In quell’occasione il militare, ora indagato anche lui per falso, ammise di aver dovuto ritoccare il verbale sullo stato di salute di Cucchi senza precisare da chi gli fu chiesta la modifica. "Certo il nostro primo rapporto è con il comandante della stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico", ha detto in aula Di Sano. Ed è questa gerarchia che la Procura di Roma vuol ricostruire. Il momento investigativo è delicato, Colombo ha collaborato quando gli è stato richiesto di ricomporre una storia occultata per molti anni, ma che è riemersa dopo i sequestri di mail e comunicazioni cancellate, ma che la memoria di un server ha consentito di ripristinare. A breve su questo argomento sarà sentito come persona informata sui fatti anche il piantone Gianluca Colicchio. Anche lui durante il processo ha sostenuto di anomalie contenute in una relazione di servizio. Secondo Repubblica in tutta questa saga di atti nascosti o falsificati potrebbe esserci anche la manina degli alti vertici dell’Arma. Il quotidiano romano sostiene che era stata la catena di comando di Roma (generale e ufficiali) a depistare sul pestaggio del ragazzo. Sempre per Repubblica, dagli atti in suo possesso sarebbe emersa un’operazione di manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni e comunicazioni all’autorità giudiziaria, che si consumò tra il 23 e il 27 ottobre. Certo, tutto è ancora da dimostrare, ma pare che gli ordini fossero stati trasmessi in via gerarchica (come ha spiegato Di Sano ndr) ed ebbero il suo sigillo in una riunione del 30 ottobre negli uffici del generale di brigata e allora comandante provincia di Roma Vittorio Tomasone, che oggi è generale di corpo d’armata. Con lui sarebbero coinvolti almeno tre ufficiali: “L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo (comandante della stazione Tor Sapienza)”. L’ordine di falsificare gli atti emergerebbe, per Repubblica, da una mail consegnata agli inquirenti dal maresciallo Massimiliano Colombo". Le carte dimostrerebbero che a dare l’ordine di falsificare annotazioni di servizio, redatte da due appuntati, Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio, ovvero i due piantoni che presero in carico Cucchi la notte dell’arresto, giunse dal comando di compagnia Talenti-Montesacro. È da quel comando che gerarchicamente dipendeva la stazione di Tor Sapienza. Gli inquirenti ora vorrebbero sapere se il Comando ha agito ‘motu proprio’ o ha ricevuto a sua volta un comando dal generale Tomasone. La stessa domanda se la sono posta anche i legali della famiglia Cucchi che, qualche giorno fa, ha fatto sapere che il generale Vittorio Tomasone "sarà ascoltato in aula entro gennaio su nostra richiesta". Tomasone, attuale comandante Interregionale di Napoli, era comandante provinciale dei carabinieri di Roma all'epoca dei fatti. Il generale Vittorio Tomasone sarà ascoltato dai legali dei Cucchi in merito all'inchiesta amministrativa interna eseguita sulle cause del decesso del giovane e sulle rassicurazioni fornite all'epoca dei fatti ai familiari di Stefano Cucchi. Si è aggravata intanto la posizione di Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri accusati di aver picchiato a morte Stefano Cucchi. Ad accusarlo questa volta l’ex moglie Anna Carino. La donna, intervistata da Le Iene, ha raccontato come D’Alessandro parlasse di quella fatidica notte del 22 ottobre 2009: “Era solo un drogato di merda. Queste parole le ha sempre dette”. “Lo raccontava divertito, col sorriso, mi inquietava questa sua tranquillità nel parlare di ciò che avevano fatto a quel ragazzo”, ha spiegato la Carino. Un carattere particolare quello di D’Alessandro. Racconta l’ex moglie: “Mi faceva paura, era gelosissimo, mi chiedeva sempre dove fossi, con chi fossi, con chi avessi parlato. Tante volte per le sue urla ci chiamavano, perché le sue grida erano impressionanti”. La Carino nel 2015 si è presentata davanti alla Procura di Roma per portare la sua testimonianza. Intanto, nel corso del procedimento penale, il G.U.P. del Tribunale di Roma ha rilevato la prescrizione in ordine al reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti contestato a Tedesco, D'Alessandro e Di Bernardo, pronunciando sentenza di proscioglimento. Così, essendo la vicenda penale irrevocabilmente conclusa per quel reato, si è proceduto all'esame del giudicato penale, obbligatorio ai sensi di legge. Il 13 aprile 2018 è stata acquisita la sentenza, il 6 luglio 2018, è stata decisa e avviata un'inchiesta formale a carico dei tre militari, con contestazione degli addebiti fra il 9 e il 10 luglio 2018. Il termine per concludere l'inchiesta scade l'8 gennaio 2019. Il Vice Brigadiere Tedesco e i Carabinieri Scelti D'Alessandro e Di Bernardo sono stati sospesi precauzionalmente dall'impiego, decisione discrezionale connessa a procedimento penale, nel febbraio 2017, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità contro arrestati. La misura, si apprende in ambienti dell'Arma dei Carabinieri, non è stata adottata nei confronti del Maresciallo Capo Mandolini e dell'Appuntato Scelto Nicolardi, imputati per falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e calunnia aggravata, poiché per quei reati non era possibile.
Il generale e gli ufficiali, così i vertici dell'Arma depistarono su Cucchi, scrive Carlo Bonini su La Repubblica il 22 ottobre 2018. L'indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma. La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone. Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate indipendentemente da Repubblica indicano che fu l'intera catena di comando dell'Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009. L'operazione di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all'autorità giudiziaria, si consumò tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d'armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Con lui, almeno tre gli ufficiali coinvolti. L'allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza). I fatti, dunque. A cominciare dall'ultimo fotogramma di questa storia. La mail con l'ordine di manomettere la verità Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di dimostrare da chi e quando arrivò l'ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima dell'indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del pestaggio che aveva appena subito. Ma era necessario che si costruisse una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del "tossico", alla sua epilessia. A maggior ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della morte di Stefano. Labriola, pure indagato per falso, è convinto che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all'interno della caserma che comanda. Ma sbaglia, perché quando, all'inizio della scorsa settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché - dice - sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno. Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l'ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell'arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi- bis - ha detto la verità. "È vero, modificai la relazione di servizio - aveva spiegato. Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l'ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza". Il falso cucinato da Colombo per ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la manomissione testuale, l'iniziale ricostruzione ("Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale") in un passaggio assai più prolisso. Che precostituisca spiegazioni alternative alla domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: "Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza". Anche l'annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso, a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi "dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia". Ma esclude di aver mai redatto e firmato un'annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano "dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio". Il 18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell'intera scala gerarchica. Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata. La riunione del 30 ottobre e l'appunto farlocco Che il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell'allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che autorizzerebbe, da sola, a pensar male. Ma è quel che accade il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell'intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore che possono travolgere l'intera Arma e mettere fine alla carriera di un ufficiale - Tomasone - che è la luce degli occhi dell'allora Comandante generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale successore ("Sono la stessa cosa", si diceva di loro). Il 23 ottobre Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano. Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il ricatto "trans" ai danni dell'allora Governatore del Lazio Piero Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla propria persona, sul suo "onore di carabiniere" che "l'Arma non c'entra". Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l'esistenza alla magistratura che indaga. E c'è un motivo. La riunione deve infatti verificare che "le carte siano a posto" e i nervi dei protagonisti "saldi". Diciamo pure che è una rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17 ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in quella Casilina dall'arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto "testa" e coordinamento della catena gerarchica. Perché prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo. Sono stati infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell'annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza (abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell'arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni. Il sigillo dell'operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa, comandante del Gruppo Roma che l'Arma trasmetterà alla Procura. Si dà atto di un'inchiesta interna che non c'è mai stata e che, naturalmente, assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte.
Cucchi e i depistaggi del 2015. Indagato un capitano dei carabinieri. Accusato per le relazioni manomesse: avviso di garanzia per favoreggiamento per presunte omissioni risalenti al 2015. Nistri: pochi hanno perso la strada della virtù. Trenta: «Accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire la fiducia dei cittadini», scrive il 26 ottobre 2018 Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera". La nuova inchiesta sui depistaggi per coprire il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi svelato nove anni dopo da un carabiniere, si allarga e conta un nuovo indagato tra gli ufficiali dell’Arma: si tratta del capitano Tiziano Testarmata, che ha ricevuto un avviso di garanzia per favoreggiamento legato a presunte omissioni risalenti al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell’Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell’ottobre 2009.
Doppia versione di quelle relazioni. Per questo motivo il capitano Testarmata, comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo, si recò nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi aveva trascorso la notte successiva all’arresto. Ad accoglierlo c’era il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione che oggi — indagato nel nuovo procedimento penale — ha rivelato che le due annotazioni sullo stato di salute del detenuto redatte all’epoca dai carabinieri Colicchio e Di Sano erano state manomesse su ordine dei suoi superiori. È la storia della doppia versione di quelle relazioni, rispedite via e-mail a Colombo dal tenente colonnello Francesco Cavallo (anche lui sotto inchiesta per falso), con il commento «meglio così», dopo essere state corrette in alcuni passaggi sulle condizioni di Cucchi. A Testarmata Colombo consegnò «le due relazioni in entrambe le versioni, quella originaria e quella modificata» perché erano rimaste agli atti, «l’ordine era di “dare tutto” e io non volevo nascondere nulla». Così ha riferito il luogotenente nell’interrogatorio reso al pm. Aggiungendo un particolare non irrilevante: «Per far capire che io avevo eseguito una disposizione dei superiori, in questa occasione mostrai al personale del Nucleo investigativo la mail inviatami dal tenente colonnello Cavallo, per spiegare come mai c’erano due annotazioni diverse per un solo atto (circostanza di cui si erano resi conto anche i colleghi del Nucleo investigativo, i quali infatti mi avevano chiesto spiegazioni). Il capitano del Nucleo, quando vide la mail del tenente colonnello Cavallo, uscì fuori per parlare al telefono, poi rientrò e presero tutto, ma non la mail».
Sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015. Della consegna della documentazione, ha specificato Colombo, non fu redatto alcun verbale di acquisizione. È un racconto che, seppure fatto da un indagato che non ha l’obbligo di dire la verità, apre la strada a sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015, mentre era in corso la nuova inchiesta — condotta dalla polizia — sulla morte di Cucchi. Di qui la necessità di ulteriori accertamenti da compiere anche nei confronti del capitano Testarmata, con le garanzie imposte dalla legge, nell’ambito di un’inchiesta che arrivata a questo punto rischia di salire ancora di livello e mettere a dura prova l’immagine dell’Arma. Di sicuro il comandante generale Giovanni Nistri aveva in mente questo pericolo, ieri, quando alla presenza dei ministri della Difesa e dell’Interno riuniti per celebrare il quarantennale del Gis, ha detto in tono solenne: «L’Arma deve ricordare che è nella virtù dei 110.000 uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni. Centodiecimila uomini che sono molti, ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù. A quegli uomini auguro di continuare a essere quello che sono sempre stati, e di continuare a ricordarsi che nessuno di loro lavora per se stesso, nessuno di noi lavora per fare altro che il dovere dell’onestà, della correttezza, del bene della nazione».
La ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta è tornata sull’argomento spiegando che «l’Arma è sempre stata ed è vicina al cittadino, e ogni singolo carabiniere è sempre stato un punto di riferimento per i cittadini onesti». Ma proprio per salvaguardarne l’immagine, laddove emerga «l’eventuale negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire quel sentimento di fiducia da parte dei cittadini nei confronti di carabinieri e istituzioni». Accanto a lei, il titolare dell’Interno Matteo Salvini sembra proporsi nel ruolo di scudo alle polemiche: «Non ammetterò mai, finché sarò ministro, che l’eventuale errore di uno permetta di infangare il sacrificio e l’impegno di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in divisa».
Cucchi, si allarga l'inchiesta sul depistaggio dell'Arma: indagato un capitano per favoreggiamento. È l'ufficiale Tiziano Testarmata. Secondo l'accusa nel 2015 prese le due annotazioni false sul pestaggio di Stefano, ma non la mail di un suo superiore che aveva dato l'ordine di redigerle, scrive Alberto Custodero il 27 ottobre 2018 su "La Repubblica". C'è un altro ufficiale indagato nell'inchiesta su depistaggio delle indagini sul caso Cucchi. Depistaggio che fu orchestrato nell'ufficio dell'allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d'armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, si tratta del capitano Tiziano Testarmata. Oltre a lui e al generale Tomasone, sono almeno tre gli ufficiali coinvolti nella gestione dei falsi rapporti sul pestaggi di Stefano Cucchi. L'allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale e responsabile della sicurezza del Capo dello Stato) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza). Sono state le dichiarazioni di quest'ultimo sottufficiale a coinvolgere Testarmata.
Gli indagati dell'Arma nel processo bis. Oltre a Testarmata, l'ultimo indagato, sono cinque i militari alla sbarra nel processo nato dall'inchiesta bis sulla morte di Cucchi: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.
I fatti risalgono al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell'Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell'ottobre 2009. In quel periodo arrivò dall'alto l'ordine di falsificare le annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio. Il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell'intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi.
La mail che accusa fu ignorata. Incaricata direttamente della raccolta dei documenti è poi la quarta sezione del Nucleo investigativo. Che si presenta a Tor Sapienza di fronte al maresciallo Colombo Labriola. È una scena madre. Che il maresciallo racconta così: "Arrivarono un capitano e almeno due sottufficiali. Gli diedi le annotazioni di Di Sano e Colicchio sia nella versione modificata che originale. L'ordine era di dare tutto e io non volevo nascondere niente". "E per far capire - aggiunge - che avevo eseguito un ordine su disposizione dei superiori e spiegare così il perché di quelle due annotazioni, circostanza di cui i colleghi stessi si erano subito resi conto, mostrai la mail ricevuta dal colonnello Cavallo. Il capitano, allora, uscì fuori dalla mia stanza per parlare al telefono. Quando rientrò, presero tutto, ma non la mail". Tutto. Ma non la mail. La prova che inchioda la catena gerarchica per i falsi non viene dunque raccolta per ordine del Reparto operativo con cui il capitano ha confabulato. E la ragione è semplice. Senza quella mail, Musarò non andrà oltre una storia di falsi cucinata da " qualche mela marcia " di basso grado. Una scommessa sbagliata. E per l'Arma catastrofica. Quel capitano era Tiziano Testarmata, ora indagato per favoreggiamento.
Caso Cucchi, i carabinieri e il dovere della fiducia, scrive Mario Calabresi il 25 ottobre 2018 su "la Repubblica". Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole che stronchino i sospetti e indichino una strada di riscatto. Non vogliamo e non possiamo credere che i carabinieri siano questi. Che l'immagine dell'Arma venga schiacciata sul comportamento di chi ha tradito la legge per nascondere la verità sulla fine di Stefano Cucchi. Che la fiducia di una nazione possa essere incrinata dalle accuse contro militari depistatori o corrotti. Le rivelazioni che emergono dal processo di Roma mettono sotto accusa, penalmente e moralmente, l'intera scala gerarchica della Capitale e richiedono una risposta chiara e decisa. In gioco non ci sono solo le responsabilità penali di un gruppo di militari, indagati per avere commesso un atto brutale e averlo nascosto con una catena sistematica di falsi, su cui si pronunceranno i giudici. In gioco c'è anche un bene prezioso, fondamentale per la nostra democrazia: la credibilità dell'istituzione in cui gli italiani hanno sempre riposto maggiore fiducia, una stima confermata ogni anno dai sondaggi e rimasta salda attraverso tutte le crisi del Paese. Quello che sta avvenendo richiede iniziative concrete, che spazzino via le ombre e diano un messaggio chiaro ai cittadini, tutelando i 110 mila carabinieri che tutti i giorni rischiano la vita con impegno e professionalità. Non si può aspettare in silenzio che passi la tempesta o i danni saranno incalcolabili. Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole definitive che stronchino la catena dei sospetti e indichino una strada di riscatto.
Caso Cucchi, Nistri: "I colpevoli mai più in divisa, lo dobbiamo a famiglia e Arma". Il comandante generale dei carabinieri risponde su "La Repubblica" del 26 ottobre 2018 all'editoriale del direttore Mario Calabresi: "Dimostreremo che non siamo quello che emerge dalla dolorosa vicenda di Stefano". "Gentile direttore, ho apprezzato molto il suo editoriale di ieri intitolato "I carabinieri e il dovere della fiducia". Ne ho apprezzato la misura, l'equilibrio, la richiesta di verità anche a tutela del buon nome dell'Arma, un patrimonio costruito in 204 anni di storia e di sacrificio. Un'altra verità della questione l'ha già scritta lei e per questo la ringrazio: non si vuole e non si può credere che i carabinieri siano ciò che emerge dalla dolorosa vicenda umana di Stefano Cucchi e dai suoi sviluppi giudiziari. Non è così, infatti, e lo dimostreremo, appena saranno chiare le precise responsabilità, che sono sempre personali, attraverso ogni provvedimento consentito dalla legge: a seconda dell'entità, le punizioni, i trasferimenti, finanche le rimozioni. Perché chi risulti colpevole di reati infamanti non potrà indossare la divisa, quella degli innumerevoli carabinieri che per essa hanno dato la vita, che ogni giorno la rischiano e che in futuro dovranno continuare a farlo, senza nessun tentennamento, per la tutela dell'ordinamento democratico e per il bene comune. Dobbiamo fermezza a una famiglia colpita dal lutto, a un Paese che ci ama ed è smarrito di fronte a ciò che sente. A chi ci ha preceduti lungo il cammino della Storia d'Italia e ha rispettato in ogni avversità i codici morali e i regolamenti, a costo di pagare un prezzo altissimo. La dobbiamo a noi stessi, che non possiamo essere accomunati - in 110 mila! - alle cattive azioni di pochi. La dobbiamo infine alle nostre famiglie, che in un diffuso immaginario ci vedono d'improvviso passare, in blocco e ingiustamente, dalla parte sbagliata. Gentile direttore, lei conosce meglio di tanti altri, per la sua professione e per la sua storia familiare, il peso delle parole. Le parole sono pietre ed è da loro che bisogna partire. Il termine "fiducia" viene dal verbo confidare. Ha radici vicine il sostantivo "fedeltà", che è il nostro segno distintivo. Una sincera assunzione di responsabilità è dunque doverosa e ad essa non intendiamo sottrarci. Per il riscatto che ci chiede abbiamo una sola strada: trarre lezione anche da fatti tanto deplorevoli, per evitare che si ripetano. Li porteremo quale esempio di cosa non fare, nelle nostre Scuole, ai giovani che si sono appena arruolati. Ne discuteremo nei Reparti, dove chi opera sulla strada è costretto a fronteggiare il quotidiano oltraggio della violenza, ma a quella violenza non deve mai indulgere. Ribadiremo ai nostri ufficiali che il grado non è un peso leggero, richiede spalle robuste e animo saldo. Perché siamo ben consapevoli che la credibilità dell'Arma, in questo caso, sarà tutelata attraverso le sanzioni nei confronti di chi, a qualunque livello, sia riconosciuto manchevole. E, soprattutto, attraverso l'accertamento della verità. Siamo sempre stati nel cuore degli Italiani, non c'è per noi un possibile altrove. Giovanni Nistri, comandante generale dell'Arma dei carabinieri."
Caso Cucchi, ecco l'audio dell'intercettazione che prova i falsi dei carabinieri, scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi il 6 novembre 2018 "La Repubblica". La lunga telefonata che ascoltate in questo audio è stata intercettata dagli agenti della Squadra Mobile della Polizia alle tre del pomeriggio del 22 settembre scorso ed è stata depositata dal pm Giovanni Musarò agli atti del processo per l'omicidio di Stefano Cucchi. E' una conversazione chiave che ricostruisce la genesi di alcuni dei falsi disposti dalla catena di comando dell’Arma di Roma e cruciali per far deragliare la ricerca della verità. Il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, chiama l'appuntato Gianluca Colicchio per informarlo di aver ricevuto un avviso di garanzia per falso ideologico e materiale nell'inchiesta per l'omicidio di Stefano Cucchi. Colombo Labriola è fuori di sé e, almeno apparentemente, appare sorpreso dall'essere chiamato a rispondere dei falsi che, nell'ottobre del 2009, sono stati direttamente ordinati dal Comando di gruppo Carabinieri Roma (nella persona del suo capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo) per dissimulare le reali condizioni di salute di Stefano dopo il pestaggio subito la notte del suo arresto. Colicchio non è un interlocutore scelto a caso. E' lui infatti, insieme all'appuntato Francesco Di Sano, il carabiniere che conosce, come del resto il maresciallo Colombo, la storia di quei falsi. Chi li ordinò, chi fece pressione perché all'ordine venisse dato corso (il maggiore Luciano Soligo, comandante della stazione Montesacro Talenti e superiore gerarchico del maresciallo Colombo), e dunque come l'intera catena di comando fosse al corrente di quella cruciale manipolazione di atti destinata a indirizzare la ricerca della verità lontano dai responsabili del pestaggio (i carabinieri in servizio alla stazione Appia che arrestarono Stefano la notte tra il 15 e 16 ottobre). Come ascolterete, il maresciallo dice infatti: "Se hanno indagato me, allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa (il colonnello Alessandro Casarsa, all'epoca Comandante del Gruppo Carabinieri Roma e oggi del reggimento corazzieri del Quirinale) e Tomasone (Vittorio Tomasone, nell'ottobre 2009 Comandante Provinciale dei carabinieri di Roma e oggi Comandante Interregionale per l'Italia meridionale)".
Stefano Cucchi, un carabiniere conferma in aula: “Le note sulla sua salute furono modificate per ordine del maggiore”. L'indagine sul depistaggio entra per la prima volta a far parte del dibattimento sulla morte del geometra romano arrestato dai carabinieri. Imputati nel processo cinque militari: a tre è contestato l'omicidio preterintenzionale, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 dicembre 2018. L’indagine sul depistaggio entra per la prima volta a far parte del dibattimento sulla morte di Stefano Cucchi. A processo cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale, è stato sentito il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della Stazione Tor Sapienza. Il militare è uno degli indagati in quella che è definita l’inchiesta ter sulla vicenda, e per questo è stato assistito dall’avvocato Antonio Buttazzo: ha però risposto alle domande. Confermando che le annotazioni sulle condizioni di Cucchi nella notte del suo arresto furono modificate: morì una settimana dopo nell’ottobre 2009. La vicenda è stata oggi ricostruita temporalmente e cronologicamente. “Io non ho mai visto Cucchi – ha detto Colombo Labriola -. Solo la mattina del 16 ottobre 2009 ho appreso che nella notte i carabinieri della Stazione Appia avevano portato nelle nostre camere di sicurezza un detenuto, e che durante la notte non si era sentito bene, tanto che era stato chiamato il 118“. Il luogotenente non sentì parlare più del giovane, fino al 26 ottobre 2009. “Mi telefonò il maggiore Soligo (comandante la Compagnia Montesacro) che mi invitò a raggiungerlo. Nel suo ufficio mi disse che Cucchi era morto, la procura aveva aperto un’inchiesta e che i militari in servizio quella notte avrebbero dovuto fare un’annotazione di servizio per indicare il loro ruolo”. Di lì, l’escalation che è poi approdata alla “modifica” delle annotazioni. “Il 30 ottobre 2009 – ha detto Colombo Labriola – era in programma la visita quadrimestrale del comandante della Compagnia. Quella mattina il maggiore Soligo mi contattò dicendo che le annotazioni redatte dai carabinieri Colicchio e Di Sano non andavano bene perché il contenuto era ridondante, erano estremamente particolareggiate e nelle stesse si esprimevano valutazioni medico-legali con non competevano a loro”. I due carabinieri furono ascoltati dal maggiore Soligo: i file furono trasmessi al tenente colonnello Francesco Cavallo (all’epoca Capo Ufficio Comando del Gruppo Roma) e poi ritornarono indietro con testo cambiato e la scritta “meglio così”. Nell’allegato c’erano le due annotazioni modificate che dovevano sostituire quelle precedenti”. La mattina del 30 ottobre del 2009, quando la morte di Cucchi era diventato un caso mediatico ed erano partire le indagini della procura, ci fu una riunione nella sede del Comando provinciale di Roma, in piazza San Lorenzo in Lucina, alla presenza del generale Vittorio Tomasone e del colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca a capo del Gruppo Roma ora in servizio al Quirinale, con tutti i militari in qualche modo coinvolti nella vicenda. “Per come si svolse, mi sembrò una riunione di alcolisti anonimi”, ha detto Colombo davanti ai giudici della Corte d’Assise nel processo che vede imputati 5 carabinieri. “L’incontro, non ufficiale, durò meno di un’ora – ha ricordato Colombo – e nulla fu verbalizzato. Tomasone disse ‘bravo’ a Colicchio che chiamò il 118 quando vide che Cucchi, portato in cella di sicurezza, non stava bene mentre rimproverò Mandolini (Roberto, imputato per falso e calunnia ndr) che era intervenuto un paio di volte per supportare un suo collega che non era stato capace di spiegare con chiarezza il suo ruolo nella vicenda. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato. In quella sede non si parlò della doppia annotazione”.
“Le annotazioni sulle condizioni di salute di Cucchi furono modificate”: la testimonianza del carabiniere, scrive la Redazione TPI il 6 Dicembre 2018. Oggi 6 dicembre 2018, si è tenuta una nuova udienza nel processo bis sui falsi verbali e sui depistaggi del caso Cucchi. A parlare al pm Musarò è Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza. Secondo quanto emerge dalla testimonianza, le annotazioni sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi la notte del suo arresto per droga furono modificate. Il processo bis è a carico di cinque carabinieri, tre dei quali imputati per la morte di Cucchi. Massimiliano Colombo Labriola è uno degli indagati. “Il 30 ottobre 2009 il maggiore Soligo mi contattò dicendo che le annotazioni redatte dai carabinieri Colicchio e Di Sano (autori delle annotazioni) non andavano bene perché il contenuto era ridondante, erano estremamente particolareggiate e, nelle stesse, si esprimevano valutazioni medico-legali che non competevano loro”. Secondo quanto riportato, i due carabinieri furono in seguito ascoltati dal maggiore Soligo; i documenti furono trasmessi al tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca Capo Ufficio Comando del Gruppo Roma, e poi ritornarono indietro con testo cambiato e la scritta “meglio così”. “La mattina del 30 ottobre del 2009, quando la morte di Stefano Cucchi era diventato un caso mediatico e la Procura aveva già cominciato a convocare come persone informate sui fatti i carabinieri della stazione Appia e Tor Sapienza per ricostruire quanto accaduto, ci fu una riunione presso il Comando provinciale di Roma alla presenza del generale Vittorio Tomasone e del colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma, con tutti i militari dell’Arma in qualche modo coinvolti nella vicenda. Per come si svolse, mi sembrava una riunione di alcolisti anonimi”, ha raccontato oggi davanti alla corte d’assise, nel processo sulla morte del geometra di 31 anni, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza. “Io partecipai a quella riunione assieme al piantone Gianluca Colicchio. Erano presenti anche il maggiore Soligo (comandante della compagnia di Roma Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza), e poi il maggiore Unali (della compagnia Casilina), il maresciallo Mandolini e altri tre/quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano Tomasone e Casarsa mentre gli altri erano tutti dall’altra parte (in posizione frontale). Il tutto durò meno di un’ora – ha ricordato Colombo Labriola – e nulla fu verbalizzato. Tomasone disse ‘bravo’ a Colicchio che chiamò il 118 quando vide che Cucchi, portato in cella di sicurezza, non stava bene mentre rimproverò Mandolini che era intervenuto un paio di volte per supportare un suo collega che non era stato capace di spiegare con chiarezza il suo ruolo nella vicenda. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che quel carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato. In quella sede non si parlò della doppia annotazione”.
La testimonianza del carabiniere Gianluca Colicchio. “La sensazione che ho avuto subito quando vidi per la prima volta Stefano Cucchi è che stesse male”. A pronunciare queste parole è il carabiniere Gianluca Colicchio, che nella notte tra il 15 e 16 ottobre 2009 era in servizio alla stazione di Tor Sapienza. “Notai che gli si era rotta la fibbia della cinta, gli chiesi il motivo e lui mi disse che erano stati gli ‘amici miei’. Per questo chiamai il 118 e il 112. Ed è la ragione per cui non volli modificare l’annotazione di servizio sul suo stato di salute perché significare alterare il senso di quello che lui mi aveva detto”, spiega il carabiniere. Colicchio ha ribadito la sua testimonianza già resa al pm Giovanni Musarò. L’uomo è stato sentito come persona informata sui fatti nell’ambito dell’inchiesta bis sui falsi verbali e sui depistaggi. “Il 27 ottobre del 2009 il maggiore Luciano Soligo mi chiamò, mi mise davanti una copia dell’annotazione di servizio su Cucchi non firmata e mi disse di firmare. La firmai ma rileggendola mi resi conto che era stato cambiato un passaggio importante, per cui feci presente al maggiore che non era l’annotazione che avevo redatto il giorno prima, non era ‘farina del mio sacco’. Stravolgeva il senso di quello che mi aveva detto Stefano. Presi in mano il foglio che avevo appena firmato e dissi che non volevo che l’annotazione modificata fosse trasmessa perché ne disconoscevo il contenuto”, spiega ancora l’agente. “Soligo cercò di farmi calmare ma io non volevo sentire ragioni. In quel momento il maggiore stava parlando al telefono con il tenente colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli ‘il carabiniere è un po’ agitato’. Parlai dunque con Cavallo, il quale mi chiese per quale ragione non volessi firmare l’annotazione e dissi a lui quello che avevo già detto a Soligo e cioè che non era ‘farina del mio sacco’ e ne disconoscevo il contenuto. A questo punto Cavallo mi evidenziò che rispetto all’annotazione che avevo redatto la sera prima, era stato cambiato solo un passaggio, ma io non volevo sentire ragioni perché mi ero reso conto che quella piccola modifica cambiava completamente il senso di quello che intendevo attestare. Per cui presi l’annotazione e la portai via”, spiega ancora l’uomo. “Io non sono stato minacciato ne’ da Soligo ne’ da Cavallo. Ho un carattere forte e non mi lascio intimidire dai gradi. Però c’è gente che di fronte a un graduato interpreta un ordine superiore come un’intimidazione”, ha spiegato ancora l’uomo. “Per quello che percepii io Soligo non si trovava in una situazione molto diversa dalla nostra, nel senso che anche lui stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. Ritenni per questo che la ‘regia’ veniva dal Gruppo di Roma, circostanza confermata dal fatto che Soligo non cambiò i files delle due annotazioni sul posto ma i files furono trasmessi al Gruppo e tornarono modificati dal Gruppo”, prosegue il carabiniere.
Processo Cucchi, l'infermiere che lo trovò morto: "Era politraumatizzato". Flauto ha ripercorso gli ultimi giorni del geometra nella struttura protetta del Pertini. Il carabiniere Di Sano intercettato al telefono: "Nell'atto modificato i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa", scrive Maria Elena Vincenzi il 7 novembre 2018 su "La Repubblica". "Quando lo vedo la prima volta, la notte del 17, i colleghi mi dicono che hanno avuto problemi a fare l'elettrocardiogramma perché è così magro che non si riesce, le pinzette si staccavano. Il collega mi ha detto: "Ci ho provato tante volte, ma non riesco". In viso aveva delle ecchimosi sotto orbitali. Io sono entrato nella cella per fargli l'emocromo e gli ho spiegato perché. Era politraumatizzato, era la prassi". Giuseppe Flauto, assolto in via definitiva nel primo processo per la morte di Stefano Cucchi, in aula nel processo che per la morte di Stefano Cucchi vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale, ha ripercorso gli ultimi giorni del 31enne nella struttura protetta dell'ospedale Pertini. Davanti alla corte di Assise, che ieri ha ammesso la testimonianza del capo della mobile romana, Luigi Silipo, l'infermiere ha raccontato di quando ha trovato Stefano Cucchi senza vita. "La mattina del 22 sono entrato io nella cella per fare il prelievo e svuotare la diuresi. Stava sul fianco, con la mano tra la faccia e il cuscino. Gli ho detto: "Stefano, Stefano, ti devo fare il prelievo". Non rispondeva, mi sono avvicinato, lo ho girato e ho visto che stava a torace fermo. Io ho fatto il massaggio, il corpo era caldo caldo. Ci ho provato, nel frattempo sono arrivati la dottoressa e il collega col defribillatore. Siamo stati lì una mezz'ora a cercare di rianimarlo. La dottoressa ha detto che aveva una rigidità mandibolare e che quindi forte era morto da un po'. Era la prima volta che mi moriva un paziente da che stava lì, per cui volevo preparare la salma. Ma la penitenziaria mi ha detto di lasciarlo così che bisognava aspettare il magistrato". Al pm Giovanni Musarò che gli ha chiesto se, nella sua esperienza professionale, abbia visto gente più magra, Flauto ha risposto secco: sì. Il che confermerebbe che la morte di Cucchi non è stata "naturale" come invece riportato in cartella. "Stefano si lamentava di continuo per il dolore alla schiena, gli chiesi cosa gli fosse capitato e lui mi disse che era caduto dalle scale. Ma lui non era certo il primo detenuto con segni di percosse a negare di essere stato picchiato", ha detto Flauto. "Quella mattina - ha ricordato Flauto - entrai in cella, lo chiamai, ma lui non mi rispose: era di lato, con una mano sotto la guancia e sembrava dormisse, poi lo girai e mi accorsi che forse era morto. Tentai di fargli un massaggio cardiaco perche' il suo corpo era ancora caldo". Tra i testimoni ascoltati oggi in udienza, anche Amalia Benedetta Cerielli, la volontaria alla quale Cucchi, il giorno prima di morire, chiese di chiamare la famiglia perche' voleva incontrare il cognato. La donna ha ricordato quando vide il 31enne per la prima volta: "Aveva il viso tumefatto e con lividi". Intanto in Procura è stata depositata l'intercettazione di una conversazione telefonica tra Francesco Di Sano, piantone alla caserma di Tor Sapienza, e il cugino, l'avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta. "Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno "ammucciato" (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io carabinericchio di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?". "Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l'ho fatto in maniera impeccabile...io ho eseguito un ordine in buona fede", dice Di Sano. Nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull'annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. "Per un motivo 'x' hanno voluto cambiare l'annotazione - aggiunge - io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l'avevo scritto con i piedi...se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c'è una scala gerarchica. Io l'ordine l'ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l'ha ricevuta lui". "Loro mi dicevano 'non cambia nella sostanza perché è scomparso questo': i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa".
Cucchi, il carabiniere intercettato: “Dolori al costato sono diventati alle ossa”. In aula infermiere ripete: “Aveva ecchimosi”. Testimonianze note e nuovi atti. È stata un'udienza densa quella che si è celebrata oggi davanti giudici della Corte d'assise. Sul banco dei testimoni due infermieri e poi il deposito da parte della pubblica accusa di intercettazioni che arrivano direttamente dalla nuova inchiesta per depistaggio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 novembre 2018. Testimonianze note e nuovi atti depositati. È stata un’udienza densa quella che si è celebrata oggi davanti giudici della Corte d’assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi. Sul banco dei testimoni due infermieri e poi il deposito da parte della pubblica accusa di intercettazioni che arrivano direttamente dalla nuova inchiesta per depistaggio in cui si ritorna sull’atto sulle condizioni di salute del detenuto modificato per un ordine superiore. Dall’inchiesta sul depistaggio emergono nuovi particolari come l’intercettazione in cui Francesco Di Sano, piantone alla caserma di Tor Sapienza indagato dice parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano (anche lui indagato): “Loro mi dicevano ‘non cambia nella sostanza perché è scomparso questo’: i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa“. “Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla…ma il reato c’è per carità di Dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano ‘no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”. Sempre intercettato Di Sano spiega parlando dell’annotazione sullo stato di salute di Cucchi che sarebbe stata modificata su ordine gerarchico: “Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile…io ho eseguito un ordine in buona fede”. E poi: “Per un motivo ‘x’ hanno voluto cambiare l’annotazione – aggiunge – io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi…se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui”. “Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io carabinericchio di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?”. Atti che sono stati depositati nell’udienza che oggi prevedeva l’audizione di due infermieri testimoni. A Silvia Porcelli, del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini il geometra arrestato per droga disse di essere stato picchiato, ma che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. “Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva – ha spiegato Silvia Porcelli -. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose ‘non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri’. Gli risposi ‘aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante’. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose ‘è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto'”. “Giuseppe Flauto, che già nel processo a suo carico, in cui fu assolto, ricordò il momento del decesso ai giudici ha raccontato quello vide la mattina del 22 ottobre 2009: “Lo trovai disteso su un fianco, con la mano sotto la testa. Sembrava dormire, ma non rispose”. Flauto ha ricostruito cronologicamente i suoi ‘contatti’ con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. Due giorni prima, il suo primo ‘vero’ dialogo. “Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – Gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima”. Poi l’ultimo giorno. “Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – Con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò”. E la notte prima della morte, un momento ‘strano’: “Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più”. Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. “Tentammo di rianimarlo ma non ci fu nulla da fare. La polizia penitenziaria disse di lasciare il corpo così com’era perché doveva prima visionarlo il magistrato. Andai in infermeria, arrivò il cambio turno, lasciai le consegne, smontai”. Altri testimoni sono stati chiamati dalla procura di Roma. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula: la Corte d’assise di Roma, infatti, ha ammesso la richiesta d’integrazione probatoria fatta dal pm Giovanni Musarò e relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, che ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ammesse le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda.
Processo Cucchi, nuove prove e altri testi. Tra cui il capo della Mobile di Roma, scrive Checchino Antonini il 7 novembre 2018 su Left. Udienza Cucchi: «Tutte le integrazioni sono state ammesse», dice a Left l’attivista di Acad più assidua alle udienze del processo bis per la morte del giovane geometra romano, nove anni fa. È la notizia del giorno: deposizioni, verbali, registrazioni e intercettazioni scaturite nella nuova recente fase delle indagini sono state ammesse dalla Corte d’assise di Roma. La richiesta d’integrazione probatoria, fatta dal pm Giovanni Musarò, è relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, il quale ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ora si allunga la lista dei testi. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula nel processo per la morte di Stefano Cucchi nel repartino penitenziario del Pertini sei giorni dopo l’arresto per droga da parte dei carabinieri della Stazione Appia, cinque dei quali sono imputati, tre di accusati di omicidio preterintenzionale. La Corte ha ammesso – ritenendole «temi di prova collegate a questo processo» – le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte dell’arresto, dopo il pestaggio, e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda. Probabilmente Musarò vorrà sentirli in una delle udienze di dicembre. «L’accoglimento delle richieste avanzate dall’Ufficio di Procura – ha commentato l’avvocato Eugenio Pini, legale del carabiniere Tedesco – consentirà alla Corte di Assise di vagliare ulteriori elementi che appaiono indubbiamente utili all’accertamento dei fatti». Tra le voci intercettate quella del piantone di Tor Sapienza: «Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato” (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io “carabinericchio” di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?» dice al telefono il carabiniere Francesco Di Sano parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta sul caso di Stefano Cucchi. «Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile… io ho eseguito un ordine in buona fede»: nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull’annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. «Per un motivo “x” hanno voluto cambiare l’annotazione, io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi… se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui». Così, «i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa». «Loro mi dicevano “non cambia nella sostanza perché è scomparso questo”». «Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla… ma il reato c’è per carità di dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano “no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”», conclude il carabinieri che era in servizio alla stazione Tor Sapienza dove Cucchi venne portato dopo alcune ore dall’arresto, già pestato per bene nella tappa precedente della via crucis, quella alla stazione Casilina, che si concluderà con la sua morte, “seppellito” in una stanza del reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma. Fra testi in programma oggi, c’era il medico di famiglia di Stefano che ha ribadito alle difese dei carabinieri la sana e robusta costituzione del suo paziente, certificata nell’agosto, poche settimane prima del massacro. E l’epilessia, assieme alla magrezza, uno dei cavalli di battaglia di chi rappresenta gli imputati, non compariva da anni. Poi, nell’aula della prima corte d’assise, un perito della polizia ha spiegato la faccenda del verbale di fotosegnalamento alterato con il bianchetto, una delle magagne che ha iniziato a scavare delle crepe nel muro di gomma che fino ad allora aveva protetto i carabinieri. Giuseppe Flauto, infermiere al Pertini, uno degli assolti del primo processo, ha ripetuto in aula i suoi contatti con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. «Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima». Poi l’ultimo giorno. «Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò». E la notte prima della morte: «Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più». Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. Una deposizione con parecchi particolari diversi da quelli ricordati nel 2009 che potrebbe essere usata per minimizzare le condizioni del detenuto-paziente. Per il legale di parte civile, la cartella clinica risulta compilata in maniera “strana” lasciando ipotizzare che sia stata compilata in un secondo momento. Per i medici il processo d’appello è ancora in corso. A un’altra infermiera del reparto di medicina protetta, Stefano Cucchi disse di essere stato menato dai carabinieri, ma anche che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. Circostanza, già uscita nel primo processo e confermata oggi da Silvia Porcelli: «Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose “non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri”. Gli risposi “aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante”. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose “è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto”. Tutti gli infermieri del Reparto di medicina protetta del Pertini sentiti oggi come testimoni hanno confermato che quando arrivò «aveva occhiaie marcate e lamentava dolore lombo-sacrale. Stava nel letto, sul fianco, lo vidi in viso e aveva occhiaie marcate», ha detto Domenico Lobianco; e per la collega Stefania Carpentieri, Cucchi «al primo impatto aveva gli occhi cerchiati pronunciati di colore rosso cupo. Erano gonfi, potevano essere ecchimosi. E poi, Stefano era molto magro». Di una magrezza che non consentì di fargli delle iniezioni di antidolorifico per via endovenosa («Si rifiutava perché non accettava nulla che venisse somministrato per via endovenosa», ha detto una delle infermiere-testimoni) né al gluteo per mancanza di un’adeguata massa muscolare, optando invece per una somministrazione nel deltoide. E poi, nel farlo bere, si era optato – ha detto l’infermiera Rita Maria Silvia Spencer – «per delle bottiglie d’acqua bucate per mettere delle cannucce, visto che stava a pancia in giù». Al banco dei testi anche una volontaria del reparto medico, Amalia Benedetta Ceriello, che Cucchi le chiese una Bibbia e di «fare una telefonata al cognato perché disse era l’unico che gli era stato vicino quando aveva avuto dei problemi, per sistemare un cagnolino fino a quando sarebbe uscito dal carcere». Per le difese dei carabinieri sarebbe una prova che stava “bene” Cucchi.
Prossima udienza il 20 novembre per sentire una decina di ulteriori testimoni della lista del pubblico ministero. Parrebbe finita bene, invece, la vicenda del carabiniere Casamassima, l’appuntato che con la sua testimonianza fece riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi. «Non ho mai perso fiducia nell’Arma e fraintendimenti sono stati chiariti. Tutto è bene quel che finisce bene», scrive in un post Riccardo Casamassima. «Oggi sono stato convocato presso il comando generale dove mi hanno comunicato che a breve sarò trasferito in una sede più confacente alle mie esigenze familiari. Sarò più vicino a casa e avrò più tempo per stare con la mia famiglia. (…) Grazie alle persone che mi sono state vicine. Grazie all’Arma dei carabinieri e grazie alle persone che ho incontrato oggi al Comando». «Oggi in aula – dice Ilaria Cucchi – hanno sfilato gli infermieri del reparto detentivo dell’ospedale dove Stefano è morto nella noncuranza e nel disinteresse generale di tutti loro e tanti altri, che pare non abbiano notato niente di strano se non il fatto che lui era magro e scontroso. Non hanno notato, mentre lo visitavano, sul fondo schiena i segni delle fratture. Non hanno notato, quando tentavano di rianimare un morto, quel pallone enorme, il globo vescicale contente 1.450 cc di urina. Mentre gli avvocati degli imputati si affannano a gettare fango ancora una volta su mio fratello e sulla nostra famiglia. Comunque voglio rassicurare tutti sul fatto che Miky, la cagnetta di Stefano, sta bene ed è con noi, non è stata messa nel canile come è stato insinuato. Lei sta bene, anche se purtroppo il suo padrone è morto, massacrato di botte. Ma nessuno ha notato niente».
Il carabiniere Casamassima: “Su Stefano Cucchi, non potevo più tacere”, scrive Damiano Landriccia il 7 novembre 2018 su "Odysseo.it". Nella sua città Natale, Riccardo Casamassima si confessa in una intervista pubblica
Andria, domenica 4 novembre, Auditorium Mons. G. Di Donna, le 19 passate, l’appuntato dei Carabinieri Riccardo Casamassima, che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, è ospite dell’Associazione IdeAzione. Lo intervista Adriana Scamarcio, del direttivo dell’Associazione. La sala è piena, tutti ascoltano in silenzio, qualche colpo di tosse interrompe brevemente la quiete, ma non disturba. L’appuntato, 40enne originario di Andria, sul palco sembra intimorito, quasi fuori luogo, ed esordisce al microfono dicendo: «Ho deciso di intraprendere la carriera militare a 18 anni perché ci credevo e ci credo ancora nelle Istituzioni e vedo il mio lavoro come un riferimento per la gente. Questa sera vedrete il film su Stefano Cucchi e il messaggio che deve passare è importante: il lavoro che noi rappresentiamo non è quello che vedrete nel film, in cui un ragazzo viene massacrato di botte e le motivazioni purtroppo non si sanno, non si riesce a comprendere come mai una persona, due persone, siano arrivate a fare delle tali azioni nei confronti di un ragazzo. Il messaggio è un altro: è una cosa inaccettabile che chi sta nelle mani dello Stato, e dovrebbe essere messo nelle condizioni di tornare a casa, subisca invece quel che è successo a Stefano Cucchi. Questo ragazzo è entrato sano in caserma ed è uscito da morto, quindi vi invito a riflettere parecchio e a prendere dal film il giusto segnale: quello che effettivamente le forze dell’ordine fanno su strada». Alla domanda «Perché testimoniare dopo tutti questi anni?», Casamassima risponde: «La testimonianza è nata dopo sei anni e non è nata subito perché all’epoca tutto l’iter del processo non era stato seguito, cioè non avevo seguito tutto quello che stava succedendo. Ho deciso di testimoniare quando mi sono reso conto, fine 2014, che erano state condannate delle persone innocenti e che quindi quello che noi avevamo appreso sin da subito, parlo sia di me che della mia attuale compagna che lavorava con me all’epoca dei fatti, era fondamentale per poter dare la verità alla famiglia che la stava cercando, alla sorella Ilaria che la cercava in modo disperato. Poi c’è stata anche una frase che mi ha colpito dei genitori che alla fine del primo processo, presi dalla disperazione, dicevano “Adesso torniamo a casa e troviamo nostro figlio”. Rimanere insensibili, rimanere fieri davanti a una tale cosa diventava difficile, quindi abbiamo ritenuto di dover testimoniare anche se la scelta è stata una scelta combattuta per eventuali problematiche che poi attualmente sono verificate, infatti subito dopo la deposizione in aula mi è arrivato il trasferimento fatto proprio per danneggiarmi. La mia situazione lavorativa è un demansionamento, quindi non vai a fare quello che ti piace ma soprattutto il segnale che passa è un segnale sbagliato perché una persona che vorrebbe poter denunciare situazioni analoghe potrebbe prendere per esempio quello che è successo a me, quindi andare a compromettere la famiglia quando hai i figli piccoli, quando hai le spese che una famiglia media italiana si trova ad affrontare, poi comincia a rappresentare tutto questo un problema». Adrian Scamarcio incalza: «Pensi di rimanere nell’arma dei Carabinieri, di continuare a lavorare, di fare questo lavoro?». La risposta non si fa attendere: «Io mi auguro di rimanere a lavorare di poter fare quello che ho sempre fatto, di fare il mio lavoro quello per cui sono partito da Andria, di poter stare per strada, di fare il mio lavoro». L’ultimo domanda: «Qual è il messaggio, cosa ti senti di dirci oggi a seguito di quello che è accaduto nei confronti anche della famiglia di Stefano Cucchi?». La risposta di Casamassina: «Io penso che la famiglia abbia bisogno proprio del sostegno di tutti quanti anche se il processo sta andando abbastanza …le idee sono chiare su tutto quello succede …però penso che proprio la famiglia abbia bisogno della vicinanza di tutti quanti, una vicinanza che si può far sentire tramite i social che rappresentano un mezzo che se usato bene può avere un forte potere per questo tipo di argomenti, proprio per denunciare situazioni, per denunciare violenze in qualsiasi contesto che può essere il contesto scolastico, il contesto famigliare ».
Cucchi, la telefonata dei Cc al 118: "Un detenuto sta male". L'audio è stato depositato dal pm Musarò al processo, scrive l'ANSA il 25 ottobre 2018. "Abbiamo un detenuto che sta male, dice che ha attacchi di epilessia, ha tremori, non riesce a muoversi". Così un carabiniere della Stazione Tor Sapienza in una telefonata al 118 le prime ore del 16 ottobre 2009 parlava delle condizioni di Stefano Cucchi. Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della caserma e secondo le indagini era reduce dal pestaggio subito alla caserma Casilina. L'operatore del 118 chiede al militare, che è il piantone della stazione Tor Sapienza, se il detenuto è tranquillo. "Tranquillissimo -risponde il carabiniere- ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell'epilessia". Poi fornisce i dati anagrafici: "è nato l'1-10-1978". L'operatore chiude dicendo che manderà un'ambulanza a via degli Armenti sede della caserma di Tor Sapienza. L'audio è stato depositato dal pm Giovanni Musarò al processo.
Caso Cucchi, l’audio della chiamata dei carabinieri al 118: “Un detenuto sta male, dice che è epilettico”. Nell'audio, i carabinieri spiegano che un detenuto non riesce a muoversi a causa dei tremori, "ma non ha i sintomi dell'epilessia", scrive TPI il 26 Ottobre 2018. Continuano ad aumentare le rivelazioni sul caso di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 nell’ospedale penitenziario Pertini. L’ultima notizia riguarda la diffusione dell’audio della chiamata fatta dai carabinieri di Tor Sapienza al 118. “Siamo i carabinieri di Tor Sapienza. Abbiamo un detenuto che sta male, ha tremori e non riesce a muoversi. Dice che ha attacchi di epilessia”. L’operatore del 118 risponde chiedendo maggiori informazioni sulle condizioni di salute del detenuto: nello specifico vuole sapere se l’uomo è tranquillo. “Tranquillissimo, ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell’epilessia”. La chiamata risale al 16 ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi è in una camera di sicurezza della caserma dove è stato fermato a Roma. Secondo le indagini, in quel momento il pestaggio nella caserma Casilina era già avvenuto. A seguito della chiamata, l’ambulanza arriva nella struttura di Tor Sapienza e gli operatori del 118 trovano Stefano avvolto in una coperta e tremante. Il giovane però dichiara di stare bene, nonostante non riesca a muoversi. A quel punto, dopo diverse insistenze, gli operatori vanno via. La registrazione della chiamata fra 118 e carabinieri è solo uno delle decine di documenti in formato cartaceo e audio depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte del giovane geometra romano. Solo alcuni giorni prima era stato diffuso un primo audio di una una conversazione telefonica, intercettata, avuta tra due carabinieri a poche ore dall’arresto di Stefano Cucchi. “Magari morisse, li mortacci sua”, si sente nell’audio, riportata in uno dei documenti che il pm Giovanni Musarò ha depositato mercoledì 24 ottobre ai giudici in Corte d’Assise. A parlare è uno dei carabinieri, poi imputati per calunnia nel processo-bis di Roma, con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale. In particolare il militare fa riferimento alle condizioni di salute del 31enne geometra che si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza, dopo essere stato pestato alla caserma Casilina. “Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato se stanotte o se ieri. È detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi”. E l’altro: “È da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”.
Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2018. «Cioè, effettivamente la firma l'ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l'ho fatta io», dice il carabiniere Francesco Di Sano a un'amica il 14 ottobre scorso. L' ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l'arresto arriva da un'intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare» (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un «dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l'ha scritta lui. La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli - ma fino a un determinato gradino - dall' indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase «Meglio così»), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell'interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell' ultimo mese. In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: «Per fortuna c' ho questa mail... l'ho stampata, l'hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita». Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. «Questo rappresenta un'anomalia», ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l'elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: «A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell' occasione del Nov. 2015». Tra le «anomalie» che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all'inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: «Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale». Colombo eseguì scrivendo, tra l'altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli «non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo». Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un'indagine preliminare, Colombo ha risposto: «Prendo atto. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate»
Cucchi, la frase choc del carabiniere: «Sta male? Magari morisse», poi una mail cambia le relazioni. La riunione coi vertici dopo la morte: pareva gli alcolisti anonimi. A raccontare l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda: in primis il luogotenente inquisito per falso che ha rivelato la manomissione dei resoconti, scrive Giovanni Bianconi il 24 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...». A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò. A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare, dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa. Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni, scrivendo nella email: «Meglio così...». La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene. «Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta. «Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: «Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora». In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...». Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».
Caso Cucchi, nell'intercettazione il carabiniere dice: "Magari morisse". Negli atti depositati oggi dal pm Giovanni Musarò durante l'udienza per il processo sulla morte del geometra romano spuntano intercettazioni: così Vincenzo Nicolardi parlava di Stefano Cucchi il giorno dopo l'arresto. E otto giorni dopo il decesso ci fu una riunione "tipo alcolisti anonimi" al Comando provinciale dei carabinieri di Roma, scrive il 24 ottobre 2018 "La Repubblica". "Magari morisse, li mortacci sua". Con questa frase shock, secondo quanto riportato negli atti depositati dal pm Giovanni Musarò durante il processo sulla morte di Cucchi, uno dei 5 carabinieri imputati, Vincenzo Nicolardi, parlava di Stefano il giorno dopo l'arresto. Nel documento vengono riportate intercettazioni di comunicazioni radiofoniche e telefoniche avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, tra il capoturno della centrale operativa del comando provinciale e un carabiniere la cui voce è stata ricondotta dagli inquirenti a quella di Nicolardi, oggi a processo per calunnia. Nella conversazione si fa riferimento alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato la sera prima: "Mi ha chiamato Tor Sapienza - dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c'è un detenuto dell'Appia, non so quando ce lo avete portato, se stanotte o se ieri. E' detenuto in cella e all'ospedale non può andare per fatti suoi". Il carabiniere risponde: "E' da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua".
"Riunione al Comando provinciale tipo alcolisti anonimi". Non solo. Sempre secondo quanto emerge dalle carte depositate oggi dall'accusa alla I Corte d'Assise del Tribunale di Roma, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il 30 ottobre 2009, ci fu una riunione "tipo gli alcolisti anonimi" al comando provinciale di Roma, convocata dall'allora comandante, generale Vittorio Tomasone, con i vari carabinieri coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte del geometra romano. Lo afferma Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza, intercettato mentre parla con il fratello Fabio. "Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede: 'Fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al Comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, 'cioè quelli dall'arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Tu che sei il comandante della stazione, anche se non hai fatto nulla, il comandante della compagnia Casilina, il maggiore Soligo, comandante di Montesacro, il comandante del Gruppo Roma, stavamo tutti quanti. Ci hanno convocato perché all'epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto 'gli alcolisti anonimi' che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla".
"Se non sei in grado di spiegarti con un superiore, come ti spieghi con un magistrato?" Colombo ha chiarito la vicenda anche durante l'interrogatorio tenuto la scorsa settimana davanti al pm Giovanni Musarò. A quella riunione presero parte anche "il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c'erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall'altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all'arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché - ha concluso Colombo - se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato".
I medici del Fatebenefratelli: "Aveva una frattura vertebrale". "Visitai Stefano Cucchi due volte: aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo "Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c'è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni". Nel corso del processo è stato ascoltato anche Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, "si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero". Cosa diversa il giorno successivo: "Non riusciva a muoversi". Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch'egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo 'accesso' in ospedale. "Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com'era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l'idea di trasferirlo all'ospedale Pertini perché da noi non c'era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto".
L'avvocato della famiglia Cucchi: "Siamo scioccati". "Siamo basiti, scioccati, non sappiamo più cosa pensare. Quello che ci fa veramente molto male e arrabbiare è che da quest'inchiesta emergono fatti e comportamenti esecrabili, indegni per appartenenti all'Arma dei Carabinieri, di cui si sono rese responsabili persone che non erano coinvolte nell'arresto di Stefano Cucchi né direttamente coinvolte nella sua morte". Così l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, intervistato su Radio 24. "Io e Ilaria abbiamo preso atto che per i Carabinieri i problemi sono Casamassima, Rosati e Tedesco, noi abbiamo fiducia nell'Arma dei Carabinieri, ma qui emerge un quadro desolante ed esiste un grave problema da risolvere". Intanto un altro ufficiale dei carabinieri è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta del colonnello Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti numero due del gruppo Roma. Prossima udienza, il 7 novembre. Continueranno le audizioni testimoniali, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena.
Omicidio Cucchi, genesi di un depistaggio: «Magari morisse, mortacci sua». Le carte modificate per coprire le responsabilità, la necessità di evitare brutte figure all'Arma in un momento difficile e per non distruggere le carriere. E una frase shock. Ecco cosa dicono i nuovi atti in mano alla procura, scrive Giovanni Tizian il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". «Magari morisse, li mortacci sua». Così parlò il carabiniere la notte dell'arresto di Stefano Cucchi. Il militare si chiama Vincenzo Nicolardi, al processo è imputato per calunnia. E nel 2009 proferisce queste parole mentre dialoga con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre. Nei dialoghi si fa riferimento alle condizioni di salute del geometra 31enne che era stato arrestato poche ore prima e si trovava nella stazione di Tor Sapienza. Questo è solo uno dei dettagli che emerge dagli ultimi atti depositati dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. Perché in realtà nell'aula della Corte d'Assise di Roma sta accadendo qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Il muro di omertà che per nove anni ha coperto i colpevoli del pestaggio di Stefano Cucchi continua a sgretolarsi. Granello dopo granello, udienza dopo udienza, la muraglia dei silenzi si sta assottigliando. L'ultima udienza del processo bis sulla morte del geometra romano ha restituito un altro tassello di verità, per troppo tempo nascosta volontariamente in un labirinto costruito ad hoc fatto di verbali modificati e depistaggi architettati dalla scala gerarchica che comandava i carabinieri coinvolti direttamente nell'arresto di Cucchi e poi nel pestaggio. E ora della nuova indagine sui responsabili dell'occultamento delle prove che dimostrerebbero come andarono davvero le cose quella notte si sanno diverse cose. Si sa, per esempio, che sono almeno sei le persone indagate nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Cinque carabinieri e un avvocato. Tra i militari dell'Arma c'è anche il tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, un ufficio di rilievo nella gerarchia. Secondo quanto emerge dalle nuove carte sarebbe stato Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo - comandante della stazione Tor Sapienza anche lui sotto inchiesta - di effettuare modifiche all'annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi. Gli altri indagati sono il carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre di Tor Sapienza, il maresciallo Roberto Mandolini- comandante della stazione Appia e tra i cinque militari imputati in corte d'assise- e il tenente colonnello Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti Montesacro. Tra gli indagati c'è anche l'avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano. Il coinvolgimento di Cavallo in questa vicenda è legato a una mail esibita in sede di interrogatorio da Massimiliano Colombo cui Cavallo avrebbe suggerito le modifiche da apporre all'annotazione di servizio sulla salute di Stefano Cucchi. Ma dai nuovi atti depositati dal pm Musarò emerge ancora più evidente la pista delle responsabilità più alte. Seppure estranei all'indagine, i generali superiori dei militari finiti nell'inchiesta sul depistaggio ne escono male. Le intercettazioni degli indagati in questo senso sono significative. Una in particolare apre scenari inediti. Si tratta di una conversazione tra Francesco Di Sano e il suo legale, Giuseppe Di Sano. «Francesco (Di Sano ndr), ascoltami, io quello che penso ora per telefono non te lo posso dire, ma tu queste cose per ora, conservatele, anche perché ... incomprensibile ... però se tutto va come spero io, ste cose, ci serviranno dopo ... (.) ... per ricattare l'Arma, per che non vorrei che, se tutto va come penso io ... bene, cioè che tutto si chiude e l'Arma ti dice ah guarda comunque tu per noi non puoi stare qua' no?! Allora, io ho queste cose in mano, che fate? mi fate restare o vado al giornale? .. hai capito? .. (.) .. conservale gelosamente». Ricattare chi e su cosa? Per gli ordini ricevuti per modificare le annotazioni su Cucchi? Di certo, quei documenti sono da conservare gelosamente e da usare in casi estremi, come nel caso di un procedimento disciplinare a carico del carabiniere Di Sano. Del resto l'Arma in quel periodo non poteva permettersi clamori, sostengono gli indagati intercettati. Il motivo, ipotizzano gli indagati, è semplice: subito dopo la morte di Cucchi è emersa l'estorsione di alcuni carabinieri ai danni dell'ex presidente della regione Piero Marrazzo: «È successo subito dopo pure il caso Marrazzo, che c'era successo, capito in quello pure erano coinvolti i carabinieri, mi spiego?». Gli investigatori della Squadra mobile che stanno indagando sul caso Cucchi confermano la consequenzialità degli eventi. E nelle loro informative scrivono: «Difatti, il 23 ottobre 2009, ossia il giorno successivo alla morte di Stefano Cucchi, quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, sono stati arrestati dai carabinieri del R.O.S., a seguito di un'attività d'intercettazione telefonica, con l'accusa di aver ricattato, a scopo estorsivo, il presidente della Regione Lazio, perché in possesso di un filmato di Marrazzo in compagnia di un transessuale». «L'Arma che ci tiene alla sua immagine, voglio dire, perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati? E fa correggere le due annotazioni», commenta un secondo indagato. Insomma, se così fosse la verità su Cucchi sarebbe stata tenuta nascosta per evitare altre figuracce? E magari per non sporcare la carriera di ufficiali lanciatissimi. Un'ipotesi tra le altre, di certo i carabinieri semplici finiti nei guai in questo secondo filone non ci stanno a pagare per tutti. Anche perché, ribadiscono nei loro dialoghi, hanno obbedito a un ordine. A quale ordine? Di chi? E da chi è partito? Su questo punto è netto Massimiliano Colombo: «Se hanno indagato me allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa, dovranno indagare Tomasone». Cavallo è il capo ufficio del gruppo carabinieri Roma attualmente sotto inchiesta; Alessandro Casarsa è invece l'ex comandante della compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone, oggi comandante dei Corazieri al Quirinale; Vittorio Tomasone era il comandante provinciale di Roma. Tomasone e Casarsa nel 2018 sono diventati generali. Ma torniamo alla scala gerarchica. Dai nuovi atti depositati dal pm Musarò è ormai certo che l'ordine di modificare le carte è partito dai superiori. Che ruolo ha giocato la riunione del 30 ottobre 2009 al comando provinciale, una settimana dopo la morte di Cucchi? L'incontro ritorna spesso nei racconti degli indagati. Erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa. Assente, invece, Francesco Cavallo. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. Quella riunione - che a detta di uno degli indagati sembrava una riunione degli «alcolisti anonimi» - non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Perché sul vertice convocato d'urgenza il 30 ottobre, le domande del pm, sia nelle passate udienze che negli interrogatori dei nuovi indagati, sono insistenti. Chi era presente quel giorno ha risposto così: «Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda in cui era stato coinvolto Stefano Cucchi. Ricordo che uno dei Carabinieri di Appia che aveva partecipato all'arresto di Stefano Cucchi aveva un eloquio poco fluido, e un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (oggi tra gli imputati ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto il Col. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il Carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore, certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato». Il giorno prima della riunione al comando provinciale, il magistrato dell'epoca che seguiva il caso Cucchi aveva sentito nel suo ufficio alcuni dei militati coinvolti nella vicenda. Ma è dopo quattro mesi quella riunione alla presenza dei vertici romani dell'Arma che accade un altro misterioso fatto. Che verrà scoperto solo nell’ultima inchiesta aperta dalla procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”. Due le firme, una è di Di Sano. È datato febbraio 2010, 120 giorni dopo la morte di Cucchi. In questa annotazione gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifiutato di firmare il registro «riservato agli arrestati». Un fatto che è smentito dalle testimonianze nel processo in corso. Dunque anche questo documento presenta delle inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso che rischiava di travolgere l’Arma. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna. Non sono stati promossi, invece, a i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga.
Perché serve educare i poliziotti. Cambiare la cultura nelle forze dell’ordine è una sfida enorme. Ma indispensabile per la protezione di tutti, scrive Floriana Bulfon il 22 ottobre 2018 su "L'Espresso". Indagine su cittadini al di sopra di ogni sospetto, quelli con la divisa, che dovrebbero tutelare la legge e invece riescono a violarla senza correre rischi. Tra pochi giorni dalle scuole allievi usciranno quasi tremila Carabinieri pronti a raggiungere le stazioni in ogni parte del Paese. «Hanno avuto una formazione di 11 mesi e quest’anno per la prima volta, nel programma che prevede tecniche investigative, diritto, attività fisiche e tirocini, sono state introdotte 60 ore dedicate all’etica del comportamento», spiega il generale Michele Sirimarco. Punto centrale è il rapporto con le persone, in particolare con chi entra in custodia dello Stato: «Norme fondamentali come quelle del rispetto dei diritti umani, come dichiarare inagibili le camere di sicurezza che non hanno i requisiti. Tutti i giorni all’alza bandiera si legge un articolo della Costituzione, si sottolinea il rispetto dei diritti umani e si ricorda che il silenzio è illegittimo. Di fronte a un ordine che viola i principi costituzionali si è obbligati a denunciare. In questa scuola abbiamo parlato di quello che è accaduto a Stefano Cucchi, l’abbiamo fatto per stigmatizzare comportamenti che rifiutiamo e trarne insegnamento». La lezione da ricavare non riguarda solo la verità tradita sulla morte di Cucchi. Questo è solo l’ultimo episodio di una serie nera. Diciassette anni dopo le brutalità del G-8 di Genova, ci troviamo davanti alla stessa catena di violenze e omertà che pongono domande fondamentali per una democrazia. Anzitutto il rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. E quell’abitudine a costruire muri di gomma fino a negare l’evidenza, «una malattia contratta durante l’uso permanente e prolungato del potere», come diceva il commissario interpretato da Gian Maria Volontè nel film di Elio Petri “Indagine”. «Una malattia professionale, comune a molte personalità che hanno in pugno le redini della nostra società». La società, appunto: «Come cittadini rinunciamo a una parte dei nostri diritti per essere protetti dalle forze dell’ordine. Ma nel momento in cui un agente compie un atto di violenza contro un cittadino, com’è avvenuto nel caso Cucchi, che era inerme nelle mani del più forte, non è solo quel singolo agente a perdere legittimità. È lo Stato che diventa illegittimo. E se lo Stato abusa del potere, si incrina inevitabilmente la fiducia dei cittadini. Gli effetti negativi investono la democrazia», spiega Donatella Di Cesare. Lei, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma ha scritto di recente un libro sulla tortura, uno sulla violenza globale, intitolato “Terrore e modernità”, e uno sulla migrazione. «La polizia agisce in quei casi di oscurità giuridica, in cui, appellandosi alla sicurezza, interviene sulla vita del cittadino. È ambivalente, si situa in quella sfera dove è abolita la separazione tra violenza che pone il diritto e violenza che lo mantiene. In breve, il diritto sconfina nella violenza, e la violenza nel diritto. È la continuità inquietante tra il sovrano e il boia. Il mutamento recente della figura del boia da aguzzino spietato ad agente-eroe, carismatico e leale, non cambia i termini della questione. Semmai li aggrava». Non si tratta solo di un’anomalia italiana, sono coinvolte anche le altre democrazie occidentali. «Primi tra tutti gli Stati Uniti. L’uso eccessivo della forza e delle torture si concentra spesso contro le persone considerate marginali, quelle rispetto alle quali non ci si aspetta una critica dell’opinione pubblica», sottolinea Donatella Alessandra Della Porta sociologa alla Scuola Normale Superiore, autrice con Herbert Reiter di “Polizia e protesta” (Il Mulino, 2013) uno dei saggi più noti sul G-8 di Genova, dove evidenzia «il ruolo di una cultura che tende a privilegiare l’efficacia rispetto ai valori democratici, orientata alla chiusura verso l’esterno e per questo legata a un forte senso dell’impunità». Ogni potere ha bisogno di contrappesi e per contrastare il rischio di devianze serve l’innesto di valori diversi: «Formare spiegando che per svolgere bene il loro ruolo hanno bisogno di legittimazione da parte del cittadino, introdurre la trasparenza e la riduzione delle gerarchie interne, aprirsi alla società», evidenzia la professoressa Della Porta. I modelli ci sono, come quelli introdotti in Scandinavia o in Inghilterra. E anche la polizia italiana ha cercato di imparare dagli errori. Dopo la “macelleria messicana” della Diaz è nata la scuola per l’ordine pubblico: insegna ad agire usando “meno fumogeni e più etica”. «Deve essere chiaro che chi denuncia non è mai un traditore, e che chiunque compie un reato, a maggior ragione se è una persona in divisa, deve essere perseguito in maniera tempestiva», sottolinea Antonio Patitucci, segretario generale del sindacato Silp Cgil. Per lui le forze di polizia sono istituzioni sane, ma suggerisce: «Per migliorare nella difficilissima professione che svolgiamo sarebbe opportuno arricchire i corsi con una formazione sul piano psicologico». C’è però un’altra questione, che va ben oltre la mentalità del poliziotto o del carabiniere. Dopo la ferocia, dopo le botte contro i sovversivi o contro lo spacciatore, sono arrivati i depistaggi. Mattone su mattone, falso su falso, il sistema ha costruito il suo muro di protezione grazie alle coperture delle gerarchie. Una menzogna di Stato che nel caso Cucchi è durata nove anni. «Con le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco il muro si è abbattuto per la prima volta. Non era mai successo che qualcuno protagonista e sotto processo parlasse. C’è stato sempre uno spirito di corpo granitico, che non si poteva scalfire», spiega Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi. Alle istituzioni devono gestire quella che Max Weber definiva “violenza legittima”, cioè usare la forza per la sicurezza comune rispettando però le leggi. «Con un mandato così particolare è necessaria molta coesione interna, identificazione con il compito, altruismo con i colleghi. Doti che possono degenerare, se non c’è un rigoroso controllo da parte dei superiori», analizza Fabrizio Battistelli dell’Università Sapienza di Roma, che ha compiuto molte ricerche sulla sociologia dei militari. Un deficit quindi nella gerarchia. Eppure i codici interni sono chiari. Era il 1822 quando il Regolamento dei Carabinieri Reali definiva “da delinquente” infliggere percosse e maltrattamenti a un prigioniero. «L’ostentazione della prepotenza non può mai essere il volto di una democrazia» si legge oggi su “L’Etica del Carabiniere” diventato il testo di riferimento delle scuole dell’Arma. Ha contribuito a scriverlo Stefano Semplici, docente di etica sociale e filosofia morale a Tor Vergata. Lui carabiniere ausiliario nel 1982 ricorda con emozione la prima volta che ha varcato un portone di una caserma a pochi giorni dall’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «I meccanismi più efficaci per rompere l’omertà sono la certezza che i muri del silenzio sono destinati a crollare. E poi la consapevolezza che le istituzioni sono, al fianco dei cittadini per scoprire la verità e non per occultarla». Ma i cittadini cosa vogliono? Dal 2001 si ha la sensazione che la paura abbia generato una tolleranza verso gli abusi di potere delle forze dell’ordine. «Dall’11 settembre il modello dello “Stato di sicurezza” ha finito per imporsi modificando dall’interno la democrazia» constata Di Cesare. Bisognerebbe però chiedersi come si traduce poi questa sicurezza. «Molti pensano semplicemente alla propria difesa contro gli altri, non riflettono alla possibilità di essere vittime di un abuso di violenza». Secondo Battistelli «da particella oscura oggi l’insicurezza si sta trasformando in una massa che ci sovrasta»: una costruzione della minaccia che tutto giustifica in nome della logica dell’emergenza. E per la Di Cesare, si arriva così «al crimine che si annida nel cuore di tenebra di ogni potere»: la tortura, che nel nostro Paese non era riconosciuta fino a poco tempo fa nemmeno come reato. «Il contesto politico in cui viviamo oggi in Italia - nota Di Cesare - è quello di una vera e propria fobocrazia. Con questo termine intendo un dominio della paura». Il governo della paura, quello che può farci accettare la negazione dei diritti umani. Un esempio? «Il decreto Salvini, dove la migrazione viene trattata come una questione di sicurezza e spacciata per un crimine. Il Ministro dell’Interno riduce il caso Cucchi a due mele marce, evitando di commentare quella complicità gerarchica che ha permesso di occultare la verità». Colpa anche dei modelli trasmessi dai media e dalla tv: «Penso a tante celebri serie poliziesche: da una parte il poliziotto eroe e dall’altra i “nemici”, dipinti sempre a caratteri foschi, il terrorista, il criminale. Il poliziotto-eroe, il torturatore gentiluomo, non è un carnefice, ma quasi una figura salvifica, e può permettersi di infrangere ogni regola, pur di garantire sicurezza. La violenza appare allora quasi purificatrice. Come ciò possa coniugarsi con la democrazia è difficile da comprendere». Sembra di tornare alle parole di Kafka: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».
Stefano Cucchi, ma i giudici di allora non videro nulla? Scrive il 17 gennaio 2017 Daria Lucca, Giornalista, su "Il Fatto Quotidiano". Per fortuna c’è un giudice anche a Roma… e finalmente sette anni dopo viene scritta la prima parola seria sulla fine del giovane Stefano Cucchi con l’unica ipotesi accettabile degli eventi: omicidio (seppur) preterintenzionale. Merito soprattutto della determinazione e del coraggio della sorella Ilaria, non c’è dubbio. Una determinazione, quella di cercare e mostrare al mondo la verità, viceversa non attribuibile agli organi istituzionali che si sono occupati del caso. Ripercorriamo i passaggi principali. La sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di droga. I carabinieri che lo fermano, lo tengono in caserma fino alla mattina successiva. Quando Stefano compare davanti al giudice per la convalida dell’arresto, mostra già i primi segni di uno stato fisico che nel giro di pochi giorni lo porterà alla morte. Prima domanda, rivolta a chi di dovere con tutto il garbo consentito dalla gravità dei fatti: il giudice che se lo trovò davanti non notò nulla di insolito? Qualcuno obietterà che Stefano non denunciò il pestaggio. Ettecredo, dicono a Roma. Se ti hanno massacrato fino a romperti una vertebra e causarti complicanze neurovescicali e infine cardiache (poi fatali), probabilmente sei anche terrorizzato. Non ce la fai a denunciare niente e tantomeno nessuno. Seconda domanda, rivolta con meno garbo: i medici dell’Ospedale Pertini considerano abitudinario il fatto di trovarsi davanti pazienti che presentano lesioni da tortura (così le voglio chiamare) e non sentire la necessità di presentare denuncia? Terza domanda, la più necessaria in uno Stato di diritto: ma il procuratore del tempo, quando si trovò fra le mani l’esposto della famiglia Cucchi e si cominciò il primo esame dei fatti, non ritenne opportuno mettere sotto indagine coloro che, persino agli occhi dell’ultimo dei rimbambiti, erano visibilmente i primi sospettati? I carabinieri. Non so voi, ma io me la immagino la scena, i magistrati riuniti a discutere come proseguire: che cosa abbiamo qui? Un fermo per possesso di droga, detenzione in caserma per l’intera notte… mhmm. Certo, tutto è possibile, possono esserci stati interventi successivi della polizia penitenziaria, più difficile che sia stato il personale ospedaliero a menarlo (gli inquirenti parlano come mangiano quando nessuno li ascolta, ndr), ma a noi corre l’obbligo di indagare anche i primi che lo hanno avuto in custodia. E invece no. Invece il procuratore capo del tempo (quando ci sono di mezzo eventuali reati contestabili alle forze dell’ordine e oltretutto di questa gravità, le autorizzazioni le dà il capo) decise che si potevano prendere per buone le calunnie (ora così sono state definite) agli agenti penitenziari in servizio al tribunale di Roma e che loro, i primi che lo ebbero in custodia, potevano tranquillamente essere esonerati da qualsiasi responsabilità. Perché? Questo andrà chiesto, da chi di dovere, a chi prese quelle decisioni. Ma certo il capitolo non si può chiudere così, fingendo che adesso è stato tutto rimesso in piedi, nella giusta prospettiva. Un giovane uomo è morto mentre era nella custodia dello Stato. Nonostante la denuncia della famiglia, i custodi hanno continuato a mentire, accusando altri e cercando di insabbiare la verità. Due processi non sono riusciti a fare chiarezza. L’istituzione che doveva rendere giustizia alla vittima si sente esente da qualsiasi responsabilità? Aspettiamo questa risposta.
Cucchi, un altro carabiniere è indagato per falso. C'è un altro carabiniere indagato nel filone di inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi in merito ai depistaggi per coprire il pestaggio subito dal geometra 31enne, scrive Raffaello Binelli, Lunedì 22/10/2018, su "Il Giornale". Tra gli uomini dell'Arma indagati per la morte di Stefano Cucchi c'è anche un altro carabiniere. Si tratta del maggiore Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti-Montesacro. Il suo nome è emerso nella nuova inchiesta della Procura di Roma sui falsi verbali e sui depistaggi legati al pestaggio in caserma cui fu sottoposto Cucchi, poco dopo essere stato arrestato per droga. L’inchiesta chiama in causa anche il luogotenente Massimiliano Colombo (comandante della Stazione Tor Sapienza) che la scorsa settimana è stato interrogato per oltre 7 ore in Procura e il carabiniere scelto Francesco Di Sano, finiti nei guai per aver dovuto modificare il verbale sullo stato di salute di Cucchi, quando fu portato proprio a Tor Sapienza proveniente dalla caserma Casilina.
Ilaria Cucchi: "Dolore e amarezza". In un post su Facebook Ilaria Cucchi commenta le notizie sugli sviluppi delle indagini: "Falsi ordinati per far dire ai medici legali dei magistrati che mio fratello era morto di suo, che era solo caduto ed in fin dei conti non si era fatto niente. Era morto solo ed esclusivamente per colpa sua e nostra. Io e Fabio lo abbiamo detto per anni che ciò non era assolutamente vero. Lo abbiamo urlato per nove anni. Che sensazione provo ora? Soddisfazione? No. Rabbia per tutto il dolore infertoci con insulti minacce e false verità? Si. Dolore ed amarezza, come cittadina per l’Arma dei Carabinieri? Anche - aggiunge -. La vorrei affianco a noi ma ho negli occhi lo sguardo del suo comandante a lungo fisso su quelli di Fabio. Come quando ci si sfida a chi abbassa prima lo sguardo. Non è ancora finita questa storia dove una normale famiglia italiana viene stritolata da uomini delle istituzioni ma reagisce e resiste per nove anni senza mai perdere fiducia in esse".
Processo Cucchi, inchiesta per falso: indagato un altro carabiniere. Si tratta di un ufficiale, allora comandante della compagnia Talenti-Montesacro, scrive il 22 ottobre 2018 su "la Repubblica". C'è un nuovo indagato nel nuovo filone di inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi in cui si procede per falso. Si tratta di Luciano Soligo, allora comandante della compagnia Talenti Montesacro. Nell'indagine sono già indagati per falso ideologico il luogotenente Massimiliano Colombo (comandante della Stazione Tor Sapienza) e il carabiniere scelto Francesco Di Sano che nel corso del processo a carico di altri cinque carabinieri ha dichiarato di aver dovuto, dopo un ordine gerarchico, modificare il verbale sullo stato di salute di Cucchi. "Falsi ordinati per far dire ai medici legali dei magistrati che mio fratello era morto di suo, che era solo caduto ed in fin dei conti non si era fatto niente. Era morto solo ed esclusivamente per colpa sua e nostra. Io e Fabio (l'avvocato Anselmo, legale della famiglia Cucchi ndr) lo abbiamo detto per anni che ciò non era assolutamente vero. Lo abbiamo urlato per nove anni. Che sensazione provo ora? Soddisfazione? No. Rabbia per tutto il dolore infertoci con insulti minacce e false verità? Si. Dolore ed amarezza, come cittadina per l'Arma dei Carabinieri? Anche". Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi, nel giorno del nono anniversario della morte del fratello Stefano, commentando le notizie sui depistaggi dei carabinieri. Che Ilaria vorrebbe "a fianco a noi ma ho negli occhi lo sguardo del suo Comandante a lungo fisso su quelli di Fabio. Come quando ci si sfida a chi abbassa prima lo sguardo. Non è ancora finita questa storia - conclude - dove una normale famiglia Italiana viene stritolata da uomini delle istituzioni ma reagisce e resiste per nove anni senza mai perdere fiducia in esse". L'iscrizione di Soligo, un ufficiale, conferma che il lavoro della procura di Roma punta a definire la catena gerarchica interna all'Arma che tentò di insabbiare il pestaggio di Cucchi che, come raccontato dal carabiniere scelto Francesco Tedesco, sarebbe avvenuto per mano dei carabinieri Alessio D'Alessandro e Raffaele Di Bernardo imputati con lui nel processo. Davanti alla I corte d'Assise erano emerse le anomalie relative al verbale sullo stato di salute di Cucchi redatto dieci giorni dopo la sua morte dai carabinieri della stazione Tor Sapienza, struttura dove il geometra venne portato dopo la caserma Casilina, teatro del pestaggio. Di Sano, nel corso del processo, ha dichiarato di aver dovuto modificare, dopo un ordine gerarchico, il verbale. Sul punto la scorsa settimana è stato ascoltato per oltre sette ore Colombo. A tirare in ballo Soligo potrebbe essere stato proprio il luogotenente Colombo che nel corso dell'atto istruttorio, secretato dalla procura, potrebbe avere fornito elementi sulla scala gerarchica da cui è partito l'ordine. In questo ambito Soligo è il diretto superiore di Colombo. Il pm Giovanni Musarò venerdì, infine, ha ascoltato, come persona informata sui fatti anche il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, l'altro piantone di Tor Sapienza che ha raccontato a processo di anomale contenute nella sua relazione di servizio.
Ci sono novità sull’insabbiamento del caso Cucchi. Repubblica scrive di avere le prove che nella copertura di ciò che accadde dopo il pestaggio fossero coinvolti anche i vertici dei carabinieri, scrive lunedì 22 ottobre 2018 Il Post. Su Repubblica di oggi Carlo Bonini ha scritto un articolo in cui dice che «nuovi documenti e circostanze accertate e verificate indipendentemente» dal suo giornale «indicano che fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio di Stefano Cucchi», il 31enne romano trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni dopo essere stato arrestato per spaccio di droga. Repubblica ha dunque ricostruito e pubblicato i nomi di chi – secondo gli elementi da loro raccolti – diede l’ordine di falsificare le carte per far sparire ogni riferimento alle reali condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, dopo il pestaggio, venne trasferito dalla caserma di Tor Sapienza. Prima di arrivare a ciò che dice Repubblica va ricordato che, una decina di giorni fa, c’è stata un’importante svolta nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, processo iniziato nel 2017 con il rinvio a giudizio di cinque carabinieri: tre accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità (Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo) e due per falso e calunnia (Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi). Lo scorso 11 ottobre Francesco Tedesco ha ammesso di aver assistito al pestaggio di Cucchi e ha accusato Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo di esserne i responsabili. Ha inoltre parlato del ruolo avuto dagli altri due imputati nel coprire quello che era accaduto. Il 12 ottobre si è saputo che c’erano altri due carabinieri indagati per aver falsificato i documenti relativi alla morte di Stefano Cucchi: Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, una delle caserme dove Cucchi venne detenuto dopo l’arresto, e Francesco Di Sano, un altro dei militari in servizio nella stazione. Repubblica sostiene ora che la manipolazione dei verbali, delle annotazioni di servizio e dei registri interni, avvenne tra il 23 e il 27 ottobre «con ordini trasmessi per via gerarchica» e che venne definitivamente decisa «in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone». Con lui, scrive Bonini, c’erano almeno altri tre ufficiali: «L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina)». C’erano infine «i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza)». Colombo Labriola sarebbe, secondo Repubblica, la persona che ha conservato per nove anni la corrispondenza e i documenti che possono ora spiegare chi coprì la verità e chi diede l’ordine di coprirla. Tale documentazione sarebbe stata consegnata da Labriola stesso all’inizio della scorsa settimana agli agenti della squadra mobile di Roma che stavano perquisendo il suo ufficio di Tor Sapienza. Scrive Repubblica: «Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l’ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell’arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi-bis ha detto la verità. “È vero, modificai la relazione di servizio — aveva spiegato — Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza”». Il falso prodotto su ordine di Colombo e di un suo superiore prevedeva che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venisse rimpicciolito «per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si notasse la manomissione testuale, l’iniziale ricostruzione»: per inserire cioè le presunte motivazioni per cui Cucchi non riusciva a nemmeno a camminare. Venne scritto che Cucchi aveva riferito «di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». L’altra annotazione manomessa sarebbe quella del carabiniere Colicchio «per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica», dice Repubblica. Lo scorso aprile, in aula, Colicchio disse che il testo in cui era possibile leggere che Cucchi «dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia» era suo; ma che non era sua un’annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si diceva che Cucchi dichiarava «di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio». Il 30 ottobre, scrive infine Bonini, negli uffici del Comando provinciale di Roma si svolse una riunione, convocata dal generale Tomasone a cui parteciparono «il comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano». Di quella riunione non venne redatto alcun verbale: «Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. E c’è un motivo». Secondo Bonini la riunione doveva infatti verificare che le carte falsificate fossero a posto, così come i registri di protocollo e le annotazioni di servizio che erano state modificate e che «prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo».
L'amarezza di Ilaria Cucchi: "Sapevo che c'era un ordine dall'alto, le parole di Salvini sono un primo passo". Le parole della sorella di Stefano dopo l'articolo di Repubblica che svela nomi di chi falsificò gli atti relativi alla morte del ragazzo, scrive Maria Elena Vincenzi il 22 ottobre 2018 su "La Repubblica". "Oggi sono esattamente nove anni che è morto mio fratello. E proprio oggi ho scoperto che i superiori dei diretti interessati, degli uomini che lo hanno menato, sapevano tutto. E che, addirittura, hanno tramato per falsificare le prove, disinteressandosi di una famiglia che aveva perso il figlio. Questo è forse addirittura peggio del pestaggio. Provo molta rabbia, sono sconfortata".
Ilaria Cucchi commenta così la notizia pubblicata oggi da Repubblica di una riunione durante la quale i vertici capitolini dell'Arma si accordarono per falsificare gli atti relativi alla morte di Cucchi. Però finalmente sembra emergere la verità che è quella per la quale lei e la sua famiglia avete combattuto da quell'ormai lontano 22 ottobre 2009.
"Sì, da una parte sì. Ma quello che prevale è una grande amarezza per tutto. Sono soddisfatta, se così si può dire, perché finalmente pare si stia arrivando alla verità. Ma ciò che prevale è un senso di tristezza perché ci sono voluti nove anni. Che sono tanti non solo in termini di tempo, ma anche di sofferenza e di delusione. Perché tutto questo è stato possibile perché noi abbiamo deciso di non voltarci dall'altra parte, di metterci in prima linea per avere giustizia. E non dovrebbe essere così".
Lei che in questi anni ha seguito ogni singola udienza dei processi per la morte di suo fratello, avrebbe mai immaginato che ci fosse un ordine partito dall'alto?
"Ho sempre avuto questa sensazione. Sì, lo sapevo dentro di me".
Il ministro dell'Interno Matteo Salvini le ha espresso solidarietà e, ancora una volta, ha invitato lei e i suoi genitori al Viminale.
"E' un segnale importante. Io ho avuto molta paura in questi ultimi tempi, anche per la mia sicurezza. Sta passando il segnale che intraprendere una battaglia di civiltà sia sbagliato. Io, i miei genitori e il nostro avvocato, oltre ad essere stati vittime dello Stato, ora veniamo anche insultati e persino minacciati. Vuole dire che c'è qualcosa che non va, è un problema culturale. Per questo ho apprezzato le parole di Salvini e l'invito ad abbassare i toni".
Ci andrà?
"Vedremo. Intanto è un primo passo".
CUCCHI, L'EX MOGLIE DEL CARABINIERE D’ALESSANDRO A LE IENE: «MI DISSE: